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SURVEY: Covid-dreams: l’attività onirica al tempo del Coronavirus – Partecipa alla ricerca

Quali effetti la pandemia da COVID-19 e l’isolamento forzato avranno avuto sulle caratteristiche della produzione onirica nella popolazione italiana e sulla qualità del sonno in generale? Aiutaci a scoprirlo!

 

Il periodo che stiamo vivendo, caratterizzato dal diffondersi del Coronavirus, ha comportato enormi cambiamenti nel nostro stile di vita. L’isolamento forzato ha prodotto drastiche modificazioni nelle nostre routine quotidiane, nell’attività lavorativa, nelle relazioni sociali e familiari. Potrebbe aver prodotto delle modificazioni anche sulla nostra attività onirica e, più in generale, sulla qualità del sonno. Il presente studio, avrà la finalità di indagare gli effetti della pandemia da COVID-19 e dell’isolamento forzato sulle caratteristiche della produzione onirica nella popolazione italiana.

Il questionario è anonimo, rivolto a persone maggiorenni, e dovrà essere compilato due volte, ora e quando l’emergenza sarà conclusa. L’indagine prevede la somministrazione di una batteria di test:

  • raccolta di dati anamnestici e relativi ai cambiamenti nelle abitudini quotidiane a seguito dell’inizio della pandemia;
  • il Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI) (Curcio et al., 2013), impiegato per distinguere buoni e cattivi dormitori, comprensivo di un addendum specifico per esperienze traumatiche (PSQI-A, Germain et al., 2005);
  • il Beck Depression Inventory (BDI) (Beck et al., 1996) impiegato per valutare la presenza di sintomi depressivi;
  • lo State-Trait Anxiety Index (STAI) (Spielberger et al., 1983) impiegato per valutare la presenza di ansia di stato e di tratto;
  • un adattamento del Typical Dreams Questionnaire (Nielsen et al., 2003), impiegato per identificare i diversi temi caratterizzanti i contenuti onirici;
  • una serie di domande atte a valutare i cambiamenti autopercepiti nella quantità (numero dei sogni) e qualità (vividezza, bizzarria, intensità emotiva, lunghezza) dell’attività onirica;
  • resoconto scritto, opzionale, dell’ultimo sogno ricordato.

 

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La rete che aiuta il terapeuta: l’importanza della supervisione in un caso di psicoterapia

Quando diciamo ai pazienti che dobbiamo imparare a stare anche con la sofferenza e accettare che non sempre possiamo essere efficaci, dobbiamo ricordarci che questo vale anche per noi.

Mazzieri Elena – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Eccoci, finalmente è arrivato il momento di mettersi in gioco per davvero! Sono anni che mi esercito, che studio, che mi preparo per questo giorno, per questo momento, ed ora ci siamo! Finalmente arriva il primo paziente! Che emozione…

Certo, non è la prima volta in assoluto che seguo un paziente. Negli anni di formazione, durante il tirocinio, ne ho viste di cotte e di crude, ma il contesto era completamente diverso. Alle mie spalle c’è sempre stata la tutor, pronta ad aiutarmi nei momenti di difficoltà e a porre rimedi a miei eventuali errori. Ma ora è tempo di uscire dalla propria zona comfort e sperimentarsi in un contesto diverso. E così, un po’ per caso, un po’ per fortuna, sono stata contattata dalla prima paziente da seguire in privato.

Mi sono sentita come quando, da bambina, per la prima volta ho pedalato senza le rotelline. Mi sono sentita “grande” e, allo stesso tempo, spaventatissima. Mentre pedalavo cercavo con lo sguardo mio padre, sperando che fosse pronto a prendermi al volo, ma piano piano aumentava la consapevolezza che ormai era un po’ troppo lontano e, se fossi caduta, l’unica cosa pronta ad accogliermi sarebbe stato l’asfalto. Certo, non piacevole, ma come si dice dalle mie parti, “più giù di per terra non si va”, e quindi mi sono fatta coraggio e mi sono buttata in questa nuova impresa.

Quando Laura, nome di fantasia, ha suonato al campanello del mio studio, il cuore mi batteva a più non posso e a stento sono riuscita a non far tremare le mani. Poi ci siamo sedute, abbiamo iniziato a parlare e tutta la tensione è sparita. Mi sono calata nel ruolo di Psicoterapeuta e ho portato a termine il primo colloquio.

Laura ha all’incirca la mia età, ma questa non è la sola cosa che abbiamo in comune. Entrambe facciamo lo stesso lavoro, e non parlo di psicologia. Durante gli anni di specializzazione, per sbarcare il lunario in qualche modo, ho lavorato come educatrice presso una cooperativa sociale. Ed anche Laura è un’educatrice. La cooperativa non è la stessa, ma le dinamiche sono praticamente identiche, anche perché viviamo in due paesini molto vicini tra loro e, anche per questo, molto simili.

Mi sono resa conto sin da subito di quante fossero le cose che abbiamo in comune. A dirla tutta pensavo che ci avessero aiutato nell’instaurare una buona relazione terapeutica. E forse così è stato. Certo, ammetto che talvolta alcune situazioni da lei raccontate mi abbiano attivato più di quanto non avessi voluto, ma inizialmente sono riuscita ad avere ben presenti quali pezzi fossero del paziente e quali fossero miei.

Poi però gli eventi di vita si sono messi di mezzo. Non entrerò nei dettagli, ma basti sapere che durante uno dei vari servizi che svolgo per la cooperativa ho subito un infortunio e per me è stato un momento piuttosto faticoso. Forse avrei dovuto prendermi un periodo di pausa, ma ostinata e testarda ho pensato, sbagliando, che sarei riuscita a gestire tutto. Mannaggia alla sindrome da Wonder Woman!

Arriva il momento della seduta settimanale con Laura ed iniziamo a parlare. Anche per lei questo è un momento difficile ed un ruolo importante lo gioca proprio il lavoro. Facciamo gli ABC e, scendendo in laddering, mi rendo conto che molto dei suoi pensieri disfunzionali erano anche i miei. E come faccio a disputare pensieri che io stessa non riesco a mettere in discussione? Cercavo di essere razionale, ma non riuscivo a trovare le parole per convincere lei, ma soprattutto me stessa, che quei pensieri ci facevano fare soltanto più fatica e che, continuare a rimuginare in quel modo, non ci avrebbe affatto aiutato.

Ed è in quel momento che mi rendo conto di quanto fossimo effettivamente simili, anche fisicamente. Entrambe piuttosto alte, piuttosto magre, con un taglio di capelli molto simile, vestiamo anche in modo simile. Cavoli… quante erano le probabilità che la prima paziente, quella per uscire dalla zona comfort, fosse proprio un mio doppione? Ci piacciono anche le stesse serie TV!

Realizzare questo mi ha mandato estremamente in confusione. Per la mente mi è passato di tutto… “Anche lei subirà il mio stesso infortunio”, “mi starò davvero sintonizzando con la paziente o quello che sento in realtà è un pezzo mio e non suo?”, “avrei proprio dovuto fermarmi, ero così preoccupata dall’idea di darle buca e di essere l’ennesima persona che non l’ascolta e non la vede che rischio di fare un casino”, e così via, giù di giudizi, autoinsulti, rabbia, tristezza, colpa, rimuginii (esattamente come fa lei, ci tengo a sottolinearlo).

In una fase di vita in cui sono stata sopraffatta dagli eventi, trovarsi davanti il proprio doppione altrettanto sopraffatto per motivi simili mi ha fatto sentire fortemente inadeguata. Che razza di terapeuta è quello che non è in grado di gestirsi e di essere di aiuto alla paziente? Certo, ogni paziente attiva qualcosa nel terapeuta di personale, ma a tutto questo non ero preparata. Nella mia breve esperienza di psicologa in erba ho fatto qualche pasticcio, ma nel contesto di tirocinio mi sentivo sicura ed in qualche modo ero sempre riuscita a rimediare, grazie anche all’aiuto della tutor. Ero preparata all’eventualità di non poter essere efficace, ma non così presto e non con un caso che sento così vicino.

E già, perché in tutto questo dobbiamo aggiungere che Laura la sento proprio molto vicina e tengo molto a lei. È una paziente ideale, ti segue ed ha grandi capacità introspettive. Sebbene stia attraversando un momento difficile non si perde d’animo e fa di tutto per cercare di uscirne, anche troppo… non per niente rimugina, rimugina, rimugina, rimugina…. Sin dalla prima seduta mi sono accorta che non si trattava di un semplice disturbo da attacchi di panico. Laura ha una personalità variegata, un passato faticoso e una forza e una volontà che lei stessa non riconosce di avere.

Con quel lato narcisistico misto allo spirito da crocerossina che noi tutti psicologi abbiamo, pensavo di poterle essere davvero di aiuto. Purtroppo però le mie sicurezze stavano iniziando a vacillare.

Avrei dovuto inviarla?

Dobbiamo dirla tutta. In realtà io non ero preparata all’eventualità di dover inviare Laura ad un altro psicoterapeuta. Mi ero resa conto di essere entrata con tutte le scarpe nel ciclo di allarme e di aver compiuto dei passi metodologicamente sbagliati, e proprio per questo ho chiesto aiuto alle didatte per capire come muovermi.

Come si vede l’esperienza!! È bastata un’occhiata che subito mi hanno detto di fermarmi e di riflettere su quanto stavo facendo e che, ovviamente, avrei prima dovuto lavorare su di me per superare il mio momento difficile. Certo, ora dico ovviamente, in quel momento proprio ovvio non era… Per dirla in termini LIBET: ho attivato il mio bel piano immunizzante e mi sono messa a fare per non sentire (ridondante dirlo, esattamente come fa Laura!).

Questa bellissima verità, schiaffata davanti agli occhi, è stata come una doccia gelata. Non ero pronta all’eventualità di fermarmi, non volevo sentirla. Troppo presa dai miei drammi lavorativi, non mi ero resa conto che il vero dramma me lo stavo scrivendo da sola nella professione per cui tanto ho investito ed alla quale tengo moltissimo.

“Ok Elena – mi sono detta – dobbiamo guardare in faccia la realtà. Cosa stai facendo?”.

Sono sempre stata molto riconoscente verso i miei docenti, ma in questo momento più che in altri. Ho capito che la prima e più importante cosa da fare era chiedere una supervisione. Un occhio esterno, molto più esperto di me, mi avrebbe potuto aiutare a chiarire le idee.

Non tanto sulla paziente in sé, lei l’avevo ben chiara in mente, e altrettanto chiari avevo le varie tecniche e protocolli che avremmo potuto usare. Ma tutto questo non serve proprio a niente se prima non usciamo dal ciclo di allarme e non smettiamo di usare il fare per non sentire. Ma se io stessa non credo alle mie dispute, come può crederci il paziente?

Quando diciamo ai pazienti che dobbiamo imparare a stare anche con la sofferenza e accettare che non sempre possiamo essere efficaci, dobbiamo ricordarci che questo vale anche per noi. Grazie alla supervisione orientata ai processi, cioè quella indirizzata a chiedersi “come sto con il paziente”, “cosa sto facendo di problematico?”, “qual è il disagio che ho avuto durante le sedute”, mi sono resa conto che, quando sono particolarmente attivata emotivamente e quando si tratta di temi a me così vicini (e dolorosi), non è affatto semplice mettersi in discussione. Quanto accetto che mi venga detto che quell’atto clinico, quelle emozioni con quel paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare? Beh, di fronte all’ipotesi che mi è stata posta di abbandonare il paziente, mi sono sentita spaesata, confusa e decisamente non pronta ad accettare questa eventualità.

Ho dovuto dormirci sopra la notte prima di capire che quelle parole erano ben più che sensate e che avrei dovuto fare qualcosa al riguardo.

Mi è tornato in mente un professore all’università, che diceva che, per inoltrarci nel paziente, dobbiamo sempre avere una rete di sicurezza pronta a tirarci fuori, altrimenti rischiamo di restare nella pancia della balena. E la rete di sicurezza sono proprio i colleghi e le supervisioni. Non si capisce il senso di queste parole finché non ci si addentra nella pancia della balena, finché non ci sentiamo un po’ Giona, soli e al buio, dentro qualcosa che non conosciamo e che ci spaventa un po’. Che la balena rappresentasse il dolore mi era chiaro, ma che il dolore fosse tanto del paziente quanto nostro non lo avevo capito fino in fondo.

La supervisione è fondamentale per comprendere il paziente, per capire se ci siamo persi qualcosa, se abbiamo fatto degli errori tecnici, certo, ma la supervisione è ancora più importante per farci uscire dalla balena e farci vedere chiaramente che in fondo quello è un animale immenso, maestoso ma quasi innocuo, che si nutre di plancton e che non attacca l’uomo. Soltanto uno sguardo esterno ci può aiutare a capire questo, perché certe volte, quando abbiamo la testa sott’acqua, non ci accorgiamo di quanto siamo in profondità. Sentendoci soffocare, non ci rendiamo conto che basterebbe appoggiare i piedi e sollevare la testa per poter respirare di nuovo.

Attualmente la terapia con Laura sta continuando. Ci siamo prese del tempo per “non fare” e per stare con le nostre emozioni dolorose. Le nostre somiglianze sono diventate punti di forza nell’alleanza terapeutica e insieme stiamo facendo qualche passo avanti. E tutto questo è stato possibile solo grazie alle supervisioni e al supporto dei colleghi.

Una cosa è certa… io la mia rete di sicurezza non la mollo!

 

Realtà Virtuale e Schizofrenia

L’immersività della RV rende questa tecnologia un ottimo ausilio per la valutazione delle funzioni cognitive e sociali anche in persone con patologie come la schizofrenia.

 

Probabilmente tutti ormai abbiamo sentito parlare di Realtà Virtuale (RV), un mondo digitale che sta suscitando sempre maggior interesse ed entusiasmo di clinici e ricercatori. Vediamo brevemente cos’è e come funziona.

La RV è un ambiente simulato 3D con il quale il soggetto può interagire mediante l’ausilio di particolari sistemi di “input” (sensori di posizione e/o guanti/ tuta dotati di sensori) e “output”(casco con monitor LCD), integrati ed aggiornati da un computer, che costruisce e restituisce in tempo reale immagini e suoni dello scenario in cui l’utente è immerso.

La RV prevede una vasta gamma di applicazioni: dall’architettura ai videogiochi, dalla medicina all’arte, dalla psicologia allo sport.

Essendo lo scenario di RV una simulazione realistica di un ambiente verosimile e, allo stesso tempo sicuro e controllato dal clinico in un setting laboratoriale, consente di minimizzare i costi e i pericoli legati a situazioni che potrebbero essere potenzialmente pericolose nell’esperienza sul campo (o esperienza in vivo). Inoltre, dato l’elevato livello di coinvolgimento, di interazione e di partecipazione sembra promuovere la motivazione del paziente al trattamento (Baker Ek. et al., 2006).

Per questi motivi l’applicazione di tale tecnologia, nell’ambito della psicologia clinica, risulta essere un valido strumento di supporto alla psicoterapia cognitivo comportamentale.

L’esposizione in RV risulta essere efficace nella ricerca scientifica, nell’individuazione e nel trattamento di disturbi alimentari e disturbi d’ansia (G. Riva, 2005).

Nonostante la mole di ricerche evidenzi l’efficacia dell’applicazione delle tecnologie immersive a queste tipologie di disturbi, soltanto di recente sono emersi risultati sorprendenti nell’ambito della schizofrenia.

Il DSM-5 (APA, 2013) la definisce un disturbo psicotico cronico caratterizzato da sintomi positivi (deliri, allucinazioni, pensiero disorganizzato e agitazione) e negativi (affettività coartata, povertà di pensiero, isolamento sociale, appiattimento emotivo, apatia e anedonia) che causano una forte compromissione sul piano personale e sociale. Inoltre, la compromissione della sfera cognitiva rappresenta una caratteristica centrale della schizofrenia.

La ricerca

Secondo una review pubblicata nel 2010 (La Barbera D. et al., 2010) la ricerca, con l’ausilio di RV si è occupata principalmente di:

  • individuare le caratteristiche specifiche del pensiero paranoideo (Freeman D et al., 2003)
  • implementare la conoscenza delle esperienze allucinatorie e dei loro correlati psicologici e neurofisiologici (Deegan PE., 1996).

Daniel Freeman (che sarà ospite al Digital Perspectives in Psychology 2021), professore in psicologia clinica e ricercatore presso l’università di Oxford, ha dedicato gran parte delle sue ricerche alla conoscenza ed al trattamento della paranoia. Assieme al suo gruppo di ricerca, ha valutato i fattori potenzialmente predittivi dei sintomi paranoici, esponendo un gruppo di ben 200 soggetti non clinici ad ambienti virtuali neutri (2008). I setting virtuali, una simulazione della metropolitana di Londra e una comune biblioteca, erano popolati da avatar creati per essere il più neutrali possibile. Gli avatar, si spostavano in modo random nell’ambiente e mostravano una mimica facciale neutra, mai chiaramente amichevole oppure ostile. Di tutti i soggetti, precedentemente sottoposti ad una serie di valutazioni psicologiche sulla “predisposizione alla paranoia”, solo una piccola porzione dichiarava pensieri e stati d’animo persecutori connessi all’esperienza. Tali vissuti risultavano essere predetti statisticamente da costrutti precedentemente misurati quali: ansia, preoccupazione, anomalie percettive e rigidità cognitiva.

Banks ed il suo gruppo di ricerca (2004), invece, aiutati da un gruppo di pazienti affetti da schizofrenia, hanno creato delle vere e proprie esperienze allucinatorie in laboratorio, con l’obiettivo di misurarne i correlati neurofisiologici e psicologici. Avvalendosi della RV, i ricercatori hanno esposto soggetti sani a stimoli audio-visivi ascrivibili quasi perfettamente alle comuni allucinazioni esperite da soggetti psicotici. Le esperienze, che consistevano in suoni o voci, all’apparizione di parole come “morte” intermittentemente tra i titoli di un giornale o la visione della Vergine Maria, sembravano attivare particolari aree del cervello ed indurre specifiche risposte emotive. I risultati delle misurazioni con Risonanza Magnetica funzionale, indicavano un incremento del lavoro della corteccia secondaria uditiva nel planum secondario sinistro. Inoltre i soggetti sembravano esperire una notevole attivazione emotiva quando erano esposti ad allucinazioni uditive con contenuto semantico accusatorio. Da ciò constatarono, quindi, che è proprio il significato più che la frequenza, il volume o la durata delle allucinazioni, ad indurre vissuti sgradevoli.

Valutazione delle funzioni cognitive

L’immersività della RV, rende questa tecnologia anche un ottimo ausilio per la valutazione delle funzioni cognitive e sociali. Molti strumenti valutativi, che tradizionalmente consistevano nella somministrazione di test o nell’osservazione in ambiente naturale trovano, ad oggi, con la RV una incredibile svolta in termini di costi ed efficacia.

Tra il 2003 ed il 2006, diversi gruppi di ricerca hanno proposto versioni in RV di alcuni test neuropsicologici (Ku J. et al., 2003; Ku J. et al., 2004; Sorkin A. et al., 2005; Sorkin A. et al., 2006).

Sorkin e colleghi (2006), hanno dimostrato, tramite l’immersione di pazienti schizofrenici in un ambiente virtuale ispirato al Wisconsin Card Sorting Test (Heaton R.K. et al., 2000), l’efficacia di tale tecnologia nella misurazione delle funzioni frontali. Il compito del soggetto era superare un labirinto attraversando una serie di porte distinte per colore, forma e suono. I dati prodotti dallo spostamento del soggetto, producevano misurazioni incredibilmente accurate in termini di abilità di ragionamento astratto e di strategie cognitive.

Attraverso compiti di incoerenza percettiva, invece, lo stesso gruppo di ricerca (2008), ne ha valutato l’esame di realtà. Questi tasks consistevano nel riconoscimento di anomalie di tipo percettivo quali, ad esempio, un gatto che abbaia o un albero con le foglie blu. Quasi il 90% dei pazienti aveva punteggi molto bassi in questi compiti, redendo tale indice caratteristico del disturbo ed il test un ottimo strumento di screening psicodiagnostico.

Nel 2006 quello che all’origine era un test atto a misurare la memoria spaziale e le capacità di apprendimento nei topi ha ampliato il target d’utenza agli umani, attraverso una versione virtuale, che in un ambiente tradizionale di laboratorio sarebbe stata difficile da realizzare (Hanlon FM. et al., 2006). Il soggetto viene immerso virtualmente in una piscina di acqua opaca, proprio come accadeva per il topo, col compito di individuare e salire su una pedana. Questa prima prova viene poi ripetuta con un livello di acqua maggiore, tale da nasconderla. Nonostante l’impiego di punti di riferimento ambientali, come l’esaminatore virtuale o oggetti posti oltre i bordi della piscina, i soggetti schizofrenici impiegavano più tempo rispetto ai soggetti sani ad individuare la pedana.

Valutazione del funzionamento sociale

Oltre all’applicazione della RV nella valutazione delle funzioni cognitive, gli ambienti virtuali sociali sono utili a comprendere il funzionamento sociale dell’individuo e le sue modalità di relazionarsi agli altri. Per valutare ciò, Ku J. e il suo gruppo di ricerca (2007) chiesero ad un gruppo di pazienti affetti da schizofrenia, di interagire virtualmente con degli avatar. Questo esperimento ha prodotto interessanti risultati rispetto alla relazione tra i fattori sociali ed i sintomi negativi della schizofrenia. Si è evidenziato come pazienti con una maggior compromissione in termini di sintomi negativi, tendessero a tenere maggior distanza interpersonale durante le interazioni. Tale indice, emerso attraverso l’uso di tecnologie immersive, evidenzia un’ulteriore peculiarità della malattia, non altrimenti così facilmente identificabile attraverso altri mezzi.

Riabilitazione sociale

Al fine di migliorare il funzionamento sociale dei soggetti affetti da schizofrenia, la RV è entrata a far parte dei programmi di social skill training. Comparando i protocolli standard di role playing con le simulazioni di situazioni sociali virtuali, queste ultime hanno dimostrato prove di efficacia di gran lunga maggiori, in particolare nelle abilità sociali generali e capacità di conversazione (Ku J. et al., 2007).

Riabilitazione cognitiva

Ad oggi non esiste un gran numero di protocolli di riabilitazione cognitiva in RV. Un protocollo ideato in Brasile da Costa e Carvalho (2004) sembra essere efficace nella riabilitazione cognitiva di diversi disturbi come con pazienti cerebrolesi. I due ricercatori hanno creato uno spazio virtuale chiamato “Integrated Virtual for Cognitive Rehabilitation” (AVIRC), ossia una città costituita da una piazza, delle case, una libreria, una chiesa ed un supermercato. Lo scopo dei ricercatori era mettere in condizione l’utente di allenarsi in presenza di tipiche situazioni della vita quotidiana. Alcuni dei compiti che l’utente doveva portare a termine erano: rispondere a domande dei passanti rispetto a orario e data, interagire con oggetti comuni quali radio o lampade, comporre numeri telefonici precedentemente memorizzati o riconoscere volti dei passanti.

Inoltre, la RV, ha trovato impiego anche nel miglioramento della compliance e della capacità di gestione della terapia farmacologica, altro problema collegato al decadimento delle capacità intellettive dei soggetti con schizofrenia. Alcuni ricercatori americani (Kurtz MM. et al., 2007) hanno ricreato virtualmente un appartamento, dotato di varie stanze, all’interno del quale il paziente veniva allenato ad assumere correttamente la terapia farmacologica in termini di dosaggio e tempistiche, con l’aiuto di ausili ambientali esterni come l’orologio da parete o post-it. L’impiego di tale tecnologia è risultato efficacie sia nell’individuazione di problematiche relative all’autogestione della terapia che nella sua implementazione.

RV e Stigma

La schizofrenia è la follia per l’immaginario collettivo. Per sua natura l’esperienza schizofrenica è comunemente pensata come qualcosa di inconoscibile, misterioso e terrificante. È per questo che la gravità dello stigma che affligge le persone con tale patologia non è equiparabile a nessun’altra condizione psichiatrica o medica. È possibile però, attraverso laboratori di simulazione dell’esperienza allucinatoria, immergersi nella quotidianità di queste persone per qualche minuto e vivere un’esperienza che ha volutamente l’obiettivo di sensibilizzare a tali condizioni. Yellowlees e colleghi (2006) hanno proprio lavorato per questo rendendo fruibile tale esperienza su una gigantesca piattaforma digitale prodotta dalla società Americana Linden Lab, chiamata “Second Life”.

L’esperienza consisteva nella simulazione di una serie di esperienze allucinatorie e deliranti in ambienti di vita quotidiana e si concludeva con l’entrata in scena di un avatar con fattezze amichevoli, evocativo del messaggio di fondo dell’esperienza stessa cioè la sensibilizzazione al supporto sociale.

In conclusione, le evidenze scientifiche prese in considerazione vedono la RV volta prettamente a pazienti a rischio di psicosi e privi di sintomi positivi attuali. Si è visto come attraverso la riproduzione fittizia di contesti e situazioni di vita reale, è possibile non solo ottenere una valutazione attendibile delle principali funzioni cognitive, facilitare la valutazione di quelli che sono i sintomi psicopatologici dell’ansia sociale o dell’ideazione persecutoria, ma anche diminuire lo stigma e sensibilizzare rispetto all’esperienza schizofrenica.

Nonostante la letteratura scientifica evidenzi che alcuni soggetti (persone affette da gravi patologie cardiache, da epilessia, tossicodipendenti, e con problematiche riguardanti la percezione della realtà) manifestino reazioni molto intense agli ambienti simulati (Wiederhold B. et al., 2003), le possibilità di applicazione di questo strumento ed i possibili sviluppi futuri sono inevitabilmente interessanti.

Dunque estendere la ricerca in questo campo sembra essere ad oggi un obiettivo di estremo interesse, attualità e fondamentale per il futuro.

 

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Bambini e Adolescenti confinati in casa. Come prevenire i rischi psico-fisici?

Parlando di bambini e adolescenti, l’adattamento alla situazione attuale legata al covid-19 e la conseguente reazione sono strettamente connessi al contesto familiare e quindi a vissuti e modalità impiegate dagli adulti di riferimento. Questi, in quarantena, rappresentano la risorsa più vicina.

 

 In risposta alla pandemia da coronavirus (COVID-19) il governo italiano ha ordinato la chiusura delle scuole a livello nazionale allo scopo di limitarne la diffusione. Questo radicale cambiamento della quotidianità, i limiti imposti e l’incertezza riguardo al presente e al futuro hanno generato un forte disorientamento in ogni soggetto, dal più grande al piccolo. Ma fermiamoci a riflettere sui vissuti di bambini e adolescenti.

Sono circa 8 milioni gli studenti che dai banchi di scuola si sono ritrovati di colpo confinati nelle loro case. La misura straordinaria ha costretto alla ricerca di un’alternativa alla frequenza scolastica, optando per una didattica a distanza, in cui mezzi telematici da computer a tablet a connessioni internet sono le principali risorse. Non è stato e non è tuttora semplice interfacciarsi con una realtà così diversa. Videochiamate, meeting, messaggi non bastano per parlare di “scuola”. Ogni giorno si apprezza e si riconosce la preziosità della tecnologia, si imparano nuove cose e ci si riconosce capaci di fare qualcosa che sembrava così difficile. Ma come è stare dietro ad un schermo? Non poter abbracciare un compagno, guardarlo negli occhi, giocare, chiacchierare con lui, condividere le proprie giornate con quella classe che oramai è una famiglia. Nonostante si cerchi di garantire il diritto all’istruzione, sostenendo le famiglie, garantendo uguali diritti anche ai più deboli, andando incontro ai bisogni dei singoli studenti garantendone l’integrazione, la prolungata chiusura scolastica, l’isolamento nelle mura domestiche e la limitata socializzazione con i coetanei potrebbe avere importanti conseguenze negative sulla salute psicofisica di bambini e adolescenti.

Sono numerosi i fattori di stress in gioco:

  • tempi lunghi
  • paure connesse al virus e alla possibilità di infezione
  • continue informazioni, spesso inadeguate e forte allarmismo
  • mancanza di contatti sociali con compagni, amici e insegnati
  • assenza di spazio personale in casa
  • difficoltà economiche familiari
  • stati d’animo negativi

L’impatto del COVID-19, tuttavia, non è uniforme tra le varie famiglie e il contrasto è spesso netto. Alcune hanno perso i propri cari e vivono l’infezione molto da vicino, altre si trovano in regioni con una minore diffusione. Alcuni bambini hanno genitori che svolgono un lavoro in prima linea con i contesti COVID-19, altri hanno sospeso il lavoro o lavorano in casa. Il filo comune che attraversa ogni casa, ogni famiglia, è sicuramente un vissuto ricco di paura ma ciò che è ritenuto di fondamentale importanza, soprattutto quando parliamo dei più piccoli, è il vivere il proprio ambiente familiare come confortante.

La comunità scientifica riconosce tra i rischi maggiori, la possibilità di sviluppare varie psicopatologie: disturbi d’ansia, depressione, ossessioni, fobie, psicosi, disturbi alimentari, disturbi del sonno e disturbi post-traumatici. Parliamo di reazioni da parte del corpo e della mente in risposta ad una situazione particolarmente difficile. Ad entrare in gioco sono numerosi fattori, dalla vulnerabilità personale al contesto di vita, considerando la realtà individuale prima del virus. E’ chiaro che, la stessa situazione può avere un significato differente per il singolo individuo, perciò è necessario tener conto dell’elaborazione soggettiva operata da ognuno. Il momento attuale, non è altro che un fattore di invalidazione, ossia una situazione stressante che espone la persona ad una minaccia. Hans Seley, medico austriaco, ha descritto come l’organismo reagisce agli eventi stressanti, parlando di Sindrome generale di adattamento. A tal proposito, è possibile distinguere tre fasi:

  • una prima fase di allarme con l’attivazione del sistema nervoso autonomo
  • una seconda fase di resistenza, caratterizzata da adattamento allo stress
  • una terza fase di esaurimento nel caso in cui lo stress permanga e l’organismo non metta in atto risposte adeguate per fronteggiarlo.

In questa situazione di emergenza ogni soggetto avrà attraversato allo stesso modo la prima fase di carattere fisiologico mentre le successive risposte emotive e comportamentali dipendono da percezione e immaginazione individuale. Ad assumere un ruolo centrale è il significato che la persona attribuisce all’evento e quindi i pensieri con cui si ritrova a fare i conti.

Parlando di bambini e adolescenti, l’adattamento e la conseguente reazione sono strettamente connessi al contesto familiare e quindi a vissuti e modalità impiegate dagli adulti di riferimento.

Questi, in quarantena, rappresentano la risorsa più vicina.

Tra i fattori che hanno un forte impatto sulla salute psicofisica di bambini e ragazzi, vi è in prima linea l’assenza di una routine quotidiana che contribuisce ad aumento del tempo libero, maggiore sedentarietà, spostamento dei ritmi sonno-veglia, isolamento sociale e alimentazione disordinata.

Ne conseguono nuove abitudini poco salutari che a lungo termine possono avere effetti dannosi.

Cosa fare?

Evitare tutto ciò partendo con un’accurata informazione.

Mantenere le giornate strutturate organizzando attività che possano riempire la quotidianità. Ciò non significa essere rigidi ma dare ordine e diffondere uno stato di sicurezza almeno in quella che è la propria zona confort.

Tra queste prediligere attività che tengono a bada lo stress e che permettono l’emergere del cocktail emotivo associato all’attuale situazione di emergenza da COVID-19.

Al primo posto troviamo l’espressione artistica e creativa grazie alla quale bambini e ragazzi riescono a dare significato alla confusione e alla paura.

Arte e gioco rappresentano modalità per connettersi attraverso simboli e metafore permettendo loro di prendere il controllo del loro ambiente caotico.

Creatività e immaginazione, tipiche dei più piccoli, hanno un ruolo preziosissimo: permettono l’espressione di ciò che è più difficile, sono la chiave d’accesso al loro mondo così spontaneo e ingenuo.

Di seguito riporto le parole di M. un bambino di 10 anni con diagnosi di ritardo cognitivo durante una video lezione nel periodo di quarantena. Di fronte a semplici domande, nonostante si trovasse dietro allo schermo con la sua educatrice, riesce a dire quello che prova attraverso il gioco, parlando di emozioni, del dolore e la fatica connessi all’emergenza. Un esempio di libera espressione.

Mi viene da urlare: ‘basta corona virus!’. Mi mancano i miei amici. Mi sento nervoso, ho la rabbia nella pancia che si lamenta e anche lei dice: ‘basta corona virus, stai zitto!’
Vorrei combattere con questo mostro verde e brutto, mi servirebbe una spada magica che trasforma il mostro in un coniglio buono.
Con un’esplosione vorrei distruggere questo virus, proprio come fa lady bug con il suo yo-yo
che trasforma un’acuma cattiva in un’acuma buona. Così la mia rabbia si trasformerebbe anche lei in felicita’.
Felicita’ nel cuore che mi farebbe saltare in alto come un simpatico canguro e arrivare fino alle mie maestre, alle nonne e ai miei amici per riabbracciare tutti.
Ma il posto che raggiungerei prima di tutti è il mare per nuotare libero nell’acqua azzurra.
Il virus diventato un coniglio buono e goloso di carotine, guarisce tutti quando si trasforma in un dottore speciale.

A ciò segue, l’importanza del movimento. Fare sport o semplicemente giocare dinamicamente, oltre a favorire la crescita cognitiva, emotiva e sociale, è utile a modulare le emozioni, a combattere lo stress, a scaricare le tensioni accumulate aumentando le energie e uno stato generale di benessere.

Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della sanità indicano raccomandazioni differenziate per ogni fasce d’età, secondo tempi e modalità distinte.

In questo periodo, giochi o attività di movimento svolti in casa, possono avere un duplice beneficio: essere un modo per esprimere emozioni più o meno spiacevoli e allo stesso tempo contribuire positivamente alla propria salute psico-fisica.

La combinazione tra libertà di espressione, movimento, ascolto, attenzione e valorizzazione sono punti fondamentali nella relazione genitori-figli. Inoltre, condividere la situazione di emergenza presuppone un confronto intimo, un’opportunità nella relazione. Il tempo a disposizione, gli spazi a volte troppo ristretti “costringono a stare insieme”. Quanto questo può unire o dall’altra parte separare?

L’adulto in tutto ciò, mettendo a disposizione un modello sano, senza riversare le sue angosce, senza soffocare emozioni e l’espressione della propria identità, funge da fattore protettivo in questa situazione d’incertezza.

Per mitigare le conseguenze del confinamento domestico, il governo, le organizzazioni non governative (ONG), la comunità, la scuola e i genitori devono essere consapevoli del lato negativo della situazione e fare di più per affrontare immediatamente le difficoltà. Le esperienze apprese dai precedenti focolai possono essere utili per la progettazione di un nuovo programma per affrontare le problematiche.

Ritrovandosi oggi in quella che è definita “la seconda fase”, si iniziano a fare progetti futuri, a fantasticare sulla realizzazione di desideri emersi durante la quarantena proprio per l’impossibilità di poter fare ciò che prima d’ora era spesso considerato ‘scontato’. Non bisogna però escludere la presenza di vissuti di paura all’idea di uscire dall’uscio di casa. In questa fase, ancora ricca di incertezza e timori sarebbe auspicabile fare piccoli passi verso il ritorno di una vita senza la pandemia. Prepararsi alle nuove disposizioni che dopo l’estate hanno come obiettivo quello di un graduale rientro a scuola e a tutte quelle attività che appartengono alla quotidianità di ognuno.

In attesa che esca il sole, attuando le varie strategie d’azione più adeguate, ci si ripara da questa pioggia sottile e pungente.

 

Intimate touch: l’importanza del tocco del partner nelle relazioni sentimentali

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Social and Personal Relationships ha indagato l’importanza all’interno delle relazioni sentimentali dell’intimate touch (letteralmente “tocco intimo”, tutto ciò che riguarda il contatto fisico non visto come approccio sessuale) correlato con lo stile di attaccamento adulto (Wagner et al., 2020). 

 

L’intimate touch, costituisce un aspetto fondamentale all’interno delle relazioni intime (Brennan, Wu, & Love, 1998). Nonostante vi sia una gran mole di ricerche su come il contatto fisico influenzi i rapporti intimi fin dalla nascita (basti pensare alla relazione genitore-figlio; Ainsworth & Bell, 1969), il suo impatto all’interno delle relazioni sentimentali non è mai stato adeguatamente indagato.

Alcune ricerche mostrano una correlazione positiva tra intimate touch e soddisfazione relazionale (Gulledge et al., 2003), alcune il suo impatto nel migliorare gli stati d’animo nei partner (Sbarra & Hazan, 2008). Nonostante questo, non tutti sono soddisfatti, all’interno delle loro relazioni, dell’intimate touch del proprio partner (McNulty et al., 2016).

Sebbene i fattori che determinano la soddisfazione dell’intimate touch non siano ancora del tutto chiari, alcuni studiosi tendono a metterlo in correlazione con lo stile di attaccamento adulto della coppia (Ozolins & Sandberg, 2009). Infatti, valutare lo stile di attaccamento dell’individuo può aiutare a comprendere il motivo per il quale alcune persone cercano una maggior frequenza di intimate touch rispetto ad altre (Debrot et al., 2013), necessitando, per esempio, di più carezze e abbracci.

Gli autori del presente studio (Wagner et al., 2020) si sono posti l’obiettivo di comprendere come la soddisfazione rispetto all’intimate touch del proprio partner all’interno del matrimonio si associ agli stili di attaccamento nell’età adulta. Tra le ipotesi della ricerca, troviamo l’idea che un attaccamento insicuro porti a una minor soddisfazione per le manifestazioni di affetto del partner e, di conseguenza, per l’intimate touch e che individui con attaccamento ansioso siano più tendenti a interpretare in maniera catastrofica la mancanza di gesti di affetto quotidiani, e quelli con uno stile di attaccamento evitante preferiscano una maggior distanza interpersonale; infine, gli autori hanno ipotizzato che una minor soddisfazione verso l’intimate touch causi minor soddisfazione relazionale in generale e una valutazione negativa del matrimonio.

Il campione dello studio era composto da 180 coppie eterosessuali sposate e ognuno dei partecipanti ha dovuto completare un’intervista self-report online.

I risultati hanno mostrato che mariti con uno stile di attaccamento ansioso erano tendenzialmente meno soddisfatti dell’intimate touch; inoltre, un minor numero di dimostrazioni di affetto quotidiano causava una minor soddisfazione verso l’intimate touch anche nelle coppie che non mostravano stili di attaccamento ansioso o evitante. Tuttavia, nel campione femminile che mostrava un attaccamento maggiormente evitante, questo effetto appariva moderato; lo stesso campione femminile evitante causava nei mariti una minor soddisfazione riguardo al contatto fisico e alle dimostrazioni di affetto. Per quanto riguarda la correlazione tra intimate touch e soddisfazione relazionale, le ipotesi iniziali sono state confermate: i due costrutti mostravano una correlazione positiva statisticamente significativa (Wagner et al., 2020).

In conclusione, questo studio dimostra come il contatto fisico, anche se non a scopo sessuale, sia di fondamentale importanza all’interno delle relazioni, specialmente quando lo stile di attaccamento dei due partner può intaccare negativamente la capacità di dimostrare affetto all’altro, diminuendo così la soddisfazione generale della coppia.

Coronavirus Anxiety Scale (CAS) versione italiana: i risultati

Un’indagine volta a profilare una prima fotografia delle condizioni psicofisiologiche degli Italiani all’uscita dalla “fase 1” dell’emergenza, promossa dal gruppo di ricerca indipendente Brainfactor Research.

 

All’indagine vi hanno partecipato 130 soggetti in tutta Italia, compilando un agile questionario online relativo allo stato di salute nelle ultime due settimane.

Il questionario utilizzato è la versione italiana (curata da Marco Mozzoni e Elena Franzot) della Coronavirus Anxiety Scale (CAS), il primo test di screening per “ansia disfunzionale associata alla crisi Covid-19”,  messo a punto recentemente dal Dipartimento di Psicologia della Newport University, negli USA. I punteggi attribuiti ai 5 item che compongono la scala variano in funzione della frequenza del sintomo, da 0 (mai) a 4 (quasi tutti i giorni). Il cut-off diagnostico è 9.

Oltre l’80% del campione ha riferito di avere sofferto, nelle ultime due settimane, di almeno un disordine di natura ansiosa correlato alla pandemia, ovvero stati di confusione, sensazione di essere “paralizzato” o “bloccato”, disturbi del sonno, perdita di appetito, nausea o fastidi allo stomaco, se posto a contatto con pensieri o notizie relative al coronavirus. Il 23% ha dichiarato di aver sperimentato tutti e cinque i sintomi insieme, con frequenza variabile.

Dai risultati del test clinico emerge che il 22% della popolazione censita (con percentuali più alte per il sesso femminile, 24%) avrebbe in corso un disordine specifico di natura ansiosa collegato alla pandemia, di cui i cinque sintomi rilevati rappresentano i fattori principali. La percentuale varia sensibilmente anche per area geografica, con Centro e Sud Italia che superano la media, ottenendo complessivamente il 34%. Rispetto alle fasce di età, i più colpiti dalla crisi risultano i giovanissimi: oltre il 39% degli under 20 è risultato infatti “patologico” alla CAS. L’indicatore scende progressivamente all’aumentare dell’età.

Il sintomo più diffuso risulta lo stato di confusione (sentirsi frastornati, confusi, indeboliti), sperimentato almeno una volta nel periodo dal 77% dei soggetti; seguono l’immobilismo tonico (sentirsi “paralizzati” o “bloccati”) al 57%, i disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi, insonnia) al 56%, lo stress addominale (nausea e problemi allo stomaco) al 38% e la perdita di appetito (che ha riguardato il 33% della popolazione censita).

I dati di questa indagine confermano quello che riscontro in questi giorni anche nella mia pratica clinica: le richieste di consulto da parte di ragazzi sono aumentate notevolmente; inoltre ritornano in studio con ‘ricadute’ anche giovani che in passato avevano già affrontato con successo disagi psicologici di vario genere” – così commenta i risultati Elena Franzot, psicologa e psicoterapeuta.

Prima nel suo genere, l’indagine ha messo nero su bianco lo stato reale nel quale ci avviamo alla normalizzazione. È infatti proprio nel momento della ripresa che vengono a galla i disordini sedimentati nella fase protratta di privazione delle libertà fondamentali – sottolinea Marco Mozzoni, neuropsicologo e direttore di Brainfactor.

L’individuo e le relazioni ai tempi del Covid-19

Attualmente, la situazione di emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha portato a risvegliare nella popolazione diverse paure, segnando significativamente la vita e le abitudini di ciascuno di noi.

 

A livello psicologico sono state riscontrate diverse condizioni psicopatologiche non indifferenti, in particolare la situazione di isolamento dalle relazioni interpersonali significative ha prodotto l’insorgenza di: disturbi d’ansia, nello specifico l’ipocondria, ovvero, la paura di contrarre il virus e, oltre a questa paura, è emersa anche la paura di diffonderlo alle persone che ci circondano; depressione, in quanto la situazione di isolamento sociale sembrerebbe produrre l’incremento di ruminazioni e pensieri negativi che potrebbero sfociare in sintomi depressivi o potrebbero esacerbare i sintomi depressivi (qualora fossero già presenti nei soggetti); insonnia, che potrebbe essere ricondotta o alla presenza di disturbi d’ansia e/o depressivi o alla condizione di cambiamento dello stile di vita.

A livello relazionale si assiste ad un aspetto piuttosto ambivalente, se da un lato si assiste ad un isolamento forzato, dettato dalla condizione di emergenza, dall’altro si assiste ad un cambiamento radicale delle dinamiche relazionali e della rete sociale, infatti ci si relaziona in modo molto più semplice attraverso i social, ad esempio vengono fatte delle video conferenze tramite Skype, Duo, Facebook, etc.. Quest’ultimo aspetto riguarda anche le persone con particolari problematiche nella gestione di relazioni al di fuori delle mura della propria stanza, i quali hanno trovato nel monitor di un pc, un mezzo perfetto per poter entrare a contatto con l’Altro.

Queste considerazioni sono state fatte dal Dottor Emanuele Ruggeri, il quale dichiara che per lo più sono gli studenti universitari, il personale sanitario (soprattutto specializzandi) e gli studenti che si trovano all’estero a chiedere sostegno psicologico, per una migliore gestione dell’ansia e della paura. Inoltre, egli afferma

…l’epidemia di Covid-19 sta segnando la vita di tutti noi. Non solo dal punto di vista fisico ma anche mentale. Quando torneremo alla normalità, sarà fondamentale un sostegno psicologico, forse ancor più di ora.

Proprio per questa ragione, insieme a Camilla Vizzotto e Daniele Busatta, è stata data vita al progetto “Diamoci una mano”, in cui ci sono medici e psicologi provenienti da tutta Italia, che hanno uno scopo comune: quello di aiutare la popolazione in questo momento difficile.

Il gruppo di professionisti, ha creato un portale per poter avviare quest’iniziativa, dando sostegno e supporto a distanza e gratuito della durata di circa 30 minuti. Il servizio funziona collegandosi ad internet, digitando www.diamociunamano.com nella barra di ricerca e si entra nel sito; qui si trova uno spazio dedicato alle domande di colloquio. Ciascun utente può inviare la propria richiesta, indicando il giorno che preferisce, l’orario e il suo contatto Skype. A quel punto, la domanda arriva al team e si procede con gli incontri.

Un dato piuttosto importante che è emerso e che è stato dichiarato dal dottor Ruggeri è che: “Nei primi dieci giorni dopo il lancio del progetto abbiamo superato le cento richieste. Abbiamo svolto 150 colloqui telematici. Si rivolgono a noi persone di ogni fascia d’età, abbiamo sia giovani che adulti. Nei colloqui i più giovani dimostrano preoccupazione per le loro relazioni sociali, quindi le amicizie, ma anche il rapporto con i familiari. Spesso, infatti, i ragazzi sono studenti fuorisede, che a causa del lockdown sono rimasti bloccati nella città dove studiano. Ma c’è un altro dato importante: riceviamo molte richieste da ragazzi all’estero, giovani che si trovano in Erasmus o dottorandi che stanno frequentando gli studi in altri Paesi.

Tra gli utenti dei colloqui a distanza non mancano però gli adulti. In questo caso oltre allo smarrimento per la situazione eccezionale gli adulti hanno una maggiore preoccupazione di contrarre la malattia, e temono anche per i loro cari.

Guardando al futuro, coloro che si rivolgono a “Diamoci una mano” sembrano non pensare più di tanto a quando questa emergenza finirà. Le persone che ci chiamano si preoccupano più dell’immediato, di quello che vivono nella vita di tutti i giorni, non vedo grande inquietudine per quello che accadrà dopo. Tuttavia ritengo che quando l’emergenza Coronavirus terminerà, dovremo essere pronti ad affrontarne le ricadute, anche psicologiche, non solo fisiche.

In Italia c’è sempre stata diffidenza nei confronti del disagio psichico, dobbiamo invece capire che la salute mentale è importante quanto quella fisica.

La formula dei colloqui a distanza potrebbe essere una soluzione innovativa per il futuro. Al di là dell’emergenza Covid-19, il metodo del colloquio via Skype potrebbe essere una delle possibili strade per ridurre il timore di molte persone nel chiedere aiuto.

C’è, infine, un altro aspetto, molto importante, che vorrei sottolineare: “le persone si sono fidate di noi nonostante la distanza, nonostante non ci si conoscesse, è un buon punto di partenza e un messaggio di speranza per tutti”.

 

SURVEY: Compassione, connessione sociale e resilienza ai traumi durante la pandemia da Covid-19, uno studio multidimensionale – Partecipa alla ricerca

Un team di ricercatori internazionale ha messo a punto un questionario con lo scopo di comprendere come fronteggiare al meglio la pandemia che ha colpito tutto il mondo. 

 

Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha stravolto le vite di tutti noi. Le nostre relazioni e le nostre abitudini sono state fortemente modificate. Al fine di indagare l’impatto del lockdown sul nostro senso di sicurezza e sul supporto reciproco tra le persone, un team internazionale composto da ricercatori provenienti da 18 nazioni, ha sviluppato uno studio al quale ognuno può contribuire.

E’ importante avere dati attendibili pertanto sono stati previsti 2 follow-up a 3 e 6 mesi. Lo studio interessa tutta la popolazione, in modo da comprendere l’impatto psicologico della Covid-19 su tutte le fasce di età.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

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Perizie e test: quanto il contesto influenza la valutazione delle capacità genitoriali?

E’ stato dimostrato come non esiste una differenza netta tra gli stili di risposta al Test di Rorschach forniti dai periziandi, nel contesto della valutazione delle proprie capacità genitoriali, e il campione di controllo, non soggetto ad alcuna valutazione da parte del Tribunale.

 

All’interno di una Consulenza Tecnica d’Ufficio, è chiesto spesso allo psicodiagnosta di prospettare un quadro di personalità preciso e accurato, che gli permetta di valutare la presenza e la tipologia di risorse psico-affettive individuali e di comprendere in quale misura, le risorse individuate, possano influenzare le capacità genitoriali dei periziandi.

Affinché sia possibile effettuare un valutazione è, dunque, necessario integrare informazioni raccolte mediante strumenti qualitativi (es. colloquio, esame obiettivo) e strumenti quantitativi (es. tests) poiché solo in questo modo è possibile ottenere una visione d’insieme ampia, e al contempo analitica, dei fatti di un oggetto (Fielding & Fieldinf, 1986).

Nel presente articolo, vi è l’intenzione di evidenziare quali sono gli indici del Test di Rorschach che favoriscono e permettono l’analisi delle capacità genitoriali e quali sono le differenze tra lo stile di risposta dei periziandi, in contesto di separazione, e quello della popolazione di riferimento, non soggetta ad alcuna valutazione da parte del tribunale.

ll test di Rorschach

Il Test di Rorschach rientra a far parte della grande famiglia delle tecniche proiettive. Lo stimolo percettivo è rappresentato da dieci “macchie” di inchiostro bilateralmente simmetriche, dinnanzi alle quali il soggetto è invitato a dire ciò che vede.

La letteratura internazionale lo definisce da sempre un metodo proiettivo, volto a promuovere un’analisi dell’organizzazione della personalità che tenga conto del ruolo di tutte le funzioni e dei processi psicologici operanti nel contesto della personalità totale. Seppur questo strumento non sia un test psicometrico nell’accezione più stretta del termine, essendo le risposte codificate dai somministratori mediante una specifica siglatura, il Test di Rorschach è largamente usato nei contesti peritali poiché consente di esplorare strategie di difesa volte a modificare l’immagine da rimandare all’esterno.

Indici Rorschach e funzioni genitoriali

Nella letteratura scientifica, per la valutazione delle competenze genitoriali, sono state individuate specifiche capacità da analizzare, quali l’assenza di grave psicopatologia psichiatrica tale da compromettere il funzionamento e l’equilibrio adattivo del genitori sul piano cognitivo adattivo e sociale; la maturazione di doti riflessive ed empatiche; grado di interesse e reattività in risposta alle sollecitazioni affettive presenti nell’ambiente; la capacità di adattarsi con modalità adeguate alle richieste dei figli; la capacità di tollerare le frustrazioni (Camerini G.B., De Leo G, Sergio, G. & Volpini L., 2007; Fonagy P., Target M., 2001; Rizzolati G., Gallese V., 1998; Fabiani M.E., 2000; Azar S.T., Cote L.R., 2002).

Più precisamente, è possibile rintracciare informazioni inerenti tali capacità nell’interpretazione degli indici Rorschach, tra questi, il numero di Risposte con adeguata bontà formale (R+%); il numero di risposte con adeguata bontà formale il cui determinante è la forma (F+%); la presenza non significativa di manifestazioni particolari di II e III livello; l’indice di autocontrollo nella norma o superiore alla norma (I.Aut); la presenza della rappresentazione dell’altro (H%), il numero di movimenti primari e secondari (M; m), la presenza di determinanti colori, il tipo di Comprensione (T.C.), l’indice di Autocontrollo e di Impulsività (I.Aut.; IMP), il rendimento omogeneo tra prima e seconda metà della prova.

Stili di risposta al test Rorschach in funzione del contesto peritale

Dallo studio condotto da Roberto Cicioni, Tommaso Caravelli, Floriana Loggia, Maria Elisa Maiolo (2012) è stato dimostrato come non esiste una differenza netta tra gli stili di risposta forniti dai periziandi, nel contesto della valutazione delle proprie capacità genitoriali, e il campione di controllo, non soggetto ad alcuna valutazione da parte del Tribunale: sono state riscontrare lievi differenze relative ad alcuni indici precedentemente elencati, mentre sono state messe in luce differenze – maggiormente significative –riguardanti la capacità di controllo degli affetti e degli impulsi.

Più precisamente, dal suddetto studio, è emerso – contrariamente da quanto in letteratura è stato spesso intuitivamente ipotizzato – come il numero di risposte dei periziandi rientra nel range normativo: è probabile che il bisogno di dare una buona impressione prevalga sul bisogno di mascheramento. Coerentemente con questa ipotesi si registra tra i periziandi un basso numero di rifiuti alle Tavole.

È emerso, inoltre, un minimo incremento – nel contesto peritale – della percentuale delle risposte con adeguata bontà formale e della percentuale delle risposte con adeguata bontà formale il cui determinante è la forma: esso è dovuto ad un “normale” innalzamento dello schermo difensivo nel senso del controllo.

Per quanto riguarda il tipo di comprensione, l’indice che fornisce informazioni sulla modalità con cui una persona affronta i problemi, è stata osservata una sensibile differenza tra il campione peritale e i dati normativi: si evidenzia un aumento delle risposte che riflettono capacità di sintesi, di astrazione e di visione di insieme a discapito di quelle indicative di processi analitici di analisi e di orientamento al concreto. Tale differenza potrebbe essere imputata alla presenza di processi rimuginativi sui contenuti conflittuali della separazione, necessariamente ritualizzati dal procedimento giuridico: se presente tale pattern di risposta, è possibile facilitare l’interpretazione dello stesso valutando, qualitativamente, il grado in cui il periziando investe le proprie energie nel processo di separazione dall’ex-coniuge.

Non sono state individuate, invece, minime differenze circa gli indici riguardanti lo stile relazionale.

Infine, come anticipato, le differenze maggiori – tra i due campioni in esame – riguardano gli indici relativi alla capacità di controllo degli affetti e degli impulsi, i quali permettono di compiere inferenze sulle spinte impulsive che orientano verso il mondo e le relazioni interpersonali, e la forza e la tipologia degli schemi difensivi implicati invece nella loro gestione: nel contesto peritale, l’indice di impulsività è stato rilevato molto più levato e l’indice di autocontrollo più rigido. Tale dato è stato spiegato riconducendo la differenza alla particolare rabbia e impotenza che spesso le persone, nel contesto di separazione, vivono. Tuttavia, tali vissuti emotivi non giustificherebbero alterazioni sugli elementi qualitativi del test, quali ad esempio le risposte, i movimenti e le determinanti Colore.

Violazione della privacy mentale: il neuromarketing politico e la manipolazione dei processi democratici

Lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018, in cui è avvenuta la raccolta di alcuni dati personali degli utenti con scopi manipolativi, invita a riflettere su numerosi temi di rilevanza etica, oggi sempre più rilevanti.

 

 Lo scandalo del 2018 di Cambridge Analytica, azienda Britannica di data analysis, è senz’altro una tra le recenti vicende giornalistiche che ha avuto una eco di portata globale. Un contributo per la diffusione del caso è dovuto a The Great Hack, documentario di Jehane Noujaim e Karim Amer e prodotto da Netflix. La narrativa del documentario si struttura attorno ai contributi di alcuni degli attori direttamente coinvolti nel caso ed esemplifica la possibilità di utilizzare i dati personali online per prevedere e influenzare il comportamento umano senza che le persone ne siano consapevoli. I dati sono stati raccolti attraverso un’app chiamata thisisyourdigitallife, sviluppata da l’accademico Aleksandr Kogan attraverso la sua società Global Science Research (GSR). In collaborazione con Cambridge Analytica, centinaia di migliaia di utenti sono stati pagati per fare un test sulla personalità e hanno accettato di raccogliere i loro dati per uso accademico. Tuttavia, l’app ha anche raccolto le informazioni degli amici di Facebook dei testisti, portando all’accumulo di dati di decine di milioni di persone. Cambridge Analytica, utilizzando l’analisi dei big data, ha creato dei profili psicografici al fine di indirizzare successivamente gli utenti con annunci digitali personalizzati e altre informazioni manipolative. Secondo gli autori, questa profilazione e targetizzazione è stata utilizzata per far oscillare intenzionalmente campagne elettorali in tutto il mondo.

La rilevanza neuroetica del caso CA

La vicenda raccontata da The Great Hack, più che una narrazione approfondita di un fatto di cronaca, assomiglia ad un racconto distopico Huxleyano. Alcuni autori infatti sostengono che, in un contesto sperimentale, le metodologie utilizzate da Cambridge Analytica non mostrino effetti tanto significativi da trovare un così chiaro riscontro nella realtà (Gibney, 2018). Ciò nonostante, il caso Cambridge Analytica suggerisce numerosi temi di rilevanza etica che meritano di essere approfonditi.

Centinaia di migliaia di americani hanno risposto al sondaggio, abbiamo costruito un modello composto da quasi 5000 data point con cui possiamo simulare la personalità di ogni adulto negli Stati Uniti. Il comportamento dipende dalla personalità e ovviamente influenza il voto. [..] Se possiamo trarre un insegnamento da questi eventi, è che la tecnologia può davvero fare la differenza e continuerà a farla per molti anni. (Alexander Nix, CEO di Cambridge Analytica)

Ciò che ha reso realizzabile quanto dichiarato da Alexander Nix è stato l’impiego di metodi e tecniche provenienti dagli ambiti di Neuromarketing – nella sua declinazione politica – e marketing politico 2.0. Il neuromarketing è un campo di studi che si occupa dell’applicazione di metodi neuroscientifici per analizzare e comprendere il comportamento umano, in relazione al mercato e alla sua interazione con esso (Lee et. al, 2007). Il marketing politico 2.0 invece, si avvale di tecniche di big data analysis, come il “behaviour-reading”, per identificare e analizzare le preferenze e le attitudini politiche degli elettori e successivamente influenzarne il voto (Islam, 2019). Un metodo che esemplifica la tecnica del “behaviour-reading” è stato sviluppato da due accademici dell’Università di Cambridge, David Stillwell and Michal Kosinski. Nel loro studio (Kosinski et. al, 2013), i due psicologi riportano la possibilità di predire con elevata accuratezza informazioni quali l’orientamento sessuale e tratti di personalità esaminando l’attività online degli utenti. Inizialmente i ricercatori hanno sottoposto a 58000 utenti un test di personalità conosciuto come Big Five, che misura cinque scale di personalità: estroversione, apertura mentale, coscienziosità, nevroticismo e amicalità. I tratti di personalità di ogni utente sono stati correlati, tramite algoritmi di machine-learning, ai likes apposti ai contenuti di Facebook, creando così un modello che rappresenta dei profili di personalità. Questi, chiamati profili psicografici, sono utilizzati dagli esperti di marketing politico per compiere operazioni di micro-targeting, una tecnica di comunicazione politica che consiste nell’inviare specifici messaggi mediante diversi canali ad un determinato sottogruppo di individui. Lo scopo è quello di creare una relazione tra il potenziale elettore e il partito politico che possa influenzarne il voto (Bodó et. al, 2017).

La privacy nell’era dei Big Data

In uno tra i momenti più significativi del documentario, la giornalista Carol Cadwalladr, durante un’intervista chiede a Christopher Whyle, ex dipendente di Cambridge Analytica, se i dati da loro utilizzati fossero stati sfruttati ad insaputa degli amici degli utilizzatori di thisisyourdigitallife.

Sì, la storia è piena di casi di esperimenti profondamente immorali, giocavamo con la psicologia di una nazione intera senza il loro consenso ma non solo, lo stavamo facendo nell’ambito di un processo democratico.

Il tema della privacy e del trattamento dei dati nell’ambito del behaviour-reading è stato ampiamente discusso. In questo contesto si parla di “privacy mentale”, che può essere definita come l’abilità di determinare quali informazioni rispetto al nostro pensiero possono essere condivise con altri (Westin,1967). In Europa ad esempio, il GDPR considera illegale l’elaborazione di dati comportamentali – compresa l’attività online – da parte di terzi, senza previo consenso informato degli utenti (McCarthy,2019). La violazione della privacy mentale dell’individuo, come mostrato dal caso in esame, può provocare conseguenze lesive sia per il singolo sia a livello sociale.

Violazione della privacy mentale e libertà cognitiva

Ricordate quei quiz per creare modelli di personalità degli elettori? […] Il grosso delle risorse era per quelli a cui pensavamo di poter far cambiare idea. Li chiamavamo i persuadibili. […] Abbiamo progettato contenuti personalizzati per colpire quegli individui […] li bombardavamo di video, articoli, immagini finché non vedevano il mondo come lo volevamo noi. (Brittany Kaiser, dipendente di Cambridge Analytica)

Il caso Cambridge Analytica si annovera tra i possibili scenari causati dalla violazione della privacy mentale. L’ex dipendente, infatti, afferma che Cambridge Analytica abbia utilizzato i dati personali degli utenti per interferire con il processo democratico minando al nucleo morale stesso del sistema politico: la libertà e l’autonomia dell’individuo di decidere. In senso più ampio, è stata esercitata una influenza sul diritto di autodeterminazione degli elettori, ovvero il diritto fondamentale di pensare liberamente e autonomamente. (Center for Cognitive Liberty and Ethics). Nonostante questo diritto sia incluso in trattati come l’ International Covenant on Civil and Political Rights o l’European Convention on Human Rights, Bublitz (2011) fa notare che non ci sono definizioni riguardo al significato, agli scopi o le possibili (e pratiche) violazioni. Questo perché la mente non è stata tradizionalmente considerata come una entità vulnerabile o passibile di intrusioni esterne o interferenze (Bublitz and Merkel, 2014; McCarthy,2019).

Una possibile spiegazione di questa credenza è attribuibile ai metodi di indagine di cui la ricerca nell’ambito del neuromarketing e del decision-making si avvale e ai risultati che questa ha fino ad ora fornito. Alcuni autori, attraverso studi fMRI, affermano di poter identificare e prevedere le scelte dei consumatori, costituendo quindi uno strumento di behaviour-reading. Altri neuroeticisti argomentano che, anche se così fosse, la paura che un utilizzo improprio di questi strumenti sarebbe infondata. Infatti, l’accesso ai dati di brain imaging sarebbe limitato ai soli partecipanti delle ricerche, spesso un campione scarsamente numeroso. Siccome nel contesto accademico i dati sono raccolti previo consenso informato dei partecipanti, l’accesso a questi dati non costituirebbe una violazione della privacy mentale (SJ Stanton et. al 2017). E’ noto anche che le tecniche di brain imaging permettono solo inferenze di tipo correlazionale rispetto ai compiti indagati e l’attività osservata. Si tratta di fatto di metodi probabilistici che non forniscono informazioni dirette dei contenuti mentali indagati, spesso relativi a compiti fittizi creati ad hoc dagli sperimentatori. Le informazioni ottenute da metodi di behaviour-reading basate sui big data si riferiscono invece alla reale e spontanea attività degli individui. Neil Levy (2007) afferma che la mente non è solo contenuta nel cervello, ma si estende oltre questo, nel mondo, e ogni sua posizione ha una diretta rilevanza etica. L’attività online, e i dati ricavati da questa, costituiscono proprio una estensione della mente dell’individuo. Per questo, l’uso improprio della big data analysis può costituire una paura fondata, come testimoniato dal caso Cambridge Analytica.

Sarà chiaro al lettore che la determinante di tutti gli scenari supposti riguardi in primis l’accesso ad informazioni strettamente personali. La ricerca in ambito accademico si impegna a seguire specifici standard etici rispetto al trattamento dei dati e ciò garantisce il rispetto dei diritti degli individui coinvolti. Questi standard dovrebbero essere estesi a chiunque raccolga o elabori dati personali, anche in ambito privato-aziendale. Ciò nonostante è possibile, come si è visto, che l’accesso e l’uso improprio avvengano per mezzo di azioni illegali. Per mantenere la privacy mentale quindi dovremmo

alzare mura difensive rispetto ad intrusioni indesiderate. (Bublitz e Merkel, 2014)

Nella pratica, potrebbe rendersi necessario l’obbligo dei provider internet di fornire l’opzione di una navigazione totalmente anonima che impedisca la profilazione delle attività online.

Dovete essere consapevoli di come i vostri dati influenzano la vostra vita. C’è in ballo la dignità di essere umani. (David Carroll, colui che ha denunciato Cambridge Analytica)

 

Disturbo Affettivo Stagionale e Disturbo Disforico Premestruale un continuum psicopatologico: il ruolo della serotonina

Gli studi di cronobiologia in ambito psichiatrico hanno evidenziano numerosi aspetti che accomunano il disturbo affettivo stagionale ed il disturbo disforico premestruale. Oggi esiste l’ipotesi che questi due disturbi potrebbero essere manifestazioni di una stessa patologia.

 

Fin dall’antichità è stato osservato che le variazioni climatiche influenzano lo stato di salute e l’umore. Ippocrate nel 400 a. C. descriveva una depressione legata alle stagioni. I suoi scritti e quelli di Plinio e di Aristotele nel periodo classico, testimoniano che erano anche noti una serie di sintomi che affliggevano le donne nel periodo premestruale. Attualmente la cronobiologia studia i fenomeni periodici negli organismi viventi e descrive i meccanismi molecolari legati ai cicli buio-luce, all’alternarsi delle stagioni e delle fasi lunari. E’ ormai dimostrato che la produzione di numerosi ormoni e di vari neurotrasmettitori è influenzata da questi fatti. Negli ultimi venti anni sono stati effettuati numerosi studi psichiatrici ad impronta cronobiologica.

Vi sono due disturbi dell’umore, il disturbo affettivo stagionale ed il disturbo disforico premestruale, che oltre ad avere in comune la periodicità nel manifestarsi, sembrano condividere alcuni aspetti eziopatogenetici.

Disturbo affettivo stagionale (SAD)

Il Disturbo Affettivo Stagionale è un disturbo depressivo cronico atipico i cui sintomi possono manifestarsi con una periodicità invernale, con esordio nella stagione autunnale, o estiva con esordio primaverile. Dal punto di vista clinico l’atipicità del disturbo è legata al fatto che l’umore è depresso ma reattivo. Questo vuol dire che i soggetti che ne soffrono hanno una flessione del tono dell’umore, ma sono in grado di gioire di fronte ad eventi positivi. Altri sintomi sono l’iperfagia, con la preferenza per l’ingestione di carboidrati, l’astenia, l’ipersonnia e l’aumento ponderale. Esistono diverse ipotesi eziopatogenetiche per il SAD, tutte hanno un comune denominatore rappresentato dalla durata dell’esposizione alla luce solare. La quantità di luce influisce sulla produzione endogena di melatonina e serotonina. La melatonina, detta anche ormone del sonno, potrebbe essere prodotta in eccesso in mancanza di luce solare. I livelli troppo elevati generano ipersonnia e potrebbero predisporre alla depressione. Secondo i risultati di uno studio dei ricercatori dell’Università di Copenhagen, presentati alla XII International Conference on Neuropsychopharmacology di Londra (2014), le persone che sviluppano il SAD hanno alterati livelli SERT, che è la molecola trasportatrice della serotonina.

Il disturbo disforico premestruale (PMS)

E’ un disturbo dell’umore che si manifesta tra i sintomi della sindrome premestruale. E’ caratterizzato, oltre che da umore depresso, da irritabilità e labilità emotiva. L’intensità di questi sintomi può essere tale da influenzare significativamente l’attività lavorativa e le interazioni sociali. Sono diversi i fattori eziologici chiamati in causa per spiegare l’origine di questo disturbo. Rojanski et al. (1991) in uno studio hanno registrato una riduzione complessiva dei livelli plasmatici di serotonina nella fase luteinica del ciclo ovarico in donne con PMS. Il convolgimento della serotonina è inoltre dimostrato dal il criterio ex-juvantibus, infatti nel 60% delle donne con PMS, i sintomi regrediscono con la somministrazione di antidepressivi serotoninergici (Steiner M. et al. 1995, Freeman Ew.2005).

Nel 2006, sul Giornale Italiano di Psicopatologia, sono stati pubblicati i risultati di una ricerca che si proponeva di valutare la prevalenza del SAD e della PMS in una popolazione di donne non affette da disturbi psichiatrici e di determinare la prevalenza di PMS in donne che presentavano una diagnosi di SAD. I risultati dello studio permettono di affermare che SAD e PMS presentano un profilo epidemiologico sovrapponibile e una sintomatologia analoga. Per entrambi i disturbi è riconosciuta l’efficacia terapeutica degli antidepressivi serotoninergici. Nella popolazione femminile italiana SAD e PMS si presentano frequentemente in associazione. Tutti questi dati portano a supporre una base neurobiologica comune, i due disturbi potrebbero essere manifestazioni di una stessa patologia.

Rischi della sindrome da burnout nei marittimi della marina mercantile

La popolazione dei marittimi, in particolar modo degli ufficiali di marina mercantile, è una delle più esposte allo sviluppo della sindrome da burnout.

 

La sindrome da burnout viene definita come un complesso fenomeno psico-fisiologico, caratterizzato da esaurimento fisico, emotivo e psicologico, causato da stress emotivo prolungato. I sintomi principali sono cinismo, depersonalizzazione, diminuzione dell’entusiasmo e del senso di efficacia in ambito lavorativo, distacco dal proprio lavoro. Inoltre il burnout viene considerato come una reazione soggettiva allo stress correlato al lavoro, con lo scopo di adattarsi o proteggere sé stesso (Oldenburg, M., Jensen,  H. J., Wegner R., 2013). Pertanto, la persona è incline a sviluppare il burnout se presenta un estremo coinvolgimento emotivo nel lavoro e non ha adeguate strategie di coping.

La condizione lavorativa degli ufficiali di marina mercantile, è già di per sé fonte di stress, la stessa International Maritime Health Association ha stabilito che “la professione di marittimi è una delle più impegnative fisicamente ed emotivamente, e viene svolta in uno degli ambienti più pericolosi, il mare.”

I maggiori fattori di rischio sono stati descritti nelle “Linee guida per l’assistenza mentale sulle Navi Mercantili” e comprendono:

  • Solitudine e separazione dalla famiglia: numerose ricerche, anche non relative all’ambito marittimo, sottolineano come il supporto sociale rappresenti uno dei fattori protettivi principali, soprattutto quando il soggetto si trova ad affrontare un evento stressante. La separazione dalla propria famiglia non avviene solo fisicamente, ma è accentuata anche dall’impossibilità o dalla difficoltà di comunicare quotidianamente con i propri cari. In Australia, nello Stato del Victoria, è stato osservato che una delle prime cose che i marittimi fanno quando è concesso loro il congedo a terra, è raggiungere uno dei centri marittimi, provvisti di numerosi computer, che di solito usano per contattare e comunicare con le famiglia, ad esempio attraverso Skype (Robert T.B.I., 2012). Pertanto il supporto sociale è un importante mediatore che può svolgere un “effetto tampone” rispetto allo sviluppo di sintomi legati al burnout, aumentando anche i livelli della Qualità di Vita (QoL) (Xiao, J. et al., 2017).
  • Stress: “Guidelines for Mental Care Onboard Merchant Ships”, l’opuscolo stilato dall’International Committee on Seafarers’ Welfare, dedica un capitolo intero ai problemi di stress legati ai marittimi, ed elenca i seguenti sintomi: insonnia, perdita di concentrazione, ansia, abuso di sostanze, estrema rabbia e frustrazione, problemi familiari, insorgenza di malattie croniche cardiovascolari. A tal proposito sono state individuate 6 aree legate allo stress lavorativo a bordo: il tipo di richieste legate al lavoro, il livello di controllo che i marittimi hanno sul loro lavoro, il supporto ricevuto dai colleghi e dal management, le relazioni lavorative, il ruolo del marittimo all’interno dell’organizzazione, il cambiamento e come questo viene gestito.
  • Per quanto riguarda le richieste legate al lavoro, uno dei problemi principali è l’accumulo delle mansioni durante i soggiorni in porto, soprattutto se tra un porto e l’altro vi sono poche ore di navigazione e quindi poco tempo per il disbrigo delle pratiche legate alla dogana, la pianificazione delle rotte, il monitoraggio delle operazioni di carico/scarico merce. A tutto ciò si aggiunge lo svolgimento dei quotidiani compiti lavorativi, come il monitoraggio del traffico marittimo. La varietà di questi compiti richiede grande responsabilità e alti livelli di organizzazione del lavoro, tuttavia ciò può portare gli ufficiali a percepire maggiormente lo stress, il quale a sua volta influirà in maniera bidirezionale sul processo decisionale del soggetto, in particolar modo sulla sua capacità di prendere decisioni chiare e lucide, in un momento di emergenza e forte stress. Pertanto lo stress può contribuire all’insorgenza del burnout, riducendo il mantenimento di adeguati livelli di allerta e performance, prerequisiti fondamentali per la sicurezza della nave.
  • Talvolta, la mole di lavoro influisce inevitabilmente sul tempo dedicato al sonno, che negli ufficiali della Marina Mercantile risulta essere notevolmente ridotto, esponendo i soggetti ad un disturbo del sonno frammentato e lo sviluppo di un profilo non-dippers. Ciò, oltre ad un calo cognitivo prestazionale dovuto al mancato assolvimento della funzione ristorativa del sonno, può esporre a rischi cardiovascolari, sindromi metaboliche e diabete (Andruskiene , J., Barseviciene, S., Varoneckas, G.,  2016).
  • Per quanto concerne le relazioni lavorative, queste sono perlopiù caratterizzate da un sistema gerarchico e multiculturale. La ricerca di M. Oldenburg et al. (2013) ha evidenziato come il rischio di burnout negli ufficiali fosse correlato a mancate abilità di leadership e comunicazione da parte dei superiori. Per questo motivo, al fine di prevenire il burnout negli ufficiali, sarebbe utile istituire programmi educativi per implementare le abilità comunicative e di leadership, combinati anche ad esercizi di role-playing.
  • Criminalizzazione e pirateria: per criminalizzazione dei marittimi si intende il trattamento degli incidenti marittimi, soprattutto quelli relativi all’inquinamento da idrocarburi, come dei veri e propri crimini. E’ un termine usato anche per descrivere la negazione dei diritti procedurali e umani nel perseguimento di tali incidenti. Talvolta questi marittimi, perseguiti penalmente, sono detenuti a tempo indeterminato all’interno del Paese in cui è stato commesso il reato, senza un’adeguata assistenza legale e la possibilità di ritornare in patria. Tutto ciò ha degli effetti negativi sulla salute degli ufficiali, inducendo quest’ultimi a rinunciare alla carriera marittima (Robert T.B.I., 2012).
  • Altre possibili cause elencate sono la mancanza di congedo a terra, i brevi tempi di sosta della nave in porto e le norme di sicurezza sul lavoro.

Prevenire e valutare il burnout è un aspetto fondamentale, in quanto i soggetti potrebbero non possedere le strategie di coping adeguate e mettere in atto comportamenti a rischio come l’abuso di alcol, droghe o sviluppare altri disturbi internalizzanti quali la depressione. A tal proposito Kemalova & Nikonorova (2019) hanno proposto un training per la prevenzione del burnout professionale nei marittimi, con lo scopo di insegnare le principali abilità di coping e di autoregolazione emotiva. Il training è composto da 20 ore e si articola in 4 moduli:

  • Definizione del concetto di burnout professionale.
  • Identificazione ed analisi delle principali cause del burnout.
  • Analisi del concetto di readiness come mezzo di prevenzione del burnout e formazione riguardo le principali tecniche e metodi per fronteggiare lo stress.
  • Analisi dei fattori relativi al meso e micro sistema, al fine di prevenire il burnout. Per quando riguarda il microsistema si fa riferimento alle caratteristiche di personalità, livelli di comunicazione, strategie di coping, livelli di autoregolazione emotiva, mentre il mesosistema comprende gli insufficienti incentivi morali e materiali, stress fisico ed emotivo, organizzazione e condizioni di lavoro, qualità delle relazioni interpersonali nel team.

Sebbene non riguardi direttamente il burnout, sono state proposte altre soluzioni utili per la prevenzione, ma soprattutto il riconoscimento dei disturbi mentali nei marittimi. Ad esempio l’International Committee on Seafarers Welfare (ICSW) ha prodotto degli opuscoli, ad esempio “Guidelines for the Mental Care of Seafarers on board Merchant Ships”. Quest’ultimo è composto da 12 illustrazioni umoristiche a cartone che riguardano i seguenti temi: rischi per i marittimi, stress, molestie e bullismo, ansia, depressione, pensieri e comportamenti dirompenti, dipendenza da alcol e droghe, salute mentale bordo, suggerimenti per la corretta attuazione di una campagna di assistenza mentale.

Un altro progetto interessante è stato creato dal Rotary Club di Melbourne, che ha proposto di stampare degli opuscoli, su un unico argomento, la depressione. Gli opuscoli sono stati distribuiti a più di 2000 navi che attraccarono nei porti dello Stato del Victoria, con lo scopo di aiutare i membri dell’equipaggio ad identificare i soggetti con depressione ed aiutarli. Ogni opuscolo, tradotto in inglese, cinese e russo, contiene una checklist per identificare una persona con depressione, delle linee guida su come poterla aiutare ed un numero di emergenza da contattare, operativo h24.

 

Perfezionismo e credenze disadattive contribuiscono al mantenimento dei sintomi nel DOC da relazione?

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo si può presentare secondo un ampio ventaglio di tipologie cliniche. Tra queste è presente il Disturbo Ossessivo-Compulsivo da Relazione (Relationship Obssessive-Compulsive Disorder; RDOC) che si manifesta nel contesto delle relazioni intime.

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni, ossia pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e intrusivi, che l’individuo tenta di contrastare o neutralizzare attraverso le compulsioni, cioè comportamenti ripetitivi o rituali mentali. Le compulsioni servirebbero a prevenire o ridurre l’ansia, o le conseguenze indesiderate che accadrebbero se non si mettessero in atto tali rituali. La connessione tra la preoccupazione ossessiva e la compulsione tende ad essere irrealistica o illogica (American Psychiatric Association, 2013).

Il DOC si può presentare secondo un ampio ventaglio di tipologie cliniche. Tra queste, è presente il disturbo ossessivo-compulsivo da relazione (relationship obssessive-compulsive disorder; RDOC), un’espressione del DOC in cui i sintomi si manifestano nel contesto delle relazioni intime (Doron, Derby, & Szepsenwol, 2014). In particolare, i sintomi possono essere orientati alla relazione (relationship-centered) o centrati sul partner (partner-focused). Queste due manifestazioni sintomatologiche di DOC possono coesistere e rinforzarsi a vicenda.

Nel ROCD centrato sulla relazione, la persona si interroga su quanto sia “giusta” la propria relazione e ha dubbi sui propri sentimenti verso il partner o viceversa, sui sentimenti del partner verso di sé (Doron, Derby, Szepsenwol, & Talmor, 2012a). Le compulsioni consistono nel monitorare continuamente i propri stati interni (“Lo amo davvero? Quanto sono realmente attratto?”), nel formulare pensieri neutralizzanti (es. immaginarsi felici insieme), nel cercare rassicurazioni o nel controllare ripetutamente la qualità della propria relazione (Doron & Derby, 2017; Doron, Derby, Szepsenwol, &Talmor, 2012b).

Nel DOC da relazione centrato sul partner invece, le ossessioni consistono in preoccupazioni eccessive rispetto a difetti percepiti nel proprio partner in vari ambiti: intelligenza, moralità, socievolezza e aspetto (Doron e colleghi, 2012a). Le compulsioni invece riguardano paragoni continui delle caratteristiche del proprio partner con quelle di altri ipotetici partner, controllare i comportamenti del partner o le sue capacità e analizzare ripetutamente le sue qualità e difetti.

Melli, Bulli, Doron e Carraresi (2018) hanno effettuato uno studio per verificare il contributo relativo di alcune credenze disadattive sul mantenimento dei sintomi nel DOC da relazione. In particolare, gli autori hanno considerato gli effetti di credenze relative al DOC, del perfezionismo e di credenze riguardanti le relazioni, valutando separatamente gli effetti sui due sottotipi di DOC da relazione.

Lo studio ha coinvolto 124 partecipanti con diagnosi di RDOC, a cui è stata somministrata online una batteria di questionari. Tra questi vi sono: la versione italiana del Relationship Obsessive-Compulsive Inventory (ROCI; Melli e colleghi), per misurare la presenza di sintomi di RDOC orientato alle relazioni, e la versione italiana del Partner-Related Obsessive-Compulsive Symptoms Inventory (PROCSI; Melli e colleghi), per misurare i sintomi del RDOC centrato sul partner.

È stata somministrata la versione italiana della Frost Multidimensional Perfectionism Scale (FMPS; Lombardo, 2008), che misura sei aspetti del perfezionismo: 1) standard personali elevati, 2) preoccupazione per gli errori, 3) dubbi sulle azioni, 4) aspettative genitoriali elevate, 5) critiche genitoriali, 6) tendenza all’organizzazione e all’ordine.

Nella batteria di questionari è presente anche l’Obsessive Beliefs Questionnaire-20 (OBQ-20; versione italiana di Melli, Ghisi, Bottesi. & Sica, 2014), che misura credenze legate al DOC tra cui sovrastima della minaccia e della propria responsabilità, intolleranza all’incertezza e importanza dei pensieri e di riuscire a controllarli.

Infine, i partecipanti hanno risposto alla Relationship Catastrophization Scale (RECATS; Doron et al., 2016), che misura la sovrastima delle conseguenze negative di essere soli, di terminare una relazione e di trovarsi in una relazione sbagliata; e alla versione ridotta della Depression Anxiety Stress Scales-21 (DASS; Clara et al., 2001), che misura depressione, ansia e stress.

I risultati indicano che il perfezionismo, in particolare preoccuparsi continuamente dei propri errori e dubitare costantemente delle proprie azioni, sono fattori che contribuiscono a mantenere i sintomi del ROCD centrato sulle relazioni. Una persona con ROCD per esempio potrebbe interpretare un litigio non come un normale aspetto di una relazione, ma come un errore inaccettabile, un fallimento. Anche le credenze catastrofiche di essere in una relazione sbagliata o di rimanere soli risultano correlati al ROCD orientato alle relazioni. In questo caso, la persona da un lato si preoccupa continuamente di non stare con il partner giusto, dall’altro pensa che sarebbe terribile ritrovarsi sola. Di conseguenza, si sente intrappolata nella relazione.

La paura di essere nella relazione sbagliata risulta associata al ROCD focalizzato sul partner. In questo caso, la persona si chiede ossessivamente (oltre un normale dubbio) se il partner con cui sta sia davvero “l’amore della sua vita” o se non vi sia là fuori un partner migliore dell’attuale. Il timore è che ciascuna delle due opzioni possa portare a rimpianto.

Le credenze disadattive che accomunano il pensiero di chi soffre di DOC in generale invece sembrerebbero influire indirettamente sul ROCD, aumentando stress, ansia e depressione.

Sebbene questi risultati siano interessanti e utili a livello clinico, per poter trarre conclusioni più solide gli autori suggeriscono che i fattori predittivi di ROCD, orientato alle relazioni e centrato sul partner, vengano studiati attraverso studi longitudinali, con un criterio di inclusione dei pazienti diagnosticati con ROCD più rigido e con un gruppo di controllo di individui sani.

La ricerca sul ROCD è infatti necessaria per individuare i fattori specifici su cui agire a livello clinico quando si incontrano pazienti con DOC da relazioni.

 

Mascherine e un metro di distanza: che ricadute interpersonali?

Quali conseguenze avranno le misure di prevenzione adottate per contenere il Covid-19 sul modo in cui riconsidereremo la distanza peripersonale, i confini di sicurezza e l’intimità? Ci sarà una ricaduta sulla sintonizzazione emotiva? Si capirà che sotto la mascherina c’è un sorriso?

 

In piena emergenza covid-19, soffriamo in modo assolutamente personale e soggettivo, per vari aspetti. Chi lamenta la costrizione, chi l’isolamento, chi la perdita di controllo, e così via. Anche le ricadute emotive sono diverse. Chi percepisce maggiormente l’ansia, chi la paura, chi la tristezza, ecc.. Una sera, durante una telefonata di conforto reciproco, un mio amico neurologo mi racconta del suo tallone d’Achille: “Se qualcuno voleva punirci, ha trovato il modo migliore costringendoci ad evitare il contatto fisico”. Soffriva all’idea di non poter abbracciare, baciare, accarezzare una persona cara nel momento in cui l’avrebbe rivista, magari dopo mesi.

Come non averci pensato? È così lampante.

Proprio quella mattina, infatti, osservavo con curiosità i comportamenti delle persone in fila al supermercato. Erano tutti distanti e in un silenzio quasi funereo. Alcune persone, pur riconoscendosi grazie alle piccole parti di volto scoperte, si erano salutate con un gesto timido, da lontano, senza scambiarsi alcuna parola. Mi son detta che va bene la prudenza e la distanza di un metro, ma qualcosina ce la possiamo ugualmente dire, no? Ho subito pensato alle conseguenze di tutto questo in futuro, al modo in cui riconsidereremo la distanza peripersonale, i confini di sicurezza e, non in ultimo, l’intimità. Non dovremo abbracciarci per mantenere la famosa distanza di un metro. Potremo toccarci, ma avremo i guanti e questo impedirà di sentire per davvero la pelle dell’altro. Ci sorrideremo con la bocca coperta dalla mascherina. Si capirà che c’è un sorriso? Gli occhi saranno sufficienti per essere riconosciuti?

Per gli esseri umani, determinate azioni implicite della comunicazione non verbale attraversano un sistema di riconoscimento automatico e velocissimo che permette di comprendere lo stato interno dell’altro, le emozioni e le intenzioni. Questo sistema comprende i “neuroni mirror” (Rizzolatti et al., 1996) collocati nelle aree premotorie della corteccia cerebrale (ma sono presenti anche in altre zone, come nella corteccia parietale inferiore) che si attivano quando compiamo un’azione e quando vediamo la stessa azione svolta da altri. Questo processo di simulazione è velocissimo, pre-verbale, immediato ed è alla base di alcuni processi legati all’empatia, alla comprensione, al rispecchiamento nell’altro (perfino all’apprendimento), tutti elementi alla base dell’intersoggettività. È possibile riconoscere l’emozione altrui nell’ordine di pochi momenti perché, come ben spiegato da Paul Ekman, le espressioni facciali delle emozioni sono universali e disegnano, ogni volta, una specifica e armonica configurazione a cui partecipano occhi, bocca e muscoli del volto. Proprio Ekman, infatti, ha sviluppato un sistema di codifica (Facial Action Coding System o FACS) (Ekman, 1997) che fornisce informazioni sulle emozioni e sullo stato interno della persona, fatto di pensieri e motivazioni alla base delle azioni, con cui ci costruiamo una vera e propria teoria della mente altrui. Tutto ciò è realizzabile, perché l’informazione passa dal sistema visivo alle aree corticali e sottocorticali specificatamente deputate alla comprensione emotiva. Gli studi mostrano che, quando questo meccanismo è deficitario, come ad esempio nei pazienti schizofrenici, psicotici, con gravi malattie mentali o con sindromi dello spettro autistico, è più difficile leggere le emozioni altrui con conseguenze significative a livello interpersonale. Il sistema di decodifica delle emozioni può, quindi, essere un processo poco funzionale, a volte perfino strutturalmente danneggiato, come nei pazienti neurologici che falliscono al test di riconoscimento delle emozioni “Reading the mind in the eyes test” (Baron-Choen et al., 2001). Ma cosa succede quando è proprio il volto, o parti di esso, a mancare? Per esempio i pazienti parkinsoniani, a causa del deficit dopaminergico, sono ipomimici: i muscoli del volto sono rigidi ed è più difficile intuire gli stati interni emotivi.

Proprio questo insieme di evidenze mi fa riflettere e chiedere cosa accadrà quando usciremo solo e soltanto con mascherine per coprire il volto. Ci vorrà davvero più tempo per decodificare l’espressività dell’altro? Ci sarà una ricaduta sulla sintonizzazione emotiva? Metà del volto coperto, ostacolerà la percezione immediata degli elementi complessivi: sarà proprio impossibile o solo più difficile, vago? Per riconoscere la gioia, abbiamo bisogno di cogliere l’espressione coerente, in cui gli occhi si stringono e lo zigomatico maggiore spinge gli angoli della bocca all’insù. Pensiamo alla paura, alla sua forte valenza evolutiva. Potremo vedere le sopracciglia sollevate, gli occhi sgranati, ma non la bocca socchiusa né le labbra tese. E il disgusto, caratterizzato dal naso arricciato, dal labbro superiore sollevato e quello inferiore abbassato, come faremo a rintracciarlo? Una espressione di dolore, attiva in chi guarda, nell’ordine di una manciata di attimi, una serie di risposte, ad esempio di accudimento, ma solo perché bocca, occhi e tutti i muscoli facciali avranno disegnato armonicamente l’espressione del dolore.

Come mai tutto questo è importante? Perché il riconoscimento delle emozioni ha delle funzioni, connesse alla loro intrinseca valenza evolutiva, alla base dei rapporti umani, dell’attaccamento e della condivisione, del rispecchiamento, ma anche della protezione, della cura e perfino della regolazione emotiva. Pensiamo infatti alla vicinanza fisica tra chi è triste e chi vuole consolare con una carezza, all’abbraccio tra chi è felice e vuol condividere, alla spinta tra due litiganti e a tutti quei gesti che svolgono una funzione calmante o attivante, ricca di significati interpersonali. La distanza peripersonale, che aumenta o diminuisce fornendoci un parametro interno della intimità, che trasformazione subirà? Questa distanza, supportata da una comprensibile paura di contagio personale e degli altri, ci sta abituando a conversare di meno, a intrattenerci il minimo indispensabile con gli altri, a chiedere il permesso o a scusarci se per sbaglio ci accostiamo troppo. Si perché, quando ho rivisto un’amica dopo quasi due mesi, d’istinto stavo per abbracciarla eppure mi sono bloccata chiedendomi se fosse il caso, se lei volesse. Le ho dovuto chiedere il permesso per sentirmi autorizzata ad andarle incontro e queste operazioni interne hanno affievolito quel moto di gioia iniziale, snaturandolo quasi.

In conclusione, cosa accadrà quando potremo di nuovo viaggiare in mezzi di trasporto affollati, sederci vicino ad uno sconosciuto in villa? Allenarci in palestra o andare a cinema? Ballare o flirtare con qualcuno?

Tutte queste domande che ci ruotano nella mente, non hanno una risposta! Non sapremo in che modo le nostre strutture interpersonali resteranno condizionate da tutto questo fin quando questo futuro prossimo non sarà diventato presente. Mi auguro solo che quando rivedrò le persone che amo le vorrò abbracciare forte, prima ancora di sentire di poterlo fare. Mi auguro che, se quel mio amico neurologo sarà ancora triste, o spaventato, o arrabbiato o, perché no, felice, potrò leggerglielo in volto e potrò sintonizzarmi emotivamente con lui. E forse sì, sarà importante poterlo abbracciare!

 

SURVEY – Coronavirus e stress: come gestisco le emozioni negative – Partecipa alla ricerca

L’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia e le misure per contenerla hanno comportato grandi cambiamenti e causato un profondo disagio in gran parte della popolazione.

 

Tutte le persone che hanno vissuto questo difficile periodo riportano le stesse conseguenze?

Il progetto di ricerca è finalizzato a comprendere quali caratteristiche della nostra personalità ci proteggono dall’insorgenza di sintomi psicopatologici in seguito alla difficile situazione che stiamo vivendo (emergenza Covid-19).

Lo studio viene condotto tramite un questionario anonimo riguardante diversi aspetti legati al periodo recente ed alla personalità in genere.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

CLICCA QUI 9733

 

 

Fattori di vulnerabilità nella depressione post-mastectomia

L’esperienza di tumore al seno rappresenta un evento traumatico per la donna, in quanto la chirurgia può comportare cambiamenti marcati nella forma e nella funzione del corpo; in particolare si è visto che la mastectomia ha un impatto notevole dal punto di vista psicologico e sociale e il disturbo depressivo maggiore sembra avere un’alta incidenza.

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il tumore della mammella rappresenta in Italia e in molti paesi di tipo occidentale la forma neoplastica più frequente tra le donne, sia in termini di nuove diagnosi che di numero di decessi oncologici. La chirurgia è il trattamento più frequente proposto alla maggior parte delle pazienti per l’asportazione del tumore. Si tratta di tecniche di chirurgia conservativa (si salva il seno, ma si asporta la parte tumorale) o di tecniche di chirurgia demolitiva come la mastectomia (asportazione dell’intero seno).

L’esperienza di tumore al seno rappresenta un evento traumatico per la donna, in quanto la chirurgia può comportare cambiamenti marcati nella forma e nella funzione del corpo; in particolare si è visto che la mastectomia ha un impatto notevole dal punto di vista psicologico e sociale e il disturbo depressivo maggiore sembra avere un’alta incidenza.

Secondo Shuterland (1953), i cambiamenti nella funzione in generale coinvolgono due aspetti diversi ma inseparabili: le limitazioni realistiche imposte e le limitazioni imposte dall’interpretazione del significato che le pazienti attribuiscono al cambiamento fisico. Quindi, il tumore al seno e la chirurgia impongono problemi reali molto specifici a causa della funzione effettiva della parte del corpo o dell’organo coinvolto e del suo significato nell’adattamento totale del singolo paziente.

Il disturbo depressivo maggiore risulta, quindi, determinato dall’aspettativa della paziente della quantità e del tipo di interruzione della prestazione che la perdita di un organo comporta. La perdita della funzione, anche temporanea, è destabilizzante per le pazienti se compromette attività vitali, quando queste sono minacciate o interrotte dall’esperienza chirurgica stessa o dalle sue conseguenze.

Quando non si riesce a far riferimento a difese compensative, la depressione persiste fino a quando non è in grado di riprendere l’attività valutata compromessa. Tuttavia, alcune pazienti, a causa di limitazioni reali o di convinzioni riguardo a limitazioni che non trovano conferma nella realtà, trovano difficoltà a riprendere l’attività sacrificata e di conseguenza permane la sintomatologia depressiva. Tale sintomatologia può persistere per un periodo indefinito.

L’ impatto dell’esperienza chirurgica e della perdita del seno è altamente individuale; ciò che lo differenzia è il significato di tali eventi nell’adattamento totale della vita di ogni paziente. Durante la fase post-operatoria le pazienti esprimono frequentemente sentimenti di ostilità verso il personale medico. Inoltre, vi è un senso di vitalità corporea diminuito e sentimenti di debolezza o fragilità del corpo.

L’inaccettabilità della perdita dell’organo e l’isolamento sociale che ne consegue possono essere fattori scatenanti per l’insorgenza della depressione rispetto alla paura di recidive, infatti alcune pazienti preferirebbero morire di cancro.

Adsett, tra le diverse reazioni emotive dopo l’asportazione totale del seno, osservava la depressione come

risultante del senso di perdita dell’organo e del suo significato, percepito come base per il valore dell’individuo e accettazione da parte degli altri; quando si associa il senso di colpa la depressione appare più severa.

Le pazienti tendono ad esprimere idee di inutilità e di scarso valore riferito al Sé. Perdono il loro interesse per l’ambiente e sperimentano fatica e difficoltà a concentrarsi. Depressione e sentimenti di inutilità possono essere presenti soprattutto in pazienti il cui senso di valore dipende dalla loro capacità di essere presenti per gli altri e da una rigida negazione del sé. La loro mancata presenza nei confronti degli altri comprometterebbe la loro autostima.

Golden-Kreutz e Andersen condussero uno studio su 210 donne di cui il 59% con mastectomia e il 41% con asportazione nodulare. Attraverso questo studio, essi cercarono di stabilire il rapporto tra gli stressor subiti da queste donne e i sintomi depressivi conseguenti la malattia e l’intervento chirurgico. I risultati furono: la maggior parte delle partecipanti aveva sperimentato almeno un evento traumatico importante nella vita l’anno precedente la diagnosi. L’evento più comune riportato è stato la morte o la malattia grave di un partner/coniuge; importanti difficoltà finanziarie; il divorzio o un’altra interruzione di relazione con il partner/coniuge, familiari, o amici.

Gli autori conclusero che

elevati livelli di stress globale uniti a pensieri intrusivi legati al cancro, problemi finanziari e la tendenza alla negatività possono cospirare per aumentare il rischio di sintomi depressivi nelle donne con cancro al seno.

Inoltre, un altro aspetto di notevole interesse è l’analisi dello stile di attaccamento nelle donne sottoposte a intervento di mastectomia e la sua correlazione eventuale con l’insorgenza di un disturbo depressivo maggiore post intervento. L’attaccamento di tipo insicuro-resistente viene indicato come fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo depressivo maggiore.

In un lavoro di Koziinska (2012), sono stati confrontati due gruppi di donne: le prime con cancro alla mammella, le seconde sane. È stato osservato come nel primo gruppo lo stile di attaccamento insicuro fosse molto più frequente rispetto al gruppo di donne sane; inoltre la salute, il benessere fisico e psichico erano significativamente ad un livello inferiore nel gruppo delle donne con cancro alla mammella rispetto al gruppo delle donne sane. Infine, le donne con uno stile di attaccamento sicuro avevano una percezione soggettiva del proprio benessere fisico e psichico decisamente superiore rispetto alle donne con attaccamento insicuro, indipendentemente dalla presenza o meno di cancro al seno.

Si evince che, un attaccamento di tipo sicuro è un fattore protettivo nei confronti della depressione in tutte le donne che devono affrontare il difficile percorso terapeutico del cancro alla mammella. Inoltre, la relazione tra uno “stressor” importante come una mastectomia e uno stile di attaccamento insicuro concorrono in modo sinergico a determinare l’insorgenza della depressione.

Considerando che il cancro alla mammella e la mastectomia incidono su tutti gli aspetti della vita psichica e sociale della donna, una presa in carico della paziente da un punto di vista multidisciplinare, che veda quindi la collaborazione tra chirurgo, oncologo, psichiatra e psicoterapeuta, è molto importante, dal momento della diagnosi fino al post-intervento per individuare laddove vi siano fattori di rischio anche psicologici e per garantire alle pazienti un percorso di cura che assicuri un elevato livello di salute fisica, psichica e sociale.

 

“Perchè non, si ma”: l’applicazione del gioco Berniano alla resistenza della critica alle proprie credenze

L’accademia scientifica sta analizzando in questo periodo la resistenza alla analisi critica nei confronti delle proprie credenze. In questo articolo sono identificate le varie tipologie di bias legate alla resistenza usando come base l’Analisi dei Giochi dello psichiatra Eric Berne.

 

Come indica Francesca Pasinelli nel suo articolo pubblicato sull’Huffpost (2014), l’assenza in quel periodo di persone colpite da malattie infettive come la poliomielite (come si può notare, l’articolo appartiene al periodo storico antecedente alla diffusione del Sars-Covid-2) è un grande insegnamento per quanto riguarda il rapporto da avere con la scienza: infatti, senza di essa, l’Umanità non sarebbe arrivata a questi livelli di conoscenza tecnica e medica. Tuttavia, come è stato indicato sia dalla stampa generale (Bucchi, 2019), che dalla stampa di settore (Villa, 2019) e scientifica (Hamby, Ecker, Bringberg, 2019), in questo decennio si è verificato un declino della fiducia della popolazione occidentale nei confronti della Scienza e del Metodo Scientifico.

Di fatto, è stato sottolineato che in questi anni del ventunesimo secolo, la popolazione occidentale sta assumendo una posizione di sfiducia nei confronti del metodo scientifico, soprattutto quando riguarda l’analisi critica nei confronti delle credenze che portano certezze e sicurezza (Tsipursky, 2018).

Questa resistenza accanita nei confronti del metodo scientifico sta minacciando l’ipotetica morte della conoscenza in materia (“death of expertise”), invero dove l’opinione e l’esperienza personale è ritenuta esser allo stesso livello dell’analisi scientifica (Nichols, 2017). Tale fenomeno di resistenza culturale sta creando preoccupazione nel mondo accademico e sociale, tanto da creare figure di contrattacco come il virologo Roberto Burioni (2020).

Questa reazione al risultato ottenuto dal processo di falsificabilità di Popper (2002) e dal processo empirico, ovvero due delle basi fondamentali del Metodo di Ricerca, può essere analizzata seguendo il gioco del “Perché non….Sì ma” contestualizzato dal medico psichiatra e psicoterapeuta Eric Berne (1919 – 1970). Seguendo ciò che lo psichiatra americano identifica nel suo libro “A Che Gioco Giochiamo?” (1964), manuale considerato esser il caposaldo della analisi transazionale, il “Perché non….sì ma” è un gioco, ovvero un incontro fra due o più persone dove avviene una transazione di significati psicologici, sociali e biologici, attuato dall’attore Bianco (ovvero l’agente) nei confronti dell’attore Nero (ovvero il ricevente) con l’obiettivo di esser rassicurato circa le sue posizioni.

Di fatto, l’attore Bianco polemizza con l’attore Nero circa una situazione, indicando le varie problematiche che gli recano disturbo: tuttavia, mentre il Nero sottopone al Bianco delle soluzioni concrete a queste problematiche, il Bianco le declina in toto, con l’obiettivo di mantenere lo status quo della situazione in cui si trova. In poche parole, l’attore Bianco ha solo l’intenzione di sfogarsi con l’attore Nero circa una serie di situazioni senza però attuare delle soluzioni nei confronti di queste, poiché perderebbe il ruolo di potere che pensa di aver assunto, autoconvincendosi di trovare le proprie credenze confermate a priori, senza tener conto di ciò che propone l’attore Nero.

Questa situazione è assai simile alla resistenza che i vari scettici della Scienza assumono nei confronti della Metodologia Sperimentale: infatti, essi espongono le proprie tesi basate su letture e su esperienze proprie altamente influenzate dalle proprie credenze, annullando così la differenza di esse con la risposta basata su dati empirici e percependo di aver il diritto scientifico di rimanere sulle proprie posizioni.

La visione transazionale berniana di questo fenomeno può essere collegata coerentemente con gli ultimi risultati della ricerca cognitiva. Difatti, seguendo il processo di transazione appena descritto attraverso l’ottica neurocognitiva, l’attore Bianco inizia lo scambio con l’attore Nero già cristallizzato nei confronti delle proprie idee, attuando il “My – Side Bias” (Jarret, 2018) in maniera aprioristica, sottoponendosi così ad un ennesimo bias, il “continued influenced effect” (Willmot, 2019). Alla fine, tutti gli scambi con il soggetto Nero sono annullati dalla credenza auto-illusoria e di difesa che gli altri soggetti siano meno oggettivi e influenzati nel loro percorso di ricerca, attuando così il “bias blind spot” (Warren, 2019).

Come dice Atul Gawande, rifacendosi alle parole di Hubble del 1938, “a scientist has a healthy skepticism, suspended judgement, and disciplined imagination—not only about other people’s ideas but also about his or her own. The scientist has an experimental mind, not a litigious one” (2016).

Tuttavia, sembra tristemente più attuale rifarsi alle parole di Umberto Eco prima che morisse (2015).

La sottile linea di confine tra alimentazione sana e patologica

Nell’attuale “società del benessere” in cui predomina l’abbondanza di cibo, sempre più attenzione è posta al nutrirsi in maniera consapevole ed equilibrata. Ma esiste una sottile linea di demarcazione tra alimentazione salutare e patologia, come nel caso dell’ortoressia e della vigoressia.

 

Il cibo, fin dall’antichità, ha ricoperto un ruolo di primo piano nella vita dell’individuo, rivestendo un insieme di funzioni legate alla sopravvivenza, al bisogno di appagamento, all’appartenenza ad un gruppo, all’identità ed alla socialità.

Si mangia infatti per festeggiare compleanni, matrimoni e lauree o semplicemente per condividere a tavola momenti gradevoli con amici e parenti. Si mangia per trovare un posto nella società e per definire la propria identità sentendosi parte di una comunità con cui si condividono delle regole. Si mangia per mettere a tacere emozioni negative come ansia e stress, per consolarsi quando si è tristi, per occupare il tempo nei momenti di noia o per concedersi un’esperienza piacevole come premio. Infine, si mangia per introdurre gli alimenti necessari a garantire il giusto apporto nutritivo all’organismo.

L’ossessione di mangiare sano

Nella cosiddetta attuale “società del benessere”, caratterizzata dall’abbondanza di diversi tipi di alimenti, la possibilità di mangiare in modo continuativo, eccedendo in quantità maggiori del necessario, unitamente al perseguimento di modelli di bellezza e perfezione fisica, ha prodotto un’iperfocalizzazione dell’attenzione sul cibo quale “nemico da evitare”.

A questo si aggiunge il bombardamento mediatico e pubblicitario presente in rete che, offrendo consigli e protocolli alimentari, oltre a creare un contesto di maggior informazione e conoscenza, ha l’effetto paradossale di produrre false credenze e miti sulla nutrizione, non basati su fondamenti scientifici (Garano et al, 2016).

Tale meccanismo che ha avuto da una parte l’effetto di accrescere l’ossessione per un’alimentazione basata su pietanze “giuste” e sulla suddivisione di cibi in “buoni e cattivi” e dall’altra ha portato al diffondersi, a partire dagli anni ottanta del novecento, di pratiche alimentari restrittive come la “dieta chetogenica” a basso contenuto di carboidrati, la “dieta ipocalorica” che prevede un apporto energetico quotidiano inferiore a quello richiesto dall’organismo, come ad esempio nella Weight Watchers e nel metodo Alimentare a Zona, la “dieta macrobiotica” a basso contenuto di grassi, la “dieta crudista” che prevede il consumo di alimenti non lavorati, spesso provenienti da alimentazione biologica, la “dieta dissociata” che si basa su una rigida associazione di vari alimenti, la “Dukan” ad elevato contenuto di proteine fino ad arrivare al “digiuno intermittente”.

Perdersi all’interno di questo labirinto è davvero facile, soprattutto se non si è degli specialisti del settore e, all’interno di questo contesto, la linea di confine tra regimi alimentari sani e patologici, diventa sempre più sfumata come nel caso dell’ortoressia e della vigoressia.

Ortoressia e vigoressia

Entrambi i disturbi si sviluppano all’interno in un contesto ambientale che rinforza l’idea del mangiare sano e che culturalmente accetta il perseguimento di un’ideale di bellezza che può portare a scambiare inizialmente l’insorgenza di tale patologia con una maniera per migliorare la propria salute e correggere comportamenti alimentari errati.

Sia l’ortoressia che la vigoressia si basano infatti su uno stile di vita improntato al perseguimento di un rigido regime nutrizionale ma, mentre l’ortoressia poggia sull’ossessione per il mangiare sano che conduce il soggetto a spendere molto tempo a pensare al cibo, a quali alimenti evitare, a selezionarli e a prepararli al fine di mantenere una buona condizione di salute, la vigoressia riguarda l’ossessione per la perfetta forma fisica raggiunta tramite l’uso di un’alimentazione iper-proteica e lo svolgimento di esercizi fisici, al fine di ottenere una muscolatura ipertrofica.

In entrambe le patologie, il cibo e le pratiche sportive vengono utilizzate per definire un senso di identità e di appartenenza al gruppo, per dare consistenza al sé ma allo stesso tempo, per via dell’autocontrollo e della rigida disciplina alimentare che richiedono, tendono ad allontanare l’individuo dalla collettività conducendolo ad isolamento sociale e compromettendone la vita lavorativa. L’autostima diviene così secondaria al mantenimento della forma fisica o del regime alimentare che, se seguito correttamente, porta a provare un senso di superiorità rispetto agli altri ma ha come rovescio della medaglia, l’acuirsi di sentimenti di colpa e disagio quando si “fallisce”. E mentre nell’ortoressia tali emozioni portano la persona a seguire diete sempre più ristrette come gesto autopunitivo, nella vigoressia conducono ad estenuanti allenamenti in palestra e spesso all’uso di sostanze anabolizzanti per lo sviluppo di un corpo che non è mai ritenuto sufficientemente muscoloso.

Alcuni hanno definito tali atteggiamenti una forma di “fanatismo alimentare” che, portando a focalizzare l’attenzione unicamente sull’alimentazione, impoveriscono la complessità della realtà, comportano la fuga dai problemi reali e conducono a trovare rifugio in un unico scopo perseguibile: il cibo. L’alimento diviene così un elemento “sacro”, scelto non per il gusto che produce al palato ma sulla base delle qualità e dei benefici che può apportare in base a ideali etico-diatetici. La nutrizione assume una forma di “religiosità” divenendo una guida di precetti e comportamenti da seguire al fine di mettere a tacere paure ed insicurezze. Tale integralismo, che evidenzia l’importanza degli alimenti puri ed incontaminati, permette di concentrare le ansie riguardo il futuro nel piatto e nel cibo, ritenuto unico aspetto della vita che è possibile controllare (Garano et al, 2016; Niola, 2015).

Si arriva così al grande paradosso di tali rigidi e restrittivi regimi alimentari che, partendo dall’idea di voler preservare la salute, tramite l’utilizzo di cibi sani e di attività fisica, arrivano a depauperarla Ortocomportando squilibri nutrizionali e complicazioni mediche le cui conseguenze, troppo spesso, vengono sottostimate dalla “new age of food”.

L’insegnamento che si può trarre è quello che avevano già imparato gli antichi e che Aristotele spiega bene nell’Etica Nicomachia “supponendo che eccesso e difetto rovinano la perfezione, la via di mezzo la salvaguarda” che tradotto in un linguaggio più psicologico consiste nell’avere un approccio flessibile in tutti i contesti di vita, compresa l’alimentazione, perché l’eccessiva rigidità è uno dei campanelli di allarme della patologia.

 

 

 

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