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Teoria del prospetto: come gli uomini prendono decisioni in condizioni di rischio – I grandi esperimenti di psicologia

#8: La teoria del prospetto: come gli uomini prendono decisioni in condizioni di rischio di D. Kahneman & A. Tversky (1979). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

I processi decisionali in economia e in psicologia

Nel 1978 Herbert Simon, psicologo statunitense, vince il premio Nobel per l’economia per le sue ricerche sui processi decisionali nelle organizzazioni economiche. Negli stessi anni, Daniel Kahneman, psicologo israeliano, si interroga assieme al collega Amos Tversky su come si modifichino i processi decisionali quando ci si trova in situazioni di rischio, fino ad avanzare la Teoria del Prospetto.

Fino ad allora la teoria comunemente condivisa è quella dell’utilità attesa, modello di scelta razionale usato per descrivere il comportamento economico dei soggetti, che sceglierebbero secondo la reale probabilità di ricavare un guadagno dalla loro decisione.

 

Decidere in un momento di rischio

I due psicologi tuttavia notano che questo modello non funziona nei casi in cui il soggetto è posto in condizioni di rischio, esponendo alcuni esempi. Ai partecipanti alla ricerca vengono proposti differenti dilemmi, riscontrando sistematiche trasgressioni al principio dell’utilità attesa.

Ad esempio, è stato chiesto di scegliere tra le seguenti possibilità:

  1. 50% di possibilità di vincere 1000; 50% di possibilità di non vincere nulla
  2. Un guadagno sicuro di 450.

I soggetti non considerano l’effettivo possibile guadagno derivato dal calcolo probabilistico. Gli studiosi colgono una regolarità che definiscono ‘effetto certezza’: i partecipanti, ne paragonare l’utile certo con quello probabile, sovrastimano il guadagno quando è sicuro, scegliendo nella maggioranza dei casi l’opzione B.

Oltre a verificare la preferenza dei soggetti in caso di guadagni, i ricercatori testano i processi decisionali coinvolti in caso di possibile perdita. Notano un comportamento differente da parte dei partecipanti, tanto da chiamare questo fenomeno ‘effetto riflesso‘: i soggetti preferiscono correre il rischio di una grossa perdita che è soltanto probabile, piuttosto che accettare la certezza di una più piccola perdita. Lo stesso principio – la sovrastima del dato certo – favorisce l’avversione al rischio quando si parla di guadagni e la ricerca del rischio quando ci sono in gioco delle perdite.

La teoria del prospetto:come gli uomini prendono decisioni in condizioni di rischio - I grandi esperimenti di psicologia Nr. 8-Tversky-Kahneman
Daniel Kahneman e Amos Tversky

I processi decisionali nella vita quotidiana

Questa scoperta viene analizzata dagli autori che elencano le diverse ripercussioni della Teoria del Prospetto in ogni attività della vita quotidiana. Le persone non riflettono razionalmente sulle reali probabilità di un evento, ma selezionano le informazioni in base a schemi individuali soggettivi, fino a determinare scelte differenti: i ricercatori definiscono questa modalità come ‘effetto isolamento‘. Ad esempio, una persona può investire i propri soldi in una attività con una probabilità di perdere l’intero capitale. D’altro canto, vi è la possibilità di guadagnare un fisso o di avere una percentuale sui guadagni. La certezza di un ricavo incrementa l’attrattiva di questa opzione, mentre non vengono considerate le alternative ugualmente probabili.

 

Due fasi dei processi decisionali nella Teoria del Prospetto

La teoria del prospetto, proposta dagli autori, descrive i processi decisionali composti di due fasi (1) il montaggio, ovvero la raccolta di informazioni e l’analisi delle diverse prospettive e (2) la valutazione dei diversi scenari possibili e la scelta di quella che rappresenta per il soggetto l’alternativa con il maggior valore.

Le scelte soggettive derivano quindi da operazioni di semplificazione, cancellazione e considerazione dell’influenza del contesto: la stessa persona può compiere scelte diverse di fronte allo stesso problema proprio a causa della presenza di un processo alla base poco scientifico e difficilmente ripetibile.

I ricercatori creano quindi una nuova equazione che consideri le diverse componenti emerse, ottenendo una formula maggiormente aderente ai reali processi di decision making. Questa equazione mostra una notevole applicabilità in diversi ambiti, tanto da far vincere a Daniel Kahneman il premio Nobel per l’economia, nel 2002, insieme all’economista americano Vernon Smith, per aver dimostrato come i processi decisionali dell’uomo siano guidati da euristiche e bias.

Si tratta del secondo psicologo ad aver avuto tale riconoscimento per il suo contributo alla scienza, dopo Herbert Simon, che aveva dimostrato proprio l’inefficienza del cervello umano nei processi di ragionamento e la conseguente tendenza a fare scelte soddisfacenti, ma non ottimali.

 

 

 

Autostima: che ruolo gioca nelle condotte di bullismo?

Pare che il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo, ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

Chiara Carlucci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Cosa si intende per bullismo?

La parola bullismo viene utilizzata con una gran frequenza, soprattutto nel contesto scolastico.

In effetti si tratta di un termine che è stato anche un po’ sovraesteso. Per tale motivo sarebbe opportuno fare una distinzione tra le semplici prepotenze e le condotte bullistiche, dato che, queste ultime, hanno delle caratteristiche ben precise.

La parola bullismo è la traduzione del termine inglese bullying, usato per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.

Tale terminologia è stata estesa nel 1978 da Olweus, il quale ha assunto l’idea che il fenomeno del bullismo fosse riferibile sia al gruppo, sia all’individuo.

Il bullismo è un comportamento antisociale, insidioso e pervasivo, con alcune peculiarità distintive:

  • L’ intenzionalità: il bullo mette in atto intenzionalmente dei comportamenti fisici o verbali con lo scopo di offendere l’altro, arrecandogli danno o disagio e di avere il controllo sugli altri (Gini, 2005);
  • La persistenza, ossia la ripetitività di comportamenti di prepotenza protratti nel tempo;
  • L’asimmetria di potere. La relazione tra bullo e vittima è infatti asimmetrica, fondata sul disequilibrio di forza tra il bullo che agisce e la vittima che non riesce a difendersi. La maggiore forza del bullo può presentarsi in diversi modi, ad esempio una maggiore forza fisica, abilità socio – cognitive, bravura nello scoprire i punti deboli della vittima (Gini, 2005).

 

 

Bullismo diretto e bullismo indiretto

Tale comportamento aggressivo può assumere forme differenti. È infatti importante fare una distinzione tra bullismo diretto e bullismo indiretto.

La prima forma può assumere modalità fisiche (colpire con pugni e calci, rubare o rovinare gli effetti personali di qualcuno), oppure modalità verbali (offendere, insultare, minacciare, umiliare, fare affermazioni discriminanti).

Per quanto riguarda invece le modalità di bullismo indiretto, queste sono rappresentate dall’esclusione sociale, la diffusione di pettegolezzi e calunnie e dall’isolamento della vittima dal gruppo di pari. Anche se meno visibile, è importante prestare molta attenzione anche alla seconda forma di bullismo, poiché comporta un attacco indiretto e molto più nascosto nei confronti della vittima (Menesini, 2008).

 

 

Perché si diventa bulli? Perché si diventa vittime?

Ma cosa induce un soggetto a comportarsi da bullo? E di contro, cosa determina che un soggetto sia vittima di episodi di bullismo?

Una serie di studi ha messo in luce che un buon concetto di sé aiuta bambini e ragazzi a ottenere dei successi, sia a livello relazionale che di rendimento scolastico (Marsh e all., cit. in Camodeca, 2008).

Per concetto di sé si intende la teoria che ognuno sviluppa riguardo a se stesso; si riferisce alla percezione e alla cognizione delle proprie caratteristiche, alle credenze riguardo se stessi, le capacità, le impressioni, le opinioni che ogni individuo pensa di avere  e che lo contraddistinguono dagli altri (Damon e Hart, 1982).

Il Concetto di sé è stato sovente affiancato al costrutto di Autostima, ma si tratta di due concetti ben diversi: il concetto di sé si focalizza sugli aspetti cognitivi del sé, su come ci si vede e ci si descrive nei vari ambiti della vita; l’autostima riguarda gli aspetti valutativi del sé, il valore che attribuiamo a noi stessi.

Tornando alla possibile relazione esistente tra condotte di bullismo e immagine di sé, una ricerca condotta nel 1998 ha messo in luce che un basso concetto di sé conduce alla vittimizzazione e che l’effetto di eventuali fattori di rischio è maggiore nei soggetti che hanno un basso concetto di sé e che si sentono inadeguati.

Ulteriori ricerche hanno indagato il concetto di sé in quei bambini e ragazzi che utilizzano condotte aggressive. E pare che questi mostrino un elevato concetto di sé, ma in realtà ciò non denota una buona immagine di sé, piuttosto un senso di narcisismo e un tentativo di sembrare ciò che non  si è. Nel caso dei bulli, per esempio, sembrerebbe che il comportamento prepotente da essi attuato sia efficace a fargli guadagnare potere, ammirazione e attenzione e, in questo modo, migliorare poi l’immagine di sé (Marsh e all, 2001).

 

Autostima e bullismo

Pare che anche il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo. Ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

La maggior parte degli studi condotti nel settore si trova concorde nel sostenere che i bambini vittime di bullismo soffrono di scarsa autostima, hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Menesini, 2000).

Capita infatti molto spesso che i bambini tiranneggiati dai compagni mettano in dubbio il proprio valore, precipitando in stati di ansia e frustrazione.

Essi talvolta diventano anche un obiettivo di attrazione per il bullo, in quanto non sanno come affrontarlo. Tendono a vedere sconfitte temporanee come permanenti e molto frequentemente accade che qualcun altro (psicologicamente più forte) prenda su di loro il sopravvento.

A differenza delle vittime, i bulli appaiono spesso caratterizzati da un’alta autostima. Sembrano molto ottimisti, e riescono quindi a gestire molto più facilmente i conflitti e le pressioni negative, ed è per questo motivo che riescono facilmente a coinvolgere dei seguaci nelle loro azioni di prepotenza (Menesini, 2000).

Una ricerca di Salmivalli del 1999 ha indagato l’autostima a 14 e 15 anni e i risultati hanno evidenziato che i bulli hanno un’autostima più alta della media, combinata a narcisismo e manie di grandezza.

Un ulteriore studio condotto da Caravita e Di Blasio ha evidenziato che i bulli sono solitamente dei soggetti popolari, e ciò ha portato le autrici a ipotizzare che la popolarità potrebbe condurre ad un innalzamento dell’autostima e all’adozione di condotte aggressive, in quanto il soggetto non avrebbe alcun timore di confrontarsi o di essere sanzionato dal gruppo di pari (Caravita, Di Balsio, 2009).

Comunque questi dati sono stati più volte smentiti, in quanto il fatto che i bulli percepiscono sé stessi come ben visti non vuol dire che essi realmente lo siano. Spesso accade che le persone che hanno un comportamento da bullo si mostrano come superiori e potenti, ma in realtà essi non pensano questo di sé stessi. Potrebbe accadere che i bulli usino il comportamento aggressivo solo al fine di spaventare gli altri bambini, e non perché vogliono essere rispettati (Randall, 1995).

Uno studio condotto su ragazzi di 12 e 13 anni ha messo in luce che in realtà i bulli non sono molto popolari, anche se sono sicuramente più popolari rispetto alle vittime (Salmivalli, 1996).

Luthar e McMahon (1996) pensano che la popolarità tra i pari sia collegata sia alla prosocialità che al comportamento aggressivo in adolescenza. I bambini aggressivi (bulli inclusi) tendono a sovrastimare le proprie competenze, e i bambini che sovrastimano la loro accettazione sociale sono spesso quelli più nominati dai loro pari come aggressivi.

I dati che supportano l’asserzione che i bulli hanno una positiva percezione di sé, ritengono che essa è spesso inconsistente. Per esempio Salmivalli (1998) ha trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda le relazioni interpersonali e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda l’ambito scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle emozioni (Salmivalli, 2001). È ciò che si verifica ad esempio quando il bullo è grande e forte ma colleziona continui insuccessi scolastici (Oliverio Ferraris, 2006). Dal medesimo studio è emerso anche che le vittime hanno bassi punteggi in quasi tutti gli aspetti dell’autostima. Vi sono comunque soggetti vittimizzati che hanno dimostrato di possedere una buona stima di sé, soprattutto in ambito familiare.

Un ulteriore studio ha investigato due ipotesi: un’alta autostima porta i bambini a mettere in atto pensieri antisociali (ipotesi dell’attivazione); un’alta autostima porta i bambini a razionalizzare le condotte antisociali nei loro confronti (ipotesi della razionalizzazione). I risultati supportano pienamente la seconda ipotesi, e solo in parte la prima. Ciò appare da un lato positivo, in quanto emerge che quei bambini che presentano un’alta autostima, pur non essendo molto popolari, riescono bene a razionalizzare le condotte antisociali. D’altro canto però, per quei bambini che hanno una tendenza verso l’aggressività, l’avere un’alta autostima potrebbe presentare un problema, in quanto contribuirebbe ad aumentare le loro condotte antisociali (Corby, Hodges, Menon, Perry, Tobin, 2007).

Ciò comunque non sempre è vero. L’avere un’alta autostima in preadolescenza gioca un ruolo molto limitato nello sviluppo di comportamenti violenti in età adulta (Boden, Fergusson, Horwood, 2007).

Una ricerca condotta da Marsh nel 2001 ha messo in luce che i fattori di aggressività scolastica e quelli di vittimizzazione sono associati a tre componenti del sé: autostima generale, relazioni con lo stesso sesso e relazioni con l’altro sesso. Più nel dettaglio, la vittimizzazione correla negativamente con il concetto di sé ed ha effetti negativi sullo sviluppo dell’autostima. Per quanto riguarda l’aggressività, essa correla ugualmente in modo negativo con il concetto di sé, e ha pochi effetti positivi sullo sviluppo dell’autostima. Un basso concetto di sé può quindi condurre a un comportamento aggressivo e alla vittimizzazione, e può successivamente avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima. Tali esiti sono indipendenti dagli effetti di genere (Marsh et al. 2001).

 

 

Conclusioni

In conclusione, le ricerche sono concordi nel sostenere che l’essere vittima di bullismo correla con la bassa autostima e potrebbe condurre ad un ulteriore declino della stima di sé nel bambino.

Meno chiaro è il ruolo che gioca l’autostima nel comportamento antisociale del bullo. Le correlazioni emerse dalle varie ricerche tra autostima e comportamento aggressivo sono poco concordanti.

Forse andrebbe analizzata l’autostima in tutte le sue componenti, e non solo in quei contesti relativi all’ambiente scolastico e al rapporto tra i pari. Potrebbe essere utile considerare l’autostima legata all’ambiente familiare, all’aspetto estetico e alle emozioni,  ma sono poche le ricerche che finora lo hanno fatto.

L’autostima del bullo resta tuttora un costrutto che andrebbe esaminato più a fondo al fine di poter prevenire qualsiasi comportamento antisociale, ma soprattutto per separare le cause dalle conseguenze.

 

Last Summer (2014): l’ultima estate di Naomi e Ken – Recensione del film

Last summer, opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli (2014), offre un racconto prezioso e poetico delle trame sottili di una relazione che, in fondo, appare semplice e istintiva: quella tra una madre, Naomi, e il figlio, Ken.

 

E’ possibile rafforzare un legame alle soglie di un addio?

Last summer, opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli (2014), offre un racconto prezioso e poetico delle trame sottili di una relazione che, in fondo, appare semplice e istintiva: quella tra una madre, Naomi, e il figlio, Ken. Naomi (Rinko Kikuchi) è una giovane donna giapponese, che si trova ad affrontare una situazione paradossale: ha quattro giorni di tempo da trascorrere con suo figlio Ken di 6 anni, poi non potrà più vederlo per  11 anni. Ha perso la sua custodia a seguito del divorzio e dovrà trovare un modo per recuperare il legame spezzato trascorrendo con lui questi ultimi giorni, costretti sullo yacht del facoltoso padre di Ken e sotto l’ostile sorveglianza dell’equipaggio.

Del loro passato intuiamo una storia di conflitti, ferite e molti errori, ma non sappiamo molto di più. Naomi non vede Ken già da un po’ perché si è allontanata da lui e ha solo quattro giorni per ritrovare il loro legame, prima di affrontare la nuova separazione che li aspetta.

L’impresa appare da subito impossibile: la quiete, l’ordine e l’eleganza della barca su cui si gira l’intera pellicola, sono trappole suadenti che scoraggiano ogni tentativo di cambiamento. Ken appare un bambino sereno, intelligente, affettuoso e fiducioso verso l’equipaggio che è lì per proteggerlo. Gioca con la babysitter, si addormenta autonomamente, mangia con gusto, nuota senza paura dell’acqua alta, appare fin troppo educato e sicuro di sé. Esplora la barca con aria spavalda e indifferente alla presenza della madre.  Non sembra ascoltarla, non risponde alle sue domande e si allontana subito quando lei mostra di pretendere le sue attenzioni.

Solo quando incontra distrattamente lo sguardo di Naomi, la sua sicurezza inizia però a vacillare, il suo volto si fa cupo, i suoi comportamenti rigidi e stereotipati, forzatamente cerca gioco e distrazioni per riguadagnare in pochi attimi la spensieratezza perduta.

Naomi lo osserva molto, aspettando un varco in cui entrare, e oscilla silenziosamente tra rabbia e tristezza.

Il tempo è davvero poco e il controllo intrusivo dell’equipaggio ostacola la possibilità di ricreare un contatto autentico con suo figlio. L’equilibrio raggiunto è difficile da abbandonare e la barca ormeggiata vicino alla costa senza possibilità di navigare in mare aperto offre tutto sommato un rifugio sicuro a Ken.

E’ davvero necessario creare disordine? E’ davvero utile e importante riparare un legame che per Ken è stato fonte di dolore e sofferenza? I suoi dubbi sono i nostri, da spettatori  sembrerebbe facile e giusto rinunciare.

Ma Naomi è una madre e guarda più lontano. Guarda il mare immenso e improvvisamente l’orizzonte fuori da quella barca le offre nuove energie. Trema al ricordo degli errori commessi, ma sceglie con delicatezza e pazienza di tenere saldo il suo obiettivo: sa che recuperare quel legame sarà utile a Ken per crescere senza di lei e l’istinto di accudire e proteggere le permette di cambiare prospettiva. Non vuole lasciarlo di nuovo solo e pieno di rabbia e non si arrende di fronte al dolore del suo rifiuto.

Decide di andare avanti e riparare al danno fatto. Non sbaglierà di nuovo.

La danza dell’attaccamento ha così inizio, tra la ricerca di vicinanza di Naomi e i rifiuti di Ken. Il ritmo si fa via via più armonico, i silenzi vengono rotti da qualche sorriso, l’indifferenza di Ken diventa lentamente curiosità, i loro sguardi si cercano più spesso, lo spazio che li separa sempre meno ampio.

A poco a poco i comportamenti rigidi di Ken si fanno più morbidi e sinuosi, la sua impeccabile educazione viene macchiata dalla naturale disobbedienza di un bambino della sua età. L’ostentata sicurezza lascia spazio alla gioia che esplode all’improvviso e al pianto che accompagna i suoi ricordi.

Non è più necessario tenere sotto controllo le emozioni, Naomi è in grado di accoglierle senza aver paura e Ken può esplorare la loro relazione con una fiducia ritrovata, solida e profonda, che resterà dentro di lui e lo accompagnerà per sempre.

La scrittura della storia segue i silenzi e la lentezza del loro riavvicinamento con rispetto e sospensione, offrendo forse grazie al contatto con l’oriente, una soluzione magica ad un dolore che immaginiamo immenso. Ma in quella maschera tradizionale ricamata e lasciata in dono da Naomi, oltre alla magia, c’è la sicurezza indissolubile del loro legame di attaccamento: quella maschera non potrà garantire a Ken protezione assoluta dai pericoli del mare aperto, ma gli offrirà una solida base interiore per affrontarli con la fiducia e la forza necessari a navigare il futuro, comunque esso sia, con pienezza e vitalità.

 

LAST SUMMER: IL TRAILER DEL FILM

Il testimonial nel kid marketing: chi è e che funzione svolge

Le pubblicità rivolte ai più piccoli sono create ad hoc per impattare con forza sulla mente dei più piccoli e spingerli alla richiesta assillante dell’oggetto promosso dallo spot. Una delle strategie di Child Marketing sapientemente impiegate dai pubblicitari per persuadere i bambini è l’utilizzo dei testimonial.

Introduzione

Negli ultimi anni, il bambino sta diventando il perno centrale di un sistema di marketing completamente orientato su di lui. I bambini sono infatti il target privilegiato dei pubblicitari (Metastasio, 2007). Non solo partecipano in maniera sempre più attiva alle decisioni di consumo attraverso la diretta possibilità di spendere, ma sono considerati i maggiori influenzatori degli acquisti degli adulti (Mc Neal, 1992).

Per questa ragione le pubblicità rivolte ai più piccoli sono create ad hoc per impattare con forza sulla mente dei più piccoli e spingerli alla richiesta assillante dell’oggetto promosso dallo spot. Una delle strategie di Child Marketing sapientemente impiegate dai pubblicitari per persuadere i bambini è l’utilizzo dei testimonial. L’idea è che, le sensazioni positive evocate dal testimonial, l’aurea benigna che lo circonda possano poi essere “trasferite” al prodotto seguendo un “effetto spill over”, un condizionamento valutativo (Cortini, 2005).
Specialmente nelle pubblicità per bambini il ruolo psicologico del testimonial può giocare in maniera determinante.

 

Chi sono i testimonial delle pubblicità per bambini?

Fino ai dieci anni i personaggi-testimonial più efficaci sono soprattutto bambini ideali, cartoni animati, pupazzi, mentre dopo i dieci anni, avvicinandosi alla fase pre-adolescenziale, gli endorser più apprezzati sono celebrità mass-mediatiche di ogni genere, come cantanti, musicisti, sportivi, attori.

In particolare, il testimonial può essere:
1. un bambino ideale, ovvero un coetaneo solo un po’ più “perfetto” del bambino spettatore, in modo da sollecitare una forte identificazione e di conseguenza aumentare il coinvolgimento con lo spot;
2. un personaggio popolare che garantisce la riconoscibilità immediata del personaggio e la credibilità che lo distingue, in quanto già conosciuto e ammirato dai bambini.

Un tipico esempio è quello del brand dei biscotti Ringo che ha legato la propria immagine a quella di Stephan El Shaarawy, campione sportivo del calcio italiano amatissimo dalle nuove generazioni.
Non è raro che si utilizzino personaggi del mondo sportivo come testimonial di prodotti dolciari come snack e merendine; l’obiettivo è, non solo quello di favorire l’associazione positiva prodotto-testimonial, ma anche quello di riuscire ad associare al junkfood l’idea del sano, dell’energia, dell’essere salutare, a cui rimanda il mondo dello sport.
3. un protagonista dei cartoni animati. I personaggi dei cartoni animati hanno una potenzialità persuasiva straordinaria; godono di una forte riconoscibilità e il loro status di personaggi immaginari fa percepire le loro affermazioni come assolutamente disinteressate e quindi più credibili e affidabili.

 

Qual’è la funzione del testimonial?

L’utilizzo del testimonial cartone animato è una strategia diffusissima ed è resa possibile dai vari accordi e iniziative di marketing  partnership che permettono di utilizzare l’immagine dei personaggi più amati dai bambini e riproporla su qualsiasi prodotto.
Il bambino, essendo attratto dal personaggio-idolo, desidera e richiede tutti i prodotti che lo raffigurano, che siano connessi o meno al settore infanzia, come nel caso del maialino Peppa del cartone animato “Peppa Pig” (puggelli, 2002).

Talvolta i testimonial vengono creati ad hoc per il prodotto o il brand e sono pertanto facilmente riconoscibili e unici. Un classico è la mucca viola del cioccolato “Milka” ma anche Muumuu, la mucca con le macchie del budino “Cameo” o Coco la scimmia testimonial dei cereali“Cocopops”.
In questi casi identificare univocamente testimonial, spot, e prodotto crea un circolo virtuoso in cui l’affezione ed il goodwill verso uno solo di questi elementi si trasmette anche agli altri due.

Secondo Lombardi (2000) i testimonial possiedono delle particolari funzioni emotive, ed è possibile classificarli sulla base delle azioni che evocano e i valori a cui fanno riferimento:

– “Personaggio mamma”: le azioni evocate sono rassicurare, proteggere, guidare, e i valori sono quelli di sicurezza, affiliazione, amore. In questo caso si utilizzano le figure dei genitori, o figure animalesche come mucche e ippopotami; queste sono particolarmente efficaci sui più piccoli, perché rispondono al bisogno di protezione materno;

– “Personaggio compagno di gioco”: il fine in questo caso è il divertimento, l’intrattenimento; si richiamano le dimensioni del gioco, dell’avventura. Le figure più utilizzate sono i personaggi animati. I bambini sviluppano un senso di complicità con il personaggio e quindi poi con il prodotto.

– “Personaggio fratello maggiore” che ha il compito di aiutare a crescere, di insegnare, di incoraggiare. I valori evocati sono quelli della performance, del successo; in questo caso i personaggi testimonial sono esempi da imitare.

 

L’inconscio – Ciottoli di Psicopatologia Generale

L’inconscio è il trascendente dentro di noi. Fa parte di noi ma è diverso, talvolta opposto, sconfinato e mai del tutto esplorato. L’inconscio moltiplica le nostre potenzialità perché  è tutto quello che non siamo in realtà, tutto quello che avremo potuto essere e non siamo stati.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Inconscio e transcendenza

Uno dei concetti portanti della psicoanalisi è l’inconscio cui si deve, credo, gran parte del successo del medico viennese e dei suoi seguaci. Uno dei libri più straordinari che ho letto sulla psicoanalisi è appunto ‘La scoperta dell’inconscio‘ di Ellemberger, due volumi di Boringhieri che si divorano come un giallo.  Il sottosuolo, come lo chiamava un mio paziente, affascina ed incuriosisce perché è avvolto nel mistero e fa l’effetto di quelle trasmissioni che proliferano su tutti i canali promettendo rivelazioni ai confini della conoscenza(‘Mistero‘ di Roberto Giacobbo ne è il prototipo).

Questo interesse verso l’ignoto non è figlio della curiosità scientifica, di cui infatti non adotta il metodo, ma piuttosto il figlio orfano di Dio. Con la morte di quest’ultimo per mano dell’illuminismo (perlomeno in gran parte del mondo occidentale) e il fallimento storico delle grandi ideologie totalitarie del ‘900 il bisogno di trascendenza e di assoluto è rimasto senza fissa dimora, ma non i problemi cui cercava di rispondere.

Possibile che siamo destinati ad essere consapevoli di morire e veder morire i nostri cuccioli attraversando una vita senza senso? Chi può averci giocato uno scherzo simile? Che sia Dio, il progetto intelligente o il caso evoluzionistico è un vissuto cui pochi sembrano rassegnarsi. Allora che fare? Le molteplici soluzioni private sono state nella linea del fanatismo religioso per piccole sette o per particolari aspetti dell’esistenza (il fisico, la salute, la bellezza, il vigore fisico, l’alimentazione, lo sport o la stessa cultura) ma solo parzialmente soddisfacenti quando non ridicole.

Tornando al nostro tema, penso che l’inconscio abbia successo perché è il trascendente dentro di noi. Fa parte di noi ma è diverso, talvolta opposto, sconfinato e mai del tutto esplorato. L’inconscio moltiplica le nostre potenzialità perché  è tutto quello che non siamo in realtà, tutto quello che avremo potuto essere e non siamo stati.

 

 

L’inconscio nel lavoro clinico

Nel lavoro clinico, poi, l’inconscio è una vera e propria benedizione: tutto ciò che non è altrimenti spiegabile dal modello di funzionamento della mente è attribuito a lui e basta alla fine includere l’inconscio stesso nel modello che questo diventa omniesplicativo. Quando un modello del funzionamento mentale include l’inconscio riesce a spiegare qualsiasi comportamento, tutto e l’incontrario di tutto. Si raggiunge quella che Mario Rossi Monti chiama la conoscenza totale e che, però, nella tradizione psicopatologica assume il nome di delirio.

La conoscenza totale è esperienza affascinante e seduttiva al punto che Adamo ed Eva ci si giocarono un posto invidiabile. Nei momenti di smarrimento e confusione sia personali (pubertà, adolescenza, invecchiamento o drastiche fasi di passaggio della vita: lutti, fallimenti, disastri) che collettivi (crisi economiche, guerre, ecc) la sua attrattiva diventa irresistibile. Fu esattamente ciò che successe a me quando a 16 anni incontrai i meravigliosi libri di Freud. Amore a prima vista per una teoria che spiegava la sofferenza mentale ma anche l’organizzazione sociale, le grandi opere d’arte, la religione, le dimenticanze e i motti di spirito. Nulla restava fuori, tutto era una magnifica conferma. Furono necessari altri dieci anni, un overdose quasi mortale di psicoanalisi e l’incontro con i libri di Popper per  capire che una teoria che tutto spiega e non esclude nulla, non predice niente e tanto valeva rimanere attaccati alla fede.

Per questo fuggii dal mondo psicoanalitico per rifugiarmi nel razionalismo cognitivista in ciò assecondando le difese e le rigidità con cui ho imparato a cavarmela in questa vita. Ora, a distanza di tanti anni, si riscopre a partire da una impostazione rigorosamente scientifica ( Pankepp, Porges, Van dei Kolt) l’importanza di quel mondo sottocorticale che volevo ignorare e, orrore, persino del corpo che con le sue memorie implicite ha ragioni che la ragione non conosce.

Nuove tecniche di provata efficacia ( EMDR, Mindfullness) assediano noi fanatici del disputing e della ristrutturazione cognitiva da cui tutto a cascata ci piacerebbe seguisse. Più è presente la minaccia più ci si irrigidisce nelle proprie posizioni. Mi fa sorridere quando durante i corsi, nella foga del discorso, a me o a qualche collega scappa la parola inconscio o controtrasfert e subito verrebbe da scusarsi aggiungendo ‘con rispetto parlando‘ come facevano i nonni citando parti del corpo o funzioni dello stesso normalmente non esibite.

 

 

L’importanza di rivalutare il concetto di inconscio

Credo che sia utile una rivalutazione del concetto di inconscio a partire da una sua ridefinizione. Attenzione! Non è che in ambito cognitivista non ci sia stata una riflessione in merito, ma ritengo si possa fare di più e di meglio ed a questo questo ciottolo invita, perché è certo che abbiamo degli stati mentali evidentissimi agli altri che talvolta guidano il nostro comportamento di cui però non siamo consapevoli.

Da un lato si è riconosciuto che esistono una serie di memorie procedurali dove è registrato come si fanno le cose e che utilizziamo senza rendercene conto. Ma fin qui è un ovvietà che tutta una serie di processi, o la maggior parte, della nostra mente avvengano senza che ce ne accorgiamo e prendiamo atto solo del risultato finale.

Dall’altro c’è quello che Freud chiamava il preconscio, ovvero contenuti  potenzialmente accessibili sui quali non è momentaneamente posta l’attenzione ma che, senza grande sforzo possiamo focalizzare. Si tratta più o meno del dialogo interno di Ellis e dei pensieri automatici di Beck. Niente di sconvolgente da mettere in discussione  il modello della consapevolezza pervasiva.

Manca all’appello delle truppe freudiane l’inconscio rimosso il cui famoso ritorno ho sempre vageggiato  come un assedio  da parte degli zombies stile ‘The walking dead‘. Credevo che l’inconscio rimosso fosse più o meno quegli aspetti di me stesso (pensieri, desideri, emozioni) che non mi piacciono molto e tendo a non esibire e persino a nascondere a me stesso.

Però mi viene in mente un obiezione: ma se sono inconsci come faccio a dire che non mi piacciono e misconoscerli? Diciamo che so benissimo di averli ma non mi piace averli sempre davanti focalizzandoci l’attenzione (ad esempio quegli eventi esistenziali di cui non andate fieri o vi fanno proprio vergognare, li tenete in disparte ma sono accessibilissimi). Il  problema della necessita di consapevolezza valutativa sui contenuti che saranno rimossi è  presente pure per gli psicoanalisti e sfuma il concetto stesso di inconscio rimosso che appare una caratteristica mutevole nel tempo. Come se: prima si conosce e poi si rimuove, mentre in terapia si fa il percorso inverso e il rimosso torna ad essere consapevole. Ma se lo scopo della terapia è rendere conscio l’inconscio, una terapia che fosse davvero conclusa genererebbe un uomo senza più l’inconscio? Quell’uomo cognitivista tutto corteccia, razionalità e consapevolezza cui aspiro?

Sono del parere che se ne minimizzi la portata a ridurlo a ciò di cui mi vergogno con gli altri e con me stesso e la terapia ad un impietoso confessionale. Mi capita, invece, di recente di vedere altri (più facile) e me stesso (più difficile) agire in modo assolutamente coerente e spiegabile secondo un piano che tuttavia non riconoscono come proprio e non possono farlo perché non è un po’ diverso ma totalmente altro dal loro abituale modo di essere in cui sono le premesse stesse a mutare.

Il fenomeno clinico che più vi somiglia, ma qui non siamo in ambito patologico, è la dissociazione fino all’estremo delle personalità multiple come se convivessero nella stessa persona scopi terminali e piani esistenziali differenti che non comunicano tra loro  e si manifestano  in modo discontinuo. Proprio in quanto reciprocamente escludentisi non generano conflitti. Quando talvolta si presentano insieme il vissuto non è quello di scontro o lotta interna ma, piuttosto di incomprensibilità, di sorpresa. Da un punto di vista speculativo i concetti che più mi richiama sono due.

Il primo quello kelliano di polo sommerso di un costrutto centrale dell’identità. Attenzione, mentre il polo negativo è l’opposto del polo e, per quanto sgradito, è ben costruito nella sua negatività, il polo sommerso è indefinito, misterioso, una sorta di day after senza un preciso skyline. Proprio per essere totalmente ignoto è temuto più di un qualsiasi polo negativo  perché priverebbe la persona di qualsiasi prevedibilità su di sé.

Il secondo è il concetto junghiano di inconscio collettivo e in particolare di Ombra. L’ombra junghiana è intesa in molti sensi. In  modo riduttivo come Ombra personale molto simile all’inconscio rimosso di cui sopra oppure come funzioni e atteggiamenti non sviluppati nell’ottica dialettica dicotomica che risale a tipi psicologici. In modo più ampio e sovrapersonale (collettivo) come archetipo dell’alterità. Provo a tradurlo in un linguaggio per me più chiaro e utilizzabile.

Immaginiamo che potenzialmente l’essere umano sia  il risultato dell’evoluzione della specie e nulla gli sia estraneo. In lui c’è il massimo della potenzialità angelica e demoniaca allo stesso tempo (per considerare solo una delle innumerevoli possibili dicotomie che molti archetipi descrivono). Nel suo diventare persona (appunto etimologicamente maschera) si distacca dall’universale per diventare individuale. Ciò avviene in primo luogo rispetto alla sua famiglia e più in generale rispetto all’essere specie umana indifferenziata.

In questo processo privilegia alcuni modi di essere che lo caratterizzeranno e ne trascura altri. Con i primi si identificherà, saranno consapevolmente perseguiti e pilastri dell’identità. I secondi li condannerà o comunque proverà un naturale rifiuto ostile quando li scorgerà negli altri: forse in questo consiste l’antipatia viscerale. L’uomo nel diventare persona si distacca dalla specie cercando la sua strada unica ed originale. Ma la specie con la sua lunga storia è più saggia del singolo individuo.

Credo che il riattivarsi di tanto in tanto di scopi e piani esistenziali sorprendentemente inconciliabili con il piano dominante sia il modo con cui la saggezza antica della specie riequilibra la parzialità individuale. E’ una sorta di contrappeso che compensa le parzialità. Chissà  se  la sede dell’Io con la sua individualità e i suoi squilibri sia da collocare nei livelli superiori e recenti del cervello come la neo corteccia, mentre  il contrappeso riequilibratore non abbia a che fare con i sistemi arcaici  della base del cervello in quei sette sistemi  affettivi di base che promuovono la sopravvivenza individuale e della specie. Ai giovani il compito di approfondire il tema e indagarlo.

Se così, comunque, quando si manifesta uno di questi sorprendenti piani alternativi va ascoltato come un richiamo ad un maggiore equilibrio e integrato con quello dominante.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Elogio della lentezza di Lamberto Maffei (2014) – Recensione

Ecco che l’era analogica, il tempo in cui gli uomini hanno comunicato con la parola a distanza ravvicinata, si confronta con l’era digitale, in cui il tempo è scandito dalla rapidità e dalla frammentarietà della vicinanza, virtuale, e del linguaggio informatico.

[blockquote style=”1″]In un mondo che corre vorticosamente, con logiche spesso incomprensibili, il problema della lentezza si affaccia alla mente con prepotenza, come una meta del pensiero.[/blockquote] Ecco che mi perdo nella lettura di piccoli caratteri a forma di lettere che compongono circolari la forma di una lumaca sulla copertina di questo interessante libro, che sfoglio e compro!

 

Il funzionamento cerebrale e le potenzialità del pensiero lento

Affascinata dalla proposta che un’eccessiva prevalenza dei meccanismi rapidi del pensiero (‘pensiero rapido’ o digitale) possa comportare soluzioni e comportamenti errati, Maffei invita a riconsiderare le potenzialità del ‘pensiero lento’ basato principalmente sul linguaggio e sulla scrittura.
Riportando i risultati di ricerche recenti, che indicano il ruolo basilare delle reti neurali nella costruzione delle funzioni cerebrali, e sottolineando il contributo della plasticità cerebrale nella facilità di apprendimento e adattamento all’ambiente si evidenzia come, in un mondo che cambia vorticosamente, il nostro cervello geneticamente sia programmato per costruirsi, invecchiare e morire lentamente.

Non esiste infatti un recettore del tempo nel nostro cervello (come per l’udito, la vista, il tatto), e il concetto di spazio dipende in parte da esso. Il tempo è un’intuizione: ognuno sa cosa sia, ma al cervello risulta difficile spiegarlo. Esistono sequenze temporali di eventi, che sono alla base del pensiero razionale e che fanno capo all’emisfero sinistro del cervello, che nei destrimani è l’emisfero linguistico. Ecco che il linguaggio, costituito da una sequenza di eventi vocali distribuiti nel tempo, è mediato da un sistema lento, conscio, influenzato sia dall’evoluzione biologica/cerebrale sia da quella culturale. La plasticità infatti è la proprietà del cervello di cambiare funzionamento e struttura in relazione all’esperienza: proprietà fondamentale per l’elaborazione di risposte complesse e adattive, meno utile per risposte rapide/ automatiche, funzionali alla sopravvivenza, ma non sotto il dominio della volontà.

Quanto detto fa eccezione per l’intuizione: una risposta cerebrale rapida, che assume la dignità di ‘pensiero’ e che è in diretta connessione con il pensiero lento. L’intuizione, infatti, senza la verifica logico-razionale del pensiero lento resta sogno, non si concretizza in qualcosa che può esser trasmesso.

 

L’era analogica del passato vs l’era digitale del presente

Ecco che l’era analogica, il tempo in cui gli uomini hanno comunicato con la parola a distanza ravvicinata, si confronta con l’era digitale, in cui il tempo è scandito dalla rapidità e dalla frammentarietà della vicinanza, virtuale, e del linguaggio informatico (es. il T9). Emerge un cambiamento: lo strumento digitale induce un tipo di pensiero diverso sia dalle risposte rapide di sopravvivenza sia dal pensiero intuitivo, che salta dall’immagine alla conclusione. Il pensiero digitale si fa strada, grazie alla plasticità, modificando funzioni e strutture cerebrali (ad esempio si inizia ad osservare un’alterazione del sistema motorio, per un preponderante uso del dito indice), ma esso è stato inventato dall’uomo e fa parte dello sviluppo delle conoscenze. La costruzione di un linguaggio comune, di un cervello globalizzato, ricerca principale della società dei consumi, può produrre un’involuzione cerebrale: la tendenza a rendere automatici alcuni circuiti incide sulla spinta al consumo.

Attenzione quindi a come educhiamo i bambini (nei quali la plasticità è massima!): sono più sensibili degli adulti al richiamo consumistico. Ecco svelato dall’autore un importante paradosso della società contemporanea: la ricerca della globalizzazione può produrre un’involuzione cerebrale! È davvero un traguardo per la civiltà? Un saggio consiglio: FESTINA LENTE (affrettati lentamente), un motto latino attribuito ad Augusto, da Svetonio.

L’anoressia nella danza: il caso di Maria Francesca Garritano

Maria Francesca Garritano, ex ballerina alla Scala di Milano e autrice di “La verità, vi prego, sulla danza”, potrà tornare nel corpo di ballo dal quale era stata licenziata con accuse di diffamazione una delle accademie più rinomate a livello internazionale. La sentenza è stata stabilita dalla Cassazione che ha ritenuto ingiusta la “punizione” della direzione artistica nei confronti della ballerina.

La verità, vi prego, sulla danza mette sul piatto d’argento l’alta frequenza dei disturbi alimentari nelle allieve e nei professionisti, le pesanti umiliazioni e pressioni a modificare l’aspetto fisico per apparire sempre più vicini alla perfezione, la spinta ad oltrepassare i limiti, non importa a quale costo. Fenomeni senz’altro denunciati diverse volte, ma spesso soppressi o scambiati per fantasie prive di fondamento empirico. Tuttavia Maria Francesca Garritano non chiude un occhio e decide di farsi sentire all’improvviso, senza avvisare colleghi e superiori.

Una voce pagata a caro prezzo proprio perché, nel racconto, Maria Francesca Garritano tira in ballo la prestigiosa accademia per la quale lavora, che non è una qualsiasi ma l’Accademia del Teatro alla Scala, ricoprendola così di critiche amare, decisa una buona volta a ripulire lo sporco sotto il tappeto che comincia, a suo avviso, ad assumere dimensioni spropositate.

Successivamente alla pubblicazione, Mary Garret, come è stata soprannominata nel contesto artistico, riceve la notizia del licenziamento per aver messo in cattiva luce il buon nome dell’accademia che vanta riconoscimenti e prestigi internazionali, oltre ad aver “sfornato” rispettabili e illustri professionisti, tra cui Roberto Bolle, che si aggiudica uno dei primi posti nella classifica dei migliori ballerini non solo dell’Italia, ma addirittura del pianeta.

Le parole di Maria Francesca Garritano non esitano a suscitare un ventaglio di reazioni differenti: l’ex étoile Carla Fracci rilascia un’intervista in cui dichiara che una ballerina anoressica è incapace di danzare perché la fatica e l’impegno richiesto delle 8 ore giornaliere di allenamento sono insostenibili senza un’alimentazione adeguata, altri ballerini dell’accademia, al contrario, si dimostrano poco basiti di fronte alle rivelazioni della collega, appunto perché il fenomeno è sempre stato presente, ma il bicchiere è anche mezzo pieno, oltre che ad essere mezzo vuoto, e come non sono mai mancati casi simili, non sono mai mancati, d’altra parte, casi di colleghi che hanno condotto una vita artistico-professionale priva di psicopatologie o problemi psicofisici correlati all’esercizio della danza e al clima “organizzativo”. In sostanza, per alcuni di loro, è un evento che può capitare, ma non tutti reagiscono in quel senso. E qui verrebbe da chiedersi cosa fa la differenza.

Tuttavia, Mary Garret insiste nel dichiarare che alla Scala una ragazza su cinque soffre di anoressia, alcune di bulimia, molte non hanno più il menarca e patiscono una mole di problemi fisici che lei stessa ha affrontato, come dolori intestinali e fratture alle ossa attribuite alla danza. La donna continua il racconto illustrando le pesanti umiliazioni, gli insulti e gli scherni per “motivarla” a raggiungere la perfezione fisica, l’ideale estetico che, in un modo o nell’altro, nell’ambiente artistico, è spesso presente, anche se non sempre espresso, o meglio, affrontato apertamente.
Altri esempi, come il ricorso alla chirurgia estetica per ridurre il seno, sono veicolati per esprimere come, ancora una volta, le richieste siano esagerate ed opprimenti, ma soprattutto inevitabili.

Tralasciando i giudizi sulla veridicità e verosimiglianza del racconto della ballerina, è necessario riflettere sull’influenza di alcuni importanti fattori di rischio sollevati, come gli standard estetici rigidi e improntati su una perfezione irraggiungibile e le esasperate pressioni ambientali, sull’esacerbazione e mantenimento di notevoli psicopatologie, tra queste, in maggior frequenza, i disturbi della sfera alimentare e il dismorfismo corporeo, che manifestano la centralità dell’aspetto fisico nell’identità soggettiva e sottolineano un malessere allarmante che non deve essere inascoltato, soppresso o minimizzato.

Tra i fattori di rischio, però, non vanno considerati esclusivamente gli elementi ambientali appena discussi: non sono trascurabili i tratti di personalità improntati sulla ricerca ossessiva del perfezionismo, l’ipercritica, l’attribuzione interna/esterna, l’attività/passività, costruiti e sviluppati a partire dai legami primari di attaccamento e interagenti in modo complesso con l’ambiente circostante (Bara, 2005).
Rimane, ad ogni modo, fondamentale considerare la narrazione e l’attribuzione di significato personale agli eventi che, senz’altro possono essere supportati da un’alta frequenza di situazioni analoghe sperimentate in altri soggetti, ma dimostrano, ad ogni modo, una personale visione della realtà e di sé basata su una costruzione individuale (Guidano, 1992).

In altre parole è lecito chiedersi, fino a che punto il mondo della danza corrisponda realmente a questo ritratto e laddove una visione intrisa di fattori negativi possa riflettere una moltitudine di elementi che non si estendono solo ed esclusivamente all’ambiente esterno, ma anche, e soprattutto, alle parti di sé più intime e non riconosciute.
D’altra parte, però, le frequenti denunce dovrebbero porre una maggiore attenzione sull’effetto delle variabili contestuali, come gli standard estetici irrealistici e le continue pressioni ad innalzare il livello perseguite attraverso le denigrazioni e le umiliazioni, nella predisposizione allo sviluppo di varie psicopatologie.

Mamma uovo. La malattia spiegata a mio figlio (2015) – Recensione del libro

Il tema del libro è la difficoltà a dover comunicare la diagnosi inaspettata di una malattia tumorale: difficoltà perché a dover trovare le parole è una mamma che deve raccontare al figlio, ancora bambino, che non sta bene e che deve curarsi. E’ un cura per cui bisogna andare in ospedale, perché si tratta di una malattia particolare. 

 

Partiamo da una premessa: ci sono situazioni in cui nessuno di noi vorrebbe mai venirsi a trovare. E quando dico mai intendo proprio mai. Possiamo sicuramente considerare l’ammalarsi di una patologia tumorale una di queste situazioni. L’ho detto, non era il caso di girarci troppo intorno. Cosa può esserci di ancora più difficile? Doverne parlare. Su questo argomento, che molto mi sta a cuore, avevo, in passato scritto un’altra recensione, quella del romanzo di Tutto bene, signora. Anche lì uno dei temi portanti del racconto era una diagnosi inaspettata e la difficoltà di comunicare, di trovare le parole per condividere.

Stavolta le cose si fanno, se possibile, ancora più complesse, molto di più: perché a dover trovare le parole è una mamma, che deve raccontare al figlio, che è ancora un bambino, che la mamma non sta bene e che deve curarsi. E’ un cura per cui bisogna andare in ospedale, perché si tratta di una malattia particolare. Anche la cura è particolare. Capita che, dopo essere stata in ospedale, la mamma si senta peggio. E le cadono i capelli. Come è possibile?

Di tutte le situazioni possibili, quelle di dover spiegare a un bambino quello che succede è senz’altro un’enorme sfida. Ma queste cose possono accadere. Spesso gli adulti, addolorati per quanto succede, preferiscono tacere. Pensano, forse, che il bambino non capisca, che è meglio che non sappia, che il silenzio sia una forma di protezione.

Purtroppo, però, non basta non parlare per far finta che non sia succedendo niente. Al contrario, il silenzio può rendere le cose ancora più difficili per il bambino che non sa bene cosa sta succedendo, però vede gli adulti preoccupati, la mamma che non sta bene e non sa spiegarsi il perché.

Ma come si fa a spiegare ad un bimbo, magari al proprio figlio, una realtà così dura? E’ la domanda cui hanno cercato di rispondere gli autori di questo libro, che è un libro a misura di bambino, con tanto di (belle) illustrazioni del fumettista Sergio Staino. Gli autori sanno bene di cosa stanno parlando: sono un medico ematologo e due psiconcologhe, che lavorano presso il  reparto di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale Tumori di Napoli ‘G. Pascale’, e che hanno realizzato questo racconto per accompagnare il bambino nella sua esperienza, con dolcezza e rispetto per i suoi sentimenti e le sue paure.

Al piccolo protagonista viene spiegato che la mamma ha una malattia; lui la chiama ‘la malattia della mamma‘. La mamma gli dice che anche la mamma del suo amico Luca ha avuto la stessa malattia, ma ora è guarita. Così il nostro protagonista parla con Luca, che gli spiega che nel corpo  della mamma ci sono ‘cellule buone e cattive’, e che le cellule buone hanno bisogno di aiuto. Siccome le cellule cattive sono molto furbe, si nascondono vicino a quelle buone, così capita che anche quelle buone vengono colpite dalla cura. E’ per questo che la mamma è stanca e le cadono i capelli.

Come dice Luca:

La prima volta che l’ho vista senza capelli mi sono sentito strano. Guardandola bene la mamma aveva sempre la stessa faccia, ma un po’ più buffa. La sua testa sembrava proprio un uovo. – Ma poi aggiunge: Sei tanto bella anche così!

Di certo non basta un libro con illustrazioni per affrontare una situazione come questa. Però aiuta. Aiuta gli adulti e i bambini a confrontarsi su una realtà in cui nessuno vorrebbe mai trovarsi, ma in cui qualcuno, purtroppo, si trova. Aiuta a il bambino a sentirsi meno spaventato, meno solo e aiuta anche l’adulto che, forse, si sente un po’ più leggero. Perché, come viene detto all’inizio del libro citando Chesterton:

Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.

 

Metamorfosi della maternità nel cinema horror: evoluzioni e mutamenti dagli anni Sessanta ad oggi

Cosa ha a che fare il tema della maternità con il genere cinematografico dell’orrore? Apparentemente nulla. Tuttavia, i due elementi ci consentono di scoprire ed esplorare un interessante gioco di specchi psico-sociali e culturali, nell’evoluzione ideologica e clinica dell’essere madre dagli anni Sessanta ai giorni nostri.

 

Cosa ha a che fare il tema della maternità con il genere cinematografico dell’orrore? Apparentemente nulla.

I due elementi in questione potrebbero apparirci distanti, se non addirittura antitetici: da una parte l’amore e la generatività vitale, dall’altra una morbosa e forse un po’ masochista velleità di un certo tipo di pubblico di essere terrorizzato, attraverso svariate declinazioni di morte e ignoto. Tuttavia, andare oltre questa prima impressione ci consente di scoprire ed esplorare un interessante gioco di specchi psico-sociali e culturali, nell’evoluzione ideologica e clinica dell’essere madre dagli anni Sessanta ai giorni nostri.

 

Horror e maternità: Rosemary’s Baby

E’ nel 1968, con l’adattamento cinematografico del romanzo di Ira Levin ‘Rosemary’s Baby‘, che il genere horror si è indissolubilmente annodato al tema della nascita e della maternità.

Nel noto film di Polanski, dopo un concepimento rituale e orgiastico dai toni onirici e schnitzleriani, l’incantevole protagonista (Mia Farrow) porta a termine una gravidanza alquanto misteriosa. Ostaggio di una setta, venduta dal marito al demonio come fattrice in cambio di una brillante carriera di attore nella competitiva New York degli anni Sessanta, Rosemary si arrende a un amore materno privo di confini, che sfugge alla logica dicotomica morale di bene e male, finendo per soverchiarla: il mostruoso invasore, sconosciuto e ameno che la avvelena dalle fondamenta più viscerali, minacciando la sua stessa esistenza, si rivela comunque meritevole del suo amore. Molteplici interpretazioni e ipotesi della critica hanno voluto leggere in ‘Rosemary Baby‘ un’arguta e metaforica denuncia alle istituzioni di matrimonio e famiglia, in linea con il fervore dei moti femministi del tempo.

L’osservazione che a oggi si può muovere, utile a formulare paragoni tra il prima e il dopo di uno dei generi cinematografici più amati, nonché stimolante riflessioni di carattere psico-sociale in senso lato, è l’idealizzazione cieca della maternità. La madre prototipica di ‘Rosemary Baby‘, è un essere angelico, capace di amare il figlio anche qualora da ospite si faccia crudele invasore, mettendo in scena una mitizzazione dell’accudimento che va oltre l’amor proprio, il narcisismo, il desiderio e l’etica del bene sociale, rivelando, seppur in sottofondo un retaggio cattolico e perbenista.

 

Rosemary’s baby (1968) Trailer:

 

 

Diversità e colpevolizzazione della madre

Un altro tema che la cronologia hollywoodiana dell’horror ha implicitamente sviluppato è quello della colpevolizzazione materna per la diversità del proprio figlio conclamata come nefasta e malefica, pienamente in linea con la stigmatizzazione clinica della maternità operata in passato da alcune autori di psichiatria e psicoanalisi come Kanner, Sullivan, Bettelheim, Reichmann, intenzionati a trovare un nesso causale ad alcune forme psicopatologiche ancora insondabili persino a livello di vulnerabilità genotipica.

Da ‘Carrie‘ (De Palma, 1976), all’ ‘Esorcista‘ (Friedkin, 1973), fino al thriller psicologico ‘Psycho‘ (Hitchcock, 1960), il cinema del brivido ha messo in tensione e rieditato il dramma di una responsabilizzazione materna strutturale, cancellando strategicamente dall’intreccio di trama la figura paterna. Chi può essere imprescindibilmente colpevole della condizione demoniaca (o demonizzata) di un frutto se non la pianta che lo ha generato, specie se in assenza di altri fattori?

 

 

Maternità e Horror ai giorni nostri

Quello a cui possiamo assistere ai giorni nostri, sgranocchiando pop-corn dinnanzi agli enormi schermi dei multisala, sono ulteriori ed interessanti variazioni orrorifiche del tema della maternità.

Nel 2013 Guillermo del Toro porta sul grande schermo una creatura ancestrale, dal nome archetipico ‘La Madre‘, nel riverbero di echi non solo Junghiani, ma anche Freudiani, che rimandano al  Das-ding, ‘La cosa‘.

Sebbene la Madre non appartenga in modo definito né al mondo dei vivi, né al mondo dei morti ed il suo corpo si giochi a livello di immagine tra la consistenza dell’osso nudo e quella del fumo, al di là dei confini del sonno e della veglia, del dentro e del fuori, essa diviene metafora di una pulsione simbiotica che ingloba e mortifica la vita.

Nella narrazione, Madre si trova a proteggere e nutrire due bambine smarrite nella foresta, salvandole dalla violenza paterna. Così inizia il legame materno istituitosi tra le bambine e l’entità mostruosa, che non riverbera di alcuna tensione biologica; il nucleo di questa maternità è piuttosto, in termini Lacaniani, il brusio di una langue cantata, una ninna nanna ipnotica che porta le piccole a regredire e dimenticare il linguaggio parlato, a sospendere il tempo e gli anni che passano lungi dal resto del mondo. E’ messo abilmente in scena un accudimento istintivo, fatto di completezza simbiotica e primordiale, ostile a qualsiasi tipo di civilizzazione. In termini cari alla psicoanalisi lacaniana potremmo tradurre come godimento assoluto, un abbraccio troppo stretto che mortifica la soggettivazione della vita rifiutando la mancanza e la separazione, il taglio della civiltà e della cultura.

 

La madre (2013) Trailer:

Non a caso Madre torna a reclamare gelosamente le sue bambine una volta salvate e affidate a nuovi genitori, vietando loro di camminare in posizione eretta o di portare gli occhiali.

 

E se ‘La Madre‘ non fosse un’entità sovrannaturale che infesta una foresta innevata, ma abitasse inconsciamente e sottoforma di un primordiale istinto una donna come tante altre, con un mestiere come tante altre, in una casa come tante altre, con un bambino come tanti altri?

In tal caso staremmo vedendo un altro film: Babadook, di Jennifer Kent (2014).

Amelia, un’infermiera rimasta vedova, è mamma del piccolo Samuel, un bambino esternalizzante e poco inserito nel contesto dei pari.

Il caso porta tra le loro mani un misterioso libro per l’infanzia con protagonista il perfido mago Babadook, che terrorizza il piccolo Samuel al punto di sconvolgere il loro fragile equilibrio diadico. I muri della loro casa sono valicati metaforicamente e fisicamente: il bambino non riesce più nemmeno a dormire da solo per la paura e la privacy di Amelia, così come ogni possibile altrove materno, decadono in un precipizio melanconico. Sempre più nervosa, isolata ed impossibilitata a gestire il terrore del figlio, un lavoro stressante e il giudizio delle altre madri, la donna inizia a dare segni di squilibrio, passando dall’allucinosi alla violenza, fino ad una terribile ma salvifica scoperta: essere Babadook, essere l’uomo nero intenzionato ad uccidere il proprio bambino.

Conoscere l’istinto mortifero insito nella maternità stessa, porta Amelia a salvare se stessa e il figlio, al prezzo di un metaforico patto. Quello di nutrire Babadook periodicamente, tenendolo sottocontrollo nel seminterrato.

 

Babadook (2014) Trailer:

 

 

Il film risponde con un’invenzione allegorica alla Sindrome di Medea, complesso agito in numerosi casi di cronaca figlicida: l’unico modo per impedire la fagocitazione mortifera dei figli è poterla guardare, darle un nome, accettando le proprie parti oscure. Il mito performativo di una maternità perfetta e idealizzata è qui ritratto come il vero pericolo, qualora l’essere madre divori l’essere donna (Recalcati, 2015).

Sebbene la costellazione di fattori di rischio e protezione delineata da numerosi studi nella cornice della teoria dell’attaccamento identifichi un complesso sistema di variabili intergenerazionali e comorbidità psichiatriche come probabili predittori del passaggio all’atto figlicida (Barone et al., 2014), il cinema del brivido può costituire uno spunto di riflessione sempre florido ed interessante sul tema della maternità e del figlicidio nella società contemporanea. Cos’è una madre, infatti, se non il primo corpo, la prima voce, la prima pelle, con cui veniamo a contatto, indifesi e ciechi, come asserì Freud nel ‘Progetto di una Psicologia’?

Non incontreremo infatti niente di altrettanto miracoloso e traumatico in tutta la nostra vita, qualcosa altrettanto capace di oscillare in una costitutiva doppiezza, capace sia di accudire, sia di spaventare.

Alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività: un modello di mediazione multipla

La letteratura ha cercato in questi anni di definire la relazione presente tra alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività, con risultati che evidenziano la necessità di approfondire tale legame. La disregolazione emotiva predice agiti aggressivi negli autori di reato e nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità e media la relazione presente tra trauma subito e aggressività con o senza premeditazione. Per quanto riguarda l’alessitimia, gli studi hanno verificato la presenza di alti livelli di tale tratto in campioni di sex offender. Alti livelli di alessitimia predicono agiti aggressivi in un campione di veterani e mediano la relazione tra insicurezze nell’attaccamento e comportamenti violenti tra gli adolescenti.

Alessia Offredi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

L’aggressività

L’aggressività umana è una forma naturale e funzionale di azione volta a fronteggiare le avversità della vita quotidiana (Bushman & Anderson, 2001, Fonagy, 2003). Bandura (1983) fu uno dei primi autori a concettualizzare il costrutto dell’aggressività, attraverso la teoria dell’apprendimento sociale: egli afferma che l’individuo può apprendere il comportamento aggressivo subendolo o osservandolo in un ambiente in cui l’aggressività viene approvata.

Berkowitz (1993) amplia tale concetto analizzandone le componenti cognitive; l’autore ipotizza un modello a più livelli, in cui inizialmente all’evento che provoca rabbia il soggetto risponde con due possibili reazioni, flight or fight (fuga o attacco). Successivamente, ulteriori processi cognitivi intervengono allo scopo di attribuire significato all’evento e considerare le possibili conseguenze, determinando il comportamento effettivamente messo in atto dal soggetto. Kassinove e Tafrate (2002) ipotizzano che gli agiti aggressivi siano necessari a esprimere la rabbia: il soggetto che agisce in modo violento ottiene nell’immediato un rinforzo positivo, ad esempio il raggiungimento di un obiettivo in situazioni interpersonali.

Fonagy (2003) afferma che ciò che verosimilmente provoca reazioni distruttive e disfunzionali è il fallimento delle capacità di canalizzare e regolare l’aggressività. Comportamenti aggressivi non regolati possono tradursi in problemi cronici di gestione della rabbia, violenza sessuale, frequenti scoppi d’ira, o altro: per questo motivo diventa fondamentale individuare gli antecedenti di tali comportamenti, al fine di sviluppare strumenti di prevenzione.

La letteratura ha cercato già da tempo di identificare quali fossero i fattori predisponenti per forme maladattive di aggressività e si riscontra un certo accordo nell’evidenziare come tratti nucleari l’alessitimia, la disregolazione emotiva e l’impulsività (Loas et al., 2015; Nemiah and Sifneos, 1970; Taylor et al., 1997).

 

L’alessitimia

L’alessitimia viene definita come un disturbo della regolazione emotiva, caratterizzato da una difficoltà a identificare e descrivere le proprie emozioni, un’ideazione impoverita e uno stile di pensiero orientato all’esterno (Taylor et al., 1997). Senza un’adeguata comprensione dei propri sentimenti, la persona alessitimica rischia di non avere sufficienti risorse per comprendere la vera natura dello stato d’animo del momento e ciò che l’ha provocato: il rischio è quello di reagire negativamente a un’emozione indesiderata, creando conflitti tra sé e gli altri. L’alessitimia è stata correlata a ansia, depressione, abuso di sostanze, ed è risultata significativa nella patogenesi di disturbi psicosomatici (Honkalampeti al., 2001; De Rick and Vanheule, 2007; Kojima, 2012). Dal punto di vista concettuale, l’alessitimia può essere identificata come condizione di stato, quindi una condizione transitoria, che può essere correlata a fattori contestuali specifici, o di tratto, caratterizzanti l’individuo.

 

Alessitimia e disregolazione emotiva

Jenkins e colleghi (2014) affermano che proprio una scarsa consapevolezza delle proprie emozioni potrebbe essere alla base del tratto di disregolazione emotiva, ritenuto a sua volta responsabile di condotte maladattive volte a moderare la sofferenza soggettiva, quali i gesti autolesivi (Linehan, 1993).

Gratz e Roemer (2004) analizzano le diverse sfaccettature del costrutto di regolazione emotiva, delineando diverse componenti: (1) consapevolezza e comprensione delle emozioni, (2) accettazione delle emozioni, (3) capacità di controllare le emozioni negative e di agire in base ai propri obiettivi anche quando vengono provate emozioni negative, (4) capacità di utilizzare strategie di regolazione emotiva flessibili e adatte al contesto. Sebbene il concetto di disregolazione emotiva sia storicamente legato alle ricerche sul Disturbo Borderline di Personalità, ad oggi la letteratura considera i deficit nella gestione delle emozioni come fattore influente in differenti campi della psicopatologia, come ad esempio i disturbi dell’umore (Garnefski and Kraaij, 2006; Garnefski et al., 2001, 2005).

 

L’impulsività, la disregolazione emotiva e l’aggressività

Così come la mancanza di abilità di riconoscimento e riflessione sulle proprie emozioni, anche l’impulsività è riconosciuta come uno degli antecedenti dell’aggressività (Bousardt et al., 2015). Di fronte a una potenziale minaccia, l’individuo con un forte tratto di impulsività sembra non avere le risorse cognitive necessarie a valutare adeguatamente l’evento e identificare la risposta più adeguata. Al contrario, vi è un’alta probabilità che vengano messi in atto comportamenti aggressivi volti a proteggersi o a evitare il dolore.

Moeller e colleghi (2001) affermano che una definizione completa di impulsività dovrebbe considerare (1) la mancanza di considerazione verso le conseguenze negative del comportamento impulsivo, (2) una reazione rapida e non pianificata agli stimoli, prima di aver concluso un adeguato processo di raccolta di informazioni, e (3) la mancanza di considerazione per le implicazioni a lungo termine. Impulsività e disregolazione emotiva vengono talvolta sovrapposte o considerate l’una un’espressione dell’altra. Occorre tuttavia sottolineare che c’è una distinzione e non si tratta di concetti totalmente sovrapponibili: la disregolazione emotiva comprende difficoltà non totalmente afferenti all’area dell’impulsività. Allo stesso modo, l’impulsività non riguarda solo la reazione alle emozioni: lo strumento più diffuso per valutare il grado di impulsività, ad esempio, divide il costrutto in impulsività attentiva, motoria e da non pianificazione, sottolineando quindi la componente cognitiva di questo tratto.

 

Relazione tra alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività

La letteratura ha cercato in questi anni di definire la relazione presente tra alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività, con risultati che evidenziano la necessità di approfondire tale legame. La disregolazione emotiva predice agiti aggressivi negli autori di reato (Garofalo et al., 2016; Roberton et al., 2014) e nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (Scott et al., 2014) e media la relazione presente tra trauma subito e aggressività con o senza premeditazione. Per quanto riguarda l’alessitimia, gli studi hanno verificato la presenza di alti livelli di tale tratto in campioni di sex offender (Moriarty et al., 2001). Alti livelli di alessitimia predicono agiti aggressivi in un campione di veterani (Teten et al., 2008) e mediano la relazione tra insicurezze nell’attaccamento e comportamenti violenti tra gli adolescenti (Fossati et al., 2009).

Nello studio presentato, gli autori cercano di formulare un modello esplicativo che unisca i tratti analizzati separatamente in letteratura e ne verificano la validità su campione clinico e non clinico. Nel descrivere i risultati attesi, i ricercatori ipotizzano (1) la presenza di maggiori tratti di impulsività, alessitimia, disregolazione emotiva e aggressività nel campione clinico, (2) una correlazione tra i costrutti indagati in entrambi i campioni e (3) l’effetto di mediazione di disregolazione emotiva e impulsività sulla relazione tra alessitimia e aggressività.

Lo studio di Velotti e colleghi (2016) ha coinvolto un campione non clinico di 617 soggetti e un campione clinico di 257 pazienti in regime di ricovero successivo a una riacutizzazione della sintomatologia. Tra i pazienti, le diagnosi più comuni erano psicosi o schizofrenia (36.3%), depressione (20.9%), disturbi di personalità (13.4%). Ai soggetti sono stati somministrati questionari self report volti a indagare le variabili considerate.
– Toronto Alexithymia Scale (Bagby et al., 1994) – composto da 20 item, indaga l’alessitimia attraverso tre dimensioni: difficoltà a identificare le emozioni, difficoltà a descrivere le emozioni, pensiero orientato all’esterno.
– Difficulties in Emotion Regulation Scale (Gratz and Roemer, 2004) – analizza la presenza di difficoltà nella regolazione emotiva indagando tendenza a non accettare le risposte emotive, mancanza di consapevolezza e mancanza di conoscenza delle emozioni, mancanza di chiarezza emotiva, capacità di adottare strategie efficaci di controllo emotivo, capacità di perseguire i propri obiettivi quando si è a disagio, capacità di inibire comportamenti impulsivi.
– Barratt Impulsiveness Scale – 11 (Patton et al., 1995) – strumento utilizzato nella misurazione dell’impulsività, indaga tre aspetti del costrutto: impulsività motoria, attentiva e assenza di pianificazione.
– Aggression Questionnaire (Buss & Perry, 1992) – composto da 29 item, indaga la tendenza a reagire in modo aggressivo; si divide in quattro ambiti, aggressività fisica, verbale, ostilità e rabbia.
– Brief Symptom Inventory – sottoscala Depressione (Derogatis, 1975) – il Brief Symptom Inventory è una forma ridotta del più famoso Symptom Checklist–90-R. La sottoscala depressione indaga attraverso 6 item la presenza e la frequenza di sintomi depressivi nell’ultimo mese.

L’analisi dei dati ha confermato la prima ipotesi dei ricercatori, ovvero la presenza di valori significativamente maggiori nella popolazione clinica. Tale dato indica la presenza di maggiori difficoltà nel riconoscere e regolare le proprie emozioni, così una maggior tendenza a agire in modo impulsivo e aggressivo. Tutte queste variabili sono risultate nei due campioni correlate tra loro, risultato che ha suggerito la presenza di sovrapposizione tra i costrutti e la necessità di indagini più specifiche. Gli autori hanno quindi cercato di capire il peso delle variabili impulsività e disregolazione emotiva sul rapporto tra alessitimia e aggressività. Nel campione non clinico, l’alessitimia influiva significativamente sull’aggressività, ma il suo peso diminuiva quando venivano introdotti nel modello impulsività e disregolazione, che risultavano mediatori significativi di tale relazione.

Lo stesso modello è stato verificato all’interno del campione clinico, con la sola differenza per cui la disregolazione emotiva è risultato unico mediatore significativo del rapporto: anche l’impulsività interviene nel rapporto tra alessitimia e aggressività, ma non ha un ruolo di mediatore se considerata singolarmente. Gli effetti dei mediatori sono risultati piuttosto rilevanti: disregolazione emotiva e impulsività spiegano la maggior parte dell’impatto dell’alessitimia sull’aggressività in entrambi i campioni. Controllando tale modello per i sintomi depressivi raccolti, si nota che anche nel campione non clinico l’impulsività perde significatività, lasciando la disregolazione emotiva come unico mediatore del rapporto tra alessitimia e aggressività.

Infine, Velotti e collaboratori hanno ripetuto le analisi considerando le singole sottoscale degli strumenti utilizzati. Nella popolazione non clinica, emergevano come mediatori significativi la capacità di inibire comportamenti impulsivi, l’impulsività motoria e l’impulsività attentiva. Tra i pazienti i mediatori rilevanti sono risultati capacità di inibire comportamenti impulsivi e impulsività motoria.

I risultati ottenuti sono in linea con la letteratura precedente, evidenziando il ruolo dell’alessitimia sul comportamento aggressivo, ma specificano le variabili in gioco in maniera dettagliata. Nonostante non vengano analizzati rapporti di causalità tra le variabili analizzate, è possibile suggerire che persone con difficoltà a riconoscere e nominare le proprie emozioni potrebbero provare, in condizioni di stress, un’attivazione emotiva difficile da gestire. L’alessitimia potrebbe determinare la mancanza di risorse cognitive e affettive necessarie a regolare l’arousal e inibire agiti aggressivi.

I ricercatori ipotizzano per il futuro un ampliamento del campione clinico così da indagare eventuali variazioni nel modello all’interno di differenti categorie diagnostiche. In particolare, un riferimento specifico viene fatto alla popolazione con Disturbo Borderline della Personalità, in cui una buona parte della sofferenza psicologica viene attribuita alla presenza di difficoltà nella regolazione emotiva, provocando il ricorso a strategie di coping maladattive (Linehan, 1993).

Tra i limiti della ricerca vengono citati l’assenza di controllo sulla diagnosi della popolazione clinica (formulata dai singoli professionisti di riferimento dei pazienti) e l’utilizzo di questionari self report. Nel tentativo di offrire un modello esaustivo sugli antecedenti del comportamento aggressivo occorrerebbe inoltre considerare altri aspetti, come l’assenza di empatia o la tendenza a un atteggiamento manipolatorio e pianificare un disegno longitudinale in grado di cogliere nessi causali. Inoltre, nel lavoro esposto non sembrano essere considerati altri elementi, come psicopatia e rabbia di tratto, evidenziati come significativi nel determinare agiti violenti verso sé e gli altri (Swogger, M.T., et al. 2011).

I dati raccolti suggeriscono la promozione di un intervento centrato sull’aumento della consapevolezza emotiva e sulla regolazione emotiva e comportamentale, per contrastare possibili agiti aggressivi. Le difficoltà legate all’alessitimia e a possibili comportamenti aggressivi sono spesso trasversali alle diagnosi del DSM-5, tuttavia si potrebbero identificare alcune categorie diagnostiche in cui questi elementi sono maggiormente presenti, al fine di definire le possibili implicazioni cliniche dello studio. L’instabilità emotiva, ad esempio, è un criterio cardine per il Disturbo Borderline, insieme a una precaria immagine di sé, relazioni sociali insicure, aggressività e autolesionismo.

Uno studio del 2012 ha sottolineato che, nei differenti disturbi di personalità, soggetti con Disturbo Borderline tendono a gestire un altro sentimento negativo, la vergogna, proprio attraverso differenti forme di aggressività: verbale, passiva – razionalizzata, fisica e relazionale (Schoenleber, M. & Berenbaum, H., 2012). Le stesse categorie vengono utilizzate da pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità, comunemente caratterizzato da violenza e fonte di un forte allarme sociale.

Uno studio del 2009 ha indagato inoltre i correlati emotivi, cognitivi e fisiologici emergenti, in seguito all’induzione di rabbia, in un gruppo di pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità. L’obiettivo della ricerca era verificare se ci fossero differenze tra questi e pazienti con altre patologie o soggetti sani. I risultati hanno dimostrato che nel campione di pazienti antisociali si registra una maggior attivazione dal punto di vista cognitivo e fisiologico, che i ricercatori hanno interpretato come un arcaico meccanismo di preparazione alla lotta (Lobbestael, Arntz, Cima & Chakhssi, 2009). Entrambe le categorie diagnostiche considerate risulterebbero quindi eleggibili nei confronti di un trattamento che pone l’accento sulla capacità di riconoscere e definire le proprie emozioni, per poterle regolare e trovare alternative agli agiti aggressivi.

Trattamento della bulimia: le condotte di compenso

Per quanto riguarda le condotte di compenso (vomito, lassativi, diuretici, esercizio fisico) occorre chiarire con il paziente che l’astenersi da queste condotte è fondamentale per la buona riuscita del contratto terapeutico. Il trattamento cognitivo delle condotte di compenso è naturalmente ancora una volta centrato sull’accertamento e sulle credenze cognitive.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il trattamento di Fairburn per la bulimia: la funzione delle condotte di compenso (Nr. 11)

 

Interrompere le condotte di compenso durante la terapia

Il paziente attua tali condotte di compenso per le solite ragioni: per controllare il peso e l’aspetto corporeo e perché fa dipendere la propria esistenza, la soddisfazione di sé e il senso di realizzazione unicamente dall’aspetto e dal peso. Se il paziente manca di astenersi dalle condotte di eliminazione e compenso, si determina un rallentamento se non un blocco del processo terapeutico.

Sarà allora necessario informare il paziente che la sua collaborazione e motivazione al cambiamento sono indispensabili e che senza un impegno attivo volto a interrompere tali condotte una terapia efficace è impossibile. Ciò non implica affatto l’abbandono completo della cura: il terapeuta può continuare a ricevere il paziente, ma deve essere chiaro che, almeno per il momento, non si tratta più di terapia cognitiva ma semmai di supporto e consulenza, in attesa di potere ripartire nel momento in cui il paziente sarà più motivato. È importante che il paziente sia consapevole che la terapia è tecnicamente interrotta, anche se gli incontri con il terapeuta continuano.

È una fase di attesa in cui il terapeuta accoglie il paziente nella sua – ci si augura – temporanea difficoltà a cambiare. Ma non è terapia. Naturalmente la motivazione a interrompere i cicli abbuffate/condotte di eliminazione va rafforzata e alimentata attraverso l’analisi cognitiva di questi cicli. E quindi, ancora una volta, si sottolineerà l’importanza sproporzionata che il paziente riserva al controllo del peso e dell’aspetto corporeo e la dipendenza rigida della stima di sé da questo controllo. Ma la consapevolezza cognitiva non sempre basta. Occorre anche una forte motivazione personale.

 

Come astenersi dalle abbuffate

In questa fase, comunque, si possono suggerire alcuni accorgimenti comportamentali per aiutare la paziente ad astenersi dalle abbuffate. Vediamoli: 1) individuare cibi temuti (che vomiterò) e cibi rassicuranti (che posso tenermi in pancia); 2) ideare, insieme al terapeuta, una lista di comportamenti alternativi alle abbuffate o alle condotte di eliminazione e portarla sempre con me (possibili attività alternative: a) sport (attenzione però che l’esercizio fisico non costituisca attività di compenso); b) passeggiare con familiari, amici; c) farsi una doccia o un bagno; d) telefonare, far visita; e) musica).

È inoltre importante incoraggiare il paziente a riflettere sugli aspetti psicologici dei suoi episodi di abbuffata e condotte eliminative. Più precisamente, il paziente deve essere maggiormente consapevole del tempo mentale occupato da un impulso ad abbuffarsi o a vomitare. Il paziente inizia così a ragionare sui suoi stati d’animo anziché obbedire loro meccanicamente e ciecamente. Un impulso va ricondotto alla sua natura di episodio che per un breve tempo occupa l’intero spazio mentale ma che è destinato a scomparire altrettanto rapidamente. In tal modo può essere possibile disinnescare un episodio impulsivo.

 

Individuare i pensieri che precedono le abbuffate

Comprendere i pensieri che portano alle abbuffate significa anche riflettere sulle circostanze che accompagnano questi episodi, In genere si tratta di situazioni stressanti in cui il paziente si sente giudicato o peggio, escluso o emarginato. Scrivere nel diario i pensieri tra un pasto e l’altro e quando emerge il desiderio di abbuffarsi, rende il paziente più consapevole dei suoi problemi e anche delle possibili attività alternative, aiutandolo a gestire meglio l’impulso di abbuffarsi. Perché mi abbuffo? A che mi serve? Mi calma? Mi punisco? Mi gratifica? Mi distrae?

L’analisi cognitiva alla Ellis aiuta il paziente a capire che le abbuffate e le condotte eliminative non capitano a caso, ma in presenza di situazioni problematiche: 1) individuare il problema; 2) definirlo con esattezza come ostacolo per uno scopo a cui tengo; 3) elaborare delle soluzioni specifiche, evitando le genericità e descrivendo azioni determinate; 4) elencare i pro e contro di ciascuna soluzione; 5) scelta; 6) esecuzione. Il paziente va incoraggiato a intraprendere questa strada e a evitare di rifugiarsi in azioni ripetitive il cui unico obiettivo è procurarsi stati emotivi di anestesia, come appunto le abbuffate. Il paziente, insomma, va aiutato a comprendere che il desiderio di abbuffarsi può essere la spia di un problema da affrontare. Come? Col problem solving, appunto.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Stereotipi e pregiudizi etnici nei bambini: come si formano e come educare alla multiculturalità

Stereotipi: Le ricerche che riguardano la socializzazione etnica e le relazioni tra bambini di differenti culture sono iniziate da decenni e sono diventate molto numerose. Questi studi si rifanno a modelli che integrano vari costrutti della psicologia sociale, da quelli sull’identità sociale a quelli sul pregiudizio e favoritismo/discriminazione intergruppo. Negli ultimi tempi sono state condotte anche ricerche che hanno esplorato l’atteggiamento dei bambini verso le minoranze in relazione allo stile d’attaccamento.

Le prime ricerche su stereotipi e pregiudizi nei bambini

Viste le continue trasformazioni del nostro contesto date dai flussi migratori, i rapporti interculturali all’interno del sistema scolastico sono molto sentiti.

Le prime ricerche su questo argomento sono state condotte negli Stati Uniti, in cui la multiculturalità si è presentata molto prima che in Europa. Vari studi (Williams, Best e Boswell, 1975; Averhart e Bigler, 1997) hanno ottenuto risultati simili: sia bambini euro-americani che afro-americani presentavano un pregiudizio a favore di quelli euro-americani. Quindi anche i bambini appartenenti alla minoranza, benché avessero introiettato una identità etnica afroamericana, attribuivano maggiori caratteristiche positive ai loro compagni euro-americani. Inoltre da una ricerca di Russell, Wilson e Hall del 1992, si è visto come venissero considerati più belli, intelligenti e di classe sociale elevata gli afro-americani di carnagione più chiara, rispetto a quelli di carnagione più scura.

È stato riscontrato che non è solo il colore della pelle ad essere l’unico fattore che influenza gli atteggiamenti dei bambini. Un fattore che sembra essere molto importante è lo status sociale, di cui i bambini sono consapevoli già dai cinque anni d’età.
Anche da una rassegna condotta dalla Tomlinson (1983) emerse che i bambini preferivano i compagni del loro stesso gruppo già nella prima infanzia. C’è tuttavia da sottolineare che questo potrebbe non essere dovuto solo all’appartenenza etnica ma anche o soprattutto al comportamento dei bambini immigrati. Troyna e Hatcher (1993) fanno notare infatti che i bambini potrebbero scegliere o rifiutare i coetanei non solo secondo l’appartenenza etnica, ma anche per le modalità di comportamento; potrebbero quindi preferire un compagno non solo perché appartiene al proprio gruppo ma perché estroverso e loquace, mentre un bambino immigrato potrebbe essere escluso, ad esempio, in quanto timido e taciturno.

Dai cinque anni inizia a svilupparsi anche l’identificazione etnica, ossia il bambino inizia a riconoscere che condivide alcune caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali con altre persone. Lo sviluppo del senso d’appartenenza etnica avviene anche attraverso l’acquisizione delle pratiche, degli usi e dei costumi, della lingua, di schemi cognitivi e comportamentali tipici della propria cultura.
È stato constatato, tuttavia, che stereotipi e pregiudizi diminuiscono man mano che i bambini crescono, in particolare quando superano i sette anni (Abound, 1988). Un’ipotesi è che questo sia dovuto al superamento della fase dell’egocentrismo infantile, mentre un’altra ipotesi è che sia causato dal fatto che a questa età i bambini comprendono che la discriminazione sia socialmente indesiderabile. Questa fase è interconnessa anche con lo sviluppo dei concetti di uguaglianza e giustizia. Mentre fino ai cinque anni la giustizia è l’obbedienza all’autorità, dai sei agli otto anni il bambino sviluppa un concetto di giustizia basato sull’uguaglianza. I rapporti egualitari tra pari infatti portano a sviluppare la “morale della cooperazione”.

 

I fattori che influenzano stereotipi e pregiudizi nei bambini

Ci dovremmo chiedere quali fattori influenzano gli atteggiamenti interetnici dei bambini.
I maggiori sembrano essere la famiglia, i media e il contesto scolastico (Di Pentima, 2007).  La famiglia trasmette valori etici, norme e preconcetti rispetto all’alterità. È vero però che i bambini e soprattutto i ragazzi non aderiscono in modo acritico alle idee trasmesse dai genitori, ma le rimodellano adattandole ai propri scopi. Da ricerche recenti emerge un risultato interessante: non sono tanto gli atteggiamenti espliciti dei genitori ad influenzare le idee dei figli, quanto quelli indiretti. I bambini sono quindi più sensibili verso i comportamenti non verbali, alle risposte affettive dei genitori e ai reali comportamenti verso altre etnie, che non a quello che la famiglia dice esplicitamente (Castelli e Tomelleri, 2004).

Per quanto concerne la televisione, sappiamo che riveste un ruolo fondamentale nello sviluppo, nel mantenimento e nella trasformazione di stereotipi e pregiudizi degli individui (Graves, 1999). Secondo uno studio di Li-Vollmer del 2002 i programmi televisivi utilizzano principalmente individui caucasici, e se vengono inclusi membri di minoranze etniche, sono rappresentati con ruoli di scarso prestigio sociale e in modo conforme agli stereotipi del gruppo di maggioranza. Inoltre le informazioni che arrivano sui paesi del Terzo Mondo riguardano raramente buone notizie, e quando queste arrivano sono dovute a persone di etnia caucasica. La televisione dunque presenta solo alcuni aspetti della realtà. Questo fa in modo che si mantengano i pregiudizi già radicati nel contesto culturale d’appartenenza. Tuttavia c’è da sottolineare che, come ha evidenziato Mancuso (2001) questa influenza può venire controbilanciata da buone esperienze di interazione quotidiana interculturale.

Anche la scuola, grazie al confronto continuo con i pari, ha influenza sullo sviluppo dell’identità razziale e sull’avere o meno comportamenti discriminatori. Dutton, Singer e Devlin (1998) hanno confrontato tre gruppi di studenti: uno proveniente da una scuola mista, uno con bambini per lo più bianchi ed uno con bambini prevalentemente neri. Gli strumenti utilizzati sono stati il disegno della persona, il “picture test” e il test del concetto di sé. È emerso che i bambini con una maggiore identità etnica ma anche con una maggiore accettazione dei compagni di altre etnie sono quelli provenienti dal contesto misto; invece i bambini delle scuole non integrate hanno sviluppato una adeguata identità etnica ma non un buon livello di accettazione della diversità. Questo avvalora la cosiddetta Ipotesi del Contatto, ossia che ad un maggior contatto tra gruppi etnici diversi corrispondano rapporti con una minore presenza di stereotipi e pregiudizi.

 

Stereotipi e pregiudizi nei bambini e stile di attaccamento

Uno studio molto interessante condotto in Italia (Di Pentima, 2006) ha messo in luce l’associazione tra favoritismo verso il proprio gruppo e Teoria dell’Attaccamento. E’ emerso che i bambini italiani sicuri indicano gli amici, quelli che piacciono di più e quelli che piacciono di meno indipendentemente dal gruppo di appartenenza. I bambini ambivalenti ed evitanti preferiscono i coetanei connazionali. I bambini con attaccamento disorganizzato indicano che i compagni che piacciono meno sono quelli immigrati. Lo stile di attaccamento organizzato o disorganizzato sembra avere quindi degli effetti, in età infantile, sulle scelte amicali e sulla preferenza sociale. Chi ha un attaccamento sicuro dimostra fiducia negli altri, il che favorisce l’esplorazione di nuove relazioni e l’accettazione. Chi ha un attaccamento ambivalente ed evitante ha una rappresentazione di sé come vulnerabile e degli altri come inaffidabili. Chi ha un attaccamento disorganizzato ha una rappresentazione della realtà come fonte di pericoli, il che induce una forte ansia nel contatto interetnico.

 

Quali interventi per prevenire stereotipi e pregiudizi nei bambini?

Come potrebbero contribuire psicologi ed educatori per fare in modo di sviluppare delle sane relazioni interetniche, evitare l’emergere di conflitti e ostilità, alla cui base vi sono stereotipi e pregiudizi? Negli anni sono stati elaborati ed attuati diversi progetti, incentrati fondamentalmente su due linee di intervento:
La prima fa capo alla teoria del contatto, che ha individuato determinate condizioni affinché l’incontro tra individui di differenti realtà socio-culturali abbia successo: un clima sociale piacevole e gratificante, il coinvolgimento dei bambini in obiettivi comuni, che i membri siano dello stesso status sociale (Amir, 1976; Cook, 1984).
La seconda comprende alcune strategie che tentano di modificare i pregiudizi intervenendo sui processi cognitivi individuali. Ad esempio il Modello della Personalizzazione si basa sull’idea che il contatto per essere efficace debba promuovere interazioni il più possibile personalizzate (Brewer e Miller, 1984). Un altro modello è quello della Identità Sociale Distinta, che sostiene l’importanza che ciascun gruppo mantenga i propri confini: ai membri devono essere assegnati ruoli distinti, ma complementari, in modo che tutti i gruppi possano mantenere un’identità positiva all’interno di uno stesso contesto collaborativo (Hewstone e Brown, 1986).

Una strategia nota nel contesto scolastico è quella delle classi puzzle, ossia divise in gruppi di lavoro eterogenei di cinque-sei studenti. Si è fatta strada inoltre la metodologia della mediazione (sia quella linguistico-culturale che quella sui conflitti etnici), che può essere impiegata non solo a scuola ma anche nei quartieri e nelle comunità multietniche.
Alla luce delle nuove ricerche legate alla Teoria dell’Attaccamento un’altra strategia di intervento potrebbe essere quella di favorire, tramite vari strumenti, lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro tra genitori e bambino, in modo che il bambino divenga capace di instaurare relazioni soddisfacenti, equilibrate ed improntate sull’aiuto reciproco anche con bambini appartenenti a minoranze etniche.

Reduci e irriducibili: il dannoso aggrapparsi a un’idea fissa

Come può un’idea occupare un cervello per decenni, trasformare gli occhi in due fanali pieni di follia, ridurre la conversazione a un comizio, infastidire un incontro tra amici di sarcasmi astratti e immaginari contro i mulini a vento della politica o di quel che desiderate?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 23/04/2016

 

Perché si diventa degli irriducibili reduci di un’idea, di una fede, di un’ideologia, o anche solo di un amore? Cosa ci trasforma negli spietati sacerdoti di un’ossessione? Sostituire Dio con le idee sul finire dell’ottocento non sembrò inizialmente un buon affare, vista la vendemmia di ossessionati e di fanatici che saltò fuori dalla padella della morte di Dio per finire nella brace di trenta o quarant’anni di rivolgimenti rivoluzionari e guerre mondiali che insanguinarono la prima metà del ‘900.

Una simile esplosione di fanatismo non si vedeva dai tempi delle guerre di religione. Seguì la lunga stagione degli irriducibili reduci, gente capace di rimanere bislaccamente avvinta al cadavere di un’idea per decenni. In principio parve che fosse un problema solo dei missini, poi pian piano anche l’altra ideologia del ‘900, il comunismo, manifestò la sua natura di divinità vampira che succhiava il sangue dei suoi adepti e li trasformava in zombie.

Il tirassegno contro le due ideologie del ‘900 però alla lunga stufa. Non sono soltanto le idee politiche a ridurre il cervello in poltiglia. Le cronache sono piene di eterni amanti che la buttano in tragedia e in femminicidio, anch’essi con il cervello mangiato da un’idea di donna che non ammazzano mai, ammazzano semmai la donna in carne e ossa.

Altri si fanno spolpare le ossa e la mente da ossessioni complottistiche fino a ridurre i propri pensieri in bisbigli. Per non parlare del ritorno esplosivo del fanatismo religioso, che a questo giro colpisce l’islam ossessionato dalla furia ossessiva dell’innamorato respinto contro l’occidente o la modernità o quel che volete.

E però si torna alla politica. Un tempo erano i missini che facevano la figura degli eterni reduci, dei rottami mai rottamati di un passato indimenticabile. Si stava accanto a loro un po’ basiti, un po’ si discuteva con loro, un po’ no; che parlavamo a fare? Erano tipi che in fondo non c’erano mai, presi dal monologo interiore con la loro idea di cui erano follemente innamorati.

I comunisti furono inizialmente favoriti da un’apparente benevolenza della storia, poi la storia è andata da un’altra parte e anche loro sono diventati dei maschietti impazziti perché abbandonati dalla loro donna, gente che ti parla sempre della loro ossessione che nemmeno i testimoni di Geova, anch’essi immemoramente immersi in un monologo interiore con il quale è inutile discutere; si può solo non rispondere ai loro stimoli, alle frasi gettare là a offrire l’amo di una predica inascoltabile, importune come una telefonata pubblicitaria: ma chi vi ha dato il mio numero? No, meglio cambiare argomento.

Mettersi a parlare di rivoluzioni o di amori finiti è come fermarsi a parlare ai banchetti delle offerte umanitarie, non ti mollano finché non firmi.

Come può un’idea occupare un cervello per decenni, trasformare gli occhi in due fanali pieni di follia, ridurre la conversazione a un comizio, infastidire un incontro tra amici di sarcasmi astratti e immaginari contro i mulini a vento della politica o di quel che desiderate?

Il potere magnetico delle idee affligge molti disturbi mentali. Soffrono gli ossessivi, tiranneggiati dalle loro idee di pulizia e onestà; soffrono gli ansiosi, perseguitati dall’idea del pericolo e dell’incertezza; soffrono i depressi, martellati dall’idea della rovina e della perdita di senso; ma soprattutto soffrono i deliranti, catturati più di tutti dalla loro idea dominante: l’idea d’amore del delirio erotico, l’idea di persecuzione del delirio paranoide, l’idea di religione del delirio mistico.

Il pensiero che dovrebbe essere servo e specchio della vita ne prende il posto e finisce per succhiarne il midollo. E quando l’idea ha concluso il suo lavoro, la vittima finisce per diventare un reduce, il reduce di questo processo di vampirizzazione della vita, un corpo ridotto a zombie teleguidato da un’idea di cui si è perso il senso e lo stampo ma che continua a guidare individui ridotti a larve.

Sembrerebbe la sagra della cerebralità più astratta, il culto mistico del mentalismo più disincarnato e distaccato emotivamente. Eppure quanta emozione si cela dietro questa attitudine così incorporea: le idee sono adorate non solo perché danno senso al mondo, all’esistenza, ma anche perché in esse si cerca una comunione perduta con gli altri esseri, con gli altri nuovi credenti che venerano la divinità del pensiero. La speranza è trovare degli amici, di più, dei compagni, delle anime gemelle con le quali finalmente embricarsi come le dita di una stretta di mano, condividere una fede e consolarsi della sconfinata solitudine dell’esistenza.

Un tempo si riteneva che l’inghippo stesse nel contenuto delle idee. Ideologie troppo esplicative, visioni del mondo e filosofie della storia capaci di spiegare tutto e il suo contrario catturavano gli uomini nella rete di una non vita mentale. Per questa loro arroganza –si pensava- le idee finivano per inghiottire le vite concrete.

In questo modo però si riusciva a dare un perché alle ossessioni politiche, ma non a quelle d’amore, alle fissazioni più terra terra degli amanti respinti che trascorrevano e trascorrono vite intere nel ricordo quando va bene, o quando va male nello stalking. In realtà, non è l’ampiezza del contenuto che ci trasforma negli irriducibili cultori di un’idea; ci si può fissare anche per un dettaglio, un feticcio, un particolare.

È solo il restringimento dell’attenzione su un unico aspetto che crea la dipendenza mentale da un’idea e l’incapacità di abbandonarla. È solo la cristallizzazione dell’attenzione su un unico punto che ci trasforma in irriducibili reduci, in mostri monotematici e noiosissimi.

Intransigenti per necessità: per far fronte alla sclerosi multipla i pazienti diventano moralmente più severi

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

La sclerosi multipla (SM) ha un impatto enorme sulla vita dei malati. Questi pazienti non solo devono affrontare i sintomi, tutti molto spiacevoli, della malattia ma sono anche soggetti a imprevedibili ricadute dopo periodi più o meno lunghi (ma di durata irregolare) di remissione, una condizione che rende le persone molto ansiose e stressate.

 

Come osservato in un nuovo studio della SISSA di Trieste in collaborazione con la Medical University del Sud Carolina, USA (e altri istituti internazionali) tutto ciò ha conseguenze anche sulla ‘cognizione morale’ dei pazienti, che diventano particolarmente intransigenti nei giudizi morali in terza persona. Questa ‘inflessibilità morale’ sarebbe conseguenza di stili cognitivi adottati per superare i disagi della malattia.

Conoscerne le cause, spiegano gli autori dello studio appena pubblicato su Social Neuroscience, ha conseguenze importanti anche sul benessere sociale di pazienti.

La sclerosi multipla in Italia colpisce quasi 70mila individui (nel mondo sono circa 2 e mezzo i pazienti SM). È una malattia autoimmune estremamente invalidante: pur non portando alla morte, mina pesantemente la qualità della vita dei pazienti con sintomi motori, cognitivi, sensoriali… Nella sua forma più tipica la malattia è caratterizzata da episodi acuti e remissioni irregolari, che possono creare nel malato una situazione di ansia perpetua. Questo, secondo gli scienziati, provocherebbe conseguenze sul piano emotivo/cognitivo, che finirebbero, come emerge nello studio recente, per influire sulla cognizione morale dei pazienti.

Indrajeet Patil, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi avanzati (SISSA) di Trieste e primo autore della ricerca, e colleghi hanno sottoposto dei ‘dilemmi morali’ in terza persona a un gruppo di pazienti. Il dilemma morale è un test classico per misurare la cognizione morale, ma di solito i problemi vengono posti in prima persona.

In questo caso i soggetti si comportavano come dei membri di una giuria in un processo, e giudicavano il comportamento di altri. Le condizioni critiche, in questa ricerca specifica, erano l’omicidio colposo (accidentale) e il tentato omicidio. I soggetti valutavano l’appropriatezza di comportamenti morali di altre persone e le pene stabilite. I comportamenti variavano in due dimensioni chiave: l’intenzione di far del male e le conseguenze negative. Gli agenti che operavano in questi scenari cioè potevano o meno avere l’intenzione di far del male, e di conseguenza potevano o meno produrre un danno a un altro individuo.

Queste condizioni sono importanti perché sappiamo che nei giudizi di questo genere entrano in gioco due criteri principali – spiega Patil – Si tiene infatti conto sia delle intenzioni sia della gravità delle conseguenze dell’azione, per cui siamo tendenzialmente più proni a perdonare un omicidio colposo, dove le intenzioni innocenti ma le conseguenze gravi, e a punire un tentato omicidio, dove l’intenzione è cattiva, ma le conseguenze non sono gravi.

È noto che alcune condizioni patologiche modificano questo tipo di giudizi: se ci sono alterazioni nella teoria della mente (la capacità di attribuire stati mentali agli altri), come succede negli autistici per esempio, si fa fatica a valutare le intenzioni, per cui l’omicidio colposo viene giudicato severamente, per via delle conseguenze gravi. Gli psicopatici invece tendono a perdonare più facilmente l’omicidio colposo non tanto perché non abbiano una valutazione corretta delle intenzioni, ma piuttosto per via della ridotta empatia verso le vittime.

 

Risultati sorprendenti

Nei pazienti SM, Patil e colleghi si aspettavano una tendenza maggiore al perdono, perché è noto che hanno difficoltà con la teoria della mente (come è stato osservato e descritto in alcuni pazienti), ma anche una risposta empatica ridotta.

Invece ci hanno sorpreso: le loro risposte erano più severe del normale in ogni condizione. Inoltre si dimostravano incredibilmente sicuri della validità del proprio giudizio, in maniera significativamente maggiore dei soggetti sani, dichiarando che chiunque avrebbe risposto come loro.

Ulteriori verifiche hanno permesso agli autori di avanzare un’ipotesi su questo atteggiamento inaspettato.

Pensiamo che queste risposte così severe siano da collegare al tipo di strategia emotivo/cognitiva generale messa in atto dai pazienti SM per far fronte alla loro condizione patologica – spiega Ezequiel Gleichgerrcht, neurologo e ricercatore della Medical University del Sud Carolina – La situazione di stress continuo che affrontano quotidianamente può suscitare in loro emozioni negative persistenti. Sul lungo periodo questo stato può provocare l’emergere di una strategia cognitiva che li aiuta a minimizzare il danno. I neuroscienziati hanno chiamato questo fenomeno external oriented thinking, ossia la dalla tendenza ad orientare i pensieri sugli eventi esterni piuttosto che all’introspezione.

Continua Patil:

È una strategia nota, che ha come conseguenza l’incapacità di riflette ed identificare correttamente le proprie emozioni. Nelle situazioni di giudizio morale, come quelle a cui abbiamo sottoposto i pazienti, porta all’incapacità di identificare le cause reali del proprio stato emotivo negativo, attribuendolo a cause esterne, e non alla propria condizione patologica.

In parole povere, negli esperimenti, i pazienti SM tendevano ad attribuire le proprie emozioni negative a quanto letto nel dilemma, che fossero le conseguenze dell’incidente nell’omicidio colposo o le cattive intenzioni nel tentato omicidio poco importava.

Il paziente credeva che fossero queste cose a provocare l’emozione negativa che provavano e per questo giudicavano molto severamente i responsabili dell’omicidio nel dilemma morale. Questo spiega anche perché registravamo giudizi negativi anche nelle condizioni neutre, dove non c’erano né l’intenzione cattiva né le conseguenze gravi – racconta Patil – Sapere che i pazienti SM tendono ad adottare questa strategia cognitiva, unita al loro perenne stress emotivo, è importante – conclude lo scienziato.

Da un lato infatti aiuta gli operatori sanitari che accudiscono questi pazienti a leggere in maniera oggettiva il loro comportamento e migliorare il rapporto interpersonale, fondamentale in questo tipo di cure.

D’altro lato conoscere questo lato ‘scuro’ può aiutare anche a mettere a punto terapie cognitivo/comportamentali che aiutino i pazienti a migliorare la loro risposta emotiva.

Robopsicologia ed educational Robotics: le nuove frontiere della Psicologia

Nonostante la natura fantascientifica del termine robopsicologia, le neuroscienze cognitive e l’intelligenza artificiale hanno fatto grandi passi nella creazione di robot che hanno la capacità di interagire con persone fragili o affette da disturbi.

 

Robopsicologia: definizione

La Robopsicologia è lo studio delle personalità delle macchine intelligenti. Il termine fu coniato per la prima volta da Isaac Asimov in una collezione di storie intitolata ‘Io, Robot’, dove si narra la storia della dottoressa Susan Calvin (una robopsicologa) impegnata nella risoluzione di problemi legati al comportamento di robot intelligenti. Le storie hanno altresì introdotto le famoseTre leggi della robotica di Isaac Asimov, le quali spiegano che:

  1. Un robot non potrebbe mai offendere un essere umano, o mediante l’inazione, consentire ad un essere umano di ferire a sua volta;
  2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, a meno che tali ordini non entrino in conflitto con la prima legge;
  3. Un robot deve proteggere la propria esistenza finché la sua protezione non entra in conflitto con la prima e la seconda legge.

Queste tre leggi le ritroviamo incorporate in quasi tutti i robot positronici protagonisti del romanzo di Asimov, i quali si comportano in modo insolito e contro-intuitivo.

Successivamente sono state introdotte ulteriori leggi, per cui secondo la Quinta legge della Roboticaun robot deve sapere di essere un robot”: si presume che il robot possegga una conoscenza della definizione del termine, applicando così le Leggi della robotica alle sue azioni. Secondo questa legge, se un robot aggredisce o ferisce un essere umano, è perché non ha ben compreso di essere un robot (e quindi non ha consapevolezza).

I robot e l’intelligenza artificiale per come li conosciamo non obbediscono intrinsecamente alle leggi della robotica; i loro creatori umani devono programmarli ed escogitare un modo per farlo.

Infatti molti robot sono provvisti di protezioni fisiche come paraurti, avvisatori acustici o zone ad accesso limitato studiati per prevenire incidenti. Perfino i robot più complessi, ad oggi sono incapaci di comprendere e applicare le Tre leggi della robotica, ma sulla Terra esistono oggi robot in grado di interagire con le persone in modo adeguato, esprimendo alcune emozioni di base.

 

La robopsicologia e i robot di supporto in casi di DSA e Autismo

Nonostante la natura fantascientifica del termine ‘robopsicologia‘, le neuroscienze cognitive e l’intelligenza artificiale hanno fatto grandi passi nella creazione di robot che hanno la capacità di interagire con persone fragili o affette da disturbi, in particolare sono stati creati robot con le sembianze di giocattoli, che interagiscono con bambini affetti da autismo, sotto la supervisione di un educatore, uno psicologo ed eventualmente un logopedista o un genitore. Questo nuovo campo di applicazione prende il nome di SAR, Social Assistive Robots.

Cos’hanno di speciale questi robot? In cosa consiste il loro utilizzo nell’ambito della psicopatologia?

L’autismo (in origine Sindrome di Kanner) è un disturbo per cui la persona affetta da tale patologia manifesta un comportamento caratterizzato da un significativo deficit dell’integrazione socio-relazionale e della comunicazione interpersonale. Le aree interessate dal fenotipo comportamentale sono la comunicazione verbale e non verbale, l’interazione sociale, l’immaginazione (e gli interessi), comportamenti ossessivo-compulsivi (ripetizione di movimenti stereotipati, ossessione per l’ordine e la simmetria), sensibilità a certe emozioni, reazioni emotive esagerate (collera, aggressività sia etero che auto-diretta ed ansia) e l’incapacità di integrare i vari stimoli che provengono da canali sensoriali differenti (ad esempio, il bambino concentrato su un oggetto tende a non sentire l’adulto che lo chiama).

Ma, ritorniamo alla robopsicologia e vediamo l’utilizzo dei robot nell’interazione con questi bambini.

Nel 2014, un team di ricercatori della USC Viterbi School of Engineering ha condotto uno studio pilota sugli effetti dell’utilizzo di robot umanoidi per favorire l’apprendimento di comportamenti di imitazione allo scopo di potenziare l’autonomia nei bambini affetti da DSA. Lo studio, intitolato ‘Graded cueing feedback in Robot-mediated imitation practicefor children with autism spectrum disorder’, condotto da Maja Mataric e Chan Soon-Shiong Chair, si è concentrata su come la robopsicologia  può aiutare le persone con bisogni speciali, compresi i soggetti con Alzheimer e il DSA.

Nello specifico, in quest’esperimento, i ricercatori hanno analizzato come i bambini con DSA reagiscono ai robot umanoidi i quali forniscono loro istruzioni graduali, fornendo spunti e richieste via via sempre più dettagliati in modo da modellare il comportamento e ad aiutare nell’acquisizione di nuove abilità o recuperare quelle perse.

Mataric e il suo team hanno studiato 12 bambini con DSA ad alto funzionamento dividendoli in due gruppi, uno sperimentale e uno di controllo. Ogni bambino ha giocato ad un gioco copycat (d’imitazione) con un robot Nao, il quale ha chiesto al bambino di imitare 25 posizioni differenti del braccio.

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Il Robot Nao

 

I bambini che avevano ricevuto istruzioni variegate fino al raggiungimento della posizione giusta, mostrarono un netto miglioramento o una conservazione della prestazione, mentre i bambini che non avevano ricevuto le istruzioni diversificate, regredivano nella performance o questa rimaneva inalterata.

Il robot Nao variava il modo in cui forniva le consegne: all’inizio offriva indizi solo verbali, poi forniva anche dimostrazioni e istruzioni verbali in modo sempre più specifico.

Lo studio ha quindi dimostrato che un feedback diversificato è più efficace nell’aiutare i bambini con DSA ad acquisire nuove abilità in caso di prove fallimentari, riducendo quindi la frustrazione e l’ansia. Inoltre, lo studio ha dimostrato la riuscita dell’interazione del bambino con il robot.

A circa 9 mesi di vita il bambino comincia a sviluppare quella che gli studiosi chiamano attenzione condivisa (vedi Teoria della mente), un comportamento che consiste nel cercare e richiamare l’attenzione dell’altro, su un oggetto o un evento. I bambini con autismo però non sviluppano questa capacità in modo adeguato, con conseguente difficoltà relazionali e sociali, oltre che nell’ambito dell’apprendimento.

E’ stato dimostrato che i bambini con DSA mostrano uno spiccato interesse verso questi robot-giocattolo i quali non solo parlano (interagiscono) con il bambino, ma sono dotati di occhi che si illuminano di vari colori che rappresentano ciascuno un’emozione particolare (ad es. Il rosso esprime sorpresa, il colore blu simboleggia il senso di consapevolezza e il bisogno di conoscenza).

I bambini vengono educati a riconoscere i colori associati alle varie emozioni e quando in seguito alle istruzioni del robot il bambino esegue in modo corretto un’azione, quest’ultimo fornisce dei feedback, per cui il bambino apprende e si sente stimolato in modo positivo. Questi robot non manifestano mai la rabbia: i bambini con DSA sono molto sensibili alla collera e possono avere reazioni esagerate anche solo percependo un cenno da parte della persona che ha di fronte. Le tecniche cognitivo-comportamentali si prefiggono di promuovere, nei soggetti con autismo i comportamenti adattivi mediante interventi intensivi e programmati che possono essere adoperati sia dai terapisti che dai genitori

 

 

La Robopsicologia e i robot per gli anziani

La robopsicologia e i robot con abilità sociali si sono rivelati promettenti anche nell’ambito della riabilitazione e dell’assistenza agli anziani; per gli anziani con deficit cognitivi, i robot (anche non umanoidi) sono studiati per fornire esercizi che allenano la mente a ricordare di assumere i pasti, date importanti, prendere farmaci, cercando così di contrastare la degenerazione cognitiva e fornire un’alternativa alla solitudine.

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Robot impiegato per l’assistenza agli anziani

 

Questi robot sociali sono programmati con algoritmi comportamentali che consentono di esprimere un’interazione del tutto naturale, rassicurante e stimolante.

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Il Robot ‘Mio’

 

 

La Robopsicologia e l’utilizzo dei Robot educativi nel supporto a bambini con sindrome di Down e balbuzie

L’uso dei robot come strumenti educativi ha trovato impiego non solo nella cura dei bambini affetti da autismo, ma anche in quelli con sindrome di Down e balbuzie.

In questi ultimi due casi è stato usato l’utilizzo di un sistema, il cosiddetto Lego Mindstorms, un robot mobile realizzato da Lego e costituito da tanti mattoncini cibernetici che, come nel caso dei robot umanoidi per l’autismo, interagivano con i bambini in modo diversificato. Anche in questo caso, le performance cognitive (tempi di attenzione) e comportamentali (il coinvolgimento spontaneo del robot ai giochi interattivi da parte dei bambini) dei bambini affetti da sindrome di Down e balbuzie, erano migliorate in modo significativo. L’elemento che ha reso così particolare il robot Lego Mindstorms (versione NXT) è una componente elettronica che si trova all’interno di ogni singolo mattoncino e che ne permette la suggestione: in altre parole, vi sono dei sensori e motori che permettono l’interazione con il mondo esterno.

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Lego Mindstorm

 

L’idea di fondo della robotica educazionale e della robopsicologia è che i robot sociali sono ‘oggetti-con-cui-pensare’, avviando quindi il loro utilizzo anche nell’ambito dell’apprendimento. E’ stato dimostrato che l’interazione con i robot permette il miglioramento delle abilità visuo-spaziali e di ragionamento nelle sue forme (astratto e concreto), la motivazione all’apprendimento, la creatività e la fantasia (tramite l’assemblaggio dei pezzetti, scelta dei colori e invenzione delle forme); non solo. L’interazione con il robot-giocattolo stimola il pensiero narrativo. Il robot non viene solo visto e toccato, ma viene pensato e narrato come se fosse un essere vivente a tutti gli effetti, quindi dotato di attributi umani, come le emozioni, stati mentali e la personalità.

Tali considerazioni sulla robopsicologia portano dunque a pensare l’uso dei robot sociali come una nuova risorsa per il lavoro dello psicologo.

Ingannare i bambini con gli spot pubblicitari: quali strategie vengono utilizzate

Negli ultimi anni la quantità e la qualità dei messaggi persuasivi rivolti ai bambini è notevolmente aumentata (Metastasio, 2007). I bambini sono target preferito dai pubblicitari per due grandi ragioni, perché saranno i consumatori di domani e perché riescono ad esercitare una grandissima influenza sugli acquisti degli adulti (Mc Neal, 1992).

Lontano dall’innocuo suggerimento di giocattoli o peggio di junkfood, gli spot rivolti ai più piccoli sono creati ad hoc per impattare con forza sulla mente dei più piccoli e spingerli alla richiesta assillante dell’oggetto promosso dallo spot (Cortini, 2005).

Quali sono strategie di Kid Marketing attualmente più utilizzate e più efficaci sui piccoli consumatori?

Ne vediamo le 5 più diffuse:

 

Jingle

I messaggi pubblicitari associati a una canzone sono più incisivi, vengono ricordati meglio e producono un effetto maggiore quando sono facilmente riproducibili, ovvero quando i bambini sono in grado di canticchiare le canzoncine degli spot anche in altri contesti.
Il jingle permette di associare lo slogan del prodotto o della marca a un motivetto o canzoncina che, in genere, contiene nome e benefit del prodotto, e riassume ciò che è quel prodotto, cosa ci si può fare o diventare con esso. Ne sono un esempio l’intramontabile jingle delle scarpe Lelly Kelly o dei ghiaccioli Polaretti della Dolfin. Alla voce fuori campo che presenta il prodotto, che in genere è quella di un adulto dello stesso genere sessuale del target, si associa sempre più spesso quella di bambini che serve a rinforzare l’autorevolezza del messaggio e a cercare di attivare processi di identificazione (Metastasio, 2007).

 

“Sfondo” e ambiente emozionale

La pubblicità presenta uno sfondo – ambiente carico di emotività. Stralci di vita quotidiana e soprattutto la famiglia sono elementi simbolici molto sfruttati dai pubblicitari perché stillano nel bambino, in modo automatico, una serie di associazioni positive come serenità, calore, unità, tenerezza, affetto (Metastasio, 2007). L’idea è che, le sensazioni positive evocate in questi modi possano poi essere “trasferite” al prodotto seguendo un “effetto spill over” (Cortini, 2005).

 

Humour

Un elemento importante per sostenere l’attenzione e convincere il fruitore durante uno spot è fare humour. Come per gli adulti, l’umorismo esercita un potente fascino anche sui bambini. Prima dei sette anni i bambini sono divertiti dall’aspetto buffo dei personaggi e dal genere comico molto semplice, come lo slapstick. Successivamente, fino ai dieci anni, aumentando le competenze linguistiche, si cominciano ad apprezzare le frasi buffe e burlone. Nella fase pre-adolescenziale divengono molto apprezzate la parodia e l’ironia.
L’umorismo e la comicità sono un’arma persuasiva di tipo indiretto, ovvero persuadono in quanto agiscono sull’umore; così, se un prodotto viene presentato successivamente a una situazione che suscita ilarità, sarà molto probabile che questo prodotto venga percepito come più positivo (Forgas, 1990).

 

Trans-toying

Un’ ulteriore strategia che seduce i bambini, è quella di riuscire a trasformare qualsiasi prodotto in giocattolo, ovvero il trans-toying. Il trans-toying è un fenomeno evidente soprattutto tra gli scaffali dei supermercati, ed è chiaramente in aumento, adottato dalle imprese più diverse, visto che quasi ogni prodotto può diventare un giocattolo.
Alcuni esempi di trans-toying si trovano nei prodotti per l’igiene, come gli spazzolini da denti a forma di animaletti, barattoli di shampoo a forma di principesse dei cartoni animati, ma anche astucci-peluche, fino al più preoccupante fenomeno del cibo che si trasforma in giocattolo, cambiando struttura e colore (Schor, 2005).

 

Gift in pack

Quando non è possibile trasformare il prodotto in un giocattolo, per trasferire un valore ludico a un articolo, un’altra tecnica molto comune, è quella di regalare dei gadgets. Due successi di marketing incredibili in questo senso sono il Kinder Sorpresa e il Menù per bambini offerto da Mc Donald, l’Happy Meal, nella quale si trovano i gadget dei personaggi dell’ultimo cartone animato presente nelle sale cinematografiche, o del personaggio di tendenza del momento.
Spesso, soprattutto per i bambini più piccoli, è proprio l’attrazione e il desiderio di possedere il giocattolo o le figurine contenuti nella confezione a farli optare per quel prodotto (Metastasio, 2007).

La Structured Clinical Interview (SCID) – Introduzione alla psicologia

Tra tutti i test più rinomati esistenti nel panorama diagnostico non poteva mancare all’appello la Structured Clinical Interview per DSM, meglio nota come SCID. La Structured Clinical Interview è un’intervista semistrutturata sviluppata da Spitzer e collaboratori nel 1987 per la diagnosi della maggior parte dei disturbi di Asse I, disturbi d’ansia, e per quelli di personalità sull’Asse II. Essa valuta tutto lo spettro dei disturbi inseriti all’interno del DSM. La prima versione della SCID risale alla pubblicazione del DSM-III-R.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

La Structured Clinical Interview: storia

La pubblicazione del DSM III nel 1980 con l’introduzione di criteri diagnostici specifici per tutti i disturbi mentali, ha chiaramente dato una svolta a studio e diagnosi delle malattie mentali. Infatti, prima di allora esistevano diversi tipi di criteri usati per effettuare diagnosi come quelli di Feighner o i Research Diagnostic Criteria con le relative interviste strutturate costruite per effettuare una diagnosi in accordo con le suddette nosografie intrise di molta teoria che influenzava anche la definizione del sintomo stesso.

Quindi, con l’avvento del DSM III, strumento avente caratteristiche diverse da quelle presentate dagli altri manuali diagnostici, primo tra tutti l’essere a-teoretico, nasceva anche l’esigenza di poter effettuare una diagnosi sulla base della nuova nomenclatura. A tal proposito, unitamente all’uscita del manuale era stata diffusa una prima intervista grazie alla quale era possibile effettuare uno screening sulla presenza o assenza di patologia. Questa intervista prendeva il nome di Diagnostic Interview Schedule (DIS), principalmente utilizzata in studi non epidemiologici.

Successivamente, durante un congresso dell’American Psychopathological Association tenutosi nel 1983, furono messi in evidenza i molti limiti presentati dalla DIS tra cui l’esperienza di una notevole conoscenza clinica per la somministrazione e l’essere poco fruibile in ambito clinico, era più utile in ambito di ricerca. Così, si istituì una task force capitanata da Spitzer che diede vita al lavoro che porterà alla produzione della Structured Clinical Interview per il DSM III, SCID.

Solo qualche anno più tardi, con la pubblicazione del DSM III R, uscì la prima versione della SCID.
Chiaramente esistono due versioni della SCID, la I, che permette di effettuare diagnosi in Asse I, IV e V, secondo la divisione del DSM per la patologia mentale, e una versione, la SCID II, che permette la diagnosi solo dell’Asse II.

 

La SCID I: caratteristiche del test diagnostico

La SCID I mostra caratteristiche diverse dagli strumenti precedenti. Prima di tutto è presente all’inizio dello strumento una rassegna anamnestica che permette l’inquadramento e lo sviluppo delle informazioni utili per carpire notizie cliniche rilevanti e consone a focalizzare il sintomo unitamente alla storia del paziente.
All’inizio dell’intervista è possibile individuare, nel dettaglio, dati anagrafici e socio-demografici, una descrizione sommaria della malattia in atto e dei precedenti psicopatologici, la condizione medica generale ed eventuale uso di sostanze, il livello di compromissione del funzionamento globale (Asse V).

A questa prima parte ne segue una seconda caratterizzata da una serie di domande centrate sui criteri diagnostici, utili per effettuare diagnosi. Si susseguono diverse sezioni diagnostiche, e alla fine di ciascuna vi sono una serie di domande sulla cronologia della malattia che includono: l’età di esordio, la presenza o assenza di sintomi durante il mese precedente e la percentuale approssimativa del tempo durante i passati cinque anni in cui tali sintomi sono stati presenti. Per molti disturbi è inclusa una scala che misura la gravità e per alcuni anche la prognosi in funzione del quadro sintomatologico presentato o del sottotipo clinico (come per la diagnosi di Schizofrenia).

Essa, altresì, è costruita in maniera modulare, quindi una domanda segue l’altra, allo scopo di escludere velocemente tutto ciò che non è importante ai fini diagnostici per il soggetto esaminato. Ogni modulo corrisponde ad uno specifico raggruppamento diagnostico divisi per i diversi disturbi diagnosticabili. Segue, una struttura ad alberi decisionali, ovvero permette di approfondire il disturbo presentato o saltare direttamente a quello successivo se non presente, mantenendo una chiara corrispondenza tra i criteri del DSM e ciascuna domanda formulata.

La SCID I si divide in diverse sezioni o moduli:

A: Sindromi dell’Umore
Episodio Depressivo Maggiore (in atto/pregresso)
Episodio Maniacale (in atto/pregresso)
Episodio Ipomaniacale (in atto/pregresso)
Disturbo Distimico (solo in atto)
Disturbo dell’Umore dovuto a Condizione Medica Generale
Disturbo dell’Umore Indotto da Sostanza

B: Sintomi Psicotici e Associati
Deliri
Allucinazioni
Comportamento e Eloquio Disorganizzati
Comportamento Catatonico
Sintomi Negativi

C: Disturbi Psicotici (Diagnosi differenziale)
Schizofrenia
Tipo Paranoide
Tipo Catatonico
Tipo Disorganizzato
Tipo Indifferenziato
Tipo Residuale
Disturbo Schizofreniforme
Disturbo Schizoaffettivo
Disturbo Delirante
Disturbo Psicotico Breve
Disturbo Psicotico Dovuto a Condizione Medica
Generale
Disturbo Psicotico Indotto da Sostanza
Disturbo Psicotico Non Altrimenti Specificato

D: Disturbi dell’Umore
Disturbo Bipolare I
Disturbo Bipolare II
Altri Disturbi Bipolari (Disturbo Ciclotimico,
Disturbo Bipolare NAS)
Disturbo Depressivo Maggiore
Disturbo Depressivo Non Altrimenti Specificato

E: Disturbi da Uso di Sostanze
Dipendenza da Alcol
Abuso di Alcol
Dipendenza da Amfetamina
Abuso di Amfetamina
Dipendenza da Cannabis
Abuso di Cannabis
Dipendenza da Cocaina
Abuso di Cocaina
Dipendenza da Allucinogeni
Abuso di Allucinogeni
Dipendenza da Oppioidi
Abuso di Oppioidi
Dipendenza da Fenciclidina
Abuso di Fenciclidina
Dipendenza da Sedativi/Ipnotici/Ansiolitici
Abuso di Sedativi/Ipnotici/Ansiolitici
Dipendenza da più Sostanze
Dipendenza da Altre Sostanze o da Sostanze Sconosciute
Abuso di Altre Sostanze o di Sostanze Sconosciute

F: Disturbi d’Ansia
Disturbo di Panico Con Agorafobia
Disturbo di Panico Senza Agorafobia
Agorafobia Senza Anamnesi di Disturbo di Panico
Fobia Sociale
Fobia Specifica
Disturbo Ossessivo-Compulsivo
Disturbo Post-Traumatico da Stress
Disturbo d’Ansia Generalizzato (solo in atto)
Disturbo d’Ansia Dovuto a Condizione Medica
Generale
Disturbo d’Ansia Indotto da Sostanze
Disturbo d’Ansia Non Altrimenti Specificato

G: Disturbi Somatoformi
Disturbo di Somatizzazione (solo in atto)
Disturbo Somatoforme Indifferenziato (solo in
atto)
Disturbo Algico (solo in atto)
Ipocondria (solo in atto)
Disturbo di Dismorfismo Corporeo

H: Disturbi dell’Alimentazione
Anoressia Nervosa
Bulimia Nervosa
Disturbo da Abbuffata Alimentare (categoria in
Appendice)

I: Disturbi dell’Adattamento
Disturbo dell’Adattamento (solo in atto)

J: modulo opzionale
Disturbo da Stress Acuto
Disturbo Depressivo Minore
Disturbo Misto Ansioso-Depressivo (categoria in
Appendice)
Dettagli Sintomatici degli Episodi Pregressi
Depressivi Maggiori/Maniacali.

Ogni sezione è formata da una serie di domande, che si riferiscono direttamente ai criteri diagnostici presentati nel DSM, che devono essere lette dal somministratore ad litteram per evitare di incappare in criteri diversi da quelli valutati. Per questo l’intervista deve essere somministrata da una persona addestrata adeguatamente e con una buona familiarità con il sistema di classificazione e i criteri diagnostici del DSM. Quindi, non solo è necessario conoscere adeguatamente il DSM, ma è opportuno anche avere una competenza di base rispetto alla farmacologia che possa permettere di effettuare una diagnosi differenziale tra condizione dovuta all’assunzione di sostanze, anche farmaci, e vera patologia mentale.

Oltre all’ASSE I la SCID I permette di effettuare diagnosi anche per l’ASSE IV, problemi psicosociali ed ambientali, e V funzionamento generale.
A pagina 5 dell’intervista è presente una Checklist che consente di effettuare diagnosi sui problemi psicosociali e ambientali presentati dall’esaminato. Successivamente, si valuta il Funzionamento Generale del soggetto, lungo un continuum di gravità diviso in 10 ranghi. Lo sperimentatore, in base a quanto emerge dal colloquio, inquadra a fine intervista il funzionamento generale presentato dal paziente facendolo rientrare in una categoria specifica.

 

La SCID I: a chi si rivolge

La SCID I può essere somministrata a pazienti psichiatrici e di medicina generale, persone coinvolte in un’indagine epidemiologica sulla salute mentale nella comunità o tra i familiari di pazienti psichiatrici.
Inoltre, non può essere somministrata se non a degli adulti che abbiano almeno 8 anni scolarità, che non presentino deficit cognitivi gravi, agitazione psicomotoria, sintomi psicotici gravi, e un quoziente intellettivo nella norma, poiché QI troppo bassi potrebbero rendere la somministrazione molto difficile.

Essa può essere usata in ambito clinico, come approfondimento del colloquio e per questo è utile somministrarla anche a piccoli pezzi che possano garantire l’eliminazione di un dubbio diagnostico o a conferma della diagnosi cui si era già arrivati. Oltretutto, è usata anche in ambito di ricerca per selezionare una popolazione su cui effettuare uno studio, in termini di criteri di inclusione ed esclusione.

 

LA SCID I: cosa restituisce?

La SCID I permette di formulare una diagnosi psichiatrica secondo criteri rigidamente definiti dal DSM garantendo, in questo modo, un alto livello di comprensione ed accordo tra i diversi esperti della salute mentale, perché si parla attraverso un linguaggio comune facilmente comprensibile. Per riuscire a raggiungere una diagnosi il somministratore può usare tutte le fonti di informazione disponibili arricchendo la diagnosi o chiarendo dubbi. Per questo può utilizzare notizie fornite da altri clinici, osservazioni provenienti da altri membri della famiglia o da amici.
In questo modo, possono essere evitati gli errori di omissione, risposte non date, valutando l’intero spettro psicopatologico a tutto tondo o secondo una prospettiva lifetime.

 

La SCID I: formato di risposte

Come è stato più volte ripetuto, la SCID è formata da domande che si susseguono procedendo in questo modo nella lunga sfera dei disturbi mentali. A ogni domanda segue un formato di risposta così costituito:
+ corrisponde alla presenza del sintomo indagato;
– corrispondente all’assenza del sintomo;
? Notizie non sufficienti per attribuire una risposta.
Il tempo richiesto per la somministrazione è di circa 45-90 minuti, varia a seconda della gravità del soggetto e in base all’esperienza del somministratore.

 

La SCID I: le diverse versioni

Esistono tre versioni per la valutazione dei disturbi di Asse I:

• la SCID-Patient version – SCID-P, per i pazienti ricoverati o per quei casi in cui la diagnosi richiede una valutazione della sintomatologia psicotica;

• la SCID-Outpatient version – SCID-OP, indicata per la valutazione di pazienti ambulatoriali o per situazioni in cui sono necessarie poche domande di screening psicotico;

• la SCID-Nonpatient version – SCID-NP, per la valutazione di soggetti sani, come per i campioni di controllo o sperimentali in uno studio sperimentale.

Esiste, inoltre, una versione per bambini: KID-SCID, costituita da una parte in cui le informazioni sono direttamente apprese dai genitori.

 

La SCID I: versioni esistenti

In seguito alla prima pubblicazione della SCID che avviene intorno agli anni ’90 in Italia, seguono diverse versioni che si legano alle edizioni del DSM.
Attualmente, è ancora molto diffusa, almeno in Italia, la SCID I legata al DSM IV TR poiché la nuova versione, SCID 5, è ancora in fase di elaborazione, e quindi non pubblicata. In ogni caso con l’avvento del DSM 5 e le inclusioni nello stesso di nuove patologie è stata elaborata una nuova versione di SCID. Anche questa versione è usata per effettuare diagnosi in maniera sistematica sia in ambito clinico sia forense. Inoltre, è usata anche in ambito di ricerca, come le precedenti, e per ricavare dati inerenti all’epidemiologia di alcuni disturbi psichiatrici.
Quindi, la SCID-5 è la versione aggiornata del precedente Structured Clinical Interview for DSM-IV.

La SCID-5 è organizzata anch’essa in moduli diagnostici, e valuta i disturbi dell’umore, disturbi psicotici, disturbi da uso di sostanze, disturbi d’ansia, disturbi ossessivo-compulsivi e relativi, disturbi alimentari, disturbi somatici, alcuni disturbi del sonno (per esempio, disturbi di insonnia e ipersonnolenza), disturbi d’esternalizzazione (cioè, disturbo intermittente esplosivo, il disordine del gioco d’azzardo, e disturbo da deficit di attenzione degli adulti), e Trauma e Disturbo post traumatico da Stress. E ‘stata pubblicata in varie forme, tra cui una versione per i medici (SCID-CV) e una versione per gli studi clinici (SCID-CT) oltre alle altre già esistenti per le versioni precedenti.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Prevenzione del cyberbullismo: presentazione di un progetto

Al fine di un uso consapevole delle tecnologie digitali, diventa sempre più necessario promuovere l’educazione ai media, con riferimento alla comprensione critica dei mezzi di comunicazione, e promuovere progetti di prevenzione del cyberbullismo.

di Tiziana Porta

 

Prevenzione del Cyberbullismo: uno sguardo iniziale a dati e caratteristiche

La disponibilità capillare di internet e l’utilizzo crescente di dispositivi connessi alla rete rappresentano per le nuove generazioni, i cosiddetti ‘nativi digitali’, nuovi mezzi per comunicare, relazionarsi con i pari e confrontarsi con il mondo (Mura et al., 2012).

La rete rappresenta un mezzo potente, affascinante e in continua evoluzione; la sua potenza costituisce anche un reale rischio se non si riflette sul suo utilizzo.

Le ricerche indicano che oltre il 90% degli adolescenti in Italia sono utenti di Internet e il 98% di questi dichiara di avere almeno un profilo social network. Spesso i giovanissimi usufruiscono della rete senza alcun controllo da parte degli adulti.

Il cyberbullismo è una forma di disagio relazionale, di prevaricazione e di sopruso perpetrata tramite i nuovi mezzi di comunicazione come le chat, i social, i telefoni cellulari ed il web in generale (Genta et al., 2009). E’ un fenomeno complesso, da poco oggetto di studi  e ricerche.

La fascia di età maggiormente colpita è rappresentata dai ragazzi tra i 12 i 18 anni. Le stime del MIUR indicano come il 31% dei tredicenni (35% se si considerano solo le femmine) dichiara di aver subito almeno una volta attacchi riconducibili al bullismo elettronico.

Il termine cyberbullismo deriva dal concetto tradizionale di bullismo (Sposini, 2014), dove un soggetto – o un gruppo – prevarica la vittima attraverso comportamenti fisici o attacchi verbali aggressivi che condizionano la sua vita privata e sociale. Spesso la vittima è considerata ‘diversa’, solitamente per aspetto estetico, timidezza, orientamento sessuale e così via.

Le caratteristiche specifiche del cyberbullismo sono (Mura et al., 2012):

  • Anonimato: il prevaricatore può nascondersi dietro uno schermo, umiliare la vittima e divulgare materiale offensivo ad un vasto pubblico e in modo anonimo (disinibizione);
  • Pervasività: la vittima è perennemente a rischio di bullismo vista la presenza di dispositivi sempre connessi (anywhere, anytime);
  • Diffusione – ampiezza di portata:  una volta che un messaggio o una foto sono stati inviati via email o chat o postata su un sito, è molto difficile eliminarne traccia definitivamente (può essere già stato salvato da altri utenti). Basta un click, perché il materiale venga diffuso.

Le conseguenze psicologiche per le vittime di questi attacchi possono essere estremamente dolorose, con effetti anche gravi sull’autostima, sulle capacità socio-affettive, sul senso di autoefficacia, sull’identità personale. Possono riscontrarsi anche difficoltà scolastiche, ansia, depressione e, nei casi più estremi, idee suicidarie (Sposini, 2014).

Al fine di un uso consapevole delle tecnologie digitali, diventa sempre più necessario promuovere l’educazione ai media, con riferimento alla comprensione critica dei mezzi di comunicazione, e promuovere progetti di prevenzione del cyberbullismo.

 

Prevenzione del Cyberbullismo: il progetto nella Scuola A. Frank

Ideato e condotto da chi scrive, il progetto di prevenzione del cyberbullismo è stato voluto e finanziato dal Rotary Club di Meda e delle Brughiere per sensibilizzare i giovanissimi sui rischi del fenomeno. Sono state coinvolte quattro classi della Scuola Secondaria di primo grado A. Frank di Meda per un totale di 80 alunni, di età compresa tra i 12 e i 14 anni.

Sono stati effettuati 6 incontri per ogni classe ed è stato scelto il contesto classe per favorire un clima di maggior complicità e facilitare una metodologia educativa di scambio alla pari – peer education.

Il progetto di prevenzione del cyberbullismo qui descritto nasce con l’intento di informare circa il fenomeno del bullismo elettronico ed educare i giovanissimi ad un uso consapevole della tecnologia in un’ottica di prevenzione.

Obiettivo supplementare è stato potenziare le abilità sociali dei partecipanti, promuovere la cooperazione e la mediazione del conflitto tra pari.

I partecipanti hanno inizialmente compilato un breve questionario anonimo sull’uso della rete. I dati confermano l’utilizzo massiccio della rete e dei social (soprattutto Instagram, Whatsapp, Youtube, Facebook e Snapchat) e lo scarso e saltuario controllo genitoriale sull’attività on line dei figli.

Gli incontri sono stati progettati per fornire le informazioni necessarie per conoscere e sensibilizzare i ragazzi circa il fenomeno e le sue complesse sfaccettature. Si è dato ampio spazio al tema del sexting, che rappresenta il fenomeno più pericoloso e sottovalutato dai ragazzi: le statistiche dicono che in Italia 1 adolescente su 4 ha fatto sexting, cioè ha inviato testi, immagini e video a sfondo sessuale.

Sono stati proposti momenti di riflessione personale e di piccolo gruppo, favorendo un clima di reale scambio e confronto tra i giovanissimi.

Con l’utilizzo di role-playing e di video, si è voluto incrementare la consapevolezza dei ragazzi circa le emozioni in gioco tra i diversi attori sociali coinvolti in un episodio di cyberbullismo con l’obiettivo di favorire le capacità empatiche e metacognitive (mettersi nei panni dell’altro).

Alla fine dei sei incontri del progetto di prevenzione del cyberbullismo è stato consegnato ai ragazzi un vademecum per un uso consapevole della rete, con regole per una navigazione sicura e indicazioni pratiche in caso di bullismo elettronico.

Sono inoltre in previsione degli incontri informativi per i genitori e gli insegnanti, che rappresentano le figure principali a cui i ragazzi possono rivolgersi in caso di difficoltà.

 

 

 

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