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I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale

Problemi comportamentali e ritardi nello sviluppo sembrano riflettere la mancanza di interazione con i caregivers nei bambini istituzionalizzati.

Di Clara Cavallini

Pubblicato il 21 Lug. 2020

Aggiornato il 23 Lug. 2020 10:00

Gli orfanotrofi, anche quando sono dotati di risorse ed opportunità, non possono essere reputati luoghi idonei alla crescita dei minori (Monti et al. 2010), in quanto sono da considerare a pieno titolo delle istituzioni totali (Goffman, 1968).

Il presente contributo è il primo di una serie di tre articoli sull’argomento. In questa prima parte presentiamo una panoramica generale sulla situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Negli articoli che pubblicheremo nei prossimi giorni invece verranno illustrate le recenti ricerche sull’argomento e i relativi risultati.

 

In Italia è stato stabilito dalla legge n.149 del 2001 la totale chiusura delgi orfanotrofi; a tutt’oggi, però, ciò non e ancora completamente avvenuto (Istituto degli innocenti, 2007). In Europa, tra le situazioni di maggiore degrado compaiono quelle degli istituti di Russia e Romania, dove non è ancora prevista un’adeguata legislazione in merito.

Anche se le istituzioni presentano caratteristiche differenti a seconda dei paesi e anche all’interno degli stessi, un tema comune a tutte è la mancanza di interazione socio-emotiva con i caregivers: ciò è strettamente connesso con tipici ritardi nello sviluppo osservati nei minori post-istituzionalizzati ed i loro successivi problemi comportamentali (Merz & McCall, 2010).

In istituti come quelli russi e rumeni, i minori difficilmente riescono a godere di una relazione individualizzata con un adulto di riferimento, in quanto il rapporto numerico tra adulti e bambini è di circa 1 a 30/50 (Rutter et al., 2007). A ciò va aggiunto che tali minori sono esposti ad un eccessivo turnover del personale, arrivando a relazionarsi, nei loro primi due anni di vita, da un minimo di 50 a circa 100 diversi caregivers (Groark & Muhamedrahimov, 2005). La vita nella gran parte degli istituti si caratterizza per la scarsa o totale assenza di stimolazioni percettive, motorie e linguistiche, e le interazioni sono spesso brevi e mal dirette (Monti et al. 2010).

Poichè per circa l’85% dei minori adottati, dopo la separazione dalla famiglia biologica, la vita comincia in un istituto, gli studi sulla loro crescita fisica ed il loro sviluppo cognitivo ed affettivo proseguono da più di cinquant’anni (Smyke et al. 2007).

Ovviamente, anche i motivi per cui i bambini giungono agli istituti possono contribuire ad esiti diversi e differenti livelli di resilienza. In Romania, ad esempio, la ragione principale dell’abbandono di minori è la povertà (Zeanah et al., 2003), associata a scarse cure prenatali, malnutrizione materna ed esposizione prenatale ad alcol e altre sostanze. Anche in Russia la situazione dell’infanzia è molto difficile: in molte aree del Paese le famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà e il disagio sociale, aggravato spesso da fenomeni come tossicodipendenza ed alcolismo, spesso induce all’abbandono dei figli. La grande maggioranza dei bambini ricoverati, infatti, ha ancora almeno uno dei genitori in vita: essi sono definiti orfani sociali.

Nonostante in molti casi le situazioni istitutive dovrebbero avere breve durata, si calcola che soltanto il 9% dei minori ritorni alle proprie famiglie dopo l’ingresso in un istituto (Smyke et al. 2007). L’adozione può quindi essere considerata una soluzione; tuttavia, l’importanza che riveste tale avvenimento, suggerisce un’analisi più accurata dei fattori protettivi e di rischio che la caratterizzano.

Si presume che un accumulo di fattori di rischio (come la prematura incuria e l’abuso) conduca ad uno sviluppo del bambino meno buono, mentre i fattori protettivi (come una relazione di attaccamento sicuro) possano attenuare gli effetti negativi dei rischi, incrementando la resilienza (Chistolini, 2009).

Le ricerche hanno mostrato come la mancata costruzione di legami preferenziali e l’impossibilità di vivere in un contesto amorevole e prevedibile portino a difficoltà in varie aree dello sviluppo biologico e psico-sociale, che tendono ad aumentare in relazione all’intensità e alla durata della deprivazione. Già all’inizio degli anni Novanta, diversi autori riscontrarono nei primi bambini de-istituzionalizzati alterazioni nel comportamento e nelle relazioni sociali molto simili a quelle dei bambini autistici. A partire da ciò e stato possibile, nel tempo, identificare quella che è stata nominata da Federici (1998) «sindrome autistica post-istituzionale» o anche, da altri autori, «pattern quasi-autistico» (Rutter et al., 1999).

Ciò che permette di differenziare il «pattern quasi-autistico» dei soggetti deprivati dall’autismo riscontrabile nella popolazione normativa è che il primo sembra avere come causa il contesto di profonda deprivazione e non i fattori genetici; perciò, modificando tale contesto disfunzionale per la crescita, sono possibili margini di miglioramento (Hoksbergen et al., 2005).

Le ricerche pubblicate negli ultimi 15 anni hanno riscontrato la presenza di disturbi soprattutto in bambini cresciuti in istituzioni rumene (ritardi cognitivi, gravi disturbi del comportamento sociale e anomalie nel livello di cortisolo, fattore compatibile con elevati livelli di stress) (Smyke et al. 2002; Zeanah, et al. 2005). Nonostante questi risultati, Rutter e colleghi (1999) hanno notato una sorprendente variabilità individuale nel grado in cui lo sviluppo dei bambini sia compromesso dall’esperienza istituzionale ed hanno osservato significativi, se non completi, recuperi nei minori adottati dalla Romania (Rutter, 2007). Secondo quanto riportato da alcuni autori, all’incirca un quarto dei minori istituzionalizzati riesce ad avere un funzionamento normale, anche a seguito di ben due anni d’istituzionalizzazione (Emiliani, 2008).

Molti ricercatori, tra cui Juffer e van Ijzendoorn (2006), hanno sottolineato la significatività di un confronto fra minori abbandonati rimasti in istituto e quelli, invece, accolti in famiglia, affinché si possa verificare l’effettivo grado di efficacia dell’adozione internazionale come alternativa all’istituzionalizzazione.

Bowlby (1982) concluse un capitolo del suo libro con una frase piena di speranza:

Si puo supporre che l’adozione, se avviene in un contesto qualificato, possa offrire al bambino all’incirca le stesse possibilità di avere una vita familiare felice, quasi come se fosse cresciuto nella sua famiglia d’origine.

I Paesi con un’adeguata conoscenza delle cure precoci istituzionali e delle conseguenze che comportano possono promuovere interventi educativi in modo più mirato e consapevole, favorendo un migliore adattamento dei minori alle nuove situazioni di vita.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

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