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Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro

Rosenzweig sostiene due cose: la prima è che il successo terapeutico non è una valida prova della bontà della teoria che la sostiene, la seconda è che, se vediamo effetti analoghi in trattamenti che si dichiarano diversi, viene da supporre che in essi agiscano fattori comuni.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo nei prossimi giorni i successivi contributi

 

Non dipende dai veloci
la corsa,
né dai forti
la guerra,
né dai sapienti
il nutrimento,
né dai più abili
la ricchezza
e neppure dai più sensibili
una grazia. (Qoelet 9,11)

Antefatto: La gara.

La mia discussione si articola in un antefatto, tre quadri ed un epilogo:

  • Antefatto: La gara
  • Primo Quadro: Rosenzweig – primo slittamento
  • Secondo Quadro: Luborsky  – secondo slittamento
  • Terzo Quadro: Ruggiero ed altri – slittamento fatale e finale
  • Epilogo e penultimo verdetto

L’assemblea che si riunì alla spiaggia era oltremodo bizzarra – figuratevi, gli uccelli avevano le piume fradice, e gli altri animali avevano il pelo incollato a’ loro corpicciuoli; e tutti erano inzuppati, grondanti acqua, tristi e malcontenti.

Naturalmente la prima quistione che fu posta fu quella di sapere come si sarebbero asciugati: si consultarono insieme su questo argomento, e pochi minuti dopo Alice si mise a parlare familiarmente con loro, come se li avesse conosciuti da un secolo. Ebbe una lunga discussione col Lori, ma bentosto quest’ultimo le fece un viso arcigno, e disse perentoriamente, “Son più vecchio di lei, perciò devo saper più di lei;” ma Alice non volle convenirne se prima non le avesse detto quanti anni aveva. Il Lori non volle dirlo, e la loro conversazione cessò.

(Dopo una interessantissima discussione il DODO prende la parola)

“Allora,” disse il Dodo con voce solenne, e levandosi in piedi, “propongo che il parlamento si aggiorni, accioché sieno adottati rimedii più energici.”

“Ma parli italiano!” sclamò l’Aquilotto. “Non capisco la metà delle sue parolone, e forse lei stesso non ne intende cica!”. E l’Aquilotto abbassò la testa per nascondere un sorriso, ma alcuni degli uccelli sghignazzarono apertamente.

“Volevo dire,” continuò il Dodo, facendo il broncio, “che il miglior modo di seccarsi sarebbe quello di fare una Corsa arruffata.”

“Che è la Corsa arruffata?” domandò Alice; non le premeva molto di saperlo, ma il Dodo taceva come se qualcheduno dovesse parlare, mentre niuno sembrava disposto ad aprire becco o bocca.

“Ecco,” disse il Dodo, “il miglior modo di spiegarla è quello di eseguirla”. (E siccome vi potrebbe venire la voglia di provare questa Corsa in qualche giorno d’inverno, vi dirò come il Dodo la diresse.)

Imprima tracciò la linea dello steccato, una specie di circolo (“già, non importa che sia ben tracciata,” disse), e poi tutta la comitiva entrò nello steccato mettendosi chi quà, chi là. Non si udì “Uno, due, tre, — via!” ma cominciarono a correre a piacere, e si fermarono quando n’ebbero voglia, di tal che non si seppe quando la Corsa fosse terminata. Ad ogni modo, dopo che ebbero corso una mezz’ora o quasi, e si sentirono tutti ben seccati, il Dodo sclamò tutt’a un tratto, “La corsa è finita!” e tutti l’intorniarono anelanti, e sclamando, “Ma chi ha vinto?”

Questa domanda impensierì immensamente il Dodo, perciò sedette e restò lungo tempo con un dito appoggiato alla fronte (tale e quale come è rappresentato Dante), mentre gli altri zittivano. Finalmente il Dodo disse, “ Tuttiquanti hanno vinto, e tutti debbon’essere premiati”. (L. Carrol: Alice nel paese delle meraviglie. Capitolo 3)

Commento

Il problema da risolvere per tutti gli animali è quello di asciugarsi.

La procedura che viene proposta dal Dodo è di fare una “corsa arruffata”.

La corsa arruffata è una corsa senza regole:

tutt’insiem, tutt’insiem senza una ragione, viene come vien, tutti di corsa tutt’insiem (Mary Poppins, diretto da R. Stevenson,1964).

Quando tutti sono stanchi e asciutti chiedono al Dodo: “chi ha vinto?”

La domanda chi ha vinto a cosa si riferisce?

Non ha niente a che vedere con lo scopo della corsa arruffata, non ha a che vedere con il problema che TUTTI dovevano risolvere: asciugarsi. E la gara non aveva niente a che vedere con il loro problema, non ci si asciuga correndo!

Ma il Dodo non ha perso la testa, non si lascia fuorviare ed emette il verdetto sulla questione vera: tutti hanno corso, tutti si sono asciugati, tutti hanno vinto e hanno perciò diritto a un premio.

Dunque, il verdetto riguarda la gara o il problema?

Il problema, con tutta evidenza; e rispetto alla soluzione del problema vi è che tutti sono asciutti, tutti hanno vinto, perciò tutti hanno diritto ad un premio.

Conclusione

Quando si accetta una procedura assurda per la risoluzione di un problema si procede di assurdità in assurdità fino al risultato finale che, generalmente, è la confusione mentale e il grigio indistinto.

Primo quadro: Rosenzweig: dov’è la vittoria? – Primo slittamento

Rosenzweig (1936) dà per scontato che le procedure psicoterapeutiche abbiano effetti e che il quesito riguardi il come sia possibile che procedure che si appoggiano a teorie dissimili e dicono di applicare specifiche tecniche abbiano risultati sovrapponibili.

Ecco cosa dice il nostro:

È stato spesso osservato che nessuna forma di psicoterapia è priva di effetti curativi per un paziente. Psicoanalisi, trattamento per persuasione, Christian Science e qualsiasi altra teoria psicoterapica può rivendicare notevoli successi. L’implicazione di questo fatto non è, tuttavia, univoca. L’orgoglioso sostenitore (di un approccio), avendo ottenuto il successo nei casi che menziona, ritiene implicito, anche quando non lo dice, che la sua teoria è così dimostrata vera, (mentre quella di) tutti gli altri falsa. Osservatori più distaccati, d’altra parte, osservando l’intero campo tendono, per motivi logici, a trarre conclusioni molto diverse. Se tali procedure, teoricamente contrastanti sostengono che possono portare al successo, spesso anche in casi simili, allora il risultato terapeutico non è una guida affidabile alla validità della teoria. Si deve riflettere ben poco per capire dove si radica la difficoltà, dal punto di vista logico.
Non solo è ragionevole credere che la stessa conclusione non può seguire da premesse opposte, ma quando tale contraddizione appare, come sembra essere vero nel presente caso, è giustificabile chiedersi (I) se i fattori che si presume operino in una data terapia siano identici a quelli che stanno effettivamente operando e (2) se i fattori che effettivamente stanno operando in diverse terapie potrebbero non avere molto di più in comune di ciò che hanno i fattori che si presume siano operativi. (Rosenzweig 1936)

L’autore sostiene due cose: la prima è che il successo terapeutico non è una valida prova della bontà della teoria che la sostiene, la seconda è che se vediamo effetti analoghi in trattamenti che si dichiarano diversi viene da supporre che in essi agiscano fattori comuni.

Dunque Rosenzweig non dubita affatto che le psicoterapie siano efficaci, ma si chiede perché possano essere ugualmente efficaci. La tesi che sostiene è che le psicoterapie possono avere analoghi successi perché condividono fattori comuni, e potrebbero essere questi che determinano in gran parte il successo delle stesse, mentre le tecniche specifiche di ciascuna psicoterapia assumono un ruolo meno determinante.

Chi mette in dubbio l’efficacia delle psicoterapie è invece Eysenk, nel 1952.

Dice Eysenk che la psicoterapia psicodinamica e altre forme eclettiche di psicoterapia non solo sono inefficaci, ma che le remissioni spontanee superano percentualmente quelle attribuibili a interventi psicoterapeutici.

Lo stesso Rosenzweig prima (Rosenzweig, 1954), nel 1994, Lambert e Bergin poi, ancora Lambert e Barley (2001) e Wampold e Imel (2015), documentano la inequivocabile efficacia dei trattamenti psicoterapeutici a confronto con il trattamento usuale. Il focus si è così spostato sul confronto tra terapie piuttosto che tra psicoterapia versus trattamento standard.

Commento

Il primo slittamento consiste nello spostare il problema sul perché si abbiano risultati e non se questi risultati vi siano.

Il problema non è chi ha vinto, ma perché TUTTI vincono, visto che sistemi psicoterapeutici basati su fondamenti teorici diversi, talora opposti, vantano gli stessi risultati. L’accento è qui posto sul perché i trattamenti possano essere ugualmente efficaci, e la ragione addotta da Rosenzweig è che esistono fattori comuni che i terapeuti utilizzano anche al di là di quanto ne siano consapevoli, e che possano agire altri fattori legati al paziente, o al contesto stesso della psicoterapia, che la rende efficace al di là della tecnica specifica.

Conclusione

Rosenzweig non fornisce un verdetto, ma la motivazione dello stesso: tutti vincono perché tutti fanno la stessa cosa decisiva e ottengono perciò il risultato, non perché tutti arrivano primi.

Quando si cerca il “perché” di qualcosa l’orizzonte si apre e la cooperazione si prende il suo spazio.

Ringraziamenti

Ringrazio mio figlio Filippo, brillantissimo logico, per avermi suggerito l’articolazione della discussione sull’antefatto.

Ringrazio Mancini per la sua lucidità, che permette anche ai suoi interlocutori di chiarirsi le idee.

Ringrazio il Ruggiero, e con lui Sassaroli e Caselli, che offre l’occasione per pensare a ciò che agiamo.

I meriti del mio commento sono di tutti gli autori citati; le banalità, le inesattezze e gli errori tutti miei.

 

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Vaginismo e Dispareunia: differenze e trattamento

Le interpretazioni cognitive come attribuzioni o credenze sul dolore contribuiscono all’incremento della sua intensità (Jodoin et al., 2011) e rivestono quindi un ruolo importante in disturbi come vaginismo e dispareunia.

Andrea Goldoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il dolore cronico sessuale femminile

I problemi di dolore cronico che coinvolgono il sistema riproduttivo femminile rappresentano un importante argomento che riguarda le donne di ogni età. Nonostante ci siano stati progressi significativi nel settore, queste patologie sono ancora poco comprese: solo il 60% delle donne cerca attivamente un trattamento, e il 52% di queste non riceve una diagnosi formale (Harlow et al., 2014). I disturbi da dolore sessuale, vaginismo e dispareunia, che ora sono classificati all’interno del DSM-5 come una singola entità chiamata disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (American Psychiatric Association, 2013), affliggono secondo le stime dal 14 al 34% delle donne giovani e dal 6,5 al 45% delle donne più anziane. (van Lankveld et al., 2010)

Anche se vaginismo e dispareunia sono stati entrambi classificati come disturbi da dolore sessuale all’interno del DSM-IV, erano differenziati dalle loro principali caratteristiche cliniche. La dispareunia era caratterizzata principalmente da dolore genitale durante il rapporto/penetrazione, che poteva essere introitale (localizzato all’entrata della vagina), profonda (riguardante la parte profonda della vagina o la pelvi), o entrambe (Graziottin, Gambini, 2017). Di contro, il vaginismo era caratterizzato da spasmi involontari del muscolo vaginale, forti abbastanza da interferire con la penetrazione, o da impedirla. (Graziottin, Gambini, 2017; Perez et al., 2016)

All’interno della pratica clinica, tuttavia, i disturbi apparivano spesso in comorbidità, oppure erano difficilmente differenziabili: le aspettative negative o la paura di provare dolore genitale nella dispareunia, ad esempio, potrebbero causare una contrazione involontaria del muscolo pelvico rendendo il rapporto sessuale difficile, e allo stesso modo la contrazione involontaria del muscolo pelvico nel vaginismo potrebbe causare dolore genitale durante un tentativo di penetrazione. In più, è stato rilevato che lo spasmo del muscolo vaginale, la caratteristica principale del vaginismo, non ha costituito un criterio valido e affidabile nel momento in cui è stato testato empiricamente (Reissing et al., 2014; Perez et al., 2016). Molti ricercatori perciò hanno postulato che l’efficacia diagnostica sarebbe aumentata combinando entrambi i disturbi in un’unica categoria.

Caratteristiche del disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD)

Gli attuali criteri diagnostici del DSM-5 per il disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD) includono difficoltà persistenti e ricorrenti in uno dei seguenti ambiti, per almeno 6 mesi e risultanti in un disagio clinicamente significativo: (1) penetrazione vaginale durante il rapporto; (2) marcato dolore vulvo-vaginale o pelvico durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale; (3) marcata paura o ansia per il dolore pelvico o vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale. (4) marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale.

I modelli concettuali del dolore sessuale presentano una visione multifattoriale, poiché le prove empiriche suggeriscono l’esistenza di percorsi eziologici multipli, che portano allo sviluppo e al mantenimento del dolore e alle difficoltà relazionali e psicosessuali associate.

Fattori biologici

Studi recenti mostrano almeno quattro possibili percorsi che possono influenzare il rischio di sviluppare questo disturbo: (1) cambiamenti ormonali, (2) cambiamenti neurologici, (3) infiammazione cronica e (4) ipertonia dei muscoli del pavimento pelvico (Bouchard et al., 2002; Harlow et al., 2008). L’inizio potrebbe essere attivato da traumi fisici/meccanici nella zona genitale, con conseguente infiammazione, disfunzione dei muscoli pelvici e altri cambiamenti locali che porterebbero a una sensibilizzazione dei nocicettori e ad altre alterazioni periferali e centrali del processo di elaborazione del dolore (Bergeron et al., 2011). Fattori cognitivi, comportamentali, affettivi e interpersonali possono modulare l’esperienza di dolore e le conseguenze negative associate, in quanto non tutte le donne che hanno un’esperienza iniziale di dolore sono a rischio di sperimentare una condizione persistente (Vlaeyen, Linton, 2000) o di sviluppare un disturbo sessuale.

Fattori psicologici

Similmente ai fattori biologici, anche i fattori psicologici coinvolti nell’eziologia del disturbo sono multifattoriali e vari. In uno studio trasversale su larga scala, le ragazze adolescenti che provavano dolore durante il rapporto sessuale hanno riportato con più frequenza una storia personale di abuso sessuale, timore di essere abusate sessualmente e ansia di tratto (Bouchard et al., 2002). Nello stesso studio, le adolescenti che riferivano abuso sessuale erano più inclini a riportare dolore sessuale rispetto a chi non ha sperimentato un abuso (Landry, Bergeron, 2011). Utilizzando uno studio caso-controllo, dei ricercatori hanno cercato di esaminare il ruolo dei fattori di stress psicosociale nell’eziologia del dolore sessuale. Rispetto alle donne non affette dal disturbo, le donne affette da dolore sessuale hanno sperimentato con una frequenza maggiore di tre volte gravi abusi fisici o sessuali durante l’infanzia, o hanno vissuto da bambine una forte paura di poter essere abusate (Khandker et al., 2014). In uno studio è stato dimostrato che il dolore vulvo-vaginale era quattro volte più probabile nelle donne che avevano precedentemente sperimentato un disturbo depressivo o di ansia, e che questi disturbi erano maggiormente presenti anche come conseguenza del dolore vulvare, rispetto ai controlli sani (Khandker et al., 2011).

Coerentemente con il modello biopsicosociale, sono presenti prove empiriche che indicano che le interpretazioni cognitive come attribuzioni o credenze sul dolore contribuiscono all’incremento della sua intensità (Jodoin et al., 2011) e perciò hanno un grande ruolo nella sua gestione e modulazione. Le donne affette dal disturbo riportano livelli maggiori di catastrofizzazione verso il dolore (ovvero una prospettiva esagerata e pessimistica), rispetto al campione di controllo sano (Payne et al., 2007; Pukall et al., 2002) e mostrano anche alti livelli di ipervigilanza nei confronti del dolore rispetto a uno stimolo neutro. Livelli più alti di catastrofizzazione, paura del dolore, ipervigilanza e bassa autoefficacia sono correlati con un maggiore dolore, mentre livelli più alti di ansia ed evitamento sono correlati con un livello maggiore di disfunzioni sessuali. (Desrochers, et al. 2009).

Fattori relazionali

Dato che il disturbo è sperimentato in contesti sessuali, la ricerca si è gradualmente concentrata sul ruolo dei fattori relazionali. La risposta del partner, la più studiata dei fattori relazionali, può essere negativa (ostilità), preoccupata o facilitante (affetto e incoraggiamento all’utilizzo di strategie di coping adattive). Negli studi trasversali, maggiori risposte facilitanti del partner sono state associate a un minore dolore sessuale femminile (Rosen et al., 2012) e a un migliore funzionamento sessuale (Rosen, 2014), oltre che a una maggiore soddisfazione di coppia, relazionale e sessuale (Rosen, 2015).

Di contro, maggiori risposte negative e preoccupate del partner sono state associate a un maggior dolore (Desrosiers, 2008; Rosen, 2015) e a maggiori sintomi depressivi nelle donne (Rosen, 2014), oltre che a un funzionamento sessuale più basso e a una minore soddisfazione relazionale e sessuale. Mentre le risposte facilitanti promuovono l’uso all’interno della coppia di strategie di coping adattive e di una regolazione emotiva condivisa di fronte al dolore, le risposte ostili o preoccupate del partner rinforzano l’evitamento del dolore e del sesso e compromettono il coping e la regolazione delle emozioni legati alle sensazioni dolorose. Una maggiore ambivalenza nell’espressione emotiva all’interno della coppia (uno degli indicatori di scarsa regolazione emotiva) è stata associata a una riduzione del funzionamento e della soddisfazione sessuale (Awada, 2014). Inoltre, gli studi che hanno esaminato le cognizioni relative al dolore dei partner hanno mostrato che una minore catastrofizzazione verso il dolore era correlata a un minore livello di dolore nelle donne. Di contro, maggiori attribuzioni negative verso il dolore hanno predetto maggiore distress all’interno della coppia, minore soddisfazione sessuale e relazionale, e livelli maggiori di dolore nella donna (Jodoin et al., 2008).

Questi studi evidenziano i diversi modi tramite i quali le convinzioni e le esperienze relative al dolore nel partner possono influenzare direttamente o indirettamente il dolore sessuale della donna, oltre che condizionare la serenità psicologica, relazionale e sessuale all’interno della coppia.

Le coppie in cui è presente il disturbo sono più inclini a sperimentare ostacoli relazionali rispetto alle altre coppie nella popolazione generale. Ad esempio, le donne affette da questi sintomi presentano con più frequenza uno stile di attaccamento insicuro (Granot et al., 2011), e le coppie affette dai sintomi, riportano una minore comunicazione sessuale rispetto alle coppie sane (Smith, Pukall, 2011; Pazmany, 2014). Di contro, una minore comunicazione sessuale e la presenza di un attaccamento insicuro sono associati a una maggiore sofferenza sessuale nelle donne (Pazmany, 2015), un minore funzionamento sessuale all’interno della coppia (Leclerc et al., 2014), e una minore soddisfazione relazionale. Tali studi sottolineano l’importanza da attribuire al contesto diadico nel quale si presenta il sintomo.

Il modello paura-evitamento

Lo sviluppo e la persistenza del disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione sono stati concettualizzati sotto forma di un circolo vizioso, utilizzando il modello paura-evitamento per spiegare il mantenimento del dolore (Basson, 2012).

Un’esperienza iniziale di dolore produce pensieri ansiosi e catastrofici sul dolore e sul suo significato. Questi portano a un’ipervigilanza somatica che amplifica tutte le sensazioni potenzialmente negative, aumenta le emozioni negative associate al dolore e l’evitamento dell’attività sessuale. A seguito di ciò, si ha una risposta di ipertono dei muscoli del pavimento pelvico, che aumenta la negatività dell’esperienza. Il dolore impedisce l’eccitazione genitale, portando a una minore lubrificazione e a una penetrazione dolorosa. Esperienze ripetute di dolore sessuale confermano la paura e la necessità dell’ipervigilanza, contribuendo all’evitamento della penetrazione vaginale. Infine, l’evitamento dell’attività sessuale previene la disconferma dei pensieri automatici negativi (van Lankveld, 2006).

Il trattamento del disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione

La terapia cognitivo-comportamentale è stata uno degli interventi più studiati per il trattamento del disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione (Goldfinger, 2016), e diversi studi hanno dimostrato la sua efficacia (ter Kulle, 2007; van Lankveld, 2006; Breton, 2008; Bergeron, 2016; Brotto, 2015; Goldfinger, 2016; Bergeron, 2001; Engman et al., 2010; Lofrisco, 2011; Ter Kuile, 2015). Gli obiettivi principali della terapia sono le distorsioni cognitive, la disregolazione emotiva e i comportamenti maladattivi che sottendono i sintomi e che disturbano la relazione di coppia. (Bergeron, 2014). Uno dei punti chiave della terapia è lo stabilire obiettivi terapeutici realistici: alcuni esempi sono la riduzione del dolore da grave a moderato o lieve; la riduzione della tensione muscolare nel perineo/pelvi; la riduzione delle cognizioni negative relative al dolore (pensieri catastrofici meno frequenti e l’abilità di considerare le situazioni che generano dolore in una maniera più positiva); coping positivo (l’abilità di focalizzarsi sulle componenti positive dell’esperienza sessuale); miglioramento del funzionamento sessuale (esplorazione delle espressioni della sessualità che non includono la penetrazione, e l’abilità di comunicare i propri desideri al partner) (Engman, 2010).

L’approccio terapeutico iniziale consiste nella psicoeducazione della coppia (Dunkley, Brotto, 2016;). Né il paziente né il partner dovrebbero affrontare la problematica assumendo un ruolo passivo: è un’opportunità per comprendere il problema, aumentare le conoscenze sull’anatomia femminile e sfatare i miti sulla sessualità. La coppia dovrebbe anche essere informata riguardo la natura biopsicosociale del disturbo e sul ruolo delle problematiche psicologiche e di coppia come fattori di innesco e di mantenimento (Weijenborg et al., 2009). La coppia inoltre va messa a conoscenza di strategie comportamentali che possono aiutare a ridurre il dolore.

Un altro obiettivo importante nell’approccio iniziale verso il disturbo è la riduzione dell’ansia. Non è infrequente che, presentandosi al/alla terapeuta, la coppia sia bloccata in un circolo di evitamento: dell’intimità, della discussione del problema, della ricerca di soluzioni, e infine dell’attività sessuale. Nel momento in cui finalmente cominciano il trattamento, è probabile che si sentano ansiosi perché sarà necessario discutere del problema e in seguito riprendere ciò che stavano attivamente evitando: il sesso. E’ importante che il terapeuta sia a conoscenza di questa situazione e rinforzi positivamente il fatto che la coppia abbia cercato aiuto. E’ di fondamentale importanza informarli sul fatto che la terapia si focalizzerà sull’incremento del desiderio, dell’eccitazione e dell’intimità, e non sull’aumento della frequenza delle penetrazioni. Il rapporto sessuale completo non è un obiettivo primario, ma una conseguenza di un trattamento di successo (Meana et al., 2017).

In un secondo stadio della terapia, è importante che il/la terapeuta metta in discussione determinati pensieri riguardo il sesso che sono comuni tra le coppie. Due distorsioni cognitive comuni nelle donne affette nel disturbo, come precedentemente detto, sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione del dolore. Affrontare queste distorsioni è essenziale per ridurre le reazioni emotive disfunzionali. Inoltre, l’uso delle fantasie sessuali dovrebbe essere incoraggiato, poiché le cognizioni sessuali positive incrementano il desiderio e l’eccitazione, i quali possono aumentare la lubrificazione e il piacere, e ridurre il dolore.

La coppia dovrebbe anche essere incoraggiata a esprimere attivamente le sue emozioni e a mostrare fisicamente affettività. L’obiettivo è di scollegare l’affetto fisico dall’anticipazione del dolore genitale, riducendo l’ansia anticipatoria. Ciò può essere raggiunto tramite la tecnica di focalizzazione sensoriale sviluppata da Masters e Johnson e pubblicata nel 1970 nel loro libro Human Sexual Inadequacy. Lo scopo è di passare gradualmente da carezze non genitali a carezze genitali, e infine alla penetrazione. All’inizio, la penetrazione è proibita, cosa che solitamente riduce l’ansia della paziente, permettendole di focalizzarsi sulle sensazioni corporee piacevoli. Questa esposizione graduale al contatto fisico di solito risulta in un aumento del desiderio e dell’eccitazione, e in una riduzione del dolore. La focalizzazione sensoriale è anche utile per espandere il repertorio sessuale della coppia (ter Kuile, 2015).

Poiché la contrazione dei muscoli pelvici è considerata una risposta condizionata alla paura, è consigliabile l’utilizzo delle tecniche di esposizione (ter Kuile et al., 2007). E’ opportuno inoltre l’utilizzo di dilatatori vaginali progressivamente più grandi (desensibilizzazione sistematica), associati a un programma specifico di fisioterapia (Dunkley, Brotto, 2016). L’efficacia di questo intervento è mediata dalla riduzione del comportamento di evitamento e delle distorsioni cognitive, oltre che dall’aumento del controllo del dolore (ter Kuile, 2015). Al termine del trattamento cognitivo-comportamentale i livelli di ansia nella donna si abbassano, e inoltre si ottengono un incremento dell’armonia di coppia e un miglioramento della soddisfazione sessuale generale (Kabakci, Batur, 2003)

“Esserci – Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini” (2020) di Siegel e Bryson. Recensione del libro

Il libro Esserci. Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini offre, a partire dalla teoria dell’attaccamento e dalla neurobiologia interpersonale, una guida su cosa possono fare i genitori per aiutare i bambini a crescere in modo ottimale, anche se non perfetto: esserci.

 

“Esserci significa portare tutti noi stessi – la nostra attenzione e consapevolezza – nel momento in cui stiamo con nostro figlio. Esserci vuol dire essere presenti mentalmente ed emotivamente per il bambino quando siamo insieme a lui”. Si tratta di presenza fisica ma soprattutto della qualità della presenza.

Facile a dirsi, ma per colmare la parte pratica lì dove è assente, il libro ci serve sul piatto un “cocktail” di quattro elementi – chiamato il “poker dell’attaccamento”, in grado di creare un attaccamento sicuro – alla base di uno sviluppo ottimale: protezione, comprensione, conforto, sicurezza (Imm. 1)

Esserci. Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini Imm 1
Imm.1: i quattro elementi alla base di uno sviluppo ottimale.

Dopo una introduzione panoramica sulla teoria dell’attaccamento, ogni capitolo è dedicato ad una di queste parole chiave e viene dato spazio anche a strumenti per individuare il tipo di attaccamento che abbiamo avuto noi genitori, in modo da riflettere su di esso, dare un senso e creare una “narrazione coerente” – condizioni necessarie per poter offrire ai nostri figli una base amorevole, persino se noi non l’abbiamo avuta. Gli autori accennano infatti al concetto di attaccamento sicuro guadagnato – riferito alla possibilità di cambiare il proprio stile di attaccamento.

In ogni capitolo vengono dati suggerimenti su come sviluppare ognuna delle quattro capacità e alla fine di ogni capitolo, ci sono una serie di strumenti per comprendere la propria storia e per individuare il tipo di attaccamento che abbiamo anche noi genitori, in modo da proporci in maniera ottimale per i nostri figli. Vediamo in sintesi cosa significa ognuno degli ingredienti proposti dagli autori.

Proteggere è l’opposto di minacciare, significa tenere il bambino a riparo da esperienze avverse di abuso e trascuratezza (fisici, emotivi e relazionali) o altri tipi di episodi in cui si incute paura e soprattutto riparare quando si sbaglia. Importante anche non diventare iperprotettivi, considerato che sostituirsi a loro non è protettivo, ma svalutante. L’idea quindi è non prevenire e risolvere per loro i problemi, ma stargli accanto in momenti difficili facendogli capire che hanno la forza di gestirli e uscirne bene, nei limiti del proprio livello di sviluppo, temperamento e situazione. È importante che i bambini si trovino ad affrontare i problemi e incontrino anche qualche insuccesso.

Comprendere significa vedere ciò che succede dietro i comportamenti (pensieri, emozioni, ricordi), sintonizzandosi con lo stato mentale del bambino e dando senso a ciò che capita, invece di etichettare un comportamento.

Confortare significa consolare, riuscire a calmare il bambino quando prova emozioni forti, stando accanto a lui, stimolando così lo sviluppo della capacità di calmarsi da solo e lo sviluppo della parte “superiore” del cervello.

La sicurezza è il risultato dei primi tre concetti: la base sicura viene creata se riusciamo a proteggere il bambino, a comprenderlo e confortarlo.

Il libro è scritto in maniera comprensibile anche per i non addetti ai lavori, con diversi esempi, e anche stimoli alla riflessione sul proprio stile di attaccamento. È un libro per genitori ma anche per chi sta in contatto con i bambini da un altro ruolo, nonché per coloro che vogliono approfondire il proprio stile di attaccamento.

 

Un videogioco online per ridurre il pregiudizio etnico

La discussione relativa al pregiudizio etnico è più che mai accesa in questi giorni. Fin dagli anni ’50, la psicologia sociale si è occupata di definire che cosa siano gli stereotipi e i pregiudizi e di comprendere come essi si formano.

 

Gli psicologi sociali hanno anche indagato se e come sia possibile ridurre i pregiudizi. Alcune modalità di riduzione del pregiudizio sono state individuate, tra cui il contatto intergruppi (Pettigrew e Tropp, 2006) e il perspective taking (Dovidio e colleghi, 2004), che si potrebbe tradurre come “assunzione di prospettiva”. Il perspective taking permette di comprendere le esperienze di una persona proveniente da un gruppo sociale diverso dal proprio. È ciò che comunemente si definirebbe “mettersi nei panni di un altro”.

Il perspective taking si è rivelato efficace nel ridurre il pregiudizio intergruppi, ad esempio tra Americani bianchi e di colore (Dovidio, 2004). Tuttavia, Simonovits, Kézdi e Kardos (2018) si sono chiesti come implementare interventi di riduzione del pregiudizio concretamente realizzabili, economicamente sostenibili e che coinvolgessero un ampio numero di persone.

Gli autori hanno quindi svolto uno studio sperimentale, in cui hanno utilizzato un videogioco online per indurre i partecipanti ad assumere la prospettiva della minoranza etnica Rom. I Rom sono un gruppo sociale marginalizzato non solo in Ungheria, dove è stato condotto l’esperimento, ma anche in altri paesi europei, inclusa l’Italia. L’obiettivo principale dello studio era verificare l’efficacia del videogioco nel ridurre il pregiudizio verso le persone di etnia Rom.

Questo studio risulta innovativo rispetto ad altri che applicano il perspective taking per ridurre il pregiudizio. Infatti, generalmente il partecipante ascolta o guarda passivamente delle storie che riportano l’esperienza di una persona proveniente da una minoranza sociale. In questo studio, invece, i partecipanti giocano volontariamente al videogioco online e si immedesimano attivamente nel personaggio protagonista del videogioco. Il videogioco è del tipo “scegli la tua avventura” e racconta la storia di un adolescente diciottenne di etnia Rom, che arriva a Budapest per iniziare una nuova vita. Il videogioco racconta la storia dal punto di vista dell’adolescente Rom. Il giocatore deve quindi prendere decisioni e agire come se lui o lei fosse l’adolescente protagonista della storia. Il videogioco è pertanto strutturato in modo da facilitare il perspective taking.

Lo studio ha coinvolto 385 partecipanti di età compresa tra i 24 e i 26 anni. Ciascun partecipante aveva completato, nel 2009, una scala di misurazione del pregiudizio etnico verso i Rom. I partecipanti erano divisi in due condizioni: in quella sperimentale giocavano al videogioco sopra descritto, in quella di controllo giocavano a un videogioco irrilevante per il pregiudizio etnico. La stessa misurazione del pregiudizio etnico verso i Rom è stata somministrata subito dopo aver giocato al videogame e anche un mese dopo l’esperimento.

I risultati indicano che il videogioco ha efficacemente ridotto il pregiudizio verso le persone di etnia Rom non solo immediatamente dopo aver giocato online, ma anche dopo un mese. È possibile che la riduzione del pregiudizio sia legata al fatto di aver empatizzato con il personaggio, ma gli esatti meccanismi di riduzione del pregiudizio dovrebbero essere ulteriormente indagati.

Gli autori hanno inoltre valutato se la riduzione del pregiudizio verso lo specifico gruppo dei Rom avesse effetti anche su altri gruppi stigmatizzati. I risultati indicano che ciò è avvenuto per i rifugiati, ma non per i senzatetto. Di conseguenza, si può ipotizzare che assumere la prospettiva di un gruppo stigmatizzato possa aiutare a ridurre il proprio pregiudizio in generale, ma ciò dipende anche da altri fattori. Ad esempio, quanto intenso è il pregiudizio verso i senzatetto o i rifugiati, o quanto essi assomigliano ai Rom, cioè al gruppo sociale targettizzato nell’intervento di perspective taking.

Infine, lo studio ha mostrato che il videogioco online ha avuto effetti anche sulle intenzioni comportamentali dei partecipanti. In particolare, i partecipanti nella condizione sperimentale avevano una minore intenzione di votare per un partito ungherese di estrema destra, la cui propaganda era discriminatoria verso i Rom, rispetto al gruppo di controllo.

Ulteriori studi sono necessari per comprendere meglio i meccanismi che rendono il videogioco efficace nella riduzione del pregiudizio. Inoltre, studi futuri potrebbero coinvolgere partecipanti più anziani, che potrebbero avere maggiori resistenze a modificare i propri pregiudizi rispetto ai giovani adulti. Infine, sarebbe utile estendere lo studio ad altri contesti sociopolitici.

L’esperimento di Simonovits, Kézdi e Kardos (2018) rimane un utile esempio di intervento di riduzione del pregiudizio. Infatti, esso rappresenta un intervento che può essere particolarmente efficace data la sua natura interattiva e che, essendo online, ha costi contenuti e può raggiungere un ampio numero di persone.

 

Attaccamento, disregolazione emotiva e relazioni di coppia: perché si scelgono le persone sbagliate?

Cosa significa regolare le proprie emozioni? Ed esiste un collegamento tra le nostre esperienze precoci di attaccamento a una figura di riferimento, la regolazione delle emozioni e come tendiamo a comportarci con i nostri partner e più in generale nei rapporti interpersonali?

Giulia Lo Verde – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

Introduzione

Uno dei motivi per cui spesso si sceglie di iniziare un percorso terapeutico è la difficoltà di gestione di un’emozione specifica e dei suoi riflessi a livello personale e interpersonale. Le emozioni, infatti, hanno una funzione importante di regolazione all’interno dell’ambiente che si manifesta soprattutto nella relazione con gli altri. Cosa significa regolare le proprie emozioni? Ed esiste un collegamento tra le nostre esperienze precoci di attaccamento a una figura di riferimento, la regolazione delle emozioni e come tendiamo a comportarci con i nostri partner e più in generale nei rapporti interpersonali?

Come sappiamo, e probabilmente come abbiamo provato più volte nell’arco di un’intera giornata, le nostre emozioni variano, sono mutevoli e dinamiche in risposta ad eventi di varia natura, compresi eventi interni come ad esempio un ricordo, un pensiero o anche un’immagine mentale.

Hanno una funzione fondamentale nell’aiutarci a conoscere e ad interagire con la realtà che ci circonda. Esse ci segnalano che è presente un cambiamento nella realtà esterna o interna che da noi è percepito come rilevante. All’emozione si accompagna una valutazione cognitiva dello stimolo emotigeno che ci prepara all’azione attraverso un’attivazione fisiologica e corporea (ad esempio sensazioni corporee e mutamenti dell’espressione facciale). Tutto ciò si traduce in una specifica risposta comportamentale (Zorzi e Girotto, 2004).

La maggior parte degli approcci teorici sulle emozioni evidenziano come ciò che pensiamo sia interdipendente e sia parte del processo emotivo. Pertanto, la variabilità dell’esperienza emotiva è dovuta a un processo multidimensionale e complesso.

Cos’è la competenza emotiva e dove la impariamo?

La competenza emotiva è la capacità di percepire e riconoscere le emozioni, di discriminare tra di esse, di nominarle e dare loro un nome. Questo comporta anche l’apprendimento e lo sviluppo di abilità metacognitive e di autoriflessività, la capacità sociale di riconoscimento delle emozioni altrui e l’abilità di regolazione del nostro comportamento e della manifestazione delle nostre emozioni.

Quando si manifestano problemi legati alla sfera emotiva, sono presenti difficoltà legate all’acquisizione di queste competenze che ci aiutano anche a gestire lo stress e le situazioni difficili.

Un contributo fondamentale nello sviluppo e nell’apprendimento di tale competenza sono le esperienze precoci avute durante l’infanzia, mediate dai nostri caregiver. Per permettere ciò è necessario un ambiente che validi le nostre esperienze emotive senza negarci di provare emozioni positive e negative, riconoscendone le funzioni e le espressioni adeguate al contesto, aiutandoci a sviluppare la nostra competenza emotiva.

Cosa accade se ciò non avviene?

Disregolazione emotiva e alessitimia

La regolazione emotiva è un’abilità che ci aiuta nel rapporto con noi stessi e con gli altri perché ci permette di capire cosa stiamo provando e cosa stanno provando e sentendo gli altri.

Quando questa abilità è deficitaria si parla in psicologia clinica di alessitimia e di disregolezione emotiva. L’alessitimia è la difficoltà a identificare i sentimenti propri e altrui, a riconoscere le espressioni facciali, a descrivere le emozioni. Consiste inoltre, nell’avere una scarsa capacità immaginativa, uno stile di pensiero orientato verso l’esterno e la tendenza alla somatizzazione delle emozioni (Taylor, Bagby & Parker, 1997).

La disregolazione emotiva è una difficoltà nell’autoregolazione dei propri stati interni e nell’espressione di tali stati emotivi in modo adeguato in risposta all’ambiente circostante. Ciò significa che sono presenti deficit nell’utilizzo flessibile di strategie per modulare l’intensità e/o la durata dell’esperienza emotiva (Gross & John, 2004).

Quando l’ambiente di sviluppo viene definito invalidante, il bambino non apprende ad utilizzare strategie efficaci di regolazione degli stati emotivi né a tollerare emozioni difficili imparando a mettere spesso in atto strategie di evitamento e di mancata accettazione di esse prolungando di conseguenza l’esperienza emotiva negativa (Hayes, Strosahl & Wilson, 1999).

In particolare la disregolazione emotiva è associata alla tendenza ad agire legata all’emozione e a uno scarso controllo degli impulsi (Linehan, 1993; Melnick & Hinshaw, 2000). Campbel-Sills e Barlow (2007) suggeriscono che le persone con problemi di ansia e depressione impiegano delle strategie di regolazione degli stati affettivi controproducenti. Queste azioni hanno infatti il duplice effetto di accentuare l’intensità e la frequenza delle emozioni indesiderate (regolazione delle emozioni inefficace) e di contribuire all’intensificazione e alla persistenza dell’umore negativo (regolazione dell’umore inefficace). Più specificatamente, gli individui con disturbi d’ansia e/o depressivi, evidenziano una serie di difficoltà nel fronteggiamento dei vissuti emotivi: scarsa conoscenza delle emozioni e delle relative componenti, elevata tendenza a reagire negativamente alle esperienze emozionali e difficoltà nel recupero dalle emozioni negative (Mennin, Heimberg, Turk & Fresco, 2005).

Nei disturbi di personalità si rileva spesso la presenza di una difficoltà nella regolazione delle emozioni. Il cluster più rappresentativo di questa difficoltà è il cluster b. In particolare nel disturbo borderline di personalità è possibile rilevare numerose difficoltà nella regolazione degli stati affettivi. I soggetti con tale disturbo sono caratterizzati da: un eccesso di esperienze emozionali avversive, l’incapacità di regolare l’intenso arousal fisiologico, la difficoltà a distogliere l’attenzione dallo stimolo emozionale, la presenza di distorsioni cognitive e di difetti nella elaborazione delle informazioni, un insufficiente controllo dei comportamenti impulsivi correlati a emozioni positive e negative, la difficoltà a coordinare ed organizzare le attività utili al raggiungimento di un obiettivo non coerente con l’umore in condizioni di forte attivazione e la tendenza a “congelare” o dissociare i vissuti emotivi in condizioni di forte stress (Linehan, Bohus & Lynch, 2007).

Tutto ciò che influenze e quali connessioni ha con i nostri legami di coppia?

Attaccamento, esperienze precoci e relazione con gli altri

Come ci formiamo le idee che abbiamo su di noi e sugli altri? Come mai tendiamo a pensare spesso le stesse cose e le nostre relazioni molto spesso si somigliano?

L’attaccamento è quel comportamento che motiva il bambino a cercare la vicinanza fisica dei genitori, o di chi se ne prende cura, quando egli vive emozioni di paura, di sofferenza fisica e di dolore emotivo. Questo sistema comportamentale è presente per tutta la vita, è innato e regola la modalità con la quale, anche da adulti, saranno gestite le emozioni di paura e sofferenza (Bolby, 1973, 1980). Ogni individuo svilupperà pertanto il proprio e personale sistema di attaccamento modulato dalla relazione con la madre, diversa a seconda della tipologia di risposta della madre alle esigenze del figlio. Le differenti strategie sviluppate corrispondono ai diversi stili di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, insicuro ansioso – ambivalente, disorientato/disorganizzato (Ainsworth, Blehar, Waters & Wall, 1978). La qualità della relazione di attaccamento condiziona le modalità di regolazione delle emozioni, le capacità sociali e lo sviluppo della funzione metacognitiva. Ciò permette di comprendere l’importanza che le relazioni di attaccamento hanno nella costruzione e nello sviluppo della nostra mente (La Mela, 2014). Durante il primo anno di vita, all’interno della relazione di attaccamento, il bambino elabora le informazioni riguardanti le reali e concrete risposte della propria figura di attaccamento alle proprie richieste di cura, vicinanza e protezione in un modello della figura di attaccamento che per generalizzazione diventa lo schema dell’altro. Nello stesso tempo, per rispecchiamento, le reazioni individuali del bambino al modo in cui la sua figura di attaccamento risponde alle sue richieste di cura, creeranno un modello di sé e delle previsioni sulle proprie future reazioni durante l’attivazione del sistema di attaccamento e, sempre per generalizzazione, plasmeranno una rappresentazione di sé valida anche al di fuori di una relazione di cura. È così che, all’interno della dimensione relazionale, partendo dalle memorie che abbiamo sulle nostre relazioni reali con le figure di attaccamento, si costruiscono lo schema di sé e dell’altro, le rappresentazioni e le aspettative delle relazioni interpersonali in vari contesti e non solo in quello di cura. Vengono a crearsi quindi degli schemi interpersonali che operano come griglie interpretative per elaborare le informazioni relative ai contesti interpersonali e per orientare il nostro comportamento in ambito relazionale.

Ognuno di noi mette in atto delle strategie nello stare con gli altri in base al contesto relazionale (bisogno di cura, contesto di sfida, ecc.), in base a come supponiamo che gli altri si relazioneranno con noi (disponibili, rifiutanti, leali, ecc.) e a come pensiamo di essere (autonomi, vulnerabili, non amabili, ecc.).

Lo sviluppo di un attaccamento sicuro durante l’infanzia promuove la costruzione di uno stato mentale “libero” (Main & Goldwyn, 1984) grazie al quale si hanno capacità cognitive e metacognitive, una serena espressione di tutte le emozioni e una diminuzione della possibilità di incorrere in equivoci comunicativi in situazioni in cui i segnali non verbali di natura emotiva sono complessi, favorendo la costruzione di un sistema cognitivo flessibile, in grado di accettare le nuove informazioni derivanti dal contesto sociale non come scompensanti ma arricchenti (Liotti 1994/2005).

Se l’interazione con il nostro caregiver non ci permette di sviluppare un attaccamento sicuro?

Schemi disfunzionali, regolazione emotiva e relazioni

Nonostante durante l’infanzia gli schemi interpersonali che si sono sviluppati da stili di attaccamento insicuro risultino utili a rispondere al meglio alle modalità interpersonali delle figure significative, nella vita adulta limiteranno la vita relazionale. Essi infatti renderanno più probabile la costruzione di un sistema cognitivo-affettivo povero e rigido, oppure talmente lasso, incoerente e non integrato da favorire la costruzione in età adulta di cicli interpersonali disfunzionali (Liotti 1994/2005).

Gli schemi che tendono alla rigidità sceglieranno di escludere alcune informazioni che non concordano con le nostre aspettative e, senza alcuna consapevolezza, si preferiranno tipologie di persone e di relazioni che li confermeranno. Ciò significa che siamo portati a confermare i nostri schemi interpersonali disfunzionali scegliendo di rimanere in relazioni non soddisfacenti. Nel tentativo di proteggere la stabilità degli schemi, è probabile che si creino dei cicli interpersonali che determineranno un rinforzo degli schemi stessi. Gli schemi interpersonali non solo influenzano la rappresentazione di sé e dell’altro nei vari contesti, ma creano aspettative sulle emozioni che si proveranno e determinano le strategie comportamentali volte a gestire i vari eventi relazionali. Ciò che è deficitario e problematico è la difficoltà nell’espressione dei bisogni coerentemente con il contesto (di cura, di accudimento ecc.) e la modalità (strategia) con la quale vengono richiesti.

Ad esempio se un individuo ha uno schema di sé come vulnerabile, avendo avuto scarse esperienze di accudimento nei momenti di difficoltà, di fronte ad uno stress potrebbe non esprimere una richiesta di aiuto in maniera efficace, in particolare dal punto di vista emotivo (espressione facciale, richiesta esplicita del bisogno, ecc..), ma potrebbe farlo con rabbia generando nell’altro un distanziamento o un abbandono, confermando pertanto la sua rappresentazione dell’altro come non disponibile e cattivo. Gli schemi, pertanto, favoriscono la creazione di cicli interpersonali problematici anche a causa di un’estrema difficoltà sia nella comprensione che nella gestione delle emozioni proprie e altrui (disregolazione emotiva), generando dei veri e propri equivoci comunicativi, i quali sono peraltro tipici e ripetuti per ogni singola persona.

Cosa sostiene la ricerca sulle coppie?

Ricerche recenti indicano che la disregolazione emotiva è associata a tassi più elevati di aggressività psicologica tra i partner, poiché la disregolazione emotiva è caratterizzata dalla difficoltà ad utilizzare strategie che permettano alle persone di rispondere in modo non aggressivo quando sono turbati (Dutton & White, 2012; Shorey, McNulty, Moore & Stuart, 2015). Gli studiosi dell’attaccamento sostengono che primariamente le persone imparino a regolare le emozioni attraverso la relazione con le prime figure di attaccamento e, successivamente, queste esperienze infantili influenzino poi le loro capacità di regolazione emotiva nel contesto delle loro relazioni adulte (Bowlby, 1988). Infatti si è riscontrato che le persone con attaccamento insicuro, le cui esperienze con le figure di attaccamento hanno portato ad una visione di sé come non degna di amore o di una visione degli altri come emotivamente non disponibili – o entrambi – sono più propensi a sperimentare disregolazione emotiva (Karakurt, Keiley & Posuda, 2013).

Uno studio effettuato sulle coppie (Cheche, 2017) ha voluto indagare come l’attaccamento insicuro (ansioso o evitante) sia associato alla disregolazione emotiva negli individui e, sapendo che la disregolazione emotiva aumenta il rischio di aggressione psicologica nei confronti di un partner durante una situazione conflittuale, come la disregolazione emotiva abbia un ruolo mediatore tra attaccamento insicuro e aggressività psicologica nelle coppie. Inoltre i ricercatori hanno indagato la relazione tra i livelli di attaccamento ansioso ed evitante e i livelli di aggressione psicologica dell’individuo stesso e anche i livelli di aggressione psicologica del partner in risposta all’attaccamento del compagno. Lo studio ha esaminato i livelli delle variabili su 110 coppie e ha rilevato che la disregolazione emotiva non spiega il rapporto tra livelli di attaccamento insicuro e aggressione psicologica come già riscontrato da Riebel (2015).

Considerando come la capacità di regolare le emozioni, così come il modo in cui una persona interagisce con il proprio partner, quando si è angosciati sono aspetti importanti e particolarmente influenti della teoria dell’attaccamento dell’adulto (Mikulincer & Shaver, 2012; Babcock, Jacobson, Gottman & Yerington, 2000), gli autori ritengono sorprendente che la disregolazione emotiva non medi almeno parzialmente l’attaccamento e l’aggressione psicologica nella coppia. Essi ipotizzano che l’attaccamento insicuro possa predire altri tipi di comportamento disadattivo nei rapporti come criticare o fare ostruzionismo verso il partner anziché utilizzare l’aggressività psicologica e che questa relazione sia mediata dalla disregolazione emotiva.

I soggetti con attaccamento ansioso potrebbero non mettere in atto comportamenti psicologicamente aggressivi perché tali comportamenti potrebbero creare troppa distanza con il partner mentre la loro modalità di ricercare in modo maladittivo supporto è più vicina a infastidire o a trovare difetti nel partner. Al contrario, i soggetti con attaccamento evitante è più probabile che manchino di consapevolezza della loro disregolazione e che tendano a chiudersi e a isolarsi dal partner quando sono angosciati piuttosto che mettere in atto comportamenti psicologicamente aggressivi. I ricercatori hanno però riscontrato una relazione tra i livelli di attaccamento insicuro e una reazione psicologica aggressiva del loro partner sia negli uomini che nelle donne. Ad esempio, livelli più elevati di attaccamento ansioso di un partner sono associati con l’iperattivazione del sistema di attacco dell’altro partner durante una situazione stressante per l’utilizzo di comportamenti quali avvinghiarsi al partner, controllarlo o insistere rabbiosamente per avere una sua risposta che potrebbero spingerlo a rispondere con un’aggressione psicologica per creare distanza e allontanarlo (Shaver & Mikulincer, 2002, Brennan, Clark & Shaver, 1998). Al contrario, i soggetti con attaccamento evitante sono più propensi a disattivare situazioni di stress emotivo, spegnendo l’emotività ed evitando pertanto il conflitto con il partner. È però emersa una relazione tra entrambi i tipi di attaccamento insicuro (ansioso ed evitante) e la disregolazione emotiva.

Concludendo, sarebbe necessaria un’indagine ulteriore di come queste variabili siano interconnesse tra loro in particolare alla luce della cornice teorica che esiste in letteratura sull’attaccamento e sulla disregolazione emotiva.

È evidente come, anche in questa ricerca, siano presenti cicli interpersonali che tendono a ripetersi e a mantenersi nelle coppie attraverso un’interazione reciproca tra il proprio stile di attaccamento, la propria regolazione emotiva e la conseguente costruzione di schemi interpersonali e il tipo di attaccamento, la competenza emotiva e gli schemi del partner.

Spesso ci diciamo che “incontriamo sempre persone sbagliate” non accorgendoci che alla base ci sono le nostre modalità relazionali che in determinati contesti interpersonali, ci inducono a mettere in atto comportamenti che favoriscono risposte negative da parte dell’altro.

 

Tommaso (2016) e la paura dell’intimità nelle relazioni sentimentali – Recensione del film

Numerosi uomini, come Tommaso, lanciano segnali importanti che vengono abilmente ignorati dalle compagne; queste nutrono fiducia, avviano un rapporto significativo e si trovano in una situazione di “improvvisa” rottura relazionale. Cosa è successo?

 

Tommaso è un attore di circa 40 anni, convive da tempo con una compagna il cui rapporto entra in crisi per la sua “freddezza”. Bello e affascinante, il protagonista, interpretato dal regista Kim Rossi Stuart, non può fare a meno di desiderare qualsiasi donna attraente che gli passi accanto; dalla farmacista, alla giovane intenta a leggere un libro su una panchina, ognuna innesca fantasie erotiche persistenti e invadenti che gli confermano di essere giunto al capolinea della convivenza con Chiara.

Tommaso desidera ardentemente l’anima gemella, ma quando la relazione si stabilizza, inizia a notare i difetti e le imperfezioni; il desiderio si spegne e si riavvia il nastro della crisi esistenziale, delle ossessioni sul sesso. Non percepisce l’entità del problema e si rivolge a chi non potrà aiutarlo, a Mario, un falso psicoterapeuta che si appella al “bambino traumatizzato”, rifila espressioni liriche e consigli strampalati, che il protagonista accoglie meccanicamente nella confusione totale. E qui, a mio avviso, il regista ha voluto sottolineare i potenziali danni degli pseudo-professionisti che oltre a non saper gestire una situazione complessa e delicata, frutto di traumi irrisolti ed esperienze dolorose, indirizzano una persona, in un momento di fragilità, su strade impervie e dannose.

Così, Tommaso, nel mezzo di un periodo doloroso in cui la fine di una relazione significativa si mescola alla crisi personale, fatta di paure, incertezze e sconforto viene spronato da Mario a ricominciare un rapporto. Nulla di più dannoso per una persona che in quel preciso istante avrebbe bisogno di una pausa per lavorare sulla solitudine, sulle emozioni e i pensieri che lo perturbano, su questa convivenza che non ha funzionato e che lo riporta allo stesso punto di partenza, a cercare legami che si rivelano insoddisfacenti, deludenti non solo nell’estetica, ma anche nella dinamica relazionale: tutte che vogliono un progetto di vita insieme, Tommaso no. Da cosa scappa quindi? Scappa perché non scatta davvero nulla con nessuna? Perché non riesce a frenare l’idealizzazione e si imbatte, così, in rapide delusioni? Scappa per prevenire un ipotetico abbandono? Le risposte non si escludono per forza, ma necessitano di un lavoro sul caso specifico, senza appiccicare la teoria sulla persona.

Questa fretta di accantonare una parte preziosa di sé, per precipitarsi nelle braccia della ex, Federica, non lo aiuta a stare meglio, ma lo invita a ripetere la stessa esperienza, ad interrompere un rapporto proprio sul punto di avvicinarsi, di stringere il legame e concretizzare i progetti di vita, i figli, l’avvio di una convivenza. Tommaso oscilla da attribuire la responsabilità alle donne, alla scintilla che non è scattata, a rimuginare sulle ossessioni, sulle paure, fino al giorno in cui incontra Sonia, decisamente più giovane di lui, ironica e sfuggente. Con Sonia non c’è una relazione, ma una non-relazione, un rapporto indefinito: lui tenta di avvicinarsi mentre lei si destreggia tra provocarlo e tirarsi indietro. In questa giostra confusa, però, l’attore cambia registro e aspetto, si veste come un ragazzino, si taglia la barba, sembra finalmente innamorato di una ragazza diversa dalle solite coetanee con tante aspettative: e infatti Sonia non vuole un rapporto stabile, capisce al primo colpo le sue intenzioni e non si fa problemi a rinfacciarglielo quando la situazione diventa ingestibile.

Diversamente da Federica, che in preda alla speranza dimentica di essere stata abbandonata già una volta da Tommaso, Sonia coglie bene la differenza tra chi elargisce solenni promesse e chi le mantiene, tra chi ha accettato i suoi pregi e i difetti e chi è attratto da un’immagine che lei stessa ricalca per stare nel gioco. Pertanto non ha quei vissuti irrisolti che la portano a fidarsi di chi manifesta svariate difficoltà relazionali, di chi finirà per abbandonarla senza sapere perché. Proprio per questa ragione il personaggio di Sonia dovrebbe innescare una riflessione in molte ragazze che si trovano di fronte un Tommaso in piena crisi esistenziale, ma preferiscono continuare a credere in un lieto fine insieme a lui che presto o tardi uscirà dalla loro vita. Non solo Tommaso necessita di una psicoterapia, ma anche le ex che vivono una relazione inizialmente idilliaca e successivamente sempre più difficile da gestire, perché le aspettative e i desideri di ognuno entrano in contraddizione generando uno stallo. Numerosi Tommaso lanciano segnali importanti che vengono abilmente ignorati dalle compagne che nutrono fiducia, avviano un rapporto importante e si trovano in una situazione di “improvvisa” rottura relazionale; può essere un eccessivo coinvolgimento agli inizi, la predisposizione a bruciare le tappe, a fare tutto in fretta (come si intravede nel film con Federica), oppure una giostra di fughe e ritorni, in mezzo alla quale scappa qualche spiegazione, qualche frase, elementi che spesso vengono minimizzati e dimenticati, ma che sovente risultano preziosi.

Uomini come Tommaso, invece, richiedono spesso una psicoterapia in occasione di cambiamenti relazionali importanti. Come succede nel film, la discussione con Sonia invita il protagonista a soffermarsi, finalmente sull’incoerenza tra desideri e fatti: volere una storia seria, ma trovarsi inspiegabilmente solo. Il dialogo con la giovane e l’incidente lo perturbano abbastanza da avviare la consapevolezza di avere un problema, di dover affrontare i suoi traumi con un vero terapeuta: rivolgersi ad un professionista non è un caso, ma accade proprio quando prende contatto con le esperienze di abbandono subite nell’arco delle fasi evolutive, quando sente nel corpo, e non solo con la mente, di necessitare un vero aiuto.

 

Ciclo mestruale e orientamento sessuale – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Buon pomeriggio, volevo chiedere: se diverse donne vivono nella stessa casa i cicli si possono sincronizzare? (Amela)

 

Gentile Amela,

la sincronizzazione del ciclo mestruale è stata introdotta da uno studio di Martha K. McClintock pubblicato su Nature nel 1971, in cui la psicologa, ha studiato la sincronizzazione del ciclo mestruale di 135 ragazze di età compresa tra i 17 ed i 22 anni, conviventi in un dormitorio. Da questo studio è nato anche il nome “McClintock effect” per rifersi a tale fenomeno. Negli anni tale effetto è stato però disconfermato da successivi studi, i quali non hanno più riscontrato un effetto di sincronizzazione mestruale in coppie-gruppi di donne a stretto contatto.

Greta Riboli

 


 

Come capisco il mio orientamento sessuale? (M.)

 

Gentile M,

Secondo quanto riportato dall’American Psychological Association l’orientamento sessuale, contraddistinto da attrazione emotivo, romantica e/o sessuale, emerge tra la mezza infanzia e la prima adolescenza. Alcune persone conoscono il proprio orientamento prima di avere relazioni, mentre altre affrontano diverse esperienze prima di “assegnarsi” un orientamento preciso. Fenomeni di pregiudizio e discriminazione possono rendere difficile la rivendicazione di un’identità non eterosessuale.

Qualora avesse bisogno di maggiore supporto a riguardo le consiglio di contattare un professionista per intraprendere una terapia affermativa (ulteriori approfondimenti QUI).

Greta Riboli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

I confini della propria libertà terminano dove iniziano quelli dell’altro: questa è la bioetica – Recensione del saggio “Bioetica tra ‘morali’ e diritto”

Il saggio Bioetica tra “morali” e diritto di Patrizia Borsellino, nella nuova edizione aggiornata edita Raffaello Cortina Editore, riflette sulla necessità di trovare e dare spazio ad un argomento molto delicato e intricato di nodi, difficili da dipanare, come quello della bioetica.

 

Oggi, come mai prima d’ora, si sta riflettendo sugli impatti degli avanzamenti scientifici e biotecnologici sulla vita dell’essere umano, della società nel suo complesso e dell’ambiente, impatti che costringono a risollevare problemi di natura etica per la cui soluzione è necessario disporre di criteri normativi (regole, principi, valori) sulla base dei quali implementare linee guida di scelta e d’azione approvate e consensuali per sana crescita morale, culturale, civile della società.

Si pensa alla bioetica come a qualcosa di molto distante dalle nostre vite, qualcosa a cui non serve prestare attenzione nella quotidianità, di cui si dibatte solo nelle aule deputate; al contrario, oggi più che mai, in un momento storico in cui migliaia di laboratori in tutto il mondo sono all’affannata ricerca di un vaccino, appare ancor più inevitabile riflettere su alcune questioni etiche.

Da mesi il COVID-19 si è imposto nelle nostre vite e con esso sono state portate alla nostra attenzione alcune sfide alle quali siamo e saremo chiamati a rispondere come i delicati temi etici della sperimentazione clinica, terapeutica e non, di medicinali e vaccini sull’uomo e della tutela della privacy e del trattamento dei dati sensibili, dopo il rilascio in tutto il mondo di applicazioni per il tracciamento degli individui positivi al virus potenzialmente contagianti.

Il saggio di Patrizia Borsellino, docente universitario di Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ci accompagna, suo malgrado, a riflettere riguardo una delle grandi sfide (tra le innumerevoli) a cui il COVID 19  ci ha esposto: ovvero il rapporto tra ricerca, sperimentazione clinica sull’uomo e tutela della sua salute.

La questione della regolamentazione di qualsiasi sperimentazione sull’uomo sia esso un farmaco, un vaccino o una procedura biomedica risale al codice di Norimberga del 1949, all’indomani della sentenza emessa dal tribunale internazionale dopo la scoperta degli atroci delitti emessi dai medici nazisti che avevano eseguito esperimenti criminali su donne, uomini e bambini prigionieri nei campi di sterminio.

Questa sentenza ha scolpito nella pietra i principi di rispetto della vita umana e il diritto per qualsiasi essere umano all’autodeterminazione e a compiere in piena consapevolezza e autonomia scelte ed azioni.

Tralasciando per un momento le particolareggiate descrizioni delle normative attualmente in atto concernenti questo tema, dalla dichiarazione di Helsinki negli anni ’70, fino alla “legge Balduzzi” del Novembre 2012 che ha definito il ruolo e i compiti dei comitati etici, massima espressione del controllo e delle valutazioni dei protocollo medici e di ricerca a tutela del benessere psico-fisico degli individui coinvolti, è opportuno domandarsi se ad esempio una persona, che volontariamente e con intenzione si sottopone ai trial clinici per la ricerca del vaccino anti COVID-19 sia realmente informata sui rischi e pericoli e sia quindi realmente in grado di rilasciare un consenso.

Nel capitolo che riguarda lo spinoso tema della sperimentazione clinica sull’uomo, l’autrice tratta il nodo del consenso informato soffermandosi su due punti, a mio parere significativi: il primo riguarda l’informazione e il secondo i potenziali “vincoli” alla libertà di scelta dell’individuo.

In merito al primo punto, affinché la persona sana possa predisporre di Sé e del suo corpo e compiere così una scelta consapevole, è essenziale che questo venga informato in modo chiaro e comprensibile sulla natura, modalità, procedure e scopi della ricerca, ma soprattutto sull’eventualità che per lui potrebbero non esserci benefici ma rischi e pericoli diretti o indiretti a seguito della sperimentazione.

Il consenso informato in questi casi dovrebbe rappresentare la massima espressione della libertà personale di un individuo e non dovrebbe assumere (come spesso succede) la forma di un mero documento da sottoporre alla firma dell’individuo come semplice obbligo di adempimento burocratico che esonera gli sperimentatori da eventuali responsabilità.

La necessità di informare l’individuo la sua intenzionalità a sottoporsi ad una procedura rischiosa si scontra tuttavia con un altro principio base dell’etica sancito dall’articolo 5 del c.c per il quale è vietato qualsiasi atto di disposizione del proprio corpo che possa cagionare danno all’integrità fisica e mentale della persona.

Seguendo tale principio, si potrà considerare rispettato il diritto al mantenimento della propria integrità fisica qualora il soggetto decida di sottoporsi ad una procedura che potrebbe comportare più rischi per la salute che vantaggi?

Si potrebbe dibattere a questa domanda affermando che si potrà procedere con il consenso e con la procedura fintanto che il soggetto volontario risulti perfettamente informato e in grado di scegliere.

Tuttavia, come può un individuo prendere consapevolmente parte ad una sperimentazione se considerato “vulnerabile” cioè affetto da patologie che ne limitano l’autonomia – anche decisionale – se minore o malato terminale o incapace di intendere e di volere, le cui libertà personali e il diritto di scelta vengono delegati ad un terzo che ha la responsabilità di preoccuparsi del suo benessere e dei suoi interessi?

Inoltre, quando si arruolano soggetti sperimentali, quanto si è sicuri che la loro libertà decisionale non venga influenzata da timori di ritorsioni come nel caso degli studenti di medicina, delle scuole infermieristiche o dei dipendenti delle aziende farmaceutiche, o non vi siano effetti su di esso determinati da interessi economici-politici e di denaro (come le remunerazioni) che potrebbero minare la validità del consenso?

Qual è il compromesso accettabile tra ricerca clinica per lo sviluppo di farmaci, terapie o cure indispensabili al benessere dell’intera comunità, il denaro, la solidarietà sociale e le scelte compiute in piena consapevolezza riguardo il proprio corpo che, come ribadito e sancito più volte, non deve essere oggetto e fonte di guadagno?

Infine, ammesso anche che il consenso venga validamente presentato sia per i soggetti “sani” che per la categoria “vulnerabile”, siamo davvero sicuri che esso sia sufficiente a garantire l’eticità di una sperimentazione e che fornisca sufficiente tutela?

Nonostante tutte le procedure vengano ideate, controllate e redatte con lo scopo primario di causare il minor danno e disagio possibili, tuttavia anche la più scrupolosa e ponderata valutazione può limitare al massimo, ma non escludere del tutto, l’eventualità che un soggetto subisca un danno in conseguenza della sua partecipazione allo studio, né che la comunicazione dell’informazione possa essere  “immune” da interessi politici o economici.

Bioetica tra “morali” e diritto affronta queste delicatissime questioni e altre, relative ai modi della nascita, della morte, senza cadere nel pregiudizio o in discorsi di senso comune.

Offre innanzitutto una panoramica giuridica che consenta al lettore di comprendere tecnicamente come la giurisprudenza sia intervenuta per regolare la scienza e il suo avanzamento tecnologico nel momento in cui si relaziona all’essere umano e all’ambiente, con l’obiettivo ultimo di salvaguardarne e tutelare la vita e i principi di autonomia e autodeterminazione.

Il tutto viene affrontato con una scrittura comprensibile e guardando a ciascuna questione etica con laicità, con distacco, senza la pretesa di imporre un’etica personale, frutto della propria cultura, storia ed educazione, come criterio di comportamento destinato a valere per tutti.

L’ adozione di una prospettiva “laica” nel trattare i diversi argomenti rispetta le caratteristiche sfaccettate e variegate del contesto sociale e culturale in cui siamo immersi e dove non esiste un’unica Morale con un significato univoco e globalmente condiviso.

Essa ne rispetta infatti la diversità e prende a riferimento l’unico principio che dovrebbe costituire il faro per tutte le intricate questioni all’interno della matassa chiamata bioetica: il principio di autonomia.

In un contesto globalizzato e multiculturale come quello attuale, in cui è difficile stabile a priori e universalmente cosa sia eticamente giusto o sbagliato, l’irrinunciabile conquista deve essere il diritto a vivere secondo i proprio scopi, in conformità con le proprie aspettative, convenzioni religiose e culturali con l’unico limite che consiste nel non provocare danno e ledere la libertà altrui nell’ottemperare questo principio.

Lo sapevi che scegliamo il cibo in base alla nostra personalità?

Sembra che la personalità influenzi il modo di alimentarsi e possa, quindi, essere considerata un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche.

 

Un recente studio condotto da Keller e Siegrist (2015) si è proposto di indagare se i tratti di personalità influenzano le scelte alimentari delle persone o l’adozione di un particolare stile alimentare. Nello specifico, viene considerato il modello dei “Big Five” (McCrae & Costa, 1997), il quale caratterizza gli individui in termini di pattern relativamente duraturi e universali di pensieri, sentimenti e azioni (McCrae & Costa, 2008): elevati livelli di nevroticismo comportano un maggior rischio di depressione, ostilità e sentimenti di inutilità; elevati livelli di estroversione si associano all’essere attivo, ottimista e assertivo; elevata apertura all’esperienza comporta maggiore curiosità e capacità di immaginazione; le persone con elevata coscienziosità tendono ad essere più ordinati e autodisciplinati; infine, la gradevolezza è caratterizzata da maggior altruismo e simpatia (McCrae & Costa, 1997, 2008). Per quanto concerne gli stili alimentari, Keller e Siegrist (2015), hanno individuato il “mangiare emotivo”, ovvero il consumo di cibo in risposta a emozioni negative o a stress, il “mangiare esterno”, ossia in risposta a stimoli alimentari esterni, e, infine, l’ “alimentazione moderata”, cioè la restrizione consapevole di cibi energetici (Van Strien & Van de Laar, 2008).

La ricerca considera 951 partecipanti, a cui sono stati somministrati tre differenti questionari. I tratti di personalità sono stati valutati utilizzando il NEO Five – Factor Inventory (Costa e McCrae 1992): ai partecipanti è stato chiesto di indicare quanto bene ognuno dei 60 item li ha descritti, su una scala Likert a 5 punti (da per nulla accurato a molto accurato). Gli stili alimentari, invece, sono stati valutati con l’ Eating Behavior Questionnaire (DEBQ) (Van Strie net al. 1986), composto da 33 items a cui i partecipanti hanno risposto tramite una scala likert a 5 punti (da mai a molto spesso): la scala dell’alimentazione moderata comprende 10 items che misurano il controllo del peso, un tipico item è “quando hai messo su peso, mangi meno di quanto mangi di solito?” oppure “Tieni conto del tuo peso mentre mangi?”; la scala emozionale della DEBQ è composta da 13 items che indagano il mangiare in risposta a stati emotivi negativi, ad esempio “Quando sei irritato ti viene voglia di mangiare?”; la scala esterna, invece, si compone di 10 items che misurano il consumo di cibo in risposta a stimoli esterni, indipendentemente dallo stato di fame o sazietà, ad esempio “Se il cibo è buono, mangi più del solito?” oppure “Se vedi che altri mangiano, viene anche a te la voglia di mangiare?”. Infine, è stato utilizzato il Food Frequency questionnaire (FFQ) per indagare con quanta frequenza vengono consumati cibi dolci, salati, verdure, insalata, frutta, carne e bevande zuccherate.

Rispetto agli uomini, le donne del campione avevano un maggiore livello di nevroticismo, di apertura all’esperienza e di gradevolezza; inoltre, risultano più contenute nel mangiare, consumano più frutta, verdura e insalata, meno carne e meno bevande zuccherate. E’ inoltre emerso che i fattori di personalità correlano con gli stili e le scelte alimentari delle persone. Nello specifico, le persone estroverse, con una fitta rete sociale (Friedman et al. 2010), avendo più spesso occasione di uscire fuori a pranzo o a cena, sono più esposti al cibo buono ed esteticamente invitante, ovvero la cosiddetta “alimentazione esterna”. I soggetti con elevato nevroticismo tendono ad avere uno stile alimentare più improntato all’emotività e all’esterno, oltre che ad essere poco moderato e a scegliere in misura pressoché simile cibi dolci e salati. Al contrario, individui coscienziosi tendono ad avere uno stile alimentare poco emotivo ed esterno e più propenso alla dieta, prediligendo il consumo di verdure e insalate. Coloro che sono più aperti alle nuove esperienze privilegiano frutta e verdura, a scapito di carne e bevande zuccherate, esattamente come i soggetti con il tratto di personalità “gradevolezza”. I risultati rivelano anche che l’alimentazione esterna, a sua volta, si associa negativamente al consumo di frutta, che invece è associata positivamente con l’alimentazione moderata. Lo stile alimentare moderato si associa in modo positivo al consumo di verdura e insalata. L’apertura all’esperienza non ha mostrato di avere effetti significativi sul dolce e sul salato, a differenza della sovralimentazione, dell’alimentazione esterna ed emotiva che hanno una correlazione positiva. Inoltre, avere un’alimentazione moderata correla negativamente con il consumo di cibi dolci e salati. L’estroversione sembra essere l’unico tratto fra quelli analizzati ad avere un effetto positivo sul consumo di carne e sul consumo di bevande zuccherate, così come soltanto l’alimentazione esterna si associa positivamente al consumo di carne e di bevande zuccherate, mentre tutti gli altri stili e tratti correlano negativamente.

Questi risultati hanno chiaramente dimostrato che le caratteristiche di personalità giocano un ruolo alquanto importante nella scelta del cibo, così come nello stile alimentare in sé. E’ chiaro che individui nevrotici e emotivamente instabili adottino un’alimentazione emotiva poco salutare, utilizzando il cibo proprio come strumento per far fronte alle emozioni negative (Groesz et al., 2012). Al contrario, soggetti con alti livelli di coscienziosità sembrano adottare un’alimentazione più equilibrata, escludendo cibi poco sani, probabilmente grazie alla propria capacità di evitare o di gestire i fattori stressanti (Shanahan et al., 2014). L’apertura nei confronti delle esperienze gioca un ruolo importante nell’adesione dei singoli ad una dieta sana ed equilibrata (Tiainen et al., 2013): probabilmente questi soggetti sono sempre stati più predisposti ad assaggiare un’ampia gamma di alimenti, incluso cibi più amari, ma certamente più sani come frutta e verdura (Birch, 1999). Infine, la gradevolezza correla negativamente, mentre l’estroversione positivamente con il consumo di carne. Nel primo caso, probabilmente il tratto viene proiettato ed esteso, non soltanto alle persone, ma anche agli animali, tant’è che le motivazioni alla base, spesso, sono etiche, incentrate sulla simpatia e l’altruismo (Forestell et al., 2012). Nel secondo caso, l’estroversione è stata associata con l’alimentazione esterna, a sua volta associata con un maggior consumo di carne, probabilmente sia per il costo relativamente inferiore, che per la maggiore praticità nel cucinarla rispetto, ad esempio, alla verdura. Interessante è sottolineare il paradosso tra l’estroversione, come tratto benefico e protettivo per la salute mentale, e l’estroversione come fonte di rischio per un’alimentazione poco corretta, in quanto espone i soggetti al consumo di cibi che fanno poco bene se consumati frequentemente. Così, la personalità di una persona può essere un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche come quelle cardiovascolari, cancro o diabete. Infine, di grande interesse sarebbe esplorare eventuali correlazioni tra la personalità e la scelta di intraprendere un’alimentazione vegetariana o vegana.

 

Dialoghi con Sandra – Ora disponibili in versione podcast

Si è recentemente concluso il ciclo di incontri online “Dialoghi con Sandra”: ogni settimana, per otto settimane, la Dott.ssa Sandra Sassaroli, accompagnata dai clinici del suo gruppo, ha presentato un particolare argomento di interesse psicologico su cui discutere e riflettere.

E così, con un ospite diverso ad ogni incontro, si è parlato di motivazione, rabbia, disturbi alimentari e molto altro, non fermandosi alla clinica ma aprendosi anche a importanti riflessioni sulla nostra esistenza e sul vivere quotidiano.

Dato il successo dell’iniziativa, su State of Mind abbiamo pubblicato i video degli eventi. Ma non è tutto.. per chiunque si fosse perso gli incontri o per chi ha semplicemente voglia di riascoltarli, i “Dialoghi con Sandra” sono ora disponibili in versione podcast.

I podcast sono distribuiti su:

Buon ascolto!

 

Un mondo di bugiardi!

Quando mentiamo mettiamo il nostro cervello nelle condizioni di dover confezionare in un attimo una risposta che contenga una “verità alternativa”, che risulti credibile.

 

“Ad oggi nel mondo si contano circa 7.5 miliardi di bugiardi”, ossia l’intera popolazione mondiale. Inizia con questa sconcertante affermazione il libro di Francesco Albanese, psicologo e psicoterapeuta, che ha affrontato lo spinoso teme della menzogna mettendoci davanti una verità piuttosto scomoda: siamo tutti bugiardi.

Un esempio? Usciamo di casa incontriamo un conoscente che ci chiede “Come va?”, rispondiamo “Bene!” e invece no, abbiamo appena litigato con il nostro miglior amico, siamo arrabbiati e amareggiati ma non abbiamo voglia di parlarne. Ecco che abbiamo mentito.

Perché mentiamo?

Mentiamo per diversi motivi e con diverse intenzioni. Per non ferire gli altri, ad esempio. Ad un’amica che ci fa vedere il suo nuovo abito non potremmo che dire “Bello!” anche se lo troviamo orribile. Mentiamo per avere un vantaggio, per evitare una punizione o un giudizio negativo, per ottenere qualcosa, per sottrarci ad un compito sgradito. Mentiamo per recare danno consapevolmente e deliberatamente ad altre persone. Le bugie usate con questo scopo possono avere l’effetto di lame sottili che scagliamo verso il prossimo.

In ogni caso, più o meno nobili siano le nostre motivazioni, mentiamo tutti. Tutti i giorni, più volte al giorno e indistintamente con tutte le persone che ci stanno intorno. Conoscenti, amici, colleghi, familiari.

Appurato che siamo tutti bugiardi, e in fondo possiamo anche passarci sopra, proviamo a vedere queste considerazioni da un’altra prospettiva: come noi mentiamo agli altri allo stesso modo gli altri mentono a noi. In modo diverso e con fini diversi ma ci confezionano bugie su bugie che spesso non riusciamo a cogliere. Ci mentono colleghi e amici, ci mentono genitori, figli, mariti e mogli!

Da questo punto di vista il tutto assume una luce molto più sinistra. Come difenderci da questi bugiardi? Come smascherarli?

Il Dottor Albanese ci quantifica le nostre possibilità di riuscita: diciamo subito che è bene non farsi troppe illusioni, ma che possiamo lavorare su un miglioramento. Senza nessuna preparazione le possibilità di riuscita si aggirerebbero intorno al 50%, ossia saremmo in grado di riconoscere come tali la metà delle bugie che ci vengono raccontate. Seguendo qualche indicazione, come spiegheremo più avanti, e facendo un po’ di pratica potremmo raggiungere un discreto 70%. Solo se a questo possiamo aggiungere l’aiuto di un grande intuito arriveremo a toccare un notevole 90%, che non ci mette comunque completamente al riparo da ogni bugiardo ma aumenta notevolmente le nostre possibilità di non cadere nelle trappole che ci vengono tese.

Tanto per cominciare, il dottor Albanese ci spiega che mentire implica per il nostro cervello uno sforzo superiore che non dire la verità. Quando mentiamo mettiamo il nostro cervello nelle condizioni di dover confezionare in un attimo una risposta che contenga una “verità alternativa”, che risulti credibile. Probabile quindi che impieghi qualche frazione di secondo in più rispetto a quando stiamo invece dicendo la verità, ma se siamo abituati a mentire, anche il nostro cervello sarà più rapido nel confezionare una bugia e noi avremo imparato a gestire quei sentimenti di paura e senso di colpa che accompagnano i bugiardi occasionali.

Attenzione al corpo

Quello che maggiormente tradisce i bugiardi è il corpo. A questo riguardo sono state compiute ricerche che hanno dato risultati molto significativi.

Di notevole importanza il contributo dato da Paul Ekman, psicologo statunitense, che attraverso le sue ricerche scientifiche ha studiato come riconoscere le emozioni attraverso il comportamento non verbale, in particolare basandosi sulle espressioni del volto.

Nel suo libro I volti della menzogna, Ekman spiega come nel rapporto tra chi mente con la sua ipotetica “vittima” entrino in gioco elementi di tipo emotivo, comportamentale, legati al contesto, al carattere e alla disposizione tra il mentitore e chi vorrebbe essere in grado di valutare la sincerità o meno di chi gli sta di fronte.

Alcuni esempi pratici

Ed ora veniamo alla pratica. Come dicevamo, esistono dei metodi non infallibili ma in grado di darci qualche possibilità di riuscita in più. Innanzitutto partiamo dal presupposto che se possiamo mentire con le parole, molto più difficilmente riusciremo a farlo con il corpo. Posizione del corpo, tono della voce, pausa e vicinanza di chi parla con noi, espressioni del viso, scelte linguistiche sono tutti indicatori che difficilmente possono essere manipolati.

Facciamo qualche esempio partendo dai gesti. Prendiamo in considerazione gesti illustratori e indicatori.

I gesti illustratori sono quei gesti che accompagnano e rafforzano il contenuto di quello che stiamo dicendo. Coinvolgono tutto il corpo, in particolare le mani, gli occhi, le sopracciglia. Chi mente (soprattutto se lo fa preso alla sprovvista e non in modo premeditato) concentra le sue energie cognitive e mentali nel confezionare la bugia, tende quindi a muoversi poco perché il suo sforzo possa concentrarsi altrove.

I gesti indicatori sono quei movimenti di viso e corpo associati alle 7 emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disprezzo, disgusto), sono indicatori molto utili in quanto difficilmente manipolabili e quindi in grado di contraddire quanto invece si sta affermando a parole.

Veniamo ora alle espressioni facciali.

Riconosciamo ad esempio quando la felicità è sincera non dalla zona della bocca ma dagli occhi, questo perché il muscolo orbicolare dell’occhio si attiva involontariamente e non ci consente di modificarne la sua reazione per adattarla alle nostre eventuali intenzioni menzogniere.

La sorpresa è l’emozione che sparisce più rapidamente dal nostro volto, se dura più di un secondo non è autentica.

Interessante, e sorprendente, quello che possono rivelarci gli occhi: se chi sta parlando rivolge lo sguardo in alto a destra (alla sua destra), sta accedendo all’emisfero destro del suo cervello, quello della creatività, e sta probabilmente cercando non un’informazione che possiede ma qualcosa da creare con la fantasia (una menzogna?). Al contrario, se lo sguardo si rivolge in alto a sinistra, si attinge alla sfera dei ricordi, quindi a qualcosa di reale.

Allo stesso modo, la posizione delle gambe, dei piedi, delle mani, possono darci indicazioni preziose e, come ci suggerisce maliziosamente il dottor Albanese, padroneggiare queste conoscenze può anche fare di noi dei perfetti bugiardi!

Terapie affermative per pazienti LGBT-Q+

Far parte di una minoranza sessuale crea spesso un senso di appartenenza ad una comunità in cui vengano condivisi vissuti simili. La LGBT-Q+ include molte esperienze di diverso tipo, tutte accomunate da vissuti di minoranza.

 

L’orientamento sessuale è costituito da attrazioni emotive, romantiche e/o sessuali nei confronti di uomini, donne, entrambi e/o altri generi. Inoltre, una componente importante dell’orientamento sessuale è data anche dal senso di identità fondato sulle sopra citate attrazioni, sui comportamenti ad esse corrispondenti e sull’appartenenza ad una comunità di persone che condividono attrazioni simili. Spesso l’esser parte di una minoranza sessuale crea un senso di appartenenza ad una comunità, a prescindere dallo specifico orientamento sessuale, tant’è che la sigla LGBT-Q+ include molte esperienze di diverso tipo, ma appartenenti a vissuti di minoranza.

Alcune esperienze vissute dalle persone LGBT-Q+ si riferiscono a componenti legate al genere e non necessariamente all’orientamento, i quali sono due costrutti differenti. Il primo (identità di genere) si riferisce al senso psicologico dell’essere maschio, femmina, entrambi o nessuno. A differenza dell’identità di genere, del sesso biologico e del ruolo di genere, l’orientamento sessuale è un vissuto personale, che comporta anche un’espressione dello stesso attraverso comportamenti relazionali, che possono rispondere a profondi bisogni di attaccamento e intimità (American Psychological Association, 2008).

Le persone LGBT-Q+ possono vivere momenti complessi dettati dall’appartenenza ad una minoranza sessuale. Le esperienze di discriminazione, stigma, basso supporto sociale familiare o di amici e una possibile omofobia interiorizzata possono portare a disagio psicologico marcato. Inoltre, l’ansia è un’emozione spesso condivisa da pazienti LGBT-Q+ i quali, affrontano la difficoltà del coming out e delle conseguenze dello stesso, di eventuali outing, di trovare amici-partner se si abita in zone a bassa densità di popolazione (piccoli paesi/province) e la possibile scelta di intraprendere percorsi di transizione in caso di esperienze legate ad identità di genere transessuali.

Nonostante l’omosessualità già dal 1974 è stata eliminata dal manuale diagnostico dei disturbi mentali, dagli anni Ottanta sono entrate in vigore le terapie riparative allo scopo di guarire le persone dall’omosessualità e negli anni a seguire da altre condizioni, legate all’identità sessuale, considerate, da parte di alcuni teologi, psichiatri e psicologi, patologiche. Moltissimi studi sono stati condotti a riguardo e hanno riscontrato la nocività di tali trattamenti, i quali possono provocare sintomatologia ansiosa e depressiva. Per questo motivo, da diversi anni le terapie riparative sono state bannate, per lasciare spazio a terapie in grado di supportare e trattare pazienti LGBT-Q+ in base alle problematiche da essi riportati. In particolare, la terapia affermativa è un tipo di psicoterapia il cui scopo è quello di convalidare e sostenere le esigenze di clienti che appartengono a minoranze sessuali. Evidenze scientifiche riportano gli effetti benefici di tali terapie sull’autorealizzazione dei propri pazienti, i quali nel corso di queste terapie vivono un ambiente di accoglienza, accettazione e assenza di eterosessismo, come presupposti terapeutici. La maggior parte delle persone appartenenti a minoranze sessuali vivono quotidianamente esperienze di eterosessismo e molti di essi hanno vissuto tali esperienze a contatto con operatori sanitari, tra cui psicologi e psicoterapeuti. L’eterosessismo può esser definito come un insieme di atteggiamenti a favore di una sessualità eterosessuale, escludendo possibili altre forme di sessualità e, nelle declinazioni più estreme, considerando le esperienze eterosessuali come unica e superiore opzione. Atteggiamenti di chiusura da parte di un terapista possono minacciare l’alleanza terapeutica e impedire di lavorare adeguatamente con il proprio paziente o portarlo ad un rapido drop-out.

 

La morte in sala parto. Gli operatori sanitari tra difficoltà professionali e dolore personale

Gli operatori sanitari che incorrono in una perdita perinatale sono impegnati a un duplice livello: devono operare professionalmente e nel contempo ne sono emotivamente coinvolti. Trovare la “giusta distanza” è un modo per non incorrere nella sindrome di burnout, non sviluppare sintomi psicopatologici e mantenere elevate le proprie prestazioni professionali.

 

La morte che incorre durante la gravidanza o nei primissimi giorni dopo il parto è un evento paradossale e impensabile, che può lasciare a lungo traccia di sé nelle persone che ne sono coinvolte.

Gli studi e le riflessioni cliniche si sono per lo più soffermate a indagare le ripercussioni emotive dell’evento sulla donna e sulla coppia genitoriale, mentre meno è stato scritto sui vissuti degli operatori sanitari. Eppure, il personale che si trova ad affrontare l’evento ricopre una difficile posizione: deve affrontare lo strazio dei genitori nei primi momenti che seguono l’evento, e contemporaneamente esperisce sul piano personale reazioni emotive difficili da gestire (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

Quando vengono a contatto con una morte così assurda, gli operatori sanitari possono percepirsi inadeguati, privi degli strumenti necessari e di conoscenze approfondite, e sperimentare rabbia, sgomento, tristezza, incredulità, impotenza e colpa, come se il lutto fosse legato alla propria inadeguatezza professionale (Montero, Sànchez, Montoro, Crespo, Jaén, Tirado, 2011). I genitori possono accusare gli operatori dell’accaduto, manifestare ostilità e agire comportamenti aggressivi, generando frustrazione, impotenza e autoaccusa.

Talvolta l’operatore sanitario tenta di proteggersi dal rischio di un eccessivo coinvolgimento emotivo e di prendere le distanze dall’evento, con diverse modalità: può mettere in atto comportamenti di evitamento nei confronti dei genitori, anestetizzarsi di fronte alle emozioni proprie e altrui, proteggersi con un linguaggio tecnico e difficilmente comprensibile, allontanarsi dal reparto temporaneamente o definitivamente (Pullen, Golden, Cacciatore, 2012).

Pochi studi approfondiscono il rischio psicopatologico per gli operatori che affrontano la morte perinatale; prevalentemente si riscontrano sintomi psicosomatici, post-traumatici, ansiosi e depressivi, e un rischio di burnout che si declina come perdita di sensibilità, depersonalizzazione, irritabilità e aumento dell’assenteismo (Ben-Ezra, Palgi, Walker, Many, Hamam-Raz, 2014).

Qualche anno fa abbiamo condotto una ricerca esplorativa sui vissuti degli operatori sanitari dei reparti di Ginecologia e Ostetricia (Gandino, Anfossi, Vanni, Loera, 2014). Ci siamo rivolte a tutti i Punti nascita della Regione Piemonte, ricevendo l’adesione di 485 soggetti (ostetriche, infermieri/e, medici e operatori socio-sanitari) appartenenti al 72% delle strutture presenti nella Regione.

La ricerca ha evidenziato il forte impatto emotivo che la perdita perinatale suscita negli operatori, i quali esprimono per lo più angoscia e tristezza, ma anche compassione e solidarietà per i genitori. Particolarmente gravosa risulta per i medici la comunicazione del decesso, mentre ostetriche e infermieri sentono il peso di proporre e di gestire l’incontro con il bambino, ma anche di essere a contatto con il dolore dei genitori e di condividere con loro i primi momenti di dolore lancinante conseguenti alla perdita. Gli psicologi, a cui dovrebbe competere l’accoglienza e l’accompagnamento emotivo, sono presenti in reparto solo negli ospedali più grandi, mentre non sono in organico nei reparti di Ostetricia e Ginecologia degli ospedali minori.

Tutto il personale del reparto sente la necessità di maggiore formazione professionale sul tema specifico, esigenza espressa soprattutto dai medici; il personale non-medico sente inoltre il bisogno di avere tempi e spazi per la condivisione in équipe e per ricevere supervisione clinica.

Interessante appare che gli operatori dei reparti di maternità intervistati per lo più non presentano i sintomi di burnout.

L’Esaurimento emotivo e la depersonalizzazione – due dei tre parametri con cui si valuta il burnout attraverso il questionario più diffuso sul tema (Maslach & Jackson, 1981) – risultano ben al di sotto dei valori medi normativi, mentre il terzo parametro – la Realizzazione Professionale – risulta più elevato della media. La ricerca tuttavia evidenzia che nel personale medico e paramedico i segnali di burnout crescono all’aumentare delle esperienze di morte perinatale, in particolare al numero di interruzioni terapeutiche di gravidanza e di morti endouterine fetali.

E non è difficile comprenderne il motivo. Alcuni studi dimostrano che una buona care si compone della capacità del personale ospedaliero di riconoscere la perdita e di interagire con la coppia in modo empatico (Cacciatore, 2010). Tale compito tuttavia è emotivamente gravoso per gli operatori sanitari, impegnati a fornire pratiche cliniche adeguate e contemporaneamente permeati dalle proprie emozioni, cercando di porsi a una “giusta distanza”: non troppo vicini emotivamente, perché rischierebbero di diminuire la propria professionalità, ma nemmeno troppo distanti, perché ne risentirebbero i loro assistiti.

I risultati della nostra ricerca sono in linea con quanto sostiene la letteratura internazionale: la capacità di gestire i vissuti dolorosi connessi alle perdite perinatali che avvengono in reparto senza sviluppare la sindrome di burnout è legata alla possibilità di avere spazi di condivisione delle proprie emozioni, percorsi specifici di formazione professionale e incontri di supervisione clinica (Montero, Sànchez, Montoro, Crespo, Jaén, Tirado, 2011; Wallbank, Robertson, 2013; Nuzum, Meaney, O’Donoghue, 2014; Gandino, Anfossi, Vanni, Loera, 2014; Gandino, Bernaudo, Di Fini, Vanni, Veglia, 2017).

La psicologia clinica può dunque adoperarsi affinché il benessere degli operatori sanitari sia la base sulla quale essi possano costruire la care necessaria ad accompagnare le donne e le coppie nei primi momenti successivi alla perdita.

Dialoghi con Sandra – VIDEO dell’ottavo incontro “Perché vogliamo gli animali in casa? Cosa ci danno?”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’ottavo incontro con il Dott. Gabriele Caselli.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite dell’ottavo incontro è stato il Dott. Gabriele Caselli, il quale ha affrontato l’argomento “Perchè vogliamo gli animali in casa? Cosa ci danno?”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

 

“I lati oscuri della mente – viaggio nel mondo sommerso degli istinti” (2019) di Cecilia Smeraldi – Recensione del libro

Il libro I lati oscuri della mente – viaggio nel mondo sommerso degli istinti, di Cecilia Smeraldi, dottore di ricerca in Neuroscienze e disturbi del comportamento, è un agevole piccolo volume che vuole fornire una panoramica lieve e non certamente esausistiva di alcuni disturbi di personalità.

 

La struttura snella del discorso, la scelta di semplificare al massimo i concetti per renderli accessibili a tutti, senza per questo sminuire la profondità del messaggio, ne fanno un buon testo di consultazione veloce, semplice e interessante.

Per il professionista è una lettura leggera, che può fungere da “ripasso” per concetti già noti, ma articolati (ad esempio la classificazione dei disturbi tratta dal DSM 5 e PDM II, riportata per ogni disturbo in modo molto semplificato e parziale); per il “profano” è una lettura interessante che non scade nel banale, ma che prova a veicolare informazioni e riflessioni digeribili.

L’autrice si esprime con semplicità e chiarezza, con rispetto ed umiltà su ciò che è analizzabile (la mente e il comportamento umano), ma non sempre e non del tutto conoscibile (l’uomo), non incappando mai in giudizi o affermazioni esagerate.

L’argomento è di sicuro interesse, non solo per i professionisti del settore ma anche per un pubblico su larga scala, e tocca sei Disturbi di Personalità (Sadismo, Masochismo, Narcisismo, Disturbo Antisociale, Disturbo Istrionico, Disturbo Ossessivo Compulsivo) cercando ogni volta in modo intelligente di “paragonare” la clinica ad un romanzo / opera lirica / film noti al grande pubblico, per poter così fornire una sorta di polaroid del concetto, che possa “visivamente” e totalmente (per quanto, in modo artefatto) rappresentare ciò di cui si sta parlando.

La lettura, così come l’analisi dei diversi disturbi, procede snella e leggera, senza addentrarsi in profondità, rimanendo cioè sulla soglia delle considerazioni e riflessioni, e cercando di recuperare informazioni da testi diversi che rappresentano capisaldi della storia della psicologia, psicoanalisi, o neuroscienza.

Non sono certa, però, che il libro rispetti appieno le premesse e il titolo.

Sebbene si riesca facilmente ad intuire perché i disturbi sopra elencati rappresentino o siano visti come lati oscuri della mente, non c’è alcuna analisi o paragone di un eventuale lato “chiaro” della stessa.

Molto probabilmente, come già detto, per la sua leggerezza, il testo non aveva lo scopo né di un confronto, né di un’analisi approfondita.

Sicuramente la premessa è onesta: fornire una panoramica di alcuni comportamenti che socialmente e umanamente possono spaventare, cercando di fornire una leggera spiegazione sul loro strutturarsi.

Interessante e di utile strumento clinico anche il collegamento tra il disturbo presentato e l’emozione principale sottostante, che può fungere da bussola per orientarsi e muovere i primi passi verso la comprensione e lo studio di determinate dinamiche e menti.

I likes su Instagram influenzano la percezione della propria bellezza individuale?

Piattaforme come Instagram si basano principalmente sull’attività di scambio di likes. Una foto che ha ricevuto molti likes può venir considerata come una prova tangibile di bellezza e valore personale ed è in grado di esercitare un’influenza considerevole sulla percezione che l’individuo ha del proprio corpo e del proprio aspetto in generale.

 

Instagram è una piattaforma dedicata interamente alla pubblicazione e condivisione di foto, che possono essere modificate e migliorate utilizzando un insieme di accorgimenti che permettono all’utente di gestire i contenuti da postare e di rendere la propria immagine il più possibile attrattiva (Dumas, Maxwell-Smith, Davis, & Giulietti, 2017), in modo da ottenere un numero di likes elevato.

Infatti, questo social network si basa principalmente sull’attività di scambio di likes (Frison & Eggermont), in quanto una foto che ha ricevuto molti likes indica un alto livello di apprezzamento dal popolo online e viene considerata come una prova tangibile di bellezza e valore personale (Chua & Chang’s, 2016), in grado di esercitare un’influenza considerevole sulla percezione che l’individuo ha del proprio corpo e del proprio aspetto in generale (Thompson & Stice, 2001).

A partire da queste premesse, il presente studio (Tiggermann, Hayden, Brown, & Veldhuis, 2018) si propone di indagare l’effetto che il numero di likes ha sul grado di insoddisfazione del proprio corpo, oltre che del proprio viso, e di valutare quanto il coinvolgimento nell’uso di questo social media la relazione tra le variabili considerate.

220 studentesse di età compresa tra i 18 e i 22 anni, sono state assegnate casualmente alla visione di una serie di foto di una magrezza ideale e nella media aventi un numero basso o alto di likes ricevuti su Instagram.

Prima e dopo aver visto aver visto le immagini, le ragazze sono state sottoposte alla misurazione della Visual Analogue Scale (VAS; Heinberg & Thompson, 1995) per valutare l’umore, l’insoddisfazione corporea e l’insoddisfazione per il proprio viso, oltre che ad una terza VAS per valutare in modo specifico l’insoddisfazione riguardante le caratteristiche facciali. Successivamente, alle partecipanti è stato chiesto di indicare su una scala Likert a 7 punti come esse valutano il loro aspetto esteriore dopo aver visto le precedenti foto, attraverso la State Appearance Comparison Scale (Tiggermann & McGill’s, 2004) ed in aggiunta, di rispondere ad una serie di domande riguardo il loro uso di Instagram, indicando nello specifico il numero di foto pubblicate nell’ultimo mese (0, 1-5, 5-10, >10), la media di likes ricevuti ai contenuti postati (0-10, 10-50, 100-200, 200+), il più alto numero di likes che esse abbiano mai ottenuto, il grado di importanza che esse attribuiscono alla qualità visiva delle loro foto ( 1=non importante, 5= molto importante), la rilevanza data al numero di likes alle foto proprie ed altrui ( 1= non importante, 5= molto importante) ed, infine, di riportare la media dei likes che pensavano avessero le foto precedentemente mostrate loro ed il grado di magrezza che ritenevano avere le donne nelle suddette foto.

I risultati mostrano che l’esposizione ad immagini di magrezza ideale portano a maggior insoddisfazione per il proprio aspetto rispetto ad immagini di una forma fisica nella media, che il numero di likes non ha effetto sul confronto tra il proprio aspetto esteriore e quello altrui né sull’insoddisfazione corporea, ma che è stato rilevato un effetto positivo significativo tra il numero di likes e l’aumento dell’insoddisfazione riguardo il proprio viso. Inoltre è stato evidenziato che ciò non risulta mediato dal grado di coinvolgimento o dall’uso di Instagram, ma che quanto più è alto il grado di coinvolgimento in Instagram tanto più aumenta la misura in cui il soggetto confronta il proprio aspetto esteriore con quello altrui ed aumenta l’insoddisfazione per il proprio viso.

In conclusione, i dati a nostra disposizione indicano quanto i social media in generale, ed Instagram in particolare, vengano usati per accrescere la propria autostima, attraverso l’attività di postare foto e ricevere likes, e come tuttavia sia bene dissuadere gli utenti dal ricercare di ottenere più consenso possibile attraverso i likes, in quanto essi non misurano in modo obiettivo la bellezza o il valore personale dell’individuo.

 

Iperconnessione digitale e le possibili implicazioni psicopatologiche

La tecnologia, in particolare internet e i social network, hanno consentito di andare al di là dei confini geografici e di prendere parte, anche ad elevate distanze, a ciò che accade ad amici, parenti o conoscenti, in qualsiasi momento della giornata, ma può anche portare in alcuni casi allo sviluppo di psicopatologie.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Se fino a poco tempo fa Internet rappresentava un’ambiziosa risorsa oggetto di desiderio, oggi risulta invece essere percepita come scontata ed ovvia.

La tecnologia, infatti, non può essere più intesa semplicemente come uno strumento, ma è diventata un ambiente da abitare, un’estensione della mente umana, un mondo virtuale che si intreccia con il mondo reale e che determina vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali capaci di ridefinire la costruzione dell’identità, delle relazioni e del vissuto da esperire.

Come afferma il filosofo Levy, con il termine “virtuale” non si intende esprimere il contrario di “reale”: un oggetto virtuale non è qualcosa di inesistente, ma esiste senza esser là, senza avere delle coordinate spazio-temporali precise.

Il cyberspazio, tuttavia, attrae e cattura. Ha il seducente potere di rendere l’utente attivo grazie alla sua smisurata potenzialità interattiva che rende la comunicazione caratterizzata da ipertestualità, ipermedialità ed elevata velocità. A rendere allettante il contesto della comunicazione digitale è l’ulteriore possibilità di nascondersi restando in anonimato o di interagire nelle vesti di molteplici identità, di superare i confini spaziotemporali, di sperimentare emozioni inedite ed inaspettate, di allineare o annientare le diversità individuali.

È in atto una vera e propria rivoluzione digitale del Terzo millennio che ha già provocato una modificazione delle potenziali capacità mentali e sensoriali dell’uomo definito homo tecnodigitalicus.

L’uso delle nuove tecnologie è ormai sempre più oggetto di interesse ed ha spalancato le porte a numerosi studi rivolti alle sue possibili conseguenze. Esistono infatti ricerche che mettono in evidenza una positiva associazione tra l’uso di internet e livello di interazione sociale, la possibilità di consolidare vecchi rapporti e crearne nuovi (Gross 2004), favorendo un effetto vantaggioso dal punto di vista personale e sociale (Leung e Wei 2000, Mathews 2004). Di contro, altri studi sottolineano gli effetti negativi collegati all’uso della rete. Uno studio ha rilevato che la reperibilità così facile e immediata di informazioni costituirebbe un fattore di rischio per lo sviluppo di condotte disfunzionali, tanto che il 100% di un campione di soggetti consumatori di sostanze, avrebbe consultato internet per ricevere informazioni sui rischi e sulle modalità di consumo (Boyer et al. 2005). In aggiunta, tra gli aspetti negativi influenti, sono emersi il cyberbullismo, la condivisione di comportamenti a rischio e i confronti auto-denigratori con gli altri.

I dati di una ricerca, condotta su tutto il territorio nazionale dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza nel 2017, su un campione di circa 8000 ragazzi, ci informano che il 98% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni possiede uno smartphone personale a partire dai 10 anni d’età. Lo studio dimostra come i giovani si siano avvicinati all’uso delle tecnologie precocemente, senza aver ricevuto una preliminare preparazione volta ad educare e sensibilizzare il ragazzo di fronte ai pericoli del web. Sono oltre 3 adolescenti su 10, infatti, ad aver avuto modo di interfacciarsi con lo smartphone sin dalla prima infanzia, già a partire dal primo anno e mezzo di vita. A confermare questi dati, una recente ricerca condotta da AVG Digital Skills Study, dove si afferma che le capacità dei bambini dell’odierna generazione sono notevolmente cambiate rispetto ai bambini di 20-30 anni fa: se da un lato non sono in grado di svolgere mansioni comuni come nuotare, allacciarsi le scarpe o fare colazione in autonomia, dall’altro mostrano elevate abilità nell’accendere il computer, nel giocare ai videogiochi e nel gestire lo smartphone dei genitori.

La dilagante diffusione delle nuove tecnologie sta oggigiorno rivoluzionando in maniera silente la nostra esistenza, dalle relazioni interpersonali all’intrapsichico. A modificarsi visibilmente sono soprattutto le abitudini, essendo l’uomo portato a plasmare il suo apparato psichico, adeguando le proprie funzioni cognitive a quelle dello strumento tecnologico.

Risulta pertanto essenziale approfondire i cambiamenti che avvengono nel funzionamento cognitivo legati alla diffusione della rete e le possibili ripercussioni psicopatologiche legate al suo uso, non ancora ufficialmente riconosciute nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale – DSM-5.

La tecnologia, in particolare i social media, hanno consentito di andare al di là dei confini geografici e di prendere parte, anche ad elevate distanze, a ciò che accade ad amici, parenti o conoscenti, in qualsiasi momento della giornata. I social media, in tal modo, promuovono la socializzazione, rinforzando i legami e innescando un senso di appartenenza. La continua e costante partecipazione e condivisione, tuttavia, può indurre a generare atteggiamenti competitivi, specie se in un contesto narcisistico, in cui vengono messe a paragone le proprie esperienze con quelle degli altri, facilmente considerate più sensazionali delle proprie.
A tal proposito, la F.O.M.O., dall’inglese Fear of Missing Out, fa riferimento alla paura di essere tagliati fuori, una paura legata al pensiero costante che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante di ciò che stiamo facendo noi. La paura di mancare l’opportunità porta coloro che sono affetti da FOMO a ricercare continuamente un contatto con gli eventi del cybermondo, costringendoli ad un compulsivo controllo degli aggiornamenti e dei messaggi di stato. La FOMO può anche scatenare disordini emotivi sotto forma di agitazione, rimpianti, invidia, secondo Sherry Turkle dell’Initiative on Technology and Self del MIT.

La FOMO compare quando non riusciamo ad apprezzare le esperienze offline che stiamo vivendo perchè il nostro pensiero si focalizza ossessivamente su quello che non stiamo facendo, spiega Arnie Kozak.

Andrew Przybylski (2013) dell’Università di Oxford è stato il primo, insieme ai ricercatori dell’Università della California, di Rochester e di Essex, a condurre una ricerca empirica su questo fenomeno. Dallo studio è emerso che i livelli di FOMO sono maggiormente elevati nelle persone giovani e, in particolare, negli individui di sesso maschile e derivano dalle differenti circostanze sociali. Bassi livelli di soddisfazione della propria vita corrispondono con alti livelli di FOMO.

Questo accade perché, tra i bisogni psicologici universali, dai quali dipende la salute mentale dell’essere umano, vi è la necessità di percepirsi in relazione con gli altri, cioè di sperimentare un senso di vicinanza e connessione (Decy e Ryan,1985).

Di fronte a queste dinamiche, ne consegue una drastica riduzione della propria intimità. È stato riscontrato, infatti, che circa 5 adolescenti su 10 percepiscono come normale la condivisione non solo di tutto ciò che fanno, ma anche di foto che ritraggono momenti della propria intimità. Stando ai dati riportati dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza, i ragazzi della fascia 14-19 anni scattano circa 5 selfie al giorno, fino ad un massimo di 100, contro i 2 selfie dei più piccoli che prediligono l’uso di video o messaggi audio.

Lo share, o meglio l’oversharing, ovvero la condivisione eccessiva di informazioni, diventa una modalità diffusa adottata dalla maggior parte degli attori dei social. Ciò sottende un forte desiderio di apparire e di mostrare il meglio di ciò che si è o di ciò che si vorrebbe essere, tanto da costruirsi una vita ideale, meritevole di approvazione. Tutto ciò che viene condiviso è indispensabile che venga sottoposto al giudizio altrui, espresso attraverso il “mi piace o non mi piace”. È stato rilevato che tanti like accrescono l’autostima, la popolarità ed il senso di sicurezza personale e, viceversa, un giudizio contrario condiziona l’umore e la percezione di sé in senso negativo.

Di conseguenza, pur di ricevere un feedback positivo, i ragazzi sono disposti, ad esempio, a mettersi a dieta per essere in linea alla tendenza del momento, o a fare selfie pericolosi mettendo a repentaglio la propria vita come dimostrazione di avere coraggio.

Si pensi ad un recente fenomeno social degli ultimi tempi, le cosiddette “Challenge”, una catena in cui i ragazzi sono chiamati a postare un video o un’immagine inerente alla moda del momento e a nominare, a loro volta, amici o conoscenti. Trovano massimo riscontro le sfide che potrebbero comportare conseguenze rischiose, in una fase di crescita nella quale si struttura la propria personalità ed identità, anche attraverso modelli esterni e ideali da raggiungere.

Facendo riferimento ai dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, 1 ragazzo su 10 ha preso parte a sfide alcoliche e 5 ragazze su 10 seguono mode legate all’ispirazione del magro. Le ragazze sono disposte a fare sforzi enormi, in termini di dimagrimento pur di mostrare una perfetta forma fisica, rischiando di ammalarsi.

Cosa spinge l’essere umano a condividere le proprie esperienze con gli altri? È stato dimostrato che comunicare i propri pensieri, emozioni, riflessioni è fortemente correlato con l’attivazione di aree cerebrali deputate alla percezione del senso di gratificazione e di piacere. Diana Tamir e Jason Mitchell, studiosi di Harvard, hanno sottoposto alcuni soggetti ad un’indagine con risonanza magnetica funzionale nel momento in cui raccontavano di sé, delle proprie idee e riflessioni; questa sperimentazione ha dimostrato l’attivazione del nucleo accumbens che è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale. Tale nucleo svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, i quali provocano un aumento della concentrazione di dopamina, neurotrasmettitore del piacere. Parlare di sé agli altri, in definitiva, dà un piacere simile a quello intrinseco al cibo e al sesso, definito primario.

Di contro, non avere la possibilità di monitorare il web o di essere raggiungibili, può portare a sperimentare sensazioni di paura, disagio ed inadeguatezza. A delineare le caratteristiche più specifiche di questo fenomeno è la nomofobia, da No-mobile-Phone, detta anche sindrome da disconnessione, che fa riferimento alla paura di restare senza telefono o senza connessione ad Internet o al 4G. Tale condizione può essere vissuta in modo talmente angosciante al punto da sperimentare effetti fisici collaterali simili all’attacco di panico, come mancanza di respiro, vertigini, tremori, sudorazione, battito cardiaco accelerato, dolore toracico, nausea.

Come affermato dall’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo, ad evidenziare una distinzione tra la dipendenza ed un’attività controllata e ponderata di utilizzo dello smartphone, sono caratteristiche psicologiche e comportamentali, quali:

  • l’uso regolare del telefono cellulare ed il trascorrere molto tempo su di esso;
  • l’avere sempre con sé uno o più dispositivi ed il caricabatteria, per evitare di restare senza batteria;
  • il mantenere sempre il credito;
  • l’esperire vissuti di ansia e nervosismo al solo pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile o non utilizzabile;
  • il monitoraggio costante dello schermo del telefono, per vedere se sono stati ricevuti messaggi o chiamate, o della batteria, per controllare se il telefono è scarico;
  • il mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno);
  • l’andare a dormire con cellulare o tablet a letto;
  • l’uso dello smartphone in posti poco pertinenti.

La Nomofobia è una patologia attualmente poco indagata e scarsamente delineata. Essendo composta dal suffisso fobia, dovrebbe essere ascrivibile ai disturbi d’ansia, caratterizzati da uno stato di attivazione che risulta eccessivo e pervasivo e limita il funzionamento della persona.

Tuttavia, uno studio condotto da King, Valença, Nardi (2010), ricercatori del Panic and Respiration Laboratory dell’Università Federale di Rio de Janeiro, sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.

Dagli studi di David Greenfield, professore di psichiatria all’Università del Connecticut, è emerso che l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze, per il fatto che causa delle interferenze nella produzione di dopamina che, essendo il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa, non fa altro che facilitare le persone a svolgere attività che ritengono piacevoli. In tal modo, l’arrivo di una notifica sul cellulare innalza i livelli di dopamina poiché si è portati automaticamente a credere che contenga contenuti interessanti. Dal momento però che non è possibile prevedere l’effettiva desiderata ricezione di notifiche, si sviluppa il costante impulso a controllare, tipico del giocatore d’azzardo che, sperando di ricevere una grande quantità di denaro, continua a giocare.

Strettamente legato alla Nomofobia e riferito ugualmente all’abuso dello smartphone è il Vamping. Il termine viene comunemente tradotto con “vampireggiare” poiché, proprio come i vampiri, i ragazzi attendono la notte per rimanere svegli fino alle prime ore del mattino per socializzare, chattare e tenere contatti con gli altri utenti della rete. I dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza rilevano che il 62% degli adolescenti resta sveglio fino a tarda notte per chattare, parlare o giocare con gli amici e partner, a guardare video o serie TV in streaming, e un 15% si sveglia, anche dopo essersi addormentato, per controllare le notifiche sui social network.

Il Vamping permette di partecipare ad una sorta di cybercomunità notturna, dove ritrovarsi e darsi degli appuntamenti virtuali grazie a degli hashtag ben specifici (come #Vamping). Tale fenomeno ha origine negli Stati Uniti ma ha preso rapidamente piede anche in Italia.

Il vamping ha notevoli ripercussioni negative sulla quantità e la qualità del sonno. Tale condotta comporta delle conseguenze estremamente nocive, andando ad interferire nella quotidianità dei ragazzi poiché provoca difficoltà di concentrazione e di attenzione, funzioni cognitive indispensabili per il rendimento scolastico. È stato ulteriormente dimostrato che favorisce l’insorgenza di stati ansiosi, influenzando l’umore e il controllo degli impulsi, con manifestazioni di aggressività, comportamenti antisociali e predisposizione all’uso di sostanze.

In linea più generale, parliamo della “Social Network addiction”, ovvero una sorta di dipendenza legata ad un bisogno di connettersi, aggiornare il proprio profilo e controllare la propria pagina web. Come ogni dipendenza, anche in questo caso, sono presenti sintomi di tolleranza relativa alla sensazione di appagamento quando si è in collegamento; sintomi di astinenza manifestati da sensazioni di disagio psico-fisico provate quando non si ha la possibilità di collegarsi per un certo periodo di tempo; e i sintomi di craving, desiderio irresistibile.

La dipendenza dai Social Network sembra derivare dal forte senso di sicurezza che apparentemente offrono in maniera immediata e agevole.

Oltre a tale dipendenza, tuttavia, non è da trascurare che l’uso eccessivo dello smartphone, può favorire conflitti interpersonali minacciando il benessere relazionale. Di recente è stato coniato il termine phubbing, dalla fusione delle parole “phone” (telefono cellulare) e “snubbing” (snobbare), per definire il comune atto di ignorare o trascurare il proprio interlocutore in un contesto sociale concentrandosi sul proprio smartphone.

In uno studio, condotto dall’Università di Baylor, pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior, è stato evidenziato che tale fenomeno può incrementare i conflitti di coppia, particolarmente nelle persone con un attaccamento ansioso, ed avere un impatto diretto sullo sviluppo di disturbi depressivi. Un’ ulteriore ricerca, condotta dall’Università del Kent, mostra risultati simili sottolineando come il phubbing sia una forma di esclusione sociale, capace di “minacciare bisogni umani fondamentali come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo”.

In definitiva, la partecipazione ai Social Network consentirebbe di mascherare le personali ansie e preoccupazioni legate alla percezione di sé attraverso il rafforzamento del proprio ego e meccanismi neuropsicologici di immediata ricompensa e soddisfazione. Di contro, favorirebbe un’alterazione delle principali sfere di vita personali, causando una tendenza all’isolamento sociale.

Rischia, inoltre, di essere alterata la personale visione dei rapporti affettivi e sociali, dal momento che le “amicizie” possono essere vissute come “mezzi” per il soddisfacimento del proprio bisogno di apparire.

 

Primo Soccorso Psicologico

La NCTSN propone un programma di formazione a distanza della durata di 6 ore sulle tecniche di Primo Soccorso Psicologico (Psychological First Aid).

 

The NCTSN National Child Traumatic Stress Network è un’organizzazione americana che riunisce 150 centri per la salute pubblica; la coordinano e supervisionano due prestigiose università: l’UCLA in California e la Duke University nel North Carolina.

La NCTSN nasce negli Stati Uniti con l’obbiettivo di implementare gli standard assistenziali dei servizi rivolti a bambini, famiglie e adulti coinvolti in eventi altamente traumatici ad alto impatto emotivo. Nello specifico l’organizzazione forma e supervisiona il personale sanitario e non sanitario chiamato ad effettuare interventi di primo soccorso nel corso di disastri naturali, attacchi terroristici, gravi incidenti stradali.

La NCTSN propone un programma di formazione a distanza della durata di 6 ore sulle tecniche di Primo Soccorso Psicologico (Psychological First Aid).

Il training offre contenuti teorici, presentazioni di casi reali e simulazioni video per esercitarsi ad applicare le tecniche di intervento in modo corretto.

La NTCS ha dato vita anche a un’ampia Learning Community dove è possibile accedere a contenuti e risorse sia durante la fase formativa sia durante i successivi interventi sul campo.

Il Corso si ispira ai cinque principi di base del Primo Soccorso Psicologico:

  • Sicurezza
  • Calma
  • Connessione
  • Autoefficacia ed efficacia di comunità in termini di appartenenza a un gruppo
  • Speranza

Il PFA è un protocollo di intervento da applicare nelle fasi immediatamente successive al verificarsi di un disastro o di una calamità:

  • è un protocollo destinato a bambini, adulti e famiglie e al personale coinvolto e nei soccorsi;
  • contiene le forme acute di stress presenti in una situazione emergenziale;
  • promuove le capacità di coping che facilitano un adeguato funzionamento psichico anche dopo un trauma;
  • crea una rete di servizi utili ai sopravvissuti, fornendo loro le risorse necessarie per affrontare l’emergenza;

Le fasi di intervento del PFA sono otto e si succedono secondo un ordine prestabilito. Ciascuna fase è lo step di un piano di intervento strutturato.

Vediamo quali sono le otto fasi di intervento:

1 – Stabilire un contatto e una presa in carico

Il primo obbiettivo è stabilire un contatto con i sopravvissuti; per farlo occorre attenersi a un’indicazione: “osserva in modo attento prima di effettuare un intervento”. “Tieni a mente che stabilire un contatto con un superstite non significa necessariamente avviare una presa in carico”.

Il primo contatto ha caratteristiche definite:

  • tiene conto delle specificità individuali del sopravvissuto legate all’ appartenenza a uno specifico contesto culturale e/o religioso
  • risponde a bisogni immediati e contingenti
  • tutela la privacy: i contenuti condivisi fra soccorritore e superstite rimangono strettamente confidenziali;

La presa in carico successiva avviene secondo il seguente ordine di azioni:

  • Osservazione
  • Valutazione: chi fra i superstiti necessita di assistenza immediata? Molti superstiti non cercano aiuto in modo autonomo, pertanto l’osservazione e la ricerca attiva di chi può essere in difficoltà è un aspetto cruciale del primo intervento. Allo stesso modo non tutti i sopravvissuti desiderano ricevere assistenza. Il timing in questa fase è cruciale.
  • Presentazione: occorre farla comunicando la propria qualifica evitando di interrompere conversazioni già in corso.
  • Indagine: quali sono i bisogni immediati dei sopravvissuti?

2 – Accrescere la sicurezza e il comfort dei sopravvissuti

L’obbiettivo principale di questa fase dell’intervento è fornire conforto fisico e supporto emotivo; ristabilire un adeguato senso di sicurezza riduce significativamente lo stress e l’ansia. Fornire ai sopravvissuti aggiornamenti rispetto all’accaduto aiuta inoltre a ripristinare il senso di controllo rispetto all’emergenza.

Infine occorre evitare che i sopravvissuti siano nuovamente esposti a eventi traumatici: l’impatto dello stress già subito va contenuto quanto più possibile. Ulteriori fonti di ansia potrebbero essere lesive.

Nello specifico la priorità deve essere data:

  • ai bambini non accompagnati
  • a chi ha perso familiari o congiunti nel corso del disastro.

3 – Fase di stabilizzazione

Stabilizzare significa tranquillizzare e calmare i sopravvissuti in preda ad ansia e/o agitazione. La stabilizzazione avviene secondo due fasi:

  • riconoscere i comportamenti che possono essere indicativi di uno stato di agitazione o disorientamento come ad esempio sguardo perso nel vuoto, mancanza di reattività, disorientamento, risposte emotive esasperate, reazioni fisiche incontrollabili, comportamenti frenetici o di ricerca affannosa;
  • individuare la strategia di intervento più adatta per la stabilizzazione:
    • favorire il riconoscimento delle proprie emozioni validandole e inserendole in un contesto di emergenza: è normale sentirsi agitati e confusi dopo un evento traumatico
    • insegnare tecniche di respirazione per ridurre lo stato di agitazione;
    • promuovere tecniche di grounding qualora le precedenti non siano state sufficientemente efficaci.

La tecnica del grounding, detta anche del radicamento, consiste in una successione di azioni utili per riacquisire una connessione consapevole con sé stessi dopo un trauma. Questo può indurre un temporaneo stato dissociativo, che riduce significativamente lo stato di consapevolezza e di vigilanza. La tecnica del grounding mira a ripristinare attraverso azioni guidate la percezione di sé nel momento attuale.

Nello specifico la persona in difficoltà è invitata a focalizzare la propria attenzione: nominando 5 oggetti non angoscianti che vede attorno a sé, quindi 5 suoni che sente e infine nominando 5 percezioni a livello tattile. Ogni fase è intervallata da una serie di profondi respiri.

4 – Fase di raccolta delle informazioni

Secondo un criterio di urgenza si definiscono i bisogni primari dei sopravvissuti; è preferibile raccogliere questo tipo di informazioni attraverso una conversazione spontanea, in alcuni casi può essere di aiuto avvalersi di un questionario predisposto. Una volta definito il/i bisogno/i si procede con l’attuazione dell’intervento (soccorso fisico e/o psicologico, aiuto logistico e/o organizzativo).

5 Fornire assistenza pratica

Si tratta ora di rispondere alle esigenze immediate di assistenza dando la priorità all’esigenza di cibo, acqua, riparo, vestiti e cure mediche. Occorre rimandare (spiegando il motivo) a una fase successiva la risposta ad altri tipi di esigenze meno prioritarie.

Il piano di intervento dovrebbe essere concordato con i sopravvissuti: una volta garantita la loro incolumità, si forniscono le informazioni necessarie sulle possibili soluzioni di intervento.

Il criterio della non intrusività va tenuto sempre presente.

6 – Mettere in contatto i sopravvissuti con la rete sociale

I sopravvissuti a un evento fortemente traumatico hanno una probabilità maggiore di riprendersi dal trauma se sono sostenuti da una rete di persone a loro familiari, che siano essi parenti, congiunti o amici.

Individuare la rete sociale di riferimento per il sopravvissuto è prioritario, così come attivare le risorse disponibili perché vi sia una presa in carico da parte di questa.

E’ bene prestare particolare attenzione ad alcune forme di ritrosia o vergogna: alcuni sopravvissuti possono essere in difficoltà nel chiedere l’aiuto alla propria rete sociale di riferimento.

Questo può accadere per vari motivi:

  • Alcune persone non sono pienamente consapevoli di necessitare di sostegno o supporto
  • Ad altre può essere accaduto in passato di avere chiesto aiuto ma di non averlo ricevuto
  • Altri ancora possono trovarsi in uno stato di forte prostrazione tale da impedire loro di essere abbastanza motivati da chiedere aiuto

In ogni caso va prestata la massima attenzione e valutato l’intervento anche su questi fattori psicologici.

7 – Informare: come posso affrontare l’emergenza dal punto di vista psicologico?

Sapere che in situazioni di stress post traumatico è normale avere reazioni inconsuete può aiutare a ridurre la preoccupazione, l’agitazione e la vergogna. Validare le emozioni aiuta a promuovere forme di gestione più attiva dello stress acuto da parte dei sopravvissuti.

Riconoscere che emozioni come ansia, disorientamento, rabbia, forte attivazione dell’arousal ed evitamento sono frequenti nel corso di eventi traumatici è il primo passo per promuovere e sostenere le abilità di gestione attiva delle criticità successive all’emergenza.

Ad esempio ricordi traumatici ricorrenti possono gravare sulla qualità della vita di un sopravvissuto. Secondo il PFA quali strategie sono utili per gestirli?

Si può invitare il sopravvissuto a:

  • parlare con il personale,
  • coinvolgersi in attività di tipo pratico,
  • mantenere abitudini sane in merito al sonno e all’alimentazione,
  • partecipare a un gruppo di supporto,
  • focalizzarsi su ciò che si può fare di utile al momento
  • evitare strategie che ostacolano una gestione attiva della situazione come il ricorso ad alcool o sostanze, assumere comportamenti a rischio, essere aggressivi nei confronti dei familiari, incolparsi, manifestare comportamenti di rabbia eccessiva.
  • Può essere di aiuto insegnare alcune tecniche di base (respirazione guidata, rilassamento, training autogeno, grounding) per gestire alcune reazioni emotive intense.

8 – Creare una rete di soccorso e sostegno con altri servizi

Ad alcuni superstiti sarà necessario garantire continuità assistenziale anche nelle fasi successive all’intervento di primo soccorso. Possono esserci esigenze pratiche legate alla gestione della quotidianità (alloggio, risorse economiche) ed esigenze sanitarie, connesse ad esempio a sintomatologie pregresse che si sono accentuate con la crisi.

Per la successiva presa in carico è utile fornire informazioni quanto più dettagliate sui servizi disponibili nel territorio.

Servizi scolastici e di trasporto, ambulatori medici, farmacie, gruppi di sostegno, centri religiosi sono risorse preziose per la ripresa delle attività quotidiane una volta superata la fase emergenziale acuta.

L’importanza di rendersi cura di sé stessi

È possibile sostenere psicologicamente gli altri con efficacia nella misura in cui si è in un buon stato di salute psico – fisica.

Questo presupposto richiede azioni specifiche:

  • Lavorare all’interno di un sistema di rete di altri soccorritori
  • Calibrare l’esposizione rispetto a situazioni ad alto impatto emotivo
  • Fare riferimento in caso di bisogno a un supervisore per monitorare e gestire il proprio stress
  • Non eccedere nel numero di ore di servizio né saltare pause fra un intervento e l’altro
  • Evitare un uso eccessivo di dolci, caffè o sostanze che possono causare una qualche alterazione dello stato di piena vigilanza
  • Non pensare che non si sta facendo abbastanza ma focalizzarsi su quanto si sta facendo e cercare di farlo al meglio evitando aspettative irrealistiche
  • Conservare un buon stato di salute riposandosi o fermandosi quando ci si accorge che si è troppo stanchi o emotivamente turbati.
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