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Intervista ad Anna Porta, psicoterapeuta sistemico-relazionale che lavora presso l’Hospice della LILT di Biella

Lavorando in Hospice lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe

 

Anna Porta è psicologa e psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia sistemico-relazionale presso l’EIST di Milano. Dal 2005 lavora presso l’Hospice della LILT di Biella e dal 2008 è parte del Gruppo “Geode”, gruppo di ricerca in cure palliative. Dal 2014 al 2019 ha fatto parte di gruppi di ricerca monoprofessionali per la SICP (Società Italiana di Cure Palliative), finalizzati alla individuazione degli interventi di supporto alle équipe in cure palliative e alla ricerca delle buone pratiche psicologiche in cure palliative. Dal 2019 è coordinatrice del gruppo di lavoro sulle cure palliative presso l’Ordine Psicologi del Piemonte in collaborazione e la SICP Piemonte.

Edoardo Perini (E): Anna, lavori in HOSPICE da 15 anni, abbinando alla clinica anche la ricerca, che svolgi in collaborazione con altri colleghi sistemici, che, come te, si sono formati all’EIST, di Milano.

Anna Porta (A): E’ dal 2008 che io e Federica Azzetta ci occupiamo di ricerca sulla psicologia nelle cure palliative. Questa attività ha avuto origine dall’iniziativa di Federica di connettere i colleghi che lavoravano nel settore, dando vita al gruppo “Geode”. La figura dello psicologo delle cure palliative non era ben delineata, per questo ci interessammo ad approfondire il suo operato in un contesto multidisciplinare dove il sistema è la base di partenza. Un sistema che incontra altri sistemi, ed essendo noi sistemiche non potevamo che rimanere affascinate.

E: Ci puoi descrivere cos’è un Hospice e quali sono le mansioni e le specificità degli psicologi che lavorano in questa realtà?

A: L’Hospice è una struttura residenziale per malati terminali. Nasce in Inghilterra ed ha una storia abbastanza antica ma anche profondamente recente: inizialmente indirizzato alle patologie oncologiche, l’Hospice è andato progressivamente comprendendo un’altra patologia che all’epoca portava a terminalità, ovvero l’AIDS, per poi successivamente aprirsi alla cronicità complessa, nella quale rientrano malattie cardio-vascolari, malattie nefrologiche, le demenze, ecc.. Dunque lo spettro si sta ampliando.

L’équipe di cure palliative ha trovato una sua precisa definizione e composizione nella Legge 38 del 2010: essa comprende il medico, l’infermiere, l’operatore socio-sanitario e lo psicologo. Possono poi essere presenti anche un fisioterapista o altre figure a seconda delle necessità della singola situazione, in quanto l’obiettivo delle cure palliative è andare incontro al paziente e alle sue esigenze per migliorarne la qualità di vita.

Lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe (mantenendo con essa uno strettissimo coordinamento). Ciò perché la Legge 38 stabilisce che al centro dell’intervento ci sia non solo il paziente ma anche la famiglia.

E: Veniamo ora alle domande più specifiche che riguardano questo periodo, nel quale la pandemia del coronavirus coinvolge tutte le realtà. Quale eco ritieni che stia avendo il coronavirus presso la struttura nella quale lavori?

A: Vi sono stati sicuramente dei cambiamenti significativi, anche se l’Hospice non è dedicato ai pazienti affetti da coronavirus, in quanto le strutture preposte al trattamento di questa patologia hanno caratteristiche specifiche e richiedono presidi sanitari che l’Hospice non può offrire.

Per entrare presso la nostra struttura in questo momento, gli ospiti devono aver prima fatto il tampone, tuttavia sappiamo dagli organi di stampa che questo strumento non possiede una validità del 100%; ciò comporta che i nostri ospiti possano vivere il timore di contrarre il coronavirus, oltre alla patologia dalla quale sono già affetti. È risaputo che gli individui con una precedente patologia sono più a rischio di altri nel caso contraggano il virus, quindi è comprensibile che gli ospiti possano preoccuparsi: pur essendo in una fase terminale, essi sperano di potersi godere appieno i giorni della propria vita fino alla fine.

Va detto poi che ci sono alcuni pazienti che non desiderano ricevere informazioni relative al proprio stato di salute e delegano ad altri la gestione di queste informazioni; per questi pazienti la consapevolezza dei rischi connessi al coronavirus è diventata un’ulteriore fonte di angoscia e preoccupazione, la quale coinvolge naturalmente anche i familiari. A proposito di quest’ultimi, l’Hospice è da sempre una struttura aperta, senza orari o vincoli specifici, nella quale i parenti possono accedere liberamente per poter accompagnare i loro cari nel percorso di terminalità. Naturalmente, in presenza del coronavirus, per tutelare i malati, i familiari e gli stessi operatori, abbiamo dovuto adeguarci alle vigenti norme di sicurezza, cambiando il nostro modus operandi: ciò nonostante, abbiamo mantenuto la possibilità dell’accesso di un familiare al giorno per ogni ospite, permettendo di restare accanto al proprio caro per tutto il tempo desiderato, in modo da potergli stare vicino nei suoi ultimi momenti di vita. Sentiamo di tante storie di malati di coronavirus che muoiono in solitudine e l’assenza di contatto è straziante, sia per chi viene a mancare, che non può salutare i propri cari, sia per i familiari, che in questo modo non possono essere accompagnati in un percorso di elaborazione del tempo del lutto nella sua fase anticipatoria. Ciò a livello prognostico non è positivo.

E: Un primo elemento che emerge dalle tue riflessioni riguarda l’importanza per l’Hospice di mantenere una propria flessibilità anche in una situazione come questa. Ora vorrei chiederti come stanno vivendo questa situazione gli operatori, i medici e gli infermieri che collaborano con te. Come stanno affrontando il paradosso di essere curanti ma allo stesso tempo anche potenziali veicoli del virus?

A: Con consapevolezza: gli operatori non soltanto possono portare il virus, ma possono anche prenderlo. Il senso di responsabilità e il grande spirito di gruppo dimostrato dai miei colleghi dell’Hospice della LILT di Biella, hanno permesso di non cambiare la qualità del servizio, anche se non è semplice: noi abbiamo solo delle protezioni base previste dalle linee guida, con tutti i rischi annessi e connessi.

Anche la mancanza di contatto fisico può tramutarsi in un problema. Quando la parola viene meno, la comunicazione con i familiari passa attraverso una carezza, una mano appoggiata sulla spalla: la pandemia fa venire a mancare questa comunicazione naturale, spontanea e fondamentale, tanto che a volte ci si trova a doversi frenare per non ritrovarsi in un abbraccio.

Un elogio va ai nostri infermieri, che in alcuni casi non frequentano neanche i familiari per ridurre i rischi di contagio. Può essere un’esperienza complicata e la paura è comune a tutti in questo periodo, nonostante il desiderio di mantenere un servizio di alta qualità. Come sempre, sono molto importanti i momenti di équipe nei quali si può parlare delle proprie paure: in questi frangenti si comprende appieno il senso della presenza dello psicologo all’interno della squadra. La morte è un’esperienza difficile e a volte è importante rielaborare i vissuti insieme a qualcuno per trovare “la via giusta”.

E: Veniamo ora alla parte relativa alla clinica psicologica. Come ti stai occupando dei pazienti terminali e dei loro familiari in questa situazione? E come stanno reagendo i pazienti e le loro famiglie al coronavirus?

A: Io non ho cambiato più di tanto il mio modo di lavorare, a parte il fatto che uso la mascherina. Non ho infatti alterato la mia presenza in struttura, in accordo con il presidente della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori di Biella, l’ente che si occupa dell’Hospice di Biella.

Ciò che faccio è valutare insieme all’equipe, al paziente e ai familiari i bisogni rilevati. Facendo un esempio, stamattina quando sono arrivata in struttura, la dottoressa mi ha riferito di una paziente che voleva parlarmi perché aveva chiesto di tornare a casa, anche se era molto titubante ed ambivalente: abbiamo lavorato insieme sul significato di quanto mi raccontava rispetto al suo desiderio di tornare a casa. Mi ha descritto, associati alla casa nella quale voleva tornare, bellissimi ricordi della sua giovinezza, momenti molto vitali ma anche ricordi del marito con cui ha vissuto per molti anni e che è venuto a mancare. Abbiamo parlato di quanto difficile fosse fare i conti con l’assenza del marito, perché stare in Hospice le permetteva di non prenderne contatto con la quotidianità e di quanto invece l’ipotesi di tornare a casa muovesse in lei tutto quel dolore con cui non aveva ancora fatto i conti; abbiamo quindi ragionato insieme e le ho restituito dei significati relativi proprio al tema delle cure palliative e alla terminalità della vita.

Noi psicologi e psicoterapeuti spesso abbiamo a che fare con situazioni stagnanti, dove riuscire a smuovere dei cambiamenti può essere complicato; in una situazione di terminalità i cambiamenti sono invece inevitabili, quindi il compito è quello di accompagnare le persone nel cambiamento, evitando che si creino delle empasse, e aiutando le persone ad affrontare degli irrisolti.

E: Ciò che dici coglie secondo me un punto molto significativo: la realtà totalizzante del coronavirus sembra entrare relativamente nelle storie di vita dei pazienti che attraversano un momento così cruciale come quello di cui ci parli. La loro storia, che affrontano in modo così vitale, supera le difficoltà contingenti con cui tutti noi viviamo l’attuale quotidianità.

A: Certo. In queste situazioni la malattia è venuta prima ed è quella che porta alla morte, mentre per quanto riguarda il coronavirus potrebbe essere qualcosa in più che si va a declinare all’interno della storia di ognuno, assumendo forme differenti e significati differenti, dipendenti dalla propria storia di vita.

E: Passerei all’ultima domanda: rispetto alla tua esperienza professionale con il tema della morte, cosa ti sentiresti di suggerire agli operatori, penso ad esempio a coloro che lavorano attualmente nei reparti di pneumologia? Che suggerimenti daresti a chi si trova a fare i conti con la morte in questo periodo?

A: Mi sentirei superba a dare suggerimenti a loro, tuttavia è vero che coloro che lavorano in reparti in cui si fanno terapie attive spesso non hanno a che fare con la cura palliativa: il coronavirus, così come tutte le altre malattie che possono portare alla morte, suscita negli operatori un grande senso di impotenza rispetto alla malattia. Io sono una fervente sostenitrice del fatto che il modello formativo delle cure palliative debba diventare paradigmatico in tutti i reparti che hanno in cura dei pazienti, non necessariamente terminali. In particolare per l’operatore avere una competenza dal punto di vista della comunicazione, punto cardine della legge 219/17, e in particolar maniera della “comunicazione delle cattive notizie” è protettivo: la comunicazione rende l’operatore più “forte” e una formazione nell’ambito delle cure palliative aumenta la consapevolezza del clinico circa il fatto che la persona che si ha di fronte può morire, e che questo non è indice di incompetenza, bensì del normale fluire della vita. In diversi studi studi specifici a riguardo, è percezione diffusa tra i tecnici, emerge che il tasso di burnout tra gli operatori delle cure palliative è sensibilmente inferiore rispetto a quello degli operatori che lavorano in altri reparti. Riflettendo sulle differenze che ci sono con le altre équipe che operano in situazioni pur sempre complicate, due sono le differenze che emergono: una formazione specifica degli operatori sulle tematiche delle cure palliative e la presenza di uno psicologo integrato nell’équipe e che ne conosce bene le dinamiche.

Un imperdonabile vulnus delle università è la mancanza di una formazione specifica rispetto alla comunicazione e alle tematiche specifiche delle cure palliative. La nostra società, la SICP, in collaborazione con la FCP (Federazione Cure Palliative) sta portando avanti una battaglia importante legata anche alla Legge 38 e alle sue evoluzioni, per fare in modo che esistano all’interno delle università dei moduli formativi sulle cure palliative, nello specifico in tutte le facoltà che formano alle professioni di aiuto, quindi psicologia, medicina, scienze infermieristiche etc…. la legge Gelli ha dato un ulteriore impulso positivo in questo senso.

 

La nostra personalità influenza il nostro atteggiamento verso l’ambiente?

Sebbene il COVID-19 in questo momento sia al centro della nostra attenzione, il cambiamento climatico resta una delle più grandi minacce per l’umanità.

 

Svariate ricerche hanno indagato come coinvolgere le persone affinché si impegnino nella lotta al cambiamento climatico. Una meta-analisi, pubblicata su Psychological Science, ha rivelato che particolari tratti della personalità si associano a più o meno atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

Lo scopo di questo lavoro è quello di rinnovare le campagne a favore dell’ambiente con il fine di sensibilizzare le persone che solitamente fanno fatica ad attuare un cambiamento comportamentale a favore dell’ambiente. Studiare i tratti di personalità risulta quindi imperativo per comprendere il motivo per cui certi individui sono resistenti al cambiamento (Soutter & Mottus, 2020).

Alistair Raymond Bryce Soutter dell’Università di Edimburgo ha analizzato i dati di 38 articoli, tra cui 44.993 partecipanti provenienti da 19 paesi di quattro continenti. Tutti gli articoli presi in esame utilizzavano un test di personalità, nello specifico il Big Five (estroversione, nevroticismo, gradevolezza, coscienziosità e apertura).

Negli articoli considerati per la meta-analisi, oltre che ad utilizzare il test di personalità venivano anche utilizzate una serie di scale per misurare gli atteggiamenti e i comportamenti pro-ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

Dalla analisi dei dati, è stato dimostrato che il tratto di personalità ‘’apertura all’esperienza’’ mostrava la più forte associazione con atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali. Secondo i ricercatori, questo dato ha un razionale, cioè le persone più aperte tendono ad essere più intelligenti e meglio informate, e quindi possono avere una maggiore conoscenza delle conseguenze delle azioni umane sull’ambiente, che a loro volta motiva il loro ambientalismo. Le persone molto aperte sono anche più disponibili ad adottare nuove idee, quindi potrebbero avere maggiori probabilità di acquistare un’auto elettrica, o installare pannelli solari.

Un altro tratto della personalità altrettanto associato all’ambientalismo è l’onestà-umiltà che sarebbe la tendenza a cooperare e non a sfruttare gli altri, sembrerebbe quindi che individui con questa caratteristica personologica potrebbero avere una naturale sensibilità verso l’ambiente.

Anche i tratti gradevolezza e coscienziosità risultano associati in modo significativo ai comportamenti pro-ambientali, tuttavia in misura minore (Soutter & Mottus, 2020).

Un’interessante considerazione emersa da questa ricerca è che le persone che sono spinte a seguire le norme sociali possono in alcuni casi essere scoraggiate a mettere in atto comportamenti pro-ambientali. Ad esempio, un obiettivo sociale spesso desiderabile è riuscire a viaggiare o possedere una grande casa. Tuttavia, entrambi questi comportamenti non sono spesso rispettosi verso l’ambiente (Soutter & Mottus, 2020).

I risultati di questa meta-analisi, potrebbero risultare utili per progettare interventi più efficaci, atti a sensibilizzare le persone insensibili verso il cambiamento climatico.

Una strategia efficacie sembra essere quella di far passare messaggi che enfatizzano i guadagni personali, ad esempio i risparmi sui costi dell’utilizzo dell’elettricità piuttosto che della benzina (nel caso delle automobili). Tuttavia quando si affrontano queste tematiche, oltre alla personalità dell’individuo, è necessario tenere conto di età, cultura, esperienze dell’infanzia con la natura, ideologia politica, società in cui si vive ecc, tutte queste variabili sono infatti associate agli atteggiamenti e ai comportamenti ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

 

Un’analisi in chiave psicoanalitica di Berlino de La Casa de Papel

La diagnosi di Berlino, uno dei protagonisti de La Casa di Carta, potrebbe essere a tutti gli effetti quella di un erotomane, un soggetto nel quale l’amore è patologizzato, incastrato nella certezza di essere amato e quindi impossibilitato ad amare.

ATTENZIONE! L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

 

La Casa di Carta è una serie tv di successo di produzione spagnola, distribuita da Netflix, giunta alla quarta stagione e in procinto di proseguire con quinta e sesta. Nella sua assurdità dei fatti di rapine al limite dell’immaginabile, ha generato relazioni particolari e personaggi ben caratterizzati, facendo affezionare il pubblico puntata dopo puntata. Berlino è uno dei personaggi principali, che un episodio si ama e quello dopo si odia, ma che alla fine si è obbligati ad amare.

Berlino, la morte non è un limite

Berlino è un badass, un personaggio determinato, un leader autoritario a tratti anche carismatico, che viene a mancare al concludersi della prima rapina cioè della seconda stagione ma che sopravvive sullo schermo grazie a continui flashback del Professore.

Il personaggio di Berlino fin dalla prima serie è però già condannato a morte a causa di una malattia degenerativa e questo è uno dei primi elementi che rivela il suo rapporto con la vita ma soprattutto con la morte.

Andrés de Fonollosa, questo il suo vero nome all’interno della serie, appare come uno psicotico, un soggetto che non può desiderare, può solo godere, senza così tollerare i limiti e le castrazioni che la dinamica del desiderio implica (Freud, 1989; Lacan, 1974). La consapevolezza della morte incombente è il limite ultimo che non viene simbolizzato, dolore e paura divengono oggetto del meccanismo che contraddistingue la struttura psicotica, la forclusione (Recalcati, 2012). Angoscia e sofferenza non vengono metaforizzate, vengono annullate e non rimosse, diventando l’ennesima ed ultima occasione per godersela fino alla fine.

Tutti dobbiamo morire. È a questo che brindo: al fatto che siamo vivi. E al fatto che il piano funziona che è una meraviglia. Alla vita!

Ma verso quale deriva psicotica potrebbe tendere Berlino?

Andrés: o lo ami o lo ami

La diagnosi di Berlino potrebbe essere a tutti gli effetti quella di un erotomane, un soggetto nel quale l’amore è patologizzato, incastrato nella certezza di essere amato e quindi impossibilitato ad amare. Le caratteristiche del delirio erotico sono definite da Esquirol come: la certezza di essere amati, comportamenti affettivi paradossali e contraddittori e una sostenuta libertà sentimentale.

Freud (1989) successivamente intende l’erotomania all’interno delle psicosi e Lacan (1974) poi specifica che la certezza di questo folle amore ricevuto dall’Altro è il delirio psicotico nell’erotomania, cioè l’essere certi di essere amati e quindi poi agire senza possibilità di simbolizzare la mancanza dell’Altro e, di conseguenza, amarlo.

Berlino svela molte di queste caratteristiche nell’arco delle quattro stagioni.

Il delirio erotico più plateale di Berlino si svela nei confronti di Ariadna, il suo ostaggio che per paura nei suoi confronti propone e acconsente dei favori sessuali. Il favore sessuale va così ad infiammare, senza poi più possibilità di spegnimento, la convinzione di Berlino che lei sia effettivamente innamorata di lui e che il sesso non sia solo una via per garantirsi più possibilità di sopravvivenza. Berlino quindi si convince che a rapina conclusa si sposerà con Ariadna, confermando la sua assoluta prospettiva egoica, cioè che l’importante sia il suo godimento fino alla fine.

Berlino dimostra però comportamenti anche contraddittori. Nonostante la sua vita sia dedita all’essere riconosciuto e all’essere amato, è estremamente misogino, irrispettoso nei confronti delle donne, proiezione della dolce paranoia di essere amato da chi vuole lui, agendo questa coazione a ripetere (Freud, 1920) contradditoria con la dichiarazione di aver alle spalle ben quattro matrimoni.

Le donne ti garantiscono il sesso perché sono programmate per irretirti e farsi fecondare, poi non esisti più e lo capisci durante il parto

Il sacrificio egoistico

La diagnosi di Berlino non è però limitata solo a quella di una struttura psicotica, ma come è definito anche dalla sua cartella clinica svelata dalla polizia nella prima stagione, possiede una personalità narcisistica (McWilliams, 2012), è maniaco di grandezza, mancante di empatia e ha un imponente senso dell’onore. Dipendenza dalla propria immagine, che lo obbliga alla costante ricerca di riconoscimento, accettazione, apprezzamento e rispetto.

Per Andrés di fatti la ferita più sofferta durante la rapina è la diffamazione pubblica, subita da una falsa dichiarazione della polizia attraverso i media, di essere uno sfruttatore di prostitute e ragazze minorenni. L’essere riconosciuto e apprezzato è anche evidente su come si mostri un cultore dell’estetica con una particolare ricercatezza nel vestire e un distinto savoir faire che lo eleva nel gruppo a intellettuale dal buon gusto.

Ma l’atto psicotico erotico più eclatante e che ben si sovrappone al narcisismo di Berlino coincide con il suo sacrificio finale. Berlino, ostruendo l’irruzione della polizia con la propria vita e permettendo ai suoi compagni di scappare, compie un suicidio narcisitico (Kernberg, 2004) dalla connotazione eroica con cui celebra un debito d’amore eterno che la banda, ma anche noi spettatori, avremo sempre nei suoi confronti.

 

L’anosognosia e la malattia di Alzheimer: qual è il legame?

L’anosognosia è stata da sempre riconosciuta come uno dei sintomi tipici della malattia di Alzheimer. Recentemente è anche considerata un indicatore dell’evoluzione della demenza.

 

I pazienti non consapevoli dei propri limiti tendono a sopravvalutare le proprie capacità e creano maggiori difficoltà a chi deve assisterli e monitorali.

La mancanza di consapevolezza dei propri deficit cognitivi è molto comune nelle persone con demenza. L’anosognosia riguarda circa l’81% dei malati di Alzheimer conclamato e fino al 60% delle persone con lieve declino cognitivo, che potrebbe rappresentare il primo stadio della malattia. Le conseguenze di questa inconsapevolezza si riflettono non solo sulla persona malata, ma anche sui suoi familiari e sui caregivers che cercano di aiutare qualcuno che, sostanzialmente, non riconosce di avere un problema e rifiuta quindi di essere aiutato.

L’anosognosia

L’anosognosia è un fenomeno descritto da Babinski e generato da una lesione all’emisfero cerebrale destro. Il termine deriva infatti dal greco e sta a significare che il paziente non è in grado di accorgersi di avere un deficit fisico o mentale.

Il paziente anosognosico è incapace di riconoscere e di riferire il suo stato di malattia. Manifesta, invece, la convinzione di possedere ancora le capacità che aveva prima del danno neurologico. Se messo a confronto con i suoi deficit, fornisce spiegazioni incoerenti e si perde in confabulazioni.

La malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa, progressiva e irreversibile che porta ad una perdita delle funzioni cognitive a cominciare dalla memoria. Il processo patologico inizia molto prima delle manifestazioni dei sintomi. Caratteristica tipica di questa malattia è la presenza delle placche senili, costituite da depositi di beta-amiloide extra-cellulare, e la presenza di grovigli neurofibrillari intracellulari. Lo svilupparsi di placche senili porta alla perdita di sinapsi e neuroni, che si traduce in un’atrofia grossolana delle zone cerebrali colpite, in genere a partire dal lobo temporale.

La relazione tra anosognosia e malattia di Alzheimer

L’anosognosia riguardo alla compromissione della memoria è un fenomeno storicamente noto nella malattia di Alzheimer. Recentemente l’associazione tra anosognosia e Alzheimer è stata studiata utilizzando diverse metodologie: cognitive, psicologiche e di neuroimaging.

Una delle ipotesi che le ricerche hanno provato a verificare è se la mancata consapevolezza per i disturbi della memoria si associ ad una maggiore rapidità del declino cognitivo e quindi ad un aumentato rischio di comparsa di demenza.

Nel 2018 Joseph Therriault ha guidato una studio basato sui dati raccolti dall’Alzheimer Disease Neuroimagining Initiative (Adni), un centro di ricerca globale a cui partecipano pazienti che accettano di consegnare le loro valutazioni cliniche e gli esami di immaginig. I risultati della ricerca si possono così sintetizzare: coloro che presentano anosognosia per i disturbi della memoria, hanno una funzione metabolica cerebrale compromessa e più alti livelli di depositi di beta-amiloide rispetto a chi ha ancora consapevolezza del proprio deficit. La disfunzione metabolica cerebrale si manifesta nelle aree tipicamente colpite nell’Alzheimer.

Hanseeuw Bj et al, in uno studio pubblicato nel 2019 su Annals of Neurology, hanno analizzato il legame tra l’alterazione nella consapevolezza delle capacità di memoria e la beta-amiloide. Gli autori hanno stratificato 468 pazienti con lieve deficit cognitivo di tipo amnesico, in gruppi con e senza consapevolezza del loro danno. Hanno valutato così l’associazione tra lo stato di autocoscienza e il carico di beta- amiloide, nonché la relazione tra questo stato e il metabolismo cerebrale di glucosio basale e dopo 24 mesi di follow-up. I risultati della ricerca hanno confermato un legame del carico di beta-amiloide e la riduzione progressiva dell’autocoscienza dei deficit della memoria. L’anosognosia era presente nei pazienti tre anni prima della diagnosi di demenza.

In conclusione l’anosognosia, in pazienti con iniziale declino cognitivo, predice l’imminente riduzione del metabolismo nelle regioni cerebrali coinvolte nell’Alzheimer ed è un indicatore della successiva evoluzione della demenza.

L’anosognosia nella gestione del paziente con Alzheimer

L’anosognosia nell’Alzheimer, oltre ad essere rilevante nell’ambito clinico lo è in quello assistenziale. Il fatto che i pazienti non siano consapevoli dei loro deficit, rende più difficile coinvolgerli nelle attività necessarie per rallentare il decadimento cognitivo. Inoltre, la mancata coscienza dei propri limiti, fa sì che le persone con demenza possano mettere a rischio la propria vita e quella altrui. Chi si occupa di questi pazienti, oltre a far fronte al carico assistenziale, deve vincere le resistenze di chi, non riconoscendosi malato, rifiuta l’aiuto. Nei malati di Alzheimer comportamenti agitati e aggressivi possono essere innescati da relazioni interpersonali non serene che s’instaurano tra i pazienti e i caregivers. Se chi assiste un paziente anosognosico sottolinea i suoi fallimenti, la persona malata potrebbe sentirsi criticata irragionevolmente. In queste circostanze, a causa del declino cognitivo e della scarsa capacità nel controllo emotivo, il paziente potrebbe essere turbato e ricorrere all’aggressione fisica. Per prevenire o ridurre l’agitazione e l’aggressività, i caregivers debbono riuscire a capire come si sentono i pazienti e a percepire i deficit dalla loro prospettiva. Pertanto, la valutazione dell’anosognosia è un requisito essenziale per una cura efficace.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del quinto incontro “Sono in psicoterapia: ho bisogno di farmaci? “

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del quinto incontro con il Dott. Filippo Turchi.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del quinto incontro è stato il Dott. Flippo Turchi, il quale ha affrontato l’argomento “Sono in psicoterapia: ho bisogno di farmaci? “.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

La reazione genitoriale alla diagnosi patologica e la sua influenza nell’attaccamento del bambino

Sono stati condotti studi specifici volti a comparare l’effetto della diagnosi infantile di due malattie -la paralisi cerebrale e l’epilessia- sulla natura dell’accudimento genitoriale succedaneo alla diagnosi.

 

La malattia è un viaggio nell’ignoto, nello sconosciuto, è l’abbandono di una dimensione di sicurezza per approdare in una realtà colma di dubbi e timori, che molto spesso si tramutano in esperienze di dolore e solitudine. Ma accettare che tutto ciò debba accadere al proprio bambino dissesta l’omeostasi emotiva del genitore, costringendolo a confrontarsi con una realtà innegabile quanto inattesa: di colpo si spezzano le aspettative positive e appaganti che il genitore tende a proiettare sul figlio, si interrompono i sogni di positività che per lui si ipotizzavano, così come viene reciso il senso di esistenza che in lui i genitori credevano di poter proiettare.

L’immagine del bambino nella mente si trasforma. La sua malattia finisce col perturbare l’equilibrio dell’intera famiglia, che, nel tentativo di mantenere l’omeostasi si sforza di adattarsi alla malattia attraverso un processo emotivo che implica l’attraversamento dei seguenti stadi (Doka, 2003): fase di shock, subito dopo la diagnosi, in cui si verifica un’angoscia paralizzante che blocca i meccanismi di difesa, unita ad uno stato confusionale e di disorientamento che paralizza qualsiasi reazione funzionale; fase di negazione, in cui l’accaduto comincia a venir realizzato, e si cercano possibili soluzioni volte a mitigare il dolore o a trovare alternative come la ricerca di altre diagnosi e il consulto nuovi medici; fase di depressione, in cui a dominare sono sentimenti di perdita e disperazione, il flusso temporale è immobilizzato così come ogni possibile reazione attiva, i genitori avvertono che tutto è perduto, e iniziano processi di colpevolizzazione auto o etero diretta; fase di rielaborazione, in cui prende forma la modalità relazionale che intercorre tra paziente e famiglia, declinabile o in un atteggiamento iperprotettivo ed eccessivamente coinvolto che comporta livelli maggiori di ansia e apprensione da parte dei genitori, o in un opposto atteggiamento distanziante e negazionista, che vede la delegazione della cura del bambino a soggetti esterni alla famiglia (negazione dell’evento traumatico), o ancora in un comportamento sublimante, che vede la possibilità di pensare alla malattia come ad un’esperienza di crescita interiore; infine la fase di accettazione, che implica la morte del figlio idealizzato e la presa di coscienza di realtà su di lui e sulla sua situazione oggettiva; si tratta della reazione più adattiva, che vede i genitori impegnati a fronteggiare l’evento malattia abbandonando ogni investimento narcisistico sul bambino, al fine di raggiungere una stabilità emotiva che sia capace di tradursi in comportamenti funzionali.

D’altro canto il bambino si rispecchia nel genitore, che, in qualità di adulto della situazione, deve riuscire a contenere le ansie del piccolo malato per restituirgliele in una modalità più accessibile, più accettabile, meno disintegrante, evitando le difese arcaiche e meno produttive per affrontare consapevolmente le eventuali fasi di regressione che in questa dimensione si verificheranno in tutti i soggetti coinvolti (Bonichini, Tremolada, 2013).

Reaction to diagnosis interview: studi comparativi

Marvin e Pianta hanno ipotizzato l’esistenza di un collegamento tra reazione alla malattia e attaccamento, affermando che un’accettazione funzionale e rielaborativa della diagnosi da parte dei genitori consenta lo sviluppo di emozionalità positive nel contesto familiare, in grado di offrire al bambino sostegno contro l’insorgenza di eventuali disturbi psicopatologici al disagio collegati.

Uno degli strumenti maggiormente utilizzati per l’indagine dell’effetto della malattia sui genitori, subito dopo una diagnosi, è la Reaction to Diagnosis Interview (RDI, Marvin e Pianta, 1996), ideata nella cornice della teoria dell’attaccamento e simile nella metodica alla AAI (Main e Goldwyn, 1985-1998), eccezion fatta per l’impiego di videoregistrazioni che nella AAI non sono previste.

L’obiettivo dello strumento è quello di valutare il grado di rielaborazione del trauma associato all’esperienza di dover allevare un figlio gravemente malato, e di rievocare nello specifico lo stato d’animo e mentale che il genitore ha sperimentato nel momento della ricezione della diagnosi, i cambiamenti intercorsi da quel momento, la ricerca del senso di questa esperienza (Gattinari e Pallini, 2015). Al genitore viene chiesto di ricordare il momento in cui ha scoperto che suo figlio aveva dei problemi di salute in grado di modificare l’intero corso della sua vita, quali riflessioni ha fatto, cosa ha pensato in merito alla natura e alla possibile evoluzione della malattia, se i suoi pensieri hanno subito una modifica da allora. Indici di interpretazione vengono considerati non soltanto i messaggi esplicitati verbalmente dai soggetti, ma anche la comunicazione non verbale, la mimica facciale, le espressioni affettive, il pianto.

Al termine dell’intervista i dati raccolti vengo organizzati all’interno di due categorie, risolta e irrisolta. La prima dimensione indica soggetti che si mostrano in grado di fronteggiare la diagnosi patologica, accettando i rischi e la negatività della stessa in un atteggiamento di coerenza e accettazione che non escluda tuttavia la possibilità della ripresa e della guarigione. Le aspettative del soggetto appaiono realistiche, l’atteggiamento verso il figlio è responsivo e al contempo non limitante della sua libertà: vengono riconosciuti i bisogni del bambino e mantenuti al contempo quelli dell’intera famiglia, in una prospettiva di adattamento omeostatico che consente l’equilibrio e il benessere del nucleo malgrado la patologia. Al contrario i soggetti irrisolti non hanno elaborato il trauma, e considerano la malattia come un vero e proprio lutto, la perdita definitiva dell’immagine del bambino nella mente. Le loro interviste sono caratterizzate da aspettative irrealistiche, ricerca di una diagnosi alternativa, diniego e disperazione. Le emozioni negative paralizzano in una stagnazione rielaborativa il contesto emotivo dell’intera famiglia, che non può evolvere in una dimensione adattativa e incoerente rispetto al trauma. Proprio quest’incoerenza può generare risvolti patologici nella psiche del bambino, causando l’insorgenza di attaccamento disorganizzato e psicopatologie.

Sulla base della intergenerazionalità dei MOI si può ipotizzare che anche il genitore disorganizzato sia a sua volta portatore di un disturbo dell’attaccamento infantile, e che la sopravvenienza della diagnosi patologica comporti la rievocazione di vissuti traumatici mai rielaborati perché mai giunti alla coscienza né rielaborati in una prospettiva funzionale.

Due tipologie patologiche: epilessia e paralisi cerebrale

Validata l’ipotesi di Martin e Pianta, si suppone tuttavia che la tipologia della reazione genitoriale alla malattia del bambino non sia l’unica causa dell’instaurazione di un attaccamento infantile disorganizzato, essendo rilevante, a tal proposito, anche la tipologia della malattia diagnosticata e le sue caratteristiche intrinseche.

Studi sulle reazioni dei genitori alla patologia dei figli sono state praticate per quanto riguarda lo spettro autistico (Oppenheim et al., 2012), la fenilchetonuria (Lord et al. 2008), l’epilessia (Marvin e Pianta, 1996), la paralisi cerebrale (Marvin e Pianta 1996; 1999), il ritardo evolutivo (Barak-Levy e Atzaba- Poria, 2013). In tutti questi casi una risoluzione della diagnosi è risultata positivamente correlata all’insightfullness e alla sicurezza dell’attaccamento ( Oppenheim et al., 2012), ma studi ulteriori hanno consentito di rilevare come le stesse connotazioni delle patologie possano avere un’influenza sulla reazione del genitore e quindi su quella del bambino. Quindi ad una malattia diversa potrebbero correlarsi una reazione genitoriale diversa e un differente stile di attaccamento da parte del bambino, aspetto che dipenderebbe dalle diverse sfide psicologiche e comportamentali richieste dalle varie patologie esistenti.

Sulla base di questa ipotesi sono stati condotti studi specifici volti a comparare l’effetto della diagnosi di due malattie -la paralisi cerebrale e l’epilessia- sulla natura dell’accudimento genitoriale succedaneo alla diagnosi (Martin, Pianta, 1999). Le indagini sono state effettuate mediante la somministrazione di RDI ad un gruppo di genitori di bambini affetti da paralisi cerebrale e ad un gruppo di genitori di bambini epilettici, con risultati di evidente differenziazione: i primi sono apparsi molto più propensi ad un accudimento organizzato e coerente rispetto ai secondi, per quanto la reazione alla diagnosi sia risultata per entrambi di difficile rielaborazione.

L’atteggiamento maggiormente organizzato e meno imprevedibile del primo gruppo sembra dovuto alle conseguenze create nel contesto familiare dall’insorgenza della paralisi cerebrale, e alla diretta presa in carico del figlio conseguente alla diagnosi. Si tratta, nello specifico, di una malattia che colpisce lo sviluppo motorio, linguistico e cognitivo del bambino, rendendolo bisognoso di assistenza nell’espletamento delle normali funzioni vitali, e oggetto di frequenti blocchi e rallentamenti, specie in ambito motorio, durante il percorso evolutivo. Ma si tratta di bambini che, fatta salva tale importante difficoltà, tendono a mostrare una dimensione emotiva e comportamentale piuttosto stabile, prevedibile, senza cambiamenti repentini. Questo consente ai genitori una migliore gestione della malattia e dei disagi ad essa conseguenti, una più agevole regolazione dello stress e una più stabile organizzazione delle attività quotidiane del bambino, che di tale stabilità risente positivamente.

I bambini epilettici tendono invece a condurre un processo evolutivo piuttosto normale, e non necessitano di particolari aiuti esterni, ma al contempo sono soggetti ad attacchi improvvisi, imprevedibili, non gestibili, che disorientano e spiazzano i genitori. Il bambino può subire un attacco epilettico in qualsiasi situazione, senza alcun preavviso, e questa impossibilità di pianificazione e in un certo senso di organizzazione dell’attacco, pone i genitori in una situazione di ansiosa impotenza, costringendoli a vivere nella continua attesa di un nuovo episodio: fatto questo che tende ad impedire una focalizzazione chiara e diretta sulla condizione attuale del bambino (Pianta, Marvin, Morog, 1992; 1999), e a mettere gravemente in discussione la percezione che il caregiver può avere di sé come figura protettiva. Inoltre i bambini epilettici tendono a manifestare disturbi della regolazione, oltre a tremori motori e mancanza di coordinamento, e questo rende la loro gestualità particolarmente imprevedibile, incoerente e scollegata ai loro reali bisogni. Questo non consente ai genitori di identificare attivamente i segnali dell’attivarsi della crisi, né di mostrarsi responsivi all’attivazione del sistema di attaccamento che alla stessa consegue. Chiaro come in queste circostanze possa mostrarsi meno agevole la conduzione di un accudimento coerente e organizzato da parte dei genitori, e come il bambino, di fronte a tale disorganizzazione e insicurezza, possa rispondere con analoghi stati d’animo.

In questo frangente è stato dunque riscontrato che l’elaborazione della condizione della malattia del bambino da parte del genitore, e dunque la reazione alla diagnosi, è maggiormente correlata alla sicurezza che non all’organizzazione dell’attaccamento, aspetto nel quale la prevedibilità e la possibilità di gestione della malattia sembrano giocare un ruolo decisivo.

In conclusione, al termine degli studi svolti sull’argomento, è emersa la chiara presenza di un legame generale tra risoluzione di un evento traumatico (malattia del bambino) e sviluppo di una modalità di attaccamento organizzata, fattore che può essere ulteriormente collegato alla natura dell’attaccamento del genitore alle proprie figure genitoriali e alle caratteristiche intrinseche della malattia oggetto della diagnosi: questo apre alla possibilità di intendere in modo nuovo il rispettivo valore che la risoluzione di eventi passati e presenti gioca nello sviluppo dell’attaccamento, condizionandolo fortemente.

 

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico, di Mardi J. Horowitz – Recensione del libro

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico di Mardi J. Horowitz è una riedizione aggiornata del testo del 1997. Il razionale su cui si fonda l’opera è che la pianificazione del trattamento deve adattarsi al paziente e non il contrario.

 

Il prof. Horowitz insegna psichiatria all’Università della California, San Francisco, UCSF. Autore di numerosi libri e pubblicazioni, ha contribuito all’aggiornamento del DSM 5. Nel suo lavoro Horowitz si occupa dell’intersezione tra le esperienze traumatiche, lo sviluppo della personalità e il cambiamento, in ambito psichiatrico e psicoanalitico.

Il razionale su cui si fonda l’opera è che la pianificazione del trattamento deve adattarsi al paziente e non il contrario. È fondamentale, quindi, per il clinico prendersi del tempo per conoscere l’origine del problema della persona che chiede aiuto e capire quale sia il modo migliore di affrontarlo. Una particolare attenzione va, inoltre, riservata a rilevare le idiosincrasie e le resistenze che potrebbero essere di ostacolo al percorso terapeutico.

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico ha un impianto teorico che attinge a differenti orientamenti psicoterapeutici, a partire da quello psicodinamico.

 È diviso in sette sezioni. Si parte dal prendere in esame le 5 fasi dell’analisi configurazionale, termine che Horowitz utilizza per sottolineare la complessità del compito.

L’analisi della complessità è composta dalla raccolta dei “fenomeni” ovvero i sintomi e i problemi portati dal paziente. Si procede, poi, con all’approfondimento degli “Stati della mente” che predispongono i pattern dei fenomeni: modi di pensare e di sentire disadattativi. Il professore descrive, successivamente, gli “Argomenti e ostacoli” ovvero le tematiche caratteristiche degli stati della mente e che sono gestiti dalla persona in esame in modo disfunzionale. Un’altra parte dell’analisi configurazionale di Horowitz è quella che riguarda il “Sé e le relazioni”. In questa sezione dell’indagine vengono descritti i ruoli, le credenze e i copioni relazionali che contribuiscono alla produzione e al mantenimento degli atteggiamenti disfunzionali e che sono in relazione con il tipo di attaccamento instaurato con il caregiver e i traumi passati. L’ultima parte dell’analisi prevede la pianificazione del lavoro terapeutico e il tipo di tecniche che verrano utilizzate. 

Dopo aver illustrato l’analisi configurazionale dettagliatamente, l’opera approfondisce i diversi aspetti collegati alle varie fasi, come il modo migliore per definire segni, sintomi e problemi, come aggregare in modo ottimale le informazioni o la presentazione degli strumenti terapeutici da usare nella pratica clinica.

Lo scopo dell’opera è aiutare il clinico nella scelta consapevole e programmata dei passi da compiere in una terapia, creando un sistema che consenta di condensare le informazioni e riesaminarle nelle diverse fasi della terapia in maniera schematica. 

Il metodo consiste in uno schema fisso, appunto, che l’autore consiglia di tenere sempre a portata di mano, durante le sedute, per segnare i vari aspetti all’occorrenza.

L’osservazione, la formulazione e le informazioni che abitualmente vengono raccolte nella fase di assessment vengono combinate insieme in modo sintetico. Ne risulta un modello di comprensione della persona bio – psico -sociale. Una volta che la formulazione del caso è conclusa va condivisa e discussa con il paziente. Il modello personalizzato costituirà la guida del percorso di terapia, secondo tre direttive: osservazione, formulazione e azione.

Case Formulation. Pianificare il trattamento psicoterapeutico ha il pregio di offrire un modello facile da seguire durante tutto il trattamento, ma offre anche un approfondimento generale sul funzionamento dei pazienti, gli aspetti di personalità e gli schemi relazionali che possono aiutare il clinico ad individuare velocemente i parametri per una corretta valutazione del caso. 

Inoltre, vengono presentati gli indicatori specifici da osservare in seduta, aspetti come la regolazione emotiva o la qualità della relazione terapeutica, ognuno dei quali deve essere valutato, effettuando un calcolo secondo un punteggio su scala Likert. In questa maniera sarà anche più semplice avere un’idea della complessità del lavoro da organizzare. Per facilitare la comprensione Horowitz affianca quanto enunciato con l’esempio di casi clinici, lungo tutto il corpo dell’opera.

Un’attenzione ulteriore per il lettore viene riservata alla fine del testo, con la presenza di un glossario dei termini utilizzati in Case Formulation – Pianificare il trattamento psicoterapeutico, utile supporto anche per chi non ha una formazione di orientamento psicodinamico.

Che cosa spinge gli utenti ad utilizzare Tinder? Le motivazioni sottostanti potrebbero andare al di là delle nostre aspettative?

Tinder è considerata l’app di incontri più conosciuta da scaricare sul proprio smartphone. Molto spesso Tinder è stata definita come una “sex app” per via della frequenza con la quale gli utenti ricorrono ad essa per avere dei rapporti occasionali

 

Quest’app, con oltre 10 milioni di utenti attivi ogni giorno, permette di creare in modo facile il proprio profilo personale e, dopo aver selezionato le preferenze riguardo il genere, l’età e la geolocalizzazione dei potenziali partners, consente di esprimere un giudizio positivo verso i profili presentati scorrendo verso sinistra “like” o di passare all’utente successivo scorrendo verso destra “pass” e laddove i due utenti mostrino un reciproco interesse si realizza il “match” e la possibilità che i due individui comincino a conoscersi in chat.

Molto spesso Tinder è stato definito come una “sex app” per via della frequenza con la quale gli utenti ricorrono ad essa per avere dei rapporti occasionali (Mitchell et al, 2008). Tuttavia, i motivi che spingono all’utilizzo di un’app di incontri come Tinder potrebbero essere molteplici e non ridursi alla facilità con la quale è possibile ottenere un’esperienza da una notte. Lo studio di Sumter e collaboratori (2017), condotto su un campione di 163 utenti Tinder di età compresa tra i 18 e i 30 anni ha confermato ciò, rilevando come il desiderio di trovare l’amore sia superiore a quello di ottenere dei rapporti occasionali, estendendo il numero delle motivazioni legate al suo utilizzo ed individuando differenze riguardanti il genere e l’età.

Le motivazioni trovate sono risultate essere sei: il voler trovare l’amore, il voler avere rapporti occasionali, la facilità con la quale lo strumento consente di entrare in contatto con gli altri e conoscere persone nuove, la validazione del proprio valore personale, il voler provare il brivido dell’eccitazione, oltre al fatto che è un’app di tendenza tra gli adulti.

Sebbene il volere dei rapporti occasionali non sia la motivazione principale in assoluto tra gli utenti di Tinder, le differenze di genere hanno rilevato una maggior tendenza negli uomini rispetto alle donne ad indicare questa come ragione predominante nella scelta di utilizzo dell’app, in linea con le ricerche secondo le quali gli uomini attribuiscono un grande valore alla gratificazione sessuale e ritengono di poterla perseguire attraverso l’uso dei social media (Baumgartner et al., 2010; Clemens et al., 2015; Tolman et al., 2003).

Per completare i dati a nostra disposizione, risulta dallo studio che le motivazioni possono modificarsi con l’età, conformemente al cambiamento dei propri bisogni individuali con il trascorrere del tempo (Stephure et al, 2009).
In conclusione possiamo dire che, al di là dei limiti di questo studio, i risultati ottenuti permettono di rilevare un quadro complesso rispetto all’utilizzo di Tinder. I dati infatti hanno rilevato che solo una minoranza di coloro che hanno sperimentato un incontro offline, hanno avuto un rapporto occasionale, avvalorando l’ipotesi iniziale dello studio secondo cui questa non sia la motivazione cardine dell’utilizzo dell’app, e portando a riflettere su cosa spinga realmente così tante persone ad iscriversi e a conoscere persone in questo modo.

Trauma, supporto sociale e fantasie omicide: quale relazione?

Nonostante alcuni fattori sembrino rendere più probabile la nascita di un serial killer è fondamentale specificare che il processo è soggetto all’influenza di numerosi fattori, il primo dei quali ad essere determinante è proprio la decisione personale dell’individuo di perseguire i suoi crimini.

 

L’omicidio seriale può essere definito come un atto in cui un individuo uccide almeno tre persone in un ristretto arco temporale (Bartol & Bartol, 2014). Per fantasie omicide, invece, si intendono quei pensieri o l’immaginazione dell’uccisione di qualcuno. La ruminazione di fantasie di questo tipo sembrano alimentare il comportamento seriale, probabilmente attraverso un processo di normalizzazione dell’assassinio stesso (Giannangelo, 2012). Molti famigerati serial killer, come Jeffey Dahmer e Edumund Kamper, vedevano le fantasie omicide come un modo per evadere da un mondo di odio e rifiuto, al punto di abituarsi ad esse per poi giungere ad una vera e propria dipendenza dall’omicidio (Giannangelo, 2012). Lo sviluppo della dipendenza è responsabile di un desiderio costante, al punto da far perdere agli individui la capacità di controllare razionalmente il proprio comportamento, congiunta con una disfunzionale risposta emotiva (American Society of Addiction Medicine, 2011). Questi soggetti possono iniziare, così, ad aumentare sempre di più la gravità e la frequenza degli omicidi fino a commettere omicidi seriali (Arndt, Hietpas, & Kim, 2004).

Numerose sono state le ricerche che hanno evidenziato una relazione tra trauma infantile, fantasie omicide e atti omicidi, tuttavia sono poche quelle che hanno studiato la relazione tra trauma infantile e la presenza di queste fantasie all’interno della popolazione generale. Conoscere le differenze e le analogie tra coloro che semplicemente fantasticano sull’omicidio e coloro che lo hanno agito, può facilitare i professionisti della psiche a rilevare un potenziale comportamento omicida. Ciò a sua volta potrebbe facilitare i medici a intervenire prima che l’individuo passi all’azione.

Il presente studio ha coinvolto 55 soggetti statunitensi, di età superiore ai 18 anni, che hanno sperimentato fantasie omicide almeno una volta durante l’arco della propria vita, a cui è stato richiesto di compilare un questionario online. Quest’ultimo indagava le caratteristiche demografiche, la presenza di fantasie omicide nel corso della vita, la frequenza di tali fantasie, i trigger, i fattori che hanno impedito loro di concretizzarle e, infine, se avevano avuto un’esperienza traumatica prima dei 17 anni.

La ricerca si è proposta di esplorare se la frequenza delle fantasie omicide si associ ad una storia di trauma infantile, se la ricerca di supporto sociale sia necessaria a fronteggiare il trauma infantile e infine, se le fantasie omicide contribuiscono allo sviluppo di un assassino seriale.

Innanzitutto, i risultati hanno rivelato che la gelosia, i sentimenti di vendetta, l’isolamento sociale, la rabbia, la mancanza di controllo e, infine, l’utilizzo di sostanze sono i maggiori responsabili dell’insorgenza delle fantasie omicide. In secondo luogo, fra i fattori che impediscono la messa in atto delle fantasie vi sono: il supporto sociale, meccanismi di coping adattivi, il pensiero rivolto alle possibili conseguenze, credenze relative a ciò che è giusto e sbagliato, sentimenti di colpa, pensare ai propri figli e, infine, vi sono anche ragioni economiche. Inoltre, la ricerca ha evidenziato che gli individui che approvano e supportano fantasie omicide non necessariamente riferiscono storie di trauma infantile, così come coloro che hanno una storia di trauma infantile non sono molto propensi alla ricerca di sostegno sociale. Infine, i risultati hanno evidenziato delle associazioni tra la capacità di elaborare e far fronte alle esperienze traumatiche con l’esperienza di fantasie omicide e con la nascita di un serial killer.

Quando si guarda alle strategie di coping, come ad esempio la rete interpersonale, la ricerca ha mostrato che gli assassini seriali tendono ad isolarsi, riducendo a loro volta la lor capacità di far fronte alle situazioni stressanti o potenzialmente traumatiche (Fox & Levin, 2005), facendoli precipitare in fantasie più violente. Tuttavia, è fondamentale specificare che non vi è un rapporto determinante tra le due componenti, in quanto tale processo è soggetto all’influenza di numerosi fattori, il primo dei quali ad essere determinante è proprio la decisione personale dell’individuo di perseguire i suoi crimini (Federal Bureau of Investigation, 2009). Comparando la presente ricerca con studi precedenti, emerge che molti serial killer restano incastrati in queste fantasie omicide, al punto da essere dominati da esse: ciò impedisce loro di pensare razionalmente alle conseguenze delle loro azioni, oscurando la propria moralità (Holmes & Holmes, 1998).

In termini clinici, avere un’elevata frequenza di fantasie aggressive, unita ad una storia di traumi infantili e alla mancanza di supporto sociale, possono essere considerati dei campanelli d’allarme rispetto a futuri comportamenti violenti. Pertanto, appare evidente la necessità di predisporre piani terapeutici che mirino anche ad implementare e ampliare la rete interpersonale dell’assassino.

Impulsività e compulsività: un possibile punto di incontro

Negli ultimi anni si è evidenziato come l’asserita differenza tra impulsività e compulsività non sia poi così assoluta, a partire dall’analisi dei disturbi caratterizzati da questi due aspetti. Sembra infatti che nell’ambito del medesimo disturbo possano presentarsi sia aspetti impulsivi che compulsivi.

 

La teoria unidimensionale e le differenze tra gli aspetti

Molto si è scritto sui concetti di impulsività e compulsività, evidenziandone le rispettive caratteristiche dimensionali, l’eziopatogenesi ad essi correlate e i punti di distanza. Questi ultimi, in particolare, sono parsi in un primo tempo numerosi ed innegabili: l’impulsività viene identificata con una disposizione ad attuare comportamenti non programmati e non mediati dalla riflessione, al solo scopo di esplicitare un bisogno interiore che si presenta come egosintonico e non controllabile. L’azione che ne consegue genera un rilassamento che si sostituisce allo stato di tensione antecedente all’azione e in base ai quali il soggetto avverte una sorta di rinforzo che lo spinge a soddisfare l’impulso con frequenza e intensità sempre maggiori, sperimentando al contempo un profondo senso di disagio ogni volta in cui la soddisfazione risulta procrastinata o impossibile da raggiungere. Al contrario il concetto di compulsività va ad identificare una serie di azioni ripetitive attuate in risposta ad un bisogno interiore distonico e incoercibile, corrispondente alla necessità di evitare un pericolo in cui il soggetto è convinto di incorrere in caso di mancata attuazione della compulsione stessa.

Anche gli studi di neuroimaging sembrano confermare la differenza tra i due aspetti: è stato infatti possibile verificare come la sperimentazione di impulsi vada ad interessare specifiche regioni cerebrali attinenti all’attuazione di comportamenti emotivi, ad esempio il sistema limbico, e determini al contempo un deficit delle regioni cerebrali legate al ragionamento e alla decisionalità ponderata, come la corteccia prefrontale. Nel comportamento impulsivo è inoltre osservabile un diminuito metabolismo della serotonina nelle aree cerebrali – i comportamenti impulsivi sembrano infatti associati a bassi indici di neurotrasmissione serotoninergica (5-HT)- (Vikkunen, 1987), oltre ad un incremento della prolattina, del cortisolo e un’accresciuta attività del sistema noradrenerigico. Al contrario, la compulsività comporta un metabolismo più attivo a livello della serotonina, unito ad una maggiore attivazione della corteccia frontale durante la sperimentazione del pensiero ossessivo e del nucleo caudato durante l’azione compulsiva.

Differenti sono anche i comportamenti e le capacità cognitive correlati ai due aspetti: il soggetto impulsivo appare refrattario alla riflessione, presenta spesso deficit di memoria esecutiva, estrema sensibilità alle ricompense, svalutazione del pericolo. I processi decisionali si presentano superficiali, legati ad aspetti fortemente emotivi, parziali e influenzati dall’arousal. Maggiori anche i livelli di novelty seeking, insensibilità alle punizioni, fallimento nell’inibizione e scarsa percezione del rischio. Le funzioni cognitive connesse all’impulsività comprendono la soppressione della risposta, una scarsa valutazione delle conseguenze e l’incapacità di procrastinazione di bisogni e ricompense. Anche deficit specifici nelle funzioni esecutive, mediati dalla corteccia frontale, sono stati riscontrati alla base dei comportamenti impulsivi disfunzionali (Crews and Boettinger, 2009). Gli ossessivi sono invece caratterizzati da aspetti di decision making particolarmente lunghi e inibitori, reagiscono con disagio al mutamento e alla novità, mal tollerano l’ambivalenza, mostrano sovrastima del pericolo e della punizione. Inoltre, mentre i comportamenti compulsivi si verificano spesso senza riferimento ad una finalità particolare, mostrandosi simili alle abitudini, l’impulsività presenta aspetta fortemente finalistici, in particolar modo direzionati ad ottenere una ricompensa (Patterson e Newman, 1993).

Anche l’aspetto eziopatogenetico risulta differente: connessi alla disregolazione degli impulsi rientrano disturbi come cleptomania, shopping compulsivo, gioco d’azzardo patologico, disturbo da dipendenze. Nelle patologie compulsive sono invece compresi disturbi quali anoressia nervosa, disturbo da disformismo corporeo, ipocondria, DOC.

Sulla base di quanto esposto si è dunque consolidata la c.d. teoria unidimensionale, in base alla quale impulsività e compulsività sono considerate elementi posti agli antipodi di un continuum dimensionale dei quali incarnano aspetti inconciliabili.

Nuovi studi e punti di incontro tra i due costrutti

Si è tuttavia evidenziato, negli ultimi anni, come in realtà l’asserita differenza tra i due aspetti non sia poi così assoluta: è doveroso in primo luogo osservare come entrambe le classi di disturbi (impulsivi e compulsivi), abbiano lo stesso nucleo centrale, costituito dall’incapacità di ritardare o di inibire la messa in atto di comportamenti ripetitivi. Inoltre le osservazioni cliniche hanno dimostrato che queste due componenti del comportamento non sono in realtà legate da rapporti alternativi, essendo possibile che pazienti con patologia impulsiva, ad esempio il gioco d’azzardo, mostrino anche aspetti tipicamente ossessivo-compulsivi, mentre pazienti affetti da patologie compulsive come il DOC possano totalizzare punteggi elevati nelle scale di impulsività, presentare disturbi impulsivo/aggressivi o coesistenza di disturbo di controllo degli impulsi (Stein e Lochner, 2006). Sono state inoltre documentate diagnosi concomitanti tra il DOC e le Parafilie, tra la tricotillomania e la Piromania, tra il Feticismo e la cleptomania (Lambiase, 2009). Sembra dunque che nell’ambito del medesimo disturbo possono presentarsi sia aspetti impulsivi che compulsivi (Grant e Potenza, 2006).

Anche nel disturbo di dipendenza da sostanze si riscontra la compresenza delle due dimensioni comportamentali: nello specifico l’impulsività è all’origine della tendenza a perseguire ricompense a breve termine (dunque le droghe) e rappresenta un potente corroborante nelle fasi di instaurazione del disturbo stesso; la compulsione viene a sua volta generata dalla gratificazione succedanea alla compensazione del bisogno, che a sua volta viene resa oggetto di un apprendimento generatore di comportamenti ripetitivi, stereotipati e programmati in una sorta di script agito. In definitiva l’impulsività sembra una componente fondamentale nei processi di generazione del disturbo, mentre la compulsione compare in un secondo momento sottoforma di manifestazione dell’abitudine di assunzione o gratificazione dell’impulso (Everitt e Robins, 2005).

Non da ultimo è stato rilevato come i sintomi di egodistonia e negativismo, che in un primo momento si pensavano presenti solo nei disturbi compulsivi, siano in realtà riscontrabili anche nelle patologie tipicamente impulsive. Non soltanto il craving e il desiderio di ottenere la ricompensa, dunque, guidano la soddisfazione degli impulsi, ma anche un alto desiderio di ansia e disagio legato al comportamento impulsivo e soprattutto all’impossibilità di doverlo contenere od eludere.

L’affettività negativa sembra nello specifico correlata alla dipendenza patologica tanto nello stadio iniziale che in quello di mantenimento (Kassel et al., 2007). Non è escluso che le sostanze stupefacenti siano utilizzate proprio al fine di controllare stress, ansia e sentimenti negativi, tanto che alcuni studi evidenziano come i disturbi dell’umore possano risultare fattori predittivi per lo sviluppo di patologie impulsive e di dipendenza patologica, mentre altri studi ancora sostengono una relazione reciproca tra i due aspetti, cosicché depressione e dipendenza potrebbero rinforzarsi a vicenda (Brown et al., 1996).

Infine, anche recenti studi di neuroimaging suggerirebbero che sia alla base dei disturbi impulsivi che sia di quelli compulsivi vi sia una tendenza verso la disinibizione comportamentale, probabilmente determinata da disfunzioni nel controllo corticale “top-down” dei circuiti frontostriatali o dalla iperattivazione del circuito striatale (Korff e Harvey, 2006).

In definitiva pare dunque fondato affermare che la teoria unidimensionale potrebbe dover cedere il passo ad una prospettiva che veda l’impulsività e la impulsività non più come aspetti dicotomici, bensì come fattori ortogonali che si incontrano al’altezza di un certo livello patologico e ivi si estrinsecano con maggiore o minore intensità, indipendentemente l’uno dall’altro. Sarebbe proprio questo aspetto a consentire la coesistenza delle due dimensioni in tutti i disturbi afferenti lo spettro impulsivo-compulsivo (Fineberg et al., 2010).

 

Rocketman – Storia di una psicoterapia in chiave LIBET

In ottica LIBET, Rocketman risulta estremamente interessante per la presenza di tutti gli aspetti del modello: ambiente familiare e costrutti infantili, lo sviluppo e la stabilizzazione di un tema di vita, un evento invalidante che rafforza e irrigidisce i piani, fino ad arrivare allo sviluppo di una motivazione alla terapia, alla flessibilizzazione dei piani e all’accettazione di sé.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 16) Rocketman

 

Parliamo di Rocketman, film del 2019 con uno spettacolare Taron Egerton negli istrionici panni di Elton John. Panni (letteralmente) non facili da indossare: il film autobiografico sull’artista inglese ci offre un ritratto personale – e direi personologico – di Reginald Kenneth Dwight, poi diventato Sir Elton John. Un ritratto davvero profondo e struggente, seppur in chiave leggera e a tratti ironica.

Ma parliamo anche di LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment), un recente modello di concettualizzazione del caso clinico sviluppato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero (2016) che integra i principi della terapia cognitivo-comportamentale standard, con elementi derivanti dalla psicologia costruttivista ed evolutiva, in un mix di elementi di contenuto cognitivo, processuali e di apprendimento.

Perché uniamo la trama di un film ad un modello terapeutico? Perché Rocketman potrebbe essere un ottimo esempio di primo colloquio, una storia di vita raccontata dal paziente nella stanza di terapia. L’apprendimento di schemi comportamentali, di credenze di base su di sé e sugli altri, la rigidità di strategie di funzionamento che portano inevitabilmente alla patologia e alla sofferenza, sono tutti elementi presenti all’interno della pellicola in modo estremamente limpido e coinvolgente.

La storia di Reggie

Un’infanzia tutto sommato regolare, quella di Elton, con una mamma, un papà, una nonna e un pianoforte. Niente abusi, niente traumi: una “infanzia molto felice”, come la chiama lui.

Eppure non c’è bisogno di un ambiente familiare pericoloso per perdersi nella sofferenza.

Sappiamo infatti che l’emergere di disturbi mentali in età adulta, soprattutto quelli di personalità, non derivano necessariamente da esperienze traumatiche, ma possono trovare radice in quello che Marsha Linean chiama ambiente familiare invalidante (Linean, 2017).

Quello di Reggie è definibile un ambiente invalidante.

La figura del padre è assente, distante, rigida e rifiutante. È evidente che quel bambino proprio non lo voleva. Da lui Reggie impara che gli altri se ne fregano di lui e se ne andranno alla prima occasione. Convinzione che trova conferma nel momento in cui, di fronte al tradimento della moglie, l’uomo ha finalmente una scusa per potersene andare, senza neanche salutare il figlio non voluto. Una cosa buona quel padre sembra averla trasmessa, però: la passione per la musica.

La madre, d’altro canto, è presente, ma svalutante e assorbita dai suoi stessi bisogni non soddisfatti – sessuali, in primis. È lei che dirà, di fronte al coming out del figlio, la frase che porterà un Reggie, ormai diventato Elton, a mollare le redini e anestetizzare le proprie emozioni:

Stai scegliendo di stare da solo per sempre. Nessuno ti amerà mai come si deve.

In questo episodio possiamo sentire la potenza dell’invalidazione kelliana (Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016): una situazione, un pensiero, una frase che conferma le nostre più profonde sensazioni e credenze che riguardano noi stessi, il nostro valore personale o la nostra posizione nel mondo e che, d’altro canto, rendono le nostre strategie di sopravvivenza finora adottate inutili e non funzionanti.

Per lui, la persona che più dovrebbe proteggerlo, amarlo e farlo sentire al sicuro è la stessa che conferma la sensazione, appresa dalle esperienze dell’infanzia, di non poter essere amato.

Unico raggio di luce per il bambino prodigio è la presenza della nonna, supportiva e amorevole. Sarà lei che nonostante le svalutazioni della madre, porterà il giovane pianista alla Royal Academy of Music.

La carriera che porta alle stelle

Il percorso verso l’accettazione, però, sarà lungo e doloroso. Mentre la sua carriera arriva alle stelle, l’uomo-razzo si sente sempre più solo. La sensazione è di essere perso nel vuoto interstellare, di essere alieno, strano, troppo diverso, per cui profondamente non amabile. La mamma, in fondo, aveva ragione.

Questo dolore è ravvivato in ogni festa – in cui tutti si divertono lasciandolo solo in una stanza – e  negli incontri romantici con il produttore John Reid. Incontri in cui però l’intimità sessuale non riesce a colmare la distanza emotiva e il rifiuto a tratti abusante, che ricordano tanto il padre assente. Tutti quelli che lo circondano, poi, gli ricordano con assoluta crudezza che essere omosessuale in quegli anni sarà effettivamente una strada solitaria. Anche quel lato di sé non potrà mai essere apprezzato.

E allora l’unico modo per non sentire quel dolore è coprirlo con ogni mezzo: sesso, droga, alcol, shopping compulsivo e infine anche il cibo, sulla strada della bulimia. Persino gli scoppi di rabbia incontrollabili nascondono e anestetizzano una profonda tristezza. Un dolore che solo un bambino non amato può provare.

Eppure tutte queste strategie non cancellano la primordiale sensazione di essere solo, indegno d’amore. Ed è lì che arriva l’illuminazione, la consapevolezza che qualcuno, in passato, gli ha già fatto conoscere quell’amore incondizionato che tanto desidera: prima la nonna, poi il collega Bernie Taupin, scrittore di testi e fratello che non ha mai avuto.

Così molla tutto, e va in terapia.

In terapia

Gradualmente si spoglia delle vesti della sua personale maschera e da Elton Hercules John torna a essere semplicemente Reggie, il bambino che voleva essere abbracciato dal padre. Dopo un incontro con la sua famiglia interiore, dopo essersi perdonati a vicenda, Elton abbraccia Reggie, accettando che la maschera dell’artista pieno di piume e glitter – che l’ha reso amabile e degno di attenzioni – può convivere con il semplice bambino che voleva la pettinatura alla Elvis Priesley e l’amore dei suoi genitori. Perché in fondo è solo dopo un intenso percorso terapeutico che Elton sarà capace di riconoscere l’amore reale: quello fraterno di Bernie e quello romantico del futuro marito.

Rocketman è una pellicola magistrale all’altezza dei premi ricevuti. È un film che mostra in modo molto chiaro il processo psicoterapeutico di conoscenza, elaborazione e accettazione della propria storia e delle proprie sofferenze, ma anche di cambiamento e impegno quotidiano.

Le scene di narrazione all’interno del gruppo terapeutico mostrano il doloroso percorso che va dalla negazione della sofferenza – l’infanzia “felice”, figlia di un attaccamento insicuro-evitante (De Haas, Bakermans-Kranenburg, & Van Ijzendoorn, 1994) – all’ammissione delle proprie responsabilità e dei circoli viziosi relazionali, che lo portano ad allontanare proprio le persone che più possono dargli affetto e attenzione. La scena finale ripaga di tutto, con un Elton John ormai riunito con la sua parte bambina, sentendosi “like a little kid”, sobrio e finalmente amato.

In ottica LIBET, questo film risulta estremamente interessante per la presenza di tutti gli aspetti del modello: ambiente familiare e costrutti infantili, lo sviluppo e la stabilizzazione di un tema di vita di disamore, e forse a tratti di indegnità, un evento invalidante che rafforza e irrigidisce i piani immunizzanti (sesso, droghe, alcool, shopping, scoppi d’ira) fino ad arrivare allo sviluppo di una motivazione alla terapia, alla flessibilizzazione dei piani e all’accettazione di sé.

Rocketman è la storia di una psicoterapia di successo. Proprio come quello del mitico Elton John.

 

L’intervento REBT per l’ansia da Covid-19 – Report dal webinar del Dott. Sarracino

I webinar di Studi Cognitivi, sugli aspetti relativi alla sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, continuano con l’intervento del Dr. Sarracino, che il 05 maggio ha mostrato come adattare l’intervento REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale) all’ansia suscitata dalla pandemia.

 

Viviamo in una società in preda ad ansie di ogni genere e con l’avvento del Covid-19 la situazione è peggiorata. I sondaggi Eurodap (Associazione europea per il disturbo da attacchi di panico) hanno evidenziano come la maggior parte degli intervistati (78%) stia vivendo con ansia e senso di oppressione questo periodo storico, principalmente per preoccupazioni legate al contagio e alle ripercussioni future.

In un momento in cui la realtà appare cupa, la REBT ci invita a guardare lo scenario peggiore dritto negli occhi, senza usare tecniche di distrazione o girare intorno al problema. Infatti, di fronte a pazienti spaventati non si può eludere il discorso (“andrà tutto bene”, “non ci pensiamo”), perché gli si comunicherebbe implicitamente che hanno ragione a spaventarsi e a ritenere lo scenario insopportabile. Se siamo convinti di non riuscire a tollerare e superare gli eventi del mondo non potremo fare altro che vivere nell’ansia.

Ellis parte dall’assunto che ciò che proviamo riflette principalmente ciò che pensiamo. Ne consegue che il disagio riportato dai pazienti derivi dai loro pensieri. Inoltre, il fondatore della REBT sottolinea l’importanza di saper distinguere e riconoscere ciò che si può controllare da ciò che è al di fuori dal nostro controllo (Epitteto). L’uomo ha la tendenza ad aspettarsi che il mondo segua il suo volere e quando lo scarto tra le sue pretese e la realtà diventa troppo ampio emergono vissuti di grande sofferenza. Il principale strumento per ridurre questo disagio è cambiare la modalità di percepire la realtà, accettare che essa segua il suo corso.

I principi su cui si basa la REBT sono:

  • Impegno e responsabilità personale: essere padroni della propria vita, prendendosi le proprie responsabilità, ma non pretendendo di controllare ciò che non è in nostro potere.
  • Accettare l’incertezza e il dubbio.
  • Realismo.
  • Flessibilità: molto del disagio emotivo sta nel fatto che le nostre convinzioni sono rigide e non si adattano alla realtà.
  • Tolleranza della frustrazione.
  • Accettazione incondizionata: di sé stessi, degli altri e del mondo.

Nella situazione attuale è importante sottolineare che non è il coronavirus a causare l’ansia, ma i nostri pensieri a riguardo. È umano e giusto preoccuparsi per la pandemia e per le sue conseguenze. Le emozioni diventano disfunzionali (ansia, panico) perché si associano a credenze irrazionali che amplificano la sofferenza di una difficoltà già esistente. L’obiettivo non è quindi annullare le emozioni, ma modificare le credenze irrazionali e sostituirle con quelle razionali, in modo da alleviare il disagio psicologico.

La prima cosa da insegnare ai pazienti è la connessione tra B-C (credenze – conseguenze emotive e comportamentali). È necessario che il cliente condivida con il terapeuta questa visione del suo funzionamento.

Si prosegue con l’accertamento ABC per individuare i pensieri irrazionali che sostengono la sofferenza:

  • Identificare il problema e riformularlo secondo il modello ABC.
  • Focalizzarsi sulle emozioni negative e sui comportamenti disfunzionali (C).
  • Definire l’obiettivo della seduta (F), rappresentato da un comportamento e da un’emozione negativa funzionali in sostituzione di quelli disfunzionali (per esempio, da ansia a preoccupazione).
  • Individuare un evento specifico (A): non accontentarsi di descrizioni generiche, ma chiedere i dettagli in modo da inquadrare l’aspetto più problematico della situazione (A critico).
  • Usare la catena d’inferenze e scavare fino alle credenze irrazionali (B), che possono essere:
    • Pretese o doverizzazioni: “devo assicurarmi al 100% di non contagiarmi”.
    • Terribilizzazioni: “sarebbe terribile contagiarsi”.
    • Intolleranza alla frustrazione: “non riuscirò a tollerare e sopportare di essere messo in quarantena”.
    • Giudizi globali: “mi vedrei come un appestato, un untore”.

Gli interventi che la REBT propone per alleviare la sofferenza del paziente sono:

  • Disputing: non vengono disputate le emozioni del paziente, ma le sue credenze irrazionali (disputa elegante). Si cerca di mettere in discussione le convinzioni che in questo momento non aiutano il paziente e alimentano il suo malessere emotivo. Si può disputare la pretesa, la terribilizzazione, l’intolleranza alla frustrazione o il giudizio globale su di sé e sul mondo.
  • Cercare un’alternativa a questa modalità di pensiero, nuove credenze razionali (E) e comportamenti funzionali (F), con lo scopo di contrastare e sostituire i pensieri irrazionali e i comportamenti disfunzionali. Importanti in questa fase sono gli interventi di validazione.
  • A fine seduta far notare l’effetto positivo delle nuove credenze razionali sullo stato emotivo e sul comportamento del paziente, con ricadute benefiche sulla sua vita.
  • Concordare con il paziente gli homework per mettere in atto ciò che ha imparato in seduta.

Il Dr. Sarracino ha inoltre consigliato alcuni comportamenti funzionali (F) per contrastare le ansie da Covid-19:

  • Tenersi informati, ma senza sovraesporsi alle notizie.
  • Seguire le raccomandazioni sanitarie, ma senza cadere nell’eccesso.
  • Tenere la mente occupata facendo qualcosa di utile e/o piacevole.
  • Organizzare la propria giornata cercando di portarsi avanti nel lavoro, aggiornando il curriculum vitae, partecipando a corsi di formazione online, ecc.
  • Fare attività fisica.
  • Limitare l’esposizione ai social network.
  • Tenersi in contatto con i propri cari, ma evitando forme di co-ruminazione.

Il docente è riuscito a declinare le caratteristiche dell’intervento REBT nel contesto della pandemia da Covid-19 che stiamo vivendo, fornendo utili consigli e permettendo agli studenti di sperimentarsi nel disputing tramite esercitazioni create per l’occasione.

Dialoghi con Sandra – VIDEO del quarto incontro “Entrare nella rabbia, uscire dalla rabbia”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del quarto incontro con la Dott.ssa Clarice Mezzaluna.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del quarto incontro è stata la Dott.ssa Clarice Mezzaluna, la quale ha affrontato l’argomento “Entrare nella rabbia, uscire dalla rabbia”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

 

 

Nuclei separati ai tempi del covid 19, fattore a rischio per lo sviluppo delle psicopatologie nei figli

Il tema dei genitori separati è già terreno di riflessioni, lotte e conquiste che vanno dal giuridico all’educativo, all’economico sino all’emotivo da parte di tutte le parti in condizioni “di normalità” (si intende in periodo di attività lavorative e di vita quotidiane). In piena pandemia il fenomeno del disagio vissuto dai genitori separati non ha fatto altro che accentuarsi.

 

Il genitore non collocatario è nella maggior parte dei casi il padre che, dobbiamo pensare, ha subito tutta una serie di cambiamenti e riadattamenti, dal nuovo alloggio a un abbassamento del tenore di vita, e soprattutto un riadattamento del rapporto genitoriale, in quanto non condivide la quotidianità di una convivenza con il/i figlio/i.

Dall’altra parte troviamo il genitore collocatario, il quale vive la quotidianità con il/i figlio/i, ma non come prima, perché se prima la gestione era condivisa tra due adulti, in maniera più o meno paritaria, dopo la separazione ricade tutta su un solo genitore; inoltre, dovrà gestire tutto ciò che è quotidiano nella vita del minore, dal nutrimento, alla fase dell’addormentamento, alle difficoltà sociali e scolastiche.

Ovviamente queste condizioni negative si accentuano nei casi in cui la conflittualità permane e non si raggiunge un stato di equilibrio e complicità in qualità di genitori.

Nell’ottica di quella che è oramai una tendenza giuridica, nei casi in cui ciò è possibile, si tenta un affidamento condiviso. Purtroppo, una volta usciti dai tribunali, è lasciata agli ex-coniugi una gestione quanto più corretta della quotidianità.

Cosa accade quindi ai minori che, nel frattempo, si avvicinano alla maggiore età? Nei casi in cui la conflittualità permane all’interno della coppia genitoriale, i figli vivono osservando comportamenti incostanti e continuano ad essere utilizzati come strumento ricattatorio o vendicativo, nel peggiore dei casi restano in balia di quella che giuridicamente è riconosciuta come alienazione parentale.

E oggi cosa sta accadendo? La lunga quarantena ha portato all’esacerbazione di tutte le situazioni che nella norma vengono mitigate dal “fare”: ci distraiamo attraverso attività ludiche, sportive, scolastiche, lavorative, socializzazioni di varia natura. In questo periodo dove tutto sembra andato in standby, tutti noi siamo stati costretti ad affrontare il lento scorrere del tempo, entrando in contatto con l’attesa e la frustrazione legata ad essa.

I figli dei genitori separati che tutela hanno ricevuto? Si è letto che la distanza per il genitore non collocatario non doveva essere un limite, ma che il diritto alla bigenitorialità dei minori era superiore al diritto alla salute. Nella realtà ciò quanto è stato possibile?

Oltre chi ha gestito efficacemente il problema della pandemia come qualsiasi altra situazione stressogena, il panorama dei genitori in difficoltà è abbastanza variegato: lo stato di allarme ed emergenza ha aggravato, in quei genitori che già vivevano fragilità personali e situazioni conflittuali, stati d’ansia relativi alla malattia (ipocondria), l’idea dell’”altro” visto come minaccioso (paranoia), meccanismi di evitamento sociale e delega delle responsabilità, tra cui quelle genitoriali, aumentando la lontananza di quei genitori non collocatari che già prima erano scarsamente presenti.

Fatto ancora più inquietante è che i figli che hanno compiuto la maggiore età, quindi 18 anni ed un giorno, non hanno più beneficiato del diritto di visita con il genitore non collocatario. Aspetto questo privo di ogni logica, che va solo a ledere il famoso diritto alla bigenitorialità. La soglia dei 18 anni oggi per nulla indica uno stato del figlio di indipendenza ed autonomia, anzi spesso si tratta di figli che frequentano ancora la scuola e dipendono in tutto e per tutto da ambo i genitori.

Questo periodo di quarantena causato dal covid 19, oltre alle problematiche sociali ed economiche ben evidenti e l’accentuarsi di quelle problematiche che in modo meno influente erano già presenti, ci sta ponendo di fronte ad una generazione di figli di genitori separati che, non solo portano la ferita del nucleo famigliare diviso, ma anche un vissuto di abbandono, causato dalla distanza e a volte dall’impossibilità da parte di uno dei genitori di poter intervenire in loro favore.

Madri che vedono l’ex-coniuge approfittare della distanza per ampliarla, padri che fuggono dalle proprie responsabilità, o all’opposto, madri che ne approfittano per tenere a distanza i padri e padri che vivono e soffrono l’aumentare della distanza emotiva e fisica, che vedono portar via dal tempo e dalle distanze il loro ruolo genitoriale, facendosi vincere dall’impotenza e dalla sofferenza di chi perde in partenza.

La sofferenza psicopatologica che può generare questa situazione di emergenza non risparmia neppure queste situazioni già sofferenti, è divenuto di primaria necessità una rete di supporto per tutti i nuclei separati in favore della salute emotiva e mentale dei figli.

In questo delicato quadro familiare ed emotivo giocano un ruolo dominante i membri della famiglia allargata e gli insegnanti che possono individuare per tempo i segnali di sofferenza dei figli.

Per elencare alcuni dei segnali: ritiro sociale, evitamento di uno o ambo i genitori, abbassamento del rendimento scolastico, incremento delle attività online con sconosciuti a scapito di quelle umane e/o online con conoscenti, minimizzazione della situazione familiare ed emotiva, comportamenti autolesionistici, iniziale comportamento bizzarro verso il cibo (privazione o eccesso), nervosismo costante, perdita di interesse. Ma se il figlio è molto piccolo si possono notare enuresi notturna non congrua con l’età biologica, piuttosto che disturbi del sonno, maggiore attivazione durante il giorno, tendenza ad esagerare le reazioni emotive.

Tutti questi segnali possono essere normali in piccoli periodi a seconda dell’età, reazioni a momenti di crescita, ma se prolungati sono campanelli di allarme importanti che non possono essere sottovalutati.

 

 

Horror, che paure!

Le mani diventano fredde e sudate, i muscoli sono tesi, il battito cardiaco aumenta. Avete mai percepito anche voi queste sensazioni corporee mentre guardate un film horror?

 

Sono segnali che stiamo provando paura, un’emozione, innescata da stimoli minacciosi, funzionale all’evitamento di un pericolo. Ma cosa sta accadendo nel nostro cervello durante la visione di questo genere di film? Un gruppo di ricercatori finlandesi, in un recente studio pubblicato sul giornale NeuroImage, ci svela che sono ben due le forme di paura che si provano durante la proiezione dei film dell’orrore, per ognuna delle quali si attivano sistemi neurali differenziati.

Lo studio è stato condotto su 37 soggetti e poi replicato su un altro campione, ai quali è stato chiesto di vedere spezzoni tratti dai due film horror The Conjuring 2 e Insidious mentre la loro attività cerebrale veniva registrata attraverso la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Per la scelta di questi due film i ricercatori hanno coinvolto 216 appassionati che, attraverso un sondaggio, hanno valutato The Conjuring 2 e Insidious come gli horror più paurosi e i meglio prodotti.

Dall’analisi dei dati raccolti attraverso l’fMRI è emerso che durante la visione dei film horror il nostro cervello attiva aree diverse a seconda della prossimità dello stimolo pericoloso. In altre parole, quando avvertiamo che la minaccia sta per arrivare, ma non è ancora presente, proviamo una forma di paura cosiddetta sostenuta, che esperiamo soggettivamente con tensione, ansia e suspence. In questo momento, nel cervello sono attive le cortecce sensoriali, sia quella uditiva sia quella visiva, e una parte del lobo parietale (Figura 1). L’aumento dell’attività di queste aree ci consente di aumentare la vigilanza e dirigere il focus attentivo sugli stimoli sensoriali. Siamo in allerta.

 

Figura 1 (Hudson et al., 2020). Relazione tra la paura sostenuta e l’attivazione neurale durante la visione dei horror. ACC ​= ​Corteccia Cingolata Anteriore; PCG = Giro Post-Cingolato; LG ​= Giro Linguale; PreC ​= Precuneo; STG = Giro Temporale Superiore; FG = Giro Fusiforme. 

Quando la minaccia sopraggiunge, invece, si attivano zone corticali, limbiche e cerebellari come la corteccia prefrontale, il lobulo paracentrale, l’amigdala, la corteccia cingolata, l’insula, il grigio periacqueduttale (PAG), l’ippocampo e il talamo (Figura 2). In questo momento, stiamo provando la cosiddetta paura acuta, che potrebbe manifestarsi con una reazione di trasalimento dal divano. Quando lo stimolo pericolo insorge, infatti, il nostro cervello si attiva in quelle aree coinvolte nel processamento degli stimoli, nell’apprendimento e memoria e nella pianificazione dell’azione. Quest’attivazione cerebrale ci consente, quindi, di attuare delle rapide azioni per fuggire al pericolo, come il fight or flight, le reazione comportamentali di lotta o fuga di fronte ad una minaccia.

 

Figura 2 (Hudson et al., 2020). Relazione tra la paura acuta e l’attivazione neurale durante la visione dei due horror. ACC ​= ​Corteccia Cingolata Anteriore; MCC ​= Corteccia Cingolata Mediale; PCC = Corteccia Cingolata Posteriore; Th = Talamo; AMY ​= Amigdala; PH = Paraippocampo; PreCG ​= Giro PreCentrale; STG = Giro Temporale Superiore; AIC ​= Corteccia Insulare Corticale; MTG ​= Giro Temporale Mediale; LG ​= ​Giro Linguale

I circuiti della paura sostenuta e quelli della paura acuta sono quindi differenziati a livello cerebrale e si attivano in momenti diversi, a seconda della prossimità spazio-temporale del pericolo. L’analisi funzionale della connettività tra questi due sistemi, condotta durante lo studio, mostra tuttavia che è presente una dinamica interazione tra loro. Essi cioè non funzionano in modo isolato, ma lavorano in sinergia: i network della paura sostenuta innescano quelli della paura acuta, man mano che la minaccia si fa sempre più vicina.

Ecco perché a seconda del momento del film, e quindi della prossimità spazio-temporale del pericolo, proviamo sensazioni diverse, che oscillano dal terrore a franche manifestazioni di paura. Probabilmente, l’eccitazione provata nella visione di un film horror ha molto a che fare con i climax di paura creati ad hoc dai registi, che vanno ad attivare questi specifici circuiti nel nostro cervello.

 

OSAS e incubi

La Sindrome delle Apnee Ostruttive del Sonno (OSAS) è un Disturbo del sonno caratterizzato dalla ricorrente ostruzione delle vie aeree superiori mentre si dorme.

 

L’OSAS è una condizione clinica piuttosto comune, con una prevalenza del 2-17% nella popolazione femminile e del 3-18% in quella maschile, e aumenta con l’avanzare dell’età (Franklin & Lindberg, 2015).

Le principali conseguenze patologiche dell’OSAS sono la frammentazione del sonno e la desaturazione dei livelli di ossigeno nel sangue (Eckert & Malhotra, 2008).

Esistono varie speculazioni sulle associazioni con questa patologia: una di queste è legata agli incubi. L’associazione tra questi e le difficoltà respiratorie nel sonno sarebbe documentata addirittura fin dai tempi del medico persiano Avicenna (980 – 1037 d.C.) che sosteneva che dormire sulla schiena provocasse uno sforzo della muscolatura della bocca e della gola e che questo portasse l’individuo a un rilassamento dei suddetti muscoli, cosa che tuttavia poteva aumentare il rischio di ictus, paralisi e – appunto – incubi (BaHammam et al., 2018).

La Terza edizione della Classificazione Internazionale dei Disturbi del Sonno (ICSD-3, 2014) definisce gli incubi come dei sogni con forti emozioni negative che persistono al momento del risveglio. L’ICSD-3 (2014) ha identificato tre criteri diagnostici per il Disturbo da incubi:

  • ripetuti episodi di sogni lunghi, estremamente disforici e ben ricordati al risveglio, che di solito comportano minacce alla sopravvivenza, alla sicurezza o all’integrità fisica;
  • l’individuo ritorna rapidamente vigile al risveglio dai sogni disforici;
  • i sogni e i disturbi del sonno che ne derivano provocano angoscia clinicamente significativa o alterazione in aree sociali, di lavoro, o altre importanti aree di funzionamento.

Un recente studio (Lundetræ et al., 2018) basato su 2.800 pazienti con OSAS ha rivelato che la prevalenza degli incubi era del 40,6%; tuttavia, la prevalenza degli incubi nel gruppo di controllo era del 50,1%, un dato molto superiore a quello registrato nella popolazione generale (19,4%) (Bjorvatn et al., 2010). Ciò può essere spiegato dal fatto che lo studio non ha utilizzato una definizione standard di incubo, giustificando in parte le discrepanze nella prevalenza segnalata di incubi nei pazienti con OSAS. È stato inoltre rilevato che la presenza di incubi era inversamente correlata alla gravità dell’OSAS – misurata dall’Indice Apnea-Ipopnea (AHI) – cosa confermata in letteratura (Schredl et al., 2006; Pagel & Kwiatkowski, 2010).

Per capire il perché di questa correlazione inversa si possono introdurre altri concetti. L’incubo è una parasonnia che si verifica durante la fase REM del sonno. Tuttavia, il sonno REM è solitamente ridotto nei pazienti con OSAS grave (BaHammam et al., 2013; Patil et al., 2007). Pertanto, Pagel e Kwiatkowski (2010) hanno suggerito che la riduzione degli incubi nei pazienti affetti da OSAS con un indice AHI grave potrebbe essere correlata alla riduzione del sonno REM.

In uno studio prospettico di controllo (BaHammam et al., 2013) su 99 pazienti con OSAS e Disturbo da incubi (definito in conformità con l’ICSD), è stato dimostrato che, sebbene non vi fossero differenze significative nella durata del sonno REM o nella durata delle apnee e delle ipopnee durante il sonno REM e NREM tra pazienti affetti da OSAS con e senza incubi, i pazienti con incubi avevano registrato un AHI significativamente più alto durante la fase REM rispetto ai pazienti senza incubi.

Inoltre, la gravità dell’AHI (durante il sonno REM) e la frammentazione del sonno sono stati identificati come predittori indipendenti degli incubi nei pazienti con OSAS (BaHammam et al., 2013). Questo suggerisce che gli incubi sono probabilmente associati alla presenza di apnee e ipopnee durante il sonno REM.

È possibile d’altro canto che i pazienti che hanno avuto frequenti risvegli a causa di apnee/ipopnee ricorrenti durante il sonno REM ricordino più incubi. In questo senso è interessante notare che uno studio ha rilevato che i pazienti che sono più difficili da risvegliare segnalino una più bassa frequenza di incubi (Hicks et al., 2002).

Altro dato importante è che, tra i pazienti con buona aderenza alla terapia C-PAP (un metodo di ventilazione respiratoria meccanica) gli incubi sono scomparsi nel 91% dei casi (BaHammam et al., 2013). Gli autori hanno ipotizzato che l’ostruzione ricorrente durante il sonno REM – piuttosto che la durata del sonno REM – possa aumentare la vulnerabilità agli incubi nei pazienti con OSAS (BaHammam et al., 2013). Questa ipotesi è supportata da studi precedenti, che hanno dimostrato che una notte di terapia con la C-PAP ha prodotto una riduzione dei sogni e del ricordo dei sogni, anche se la frequenza e la durata del sonno REM era aumentata (Carrasco et al., 2006; Gross & Lavie, 1994).

Guardando da un’altra prospettiva, è interessante notare che la fame d’aria simulata durante la veglia porti alla stimolazione delle regioni del cervello limbico/paralimbico (regioni cerebrali attivate durante il sonno REM) (Liotti et al., 2001). Questo potrebbe in parte spiegare l’aumento degli incubi nei pazienti con eventi ostruttivi più elevati durante il sonno REM. Anche Carrasco et al. (2006) hanno ipotizzato che gli eventi respiratori durante il sonno REM causino la stimolazione del sistema limbico: questo, a sua volta, genererebbe sogni con un alto contenuto emotivo.

In effetti, i disturbi causati dalla frammentazione del sonno in individui con OSAS includono complicanze in termini di benessere psichico, in particolare legate allo stress (dos Santos et al., 2017; Trakada et al., 2007). La terapia C-PAP ha dimostrato di essere efficace anche nel ridurre lo stress nei pazienti con OSAS (Trakada et al., 2007, Lee et al., 2017).

Per concludere, data la mole di potenziali – ed effettivi – concetti intrecciati, si auspica che la ricerca futura cerchi di fare sempre più chiarezza in un ambito che, per sua natura, non sempre è semplice indagare.

La PAS: una costruzione giuridica o un disturbo patologico?

Nella Sindrome da Alienazione Parentale (PAS) il bambino diviene un pensatore indipendente che, prendendo a prestito le informazioni che gli vengono fornite dall’alienante crede di scegliere autonomamente l’allontanamento dal genitore disprezzato.

 

Il concetto di PAS compare per la prima volta nel 1985, quando il medico statunitense Richard Gardner ne parlò in riferimento alla dinamica psicologica disfunzionale che si attiva sui figli minori coinvolti in processi di separazioni e divorzi conflittuali, e in base alla quale uno dei genitori, denominato alienante, avvia nei riguardi dell’altro coniuge, denominato alienato, un’autentica campagna di denigrazione finalizzata a definire come nociva e pericolosa la frequentazione del figlio da parte dell’ex coniuge e della famiglia di quest’ultimo. Il figlio, dal canto suo, mostra una posizione totalmente adesiva con quella del genitore alienante, colludendo in toto con la pratica di programmazione psichica a mezzo della quale il genitore alienante lo spinge a disprezzare ed evitare il genitore alienato (Gardner, 1987).

Sintomi e tecniche di programmazione

Le connotazioni patologiche della PAS consistono essenzialmente nell’uso di espressioni e atteggiamenti denigratori ed evitanti verso il genitore alienato, il tutto in una totale mancanza di ambivalenza e senso di colpa nei riguardi di quest’ultimo, che viene visto come un elemento assolutamente pericoloso, negativo e deprecabile sia dal genitore che dal figlio.

In questa attività di programmazione che lo vede coinvolto il bambino svolge un ruolo tutt’altro che di soggezione, risultando al contrario partecipe, attivo e confermante la versione denigratoria nei confronti del genitore “nemico”. L’alienante, dal canto suo, si premura di indottrinare il bambino alimentando verità ben poco veritiere nei riguardi dell’ex coniuge, al quale impedisce visite e comunicazioni con il figlio, imponendo un divieto di frequentazione purché minimo, che si allarga anche al suo contesto familiare di appartenenza, e dunque a nonni, zii, cugini, etc. Inoltre, anche ove si verifichi una seppur minima frequentazione, essa appare sofferta, ingestibile dal punto di vista emotivo, e caratterizzata da un forte difetto di transizione in occasione del quale il bambino esprime disagio, oppositività ed anche comportamenti aggressivi e disturbi psicosomatici ( Gardner, 1987; 1992).

Il genitore alienante mostra uno status di sofferenza verso il quale il bambino si direziona empaticamente, condividendone e replicandone la natura nel proprio universo psichico: così inizia ad appoggiare le versioni fornite dal genitore di preferenza, mostrando, in modo apparentemente autonomo, odio e disprezzo nei confronti del genitore alienato.

Il bambino diviene un pensatore indipendente che, prendendo a prestito le informazioni che gli vengono fornite dall’alienante- non a caso si parla di scenari presi a prestito- crede di scegliere autonomamente l’allontanamento dal genitore disprezzato, non riconoscendo quanto invece il suo disprezzo si riveli soltanto come un’imposizione psicologica eteroderivata (Gardner, 1987). Egli giudica, cioè, sulla base dei giudizi di un altro, al quale si affida e nel quale confida totalmente. Si applica quasi un processo di scissione, nella quale la realtà non viene integrata in una dimensione sincretica, ma viene al contrario suddivisa in contesti tutti buoni, appartenenti in toto al genitore alienante, e tutti cattivi, che invece fanno carico al genitore alienato. La mancanza di comunicazione tra questi e il bambino non fa che aggravare la situazione, rendendo ancor più impossibile rielaborare il fraintendimento del rapporto.

Al contempo si viene ad instaurare col genitore alienante un legame patologico, paranoide, non fondato sulla realtà, ma su una sorta di patto segreto e impronunciabile che il bambino si sente interiormente costretto a rispettare, esattamente come accade con un abuso fisico, per continuare a mantenere la vicinanza col genitore prediletto e assicurarsi il suo sostegno che altrimenti verrebbe a mancare. Se ne origina un ricatto psicologico generato da un copione familiare imposto silenziosamente al bambino, che inconsapevole lo accetta e lo perpetra.

Il senso di colpa non compare invece nei riguardi del genitore alienato, che viene considerato come il “nemico” sul quale liquidare e riversare ogni pulsione negativa (Gulotta e Buzzi, 1998). Nei casi più gravi si parla di folie à deux, che sta ad indicare il fenomeno patologico a mezzo del quale due soggetti, dei quali uno in posizione di soggezione emotiva rispetto all’altro, si trovano a condividere le medesime condizioni psicotiche e deliranti sulla realtà. È una sorta di psicosi indotta, una follia contagiosa originata proprio da un rapporto asimmetrico e non complementare cui il bambino non può sottrarsi.

Conseguenze

Le conseguenze di tutto questo sono molto gravi, anche sul lungo termine: la PAS viene definita come una vera e propria forma di violenza psicologica che tende a direzionare la mente del bambino verso scenari di giudizio precostituiti, con gravi danni non solo all’elaborazione cognitiva ma anche alla regolazione emotiva, alla capacità di giudizio, all’esame della realtà, da cui possono generarsi deficit di empatia, narcisismo e mancato rispetto per l’autorità. Il bambino infatti, per ossequiare le volontà tendenziose del genitore alienante, non esita a ridicolizzare il genitore alienato con atteggiamenti denigratori, oppositivi e irrispettosi che in altre circostanze non verrebbero mai consentiti, ma sarebbero al contrario segnalati e stigmatizzati (Gardner, 1987, Casonato e Mazzola, 2016).

Si evidenziano inoltre un appoggio automatico verso il genitore alienante, e una razionalizzazione debole dell’astio, per cui il bambino giustifica il suo disagio nel rapporto col genitore alienato con spiegazioni illogiche, incongruenti e di scarsa consistenza, provocando un nocumento all’evoluzione di una propria capacità di giudizio e di una funzionale relazione genitoriale.

Disturbi della memoria

Nella memoria del bambino vengono instillati ricordi non veritieri in base ai quali egli si autoconvince di aver vissuto realmente certi eventi nel quale il genitore alienato appare come un persecutore, e che invece sono stati arbitrariamente creati da parte del genitore alienante. Specie se è minore di 8 anni il bambino attua una fiducia epistemica nei confronti del genitore alienante, accondiscendendo a qualsiasi cosa gli intimi di affermare o di ricordare.

Non sono pochi i casi in cui i bambini ricordano vividamente eventi mai vissuti. Si tratta di un fenomeno mnestico che si verifica anche negli adulti, sulla base degli assunti della teoria mnestica costruttivista, che prevede, contestualmente all’immagazzinamento, una modifica contaminativa dell’informazione da parte delle strutture mentali e delle conoscenze pregresse del singolo soggetto.

Così la traccia mnestica, per quanto inesistente, si forma nella mente del bambino che si lascia influenzare dalla scarsità di mezzi a disposizione per la rievocazione, dalla suggestività del racconto e soprattutto dalla fiducia nutrita dei confronti della fonte informativa, molto spesso il genitore, dal quale i bambini dipendono adesivamente.

Sulla base di questi meccanismi si sono formati ricordi di abusi e maltrattamenti intrafamiliari in realtà mai verificatisi. Ne costituiscono un esempio i casi di Falsus Syndrome Memory, emersa negli anni ’90 proprio per indicare i ricordi di abusi non veritieri emersi nei bambini durante una psicoterapia e in seguito presi a base di accuse penali verso uno dei genitori (Merskey, 1998; D’Ambrosio e Supino, 2014).

Controversie sulla PAS – casi di eslcusione

I casi nei quali non è possibile parlare di PAS sono quelli in cui il bambino non perfeziona la collusione col genitore alienante e quelli in cui il genitore alienato è davvero soggetto perpetratore di violenze, abusi o trascuratezze ai danni del figlio.

Ma non sono gli unici casi in cui si esclude l’esistenza di questa presunta sindrome. Come già anticipato si tratta di una disfunzione dall’ammissibilità assai discussa e controversa, tanto in ambito giuridico che medico-psichiatrico: si eccepiscono alla medesima una mancanza di fondamento scientifico, l’impossibilità di essere definita come una sindrome vera e propria, un deficit di validità oggettiva tanto nell’osservazione che nell’indagine della stessa.

Vi sarebbero molte diagnosi false, a tal proposito, e i sintomi patologici, anche ove esistenti, apparterrebbero al genitore alienate e non al bambino (sintomi di terzi), così che la diagnosi verrebbe fatta a distanza, correndo il rischio di rendere patologici contesti che non lo appaiono (Gardner, 1992).

Nonostante la natura presumibilmente psichica del fenomeno, nemmeno il DSM ha mai provveduto ad inserirlo all’interno delle categorie dei disturbi mentali, non riconoscendolo né come sindrome né come malattia. Anche l’ambito giuridico non appare meno scettico con l’esistenza della PAS, stentando ad affermarne l’esistenza vera e propria: la Corte di Cassazione si è recentemente espressa con scetticismo nei confronti della PAS, negandone la rilevanza processuale e definendola priva di basi scientifiche (Gaita, 2019).

Anche ove si volesse ammettere la natura psicologica della PAS, si dovrebbero tuttavia considerare, ai fini della sua oggettiva esistenza e del suo effettivo estrinsecarsi, fattori di variabilità che potrebbero condizionarne l’origine e il decorso. Il riferimento va ad aspetti quali l’età, il genere, il grado di comunicazione e di cognizione raggiunti dal bambino, nonché la possibilità che il genitore alienante accetti una presa in carico ai fini di ristabilire una comunicazione funzionale tra il figlio e il coniuge, per neutralizzare gli effetti del precedente comportamento lesivo nei confronti dell’alienato.

La storia di Andrea: il Disturbo da Uso di Stimolanti – Modelli teorici e caso clinico

La presentazione di tale storia all’attenzione dei colleghi è mossa dal tentativo di colmare il gap nella letteratura clinica delle dipendenze circa il trattamento psicoterapeutico della dipendenza da uso di stimolanti (cocaina).

 

Il caso che verrà presentato, in maniera discorsiva, deve essere contestualizzato: si tratta di un trattamento cognitivo-comportamentale somministrato a un paziente in regime residenziale presso una comunità terapeutica.

Tale caso clinico è stato trattato primariamente con la tecnica del colloquio motivazionale integrata ad una psicoterapia cognitivo-comportamentale comprendente nello specifico la psicoeducazione del disturbo, le tecniche cbt classiche, le tecniche cbt specifiche per la dipendenza da uso di cocaina, la prevenzione delle ricadute e il protocollo di terapia cognitiva basata sulla mindfulness (MBCT).

Modelli teorici di riferimento

Il modello di DiClemente e Prochaska

Fa da sfondo al trattamento il modello del cambiamento transteoretico di DiClemente e Prochaska del 1982 in quanto esso è molto importante per valutare la motivazione del paziente a iniziare e portare avanti un trattamento per il suo disturbo. Questo vale ancor di più nelle dipendenze dove la motivazione gioca un ruolo importante per la sopravvivenza. Tale modello è anche alla base della formulazione del colloquio motivazione di Miller e Rollnik (1991) che è stato utilizzato all’inizio del trattamento di Andrea. Per una trattazione più esaustiva di questo modello si rimanda a Esposito (2017).

Il modello di Marlatt

La “relapse prevention” o prevenzione della ricaduta, rappresenta il trattamento cognitivo-comportamentale centrale delle dipendenze ed è stato sviluppato per la prima volta da Chaney et al. nel 1978 per gli alcolisti.

Marlatt (1982 in Dèttore, 2018; Bugari 2017), successivamente, sulla scia di questo studio dedicherà la sua carriera a studiare i comportamenti di ricaduta dei dipendenti formulando un modello ancora oggi utilizzato alla base delle terapie.

Secondo l’autore, il processo tipico della ricaduta inizia con l’esperienza di stress, spesso derivante da uno squilibrio esistenziale. Ciò può portare a un desiderio di indulgenza, accompagnato dalla sensazione di avere il diritto a qualcosa di piacevole. Questi fattori di fondo a loro volta conducono a situazioni ad alto rischio, definite come minacce al controllo personale sul comportamento di dipendenza da sostanze e comprendono situazioni come il trovarsi in un bar o stati come il sentirsi ansiosi, rabbiosi e depressi.

A ciò si aggiungono delle distorsioni cognitive e delle decisioni disadattive che preparano a un “lapse” (scivolone) e quindi a un “relapse” (ricaduta). La distinzione concettuale fra le due consiste nel fatto che il primo è un occasionale, isolato e limitato episodio in cui il soggetto cede al comportamento di dipendenza da sostanze, a differenza del secondo, in cui il cedimento è importante e reiterato più volte in tempi ravvicinati (ibidem).

In tali situazioni di rischio, particolarmente importanti sono le abilità che permettono al soggetto di far fronte alle condizioni che pongono a rischio l’astinenza. Il passaggio dalle situazioni ad alto rischio al lapse, o al relapse, viene mediato da alcuni meccanismi specifici: il primo meccanismo è il cosiddetto “problema della gratificazione immediata” (PIG), che è caratterizzato dal focalizzarsi sulle caratteristiche piacevoli immediate del comportamento di indulgenza all’uso di sostanze, trascurandone le conseguenze negative a lungo termine (ibidem). Tale processo, unitamente a inadeguate capacità di problem solving e al rinforzo indotto dall’effetto bifasico delle sostanze d’abuso aumenta la probabilità del verificarsi di un lapse. Il passaggio al relapse, oltre al PIG, conta di un secondo meccanismo denominato “effetto di violazione dell’astinenza” (AVE) costituito da una complessa reazione cognitiva e affettiva alla violazione di una regola di astinenza proibente, o comunque limitante, un determinato comportamento abusante (ibidem). La forza dell’AVE dipende dalla misura in cui il soggetto è in grado di giustificare il lapse in modo egosintonico e da altri elementi come l’impegno nell’astinenza, la presenza di persone significative e la durata dell’astinenza. Inoltre, tale forza dell’AVE, dipende da processi attribuzionali: se il lapse viene attribuito a fattori esterni, instabili e specifici allora l’AVE sarà minimo; tuttavia, se l’attribuzione è interna, la forza dell’AVE è massima con un intaccamento dell’autostima e dell’autoefficacia (ibidem). Per Marlatt è fondamentale come il soggetto interpreta le eventuali e occasionali lapse.

Il modello di Pithers

È noto come il modello di Marlatt sia stato ampliato e applicato ad altre tipologie di disturbi molto simili a quelli delle dipendenze da sostanze come per esempio i disturbi sessuali e disturbi alimentari. Nel campo dei disturbi sessuali e, nello specifico, delle parafilie, Pithers (1990 in Dèttore 2018) amplia il modello di Marlatt (1982, in Dèttore 2018) fornendo due interessanti contributi: il primo è che il lapse viene definito come il verificarsi di un comportamento a rischio che viene considerato come il primo segno prevedibile di perdita di controllo, mentre il relapse è l’attuazione del comportamento di abuso (nel caso di Pithers il reato sessuale) senza che ciò implichi il ritorno a livelli precedenti di comportamento di abuso. Il secondo contributo è quello della formulazione delle “decisioni apparentemente irrilevanti”, cioè la decisione apparentemente irrilevante avviene in genere quando il soggetto è riuscito ad astenersi dal comportamento di dipendenza tipico per un certo tempo, con conseguente senso di incremento della propria auto-efficacia; se intervengono situazioni di stress o di squilibrio esistenziale, la sensazione di privazione può aumentare e quindi anche il desiderio di abbandonarsi al comportamento proibito. A questo punto interviene la decisione apparentemente irrilevante: essa riguarda il compiere azioni o l’inserirsi in circostanze che non sembrano legate al comportamento di abuso, ma che invece in ultima analisi pongono il soggetto in situazioni ad alto rischio.

Il modello di Beck et al.

Beck et al. (1993) formula un modello cognitivo per la comprensione del circolo vizioso di mantenimento dell’uso di sostanze.

Secondo l’autore, per definizione, i tossicodipendenti sono persone che hanno difficoltà a fermare l’uso in modo permanente. Possono aver iniziato a usare volontariamente, ma non credono di potersi fermare o non decidono di fermarsi volontariamente. Al primo segno di problemi medici, finanziari o interpersonali, molti pazienti ignorano, minimizzano o negano i problemi o li attribuiscono a qualcosa di diverso dalla sostanza. Altri possono essere consapevoli dei problemi, ma valutano i vantaggi dell’uso come maggiori degli svantaggi. Man mano che i problemi aumentano, molti utenti diventano più ambivalenti e cominciano a vacillare nella loro decisione di usare.

Un cospicuo fattore nel mantenimento dell’uso di droghe è la comune convinzione che il ritiro dall’uso produrrà effetti collaterali intollerabili (ibidem). Tuttavia, questi effetti variano enormemente da persona a persona e l’impatto è notevolmente amplificato dal significato psicologico associato ai sintomi di astinenza. Questi significati sono spesso più salienti delle reali sensazioni fisiologiche di disagio psicofisico dei sintomi da astinenza. La maggior parte dei consumatori di cocaina che partecipano a programmi di disintossicazione, ad esempio, si sentono meglio nelle prime fasi dopo che smettono di usare.

Secondo Beck et al. (1993) il principale ostacolo all’eliminazione dell’utilizzo o del consumo è la rete di convinzioni disfunzionali centrate sulla droga o sull’alcol. Esempi di queste convinzioni possono essere: “non posso essere felice se non posso usare” e “sono più sotto controllo quando ho bevuto qualche drink”. Un individuo che sta pensando di eliminare l’uso di droghe o alcol può sentirsi triste o ansioso. La cessazione del ricorso a droghe o alcol è vista come una privazione della soddisfazione e del conforto o una minaccia al benessere e al funzionamento. L’arresto può significare, per alcuni, rimuovere l’uso della “coperta di sicurezza” per attenuare la disforia umorale.

Gli individui dipendenti tendono spesso a smettere di usare o bere. Tuttavia, quando sperimentano il craving, si sentono delusi se si trattengono dall’utilizzare o bere. Percepiscono i loro sentimenti di delusione e angoscia come intollerabili; il pensiero “non posso sopportare questa sensazione” li sconvolge ancora di più. Quindi, si sentono spinti a cedere alla brama per dissipare il senso di perdita e la loro angoscia. I pazienti spesso hanno una serie di credenze che sembrano diventare più forti quando decidono di smettere di usare. Tali credenze possono essere del tipo: “se non posso usare, non potrò sopportare il dolore (o la noia)”, “non c’è più niente che va nella vita per me”, “sarò infelice” o “io perderò i miei amici.”

Un’altra serie di credenze si concentra sul senso di impotenza dell’individuo dipendente nel controllare la brama: “il desiderio è troppo forte”, “non ho il potere di fermarmi”, o “anche se lo fermassi – ricomincerà da solo”. Queste credenze diventano profezie che si autoavverano (Merton, 1971; Fiore, 2015). Poiché i pazienti credono di essere incapaci di controllare i loro impulsi, sono meno propensi a cercare di controllarli e, quindi, a confermare la loro convinzione nella loro impotenza nel superare la loro dipendenza.

Schema Therapy, TMI e DBT

Oltre ai modelli teorici citati sopra sono state utilizzate tecniche e riferimenti alla Schema Therapy  (Young et al. 2003), alla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, Semerari, 2003; Dimaggio et al., 2013) e alla Dialectical Behavior Therapy (Linehan, 1993; Linehan et al., 2000; Fiore, 2017).

La storia di Andrea

Andrea è un uomo di 45 anni della periferia di una grande città del Nord Italia; viene in comunità perché ha perso il lavoro, la compagna e non ha più un posto dove stare. Al primo colloquio si presenta abbastanza nervoso, spiegando di essere molto motivato ad entrare nella struttura comunitaria e a sottoporsi ad un trattamento per l’uso di sostanze.

Andrea tiene a sottolineare che il suo problema principale è la mancanza di un’occupazione lavorativa perché a suo dire è sempre riuscito a controllarsi nell’uso del fumo di cocaina. Prima del nostro incontro il paziente ha fatto un percorso di alcuni colloqui con la sua assistente sociale di riferimento e controlli delle urine presso il suo Ser.D di appartenenza.

Il primo colloquio termina con l’illustrazione del percorso terapeutico e con la firma di un contratto di ospitalità e la sottoscrizione di diverse regole.

Il paziente si mostra talvolta cauto talvolta deciso ad illustrare i suoi problemi. Racconta: “Mi sono deciso ad entrare perché vivevo in un garage senza acqua e senza luce; usavo la torcia del cellulare la sera. Il garage è di mio padre ma lui non sa nulla che io sono là; non c’è un buon rapporto tra noi… Non potevo continuare così”. Successivamente illustra il problema della mancanza di un lavoro con queste parole: “Il mio problema è principalmente il lavoro; io ho sempre fumato e ho sempre gestito la cosa, poi quando ho perso il lavoro ho perso tutto”. Alla mia domanda “perché hai perso tutto?” risponde: “Per questa merda di cocaina. Mi sto rendendo conto che è un problema, che ci ho speso una barca di soldi, certo che è la cocaina. Però da oggi in poi basta”. Riportiamo ancora una descrizione di un suo vissuto drammatico nelle settimane precedenti al nostro primo incontro: “Un giorno mi sono svegliato, mi sono guardato allo specchio e mi è venuta la nausea, mi sono fatto schifo, non volevo guardarmi e mi sono detto che non potevo continuare così, che non me lo merito. Mi sono messo a piangere, cosa che non faccio quasi mai e mi sono detto che dovevo intervenire, che dovevo fare qualcosa e mi sono deciso ad entrare.”

Storia personale e familiare

Andrea è il terzogenito di quattro figli (due maschi più grandi e una sorella più piccola) di una famiglia siciliana immigrata al Nord negli anni ’60. I fratelli sono tutti sposati con figli. La madre del paziente è deceduta qualche anno fa.

Andrea racconta di un padre violento e punitivo e di una madre passiva e dipendente dalle decisioni del marito. Ha avuto in infanzia diversi episodi di abuso fisico con punizioni esemplari molto forti. Il paziente racconta: “una volta alle elementari avevo spiato una mia compagnetta di classe. Mio padre quando l’ha saputo ha voluto punirmi: prima mi ha picchiato, poi mi ha spogliato e mi ha legato nudo fuori dal balcone al terzo piano dove noi abitavamo”. Successivamente nella prima adolescenza Andrea stava più fuori casa che dentro perché aveva paura del padre; racconta di furti, uso di marijuana, vandalismo e bullismo nei confronti di altri ragazzi. Il paziente racconta un altro episodio di violenza del padre: “Mio padre aveva saputo che avevo rubato, io sono tornato a casa. Ha iniziato ad aggredirmi fisicamente. Io sono riuscito a scappare, ma lui mi stava aspettando nella porta di casa. Poi alla fine sono dovuto tornare e me ne ha date tante.”

Per quanto riguarda la scuola, Andrea ha frequentato con molta fatica sino alla terza media con vari episodi di violenza in classe con i compagni e con i professori seguiti da periodi di sospensione e di espulsione dagli istituti. Successivamente al periodo scolastico Andrea intraprende sostanzialmente una vita movimentata, lavorando precocemente all’età di 16 anni, compiendo, a suo dire, vari furti, estorsioni, truffe e parallelamente usando sostanze: principalmente marijuana e cocaina.

Successivamente si sposa con una ragazza dopo pochi anni di fidanzamento, storia che però finisce con un divorzio a cui segue un periodo di depressione.

Storia del problema

Il paziente riferisce di usare sostanze dall’età di 11 anni circa, iniziando alle medie con la marijuana. Andrea frequentava amici più grandi di lui con i quali si trovava coinvolto inevitabilmente in situazioni legate a giri di stupefacenti. Oltre alla marijuana, verso i 16 anni ha provato anche diversi allucinogeni quando ha iniziato a frequentare le discoteche, poi successivamente è passato all’uso prevalente di stimolanti e, nello specifico, cocaina fumata.

Andrea sostiene di aver iniziato a fumare per caso; racconta: “eravamo fermi in un parcheggio con tutti gli amici, poi uno mi fa, ma tu non hai ancora fumato? Allora fanno tutto il rituale, dei passaggi che per me erano incomprensibili e mi hanno fatto fumare cocaina per la prima volta. Subito mi sono sentito scosso, agitato, eccitato e con la voglia di avere una donna. Questo è stato il mio primo episodio”. Dopo questo primo episodio Andrea non comprava direttamente lui la sostanza e non era frequente l’uso. Giorno dopo giorno però si trovava sempre di più in situazioni simili con persone che ne facevano uso. Successivamente, tuttavia, aveva imparato ad usarla in solitudine, perché, a suo dire, non gli piacevano le reazioni delle persone con cui stava.

Il paziente racconta che, quando era fidanzato e sposato, la sua compagna non sapeva nulla del suo uso di sostanze e che non voleva assolutamente lo sapesse. Racconta anche che un periodo critico e di aggravamento dell’uso è stato a seguito del divorzio con la stessa compagna. Poi dice: “io la usavo anche perché facevo lavori notturni. Mi aiutava. Mi faceva stare bene e non pensare ai problemi, alle menate di tutti i giorni”. Aggiunge: “quando lavoravo ho sempre gestito. Non sono mai andato fumato al lavoro. Nessuno si è mai accorto di niente e nessuno mi ha fatto mai casino per questa cosa. Poi quando non ero di turno e facevo serata spendevo tutto quello che avevo in cocaina.”

Valutazione psicodiagnostica

La valutazione psicodiagnostica è stata effettuata tramite colloquio clinico e la somministrazione di alcuni questionari e scale come il CBA 2.0 – Cognitive Behavioural Assessment (Sanavio, Bertolotti, Michielin, Vidotto, Zotti, 1997) e la SCID-5 PD – Intervista strutturata per i disturbi di personalità del DSM-5 (First, Williams, Benjamin, Spitzer, 2015). Il primo inventario ha messo in evidenza punteggi significativi per la scala dello psicoticismo (disadattamento sociale) e della depressione; alla SCID-5 PD, invece, è emerso un disturbo antisociale di personalità e un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, oltre ad alcuni tratti borderline e narcisistici, questi ultimi sotto soglia di diagnosi.

Dalla fase di assessment, quindi, è emerso un quadro abbastanza complesso della situazione psicologica di Andrea. Oltre al disturbo da uso di stimolanti è emerso un forte substrato depressivo, una tendenza del paziente ad essere ansioso e a somatizzare nonché un marcato disadattamento sociale. Come la maggior parte dei pazienti che fanno uso di sostanze, la richiesta di presa in carico è stata di tipo sociale (casa, lavoro).

Contemporaneamente alla fase di valutazione è stata sondata la motivazione del paziente e incrementata ulteriormente con la firma di un vero e proprio contratto che fosse decaduto qualora il paziente non avesse rispettato le regole della struttura ospitante e le norme basilari della terapia individuale per questo tipo di disturbo. E’ stato ampiamente ribadito che successivamente al trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo da uso di stimolanti doveva essere somministrato un trattamento specifico per i tratti patologici di personalità, anche se questi sono, giocoforza, stati trattati anche nel corso di questo trattamento e in quelli di gruppo come qui sotto riportato.

Trattamento

Il trattamento ha avuto una durata di 8 mesi, con sedute a frequenza settimanale della durata di un’ora (32 sedute). Tale trattamento individuale è stato un’integrazione tra il colloquio motivazionale proveniente dalla terapia centrata sul cliente di Rogers (1951), l’educazione razionale emotiva (Ellis, 1962; Knaus, Bokor, 1975), la terapia cognitivo-comportamentale per la dipendenza da cocaina (Beck, 1993; Carroll, 1998) e la terapia cognitiva basata sulla mindfulness (Segal et al., 2013). Parallelamente al trattamento individuale Andrea ha seguito dei gruppi di apprendimento di abilità (skills training) come da protocollo della Terapia Dialettica Comportamentale (Linehan, 1993).

Colloquio motivazionale

Successivamente alla fase di assessment è stato effettuato un colloquio motivazionale nello stile di Miller e Rollnik (1991). Il colloquio motivazionale è una metodologia di colloquio messa a punto da Miller e Rollnik a partire dal 1980 e rivolta soprattutto a persone con dipendenze patologiche e deriva dall’approccio di Carl Rogers sulla terapia centrata sul cliente (1951). Tale stile di colloquio si basa: sulla consapevolezza che devono essere presenti delle abilità di counseling per costruire una buona relazione terapeutica; sulla costruzione di domande aperte e sulla riformulazione; sulla comprensione del processo di cambiamento come di un processo a fasi; sull’appropriatezza del linguaggio. Gli autori sostengono sia di primaria importanza verificare l’importanza percepita del problema e l’autoefficacia percepita dal paziente. Il colloquio motivazionale presuppone, inoltre, l’utilizzo di diverse tecniche quali: domande aperte, ascolto riflessivo, sostenere e confermare il cliente, evocare affermazioni in direzione del cambiamento.

Evocare affermazioni in direzione del cambiamento è stata una delle tecniche più importanti che è stata utilizzata con Andrea. Attraverso questa tecnica si è potuto evidenziare attraverso varie domande: gli svantaggi della situazione attuale, i vantaggi del cambiamento, la fiducia nella propria capacità di riuscire e l’intenzione di cambiare.

Ecco alcune domande fatte a Andrea per sondare le quattro aree qui sopra riportate:

  • Svantaggi della situazione attuale:

T: Cosa la preoccupa della situazione attuale?

A: “Che non ho più nulla e non so come vivere.”

T: Che difficoltà ha avuto in relazione all’uso di sostanze?

A: “Il fatto che ho speso tanti soldi e che mi dovevo ritirare per non farmi vedere in giro.”

T: Cosa crede che accadrà se non farà alcun cambiamento?

A: “Penso che succederà qualcosa di brutto, o finirò in carcere o morirò.”

  • Vantaggi del cambiamento:

T: In che modo vorrebbe che le cose fossero diverse?

A: “Vorrei avere un posto dove stare e mangiare regolarmente, poi un lavoro, vorrei fare le cose normali.”

T: Quale sarebbe il lato positivo di smettere di usare cocaina?

A: “Che sarei più lucido per ottenere le cose che voglio, sarei più concentrato; poi non spenderei tutti quei soldi e sarei più presentabile anche per la mia famiglia.”

T: Cosa è importante per lei?

A: E’ importante essere sano, lavorare, avere una famiglia e stare bene.

  • Fiducia nella propria capacità di riuscire:

T: Cosa è che le dà il coraggio di cambiare?

A: “Che non può continuare così, non me lo merito, non è quello che voglio.”

T: Cosa le fa pensare che se decidesse di cambiare sarebbe in grado di farlo?

A: “Perché sono che sono in regola, so lavorare e mi so comportare con le persone, sono educato e non mi tiro indietro se c’è da fare qualcosa.”

T: Cosa e chi potrebbe aiutarla a fare questo cambiamento?

A: “Mi potrebbe aiutare stare nella vostra struttura e stare concentrato su quello che devo fare, poi sicuramente un lavoro; mi potrebbe aiutare ricucire i rapporti con mio padre e avere contatti con mia sorella e una mia vicina che mi hanno sempre aiutato e credono in me.”

  • Intenzione di cambiare:

T: Cosa pensa di fare?

A: “Penso che accetto questo percorso e farò del mio meglio.”

T: In che modo potrebbe ottenere i risultati desiderati?

A: “Ascoltando le vostre indicazioni e impegnandomi a non usare.”

In questo modo è stato possibile esplorare le potenziali capacità del paziente a produrre cambiamento e le ragioni, il bisogno e il desiderio di cambiare.

Psicoeducazione

Nelle prime fasi della psicoterapia individuale si sono svolte sedute di informazione sul disturbo da uso di sostanze, sulle dipendenze, sui disturbi ad esse associati, incluse le informazioni di tipo medico-sanitario.

È stato molto importante sfatare, fin da subito, miti e idee disfunzionali sull’uso delle sostanze (Baldini, 2010) come: “tanto la cocaina non dà assuefazione, quindi posso smettere quando voglio”, “mi faccio solo quando decido io, il fine settimana con gli amici”, “ho già dimostrato in passato che quando voglio posso smettere”, “ho bisogno della cocaina perché mi fa sentire sempre al massimo, perfetto, senza debolezze”.

In seguito è stato effettuato con il paziente un training educativo di base sulle emozioni per via della ricorrente presenza di alessitimia nei pazienti con dipendenze. Tale training si basa sull’educazione razionale emotiva (Knaus, Bokor, 1975) e sulla REBT (Ellis, 1962). Per ogni emozione è stata data una definizione dell’emozione prima soggettiva poi con l’aiuto del terapeuta è stata rimodulata; gli è stato chiesto di localizzare la sensazione fisica dell’emozione nel corpo e si è lavorato sulla funzione delle emozioni, sulla loro durata e sull’allenamento a riconoscerne l’intensità. Una volta compreso il significato della sintomatologia è stato introdotto il modello cognitivo-comportamentale con l’A-B-C (Ellis, 1962 in DiGiuseppe, 2014).

Tecniche di fronteggiamento

Esercizi di respirazione diaframmatica e Rilassamento muscolare progressivo di Jacobson

In quanto il paziente presentava una tendenza ad essere ansioso e attivato è stato ritenuto opportuno fornirgli subito degli strumenti spendibili al bisogno che lo aiutassero ad abbassare l’emotività e la tensione con degli esercizi di respirazione diaframmatica ed il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson, nella forma abbreviata (1928 in Galeazzi, Meazzini, 2004).

Ristrutturazione cognitiva

Andrea, all’inizio, ha fatto un po’ di fatica a comprendere l’A-B-C (Ellis, 1962 in DiGiuseppe, 2014) per cui è stato importante elicitare delle memorie autobiografiche per mettere in luce la connessione evento-pensiero-emozione (Di Maggio et al., 2013).

Dall’analisi funzionale sono emerse varie distorsioni cognitive (Beck, 1976; Morgese, 2018) nei pensieri automatici negativi di Andrea, quali: astrazione selettiva (penso sempre a fumare, sono irrecuperabile), generalizzazione (oggi tutti usano coca), personalizzazione (oggi Walter è troppo serio, sicuramente ce l’ha con me per qualcosa), pensiero dicotomico (per me è così oppure non se ne fa nulla), catastrofizzazione (non ne verrò mai fuori). La ristrutturazione cognitiva è stata una tecnica trasversale a tutto il trattamento e ha permesso a Andrea di capire che poteva esistere un altro modo di pensare oltre al suo, che non bisogna essere definitivi nelle proprie convinzioni e affermazioni e che quindi il modo di pensare poteva essere cambiato e quindi stare meglio.

Di seguito riporto uno spaccato di terapia dove riflettiamo sulla sua distorsione cognitiva di astrazione selettiva/generalizzazione con il pensiero “penso sempre a fumare, sono irrecuperabile”:

T: “prima ha detto una cosa abbastanza rigida, se ne è accorto?”

A: “io? Quale?”

T: “Lei ha detto: penso sempre a fumare, sono irrecuperabile.”

A: “eh si, veda lei! Guardi la mia situazione, ora ce l’ho sempre in testa come un chiodo fisso, perché ho sempre fumato e so fare quello.”

T: “capisco, quindi lei ritiene di essere irrecuperabile perché pensa sempre 24 ore su 24 alla cocaina?”

A: “si, ma non 24 ore su 24, ma la maggior parte del tempo, ora un po’ meno rispetto a prima.”

T: “okay, bene, quindi mi sta dicendo che ci pensa spesso, ma non sempre, giusto?”

A: “si, spesso, ma non sempre.”

T: “questa cosa che ha detto adesso è importante, perché ci aiuta a non generalizzare, anche perché è quasi impossibile che una persona possa avere la mente occupata dallo stesso pensiero 24 ore al giorno, cosa ne pensi?”

A: (ride) “si è vero, ho detto una cazzata.”

T: “non ha detto una cazzata, è stato il suo modo di dire, in maniera un po’ amplificata, che ci pensa e che avrebbe il desiderio di usare.”

A: “si è così.”

T: “e questo desiderio e pensiero quasi costante le fa credere di essere irrecuperabile.”

A: “si perché penso che sono uno stupido a non saperlo reprimere o che non so evitarlo.”

T: “si è comprensibile, però lei non è stupido. Uscire dalla droga non è semplice, liberarsi dalla sostanza non è semplice. Il fatto che lei ci pensi sempre non è indicativo del fatto che lei sia dotato ti scarsa intelligenza, ma è un sintomo molto comune e normale.”

A: “si ma mi fa sentire una merda.”

T: “questo è un altro discorso.”

A: “perché io ce la devo fare dottore, perché sono stufo, sono veramente stanco.”

T: “mi sembrano dei buoni propositi e delle buone motivazioni, rimanga concentrato sull’obiettivo e si ricordi sempre quest’ultima frase che mi ha detto.”

Gestione della contingenza

La gestione della contingenza è un modello di terapia comportamentale in cui un individuo viene rinforzato o ricompensato per l’evidenza di un cambiamento comportamentale nella direzione dell’obiettivo di cura, nel caso delle dipendenze: l’astinenza (Petry, Martin, 2002).

Questo approccio è fondamentalmente basato sui principi del condizionamento operante o apprendimento strumentale definiti per la prima volta in modo sistematico da Burrhus Skinner (1938 in Meazzini, Carnevali, 2016), secondo cui un comportamento viene appreso o modificato in funzione delle sue conseguenze. Vale a dire, ciò che un individuo fa o impara a fare dipende dalle conseguenze del suo comportamento stesso.

L’uso delle sostanze e anche le dipendenze, comprese quelle comportamentali, possono essere viste come una forma di un condizionamento operante, in cui la ripetuta associazione tra stimoli di contesto, assunzione di sostanze (risposta comportamentale), attivazione del sistema della ricompensa (rinforzo positivo) può portare prima all’aumento della risposta comportamentale, cioè l’uso di sostanza e poi alla sua fissazione.

Come terapia comportamentale, la gestione della contingenza mira a cambiare la struttura di rinforzo che opera nel comportamento dei soggetti dipendenti, in cui il rinforzo delle sostanze o del comportamento oggetto della dipendenza è dominante (Petry, Martin, 2002). Ciò è possibile erogando rinforzi positivi come conseguenza dell’astinenza o di comportamenti che possono competere con l’uso della sostanza e la dipendenza.

In concreto un intervento di gestione della contingenza nelle dipendenze può prevedere un controllo frequente delle urine, per verificare l’astinenza, e l’immediato rinforzo contingente per ogni campione negativo, pulito. Il rinforzo può essere monetario, ad esempio voucher o premi, oppure in benefits, come abbonamenti per palestre, biglietti del cinema, concerti, piscina e così via (ibidem).

In questo caso con Andrea è stato utilizzato un controllo urine ogni 4 giorni per tutta la durata del trattamento e i rinforzi consistevano in:

  • Uscita dalla comunità una volta alla settimana per una mattina/un pomeriggio.
  • Uscita dalla comunità due volte alla settimana per una mattina/un pomeriggio.
  • Uscita dalla comunità per mezza giornata rimanendo in zona.
  • Uscita dalla comunità per andare a trovare i familiari (dalle 8 alle 22).
  • Due giorni fuori dalla comunità.
  • L’uso della TV.

Analisi funzionale della sostanza

La terapia cognitivo-comportamentale del disturbo da uso di sostanze (Carroll, 1998; Setti, Benato, 2010) dà molta importanza alla fase di analisi funzionale della sostanza. L’analisi funzionale permette di individuare le cause di un comportamento problematico analizzandone la funzione: è quindi importante capire gli effetti conseguenti poiché sono essi stessi che mantengono il disturbo. Utilizzare l’analisi funzionale è molto utile per lo sviluppo della consapevolezza nel paziente della funzione che la sostanza ha rispetto alla sua personalità, ai suoi schemi cognitivi e ai rapporti interpersonali.

L’analisi funzionale della sostanza ricostruisce la dinamica di un episodio di assunzione di cocaina per individuare in modo preciso come abbia preso avvio, quali pensieri e quali sensazioni abbia provato il paziente, quale comportamento abbia messo in atto e infine quali siano state le conseguenze positive e negative (Setti, Benato, 2010).

Nel caso di Andrea fumare cocaina voleva dire: fermarsi e prendersi del tempo per sé in solitudine, fare aggregazione sociale, fronteggiare episodi di depressione, fronteggiare il senso di vuoto e la noia, fronteggiare il senso di bassa autostima, sentirsi abile socialmente e attivo a fare qualcosa. Il paziente è stato sorpreso di tutte le funzioni che la sostanza aveva per la sua vita e iniziava a capire l’entità e la portata dell’uso di stimolanti, ma anche che la sua personalità doveva essere aggiustata.

Ripetere più volte tale analisi permette al paziente di imparare a riconoscere le situazioni per lui a rischio relative alle emozioni che prova, a stimoli ambientali e a eventi stressanti. Inoltre, incrementa la motivazione al trattamento e permette di costruire una solida base per una buona alleanza terapeutica perché i pazienti riescono a capire il significato dell’uso della sostanza.

Prevenzione delle ricadute

Successivamente al primo step di analisi funzionale della sostanza siamo passati al cuore della terapia cognitivo-comportamentale della dipendenza da cocaina. La prevenzione delle ricadute è una macro fase centrale in questa tipologia di trattamento e che comprende: la gestione del desiderio (Kadden et al., 1992 in Carroll, 1998), l’individuazione di comportamenti protettivi e alternativi all’uso (Monti et al., 1989 in Carroll, 1998), con le cosiddette “decisioni apparentemente irrilevanti”, ed infine l’esercitazione sul mettere in atto un “piano di difesa multifunzionale” (Jaffe et al., 1988 in Carroll, 1998).

Gestione del desiderio

È importante per i pazienti comprendere che provare un certo desiderio rappresenta un fatto normale e abbastanza comune e occorre infondere la credenza funzionale che provare desiderio non significa che le cose stanno andando male o che si avrà una ricaduta. La gestione del desiderio (Carroll, 1998) si compone di passi ben precisi costituiti da:

  • Capire e descrivere il desiderio: cioè vedere insieme al paziente quando il desiderio sovviene durante il giorno, la sua frequenza e durata, ma soprattutto riflettere sul senso del desiderio, sul significato che ha per il paziente e sulle preoccupazioni che esso suscita.
  • Identificare le cause scatenanti. Questa analisi comprende l’individuazione di tutti i fattori che portano all’uso della droga ed emerge più volte nel corso del trattamento.
  • Affrontare il desiderio con varie strategie quali la distrazione, il parlare del desiderio, l’accettazione del desiderio e il ricordare le conseguenze negative dell’uso di cocaina.

Individuazione dei comportamenti alternativi

Questo passo è molto importante nel trattamento della dipendenza perché propone al paziente modalità differenti di comportarsi e di pensare invece di usare la sostanza. L’individuazione dei comportamenti alternativi (Carroll, 1998; Setti, Benato, 2010) ha permesso a Andrea di essere creativo e di pensare per la prima volta dopo tanto tempo come riempire la vita di tutti i giorni sostituendo la sostanza. Questa tecnica presuppone:

  • L’individuazione di comportamenti a rischio, come tutte le azioni che massimizzano la probabilità di usare cocaina.
  • L’individuazione di comportamenti protettivi, cioè azioni che proteggono il paziente e controllano lo stimolo (cambiare numero di cellulare, telefonare al terapeuta o una persona cara, andare in un posto sicuro, evitare i luoghi rischiosi, uscire di casa senza soldi, cambiare strada o percorso, evitare le persone che usano sostanze).
  • L’individuazione di comportamenti alternativi, cioè azioni funzionali che sostituiscono il tempo impiegato dal desiderio e dall’uso della sostanza (leggere, fare una passeggiata, fare ginnastica, giocare al computer, disegnare o dipingere, scrivere, cucinare, trovare un’attività piacevole).

In questo punto del trattamento è bene ragionare sulla modalità di rifiuto della cocaina e una sulle decisioni apparentemente irrilevanti in termini pratici, operazionali e, soprattutto, molto realistici.

Per quanto riguarda la modalità di rifiuto della cocaina abbiamo si sono effettuati dei role play per imparare a rispondere negativamente all’offerta della sostanza. Il role play in questione prevedeva la seguente scaletta di comportamenti e frasi: prima cosa dire no; guardare gli occhi l’altra persona; chiedergli di non offrire più cocaina; non aver paura di porre dei limiti; non lasciare la porta aperta a offerte future e ricordarsi la differenza tra modalità di reazione passiva, aggressiva e assertiva che ho introdotto nel corso del trattamento.

È stato molto importante introdurre il riconoscimento delle decisioni apparentemente irrilevanti. Questa tecnica si basa sul modello di Pithers (1990 in Dettore 2018) introdotto nella terapia cognitivo-comportamentale proposta da Carroll (1998), e si basa sull’assunto che, mentre è possibile in ogni momento prima dell’uso interrompere la catena, è molto più difficile farlo alla fine della catena stessa, quando i pazienti si trovano già in situazioni in cui la cocaina è disponibile e gli stimoli condizionati abbondano. Pertanto, è molto utile riconoscere le decisioni che, normalmente, intervengono all’inizio della sequenza, quando il rischio, il desiderio e la disponibilità della cocaina sono relativamente bassi (Carroll, 1998).

Le decisioni apparentemente irrilevanti vengono trattate tramite il riconoscere, l’evitare e il fronteggiare: riconoscere le decisioni apparentemente irrilevanti e i pensieri collegati, evitare le decisioni rischiose, far fronte alle situazioni ad alto rischio.

Con Andrea abbiamo identificato alcune decisioni apparentemente irrilevanti che sono tipiche del suo uso:

  • Usare alcool, marijuana, pastiglie;
  • Tenere alcool in casa;
  • Non eliminare gli accessori connessi all’uso della cocaina;
  • Frequentare o fermarsi con persone che fanno uso;
  • Tenere nascosto ai membri della famiglia che ha fatto uso/fa uso;
  • Non comunicare alle persone con cui usava cocaina che ha deciso di smettere;
  • Non programmare la settimana con attività di vario tipo;
  • Fronteggiare la stanchezza in modo funzionale.

Oltre a questo elenco è stato chiesto ad Andrea di riportare alla mente il ricordo di almeno tre situazioni specifiche dove ha usato cocaina, cercando di ripercorrere la catena degli eventi antecedenti all’uso nel modo più scrupoloso possibile in maniera da identificare le azioni, i pensieri, e le emozioni e gli stati mentali associati.

Sviluppare un piano di difesa multifunzionale

La prevenzione delle ricadute si identifica come nucleo centrale della terapia cognitivo comportamentale del disturbo da uso di sostanze e delle dipendenze e ciò, nel caso della dipendenza da cocaina, presuppone lo sviluppo di un piano di difesa multifunzionale (Jaffe et al., 1988 in Carroll, 1998). Nello specifico occorre invitare il paziente a pensare ad almeno tre principali eventi stressanti che potrebbero capitare nei mesi seguenti il termine del trattamento e quali potrebbero essere le relative reazioni. Questo perché quando i pazienti sono molto stressati, sentendosi vulnerabili possono riutilizzare le vecchie e familiari strategie di difesa piuttosto che quelle maggiormente funzionali, imparate e messe in atto durante il trattamento. Il piano di difesa di base che di solito si utilizza nelle dipendenze da sostanza comprende:

  • Una certa quantità di numeri telefonici di emergenza;
  • Ricordare le conseguenze negative delle ricadute;
  • Dei pensieri positivi che sostituiscono quelli che portano all’uso.
  • Distrazioni facilmente realizzabili.
  • Una serie di posti sicuri dove è possibile attendere il superamento della crisi senza troppe tentazioni e stimoli.

Andrea ha compilato una flashcard (Young, 2003) da tenere sempre con sé, che formula in maniera chiara e sintetica il piano di difesa multifunzionale (Jaffe et al., 1988 in Carroll, 1998) progettato in seduta.

Problem Solving

Successivamente sono state introdotte delle strategie di risoluzione dei problemi in quanto il paziente presentava la tipica impulsività dei consumatori di sostanze di fronte a un evento difficile od un problema di vita. Ad Andrea è stato utile capire che la soluzione migliore, cioè più efficace, per risolvere il problema era quella di non accumulare i problemi singoli facendone uno insormontabile (con le varie emozioni amplificate annesse) e di non lasciarsi travolgere dall’onda di ansia, insicurezza e tristezza o rabbia collegata agli eventi, ma di mettere da parte queste emozioni (analizzandole poi successivamente) e concentrarsi sul processo di risoluzione del problema, rispondendo alla domanda: cosa posso fare io per risolvere questo problema?

I pazienti con dipendenza da uso di sostanze hanno scarse capacità di problem solving, ma queste possono essere apprese ed allenate insieme a una serie di altre abilità come previsto, per esempio, nel modello della DBT della Linehan per i consumatori di sostanze (Linehan, Dimeff, 2000). Le strategie di problem solving fanno parte del modulo “abilità di tolleranza della sofferenza” che a sua volta è uno dei quattro moduli per la terapia di gruppo della Dialectical Behavior Therapy (Linehan, 1993).

Il problem solving viene definito come quel processo cognitivo autodiretto, attraverso il quale si cerca di identificare soluzioni efficaci e adattive da applicare ai problemi incontrati nella vita quotidiana (D’Zurilla, Goldfried, 1971). Le strategie di problem solving sono abilità di coping versatili e generali, utili ed efficaci in un ampio range di situazioni difficili.

L’insegnamento di tali strategie parte dal presupposto che di fronte ai problemi quotidiani e alle difficoltà relazionali spesso le modalità di fronteggiamento dei pazienti si limitano a reazioni del tutto impulsive. L’assunzione di sostanze può rientrare in queste modalità impulsive e rappresentare in alcuni casi un modo generalizzato di risoluzione delle difficoltà (Cavalieri, 2010).

L’obiettivo dell’insegnamento delle strategie di problem solving è fornire al paziente una strategia generale che gli consenta di affrontare nel modo più appropriato le varie situazioni conflittuali ricorrendo alle proprie risorse personali.

Mindfulness

L’ultima parte del trattamento è stata dedicata all’introduzione delle abilità di mindfulness, nella formulazione della terapia cognitiva basata sulla minduflness di Segal et al. (2013) per favorire un atteggiamento di distacco dai propri pensieri, quindi allenare le funzioni di decentramento e di automonitoraggio (Dimaggio, Semerari, 2003). Inoltre, tale tecnica ha permesso di promuovere gentilezza e compassione verso il paziente stesso in un clima di accettazione e libertà.

Conclusione della terapia ed Esito del trattamento

Successivamente alla mindfulness è stato utile ripassare i punti chiave del trattamento, le tecniche utilizzate e quali sono stati i momenti di maggiori difficoltà, nonché ciò che è stato fatto per superarli. Il paziente nell’ultima fase della terapia si è dimostrato impaurito e desideroso di sostegno per la conclusione del rapporto terapeutico.

Il trattamento ha avuto un esito positivo. Il paziente è sempre stato negativo al controllo urine e non ha mai effettuato un lapse o un relapse. L’atteggiamento di ricaduta era però visibile a livello umorale e comportamentale e durante il trattamento è avvenuto almeno 3 volte.

Relazione terapeutica

La relazione terapeutica è stata molto travagliata. All’inizio il paziente è stato agganciato bene anche per la sua motivazione. In seguito, la motivazione al trattamento e alla sospensione protratta dell’uso ha creato delle difficoltà relazionali tra il terapeuta principale e il paziente, o con gli altri operatori della comunità, anche per alcune credenze che venivano a galla in momenti particolari, come ad esempio: “questo trattamento non mi serve, io sto bene” oppure “io ho bisogno di un lavoro e ce la faccio”, oppure “lei non mi può insegnare niente”: pensieri carichi di aggressività e derivanti in larga parte dal sottostante disturbo di personalità.

Le difficoltà relazionali consistevano in errate interpretazioni del paziente circa le riflessioni che venivano fatte in seduta e le conseguenti emozioni che emergevano in maniera eccessiva non venivano gestite adeguatamente sfociando in chiusure nette da parte di Andrea. Dopo tali episodi, tuttavia, il paziente riusciva a capire l’errore di ragionamento che compiva ed inoltre apprezzava l’assertività degli operatori nel spiegargli il perché succedeva tutto questo.

È doveroso sottolineare che con pazienti aventi queste tipologie di disturbi, le rotture dell’alleanza terapeutica capitano molto spesso, poiché alla base vi è quasi sempre uno schema di sfiducia (Young et al., 2003). Tuttavia, è possibile prevedere come esiterà il ciclo interpersonale messo in atto dal paziente (Dimaggio et al., 2013). In questi casi, il terapeuta deve ricorrere a delle tecniche di disciplina interiore perché è molto facile agganciarsi emotivamente al copione messo in atto dal paziente. Se riconosciuto in tempo, attraverso un adeguato distacco, è possibile, in maniera assertiva, riportare il paziente al presente facendogli notare il suo funzionamento nel qui e ora, e chiedendogli cosa vuole comunicare e perché, naturalmente validando il vissuto del paziente.

Nonostante queste difficoltà il paziente ha portato avanti con impegno il trattamento e ha sempre mostrato interesse nel capire il suo funzionamento.

Follow-up

È stato effettuato un controllo a 1, 3, 6, 12 e 24 mesi dalla fine del trattamento. Non c’è stata una ricaduta e il paziente è sempre stato negativo al controllo urine. Al termine del dodicesimo mese dalla fine del trattamento è stato dichiarato in remissione protratta come da DSM-5 (APA, 2013), con la specificazione “in ambiente controllato”, che poi è decaduta dopo che il paziente è entrato nella fase di sgancio del percorso comunitario.

Punti di forza e limiti

I punti di forza del trattamento dell’uso da stimolanti di Andrea sono riassumibili in una parola: integrazione. Integrazione non solo di varie tecniche terapeutiche (di fatto sono state utilizzati elementi teorici e tecniche di orientamenti diversi, vedi sopra), ma anche di varie figure differenti all’interno della comunità come quella dello psicoterapeuta, dell’educatore, dello psichiatra, del medico di medicina generale, dell’assistente sociale e di altro personale. Tutte le figure hanno saputo contribuire entro i loro limiti professionali.

I limiti di tale trattamento sono riconducibili essenzialmente al fatto che il paziente si trovava in regime residenziale, in una comunità terapeutica, per cui l’accesso alle sostanze d’abuso era fortemente limitato rispetto a un trattamento non-residenziale; ed inoltre, la motivazione al trattamento era condizionata dallo stato economico del paziente, perché costui non disponeva di una entrata fissa, di un lavoro e di un alloggio dove eventualmente stare.

 

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