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L’ansia in un’ottica interdisciplinare: il corpo prigioniero della mente

Il Pilates, disciplina volta a stimolare il benessere, ha ripercussioni importanti sia sulla mente sia sull’organismo dell’individuo. Si dedica prevalentemente alla rieducazione della respirazione: questo rappresenta una grande risorsa negli stati d’ansia.

 

L’esperienza clinica fin qui accumulata mi ha insegnato che la valigia dello psicoterapeuta deve contenere tanti strumenti che coadiuvano gli interventi che ognuno di noi può mettere in campo come aiuto per i pazienti che incontriamo.

Nell’ottica della interdisciplinarietà e della lettura teorica, dove mente e corpo sono un’unità inscindibile, e nelle situazioni in cui i pazienti portano un carico di ansia riconoscibile nella mente, con fissazioni e pensieri ricorrenti, nel fisico, con blocchi muscolari, ho sempre pensato che la soluzione fosse, oltre ad un sostegno psicoterapeutico, anche un lavoro attraverso il corpo.

Non tutti i pazienti sono stati disponibili ad accedere allo stesso tipo di intervento sul corpo: per alcuni era assai complicato partecipare a delle sedute di training autogeno; per altri ancora era impensabile rilassarsi e concentrarsi sulla respirazione. Altri hanno addirittura raccontato di un’amplificazione dei sintomi in situazioni che avrebbero dovuto invece aiutarli nel cambiamento.

L’incontro con questi pazienti e l’uso delle indicazioni contenute nel libro di Greenberger, mi hanno permesso di identificare alcuni sintomi comuni alle persone ansiose. L’autore sostiene che ai pensieri che caratterizzano il paziente ansioso, si susseguono, come in una catena, specifici stati d’animo, funzioni fisiche e comportamenti.

I pensieri di cui i pazienti raccontano hanno dei contenuti dai quali si evincono convinzioni di una sopravvalutazione dei pericoli e\o al contrario una sottovalutazione della propria capacità di affrontarli, nelle più articolate situazioni; una predisposizione a leggere tutto o quasi in termini di preoccupazione e\o catastrofismo. Gli stati d’animo, che possono anche raggiungere un’elevata intensità, vanno su un continuum che va dal nervosismo, all’agitazione, passando per l’ansia fino a raggiungere situazioni di vero panico. A questo si aggiungono i campanelli fisici come le mani sudate, la tensione muscolare, l’accelerazione cardiaca, i capogiri che influiscono sia sui pensieri sia sugli stati d’animo in senso assolutamente peggiorativo, in un vortice senza via d’uscita.

Infine arrivano tutti quei comportamenti atti a evitare situazioni che generano ansia o ad abbandonarle, atteggiamenti di perfezionismo o di controllo e l’adozione di misure di protezione, come l’evitamento di situazioni di socialità.

Per i pensieri e gli stati d’animo, il lavoro psicoterapeutico si è centrato sulla loro identificazione e registrazione quotidiana anche attraverso un diario giornaliero. Si ritrovavano dal nervosismo generalizzato, fino al completo panico, passando per stati di agitazione. I pensieri più frequenti erano le preoccupazioni contenenti situazioni catastrofiche, come l’imminente infarto dopo aver salito le scale, o l’incapacità a fronteggiare “pericoli” vissuti come eccessivi rispetto alla realtà (un cane che sembra una tigre).

Veniamo ai comportamenti. Propri del soggetto ansioso sono quei comportamenti di evitamento delle situazioni e\o protezione dai presunti pericoli, in modo che il soggetto possa sentirsi al sicuro e stare apparentemente meglio.

Come dice Greenberger:

quando usiamo comportamenti protettivi, spesso crediamo di fronteggiare bene l’ansia ma, di solito i comportamenti protettivi ci fanno concentrare sul pericolo e rinforzano l’idea che le situazioni siano altamente rischiose anche quando in realtà non è detto che lo siano (Greenberger, D. Padesky, C.A. p. 290).

E allora i racconti dei pazienti erano di evitamento delle scale per salire, ma anche l’ascensore che mette ansia; non si pratica più attività fisica per non incorrere in malesseri tipo la tensione, i dolori e il bruciore ai muscoli, la facile stanchezza, la respirazione difficile, l’accelerazione cardiaca, il tremore, le palpitazioni e gli spasmi.

Tutto questo finisce per avere un peso anche in termini di socialità fortemente impedita: abolizione dei viaggi e degli incontri con gli amici; non si possono frequentare luoghi pubblici poiché sempre in “pericolo di vita”. In aggiunta a questo, anche l’impossibilità di trovare persone sempre disposte ad ascoltare i racconti di malesseri e guai che colpiscono questi soggetti.

I racconti dei pazienti sono centrati sulla chiusura sociale; a causa dei sintomi che si ritrova anche nell’impedimento, a volte, a svolgere qualsiasi attività fisica, anche in chi ne aveva sempre praticata. E’ così che anche il fisico, la muscolatura, la postura ne risente.

Il corpo vissuto e percepito come “malato” e non più fonte di benessere e i “sintomi” come unici compagni di vita: il corpo prigioniero della mente.

Ogni segnale è trasformato subito in sintomo e di lì s’inizia il percorso medico e specialistico. I medici spesso diventano amici, ai quali il paziente si rivolge per qualsiasi cosa, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Chiede indagini approfondite che portano alla scoperta dell’assenza di un qualsivoglia problema organico. Non basta, oggi internet consente alle persone un’autodiagnosi, che nel caso dei soggetti ansiosi funziona esattamente come uno di quei comportamenti che incidono amplificando, in senso negativo, pensieri, stati d’animo e azioni, intorno all’ansia.

Fortunatamente i pazienti che ho incontrato si sono poi imbattuti in medici e\o amici che, esclusa qualsiasi causa organica o individuata e curata, hanno invitato le persone a rivolgersi a uno psicologo.

Ma lo psicologo poco può fare se non si attiva anche un lavoro attraverso il corpo. Molti dei pazienti, refrattari a qualsiasi tecnica di rilassamento proposta, li ho inviati presso un personal trainer, per intraprendere con lui un percorso centrato sul corpo e sulla sua riscoperta come fonte di benessere, attraverso due discipline sportive, il pilates e la ginnastica posturale.

Il Pilates, disciplina volta a stimolare il benessere, ha ripercussioni importanti sia sulla mente sia sull’organismo dell’individuo. Si dedica prevalentemente alla rieducazione della respirazione: questo rappresenta una grande risorsa negli stati d’ansia. Si lavora sull’uso corretto del diaframma che oltre ad apportare una migliore ossigenazione al cervello, stimolando aree fino allora quiescenti, controlla anche le nostre paure e angosce. Sappiamo che di fronte ad un pericolo c’è un aumento dell’ansia, e che questo corrisponde anche a un aumento della respirazione: controllare la respirazione significa trasformarla da un sintomo passivo ad uno strumento per aiutare lo scioglimento dell’ansia stessa.

E’ una pratica fisica e mentale che aiuta a sviluppare consapevolezza di se stessi, del corpo e della mente, ma in termini di sano e piacevole, di potenziale da sviluppare e non come gabbia da cui dover fuggire.

Joseph Pilates affermava che la forma fisica era il primo requisito per la felicità, pensando che mente e corpo non potevano essere separati nel raggiungimento dell’obiettivo del benessere, poiché si influenzano a vicenda.

L’altra disciplina, cui si sono avvicinati molti dei pazienti con una sintomatologia ansiosa, è la ginnastica posturale. Tra gli obiettivi della ginnastica posturale c’è quello di migliorare la percezione del corpo per poterlo usare al meglio.

Durante le mie ricerche bibliografiche spesso ho sentito definire la ginnastica posturale come una disciplina dolce, dove gli esercizi sono eseguiti ponendo l’attenzione a ogni singolo movimento e la respirazione deve mantenere un ritmo regolare e continuo, scandendo tempi e pause per immaginare il corpo come fonte di benessere. Considerando che per molti pazienti la sintomatologia ansiosa porta alla percezione del proprio corpo come una prigione, la disciplina in sé li aiuta a modificare, passando attraverso l’esperienza del sentire, il costrutto mentale distorto.

Cosa i pazienti si sono portati via da questa esperienza e che li aiuta nella quotidiana gestione dell’ansia?

Sicuramente l’esercizio nella “rieducazione alla respirazione”. In entrambe le discipline è fondamentale, ma questo insegnamento è ciò che poi può essere applicato negli stati d’ansia, di paura e di stress, quando la nostra respirazione diventa più ampia del normale e può essere letta come un segnale di pericolo imminente per la nostra incolumità. La gestione dell’ansia passa anche attraverso il controllo della respirazione: un lungo respiro ci permette di calmarci, di non entrare in confusione, di ridimensionare quanto sta accadendo e prendere una decisione.

Altro elemento importante è il cambio di costrutto mentale circa il proprio corpo: da malato a fonte di benessere e soddisfazione. Questo aspetto, trattato in psicoterapia, ha permesso ai soggetti di migliorare l’idea ma anche l’immagine di se stessi, nella dimensione relazionale. Chi soffre d’ansia ha la tendenza a chiudersi, a limitare il più possibile i rapporti sociali: questa è una delle conseguenze più difficili da vincere.

Un modello di riferimento e di azioni centrato sul paziente e sull’interdisciplinarietà, e la possibilità per i pazienti di riprendere una vita dove sono padroni di se stessi e del loro corpo, deve necessariamente prevedere una sinergia d’incontri, che ha come obiettivo alleviare la sofferenza e le paure e allo stesso tempo imparare tecniche fruibili per la gestione quotidiana dell’ansia.

 

Essere genitori in tempo di pandemia: come mantenere un ambiente sano e promuovere la resilienza

Paura, incertezza, distanziamento sociale, rinuncia alle proprie abitudini, per rallentare la diffusione di COVID-19, possono rendere difficile mantenere un atteggiamento di calma in famiglia. 

 

E’ però fondamentale, ora più che mai, per salvaguardare il benessere dei bambini e dei ragazzi, aiutarli a sentirsi al sicuro, validare le loro emozioni, gestire il loro comportamento con una disciplina positiva (AAP, 2020), controllare la propria reattività emotiva per evitare che normali discussioni diventino lotte di potere, o preoccupazioni diventino catastrofiche previsioni.

Bambini e ragazzi possono rispondere in maniera differente a situazioni di stress in base all’età e all’interazione tra fattori personali e ambientali. Tra le manifestazioni più frequenti che possiamo osservare, secondo The National Child Traumatic Stress Network (Tab.1), in questo periodo:

Covid 19 e famiglia come e possibile promuovere la resilienza nei bambini Tab 1

Tab. 1: Reazione a situazioni di stress in bambini e ragazzi

Cosa può fare un genitore per aiutare bambini e ragazzi a rispondere allo stress?

Non è possibile rendere esenti bambini e ragazzi dallo stress che la pandemia può favorire, così come non possiamo evitare loro gli alti e bassi della vita, i momenti di difficoltà, le perdite, i dolori che la vita inevitabilmente comporta, ma è possibile aiutarli ad acquisire competenze per far fronte, riprendersi dalle difficoltà ed essere preparati per le sfide future.

I genitori possono, infatti, promuovere nei figli la resilienza, la capacità di riuscire ad adattarsi alle avversità. Quando i bambini sono resilienti, sono più coraggiosi, più curiosi, più adattabili, più disponibili al mettersi in gioco (Gail Hornor, 2007); conoscono i loro limiti e si spingono per uscire dalla loro zona di comfort. Questo li aiuta, a lungo termine, a raggiungere i loro obiettivi e a risolvere i problemi in modo indipendente(Gail Hornor, 2007).

Cosa è la resilienza?

La capacità di riuscire ad adattarsi alle avversità. Non è una specifica abilità, ma è un costrutto dinamico e multidimensionale correlato all’interazione tra gli individui e i differenti ambienti nei quali si sperimentano (famiglia, pari, scuola, comunità e società) (APA, 2020). Negli ultimi vent’anni, tantissimi studi, hanno evidenziato come una buona relazione genitoriale sia uno dei fattori più importanti, insieme alle attitudini personali, per lo sviluppo di resilienza nei bambini e per fronteggiare gli effetti negativi dello stress quotidiano (APA,2020). Philip Fisher, professore di psicologia presso l’University of Oregon, che studia gli interventi nella prima infanzia per migliorare il funzionamento dei bambini provenienti da contesti svantaggiati, sottolinea come la presenza di un caregiver coerente e protettivo, specialmente quando si è in situazioni di stress, è il fattore che fa differenza nello sviluppo sano di un bambino (Kirsten Weir; 2017).

Come si può promuovere la resilienza?

Di seguito sono proposti alcuni suggerimenti per promuovere la resilienza nei bambini in famiglia:

  • Creare un ambiente strutturato e organizzato
  • Connettersi con i propri figli “esserci nel qui e nell’ora”
  • Parlare di emozioni in famiglia
  • Comunicare comprensione
  • Promuovere l’utilizzo di un linguaggio positivo e rispettoso
  • Promuovere il reciproco aiuto
  • Favorire e incentivare le relazioni sociali a distanza
  • Promuovere abilità pianificazione e di problem solving
  • Promuovere abilità di autocontrollo
  • Incoraggiare lo sviluppo di flessibilità cognitiva
  • Promuovere lo sviluppo di competenze /abilità
  • Offrire l’occasione di aiutare gli altri
  • Promuovere il gioco creativo e l’esercizio fisico
  • Coltivare l’ottimismo
  • Incoraggiare pratiche di mindufulness (consapevolezza)

Mantenere routine in famiglia (ora del pranzo, tempo per i device, giochi insieme, attività scolastiche, ora della cena e dell’addormentamento), fornire ascolto, supporto, dedicare del tempo speciale (in cui giocare insieme, leggere delle storie, svolgere attività insieme) parlare delle emozioni che si stanno sperimentando in questa eccezionale situazione, e ancora ridurre l’atteggiamento di critica (sei uno stupido! combini solo guai) a fronte di un linguaggio positivo e rispettoso (in questo esercizio c’e qualcosa che non va, riguardalo bene; presta attenzione quando versi l’acqua, eviterai di farla cadere) permette lo sviluppo di una relazione empatica e accogliente all’interno della quale i bambini e ragazzi si possono sentire al sicuro e possono beneficiare dei contatti a distanza (videochiamate, messaggi, telefonate) con parenti e amici.

Promuovere attività e giochi volti a favorire le abilità di autocontrollo, ingaggiarli nella soluzione di situazioni problematiche, senza offrire loro soluzioni, ma invitandoli a trovarle autonomamente, modellare strategie di problem solving (mostrare come sia necessario generare soluzioni alternative alla soluzioni di problemi), chiedere di pianificare, organizzare la giornata o un’attività, sono fattori che permettono di potenziare il funzionamento esecutivo, localizzato nella corteccia pre-frontale, la cui attivazione in situazioni di stress ha il potere di calmare l’amigdala (centro delle emozioni), che è il punto dove ha inizio la risposta fisiologica allo stress.

Rinforzare la partecipazione alle routine familiari, comprese le faccende domestiche, il sostegno ai fratelli più piccoli, o a chi ne ha bisogno in famiglia o a distanza tra gli amici, parenti, compagni; Promuovere lo sviluppo di punti di forza, valorizzando le aree di competenza (sport, musica, attività scolastiche, giochi, creatività), al fine di favorire lo sviluppo di una mentalità flessibile orientata all’idea di miglioramento possibile e non fissa, guidata dal pensiero dicotomico: sono intelligente versus non sono intelligente.

Dedicare del tempo ad attività sportive in casa (sfruttando la tecnologia), e dall’inizio della fase due anche fuori casa (rispettando le regole del distanziamento sociale), proporre attività e giochi creativi, far respirare in famiglia un clima positivo, mostrando la capacità di affrontare con ottimismo una situazione di difficoltà; incoraggiare pratiche di mindfulness, definita da Jon Kabat Zinn la consapevolezza che emerge prestando attenzione, in modo non giudicante, allo scorrere dell’esperienza nel presente, momento dopo momento (Kabat Zinn, 1990); chiedere ai bambini di concentrarsi ad esempio su ciò che possono vedere, sentire, annusare, toccare e persino gustare in quel momento, imparare a connettersi su ciò che sta accadendo nel qui e nell’ora piuttosto che pensare al futuro, imparare a stare con le emozioni percepite come spiacevoli. Ognuno di questi aspetti, come dimostrato da centinaia di studi, contribuisce alla riduzione dello stress (American Accademy, 2016; Mascaro 2016; Tarrasch; 2018) e aiuta i bambini a districarsi di fronte a situazioni stressanti senza mai perdere il timone.

Non è semplice promuovere la resilienza in questa attuale situazione di Pandemia, modificare il proprio modo di rispondere alle situazioni di stress; riconoscere le opportunità dietro questa grande sfida può essere una strategia vincente. I bambini hanno straordinarie capacità di rispondere a situazione di difficoltà, ma hanno bisogno di sapere e di esperire che c’è un adulto nella loro vita che crede in loro, li ama incondizionatamente ed è al loro fianco nel fronteggiare le sfide della vita.

 

Disturbo dello spettro autistico e atipie motorie

Accanto ai sintomi socio-comunicativi e alla presenza di comportamenti ed interessi ripetitivi e ristretti, il disturbo dello spettro autistico (ASD) sembra essere caratterizzato da una motricità con connotazioni atipiche.

 

Circa l’80% dei bambini con ASD infatti presenta difficoltà motorie di varia natura, con un impatto significativo sulla qualità di vita e lo sviluppo sociale. E’ evidente un ritardo nell’acquisizione delle prime tappe dello sviluppo motorio (posizione eretta, seduta, in piedi, camminare) e una goffaggine nelle acquisizioni di motricità fine e nella coordinazione motoria (prendere, infilare, tenere un oggetto, incastrare). Tra le difficoltà grosso-motorie che sembrano evidenti già entro il secondo anno di vita, osserviamo l’asimmetria posturale e la deambulazione atipica che talvolta si riflette in un’anomalia del pattern tacco-punta o in un’andatura “a papera” (Esposito, G. e Venuti, P., 2008). Lievi atipie nel cammino (minor forza applicata a livello della caviglia e diversa postura dell’anca e del bacino durante il passo) sono state riscontrate anche da uno studio recente dell’IRCCS Medea di Bosisio Parini condotto tramite il GRAIL, una piattaforma che integra un sistema di analisi del movimento e del cammino su tapis roulant e un sistema di realtà virtuale (Biffi et al., 2018).

Tra le difficoltà fino-motorie i bambini con ASD mostrano maggiori difficoltà nei compiti che richiedono una coordinazione occhio-mano (ad esempio in compiti di lancio e recupero di una palla o nella manipolazione di perline da infilare in sequenza).

La precocità di comparsa delle anomalie motorie già nei primi mesi di vita ha indotto numerosi ricercatori ad ipotizzare che esse possano essere dei marcatori importanti di una possibile diagnosi di ASD. Ad esempio, già entro il primo anno di età è possibile osservare un ritardo nell’acquisizione delle prime tappe motorie dello sviluppo, come la conquista del controllo posturale (Fournier et al., 2010; Esposito, G. e Pasca, S.P., 2013; Nickel et al., 2013) in soggetti che riceveranno successivamente una diagnosi di ASD. In particolare una ricerca di Nickel et al. (2013) ha indagato lo sviluppo posturale di bambini ad alto e a basso rischio biologico di ASD attraverso videoregistrazioni di attività quotidiane e di gioco a 6,9,12 e 14 mesi. Dallo studio emerge che mentre per i bambini a rischio ASD il repertorio posturale migliora con l’avanzare dell’età, quindi le posture più basilari vanno via via scomparendo lasciando il posto a quelle più avanzate (seduta non sostenuta o posizione eretta), per i bambini con successiva diagnosi di ASD si osserva un ritardo nell’acquisizione di tutte le posture indagate (posizione eretta, seduta, in piedi, camminare), repertori di posture più ristretti e, dai 9 mesi in poi, trascorrono più tempo in posture meno avanzate (sdraiato, seduto). Rimandano quindi a una traiettoria evolutiva unica che non segue un andamento parallelo a quello osservato negli altri bambini.

Poiché i progressi posturali permettono ai bambini di interagire con oggetti e persone in modo nuovo e più sofisticato, ritardi nello sviluppo posturale potrebbero avere effetti a cascata non solo sulle abilità motorie ma anche in altri domini compresa l’esplorazione degli oggetti, la vocalizzazione e il comportamento sociale e comunicativo, limitando le opportunità di esplorazione e di apprendimento.

È possibile concludere che un monitoraggio precoce delle competenze motorie possa consentire di individuare l’eventuale presenza di traiettorie di sviluppo atipico e di poter lavorare sulle stesse attraverso programmi riabilitativi motori specifici.

COVID-19: al di là della paura

In questi giorni segnati dall’emergenza Covid-19 si può scorgere l’invito alla scoperta di un senso nuovo di comunità, di apertura all’altro integrando il valore dell’autorealizzazione, che ha dominato finora la società post-moderna fondata sull’utilitarismo, con quella che Frankl definisce autotrascendenza: realizzarsi nella relazione e per il bene comune.

 

Una grande paura
soverchiante
uccide il virus
della libertà
l’emergenza
martellante
di cui ci cibano
non deve renderci schiavi
-ciò che non si può vedere

Già in altri articoli su questo giornale si era parlato della paura; mai come oggi, in questa situazione di emergenza, questa emozione domina i vissuti emotivi di tutti noi.

La paura, come tutte le emozioni ha una natura adattiva, rende vigile l’individuo e lo aiuta nella preparazione di strategie per mettere in salvo la propria vita, intesa sia a livello corporeo che psichica. Il nostro corpo in una situazione di pericolo produce un ormone specifico, l’adrenalina, che induce cambiamenti a livello fisiologico, preparandoci a reazioni di fuga o di immobilità (freezing). Modelli neurobiologici, tra cui quello di Siegel e Ledoux, mettono in evidenza come dinnanzi a uno stimolo spaventoso il sistema limbico si attivi e, con lui, i processi inferiori di elaborazione che generano reazioni impulsive, rigide e ripetute; la corteccia prefrontale, connessa a una modalità superiore di elaborazione, resta invece inibita. Per modalità superiori di elaborazione di intende processi razionali come la capacità di riflessione e autoconsapevolezza. Nella concezione di Maclean, che vede il cervello come tripartito, “cervello trino”, esso sarebbe diviso in tre parti:

  • la corteccia prefrontale, connessa al linguaggio verbale e analitico;
  • il sistema limbico, strettamente connesso alla sfera emotiva;
  • tronco encefalico, la parte più ancestrale della mente, sede degli impulsi e delle sensazioni, detto cervello rettiliano.

La regione limbica, situata nella parte centrale del cervello, comprende:

  • l’amigdala, una struttura a forma di mandorla, dalla cui forma deriva il suo nome, coinvolta nei processi di valutazione di significati, nell’elaborazione dei segnali e nell’attivazione delle emozioni. L’amigdala svolge un ruolo fondamentale nel controllo di specifiche reazioni emotive, nello specifico la rabbia e la paura;
  • l’ippocampo, una struttura a forma di cavalluccio marino, che svolge un ruolo molto importante per quanto riguarda la memoria e il richiamo di eventi autobiografici.

Queste due strutture cerebrali coordinano gli imput provenienti dalle regioni corticali superiori con informazioni provenienti dal tronco cerebrale e il resto del corpo.

L’area limbica si è sviluppata nel corso dell’evoluzione dei mammiferi ed ha reso possibili operazioni più complesse rispetto a quelle connesse al tronco encefalico che si trova alla base del cranio che ha la funzione di mediare l’attivazione fisiologica e la vigilanza oltre allo stato fisiologico corporeo; inoltre quest’area ancestrale comprende neuroni che attivano reazioni di attacco-fuga-congelamento volti alla sopravvivenza.

L’area limbica contribuisce alla costruzione di stati emotivi, come la rabbia, la paura, la tristezza, riunendo gli imput sensoriali provenienti dal tronco encefalico. Inoltre il sistema limbico valuta il significato degli stimoli ed essa influenza l’orientamento dell’attenzione. L’area limbica dunque può essere definita una sorta di ponte tra il tronco cerebrale, più primitivo, e la corteccia cerebrale, legata a processi razionali. Ogni area cerebrale ha la sua funzione e solo attraverso il dialogo di queste tre specifiche aree si può raggiungere un’integrazione a livello cerebrale e dunque valutare, scegliere ed agire in modo adattivo in base al contesto nel quale ci si trova. La corteccia cerebrale, o neocorteccia, è la parte più esterna degli emisferi cerebrali e svolge funzioni di elevata complessità come: mediare funzioni di elaborazione delle informazioni, coordinare diversi processi come l’attenzione e il collegamento fra pensiero ed emozione.

Nella situazione di crisi che questa emergenza globale ci impone di affrontare è bene soffermarsi brevemente anche sul concetto di stress, strettamente connesso alla paura. Per stress si intende il vissuto di condizioni sia interne che esterne che portano gli esseri umani ad allontanarsi da uno stato di equilibrio. Alcuni tipi di stress sono definiti positivi, eu-stress, e favoriscono un funzionamento ottimale. Altri tipi di stress, soprattutto se protratti nel tempo, risultano essere nocivi anche a livello biologico causando degli squilibri nella secrezione del cortisolo, chiamato ormone dello stress, che serve per modificare il metabolismo in maniera adattiva. Una situazione di stress e di paura a lungo termine può rendere maggiormente difficili i processi di elaborazione delle informazioni di tipo top-down, un’elaborazine integrale cognitiva, emotiva e sensomotoria che ha origine nella corteccia cerebrale, lasciando spazio a un tipo di elaborazione bottom-up, legata a parti più antiche del cervello, dove i lobi frontali sono inibiti, così come l’ippocampo, e si vive in una situazione di allarme costante. Il pericolo coronavirus può facilitare l’inibizione di processi superiori, come la consapevolezza, la gestione dei vissuti emotivi e la capacità di riflessione, lasciando spazio a processi e reazioni irrazionali, dove l’esame di realtà può essere profondamente alterato. Bisogna porre attenzione alle reazioni irrazionali di attacco-fuga e congelamento che sperimentiamo in questo stato di allarme e notare quanto esse siano adattive. Queste reazioni sono attivate dal tronco cerebrale in presenza di una minaccia e servono per la sopravvivenza, ma come detto in precedenza, occorre mediare, attraverso l’utilizzo di aree cerebrali superiori, e riflettere sugli stati emotivi per una loro gestione più efficace. In questo specifico stato di emergenza sembra che abbia inizialmente dominato la reazione di difensiva dell’attacco, basti pensare agli assalti, a volte anche brutali, dei supermercati e l’iniziale colpa della diffusione del virus allo “straniero”. Questo tipo di difesa primitiva, fortunatamente, si è mostrata, in poco tempo, non funzionale e immotivata, e si è passati a un tipo di difesa maggiormente adattiva: la fuga. Come si fugge da un pericolo invisibile, chiusi nelle proprie case? Continuando ad agire e mostrandosi intoccabili alla paura e al dolore. Il secondo periodo è stato caratterizzato da un iper adattamento alla quarantena, con un’esplosione sui social di tutorial e tecniche per organizzare al meglio il proprio tempo, per fuggire dalla paura e stati emotivi negativi. Ha dominato in questo secondo tempo l’homo felix e l’homo faber, che tanto fa gola a quello che Lacan definirebbe il “discorso del capitalista” e all’economia globale. Anche nell’emergenza, forse a maggior ragione, ci siamo concessi poco tempo e poco spazio per coltivare l’interioritá, riflettere e interrogarci. La fuga dalla paura ci ha fatto scappare da noi stessi attraverso qualsiasi tipo di attività e ci ha permesso di restare, seppure a distanza, seppure nelle nostre case, dei “turboconsumatori” di fake news, di cibo, di tempo. Questa ultima fase della quarantena, forse la più critica, e le successive saranno probabilmente maggiormente caratterizzate da quello che viene definito “freezing”, immobilizzazione, meccanismo difensivo contro tendenza nell’epoca contemporanea, in cui anche una crisi mondiale, sia economica che sociale, paragonabile a quella generata da una vera e propria guerra, è estremamente “fast”, per dirlo con un termine maggiormente evocativo, sia nella genesi che nella sua evoluzione.

Le reazioni difensive di immobilizzazione sono tra le più antiche e sono associate alla totale passività, lo svenimento o la morte apparente. Ovviamente questo meccanismo di difesa, così come gli altri sopra descritti, risulta essere funzionale dinnanzi al pericolo ma inizia a diventare un ostacolo qualora estremamente rigido, non flessibile e pervasivo. La fase che ci aspetta, di un parziale riapertura, ci invita ad aprirci a noi stessi, a cercare di renderci consapevoli dell’emergenza che stiamo vivendo sia come singoli che come tessuto sociale. Anche in questo caso, come in tutte le situazioni drammatiche e che lacerano il senso di continuità dell’esistenza, vi è l’occasione di cogliere una domanda di senso. Abbiamo parlato fino ad ora della dimensione biologica, tipicamente animale, e quella psicologica e sociale nella crisi, ma c’è nella persona un livello spirituale, o noetico, che ha a che fare con la capacità, propria solo all’essere umano, di autotrascendenza, di andare oltre la paura dopo esservi entrati in contatto e di dar un senso soggettivo, personale ma anche collettivo. Nonostante i condizionamenti biologici ai quali ci siamo riferiti inizialmente, l’uomo resta ultimamente libero e responsabile delle sue azioni in qualsiasi situazione. Seppure sottoposto a numerose influenze, l’individuo può scegliere, anche nella situazione più critica, in quanto quest’ultima non lo determina. Durante questa quarantena forzata, sposando la prospettiva frankliana, gli individui hanno messo in campo valori creativi che permettono la realizzazione dell’essere umano attraverso lo svolgimento di attività concrete, facendo riferimento a ciò che l’essere umano produce: qualsiasi tipo di ricetta, video tutorial, giochi alternativi per i bambini, ecc… Vi è anche un altro modo di realizzarsi attraverso quelli che vengono definiti valori esperienziali. L’individuo, in questo caso, si realizza nel ricevere ciò che il mondo gli offre come la relazione con gli altri o un momento di relax, momenti che nella frenesia della quotidianità tendevano ad essere trascurati o limitati. L’ultimo tipo di valori descritto da Frankl fa riferimento proprio alle situazioni limite, come quella che stiamo vivendo, e sono i valori di atteggiamento. L’uomo, facendo riferimento a questa categoria valoriale, resta libero di scegliere il proprio atteggiamento dinnanzi alla realtà, critica o devastante che sia; per fare ciò l’essere umano utilizza: l’autodistanziamento, quindi prendere le distanze da uno specifico evento, oggettivandolo, imparando a gestirlo al meglio e cogliere un significato più profondo, e l’umorismo, che consiste nel cercare il meglio anche in situazioni ineluttabili.

Per Frankl ogni essere umano è caratterizzato dalla “forza di resistenza dello spirito”, la forza di far fronte ad eventi estremamente stressanti e di cogliere in essi un’opportunità di crescita.

Dinnanzi alla “tragica triade” dell’esistenza umana (morte, sofferenza e colpa), l’essere umano ha l’opportunità di scoprire un nuovo senso e nuovi orizzonti di crescita.

In questi giorni si può scorgere l’invito alla scoperta di un senso nuovo di comunità, di apertura all’altro, integrando il valore dell’autorealizzazione, che ha dominato finora la società post-moderna fondata sull’utilitarismo, con quella che Frankl definisce autotrascendenza: realizzarsi nella relazione e per il bene comune.

Il COVID-19, nelle sue drammatiche ripercussioni, può essere l’occasione per spingerci ad essere ricercatori di un mondo nuovo interiore ed esteriore e allo stesso tempo un modo nuovo di stare nel mondo. Lo stesso modo di vivere la quarantena mostra una sorta di evoluzione, dall’essere affamati dell’approvantion-seeking, mostrando agli altri e a noi stessi le nostre moltissime passioni, hobby, ricette impeccabili per fare qualsiasi cosa, alla sensation seeking, quindi la ricerca di emozioni forti e la ricerca del piacere che purtroppo è stata frustrata, se non fosse per l’uso massiccio dei social, il consumo (forse lo spreco) di una grande quantità di cibo e l’adrenalina suscitata dallo shopping online sfrenato. Questo momento storico, che ci mette in contatto con l’inautenticitá di molte cose delle quali ci siamo circondati, ci invita a guardare invece al sense-seeking, a diventare ricercatori di senso; l’impatto traumatico del dolore e dell’emergenza nella nostra vita ha messo in crisi, mettendo in luce la sua inconsistenza, il comandamento dei nostri giorni “Godi, divertiti a tutti i costi”, dove non vi era posto per la sofferenza e la sua dimensione introspettiva. Il dolore che proviamo oggi come singoli, come comunità, come popolo, questa volta davvero nel profondo globalizzato, è un’occasione di riscoperta. Il successo e il fallimento sui quali, come su una fune tesa, si muoveva vacillante ma con atteggiamento fintamente spavaldo l’homo sapiens, descritto da Frankl, non vengono più ritenuti fondamentali, di primaria importanza. Ci cogliamo come esseri che stanno soffrendo, come quello che lo stesso autore descrive come homo patients, che si muove su un asse verticale, richiamando l’idea di trascendenza, tra disperazione e realizzazione. Queste dimensioni non sono legate ad oggetti o ad obiettivi materiali, a differenza del successo e del fallimento, ma piuttosto all’atteggiamento che si sceglie di avere. Dunque cogliere il dolore e la sofferenza che stiamo sperimentando per renderli un’opportunitá nuova. Alla fine della quarantena e di questa pandemia la domanda che ci porremo non sarà solo “Cosa ho imparato a fare di nuovo?”, ma anche “Cosa ho imparato di nuovo su di me, sugli altri, sul mondo che mi circonda? Come può arricchire questa nuova consapevolezza la mia vita?”.

Pensando a come la terapia della Gestalt approccia ai sogni mi sembra significativo calare alcune tecniche e sfumature nella situazione attuale. Si invita l’individuo a raccontare al presente il sogno, nel nostro caso un incubo, si cerca di stimolare il contatto con le emozioni che si sperimentano nel qui ed ora fino ad arrivare a una sorta di chiusura del lavoro sul sogno, dove solitamente si chiede: “quale messaggio esistenziale credi ti stia comunicando questo incubo? Cosa voleva dirti e cosa ti porti da questa esperienza?”. Queste sono le domande che ci si presentano in questo momento, come esseri umani e come collettività, questa la nostra sfida oggi: capire il senso e il significato profondo di questa emergenza oltre la paura e a quali nuovi orizzonti di senso potrebbe aprirci.

Se il mondo ti crolla addosso. Imparare a veleggiare tra le ondate della vita. (2012) di Russ Harris. Edizione italiana a cura di Giovanbattista Presti

A volte siamo chiamati ad agire, reagire e resistere di fronte ad urti importanti della vita, ma il vero problema, suggerisce l’autore di Se il mondo ti crolla addosso, sarebbe quello di rinunciare a lottare e reagire per ciò che conta veramente per noi, seppur accompagnati dal dolore, dalla rabbia o dalla paura.

 

“Non c’è nulla di buono o di cattivo, è il pensiero che lo rende tale”, così recitava una celebre frase di William Shakespeare che riprende Russ Harris all’interno di Se il mondo ti crolla addosso, ma l’autore ci ricorda che non tutto può essere migliorato, gestito e curato attraverso l’uso esclusivo della ragione ma che bisogna “imparare a veleggiare tra le ondate della vita” e delle emozioni senza lasciarsi travolgere, imparando a gettare l’ancora quando serve.

Il testo infatti si propone come un manuale di auto-aiuto, che offre al lettore interessato, validi spunti e suggerimenti per lavorare in tal senso.

Russ Harris, medico e psicoterapeuta, autore di diverse pubblicazioni e testi tradotti anche in italiano come La trappola della felicita. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere e Se il mondo ti crolla addosso, consente al lettore un lavoro interiore attraverso i principi dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy).

All’interno di Se il mondo ti crolla addosso, il focus viene posto sulla “sberla” o divario che in maniera più o meno grave possiamo sperimentare tra la realtà immaginata che vorremmo avere e quella con la quale ci troviamo a fare i conti e che a volte può essere esasperatamente diversa ed inaspettata (crisi, perdite, malattie…).

Non mancano le aperture dell’autore e riferimenti ad aspetti intimi della propria vita che sicuramente impreziosiscono il testo e coinvolgono emotivamente ancor di più il lettore.

Attraverso un linguaggio semplice ma che non trascura nulla, Russ Harris nei vari capitoli spiega la natura di certe reazioni emotive, qualunque esse siano (rabbia, tristezza, paura…) o di pensieri e attraverso i principi dell’ACT, spiega come procedere in questo lavoro personale che ognuno di noi è chiamato a portare avanti.

Gentilezza verso se stessi, “gettare l’ancora” quando ci troviamo in un mare in tempesta, prendere un posizione ed un ruolo attivo rispetto a ciò che accade e che spesso non dipende da noi ma, ci porta a riflettere l’autore, a noi spetta la scelta di continuare a struggerci e distruggerci ad esempio all’interno delle nostre emozioni, evitamenti e pensieri catastrofici, peggiorando il problema, o agire e re-agire in modo funzionale.

Connessione, defusione, espansione ed azione consapevole in sintonia con i propri valori, sono concetti chiave all’interno dell’ACT ed anche all’interno del testo, che offre una serie di esercizi pratici e schede che consentono di mettersi sin da subito in gioco.

Infatti è anche quest’ultimo aspetto sul quale sembra puntare l’autore, ossia il fare, l’azione; spiega infatti che seppur siamo abituati a sentire “è il pensiero che conta”, ciò che crea la realtà in cui viviamo sono le nostre azioni, azioni che devono essere orientate dai nostri valori, ossia da ciò che conta veramente per noi.

Ed a volte siamo chiamati ad agire, reagire e resistere di fronte ad urti importanti della vita, ma il vero problema, suggerisce l’autore, sarebbe quello di rinunciare a lottare, reagire, per ciò che conta veramente per noi, seppur accompagnati dal dolore, dalla rabbia o dalla paura.

Rispetto a ciò l’autore ci suggerisce la sua formula della resilienza da applicare di fronte ad una possibile situazione problematica: cambia ciò che può essere cambiato, accetta quello che non può essere cambiato e vivi secondo i tuoi valori.

Ma quali valori? Anche rispetto a ciò Russ Harris, offre delle linee guida per riuscire ognuno nel proprio intimo a trovare i propri.

Ma dobbiamo anche riuscire a porci degli obiettivi che, anche in questo caso, vanno sviluppati secondo una struttura suggerita all’interno del testo reperibile nell’Appendice, in quanto i principi dell’ACT, va sottolineato, non sono autoreferenziali, ma supportati da una validità empirica.

Non mancano riferimenti alla mindfulness e relativi esercizi elaborati e suggeriti dall’autore ispirati ad essa.

Un invito dunque a prendere la giusta distanza dai nostri contenuti mentali e reazioni emotive, riconoscendoli come nostri ma senza identificarsi con questi, rimanendo nel presente, disposti ad accettare ciò che non può essere cambiato ed agire verso la direzione che vorremmo prendesse la nostra vita, in modo consapevole e funzionale, attraverso una flessibilità psicologia che consenta un migliore adattamento rispetto alle situazioni nelle quali ci possiamo trovare.

Un invito che può essere utile tanto ai non addetti ai lavori quanto al professionista che lavora per la promozione del benessere psicologico.

 

Masturbazione femminile: ne parliamo?

Il presente studio ha rivelato che la masturbazione non è una prerogativa delle donne single: il 13% delle donne in coppia e il 15% delle donne single si masturbano una volta a settimana, con un picco nelle giovani coppie.

 

Per molto tempo, la pratica della masturbazione femminile è stata considerata un tabù; nonostante, ad oggi, vi sia un maggior accesso da parte delle donne al materiale pornografico online o agli oggetti sessuali, come ad esempio i sex-toys, la masturbazione è ancora lontana dal diventare una componente abituale del repertorio sessuale femminile, al pari degli uomini.

La presente indagine è stata condotta mediante un questionario online, con un campione di 913 donne francesi di età compresa tra i 18 e i 69 anni. I suoi obiettivi sono stati quelli di descrivere e spiegare la crescente diffusione della masturbazione tra le donne francesi, e di fornire un aggiornamento sulla questione dell’accettabilità di tale pratica tra la popolazione femminile, in un’epoca in cui le norme culturali in materia sembrano essersi evolute. Nello specifico, i nuovi dati, raccolti attraverso l’IFOP (Istituto Francese d’Opinione Pubblica), sono stati confrontati con quelli risalenti a indagini precedenti sulla sessualità, condotti in Francia.

Dai risultati emerge che il comportamento di masturbazione femminile è molto più vicino a quello degli uomini di quanto non lo fosse prima. Essa infatti pare essere un’attività in fortissima crescita. Secondo i dati, nel 2017, tre donne su quattro (74%) ammettono di essersi masturbate nel corso della loro vita, contro il 60% nel 2006 (CSF), il 42% nel 1992 (ACSF) e appena il 19% nel 1970 (Rapporto Simon). Tuttavia, resta comunque una pratica più diffusa tra gli uomini (95%), oltre che ad essere una pratica molto più occasionale per le donne: soltanto il 14% delle donne ha dichiarato di masturbarsi almeno una volta a settimana, contro il 50% degli uomini.

Le indagini precedentemente citate hanno evidenziato le difficoltà delle donne nell’accettare tale forma di piacere, puramente individuale, poiché non rientra nel contesto socialmente accettabile della relazione di coppia. Alfred Spira ha, a questo proposito, messo in luce la quasi impossibilità, per le donne del tempo, di accogliere l’esistenza di una forma di sessualità in cui il piacere è ottenuto in solitaria (Spira & Bajos, 1993). Anche Béjin (1993) vedeva, da un lato, tracce di un residuo del tradizionale pudore femminile, dall’altro il riflesso di una pratica ancora associata all’idea della solitudine. Pertanto, non richiedendo l’attaccamento a un partner, masturbarsi significava confermare la teoria di non essere attraenti. Più recentemente sono stati messi in risalto gli effetti di una eccessiva “romanticizzazione” della sessualità femminile, che impedirebbe alle donne di associare, in maniera spontanea, piacere e sessualità, oltre a considerare il loro piacere in modo indipendente dalla figura del partner (Legouge, 2016). Tuttavia, l’incremento di tale tendenza, secondo Bozon (2008), è dovuto al fatto che la masturbazione è diventata una pratica “socialmente più legittima”. Ciò rifletterebbe un cambiamento di percezione della masturbazione all’interno di una popolazione femminile che fino ad oggi la vedeva come un “triste sostituto” del rapporto sessuale di coppia, e che al contempo vedeva il partner “l’unico depositario del proprio piacere” (Legouge, 2008). I suddetti cambiamenti si riflettono anche nella sfera mediatica e musicale, ad esempio artiste come Miley Cyrus (Adore You), Lady Gaga (Sexxx Dreams), Hailee Steinfeld (Love Myself) rivendicano nelle loro canzoni questa pratica da una prospettiva femminista, mentre le produzioni cinematografiche, come ad esempio “Black Swan” (2011), “The To – Do List” (2013), o le serie Tv americane come “Orange is the New Black”, hanno moltiplicato le scene relative alla masturbazione femminile, promuovendone la “normalizzazione”. Inoltre, è anche significativamente aumentato il numero di donne che accedono ai siti web pornografici, dal 4% nel 2006 (CSF) al 43% nel 2015 (Indagine IFOP –Porngig/Novembre 2015), e che leggono libri sull’autoerotismo, dal 57% delle donne nel 2012 al 67% a gennaio 2015 (sondaggio IFOP – Femme Actuelle, 2015). Infine, nel 2017 quasi una donna francese su due (49%) ammette di aver utilizzato un sex – toy, contro il 37% nel 2012 e appena il 9% nel 2007.

Il presente studio ha, inoltre, rivelato che la masturbazione non è una prerogativa delle donne single: il 13% delle donne in coppia e il 15% delle donne single si masturbano una volta a settimana, con un picco nelle giovani coppie. Solitamente le donne implicate in una relazione sentimentale che tendono comunque a masturbarsi hanno un profilo specifico: sono più abbienti, hanno un livello più elevato di istruzione, rivestono posizioni lavorative che richiedono maggiori responsabilità. Una possibile spiegazione potrebbe essere dovuta al fatto che si tratta di donne intraprendenti, capaci di assumere il controllo nella loro vita professionale così come in quella privata e sessuale. Da un lato, il fatto che tra le donne single che ricorrono alla masturbazione vi è una percentuale più alta in coloro che hanno una vita sessuale insoddisfacente (19%) rispetto a coloro che sono molto soddisfatte (10%), può suggerire che masturbarsi sia una pratica tipica di chi ha una vita sessuale fallimentare. D’altro lato però il fatto che vi sia il 18% delle donne in coppia con una vita sessuale intensa (almeno 3 volte a settimana) che ricorre alla masturbazione, suggerisce che vi siano ulteriori motivazioni alla base, fra cui l’inadeguatezza e la mancanza di efficacia dei rapporti coniugali, o più in generale quando vi è scarsa soddisfazione relativamente alla qualità o alla frequenza. Ciò sta a sottolineare che la masturbazione non è assolutamente svincolata da una vita sessuale abbondante in una coppia.

Infine, la masturbazione sembra essere più accettabile, da un punto di vista sociale, se si tratta di donne single; in caso contrario, verrebbe interpretata come la manifestazione di problemi. Infatti, per il 45% delle donne implicate in una relazione, la masturbazione resta un tabù perché temono che questo comportamento venga interpretato come segno dell’incapacità del proprio partner di soddisfare le loro esigenze.

Possiamo concludere che, sebbene la masturbazione femminile sia, ad oggi, più ampiamente accettata e riconosciuta, siamo ancora lontani dalla sua inclusione all’interno di un repertorio sessuale tipico della donna, o quantomeno facile da ammettere con i propri partner. Pertanto, la menzione di questa forma di piacere individuale continua ad essere un ostacolo, soprattutto all’interno di una relazione, in cui ciò che non viene detto appesantisce il significato di questa pratica.

ATTenzione alla vibrazione! Un’applicazione dell’Attention Training Technique all’uso delle nuove tecnologie

Il progetto “Shift Focus and Be Positive” era orientato a offrire agli adolescenti “strumenti” utili per l’uso corretto di Internet e delle nuove tecnologie, con particolare riferimento alla gestione positiva delle situazioni potenzialmente stressanti.

Claudia Marino – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

È sempre più frequente sentir dire che “gli adolescenti stanno male perché sono sempre connessi” o che “i ragazzi di oggi sono distratti perché hanno sempre il telefono in mano”. È conseguentemente frequente anche la richiesta di insegnanti e genitori di aiutare i ragazzi a “spegnere il telefono almeno mentre studiano” perché “come fanno a concentrarsi se lo smartphone vibra di continuo?”. In linea con le preoccupazioni della società rispetto all’effetto delle nuove tecnologie, è stato recentemente dimostrato che l’uso problematico di Internet, dello smartphone e tutte le sue applicazioni può portare a conseguenze negative per la salute dei giovani (es, Liang & Leung, 2018; Marino, Gini, Vieno, & Spada, 2018). Difficoltà ad addormentarsi, ansia, depressione, solitudine, bassi livelli di successo accademico sono solo alcune di queste. Concretamente, il disagio sperimentato online potrebbe essere ricondotto ad eventi quotidiani della vita online dei ragazzi, come non ricevere reazioni (ad esempio in termini di like e condivisioni) ai propri post e foto caricate sui social oppure ricevere messaggi spiacevoli oppure anche sentirsi stressati dalla quantità di messaggi ricevuti e dalla pressione a dover rispondere subito a tutti (es., Marino, Finos, Vieno, Lenzi, & Spada, 2017) oppure la Fear Of Missing Out (FOMO, cioè la paura di essere esclusi da eventi importanti; Fuster, Chamarro, & Oberst, 2017) e phubbing (cioè, guardare lo smartphone durante un’interazione interpersonale; Chotpitayasunondh & Douglas, 2016). In questo senso, è stato anche dimostrato che l’uso problematico delle tecnologie, in termini di perdita di controllo del tempo speso online e compromissione della vita scolastica e amicale, ha a che fare con la difficoltà nell’auto-regolazione da un punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale (es., Caplan, 2010). Sembrerebbe, per esempio, che persone con alti livelli di uso problematico di Internet tendano a ruminare e rimuginare di più rispetto ai “non problematici” (Şenormanci et al., 2013) come strategia per far fronte agli eventi negativi online; tuttavia queste strategie contribuiscono ad aumentare i loro livelli di ansia e depressione (Wang et al., 2018).

Allora, cosa possiamo fare con gli adolescenti per prevenire l’uso problematico di Internet?

Spada e Marino (2017) hanno recentemente suggerito la potenziale utilità di interventi di prevenzione che mirino a modificare le credenze che i ragazzi hanno sui loro stessi pensieri e sulla loro flessibilità attentiva. Infatti, secondo la teoria metacognitiva (Wells, 2009), la Cognitive Attentional Syndrome (CAS) è un particolare stile di pensiero che gioca un ruolo fondamentale nei disturbi psicologici, compresi i comportamenti a rischio come l’uso problematico di Internet (Spada et al, 2008). La CAS si riferisce a uno stile di pensiero perseverante che si manifesta in forma di rimuginio, ruminazione, attenzione focalizzata sulla fonte della minaccia e comportamenti di coping maladattivi che impediscono un’efficacie auto-regolazione di emozioni e pensieri (si veda per esempio, Fisher & Wells, 2009). Nel contesto specifico dell’uso di Internet, la presenza di alcune meta-cognizioni può attivare delle strategie di coping maladattive come il rimuginio e la ruminazione; a loro volta, esse facilitano l’uso di Internet come mezzo preferenziale di auto-regolazione emotiva e cognitiva favorendo, quindi, un uso disregolato e problematico delle tecnologie (Spada & Marino, 2017; Marino, Vieno, Moss, Caselli, Nikčević, & Spada, 2016). Inoltre, sembra che questi stili di pensiero si consolidino proprio durante i primi anni dell’adolescenza (es., Bacow, Pincus, Ehrenreich, & Brody, 2009), così come in adolescenza l’uso problematico di Internet inizia a manifestarsi come problema.

In quest’ottica, abbiamo costruito ed implementato un progetto pilota di prevenzione per adolescenti che aveva lo scopo di aumentare la consapevolezza dei ragazzi rispetto alle loro capacità attentive, di esercitarsi nello spostamento dell’attenzione dagli effetti dei trigger “tecnologici” attraverso l’Attention Training Technique (ATT) per ridurre l’impatto della CAS e di sperimentare tecniche basate sul problem solving in sostituzione a quelle basate su stili di pensiero perseveranti per affrontare le situazioni difficili online.

Il progetto “Shift Focus and Be Positive”

Il progetto è stato costruito da alcuni ricercatori e collaboratori del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova in collaborazione con la London South Bank University e ha previsto la partecipazione di ogni classe (prime, seconde e terze della scuola secondaria di secondo grado) a due incontri da circa due ore ciascuno, a cadenza settimanale e in presenza delle insegnanti referenti per il progetto. Gli incontri sono stati caratterizzati da un alto grado di interattività, spesso associata ad una maggiore efficacia degli interventi di prevenzione con gli adolescenti.

Il progetto era orientato a offrire agli adolescenti “strumenti” utili per l’uso corretto di Internet e delle nuove tecnologie, con particolare riferimento alla gestione positiva delle situazioni potenzialmente stressanti che avvengono online (per esempio, venire esclusi da un gruppo Whatsapp, vedere che i propri “amici” pubblicano su Facebook o Instagram foto di eventi ai quali non si è stati invitati, ricevere un numero eccessivo di messaggi da un compagno troppo insistente, non ricevere abbastanza “like” ad una foto, sentirsi “tormentati” dalla vibrazione dello smartphone).

Nello specifico, nel corso del primo incontro sono state proposte attività interattive mirate ad evidenziare le conseguenze negative della CAS e a sviluppare strategie funzionali di problem solving. Attraverso un gioco di carte a squadre e una discussione finale, i ragazzi sono stati stimolati a riconoscere e ragionare sull’esistenza di due tipi di strategie che si possono adottare quando ci si trova a dover far fronte ad una situazione di disagio online: alcune sono più passive e centrate sul rimuginio o ruminazione che, come abbiamo visto, non consentono di risolvere positivamente la situazione; altre sono centrate sul problema e permettono all’individuo di pensare a cosa può fare concretamente per trovare una soluzione (strategie di problem solving).

Il secondo incontro, a distanza di una settimana dal primo, aveva l’obiettivo di esercitarsi nello spostamento dell’attenzione dai trigger “tecnologici” (ad esempio, la vibrazione dello smartphone, una notifica sui social, un messaggio di Whatasapp) per ridurre le conseguenze negative della CAS e migliorare, così, la qualità del tempo speso in classe e non (per es. spostando l’attenzione dalla vibrazione dello smartphone al contenuto della lezione, o alla partita di calcio). A questo scopo è stato proposto ai ragazzi un adattamento al tema dell’ATT (Wells, 2009) e un “ATT partecipato”. Concretamente, è stata preliminarmente progettata e registrata una traccia audio di 12 minuti contenente una sequenza di suoni “tecnologici” (es, vibrazione, suoneria dello smartphone, rumore della stampante, suoni delle notifiche) che seguiva l’alternanza e la sovrapposizione dei suoni in modo simile all’ATT originale di Wells (1990): attenzione selettiva su un suono alla volta, rapido spostamento da un suono all’altro e attenzione “divisa” simultaneamente su più suoni. L’audio è stato fatto ascoltare in classe e ai ragazzi è stato chiesto di seguire le istruzioni della voce dell’audio. La discussione che ha seguito l’attività ha permesso di rendere i ragazzi consapevoli del fatto che, esercitandosi, era possibile direzionare la loro attenzione. Nella seconda parte del secondo incontro, i ragazzi hanno invece “costruito” un ATT “partecipato” in cui, impersonando ruoli diversi (es., l’insegnante, il genitore, ecc.), utilizzavano le loro voci e delle frasi su cui spostare di volta in volta l’attenzione con lo scopo di mostrare concretamente come calare nella vita quotidiana l’esercizio di spostamento dell’attenzione. Questo adattamento dell’ATT è stato presentato non come strategia di coping da utilizzare nei momenti di stress ma come un’attività esperienziale in cui i ragazzi hanno sperimentato il loro controllo meta-cognitivo sui processi mentali in termini di capacità di gestire l’attenzione e di riuscire a non “fissarsi” eccessivamente sulle loro sensazioni e pensieri negativi (Fisher & Wells, 2009) scatenati, a volte, da un trigger tecnologico.

I partecipanti

Al progetto hanno partecipato un totale di 104 studenti (39 maschi e 57 femmine; Metà =14.8, DS=.84; di N= 8 partecipanti mancano i relativi dati) frequentanti 4 classi (due di prima, 1 di seconda e 1 di terza) di una scuola secondaria di secondo grado di Padova. In media, i ragazzi dichiarano di trascorrere circa 3 ore su Internet in un giorno qualunque della settimana.

La valutazione

Con lo scopo di valutare l’efficacia delle attività proposte nel promuovere buone prassi legate all’uso di Internet, ai ragazzi è stato chiesto di rispondere a due questionari anonimi, uno all’inizio del progetto e uno circa una settimana dopo il secondo incontro, appaiati successivamente sulla base di un codice alfanumerico. Nello specifico, gli studenti hanno compilato le seguenti scale:

  • Frequenza delle attività online: 8 domande relative alla frequenza quotidiana d’uso di Internet (Siciliano et al., 2015), su una scala da 1 (“mai) a 5 (“molto spesso”). Ad esempio: “Quanto spesso svolgi le seguenti attività su Internet in un giorno infrasettimanale?”: “Chatto”, “ascolto musica”, “sto sui social network” ecc.
  • Uso problematico di Internet: Short Problematic Internet Use Test (SPIUT; Siciliano et al., 2015). Lo SPIUT contiene 6 item ognuno dei quali riflette un aspetto particolare dell’uso problematico di Internet su una scala da 1 (“mai) a 5 (“molto spesso”) tra cui salienza, conflitti familiari, controllo del tempo speso online, conseguenze su sonno e relazioni (es., “Hai trascurato i compiti per passare più tempo online?”).
  • Stile di pensiero perseverante: Cognitive Attentional Syndrome Inventory (CAS-I; Wells, 2009). La versione originale utilizzata nella pratica clinica è stata adattata per età e contesto. Il nostro adattamento consiste in 14 item su una scala da 1 (“mai) a 5 (“molto spesso”). Gli item comprendono diversi aspetti: la proporzione di tempo passato a rimuginare o a preoccuparsi dei problemi (2 item); strategie di coping maladattive come evitamento di pensieri e situazioni, tentativi di controllare pensieri ed emozioni, immersione nelle serie tv e videogiochi (inseriti al posto dell’assunzione di alcol e droghe) (7 item); credenze metacognitive positive (es, “preoccuparmi mi aiuta ad affrontare i problemi”) e negative (es, “alcuni pensieri possono farmi impazzire”) (8 item).
  • Credenze sull’attenzione: 4 item costruiti ad hoc (per es., “posso controllare la mia attenzione” da 1 “per niente d’accordo” a 5 “completamente d’accordo”) con lo scopo di osservare un eventuale cambiamento relativamente alle credenze sulla propria attenzione che rappresentava il fulcro del secondo incontro.

Per quanto riguarda le attività online, è emerso che i ragazzi utilizzano internet con alta frequenza (“spesso” e “molto spesso”) per chattare (74%), stare sui social network (82%), per ascoltare musica (78%) e guardare serie tv (55.2%). Le attività relative ai videogiochi online (17.6%) rivelano invece una frequenza d’uso più bassa. In generale, l’utilizzo di Internet in adolescenza sembrerebbe strettamente legato alle esigenze di socializzazione caratteristiche di questa fase di vita e ad attività in cui immergersi come musica e serie tv.

Sui dati raccolti sono stati condotti una serie di t-test per campioni appaiati per valutare se, tra la prima e la seconda somministrazione, ci siano stati eventuali cambiamenti nelle medie di uso problematico (t(92) = 1.43; p = .16) e CAS (t(92) = -1.87; p = .06). I punteggi totali in questi due aspetti non sono cambiati in modo significativo tra il pre e il post-intervento. Seguendo un approccio puramente esplorativo, abbiamo condotto una serie di t-test per campioni appaiati utilizzando item singoli delle scale con l’obiettivo di osservare nel dettaglio eventuali cambiamenti in particolari aspetti dell’uso problematico di Internet e della CAS.

Come cambiano la frequenza d’uso e l’uso problematico di Internet?

Rispetto al tempo trascorso a guardare film o serie tv, abbiamo osservato una diminuzione significativa nella frequenza della messa in atto di questo comportamento (t(91) = 2.77, p<.05). In particolare la percentuale di ragazzi che usano Internet per questo scopo “molto spesso” durante la giornata quasi si dimezza, passando dal 26% al 15%.

Rispetto all’item dell’uso problematico di internet (SPIUT) “Ti sei accorto di essere rimasto online più tempo di quello che volevi?”, sembra migliorata la capacità nella gestione consapevole della quantità di tempo trascorso online (t(92) =2.54, p<.05). Inoltre, i ragazzi hanno riferito di aver ricevuto meno spesso rimproveri da parte dei genitori o degli amici a causa dell’uso troppo frequente di Internet alla fine dell’intervento (t(92) =2.03, p<.05).

Come cambia la CAS?

Rispetto alle domande del CAS-I, abbiamo osservato dei cambiamenti significativi in tre item. Nello specifico, è diminuito l’ingaggio nel rimuginio (“Nell’ultima settimana quanto tempo hai passato a rimuginare o a preoccuparti dei tuoi problemi”, t(92) = 3.77, p<.001). Inoltre, rispetto alle strategie di coping utilizzate per affrontare emozioni o pensieri negativi, i ragazzi sembrano “continuare a pensarci” (t(92) = 3.56, p<.001) e “immergersi nelle serie tv” (t(92) = 2.85, p<.01) in modo meno frequente dopo l’intervento.

Le credenze sull’attenzione che cambiano

In uno dei 4 item costruiti ad hoc per questo progetto (“Le persone possono controllare la loro attenzione”), i ragazzi hanno riportato un livello di accordo maggiore nel post-test rispetto al pre-test (t(92) = -2.95, p<.05), indicando di essere diventati più consapevoli della possibilità di controllare attivamente la propria attenzione.

Conclusioni

I risultati preliminari di questo intervento di prevenzione sembrano indicare che, per quanto limitate a due soli incontri, le attività proposte hanno portato a un miglioramento nella capacità di gestire il tempo passato online, di utilizzare strategie più adattive, e che i ragazzi abbiano compreso che possono controllare la direzione della propria attenzione per evitare gli effetti negativi della CAS. In altre parole, coerentemente con gli obiettivi iniziali, il progetto ha permesso ai ragazzi di apprendere nuovi strumenti utili ad affrontare e gestire in maniera positiva eventuali situazioni di stress nella vita online. In particolare, il cambiamento sulle credenze sul controllo dell’attenzione suggerisce che il breve intervento ha contribuito a dimostrare l’inesattezza della falsa credenza riportata dai ragazzi durante il progetto che “la mente fa quello che vuole e non posso farci niente”.

Inoltre, sembra che i ragazzi abbiano colto un altro dei punti centrali dell’intervento: rimuginare e continuare a pensare ai problemi e alle preoccupazioni non è utile, così come non è utile scegliere comportamenti immunizzanti di soppressione dei pensieri come immergersi nelle serie tv per non pensare (Fisher & Wells, 2009).

Nella fase conclusiva degli incontri, la riflessione condivisa a cui i ragazzi sono arrivati, sperimentando in prima persona il problem solving e verificando che è possibile governare l’attenzione, è stata che spesso quello che fa stare male una persona non è tanto ciò che le accade online o il contenuto specifico dei suoi pensieri rispetto a quell’evento, ma il tipo di risposta che dà alle cose che le succedono e che pensa. In altre parole non sono le situazioni più o meno negative (e tantomeno Internet di per sé) a determinare come ci sentiamo e quanto ci pensiamo, ma il modo in cui decidiamo di reagire ad esse. Questa conclusione ci è sembrata particolarmente in linea con quanto proposto da Wells in relazione al ruolo dello stile di pensiero che adottiamo più frequentemente nel direzionare della nostra attenzione (Wells, 2013). Sarà interessante verificare se i cambiamenti osservati saranno mantenuti nel follow-up previsto per il prossimo settembre.

Questo report ha lo scopo di presentare alcune evidenze preliminari ed è ovviamente caratterizzato da una serie di limiti di cui tenere conto, tra cui la mancanza di un gruppo di controllo, la selezione non casuale del campione, la mancanza (per ora) di un follow-up, la bassa numerosità campionaria.

Ciononostante, riteniamo interessante condividere con la comunità degli psicologi che con soli due incontri psico-educativi nelle classi è possibile incidere sugli stili di pensiero e, indirettamente, sull’uso di Internet degli adolescenti. In particolare, nonostante sia preferibile utilizzare l’ATT all’interno di un percorso psicoterapeutico, questi risultati indicano che il meccanismo dell’ATT potrebbe costituire un valido strumento anche nell’ambito del lavoro di prevenzione con gli adolescenti.

Pensiamo, in fine, che replicare il progetto in altre classi e contesti possa essere auspicabile per contribuire a verificare se intervenire sui processi metacognitivi possa essere un modo promettente di prevenire il tanto temuto uso problematico di Internet tra gli adolescenti.

 

Disturbi Alimentari nel post Covid-19

Tra le conseguenze delle misure messe in atto per contenere la diffusione del Covid-19 rientra la sospensione di diverse attività, fattore di cui possono aver risentito persone con Disturbi Alimentari, costrette alla sospensione dei trattamenti psicologici e/o comportamentali.

 

I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono divenuti nel corso degli ultimi decenni tra i più comuni problemi di salute, oramai la maggior parte degli ospedali ha un reparto ad essi dedicato. Si tratta di disturbi che colpiscono la popolazione alle età più disparate, dall’infanzia all’età adulta, con un picco di esordio in età adolescenziale; può colpire la popolazione femminile così come quella maschile. I fattori di rischio e l’eziologia sono multifattoriali: ambientali, neurobiologici, psicologici, sociali, a questa ragione il trattamento ha subito un evoluzione sempre più complessa e specifica.

Secondo i dati della Società Italiana dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA), in Italia colpiscono ogni anno 8.500 persone tra uomini e donne. Questi dati allarmanti hanno diretto la ricerca e gli interventi a studiare metodi di intervento sempre più adeguati e rispondenti alle richieste. I DA non sono altro che la manifestazione del disagio mentale della società moderna, la loro individuazione e quindi intervento sono resi tardivi e complessi dalla richiesta d’aiuto da parte del paziente, che molto spesso dissimula e nega la presenza di un problema; per questo, da parte dei familiari, non sempre è agevole l’identificazione se non in casi limite, come grande aumento di peso o perdita dello stesso. I modelli estetici post moderni portano a facilitare tale dissimulazione, così come agevolano lo sviluppo della patologia stessa.

I disturbi del comportamento alimentare e la dipendenza

Spesso si è parlato di disturbi dell’alimentazione come una “sottocategoria” dei disturbi da dipendenza, centrandosi sui patterns del comportamento: compulsione, deterioramento del funzionamento psicosociale, perdita di controllo, utilizzazione dell’oggetto (cibo/sostanza) per affrontare lo stress, persistenza del comportamento pur in presenza di conseguenze negative, ricadute durante il trattamento. Questa estensione del concetto di dipendenza non consente di fare il distinguo tra le diverse diagnosi, infatti nei DCA non troviamo il criterio della tolleranza e la sindrome da sospensione. Inoltre si è osservato come il cibo non è la fonte della compulsione, quanto invece il controllo dell’astinenza da questo, sia nei casi di binge eating, che di bulimia che di anoressia. Per questa ragione gli interventi sull’addiction sono poco risolutivi, in quanto l’astinenza del cibo va a colludere con la compulsione del controllo.

Il trattamento, che ad oggi ha avuto maggiori riscontri positivi, è quello gli interventi mutlimodali, interventi che prendono in considerazione più fattori, dallo psicologico, al sociale, al comportamentale, al neurobiologico, ma soprattutto all’esperienziale.

In termini di intervento psicoterapico si parla di psicoterapia cognitiva-comportamentale di terza generazione, dove l’enfasi è sul cambiamento contestuale ed esperienziale, modificando la funzione degli eventi psicologici problematici, senza intervenire direttamente sul loro contenuto, sulla forma o sulla loro frequenza, indebolendo le catene causali che conducono all’evitamento. Il paziente attua, perciò una trasformazione della consapevolezza con i propri vissuti interni (pensieri, emozioni e sensazioni).

I DA e la Pandemia del 2020

Con l’incremento dei contagio da covid-19 e soprattutto dei decessi, il governo Italiano si è trovato costretto a sospendere ogni attività del paese, chiudendo le scuole, le attività commerciali, le attività sportive e a diradare le prestazioni sanitarie se non per le emergenze, costringendo la popolazione alla quarantena per la salute pubblica.

La restrizione sociale, la privazione del contatto sociale e familiare ha effetti importanti sulla salute mentale, così come ci riporta Brooks &co nella ricerca sull’impatto psicologico della quarantena. Gli effetti negativi riscontrati sono lo svilupparsi di emozioni quali rabbia, confusione, paura, disturbo da stress post-traumatico. Tra i fattori di rischio troviamo il protrarsi del periodo di quarantena, perdite finanziarie.

I Disturbi dell’Alimentazione sono tra i fattori di rischio, in quanto, le persone con questi disturbi sono costrette alla sospensione dei trattamenti psicologici e/o comportamentali. Il tema del controllo che in questi pazienti è ricorrente viene amplificato dal timore dell’infezione, che viene gestito solitamente con la restrizione alimentare, comportamenti compensatori e/o abbuffate.

Nel periodo di quarantena il soggetto DCA è esposto ai fattori che hanno contribuito ad innescare il disturbo: impossibilità di attività fisica, forzata convivenza con familiari che possono contribuire al mantenimento del disturbo, esposizione a quantità di scorte alimentari, evitamento di esposizione sociale, così come la riduzione di peso incontrollata può esporre tali pazienti a rischi fisici gravi.

Il fattore dell’isolamento sociale, che è una delle prime manifestazione di questa tipologia di pazienti, nel periodo di quarantena non può che andare ad incidere negativamente, prospettando un ritiro dai trattamenti anche successivo alla pandemia.

Inoltre la situazione di grave rischio che questi pazienti vivono può portare alla comorbilità con altri quadri clinici, quali la depressione, i disturbi d’ansia, il disturbo da dipendenza, disturbo da stress post-traumatico, cosa che andrebbe a incidere negativamente sulla prognosi del DCA.

Al fine di gestire e prevenire quadri clinici disastrosi, per tutta la popolazione italiana sono stati istituiti numeri di emergenza ai quali riferirsi in caso di crisi, piuttosto che diverse associazioni del privato sociale, associazioni di professionisti e piccole realtà locali hanno messo a disposizione forze di volontari e specialistiche per la gestione del territorio. Questi pazienti rientrano tra coloro i quali subiscono maggiori rischi a causa della difficoltà a chiedere aiuto, a riconoscere i segnali prodromici rispetto ai comportamenti di buona prassi. E’ utile fare una riflessione maggiore sui quei pazienti che si sono trovati costretti ad abbandonare/sospendere/ridurre i trattamenti.

È necessario mantenere il rapporto terapeutico soprattutto nei momenti di distanziamento sociale, responsabile di questo è il clinico, in quanto il paziente non sempre riesce a pensare oltre il proprio sintomo, mentre il terapeuta è in grado di fare una valutazione prospettica ed è sua responsabilità dare alternative, monitorare e intervenire anche attraverso la rete socio-sanitaria.

Nel prossimo futuro si avranno dati maggiori a riguardo, soprattutto per le fasce evolutive più a rischio: gli adolescenti, costretti al ritiro sociale, nascosti online!

 


 

 

Oltre la risposta emozionale all’emergenza pandemica. Il COVID-19 come vaccino semiotico – Parte I: Analisi dello Scenario

Di fronte all’emergenza sanitaria data dalla pandemia di Covid-19, la paura ha lavorato come un potente stimolatore di comportamenti protettivi, così come un decisivo inibitore di abitudini che si sono interrotte per rispettare le misure di lockdown.

Il testo è una versione breve e rielaborata dell’articolo: Venuleo, C., Gelo, O., Salvatore, S. (2020). Fear affective semiosis, and management of the pandemic crisis: covid-19 as semiotic vaccine. Clinical Neuropsychiatry, 17(2), 117-130.

 

L’adattamento all’emergenza sanitaria mette oggi le persone davanti al complesso compito socio-cognitivo di integrare nel loro assetto mentale il riferimento ad un bene comune astratto come regolatore saliente del loro modo di sentire, pensare, e agire; se non sostenuto, questo compito sarà particolarmente difficile da realizzare entro le forme emozionali di interpretazione dell’ambiente che sembrano caratterizzare l’attuale risposta della popolazione alla crisi pandemica.

La pandemia del COVID-19 è esperita oggi come una delle più grandi minacce di tutti i tempi, a differenti e interrelati livelli: preoccupazioni individuali – la paura di essere contagiati e/o di infettare qualcuno, di perdere famigliari ed amici, di rimanere soli, di non farcela economicamente – si intrecciano con preoccupazioni a livello sociale, economico e anche politico, e il senso generale di essere proiettati in un scenario di incertezza, dove niente sarà come prima (Time, 2020).

La situazione confronta i clinici, le istituzioni sanitarie e i politici con uno scenario dove, probabilmente per la prima volta, dimensioni di salute e dimensioni sociali sono ricorsivamente e profondamente intrecciate: da un lato, l’evoluzione della situazione sanitaria, e quindi la possibilità di tutelare la salute psico-fisica di migliaia di persone, dipende da come la società gestisce il lockdown; dall’altro lato, la praticabilità del lockdown è in funzione delle persone, driver non intenzionali di contagio.

Come risultato di questo intreccio, le classiche distinzioni tra livelli di analisi e di intervento (ad es., il livello individuale della salute psico-fisica individuale e il livello sistemico del governo delle condizioni sociali economiche e sanitarie) vengono meno, portando all’emergenza di un nuovo pattern di problemi critici che, per aggiungere un ulteriore elemento, devono essere compresi e affrontati molto rapidamente.

La risposta emozionale all’emergenza sanitaria: risorse e limiti

Una serie di sintomi rende evidente come le persone abbiano risposto all’emergenza “con la pancia”: si pensi alle connotazioni polarizzate delle esperienze delle persone (da un lato la valorizzazione dell’in-group, il senso di appartenenza ad una nazione chiamata a lottare e resistere insieme, dall’altro la connotazione dell’altro come nemico e fonte di problemi – ad es. i runner, le persone a passeggio con il cane), al linguaggio intriso di metafore di guerra (i medici come eroi e combattenti, gli ospedali come trincee), alla tendenza non secondaria ad aderire a teorie complottiste.

D’altra parte, una reazione di paura, e più in generale un’attivazione affettiva connotata di ansietà, è una risposta comune a condizioni ed eventi che rappresentano un’importante violazione di canonicità (per una review, vedi Townsend, Eliezer & Major, 2013; per un’analisi della risposta emozionale alla pandemia, vedi Kim & Niederdeppe, 2013). L’attivazione legata alla paura può giocare un ruolo importante nell’adattamento, consentendo all’organismo di interrompere routine e mobilitare risorse cognitive e fisiche rispetto al compito vitale di affrontare l’emergenza (Lazarus, 1991). Rispetto al COVID-19, è ragionevole pensare che la diffusa risposta di paura abbia lavorato come un potente stimolatore di comportamenti protettivi (lavarsi frequentemente le mani, indossare le mascherine, rispettare le distanze sociali), così come un decisivo inibitore di abitudini che si sono interrotte per rispettare le misure di lockdown; per restare nel contesto italiano, i livelli di compliance della popolazione sono stati marcatamente più alti di quelli che ci sarebbe potuto aspettare se si considera il livello piuttosto basso di capitale sociale (spirito pubblico, fiducia nelle istituzioni, committenza sul bene comune) caratterizzante la comunità italiana (Salvatore, Avdi et al., 2019).

Tuttavia, come da più parti sottolineato (inter alia: Nacoti et al., 2020; Radulescu & Cavanagh, 2020), la gestione della pandemia non potrà esaurirsi nel momento in cui sarà raggiunto il livello zero del contagio, ma richiederà una strategia a medio termine, che dovrà impegnare le istituzioni in uno sforzo di coordinamento transazionale delle politiche socio-sanitarie (ad es., nel campo della ricerca scientifica e farmaceutica, dell’organizzazione della salute, della regolazione delle frontiere) e coinvolgere le persone nella modifica delle loro abitudini quotidiane (ad es. limitazioni di movimenti, uso delle maschere protettive, rispetto delle misure di distanziamento nei contatti sociali).

Nel vicino futuro, le persone dovranno non solo aderire a misure di regolazione restrittiva e nuove routine, ma soprattutto confrontarsi con il difficile compito di modulare i propri comportamenti nella vita quotidiana, trovando un equilibrio contingente tra le domande multiple della vita (relazioni sociali, richieste lavorative) e richieste del governo post crisi. Inoltre, dovranno farlo in una finestra temporale relativamente estesa. Ciascuno dovrà compiere scelte quotidiane in condizioni di ambiguità e di conflitto – cioè mediare continuamente tra abiti consolidati e nuove regole di prevenzione e precauzione che implicitamente veicolano un differente modello di relazione sociale. In ultima analisi, ciò significa che le persone dovranno integrare nel loro assetto mentale il riferimento ad un bene comune astratto – il governo del rischio di nuova insorgenza della pandemia – come regolatore saliente del loro modo di sentire, pensare, e agire.

La nostra ipotesi è che, se non sostenuto, questo complesso compito socio-cognitivo sarà particolarmente difficile da realizzare entro le forme emozionali di interpretazione dell’ambiente che sembrano caratterizzare l’attuale risposta della popolazione alla crisi pandemica. Come evidenziato dalla tradizione psicodinamica, l’interpretazione emozionale porta infatti le persone a modi semplificati di interpretazione dell’esperienza e si caratterizza in senso auto-referenziale, volta com’è a riprodurre il proprio sistema di assunzioni, piuttosto che ad esplorare la realtà analiticamente (Salvatore, 2016; Salvatore & Venuleo, 2009; 2017). Quando pensano “con la pancia” le persone danno per scontata la loro esperienza, che quindi diventa non interrogabile, satura, invariante, caratterizzata da rigide posizioni, affermazioni dicotomiche (si/no), valutazioni polarizzate (bello/brutto, buono/cattivo, amico/nemico). Dunque, più il ricorso a forme emozionali di interpretazione dell’esperienza è elevato, meno le persone sono capaci di usare la cognizione per esplorare, modulare, imparare dagli errori, valorizzare la pluralità dei punti di vista – dunque, in ultima analisi, andare oltre l’assolutizzazione del proprio mondo di vita e assimilare la dimensione sistemica del bene comune nella loro vita (Salvatore, Mannarini et al., 2019).

Il COVID-19 come “attaccapanni” dell’incertezza

Come suggerito da una prospettiva semiotica e psicodinamica e dalla psicologia culturale (Fornari, 1979; Salvatore & Freda, 2011; Salvatore & Venuleo, 2008; Valsiner, 2007), il processo di costruzione del significato (sensemaking) non si sviluppa in risposta a fatti e oggetti singoli e discreti del mondo sociale e fisico ma è organizzato da significati generalizzati (ad es. “la vita è una questione di fortuna”; “il mondo è sotto l’attacco di un estraneo pericoloso”) che orientano poi specifiche valutazioni ed opinioni rispetto a quegli oggetti. In accordo a questo principio, le persone non rispondono emozionalmente alla pandemia di per sé, ma al più globale scenario mediatico e istituzionale che media e dà forma alla rappresentazione della pandemia. Più nello specifico, le persone hanno iniziato a preoccuparsi quando e a causa del fatto che si sono verificate una sequenza di rotture nelle stabili routine personali e sociali – ad es., il capo di governo che comunica direttamente alla nazione, le trasmissioni tv e i giornali monopolizzati da temi ruotanti attorno alla pandemia, scuole ed uffici chiusi, restrizioni individuali che riducono la libertà individuale come mai accaduto prima. Se a livello funzionale queste misure costituiscono risposte tecniche alla questione socio-sanitaria, a livello semiotico – e cioè a livello di costruzione dei significati con cui si interpreta la realtà – esse si sono offerte come un pattern di elementi che nella loro totalità hanno alimentato una connotazione embodied e generalizzata del campo globale di esperienza come minacciato da un potente nemico.

In accordo alla nostra ipotesi interpretativa, le risposte psicologiche di paura, preoccupazione, sospetto e così via non devono essere comprese, dunque, come risposte alla pandemia da essa intrinsecamente determinate, ma come modalità di dare senso all’esperienza di rapido cambiamento distruttivo del campo socio-istituzionale. Per avere un’idea dell’evidenza controfattuale a supporto di questa tesi, consideriamo il cambiamento climatico, un driver reale e concreto dall’impatto catastrofico per l’intera umanità, esponenzialmente molto più dirompente della Sars-CoV-2, ma incapace di produrre anche remotamente una reazione di paura come quella attivatasi con la pandemia.

Comprendere, anche nella sua evoluzione, l’interpretazione affettiva dell’attuale scenario, richiede di tenere in conto il contesto e la dinamica di questa interpretazione, cioè le condizioni culturali entro cui tale interpretazione affettiva è stata attivata. Anche se un’analisi sistematica di tali condizioni va al di là degli scopi di questo articolo, qui possiamo brevemente riferirci ai diversi autori che, da prospettive diverse, hanno evidenziato come lo scenario socio-culturale contemporaneo sia caratterizzato da una condizione endemica di ansietà, alimentata dalla profonda incertezza attivata dalla turbolenza socio-economica (ineguaglianza economica trasformazione antropologica indotta dal flusso migratorio, trasformazione delle forme di lavoro, accelerazione tecnologica, progressive sinergie uomo-macchina) indotta dallo sviluppo tecnologico e dalla globalizzazione (Elchardus & Spruyt, 2016; Inglehart & Norris, 2017; Mannarini & Salvatore, 2019; Russo, Mannarini & Salvatore, 2020). La nemicalizzazione dell’altro – cioè l’interpretazione del campo sociale nei termini dello schema amico/nemico (Salvatore, Mannarini et al., 2019) – è l’indicatore più evidente di questa ansietà. L’interpretazione affettiva dello scenario pandemico è dunque in piena continuità con l’ansietà culturale che è al cuore del milieu culturale. E, in ultima analisi, questo significa che, indipendentemente dalle caratteristiche mediche della pandemia COVID-19, è il milieu culturale che rende prevalente questa interpretazione – e la relativa risposta di paura – in molte società, non l’opposto. Questa tesi può apparire paradossale; tuttavia, si possono considerare due aspetti a suo supporto. Primo, la variabilità del modo con cui la pandemia è stata approcciata nei diversi paesi, che porta a pensare che l’interpretazione sia funzione delle differenti cornici affettive che caratterizzano i diversi milieu culturali di questi paesi. Per esempio, la visione svedese delle misure restrittive di contrasto e prevenzione può essere compresa come riflettere l’interpretazione affettiva della società come dotata di una capacità di contenimento, un inerentemente “buono” da portare in primo piano; per fare un altro esempio, l’orientamento inziale del governo britannico di contare sull’immunità di gregge può essere vista come riflettere la connotazione focalizzata sul potere dell’in-group di sconfiggere il nemico, qualunque sia il sacrificio individuale. In secondo luogo, la storia recente insegna che l’interpretazione affettiva in termini di ansietà/paura dello scenario sociale non necessita di una reale situazione pericolosa per attivarsi. L’élite politica, l’Euro, i migranti o gli Arabi sono segni generalizzati usati in anni recenti per alimentare ciò quella che è stata chiamata politica della paura (Wodak, 2015).

 

Il sintomo e il suo significato in Psicoanalisi

La psicoanalisi considera l’angoscia come il prodotto di una pulsione, la quale, non essendo soddisfatta, viene automaticamente rimossa. La sua funzione è necessaria al fine della produzione della rimozione e dunque della costituzione del sintomo.

 

In ambito medico, il termine sintomo deriva dal greco e significa “circostanza”. Ciò è consolidato nel sapere solito, come l’espressione o il segnale di un’anomalia o, meglio, di un diverso funzionamento di un organo, di un apparato o di un sistema di comportamenti. Esso, seppur spesso confuso con il “segno” che rappresenta l’evidenza tangibile di un evento patologico, è la conseguenza di una serie di processi alterati che sono alla base di tali anomalie.

In campo psicoterapico il sintomo si connota di significati differenti e con letture che possono cambiare a seconda dei diversi codici teorici di un modello di intervento. Al di là di questi, esso ha un ruolo estremamente importante perché è un alleato del campo clinico che orienta lo psicoterapeuta nelle proprie scelte, per formulare una diagnosi e per comprendere quale processo alterato il sintomo sta comunicando.

Freud cita una definizione nel suo testo Inibizione, sintomo e angoscia: “Il sintomo sarebbe il risultato e sostituto di una soddisfazione pulsionale che non ha avuto luogo”.

Il segno indica che dobbiamo prendere in considerazione il dominio del significante e del linguaggio, mentre la soddisfazione fa riferimento a quel che Lacan chiama godimento. Si deduce che il sintomo è il prodotto di una pulsione, la quale non ha trovato completo soddisfacimento nel suo bisogno di scarica. Ciò ha portato il soggetto, a sua volta, a subire in un certo senso l’angoscia.

Nelle svariate cornici teoriche, il sintomo ha una funzione comunicativa e, il più delle volte, si traduce come portavoce di un determinato malessere che richiama l’attenzione verso la sua esistenza, oppure, è la comunicazione di una modalità di pensiero che ha smesso di adattarsi, o la conseguenza di un processo che sta evidenziando la sua incapacità di portare adeguatamente a termine il proprio compito evolutivo e, ancora, il campanello di allarme di un meccanismo psicologico che si è semplicemente inceppato.

Il sintomo, dunque, è espressione piena dell’organismo che si esprime principalmente attraverso la sofferenza di chi lo ospita. Quando in psicopatologia un sintomo, qualunque esso sia (una compulsione, un’ossessione, un attacco di panico, un’attacco bulimico, una difficoltà sessuale, una fobia e così via..), fa il suo esordio, l’approccio terapeutico verso quest’ultimo cambia a seconda del codice di lettura che, a sua volta, decide come interpretare il tipo di comunicazione.

L’angoscia, termine tratto dalla psicopatologia, è una problematica centrale della filosofia moderna con Kierkegaard, Sartre, Heidegger.

Freud ne afferma la funzione di causare la rimozione ed utilizza la definizione di nevrosi d’angoscia, per designare la fobia.

Nel Seminario X L’angoscia, Lacan opera un vero e proprio viraggio. Qualcosa di altro ordine, il reale, è afferrato non da un concetto ma da un affetto: l’angoscia.

L’angoscia è il prodotto di una pulsione, la quale, non essendo soddisfatta, viene automaticamente rimossa. Infatti, l’angoscia, di per sé non può mentire. La sua funzione è necessaria al fine della produzione della rimozione e dunque della costituzione del sintomo. Lo schema, sotto riportato:

pulsione → angoscia → rimozione → sintomo

Tale schema, in particolare, afferma che la pulsione, ovvero il “godimento del corpo” è rapportato al “desiderio dell’Altro”, produce un affetto (angoscia), il quale, facendo “segnale”, determina la rimozione della pulsione (del significante della pulsione, del rappresentante della pulsione), il cui ritorno è il sintomo.

Ci si chiede quale forma abbia il reale e come entri nella pratica clinica. E’ una questione che interessa Lacan infatti, sin dall’inizio della sua ricerca. Nel Seminario X L’angoscia, il reale non è più una zona poco conosciuta, da cui siamo separati per la legge del principio del piacere, ma è un oggetto al centro di noi stessi, inaccessibile. Questo oggetto, ritenuto una sua invenzione, Lacan, lo denomina oggetto piccolo a. Che cosa è l’oggetto piccolo a? Un pezzo di reale. Non ha più contorni poco chiari, bensì è una piccola parte nel cuore del nostro piccolo mondo interiore. Per quale motivo lo chiama così, oggetto piccolo a? Il reale, non ha difatti un nome ben preciso. Lacan, fa dunque dell’angoscia, non più un fenomeno immaginario, come la paura, ma un segno tangibile del reale.

Nel sintomo, il soggetto si esprime in tutta la sua totalità, come nell’arte, riscoprendo il proprio senso di sé, accettando un vivo cambiamento in lui e nella sua espressione. Fondamentale che egli, prima di giungere in modo consapevole a tale lavoro, debba sentirsi rispettato dall’analista e far in modo che quest’alleanza con l’analista lo aiuti a costruirsi una ‘stampella’ sul suo sintomo, al fine di mettere in atto un attivo cambiamento. Poiché i rapporti umani curano l’Altro che si pone in ascolto, si presuppone sia un ascolto partecipato dallo sguardo. In tal modo, si possono cogliere gesti e movimenti non verbali, poiché le parole da sole non bastano a guidare un’analisi, né la si può ritenere completa.

Per quanto concerne il ruolo della società moderna in cui viviamo, il sintomo è il prodotto alienato di una “patologia della normalità”. Infatti, l’assenza di sintomi si paga al caro prezzo di un soffocamento delle più autentiche aspirazioni, una mancata autorealizzazione e della perdita di integrità della propria identità. Il presentarsi di una malattia psicosomatica o di una nevrosi può significare che, nonostante tutto, è in atto un processo vitale di protesta che, in realtà, conduce alla piena consapevolezza del sé.

 

L’illusione della conoscenza (2018) di Sloman e Fernbach – Recensione del libro

L’illusione della conoscenza è un libro che è diventato famoso nell’estate del 2019, quando il testo di Sloman e Fernbach fu di ispirazione per la traccia dell’esame di stato di quell’anno.

 

Il testo della Raffaele Cortina Editore è uscito in Italia, invece, nel 2018 destando il mio interesse già dal titolo e dalla copertina.

Il libro segue due binari paralleli e imprescindibili che risultano essere quelli della conoscenza e dell’ignoranza.

Gli autori descrivono una chiara definizione della conoscenza, intendendo, con questa, non la capacità di trattenere informazioni, ma la capacità di pensare dell’uomo in termini di individuo e di società.

L’ignoranza è invece trattata, non solo come l’assenza, ma sopratutto, come la presunzione dell’individuo di detenere la conoscenza.

Tra le dinamiche della conoscenza, del pensiero e dell’ignoranza, si organizzano e strutturano i bias cognitivi dell’essere umano che generano, secondo gli autori, l’Illusione .

Su questo percorso tracciato dagli autori, scorre, capitolo per capitolo, lo scibile umano rispetto ai processi del pensiero. Il vero protagonista è il pensiero ed il costrutto dell’intelligenza che si organizza all’interno del passaggio delle conoscenze tra individuo e comunità a cui esso appartiene.

I sistemi di adattamento umano basati sulla conoscenza risultano essere estremamente efficaci e risultano funzionare incredibilmente bene, a dispetto della capacità del singolo individuo di poter accedere al funzionamento completo dell’oggetto più semplice di cui si è a disposizione.

Il volume passa in rassegna tutta una serie di esperimenti e di ricerche atte a misurare il livello di ignoranza che influenza le persone indipendentemente dal loro livello socio culturale.

Non deve trarre in inganno il costrutto di ignoranza inteso come fenomeno dovuto semplicemente ad una mancanza di cultura, ma, piuttosto, legato alla difficoltà della nostra mente di rendere disponibile in un determinato spazio/contesto e tempo le informazioni, utili ad ottenere delle risposte adeguate.

Esplicativa la definizione di conoscenza dei due scienziati:

La conoscenza è il risultato della partecipazione alla comunità della conoscenza, l’incapacità di separare ciò che si trova nella testa di qualcuno da ciò che si trova nella testa degli altri.

Oltre a ciò – secondo gli autori – la maggior parte delle persone non è incline a padroneggiare i dettagli. La maggior parte di noi è nemica delle spiegazioni. Le nostre vite sono piene di situazioni nelle quali ci confrontiamo con cose che non comprendiamo realmente. Talvolta, Non ci rendiamo nemmeno conto che ci siano delle lacune nella nostra comprensione e, anche quando lo facciamo, spesso siamo troppo indifferenti o imbarazzati per chiedere aiuto.

Le considerazioni, che emergono leggendo queste definizioni, sono legate al mettere in discussione quanto noi non abbiamo sotto controllo gli oggetti e le dinamiche che ci circondano e quanto, invece, siamo piuttosto in balia della nostra ignoranza.

L’influenza della società sulle idee è maggiore rispetto all’opinione del singolo, ma con il passare del tempo ed il progredire della scienza è possibile che i detentori della conoscenza ufficiale siano meno influenzati dalle idee prevalenti della comunità e ciò può indurre a rifiutare alcune possibilità in favore delle pregresse conoscenze individuali.

Ad esempio, secondo gli autori, gli accademici sono dei maestri in questo tipo di Illusione di conoscenza.

La prima reazione a un’idea che mette in discussione la visione del mondo di un accademico è ignorarla: dare per scontato che non sia degna del tempo e della considerazione di nessuno. Se ciò non funziona, se la pressione della comunità obbliga a prendere in considerazione l’idea, gli accademici tirano fuori motivi per rifiutarla. Gli accademici sono formidabili nel giustificare la propria opposizione un’idea. Alla fine se l’idea è semplicemente troppo buona per essere respinta, se persiste nella comunità, gli accademici trovano il modo per affermare che la sapevano da sempre, perché è un’ovvietà.

La visione di base di questo libro è che il mondo è troppo complesso per essere compreso da un singolo individuo e trattenuto in una sola mente: ci sono troppe cose da sapere, ma l’idea centrale è che pensiamo di sapere più di ciò che sappiamo.

Il fatto che viviamo in una comunità della conoscenza non è certo rivoluzionario, ogni volta che poniamo a qualcuno una domanda facciamo affidamento sul fatto che questo abbia una risposta.

L’illusione di conoscenza nasce dal fatto che noi ci concentriamo sugli individui, sui loro poteri, talenti, abilità e risultati invece di considerare che siamo tutti parte di una comunità della conoscenza. Peggio ancora, prendiamo decisioni più o meno importanti e anche decisioni su come strutturare la nostra società che sovrastimano la nostra conoscenza e che non riescono a riconoscere quanta della nostra conoscenza dipende dagli altri ed, in tempi di Covid-19, mai affermazione fu più facilmente dimostrabile.

Questo libro ha tre argomenti centrali: l’ignoranza di illusione della conoscenza, la comunità della conoscenza e la conclusione a cui giunge, inevitabile, o meglio socratica: l’ignoranza è inevitabile, la felicità risiede spesso nell’occhio di chi guarda e le illusioni hanno la loro funzione.

La bellezza di questo libro è che invita, attraverso numerosi esempi, esperimenti replicabili e ricerche, a riflettere sull’importanza dei dubbi, su quanto la scienza e la conoscenza possano accrescere la nostra ignoranza piuttosto che le nostre sicurezze, che a volte le intenzioni di un essere umano sono più importanti di ciò che ottiene con le sue scelte.

Sopratutto, ci insegna che la conoscenza necessita di una presa di prospettiva rispetto agli altri, al tempo e allo spazio in cui pensiamo qualcosa.

La prospettiva interpersonale, la condivisione dell’intenzionalità tra gli individui, influenza maggiormente le nostre scelte, rispetto a ciò che gli individui pensano di padroneggiare in termini di contenuti personali, oggetti e persone che attraversano il mondo.

 

Attaccamento alle figure genitoriali e relazioni amorose

Quale impatto avrà la relazione di attaccamento a ciascun genitore, preso singolarmente, nel determinare le differenze nel rapporto con il partner, nella qualità e peculiarità della relazione di coppia?

 

Bowlby (1973) sostiene che la tipologia di attaccamento sviluppato nei confronti delle figure genitoriali durante l’infanzia, influisce sulla qualità e peculiarità delle relazioni amorose da adulti, risultando particolarmente importante nella fase iniziale della formazione della coppia, in cui il legame all’altra persona si instaura e, successivamente, come indice della stabilità e durata a lungo termine della frequentazione amorosa (Hazan e Shaver, 1987).

È quindi particolarmente interessante indagare l’impatto che la relazione di attaccamento a ciascun genitore ha nel determinare le differenze nel rapporto con il partner in individui di età compresa tra i 19 e i 29 anni, considerando che per le nuove generazioni questo è un periodo particolarmente segnato da cambiamenti ed incertezze, che si ripercuotono anche nelle decisioni prese all’interno del contesto romantico. Infatti, i dati rilevano che negli ultimi 20 anni l’età del primo matrimonio si è spostata dai 26 ai 31 anni (Boffo e Mannarini, 2015), che la convivenza è un’alternativa preferita al matrimonio e che il concetto di famiglia sta cambiando nel tempo.

Considerando che in Italia questa tendenza è confermata e che la relazione d’attaccamento a ciascun genitore, preso singolarmente, è stata poco indagata, il presente studio (Fermani et al, 2019) si propone di indagare come l’attaccamento alle figure primarie di riferimento influisca sullo stile delle relazioni amorose. Sono stati somministrati, quindi, a 296 partecipanti di età compresa tra i 19 e i 29 anni dei questionari self report in grado di misurare attraverso la versione italiana dell’Inventory of Parent and Peer Attachment (IPPA; Armsden & Greenberg, 1987) la qualità della relazione avuta rispettivamente con il padre e con la madre ed attraverso la Love attitude scale (LAS; Hendrick & Hendrick, 1986) le attitudini dell’individuo riguardanti l’amore. Nello specifico, il primo aspetto è stato esplorato attraverso la fiducia, la comunicazione e la vicinanza esperite nella relazione tra genitore e figlio, mentre il secondo aspetto è stato esaminato attraverso la combinazione risultante dalle attitudini riguardo un partner attuale, recente o ipotetico e quelle sull’amore in generale.

I risultati mostrano che le donne presentano un miglior attaccamento ad entrambi i genitori in confronto agli uomini ed una miglior comunicazione e maggior condivisione di vissuti emotivi con le madri, in linea con la precedente letteratura secondo cui gli individui con attaccamento sicuro generalmente vedono la madre come figura di attaccamento fondamentale, in grado di rappresentare una fonte di supporto più affidabile rispetto alla figura paterna (Zaman e Fivush, 2013). Infatti sembrerebbe che la relazione con la figura paterna privilegi la discussione e risoluzione di aspetti pratici piuttosto che l’esplorazione e superamento di problemi emotivi. In aggiunta, gli uomini sono risultati avere un approccio più ludico all’amore rispetto alle donne, incoraggiato a sua volta dalla convinzione popolare secondo cui agli uomini è permesso un atteggiamento più libero e spensierato nei confronti delle relazioni amorose (Milani, 2011). Inoltre, i risultati hanno rilevato che gli individui all’interno di una relazione stabile hanno un approccio più impegnato con la partner rispetto ai single, che molto spesso vivono ancora nella casa della famiglia d’origine e sono meno propensi a pensare di creare un proprio nucleo familiare. Infine, i dati mostrano che una attuale buona relazione d’attaccamento con le figure genitoriali ha un impatto positivo sulla relazione romantica e sulla possibilità che ad essa sia collegata una progettualità a lungo termine, dimostrando di conseguenza quanto l’attaccamento genitoriale sicuro sia un predittore della qualità e della durata del rapporto con l’altro nella coppia.

In conclusione, possiamo dire che gli individui che si collocano nel periodo di mezzo tra l’adolescenza e l’età adulta hanno da una parte maggior tempo per formare la propria identità e per fare esperienze dall’altra devono fare i conti con un dilagante senso di incertezza e con una maggior propensione a posticipare le decisioni da prendere in vari ambiti della propria vita. Tuttavia, per quanto riguarda le relazioni amorose, oltre a considerare questi aspetti socio-culturali, è bene tenere conto di quelli attinenti all’attaccamento genitoriale, in quanto i soggetti con attaccamento sicuro mostrano una maggior self-confidence e bisogno di intimità rispetto a quelli con attaccamento insicuro, evidenziando di conseguenza una maggior tendenza ad avere relazioni di “successo” (Attili, 2017).

 

Cybercondria: Internet, abbiamo un problema…sulla salute…e non è la pandemia!

In questo momento di allarme generalizzato rispetto alla salute, siamo quotidianamente bombardati da notizie poco rassicuranti riguardo alla stessa e contemporaneamente invitati, o costretti, a rimanere nelle nostre case. Alcuni aspetti del nostro funzionamento piscologico ci espongono ad un maggior rischio di cybercondria, psicopatologia comunque epidemiologicamente in aumento, già prima della pandemia.

 

Luca da qualche giorno avverte un costante mal di testa.

E’ diverso dal mio solito mal di testa, un dolore lieve, ma possibile che non passi neanche con gli antidolorifici? Strano, non mi era mai successo prima d’ora. Potrei chiamare il dottore…inutile, mi risponderà come sempre che non è niente e che è solo stress. Devo fare qualcosa, devo capirne di più, non è normale che un mal di testa duri così a lungo. Adesso controllo su Google cercando mal di testa lieve, ma costante. Scorro rapidamente i primi risultati: emicrania, cefalea tensiva … sì ok ma qui invece che dicono? Tumore al cervello? E questo articolo invece che dice? Mal di testa: il sintomo sottovalutato che ti può uccidere. Oddio, devo cercare in Internet altre informazioni … avevo promesso a mio figlio che avremmo visto un film insieme, lo guarderemo un’altra volta, adesso ho cose più urgenti di cui occuparmi….

Anna trascorre abitualmente molto tempo al computer e, soprattutto, sul telefonino, in particolare sui social, fino a tarda notte.

In questo periodo non si parla d’altro, il COVID-19. Amici e colleghi inviano post su come comportarci e cosa sapere per proteggerci … speriamo bene, siamo tutti preoccupati vedo. Aspetta, qui si dice che può partire da un semplice mal di gola … non lo avevo capito, pensavo si riconoscesse dalla difficoltà a respirare … fame d’aria la chiamano. Effettivamente, deglutendo, la gola mi fa un po’ male e mi pizzica il palato, mi misuro subito la febbre. Trentasei e otto. Non è febbre. Sì ma su questo sito dicono che la febbre può salire dopo e su quest’altra pagina Web che il virus vola nell’aria fino a 5 metri e che bere tanta acqua lava il virus dalle vie aeree. Io bevo pochissimo, lo so, dovrei bere di più. Quella signora, in fila al supermercato dietro di me, la settimana scorsa, ha starnutito (…). Provo a deglutire di nuovo, ho come un nodo in gola, faccio fatica, sento un po’ di oppressione al petto, all’altezza dei polmoni, oddio effettivamente mi manca l’aria, lo sapevo ….

In questo momento di allarme generalizzato rispetto alla salute, in cui siamo quotidianamente bombardati da notizie poco rassicuranti riguardo alla stessa e contemporaneamente invitati, o costretti, a rimanere nelle nostre case piuttosto che a rivolgerci agli ambulatori medici e specialistici, alcuni aspetti del nostro funzionamento piscologico ci espongono ad un maggior rischio di cybercondria, psicopatologia comunque epidemiologicamente in aumento, già prima della pandemia.

La tendenza a interrogare il “Dr. Google” piuttosto che il proprio medico curante per problematiche relative alla salute è estremamente diffusa. La letteratura riporta come, già nel 2010, l’88% degli utilizzatori di internet negli USA ricercava informazioni mediche online ed il 62% di loro lo aveva fatto nell’ultimo mese e come, dal 2007 al 2016, tali ricerche siano aumentate del 62% negli adulti del Regno Unito che utilizzano Internet quotidianamente (Vismara et al., 2020). Il rassicurante Dr. Google, potenziale specialista di ogni malattia, può diventare ben presto fonte di preoccupazioni e angoscia, soprattutto per chi soffre di ansia per la salute o, comunque, ha una vulnerabilità rispetto alla dimensione ansiosa. Tali comportamenti possono infatti autoalimentarsi fino alla Cybercondria, un eccessivo e ripetuto comportamento di ricerca online di informazioni mediche associato ad un progressivo incremento dei livelli di ansia relativi alla propria salute (Starcevic, 2017; Vismara et al., 2020).

La direzione della causalità di tale relazione può variare da un individuo all’altro per cui, in alcuni casi, un’intensa ansia per la salute può essere primaria e le ricerche online rappresentano il tentativo di alleviarla, mentre in altri le ripetute ricerche online potrebbero secondariamente slatentizzare tale sintomatologia. Le prime definizioni di Cybercondria si sono focalizzate principalmente sulle manifestazioni ansiose conseguenti all’uso di Internet finalizzato alla ricerca di informazioni circa la salute (Beling, 2006; Harding, Skritskaya, Doherty & Fallon, 2008;  Ryan & Wilson, 2008; Recupero, 2010), nonché sulla tendenza autoperpetuante di tale comportamento che, nel breve termine, produce una temporanea riduzione della preoccupazione percepita, divenendo, nel lungo termine, un pattern di risposta abituale (Taylor & Asmundson, 2004).

Il funzionamento psicopatologico riguarda nel complesso un’infondata escalation di preoccupazioni circa segni e sintomi del corpo derivante dalla ricerca di risultati scientifici, o ritenuti tali, sul Web. White & Horvitz (2009) sottolineano inoltre come la ricerca online del significato clinico di sintomi completamente innocui e comuni possa determinare un “upgrade” nella ricerca di sintomi più severi e di condizioni cliniche più rare, collegate al sintomo iniziale.

Le motivazioni sottostanti alle ricerche possono essere diverse, dalla semplice curiosità all’approfondimento del significato di una manifestazione corporea o sintomatologica di qualsiasi natura. Il Web costituisce una fonte inesauribile di informazioni mediche e consente di effettuare ricerche su qualsiasi sintomo percepito. In alcuni casi, però, i risultati di queste ricerche non sono affidabili come possono sembrare. Le caratteristiche degli algoritmi dei motori di ricerca, infatti, influenzano la qualità delle informazioni a cui si viene esposti, in quanto la gerarchia dei risultati dipende anche dalla frequenza con cui una certa ricerca viene effettuata o da campagne di marketing. Uno studio della Microsoft Research, che ha preso in considerazione più di 40 milioni di pagine web relative a questioni mediche e messo in relazione i dati con i risultati di una survey su 515 individui, ha dimostrato l’esistenza  di un collegamento tra patologie relativamente rare, come i tumori cerebrali, e sintomi molto comuni, come il mal di testa (White & Horwitz, 2009). Fra l’altro, come riportato da alcuni autori (Vismara et al. 2020; Starcevic, 2017), tali fonti di informazione risultano spesso discrepanti, implementate da volontari, dei quali spesso non ne sono verificate o non risultano verificabili le competenze.

Non sorprende quindi come, in presenza di Cybercondria, la tendenza ad effettuare continue ricerche online determini un progressivo incremento dei vissuti ansiosi relativi alla propria salute.

Tali vissuti, sia nel breve che nel lungo periodo, comportano una serie di costi fra cui il lungo tempo speso, l’impiego di risorse cognitive, anche in termini di distrazione rispetto alle attività di vita quotidiana, la ricerca e l’accesso a figure professionali sanitarie. Sotto questo profilo, la Cybercondria è stata concettualizzata da Starcevic e Berle (2013, 2015) come un’eccessiva e ripetitiva ricerca su Internet di informazioni riguardanti la salute, guidata da distress o ansia circa la salute la quale amplifica, a sua volta, il distress o l’ansia stessi (Starcevic, 2013; 2015). Gli autori inoltre sottolineano la caratteristica ossessivocompulsiva del comportamento derivante dalla preoccupazione somatica che riguarda la ricerca compulsiva, ricorrente e compromissoria in termini di dispendio di tempo. Integrando questi due aspetti, McElroy & Shevlin (2014) descrivono la Cybercondria come un costrutto multidimensionale, caratterizzato dalla natura indesiderata delle ricerche su internet (compulsione), da stati emotivi ansiosi associati a tali ricerche, da eccessiva sfiducia nei confronti del proprio medico curante nonché da un eccessivo bisogno di rassicurazioni.

Tale pattern comportamentale, come detto, può arrivare a livelli altamente compromettenti il funzionamento personale, con un’interruzione delle attività di vita quotidiana. Inoltre, la percezione di perdita di controllo, sottende ulteriori conseguenze negative in termini di elevati livelli di ansia, distress, e assunzione di comportamenti finalizzati al controllo (Vismara et al., 2020).

Alcuni autori che hanno studiato la relazione tra Cybercondria e altri costrutti psicologici hanno evidenziato un’associazione diretta fra bassa autostima e severità del disturbo (Bajcar & Babiak, 2019) e come l’anxiety sensitivity costituisca un potenziale fattore di rischio per la slatentizzazione della Cybercondria. Per quanto riguarda, invece, l’intolleranza all’incertezza, sebbene alcuni studi evidenzino una relazione con la Cybercondria, non è ancora chiaro se vi sia una direzione causale oppure semplicemente correlazionale. Di particolare importanza nella concettualizzazione del disturbo, poiché verosimilmente sotteso al suo mantenimento, vi è l’aspetto metacognitivo, rispetto al quale si evidenziano correlazioni con la Cybercondria sia rispetto a metacredenze positive di utilità, che negative di pericolosità ed incontrollabilità (Fergus & Spada, 2017; Bailey & Wells, 2015). Gli stessi autori hanno altresì riscontrato una correlazione positiva fra Cybercondria e credenze che riguardano i rituali ed i segnali di stop, inclusi nel modello metacognitivo del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

Sotto il profilo sociodemografico non si rilevano significative differenze di genere in termini di predittività del disturbo, anche se al riguardo la letteratura è ancora piuttosto contenuta e controversa. L’età, invece, sembra essere un moderatore significativo della relazione fra ansia sulla salute e Cybercondria per cui soggetti più giovani con preoccupazione sulla salute ritengono le ricerche online relativamente più rassicuranti o comunque queste sarebbero meno impattanti nello slatentizzare in loro la sintomatologia ansiosa (McMullan, Berle, Arnáez &  Starcevic, 2019).

Come parzialmente anticipato e facilmente intuibile, la Cybercondria  risulta in comorbidità con l’ansia sulla salute, il DOC e la dipendenza da uso di internet, in questo senso la ricerca indica una complessa relazione nosologica nella quale la Cybercondria può rappresentare una sindrome transdiagnostica che lega questi disturbi.

Non è stata ancora empiricamente riconosciuta una linea psicoterapeutica evidence-based per la Cybercondria tuttavia diverse ricerche propongono l’approccio CBT, eventualmente integrato dall’intervento psicoeducativo sul funzionamento del disturbo. Alcuni autori propongono come target del trattamento la sintomatologia sovrapponibile al DOC (in particolare i pensieri ossessivi sulla salute), le problematiche connesse all’utilizzo di Internet, l’intolleranza all’incertezza, le metacredenze cognitive, la ristrutturazione cognitiva delle errate o non realistiche interpretazioni di sintomi fisici o di sensazioni corporee, la tendenza al perfezionismo nonché  l’ambivalenza rispetto alla percezione di affidabilità di una determinata informazione (Fergus & Dolan, 2014; Fergus, 2015; Fergus & Russell, 2016; Fergus & Spada, 2018).

Inoltre l’approccio CBT offre interventi di tipo comportamentale di esposizione con prevenzione della risposta, particolarmente efficaci nel trattamento della sovrapponibilità sintomatologica con il DOC, i quali potrebbero rivelarsi utili per dilazionare i comportamenti di ricerca di rassicurazione in Internet nonché gestire l’urgenza percepita rispetto alla stessa. Per quanto riguarda, invece, la farmacoterapia, in assenza di una prima linea terapeutica di riferimento, le evidenze indicano la possibilità di una terapia con SSRI, soprattutto laddove si riscontrino comorbidità con ansia sulla salute primaria o DOC.

Considerato quanto sopra, sembra che stia emergendo una nuova area di attenzione nosografica e di ricerca riguardo i comportamenti ed i vissuti tipici della Cybercondria, quale psicopatologia emergente già negli ultimi anni. Sembra dunque evidente come noi clinici, anche in considerazione dei difficili mesi che stiamo vivendo, dovremmo considerare tali aspetti nel progettare e gerarchizzare i nostri interventi in psicoterapia … i quali, paradossalmente, si stanno sempre più svolgendo in rete. La Cybercondria non è dunque solo la versione moderna dell’Ipocondria o una strategia di gestione dell’ansia connessa alla pandemia, ma riguarda il modo di utilizzare l’innovazione favorita dal tempo che stiamo vivendo, argomento attualissimo di discussione e dibattito anche riguardo al modo di fare psicoterapia.

 

Siamo l’esercito del selfie… ma perché? La FoMO come predittore dell’uso problematico dei social

“Fear of Missing Out” (FoMO) significa “paura di essere tagliato fuori”. Questo fenomeno è correlato con l’uso eccessivo dei social network ed è caratterizzato dal desiderio di restare continuamente connessi con quello che gli altri stanno facendo (Przybylski et al., 2013). 

Mazzieri Elena – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Vi ricordate il tormentone di qualche estate fa “L’esercito dei selfie”? Per un periodo non si poteva accendere la radio senza ascoltare questa canzone. Un singolo molto orecchiabile, che volenti o nolenti tutti noi abbiamo canticchiato sotto l’ombrellone. Sostanzialmente ci ricorda come ormai il telefono sia diventato un prolungamento del nostro braccio, e che spesso siamo più interessati alle interazioni online rispetto a quelle “in carne ed ossa”. Una osservazione tanto semplice quanto veritiera: spesso siamo più interessati a ricevere like e a controllare cosa stanno facendo gli altri che a parlare con chi abbiamo davanti a noi.

Ammettiamolo, tutti noi conosciamo qualcuno che, molto elegantemente, mentre gli stiamo parlando ci ignora e controlla il suo smartphone. Hanno addirittura coniato un nuovo termine per questo atteggiamento: phubbing. In poche parole si tratta dell’atto di snobbare qualcuno in un setting faccia a faccia, concentrandosi sul proprio telefono piuttosto che parlare con la persona direttamente (Chotpitayasunondh & Douglas, 2016; Kenny, 2016).  E se anche tutti noi pensiamo che questo sia un comportamento fastidioso ed irrispettoso, quando sentiamo vibrare il telefono, anche se stiamo parlando, un’occhiatina allo schermo la lanciamo comunque.

Proviamo a pensarci: siamo a cena fuori, in un ristorante. Accanto a noi c’è una tavolata di ragazzi. Cosa vediamo appoggiati sul tavolo accanto a posate e tovaglioli? Eccoli lì! Smartphone di tutti i tipi che si illuminano continuamente per la miriade di notifiche che i ragazzi ricevono. E se non sono sul tavolo, è perché i ragazzi li stanno tenendo in mano per fotografare e postare ogni attimo di quello che stanno facendo. Sulla bacheca dei nostri social siamo inondati di foto di piatti di ristoranti e di sorrisi in posa. Per non parlare poi della classica foto estiva delle gambe con lo sfondo del mare! E noi, nel nostro ufficio o a casa, a rimuginare sul fatto che il mare lo vedremo, nella migliore delle ipotesi, soltanto con il binocolo.

Siamo annoiati, ci facciamo un giro sui social e vediamo che gli altri stanno facendo cose che noi non possiamo fare. Alcuni di noi potrebbero sentirsi un po’ infastiditi, altri tristi, dipende sempre da quello che pensiamo. Ma ritorniamo per un attimo alla tavolata di ragazzi al ristorante seduti accanto a noi. Provate ad immaginare quanti post e foto pubblicheranno di quella serata. Ed ora provate ad immaginare di essere l’amico che è rimasto a casa. Non ci interessa sapere se è rimasto a casa perché malato, perché i genitori non lo fanno uscire, perché gli amici non lo hanno chiamato. Proviamo a immaginare cosa può pensare e a come può sentirsi quel ragazzo che, sfogliando i social, continua a vedere gli amici divertirsi mentre lui è a casa. Con il proseguire della serata gli altri continueranno a postare e lui continuerà a controllare i vari post con l’ansia di sapere cosa si sta perdendo. Che fatica essere adolescenti ai tempi dei social!!

Da sempre i ragazzi (e non solo, diciamo la verità), hanno avuto la tendenza a pensare a cosa gli altri stanno facendo (Abel et al., 2016). Negli anni ’70 e ’80 tra gli studenti c’erano persone con sintomi ansiosi riguardanti l’essere esclusi da determinate esperienze, quali, ad esempio, le relazioni romantiche (Simon, 1982). Ma ora sono arrivati i social, e possiamo sapere in tempo reale cosa gli altri stanno facendo e, di conseguenza, cosa ci stiamo perdendo.

Il desiderio di avere relazioni interpersonali è innato, e per soddisfarlo le persone cercano di appartenere a gruppi sociali. Al giorno d’oggi i gruppi sociali esistono sia dal punto di vista fisico che virtuale, e le persone hanno accesso ai gruppi sia online che offline (Franchina et al., 2018). I social media offrono un luogo dove gli utenti possono restare in contatto con i loro gruppi sociali. Social network quali Facebook o Instagram, ad esempio, offrono una connessione online a persone attraverso i loro canali personali, facilitando il mantenimento dei rapporti (Franchina et al., 2018).

I gruppi virtuali sono altrettanto reali ed importanti quanto i gruppi fisici. Non riuscire a connettersi con questi gruppi tramite i social può causare l’impressione di sentirsi tagliati fuori dalla vita reale (Clayton et al., 2015).

L’esclusione sociale conduce ad una perdita del senso di appartenenza, la quale causa ansia. Quando le persone non possono accedere ai propri profili social, possono sentirsi in ansia proprio perché temono di essere esclusi socialmente (Abel et al., 2016). L’esclusione sociale inoltre elicita sentimenti di mancanza di valore (Abel et al., 2016). Questi sentimenti conducono le persone a compararsi agli altri sui social (Tandor et al., 2014), al fine di decidere il proprio valore personale (Casale et al., 2018). I social network offrono un luogo dove gli utenti, in particolare i più giovani, possono continuamente tenersi al passo con cosa gli altri ragazzi stanno facendo, controllando che cosa si stanno perdendo (ad esempio eventi sociali, esperienze di vita, opportunità, ecc).

Gli adolescenti usano abbondantemente i dispositivi digitali e i social media, in maniera maggiore rispetto al resto della popolazione, e lo fanno per comunicare con i pari, per trascorrere il tempo libero (ascoltare la musica, guardare film o serie tv o giocar online) e per apprendere (Carlisle et al., 2016; Wu & Chen, 2015; Lenhart et al., 2015a).

Alcuni studi hanno mostrato una connessione positiva tra il cercare informazioni tramite internet e performance accademiche migliori negli studenti delle scuole secondarie (Chen et al., 2014). Tuttavia l’uso di internet può diventare problematico per quegli studenti che non sono in grado di controllare le proprie attività (Wąsiński and Tomczyk, 2015).

Internet fornisce ai ragazzi l’opportunità di restare continuamente connessi a costi accessibili, garantendo, se lo si desidera, l’anonimato. Avere la possibilità di comunicare con gli altri è una forte motivazione a navigare in rete. Nel 2015, Lenhart et al. (2015b) hanno dimostrato che l’80% degli adolescenti comunica con i propri amici quasi esclusivamente tramite messaggi. Sentirsi parte di un gruppo e socialmente accettati è molto gratificante per i ragazzi, ma allo stesso tempo queste caratteristiche di internet e dei social media inducono all’uso problematico di internet (van den Eijnden et al., 2010; Young, 1998). La combinazione tra adolescenza e le caratteristiche uniche del cyberspazio pongono i ragazzi a rischio di un uso problematico di internet. In adolescenza vi sono molti cambiamenti: maturazione puberale, sviluppo cerebrale, cambiamento nella relazione con i genitori e ambiente sociale in espansione. Tutto questo fa sì che aumenti vertiginosamente il rischio di intraprendere precocemente comportamenti di dipendenza (Chung, 2013).

Ovviamente, l’uso di internet non è di per sé problematico. Lo può diventare soltanto quando i ragazzi non riescono più a controllare le loro attività online. I ragazzi iniziano ad abbandonare le proprie attività quotidiane e spendono tutto il loro tempo online (Wąsiński and Tomczyk, 2015). Si parla, appunto, di Problematic Internet Use (PIU), vale a dire l’uso di internet che crea difficoltà psicologiche, sociali, lavorative o scolastiche nella vita della persona (Beard & Wolf, 2001). Studi hanno dimostrato la presenza di alta comorbidità tra la dipendenza da internet e disturbi psichiatrici, soprattutto disturbi dell’umore, inclusa la depressione, ansia generalizzata o ansia sociale e deficit di attenzione e iperattività (Chen et al., 2016). Gli adolescenti che presentano PIU spendono un’eccessiva quantità di tempo online e non riescono a gestire il proprio tempo in maniera efficace. Di conseguenza, questi ragazzi frequentano poco la scuola e non eseguono i proprio compiti, fino ad arrivare all’abbandono scolastico (Chen & Tzeng, 2010).

Negli ultimi anni alcuni studi hanno individuato, tra i precursori psicologici dell’uso problematico di internet, la “Fear of Missing Out” (FoMO) (Przybylski et al., 2013), che tradotto significa “paura di essere tagliato fuori”. Questo fenomeno è correlato con l’uso eccessivo dei social (Alt, 2015, 2016, 2017a, 2017b). La FoMO è caratterizzata dal desiderio di restare continuamente connessi con quello che gli altri stanno facendo (Przybylski et al., 2013). Più recentemente, Abel et al. (2016) hanno descritto la FoMO come un bisogno irrefrenabile di essere in due o più posti contemporaneamente, alimentato dal timore di essere tagliati fuori da qualcosa che può scalfire la propria felicità.

Per coloro che hanno questa nuova forma d’ansia, l’uso dei social media è particolarmente attrattivo. Piattaforme come Facebook, Twitter e Instagram sono disegnate per promettere alti livelli di coinvolgimento sociale (Ellison, Steinfield, & Lampe, 2007). Possiamo pensare a questi tipi di social come a dei mezzi per ridurre il prezzo da pagare per essere socialmente coinvolti. Mentre questi tipi di strumenti possono essere considerati come vantaggiosi per la popolazione generale, sono una sorta di manna dal cielo per coloro che se la devono vedere con la FoMO. Persone con alti livelli di FoMO utilizzano maggiormente i social così da restare sempre connessi con quanto stanno facendo gli altri.

La Self-determination theory (SDT; Deci & Ryan, 1985), una macroteoria riguardante la motivazione, fornisce un’utile prospettiva per inquadrare la FoMO in una cornice teorica. Secondo questo modello, l’autoregolazione e la salute psicologica sono basate sulla soddisfazione di tre bisogni psicologici di base: la competenza (capacità di agire efficacemente nel mondo), l’autonomia (capacità di autodirezionarsi e di prendere iniziative personali) e l’affiliazione (vicinanza e connessione con gli altri). La soddisfazione di questi bisogni primari è associata con la regolazione comportamentale. Attraverso queste lenti teoriche, la FoMO può essere compresa come incertezza nell’autoregolazione che emerge da deficit situazionali o cronici di soddisfazione dei bisogni psicologici (Przybylski et al., 2013).

Sulla base di questo, bassi livelli nella soddisfazione dei bisogni primari possono portare alla FoMO e all’utilizzo dei social media in due modi. Direttamente: persone con bassi livelli di soddisfazione dei bisogni possono gravitare intorno ai social media perché percepiti come una risorsa per stare in contatto con gli altri, sviluppare competenze sociali e sviluppare legami sociali più profondi. Indirettamente: la FoMO può essere un mediatore che collega i deficit nei bisogni psicologici all’uso dei social (Przybylski et al., 2013).

Un’altra importante dimensione della FoMO riguarda il suo potenziale collegamento con la salute psicologica e il benessere.

La comunicazione mediata dalla tecnologia può avere effetti positivi e negativi (Turkle 2011). Il “sé-incatenato” che deriva dalla comunicazione tecnologica sempre in essere, può distrarre le persone da importanti esperienze sociali nel qui ed ora. Il desiderio di essere continuamente connessi è potenzialmente pericoloso dal momento che incoraggia le persone a controllare i propri account social anche quando sono alla guida dell’auto (Turkle, 2011). Wortham (2011) sostiene che la FoMO possa determinare umore negativo e depresso perché pone nella persona il dubbio di aver fatto le scelte sbagliate nella propria vita.

Studi incentrati sulle motivazioni interne hanno dimostrato che il desiderio di evitare stati emotivi negativi, come la solitudine (Burke et al., 2010) e la noia (Lampe et al., 2007), forzi l’uso di social come Facebook. Anche la scarsa soddisfazione per le proprie relazioni sociali può portare la persona ad utilizzare i social (Ellison et al., 2007).

Va da sé, quindi, che la FoMO giochi un ruolo importante nel collegare fattori individuali, quali bisogno di soddisfazione psicologica, umore e soddisfazione per la propria vita, all’uso dei social media (Przybylski et al., 2013).

Studi condotti da Przybylski et al. (2013) hanno sottolineato come siano soprattutto i giovani, ed in particolare i maschi, ad avere livelli più alti di FoMO. Per di più, i fattori motivazionali che sono risultati efficaci per spiegare i comportamenti umani nelle relazioni (Patrick et al., 2007), nell’uso dei videogame (Przybylski et al., 2009) e nell’ambito sportivo (Hagger & Chatzisarantis, 2007), sono importanti anche nella FoMO.

La FoMO, inoltre, è risultata essere correlata negativamente con l’umore e la soddisfazione per la propria vita. Tutti insieme, questi fattori (bassi livelli di soddisfazione dei propri bisogni primari, umore e soddisfazione per la propria vita) sono risultati correlati con l’uso dei social media soltanto nella misura in cui correlati con alti livelli di FoMO. In altre parole, la FoMO gioca un ruolo chiave nello spiegare l’uso dei social media anche al di là di altri fattori (Przybylski et al., 2013).

Inoltre gli studi condotti da Przybylski et al. (2013) hanno dimostrato che le persone con alta FoMO tendono ad usare Facebook spesso appena svegli, prima di andare a dormire e durante i pasti. Studenti con alti livelli di FoMO riportano sentimenti ambivalenti riguardo ai social e spesso usano Facebook durante le lezioni universitarie. Le persone con alti livelli di FoMO, infine, sono risultate avere maggiori probabilità di inviare messaggi, controllare social ed e-mail alla guida dell’auto.

Le persone possono utilizzare media differenti per gratificare bisogni differenti (Katz, 1959; Ajzen, 1991). Questo può spiegare le differenze nella popolarità di alcuni tipi di piattaforme social. Nel 2015, ad esempio, la popolarità di Twitter è stata superata da quella di Instagram. Questo probabilmente perché le immagini hanno più effetto rispetto alle parole nel raggiungere obiettivi di autopresentazione, che sono motivazioni centrali rispetto all’uso dei social (Lee et al., 2015). Sulla base di questo, possiamo ipotizzare che ogni piattaforma social ha delle proprie caratteristiche ed un proprio invito all’uso. Differenti social possono connettere gli utenti a persone differenti, e dare accesso a diversi tipi di informazioni rispetto ai quali gli utenti desiderano essere aggiornati.

La FoMO è un predittore nell’uso dei social quali Facebook (Beyens et al., 2016; Błachnio et al., 2018) e Instagram (Barry et al., 2018; Salim et al., 2017). Nel caso di quest’ultimo, ad esempio, la persona è motivata dal desiderio di tenersi in contatto con gli altri (Lee et al., 2015) e dal restare aggiornata rispetto a cosa gli altri stanno facendo (Sheldon et al., 2015).

Quando l’uso dei social media diventa eccessivo, può diventare un problema. Si parla, infatti, di uso problematico dei social media (Caplan, 2006; Chakraborty, 2010). Coloro che sperimentano la FoMO possono tentare di alleviare la propria ansia controllando gli altri tramite i social. Ironicamente, le persone che controllano i propri account social, hanno maggiori probabilità di trovare eventi ai quali non hanno preso parte. Usando i social per ridurre l’ansia possono quindi sperimentarne ancora più e, di conseguenza, maggiore FoMO. Questo circolo vizioso si autorinforza, finendo per trasformare l’uso dei social in un uso problematico (Franchina, 2018).

Le persone, e soprattutto i più giovani, preferiscono usare lo smartphone per navigare in rete. Questi, infatti, ci permettono di essere in contatto con gli altri ovunque ci troviamo. Questo fa ipotizzare che se le persone provano ansia, possono tentare di ridurla temporaneamente accedendo ai propri account social tramite lo smartphone (Kuss et al., 2018). Coloro che hanno alta FoMO ed usano i social per diminuire la propria ansia, possono usare in modo eccessivo i propri smartphone al punto da interferire con le proprie interazioni sociali faccia a faccia. Il phubbing, appunto (Franchina, 2018).

Essere consapevoli di quali sono le motivazioni che ci spingono a controllare ripetutamente le notifiche e le bacheche social, permette di realizzare forme di interventi preventivi, volti a migliorare il benessere delle persone e, in particolare dei ragazzi. Imparare ad utilizzare in modo adeguato i social consente di aumentare i livelli di soddisfazione per la propria vita e di avere una buona rete sociale.

Certo è vero, siamo l’esercito dei selfie, ma cerchiamo di non mancarci “in carne ed ossa”!

Covid-19: colloqui di supporto agli operatori sanitari – Report dal webinar delle Dr.sse Nanni e Alighieri

Il ciclo di lezioni pensato da Studi Cognitivi, per approfondire i nuovi aspetti relativi alla sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, è proseguito il 30 aprile con il terzo intervento riguardante il sostegno delle figure professionali in ambito sanitario.

 

 Le Dr.sse Nanni e Alighieri hanno messo a disposizione la loro esperienza per proporre agli studenti alcuni interventi di supporto pensati per gli operatori sanitari e i progetti in essere e futuri nell’area della Romagna.

Il webinar si è aperto con una panoramica sulla portata delle conseguenze del Covid-19, con uno sguardo approfondito all’ambito psicologo. Infatti, tra i molti aspetti che sono stati stravolti dalla pandemia, anche il lavoro degli psicoterapeuti e di alti professionisti sanitari è cambiato radicalmente: si sono trovati coinvolti più del solito in vissuti ed emozioni simili a quelli sperimentati dai pazienti. Paura, ansia, rabbia e molto altro toccano le corde più profonde di ognuno di noi, psicoterapeuta compreso. Inoltre, lo stravolgimento si è avvertito anche per quanto riguarda il setting che si è profondamente modificato, non solo per la necessità di adottare una modalità online per i colloqui, o per i cambiamenti che hanno subito i contesti organizzativi istituzionali, ma anche per il bisogno di ampliare il paradigma puramente clinico a cui si era abituati, includendo aspetti sociali e comunitari. Tutto questo ha comportato l’esigenza di declinare la propria identità professionale in modo diverso.

Le condizioni pandemiche del Covid-19 hanno scatenato nelle persone reazioni abbastanza prevedibili, come la paura di ammalarsi o l’ansia per le conseguenze economiche. Tuttavia, alcuni fattori specifici hanno impattato ulteriormente sulla popolazione, peggiorando la già difficile situazione. Un esempio sono le modalità di trasmissione e prevenzione non totalmente note, o i molti sintomi comuni e simili a quelli delle influenze stagionali, o l’ampio numero di persone costrette all’isolamento.

L’emergenza, spiegano le docenti, ha interessato in modo sostanziale gli operatori in prima linea. I dati, relativi ai primi studi effettuati in seguito al Covid-19 sul personale sanitario cinese, mostrano lo sviluppo di sintomi depressivi, ansiosi, insonnia e stress, con una gravità maggiore in corrispondenza di un contatto ravvicinato con i pazienti Covid. Esiti simili sono stati raccolti dalle prime osservazioni su un campione di operatori italiani. Alcuni ricercatori hanno identificato nella normalizzazione delle emozioni, nel soddisfacimento dei bisogni di base, nel supporto sociale e nell’utilizzo di aiuto psicologico alcuni dei fattori che potrebbero aiutare a ridurre lo stress di queste figure professionali.

I livelli di supporto sociale, in particolare, sembrano essere un aspetto di cruciale importanza; tuttavia, gli operatori sanitari non hanno sempre potuto contare sull’appoggio e il sostegno comunitario. Infatti, questi professionisti da un lato sono stati dipinti dai Mass Media come eroi, dall’altro, però, sono stati percepiti e trattati come possibili untori, data la loro vicinanza al virus. La conseguenza, in molti casi, è stata l’isolamento e l’allontanamento sociale.

Un altro fattore in grado di influenzare notevolmente il livello di stress psicologico è l’ambiente lavorativo. Per evitare di sviluppare burnout, possono fare una sostanziale differenza aspetti come uno stile comunicativo trasparente, compiti chiari, orari flessibili, adeguate misure di protezione dal contagio ed incontri per discutere problematiche, decisioni e monitorare il benessere del personale. Non è da sottovalutare il ruolo della comunicazione: se gli operatori non comprendono cosa sta accadendo intorno a loro potrebbero vivere la situazione con un senso di ingiustizia e mettere in atto comportamenti poco funzionali.

Le reazioni allo stress, inoltre, possono essere aggravate e complicate da fattori di rischio:

  • Oggettivi: legati alla situazione di emergenza, come l’essere in pericolo, i colleghi malati, il dover prendere decisioni eticamente controverse.
  • Soggettivi: legati alla storia e ai vissuti di ognuno, alla sua struttura di personalità e ad eventuali problemi psicologici pre-esistenti.
  • Organizzativi: come ritmi di lavoro eccessivi, scarsità di dispositivi di protezione, mancanza di comunicazione con i colleghi e i responsabili.

Per rispondere alle nuove esigenze nate dalla pandemia, in Romagna sono nati dei progetti con lo scopo di creare interventi in grado di aumentare la resilienza e accompagnare gli operatori sanitari (e non solo) durante e dopo l’emergenza. Data la variabilità e l’urgenza impellente, l’azione non poteva essere individualizzata. È stato pensato quindi un intervento verso la comunità, in una prima fase con bassa specificità ed ampio spettro, per poi diventare sempre più cucito sui bisogni dei singoli. Gli strumenti utilizzati sono stati scelti in quanto certi e autorevoli (IASC e OMS), linee guida internazionali chiare per la sanità mentale ai tempi del Covid-19.

La modalità di intervento, spiegano le docenti, è stata pensata in due fasi non nettamente divise temporalmente, ma consequenziali.

La prima fase (fase pandemica acuta), comprende il servizio di Psicologia Ospedaliera dell’Emergenza, attività di sostegno psicologico telefonico gratuito e SUPPORT, un’indagine sulle esperienze psicologiche associate al Covid-19. L’intervento di supporto psicologico agli operatori sanitari e ai cittadini si è rivelato molto efficiente e ampiamente utilizzato, con 965 contatti nei primi 10 giorni. Si è notato come anche il semplice riuscire a dare una risposta a questioni pratiche (modalità per fare la spesa o andare in farmacia) potesse alleviare di molto il disagio sperimentato.

La seconda fase dell’intervento (fase post acuta e post epidemica) prevede, invece:

  • colloqui psicologici telefonici;
  • psicoeducazione per gruppi “resilienza e fronteggiamento dello stress”;
  • supporto psicologico individuale.

La lezione è stata arricchita da numerosi dati provenienti dalla letteratura e dalle molte testimonianze di medici, infermieri ed altri operatori sanitari. Questi ultimi parlano di ritmi e condizioni di lavoro insostenibili, sensazioni d’impotenza, problemi di memoria, rimuginio, ansia, paura e rabbia. I racconti dei professionisti, le loro voci e storie, hanno fornito agli studenti una porta d’accesso diretta ai loro vissuti e al loro disagio, permettendo di comprendere più profondamente il loro punto di vista.

Tra ottimismo e pessimismo in pandemia

Potremmo attribuire l’ottimismo irrealistico a chi non indossa la mascherina perchè non ritiene sia necessaria mentre un esempio di pessimista difensivo è quello di chi fa scorte per tre mesi. Nessuno dei due estremi sembra costituire una strategia ottimale per sopravvivere al meglio in tempo di emergenza Covid.

 

Riprendere la propria vita quotidiana in periodo di pandemia induce le persone a porsi diversi quesiti, primo tra tutti “Che rischio ho di essere contagiato?”

A questo interrogativo, ognuno cerca di rispondere affidandosi a diverse fonti, alcune delle quali esterne ed oggettive, altre personali e talvolta fallaci.

Le risposte che ci diamo finiscono inevitabilmente per collocarsi in un continuum che va da un estremo all’altro, tra un ottimismo irrealistico (“è impossibile che io mi ammali”) ad un pessimismo difensivo (“se esco, è molto facile che contragga il virus”). Così, molti apparentemente spavaldi sembrano non temere affatto il contagio, mentre altri eccessivamente spaventati non approfittano di piccole libertà anche quando queste sono concesse. Ma nessuna delle due alternative sembra vincente.

L’ottimismo irrealistico, infatti, è “un errore di giudizio che produce una sottostima del rischio che si corre personalmente rispetto ad una generica persona media” (Weinstein, 1980). E’ facile immaginare quanto siano pericolosi gli effetti che ne possono conseguire: infatti, la tendenza a pensare di essere immuni ad eventi dannosi produce un aumento dell’assunzione di rischio e così della vulnerabilità dell’individuo (Perloff, 1987). Potremmo attribuire l’ottimismo irrealistico a chi non indossa la mascherina perchè non ritiene sia necessaria. In effetti, non sembra essere molto diverso chi non indossa la cintura di sicurezza perchè pensa di saper guidare bene o da chi fuma smisuratamente perchè finora non ha mai avuto problemi ai polmoni. Detto ciò, un ottimismo fondato su basi di realismo produrrà sicuramente effetti più positivi come la promozione di autoefficacia, salute fisica e benessere (Segerstrom, 2001) e renderà anche meno vulnerabili a possibili rischi sottostimati.

L’estremo opposto all’ottimismo irrealistico è il pessimismo difensivo (Norem, 2001). Questo consiste in una strategia cognitiva attraverso cui l’individuo si prospetta possibili esiti negativi ed in virtù di questi si prepara ad agire preventivamente. In questo senso, il pessimismo assume un valore più adattivo limitando l’esposizione ai pericoli e favorendo la regolazione di stati affettivi come l’ansia. Tuttavia, essere preparati sempre al peggio potrebbe far sovrastimare il rischio, impedire di guardare alla realtà con obiettività e neutralizzare la possibilità di vivere serenamente laddove non ci sia pericolo imminente. In questo caso, un esempio calzante di pessimista difensivo è quello di chi fa scorte per tre mesi anche quando i supermercati non minacciano di chiudere.

Nessuno dei due estremi sembra costituire una strategia ottimale per sopravvivere al meglio in tempo di emergenza sanitaria. L’ideale sarebbe, infatti, riuscire a compiere una valutazione oggettiva dei rischi e sulla base di questa regolare al meglio il proprio comportamento.

Tuttavia, gli studi dicono che l’uomo fallisce facilmente nella stima delle probabilità e non è abile a percepire il rischio per quello che realmente è. Questa potrebbe sembrare una contraddizione in un’epoca in cui il calcolo delle probabilità diventa sempre più esatto, ma bisogna fare i conti con alcune trappole della mente in cui l’uomo cade inevitabilmente.

Come è possibile? Immaginate che questo riceva durante una giornata una quantità di informazioni smisurata (anche incoerenti tra loro) riguardo il Covid-19 e la sua possibilità di contagio. Ognuna di queste viene vagliata, modificata ed inserita in un’idea generale che sia il più possibile coerente. In questo processo, si forma una propria chiave di lettura dell’evento. Questa determina la selezione e la modifica delle informazioni in entrata, facilita il persistere di convinzioni personali anche senza fondamento empirico (“persistenza della credenza”) e la ricerca di prove stentate a supporto della propria ipotesi (bias di conferma), provoca il fenomeno dell’overconfidence (tendenza ad essere più sicuri che corretti nel sovrastimare l’esattezza delle convinzioni personali) causando così ripetuti errori nella valutazione.

Inoltre, l’individuo si affida anche alle euristiche, scorciatoie di pensiero che favoriscono l’emissione di giudizi rapidi ed efficienti. Queste sono guide intuitive che, se da un lato facilitano il lavoro della nostra mente occupata, dall’altro non sempre sono esatte. In particolare, nel caso della valutazione del rischio, l’euristica della disponibilità sembra essere particolarmente coinvolta. Essa consiste in una stima delle probabilità che un determinato evento futuro ha di accadere sulla base della disponibilità in memoria di eventi attinenti. Dunque, un errore a cui l’euristica della disponibilità potrebbe condurci è quello di presupporre una scarsa probabilità di contagio solo perché non si conosce nessun soggetto che ha contratto il virus.

Ad influenzare la percezione del rischio, sono anche altri fattori come la familiarità con il pericolo, l’accettabilità del rischio, il grado di incertezza che questo implica, la percezione di controllo sull’evento, la gravità delle conseguenze, le possibilità di rimedio, ecc. (Slovic, 1987). Questi processi cognitivi sono accompagnati anche da componenti emotive, non meno importanti ed altrettanto influenti. E’ quindi solo considerando la totalità dei costrutti coinvolti che si può comprendere l’origine della discrepanza tra la valutazione oggettiva del rischio e la percezione soggettiva (Slovic, 2001).

Guardando a questo errore nel funzionamento dell’uomo, viene da chiedersi come abbia fatto a sopravvivere ai tanti ed imminenti pericoli che l’era primitiva comportava se oggi non è in grado di compiere una valutazione oggettiva del rischio, nonostante la presenza dei dati statistici.

Storia di un coronavirus (2020) di F. Dall’Ara e G. Negri – Recensione del libro

L’E-book Storia di un coronavirus è stato creato con lo scopo di trovare un modo concreto e immediatamente fruibile per facilitare genitori e bambini a condividere domande e vissuti circa il coronavirus e le sue conseguenze.

 

In questo tempo sospeso e complesso, in cui gli scienziati di tutto il mondo si pongono domande e cercano risposte per contenere e superare la difficilissima situazione sanitaria che stiamo affrontando a causa del SArs-Cov2, è molto importante non dimenticarsi che anche i bambini hanno il diritto di sapere! (A. Costantino)

Con queste parole la professoressa Antonella Costantino, primario dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, presenta l’E-book Storia di un coronavirus, sviluppato allo scopo di trovare un modo concreto e immediatamente fruibile per facilitare genitori e bambini a condividere domande e vissuti circa il coronavirus e le sue conseguenze.

Nell’emergenza, in questa emergenza sanitaria, tutti, grandi e piccini, abbiamo bisogno di capire cosa succede. Non sapere, non poter fare previsioni fa sperimentare sentimenti di confusione e aumenta la paura.

Questo è vero sia per noi adulti sia per i bambini.

Anche i bambini hanno bisogno di capire e non è certo facile per i genitori spiegare una minaccia invisibile, ma così potente da far chiudere le scuole e gli uffici da allontanare i parenti e gli amici. Una minaccia, questo virus, che fa ammalare molte persone e alcune purtroppo muoiono.

Difficile spiegare tutto questo a un bambino. Psicologi, educatori e scrittori per l’infanzia hanno trasformato informazioni scientifiche in storie per bambini per essere di supporto ai genitori. Ci sono le rime di Roberto Piumini, la delicatezza di Alberto Pellai, ma ci sono anche Francesca Dell’Ara e Giada Negri con la loro storia di un coronavirus. La loro storia è speciale!

Cosa la rende speciale? Può essere letta da tutti grandi e piccini ed anche da chi leggere non sa, ma comunicare vuole.

I bambini con disabilità hanno bisogni comunicativi spesso complessi da soddisfare, come tutti noi hanno bisogno di sicurezza e necessitano di capire cosa succede se intorno a loro il mondo cambia. Prendiamo in esame i bambini con disturbi dello spettro dell’autismo essi faticano a esporsi con gli altri, “esseri umani mutevoli e senza regole”, così mi disse Loris un giorno, e ancor di più faticano ad adattarsi a un ambiente mutevole e imprevedibile. Più di altri faticano ad adattarsi ai cambiamenti che l’emergenza sanitaria da coronavirus ha imposto a tutti, anche a loro.

Avere difficoltà nella comunicazione e nella relazione con gli altri non elimina il bisogno d’informazione e conoscenza. La conoscenza di quel che accade ci aiuta ad adattarci a quel che accade.

Questo e-book racchiude due versioni dello stesso testo una in italiano e una in simboli secondo i principi della comunicazione alternativa aumentativa.

La Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) è un sistema multimodale sviluppato per sostenere la comunicazione mediante strumenti che permettono a una persona di far emergere le proprie competenze comunicative. Include simboli, gesti, segni. La CAA è un approccio clinico e riabilitativo che consente di integrare le competenze comunicative della persona con ausili e software corretti.

Storia di un Coronavirus è un libro “su misura” adatto ai bambini dai due anni. E’ una storia semplice che cerca di spiegare una realtà complessa.

C’è Margherita una bambina che prova a disegnare il Coronavirus perché ha bisogno di capire, così s’infila nel lettone con mamma e papà, si sente al sicuro accanto ai genitori che le spiegano che succede. Le spiegano cos’è un virus, cosa sono le goccioline, perché serve la mascherina e l’importanza del distanziamento tra le persone. Margherita come molti bambini fatica a rinunciare al parco con gli amici e ai momenti felici con i compagni di classe e con i nonni.

Nella storia si toccano i sentimenti negativi della paura di ammalarsi, della tristezza per la sofferenza di molte persone, la preoccupazione per le persone più fragili e per la “nonna bis”.

Non si può impedire all’emozione di emergere e non possiamo negare ai bambini di esprimere la paura della malattia, la rabbia di non poter giocare all’aperto, la noia di restare in casa e la tristezza per i defunti. Si può aiutare i bambini a tollerare queste emozioni, a condividerle e a trovare un modo per utilizzare il tempo prezioso insieme a casa.

Nella storia genitori e bambini troveranno suggerimenti per organizzare il tempo e lo spazio familiare tra smart-working di mamma e papà e scuola online. Un tempo di opportunità e di nuove idee e attività da realizzare insieme: le bolle sul balcone, la pizza e le patatine cucinate insieme.

Leggete questa storia semplice ad alta voce con i bambini, leggete questa storia con gli occhi, osservando i simboli e le immagini.

Con l’aiuto di Margherita, la protagonista, molti bambini avranno l’opportunità di conoscere e condividere quello che succede fuori e dentro di loro.

Tutti hanno diritto di leggere è solo questione di trovare il supporto adatto, il libro su misura e la comunicazione alternativa aumentativa crea infinite possibilità di leggere.

Di seguito una frase della storia nella versione simboli con CAA.

Storia di un coronavirus 2020 di Dall Ara e Negri Recensione del libro IMM1

 

Il bilinguismo come fattore di protezione nell’invecchiamento sano e patologico

Vista la mancanza di trattamenti risolutivi per la demenza, l’OMS sottolinea l’importanza di focalizzarsi sulla riduzione dei fattori di rischio di demenza, o, specularmente, sullo sviluppo dei fattori di protezione.

 

La popolazione italiana sta invecchiando: questa considerazione, ormai parte del dibattito pubblico, è supportata dai dati Istat. Per citarne alcuni, la percentuale di individui di età superiore ai 65 anni in Italia nel 2019 era del 22,8%; quella di bambini e adolescenti fino ai 14 anni era pari al 13,2%. L’indice di vecchiaia, pari al 173.1%, ribadisce l’invecchiamento della popolazione italiana.

Uno dei risvolti di questa situazione demografica è la presenza, in Italia, di oltre un milione di pazienti affetti da demenza. In aggiunta, la prevalenza delle demenze tenderà ad aumentare, con conseguenze sulla qualità della vita dei malati di demenza, dei loro familiari o caregiver e con conseguenze anche a livello economico (i costi annuali per la presa in carico di ciascun paziente variano tra i novemila e i sedicimila euro; Osservatorio Demenze Istituto Superiore di Sanità).

Considerando la mancanza di trattamenti risolutivi per queste patologie neurodegenerative, cioè che comportano la perdita o l’alterata funzione delle cellule nervose (Vallar e Papagno, 2018), l’OMS sottolinea l’importanza di focalizzarsi sulla riduzione dei fattori di rischio di demenza, o, specularmente, sullo sviluppo dei fattori di protezione.

Uno dei possibili fattori di protezione preso in considerazione attualmente nel dibattito scientifico è il bilinguismo. Un esempio è lo studio di Alladi e colleghi (2013), il quale ha mostrato che l’esordio della demenza risulta ritardato di 5 anni nei bilingui rispetto ai monolingui cresciuti nello stesso contesto culturale.

Tuttavia, i meccanismi neurali e cognitivi che spiegano come il bilinguismo possa agire da fattore di protezione per la demenza sono ancora incerti. Ossia: quali sono i cambiamenti a livello cerebrale e a livello del funzionamento cognitivo che rendono il bilinguismo un fattore di protezione rispetto all’invecchiamento sano e patologico?

Gallo, Myachykov, Shtyroy e Abutalebi (2020) hanno proposto che il bilinguismo possa agire da fattore protettivo attraverso l’aumento della riserva cerebrale e cognitiva. Il costrutto di riserva si riferisce alla discrepanza tra l’estensione di un danno cerebrale e la sua manifestazione clinica (Stern, 2009). In altre parole, lo stesso danno cerebrale potrebbe causare difficoltà cognitive diverse, in base ad alcune differenze individuali nei processi cognitivi o nelle reti neurali ad essi sottese.

Stern (2009) individua due tipologie principali di riserva: la riserva cerebrale (ad esempio avere un cervello più grande, più neuroni o più sinapsi) e la riserva cognitiva (riguarda le differenze individuali nei processi cognitivi). La riserva cognitiva comprende: la riserva neurale (ossia l’efficienza, capacità e flessibilità dei network neurali che supportano i processi cognitivi) e la compensazione neurale (cioè la capacità di sfruttare strutture o reti neurali diverse da quelle usate da un individuo con un cervello sano per implementare lo stesso processo cognitivo / svolgere lo stesso compito).

Gallo e colleghi (2020), nella loro review, argomentano che il bilinguismo possa contribuire ad incrementare:

  • La riserva cerebrale: le persone bilingui hanno una maggior integrità della sostanza bianca e un maggior volume della materia grigia. L’aumento di volume della materia grigia riguarda sia aree corticali (tra cui ad esempio la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore e i lobi temporali), sia aree sottocorticali coinvolte nel controllo esecutivo e nel linguaggio.
  • La riserva neurale: le persone bilingui sembrano avere maggiore flessibilità ed efficienza a livello delle reti neurali che supportano il controllo esecutivo, riuscendo così a compensare eventuali diminuzioni nel loro funzionamento cognitivo legate all’invecchiamento sano o patologico.
  • La compensazione neurale: gli studi considerati da Gallo e colleghi (2020) indicano che, a parità di funzionamento cognitivo, i bilingui hanno danno cerebrali più severi dei monolingui. Questo significa che i bilingui, pur avendo strutture cerebrali atrofizzate o danneggiate, riescono a manifestare un funzionamento cognitivo quasi normale.

Gallo e colleghi (2020) suggeriscono inoltre che una migliore teorizzazione degli effetti protettivi del bilinguismo sull’invecchiamento dovrebbe includere il costrutto di mantenimento cerebrale (Nyberg, 2012). Il mantenimento cerebrale si riferisce alle condizioni che consentono di preservare l’integrità strutturale, neurochimica e funzionale del cervello in età avanzata. Il mantenimento cerebrale è un concetto complementare a quello di riserva: il primo riguarda il rinvio della comparsa del declino cognitivo legato all’invecchiamento, il secondo riguarda le capacità di far fronte alla sua presenza (Nyberg, 2012).

Le conclusioni di Gallo e colleghi (2020) mettono in luce i benefici che il bilinguismo può apportare alla qualità della vita delle persone più anziane e, indirettamente, di chi se ne prende cura; benefici che bisognerebbe tenere in considerazione a livello personale, educativo e sociale.

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