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C’è differenza tra un qualunque sistema familiare e la comunità ebraica ortodossa descritta in “Unorthodox”?

Il percorso della protagonista di Unorthodox prevede uno svincolo dalla mente unica dell’Io familiare, che nel suo caso si potrebbe definire come “Io comunitario”, al fine di non soffocare i propri bisogni e il proprio Sé.

 

Il presente articolo, riprendendo riassuntivamente la descrizione della comunità ebraica ortodossa della serie Unorthodox, ricalca le similitudini nelle caratteristiche e nel processo di svincolo che intercorrono in questo tipo di comunità e in un qualsiasi altro sistema familiare, attraverso la citazione degli autori sistemici – relazionali Murray Bowen e Salvador Minuchin.

Una delle ultime serie prodotte da Netflix ha il titolo di Unorthodox ed è basata sull’autobiografia di Deborah Feldman. La regia si sofferma sulla descrizione di alcune delle usanze tipiche nella comunità ebrea ortodossa a New York.

Da quel che si evince attraverso il telefilm, questa comunità è come se fosse una grande famiglia dove tutti i componenti sono indifferenziati gli uni dagli altri, riprendendo Bowen, autore d’impronta sistemica – relazionale del libro Dalla famiglia all’individuo.

È interessante la descrizione di passaggi della storia della coppia nella comunità, a partire dalla scelta del partner fino al matrimonio e al concepimento dei figli. Già dalla scelta del coniuge la decisione diventa di tutta la famiglia: la madre del ragazzo deve approvare la nuora prima che diventi tale; la cerimonia matrimoniale coinvolge tutti i membri della comunità nelle diverse fasi; gli stessi rapporti sessuali non godono di libertà di movimento, in quanto necessitano di seguire un protocollo che preservi l’autostima del marito e al contempo abbia unicamente l’obiettivo del concepimento, e non viene rispettata neanche la privacy, poiché tutti i familiari sono al corrente di quello che accade o accadrà nella stanza da letto.

L’indifferenziazione, intesa da Bowen come un’unica mente comune appartenente a tutti i membri della famiglia, è riscontrabile non solo nella storia della coppia, ma anche in valori, miti e pensieri di ogni componente della comunità ortodossa, poiché inequivocabili, accettati ed assorbiti da ognuno, tanto da soffocare i propri bisogni individuali.

La differenza tra una famiglia ortodossa e qualsiasi altra famiglia sembrerebbe quasi nulla se notiamo che in entrambi i casi il Sé si annulla per mantenere la stabilità della massa indifferenziata dell’Io familiare.

Anche nella storia della coppia sono riscontrabili caratteristiche simili a quelle di molte altre coppie, in quanto nella scelta del partner inconsciamente convergono motivazioni, credenze, ideali e aspettative che appartengono alla massa indifferenziata dell’Io familiare e che permettono di rispettare vincoli di lealtà con le relazioni nella famiglia d’origine; la cerimonia matrimoniale spesso vede la partecipazione attiva degli altri familiari che non siano la coppia stessa; infine capita che la stessa vita sessuale non venga vissuta liberamente, ma sempre in funzione delle convinzioni appartenenti alla massa indifferenziata dell’Io.

Il percorso della protagonista prevede uno svincolo da questa mente unica dell’Io familiare, che nel suo caso si potrebbe definire come “Io comunitario”, al fine di non soffocare i propri bisogni e il proprio Sé e di rinunciare, dunque, al suo ruolo sacrificale, che permetteva la stabilità del sistema. Lo stesso processo di svincolo avviene per ogni individuo che si permette di affrontare l’adolescenza nella propria famiglia.

Ogni famiglia è caratterizzata da proprie convinzioni, valori, aspettative e vincoli di lealtà impliciti che legano i componenti in una rete difficile da districare ma non impossibile, seppure nel momento in cui si tira un filo, è imprevedibile il destino dei vari incastri. Allo stesso modo, nel momento in cui la protagonista della serie, o un qualunque adolescente, inizia lo svincolo dalla massa dell’Io indifferenziata, alla scoperta del proprio Sé, non sa cosa accadrà alle proprie relazioni familiari. Alcune famiglie accetteranno a piccoli passi questo processo, mentre altre, con confini più rigidi, come le descriverebbe Minuchin in Famiglie e terapia della famiglia, non riusciranno ad accettarlo e l’individuo rischierà di essere espulso, al fine di mantenere l’omeostasi del sistema. La comunità descritta in Unorthodox sembra essere una grande famiglia con confini rigidi.

Pertanto, la comunità ortodossa non è poi tanto diversa da molte altre famiglie o comunità,che fondano la propria stabilità e continuità su credenze, usanze, valori e vincoli di lealtà impliciti o espliciti, chiedendo ai membri di sacrificare il proprio Sé, e di conseguenza i propri bisogni, al fine di non incorrere in un imprevedibile cambiamento.

 

Il ruolo dell’immaginazione motoria nei processi di apprendimento

Grazie all’immaginazione motoria, dall’inglese “motor imagery”, l’atleta riesce a rappresentarsi mentalmente un movimento senza implementare una risposta motoria. La motor imagery può essere suddivisa in visual imagery e kinaesthetic imagery.

 

L’immaginazione motoria dall’inglese “motor imagery” consiste dal punto di vista dell’atleta di formare una rappresentazione di un movimento senza implementare una risposta motoria. Oggetto di studio e di approfondimento sono state in particolare le varie articolazioni di questo costrutto nel campo dell’apprendimento e del perfezionamento di un atto motorio. La motor imagery (MI) infatti può essere suddivisa, così emerge dalla letteratura, in visual imagery e kinaesthetic imagery.

La prima riguarda la composizione all’interno dell’encefalo, di un’immagine di un gesto motorio che sintetizza gli aspetti visivi della percezione (forma, colore, dimensione, posizione nello spazio, coordinate durante il movimento), la seconda invece riguarda la costituzione di una rappresentazione non visiva sintetizzando aspetti propriocettivi, tattili, viscerali (es. temperatura corporea, battiti cardiaci, sensazione di pesantezza o leggerezza di un arto, contrazione muscolare). Se si va ad indagare e a scavare in profondità, si può notare come i processi di immaginazione così distinti non seguano due vie neuronali completamente svincolate tra loro. E’ vero che nel caso della visual imagery vi è un coinvolgimento maggiore delle aree occipitali e nella kinaesthetic imagery delle aree somatosensoriali, ma diversi studi hanno dimostrato la compresenza di questi due processi in un network in comune. In particolar modo si fa riferimento alla corteccia supplementare motoria e alla corteccia pre-frontale. Questo significa che diverse modalità di rappresentazione di un atto motorio condividono dei network in comune.

Tale risultato è stato il punto di partenza per un’altra serie di ricerche che hanno indagato sulla comparazione tra i meccanismi neuro-fisiologici coinvolti nella MI e su quelli coinvolti durante l’osservazione di un atto motorio. Da queste ricerche emerge come osservazione e immaginazione di un atto motorio coinvolgano aree pressoché sovrapponibili. Questi dati hanno potenzialmente un valore importante per chi si occupa di apprendimento, se si assume poi, come si deduce dalla teoria piagetiana che la base di tutti gli apprendimenti è di natura motoria. Non si può prescindere, quindi, dalla conoscenza delle tappe dello sviluppo dell’immaginazione motoria se si vuole parlare di apprendimento cioè di come utilizzare questo costrutto in maniera fruttifera.

In particolare Mizuguchi (2016) ha perfezionato uno strumento di facile somministrazione nella scuola elementare per i processi di immaginazione motoria nella prima infanzia e in adolescenza. Tale studio prevedeva che alcuni bambini delle scuole elementari dovessero osservare delle immagini ritraenti alcune mani secondo diversi orientamenti (dorsale, palmare) e secondo diverse angolazioni (0°,90°,180°), e in un secondo momento dichiarare se l’immagine ritraeva una mano destra o una mano sinistra. Tale compito, come ha spiegato il ricercatore, presuppone abilità di rotazione mentale di oggetti e quindi la costituzione di veri e propri tracciati del percorso effettuato dalla mano nello spostamento. I risultati hanno dimostrato che prima degli 8 anni di età i bambini effettuavano molti più errori rispetto a quelli di 11 anni di età. Questa fase di pre-adolescenza sembrerebbe il crocevia per lo sviluppo di abilità di immaginazione motoria. L’abilità di immaginazione motoria segue una parabola discendente dopo i 60 anni di età e questo è supportato dalla vasta gamma di studi sull’effetto di accoppiamento bimanuale, in cui viene chiesto di eseguire un gesto con una mano e di immaginare di eseguire un gesto con l’altra mano in maniera sincronizzata, l’incapacità di eseguire il compito si traduce in un’interferenza dei meccanismi di immaginazione sui meccanismi di esecuzione. In particolare i bambini sviluppano precocemente abilità di visual imagery a dispetto della kineasthetic imagery. La seconda abilità immaginativa è strettamente correlata allo sviluppo del sistema limbico e quindi intorno ai 17 anni di età.

Tenendo conto di queste premesse lo studio dell’apprendimento e del perfezionamento di abilità di immaginazione motoria ha trovato terreno fertile soprattutto nel campo della psicologia dello sport. Nel settore sportivo riprendendo i concetti precedentemente esposti, la visual imagery, ovvero la visualizzazione di un atto motorio, è stata suddivisa in Visual Internal Imagery e in Visual External Imagery.

La visual internal imagery fa riferimento alla visualizzazione di un atto motorio in prima persona, quindi l’atleta immagina/visualizza le parti del suo corpo muoversi come se avesse una telecamera sul capo, mantenendo quindi delle coordinate spaziali di tipo egocentrico. La visual external imagery invece fa riferimento alla visualizzazione di un atto motorio in terza persona, quindi l’atleta immagina sé stesso da fuori nell’esecuzione di un atto motorio. Nel secondo caso quindi l’atleta è spettatore di sé stesso. Questa suddivisione è stata innovativa nel campo della ricerca in ambito sportivo, perché i risultati descrivono come gli atleti principianti (e spesso più giovani) siano inclini e più propensi ad utilizzare immagini in terza persona nelle fasi di apprendimento di un nuovo atto motorio e immagini in prima persona nella fase di perfezionamento o consolidamento di un atto motorio. Risultati che sono opposti a quelli dei professionisti che sembrano più concentrati sul “sentire” o percepire quelle sensazioni viscerali e tattili legate ad un atto motorio nelle fasi di apprendimento, quindi utilizzando immagini in prima persona, e viceversa sembrano utilizzare immagini motorie in terza persona nella fase di consolidamento o perfezionamento di un atto motorio. Questo significa che l’atleta più giovane è nelle fasi iniziali concentrato prevalentemente sugli aspetti ecologici dell’apprendimento, per poi familiarizzare e prendere consapevolezza dei cambiamenti personali che intercorrono mentre esegue un gesto. L’atleta professionista, data la vasta gamma di esperienze a cui ha preso parte, conosce alla perfezione il proprio corpo e le sue reazioni e ha imparato a spostare il focus prima su sé stesso nelle fasi di apprendimento, per migliorare la prestazione del gesto singolo, e poi a concentrarsi sugli aspetti ecologici che prevedono l’articolazione dei vari gesti in relazione allo spostamento dell’avversario e/o compagni di squadra.

Sulla base di questi risultati Holmes e Collins (2007) hanno sviluppato il modello PETTLEP per progettare un allenamento basato sull’immaginazione motoria. L’acronimo PETTLEP si riferisce ad alcune caratteristiche che un un allenamento basato sull’immaginazione motoria dovrebbe avere ovvero:

  • Fisica: l’immagine è più efficace quando include tutti i sensi che sarebbero coinvolti e le sensazioni cinestetiche che potrebbero essere vissute durante le prestazioni effettive.
  • Ambientale: è importante che l’ambiente in cui si svolge il processo di immaginazione sia simile all’ambiente reale di esecuzione.
  • Attività: l’attività immaginata deve essere strettamente correlata all’attività effettiva. I partecipanti dovrebbero essere incoraggiati a riportare verbalmente il coinvolgimento fisiologico e comportamentale.
  • Tempistica: l’equivalenza temporale tra movimento immaginato ed eseguito è importante, i tempi di immaginazione e i tempi di esecuzione dovrebbero essere simili per poter accedere alla stessa rappresentazione motoria durante l’immaginazione.
  • Apprendimento: il contenuto delle immagini deve essere adattato alla fase di apprendimento in cui si trova attualmente l’atleta. Per prima cosa quindi un esecutore non esperto dovrà pensare di più alla tecnica, ma nelle fasi successive dell’apprendimento potrà focalizzarsi maggiormente sulla “sensazione” del movimento.
  • Emozione: la persona dovrebbe provare e sperimentare le stesse emozioni associate alla performance, le risposte emotive del performer devono quindi essere incluse nelle immagini.
  • Prospettiva: le immagini in prima persona, soprattutto nelle fasi iniziali, sono preferibili perché sono più simili a ciò che l’atleta vede quando esegue il movimento.

Tale training, se supportato dalla pratica fisica e dall’osservazione costante, rende l’allenamento completo perché va a stimolare tutte le componenti coinvolte in qualsiasi performance sportiva: Immaginazione, Osservazione, Esecuzione.

L’immaginazione motoria consente quindi di apprendere nuovi atti motori e di perfezionare quelli precedentemente appresi ed è alla base della creatività, cioè di quella capacità di formare e combinare rappresentazioni diverse di uno stesso gesto.

 

Disturbo bipolare: i benefici di una buona alleanza di lavoro

Nonostante il trattamento, molti pazienti affetti da disturbo bipolare soffrono di una compromissione del funzionamento e di una diminuzione della qualità della vita. Una buona collaborazione tra paziente e figure professionali potrebbe certamente influenzare positivamente gli esiti del trattamento.

 

Il disturbo bipolare è un disturbo cronico dell’umore, caratterizzato da ricorrenti episodi depressivi e maniacali o ipomaniacali (AAI, 2000). La prevalenza a vita per questo tipo di disturbo va dall’ 1.5% al 2.4% (De Graaf, Ten Have, Van Gool,& Van Dorsselaer, 2011), comportando un funzionamento marcatamente alterato ed una diminuzione della qualità della vita. Inoltre, i pazienti considerano i sintomi depressivi più pesanti e debilitanti rispetto a quelli maniacali (IsHak et al., 2012).

Nello specifico, è stato sviluppato un programma di assistenza collaborativa (Collaborative Care Program) per questa tipologia di pazienti, il quale pone una forte enfasi sulla qualità dell’alleanza di lavoro. Le ricerche sugli effetti dell’alleanza di lavoro, tra professionista della salute mentale e pazienti con disturbo bipolare, sugli esiti dei trattamenti è limitata, sebbene rivelino che una buona alleanza si associa ad una diminuzione del tempo trascorso nella fase depressiva (Gaudiano & Miller, 2006), ad una diminuzione dei pensieri suicidari (Ilgen et al., 2009) e ad una migliore aderenza al trattamento (Perrone et al., 2009). Pertanto, questo studio si focalizza sui benefici dell’alleanza di lavoro terapeutico e su quali aspetti del terapeuta contribuiscono positivamente o negativamente al recupero da un episodio depressivo.

I partecipanti alla ricerca sono stati reclutanti per mezzo di dati LCM (Life Chart Method) raccolti dagli esaminatori attraverso i colloqui telefonici. Esso è uno strumento di autovalutazione per pazienti con disturbo bipolare, che si propone di indagare la gravità dei sintomi. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: presenza di mania o depressione molto grave, un decorso stabile della malattia nell’ultimo anno, non in grado o disposto a dare il consenso informato.

Tutti i pazienti ritenuti idonei (N=18) sono stati invitati, a loro volta, a partecipare allo studio attuale. Di questi, quattro hanno interrotto il colloquio e non hanno completato la ricerca. A questo punto, a ciascun partecipante è stata somministrata un’intervista semi-strutturata basata su una lista di temi fondamentali. L’intervista è iniziata, in primo luogo, con la raccolta delle caratteristiche di background e della malattia; successivamente è stato valutato il quadro depressivo attuale, esplorando, in particolare, l’ultimo episodio depressivo sperimentato dal paziente, a partire dalla domanda: “Può dirmi di più su come ha vissuto quell’episodio?”; infine, è stato approfondito il tema dell’alleanza di lavoro con il terapeuta durante l’episodio depressivo. Nello specifico, gli argomenti si sono basati su due fonti: (1) gli items del Working Alliance Iventory Scale, basate sulle tre dimensioni di Bordin (obiettivi, compiti e legami), per misurare la qualità dell’alleanza (Horvath & Greenberg,1989), e (2) le caratteristiche tipiche dell’alleanza di lavoro secondo il programma Collaborative Care , come la natura specifica della collaborazione tra paziente e clinico, l’identificazione strutturata e la valutazione degli obiettivi del trattamento.

Il terapeuta di riferimento crea un “ambiente di accoglienza” (“Holding Environment” di Winnicott, 1965), è affidabile, presente, empatico, accoglie e accetta con atteggiamento non giudicante (Meyer, 1993; Winnicott, 1965). In questo modo egli permette al paziente di comprendere quanto sta accadendo nella sua vita, riducendone lo stato di confusione. Così facendo, inoltre, il paziente viene incoraggiato ad assumere un atteggiamento attivo nel processo di riabilitazione. Per costruire una buona e forte alleanza di lavoro, i pazienti devono sentire che il clinico si prende del tempo per conoscerli come persone, al di là della malattia (Kirsh & Tate,2006).

Inoltre, il programma di assistenza collaborativa (CC) sottolinea l’importanza di collaborare e di creare buone alleanze all’interno del team (Van der Voort et al., 2015).  Nello specifico, i pazienti dello studio hanno confermato i principali elementi del programma CC, in relazione all’alleanza di lavoro: gli sforzi attivi del terapeuta di adattare il trattamento alle esigenze del paziente, la posizione del clinico come responsabile dell’assistenza, del suo coordinamento e della sua continuità, ma al contempo a disposizione del paziente. Uno dei moduli di intervento più apprezzato del programma CC, da parte dei pazienti dello studio, è quello relativo al problem solving: operatore e paziente hanno l’opportunità di collaborare alla soluzione di problemi personali, stimolando il ritrovamento del senso di controllo e, al contempo, promuovendo una buona alleanza di lavoro.

In conclusione, i risultati rivelano che i temi fondamentali che hanno caratterizzato il supporto che gli operatori della salute mentale hanno offerto ai pazienti durante la convalescenza sono: la creazione di un ambiente sicuro e di supporto e il fornire chiarimenti circa il disturbo.

 

Stravolti da webinar, videocall, videolezioni e aperitivi telematici? Ecco qui la Zoom Fatigue e come porvi rimedio

Durante le videocall il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale. Questo è uno dei fattori che contribuiscono alla cosiddetta Zoom Fatigue.

 

La pandemia che ci ha colpito ha mutato radicalmente le nostre abitudini e senz’altro abbiamo trovato molto confortante che la tecnologia ci permettesse di mantenere un legame con chi non potevamo più abbracciare.

Anche la scuola si è trasferita online, così come le riunioni, i colloqui di lavoro, le sessioni di laurea e anche gli aperitivi o le cene tra fidanzati sono diventati telematici.

Abbiamo cercato di tenerci compagnia con video divertenti ed emozionanti, rilanciato post, abbiamo approfittato di questo tempo sospeso per aggiornarci mediante webinar o per trovare forme innovative per le nostre professioni e attività.

E qualcuno di noi si è anche perso nei meandri di videogiochi, scommesse online, shopping senza limite, alla ricerca compulsiva di contatto virtuale, dell’anima gemella o di sesso online: un mondo dei balocchi di cui troverà purtroppo il conto da pagare all’uscita. Ma forse non saranno gli unici.

Tutti noi abbiamo aumentato esponenzialmente il nostro tempo di connessione per svago, per fuga, per studio, per lavoro. E forse mai come prima, abbiamo la possibilità oggi di sentire sulla nostra pelle ciò di cui molti autori, rimasti nell’ombra fino a poco tempo fa, ci avvisavano: internet e lo smartphone hanno anche pesanti effetti collaterali.

Sapevamo già dalle ricerche riportate da Jean Twenge (2018) che l’attività a schermo prolungata oltre le due ore quotidiane correla con aumenti significativi di percezione di infelicità, solitudine, depressione e, addirittura, ideazioni suicidali nelle nostre ultime generazioni (Millennial e iGen) e, dalla lettura dei libri di Manfred Spitzer (2015, 2018, 2019), trasalivamo nel costatare che la presenza continua dello smartphone incide davvero su attenzione, memoria, sicurezza stradale, capacità di lettura e calcolo, sonno, salute, stati ansiosi e depressivi.

Così come era chiaro, a chiunque si permettesse di osservarsi, che lo smartphone è diventato il nostro migliore amico, cui diamo da mangiare, per il quale ci preoccupiamo quando sta per morire, che vestiamo con protezioni colorate o glitterate quasi fosse un cucciolo: un oggetto ormai animato che condivide tutto il tempo con noi, veglia su di noi di notte, il primo ad essere guardato al mattino e a cui affidiamo sempre più la nostra memoria e possibilità di controllo degli altri (Valorzi e Berti, 2019).

Ma mai come adesso abbiamo anche la possibilità di sentire quanto possano essere stancanti e/o invasive le videocall, tanto che ricercatori e stampa internazionale stanno già parlando di Zoom Fatigue.

Ma perché ne usciamo così a pezzi?

Intanto, perché il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale.

Così come innaturale è essere deprivati di tutta una serie di comunicazioni non verbali che in presenza avvengono in modo automatico e che ora possiamo solo provare a ricostruire (faticosamente). Sempre che almeno si possano notare le espressioni sottili del viso che, visto la qualità della connessione, spesso si freezano, si quadrettano, si offuscano.

L’attenzione alle parole deve rimanere altissima e altissimo è il rischio di “perdere” l’altro o di essere interrotti anche solo perché la carica di un device è insufficiente o perché c’è una chiamata altrui in entrata.

Lo sguardo è continuo, sebbene disallineato (chi mai guarda solo l’obiettivo e non lo schermo?), perché guardare lo schermo sembra essere il modo con cui comunichiamo silenziosamente la nostra attenzione a chi sta parlando (i microfoni si attivano solo all’occorrenza e non per sussurrare un empatico “mhmm”) e il viso dell’altro appare a una distanza (reale) dai nostri occhi che mai terremo dal vivo (troppo vicini).

Dato non da poco: avete notato come si abbia la sensazione di essere guardati da tutti? Un po’ come nei peggiori incubi dei ragazzi che a scuola soffrono di ansia sociale immaginando che tutti (anche i compagni delle file dietro e davanti) li stiano guardando con aria giudicante.

Sì, giudicante, perché sembra che quando il piccolo ritardo nel suono, dovuto al mezzo imperfetto, supera i 1200 ms (Schoenenberg, Raake, Koeppe, 2014) aumenti la sensazione di avere un interlocutore meno amichevole. Come parlare dal vivo con qualcuno che ha un viso tirato e che lascia scorrere il tempo prima di esprimersi lasciandoci il tempo di pensare “Oddio, avrò detto una cosa intelligente?”. Innaturale.

Non parliamo del fatto che la nostra attenzione, già messa a dura prova dall’attrazione del guardare gli scorci delle abitazioni di ogni partecipante, si trova spesso nella tentazione di osservare e controllare la nostra stessa immagine nel riquadro anziché rimanere in quel flusso comunicativo, nel ballo del dialogo sintonizzato.

Le emozioni sono più faticose da lasciar emergere (i nostri neuroni specchio funzionano meglio a distanza reale ravvicinata) e non possiamo neppure fare un commento simpatico al nostro virtuale compagno di banco, fosse anche solo per chiedergli di ripeterci l’ultima parola che ci è sfuggita.

Ecco, avessimo avuto bisogno di capire quanto la comunicazione tecnologicamemte mediata possa incidere sulla nostra mente e sul nostro corpo, ora non possiamo non notarlo.

Eppure siamo qui e l’alternativa è non poter comunicare (o lavorare) o farlo a distanza con la mascherina. Niente di molto attraente.

Così, come le scimmiette di Harlow (1958) dovevano accontentarsi di una madre di stoffa piuttosto di quella di freddo metallo per non cadere nella depressione anaclitica osservata nei bambini degli orfanotrofi di Spitz (1965), dobbiamo accontentarci di questo in assenza di una madre di carne e ossa.

Cosa possiamo fare allora per non soffrire massicciamente di questa alterazione (speriamo meno prolungata possibile) di piano comunicativo, visto che nel nostro DNA è inciso i nostro bisogno di contatto?

  • Intanto possiamo già lasciare spazio al desiderio di ricongiungimento reale e non confonderci illudendoci che sia la stessa cosa.
  • Potremmo anche comunicare che non è necessario avere sempre la videocamera accesa, anzi, senza possiamo concentrarci meglio sui contenuti che possono piuttosto essere proposti in slide che tutti potremmo guardare senza distrazioni.
  • Possiamo ridurre le videocall a quelle davvero necessarie alla nostra operatività e al nostro cuore che sente tanto nostalgia senza avere alternative.
  • Lasciarci spazio per muoverci, bere dell’acqua, dare acqua alle piante (giusto per ricordarci che anche noi facciamo parte della natura) durante pause più ravvicinate, e sottolineare che stiamo tutti facendo uno sforzo importante e che ci meriteremo poi una attività piacevole (noi psicoterapeuti potremmo consigliare anche una visualizzazione compassionevole o di un luogo sicuro, ma ci starebbe bene anche una bella canzone o un abbraccio forte alla persona con cui conviviamo).
  • Possiamo declinare gentilmente gli inviti alle videoconferenze non preventivamente concordate e invadenti della privacy ricordando che sarebbe più sano non esporsi al sovraffaticamento e che una telefonata in cui si cammina sembra attivare più facilmente la creatività.

Il fatto che abbiamo tutti scoperto che ci si può anche “incontrare” su Zoom, su Skype, WhatsApp o FeceTime in condizione di crisi non vuol dire che dovremmo tenerlo come abitudine quando potremo finalmente uscire.

 

La perdita ambigua, l’impatto sul sistema familiare e il legame con il Covid-19

É andato via per sempre? Tornerà o non lo vedrò mai più? Non ho mai visto il suo corpo, è morto davvero? L’impossibilità di dare risposta a queste domande impedisce all’individuo di riorganizzarsi nei pensieri e nelle emozioni. La perdita ambigua ai tempi del Covid-19.

 

Da sempre gli esseri umani hanno mostrato la necessità psicologica di sancire in qualche modo la definitiva perdita di una persona cara, arrivando così a creare forme ritualistiche di diversa natura attraverso cui comunicare, a sé stessi e agli altri, che il cambiamento (la perdita) è immutabile. Queste forme di comunicazione sociale non determinano solamente l’ufficialità della morte e la perdita, ma permettono ai sopravvissuti di avviarsi verso il doloroso, ma naturale, processo di elaborazione del lutto, alla fine del quale l’individuo si scoprirà riorganizzato nella sue funzioni psicologiche, cognitive ed emotive e in grado di muoversi ancora all’interno del mondo, pur in assenza della persona cara (Boss, 2009).

Vi sono però delle situazioni in cui la messa in atto dei classici rituali di passaggio non è possibile. Sono quei casi in cui la perdita della persona cara non può essere dichiarata con certezza o in modo chiaro e definito. In questa categoria rientrano i rapimenti, i dispersi di guerra, le morti senza corpo, ma anche tutti coloro che pur essendo presenti fisicamente sono estremamente distanti cognitivamente ed emotivamente. Ecco quindi che i confini della perdita si fanno sfuocati e confusi e la perdita diventa ambigua.

La teoria della perdita ambigua compare in letteratura grazie ai lavori di Pauline Boss, e viene descritta come una perdita sfuggente, confusa, non chiara, in qualche modo sospesa nel tempo e nello spazio (Boss, 1999).

Essere in presenza di un perdita ambigua, secondo Boss (1999), congela il processo di elaborazione del dolore, impedisce la riflessione cognitiva e quindi le strategie di coping adattive, arrivando a configurare la perdita come traumatica, proprio a causa dell’incertezza che la circonda. È questa incertezza che, secondo l’autrice, alimenta nell’individuo una posizione ambivalente e contraddittoria, destinata per sua natura ad essere irrisolvibile. In tale senso, non è solo l’ambiguità a diventare la fonte di stress traumatica, ma anche l’angoscia derivante dalla conseguente costante ricerca di coerenza. É andato via per sempre o solo per un po’? Tornerà o non lo vedrò mai più? Non ho mai visto il suo corpo, è morto davvero? L’impossibilità di dare risposta a queste domande impedisce all’individuo di riorganizzarsi nei pensieri e nelle emozioni, così da poter fronteggiare l’assenza e ridefinire il proprio ruolo.

Nella teoria della perdita ambigua Boss (1999) individua due tipi di perdite: la presenza fisica della persona che risulta psicologicamente assente (good-bye without leaving) e la presenza psicologica della persona fisicamente assente (leaving without good-bye). Se nel primo tipo di perdita la persona è presente fisicamente, ma il suo stato cognitivo le impedisce di partecipare pienamente alle dinamiche familiari e di mantenere il ruolo che ha sempre ricoperto, nel secondo caso la persona pur essendo fisicamente assente, continua ad avere, su familiari e amici, un’influenza psicologica così importante da renderla al medesimo tempo viva e presente.

Colpisce come all’interno del contesto della pandemia da Covid-19 si possano spesso trovare entrambi i tipi di perdite, addirittura in modo consequenziale nei casi più gravi. Prima il ricovero, la separazione fisica e improvvisa della persona cara, che tuttavia rimane con noi, con i suoi vestiti nell’armadio e il suo spazzolino accanto al nostro. Poi, a volte, il coma indotto, una mente assente all’interno di un corpo vivo a cui non possiamo avvicinarci per il nostro stesso bene. E, infine, nei casi più sfortunati, la morte, che viene comunicata, ma non può essere vista, toccata e vissuta nella camera mortuaria o al funerale. Solo una bara vista da lontano.

La perdita di una persona cara, tuttavia è un fattore che non colpisce solamente l’individuo sopravvissuto nella sua singolarità, ma anche l’intero sistema famigliare. Secondo la prospettiva sistemica la riorganizzazione del ciclo di vita famigliare non coinvolge solamente la famiglia nucleare, ma l’intero sistema in termini trigenerazionali. È questa infatti la rete che costituisce le radici dell’individuo e, insieme agli amici, si caratterizza come risorsa di supporto importante di fronte alla perdita (Canevaro, 2005).

Ogni sistema possiede delle strategie, che si declinano in modo unico e singolare, che mette in atto per superare i compiti famigliari legati all’elaborazione del lutto. Idealmente per superare un lutto il sistema coinvolto dovrà in primo luogo riconoscere e accettare la morte, creare un luogo in cui poter comunicare emotivamente attorno alla perdita, rinunciare alla persona scomparsa, riadattare i ruoli familiari ed extrafamiliari, per giungere infine alla riaffermazione del senso di appartenenza al nuovo sistema familiare con l’ingresso in una nuova fase del ciclo di vita (Godlberg, 1973; Pereira, 1998).

Le strategie di coping che ciascun individuo possiede e che apprende nel corso dell’infanzia, intuendo ciò che può essere apertamente discusso o meno e quali stati emotivi siano accettabili (Betz e Thorngren, 2006), interagiscono con la rete costituita dai membri del sistema, in un gioco di relazioni che si evolve e viene trasmesso all’interno della storia transgenerazionale familiare (Moos, 1995). Il dolore legato alla perdita tocca le strategie legate all’attaccamento di ognuno, l’identità di ogni membro, la stabilità emotiva e relazionale, i ruoli sociali e familiari. Il sistema dovrà quindi mettere in campo modalità orientate alla ridefinizione dell’identità familiare e dei ruoli dei suoi membri, trovando un significato condiviso rispetto a quanto accaduto (Rycroft e Perlesz, 2001).

Di fronte a una perdita ambigua, però, la famiglia si trova a vivere uno stato di immobilità e incapacità di andare avanti a causa della specificità della situazione e dell’impossibilità di attribuirle un significato. I fattori che nel caso di un lutto sostengono la famiglia nel processo di elaborazione, vengono in questo caso a mancare, rendendo il processo maggiormente complesso.

Rifacendosi ai due tipi di perdite ambigue individuate da Boss (1999), gli elementi che sembrano impedire e bloccare il normale, per quanto doloroso, processo del lutto sono l’assenza di pratiche che sanciscono la perdita anche in caso di incertezza e parzialità (demenze, traumi e lesioni cerebrali, coma) e la mancanza fisica della persona e i dubbi rispetto al suo destino (è morta davvero?). Ecco quindi che l’incertezza e la sospensione della morte alimentano il senso di solitudine, di impotenza e di stallo di chi invece resta, conducendo alla cristallizzazione delle dinamiche e delle relazioni interne impedendo alla famiglia e all’individuo di evolversi e di riadattarsi.

I cambiamenti che hanno coinvolto i rituali attorno alla morte nel corso della pandemia da Covid-19 (Moore, Tulloch, Ripoll, 2020), si traducono così in un dispiacere senza diritti, in cui la mancanza di riconoscimento e condivisione sociale e culturale compromettono le risorse che supportano il processo del lutto (Zhai, Du, 2020). La narrazione interna si blocca e il lutto diventa traumatico, segnando come una ferita che continua a sanguinare la storia intrapsichica dell’individuo e quella transgenerazionale del nucleo famigliare (Paul e Grosser ,1965).

La situazione presente diventa quindi un’occasione, nel qui ed ora, per riflettere sul tipo di sostegno che il professionista della salute può e deve offrire a chi si sta confrontando (o si è confrontato) con una perdita ambigua. In una società occidentale sempre alla ricerca di risposte rapide, definite e coerenti, la perdita ambigua rappresenta la prova evidente del fatto che non tutto è controllabile e definibile in modo chiaro e preciso.

Le persone, tuttavia, hanno bisogno di un po’ di padronanza e controllo sulla propria vita. Il trucco è bilanciare la necessità di controllo con l’accettazione di una perdita irrisolvibile. Accettiamo l’ambiguità perché non c’è nient’altro che possiamo fare. Riconosciamo che il mondo non è sempre giusto, che le cose non vanno sempre come desideriamo e che possiamo esternare la colpa, additando l’ambiguità come la responsabile della nostra sofferenza. Facciamo scelte e decisioni ove possibile e troviamo aspetti che possiamo controllare, come la ricostruzione dei legami famigliari e la condivisione emotiva della perdita (Boss, 1999, 2010).

Per potersi spostare verso la speranza e i bei ricordi, quindi, è necessario che il sistema famigliare integri l’esperienza vissuta nella propria storia, modificando il significato che i suoi membri attribuiscono alla perdita ambigua.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del settimo incontro “I genitori dei pazienti con distubi alimentari”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del settimo incontro con la Dott.ssa Sara Novero.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del settimo incontro è stata la Dott.ssa Sara Novero, la quale ha affrontato l’argomento “I genitori dei pazienti con distubi alimentari”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici (2020) di D. Baroni – Recensione del libro

Duccio Baroni, nel suo libro L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici, suggerisce una serie di passi e strumenti per poter affrontare la rottura di una relazione sentimentale.

 

La fine di una relazione è un evento doloroso molto comune nella vita delle persone. Siamo biologicamente predisposti a ricercare e costruire relazioni, che diventano quindi un aspetto molto importante della nostra esistenza. Pertanto è normale che, quando un rapporto significativo termina, ciò procuri una sofferenza che può incidere fortemente su vari ambiti della vita.

Come poter superare un momento così difficile e far in modo che diventi anche un’occasione per ripartire su basi migliori?

Duccio Baroni, nel suo libro L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici suggerisce una serie di passi e strumenti per poter affrontare questo momento critico.

Non propone un “protocollo” specifico, consapevole che una procedura ben precisa che valga per tutti non esiste, bensì suggerisce un percorso con passaggi da attraversare e riattraversare, all’insegna dell’accettazione delle normali reazioni emotive che possono emergere e dell’impegno a mettere in atto le strategie indicate, assumendosi ognuno la responsabilità del proprio percorso di cambiamento.

L’arte di riparare un cuore: le fasi di elaborazione della rottura

Il processo di elaborazione della fine di una relazione è un percorso composto da tre fasi dai confini sfumati: possono esserci oscillazioni tra una fase e un’altra, ma ogni volta che una fase viene rivissuta, ciò avviene con meno dolore e ci si resta per minor tempo. Per questo è un percorso che assomiglia più a una spirale, che a una linea retta:

Fase 1: Lo shock. E’ la fase dell’incredulità, dell’incapacità di rendersi conto della perdita che si sta attraversando, una perdita che va oltre la persona fisica, ma che riguarda anche le energie e le aspettative investite nella relazione, l’identità di coppia, le abitudini e gli amici comuni. Permette di non essere sommersi da emozioni che pensiamo di non poter gestire e, di solito, si risolve naturalmente, dandoci il tempo di adattarci alla nuova situazione e di prepararci a iniziare l’elaborazione.

Fase 2: La tempesta. E’ la fase delle tempeste emotive, in cui diventa importante mettere in atto strategie per poter gestire le reazioni che più caratterizzano questo momento (tristezza, ansia, ruminazione, rabbia, colpa e rimorso, senso di fallimento, speranza).

Fase 3: Comprensione, accettazione e integrazione. Il punto centrale di questa fase è l’accettazione di quanto è accaduto e del fatto che non può essere cambiato. Non è un passo semplice, in quanto ci si ritroverà a oscillare spesso tra accettazione e rifiuto. Tuttavia, con il tempo e l’impegno, i periodi di calma saranno sempre più lunghi e si andrà verso una profonda riorganizzazione della propria vita, con una maggiore attenzione alla cura dei propri bisogni e desideri. Ci si darà il permesso di tornare a vivere e ad amare.

Per aiutare nella buona riuscita di questo percorso, nel libro vengono proposti dei passaggi da seguire secondo l’ordine proposto, accompagnati da esercizi che aiutino la persona nel raggiungimento dei vari step.

Un concetto centrale che viene ribadito è che il tempo non basta per la riparazione di un cuore, ma che fondamentale sia l’uso che viene fatto di questo tempo.

L’arte di riparare un cuore: gestire l’emergenza

Nei primi quattro capitoli vengono presentate, in dettaglio e con apposite schede, strategie per affrontare l’emergenza emotiva e imparare a regolare l’intensità delle emozioni spiacevoli (esercizi di rilassamento, grounding/radicamento, uso di vari tipi di diario).

Un paio di capitoli vengono dedicati all’importanza di creare una rete di supporto e di prendersi cura del proprio corpo (alimentazione sana, esercizio fisico, cura del sonno) e della propria mente (meditazione, contrastare i pensieri autocritici, scrivere giornalmente un diario, attività rigeneranti).

Un raccomandazione necessaria viene fatta per i casi in cui, dopo circa un mese, non si abbia una leggera diminuzione in frequenza o intensità degli episodi di forte dolore: per queste specifiche situazioni, si consiglia di rivolgersi all’aiuto di una figura professionale.

L’arte di riparare un cuore: elaborare la fine di una relazione

Una volta raggiunti gli obiettivi e le competenze necessarie nella gestione delle forti emozioni provate, dai capitoli quinto all’ottavo vengono presentati i passi per l’elaborazione della fine della relazione, in cui diventa importante comprendere le cause della rottura, i propri schemi relazionali per non esserne più schiavi, dare un significato a ciò che è stato, lasciare andare il passato e perdonare sé stessi e l’altro (da non confondere con ignorare o dimenticare quanto successo).

Il processo di riparazione del cuore implica tempo e, soprattutto, il rispetto dei tempi della propria mente: l’elaborazione richiede circa dai sei ai diciotto mesi e comporta lo sviluppo della capacità di stare soli, per poter decidere chi avere accanto ed essere, di conseguenza, felici anche in coppia.

L’arte di riparare un cuore: verso una nuova vita

Gli ultimi due capitoli forniscono utili suggerimenti per la ripresa di una nuova vita e l’apertura a una possibile nuova relazione di coppia, dove elemento principale rimane l’assumersi la responsabilità del proprio benessere emotivo facendo scelte che proteggano dalla sofferenza.

I passi presentati in questo libro-vademecum, pur focalizzati sul superamento della rottura di una relazione, in realtà vanno nella direzione più ampia di una riconquista della fiducia in sé stessi e di un procedere verso un’esistenza in linea con i propri desideri, in equilibrio tra la cura di sé e la cura dell’altro.

Rispettando te stesso, le tue emozioni e i tuoi valori, ti esorto a esplorare il mondo non per trovare la persona «giusta», ma per aprirti a ciò che troverai sul cammino che ogni giorno sceglierai.

 

Ansia sociale e consumo di sigarette

Nonostante i rischi associati al consumo di sigarette siano spesso ben noti, intraprendere e mantenere nel tempo la decisione di smettere di fumare può essere difficile.

 

Ciò può essere ancor più difficile per le persone che soffrono di ansia sociale, le quali mostrano maggiori livelli di dipendenza da nicotina e riportano un maggior numero di tentativi falliti di smettere di fumare (Cougle, Zvolensky, Fitch, & Sachs-Ericsson, 2010).

Buckner, Zvolensky e Lewis (2019) hanno ipotizzato che le persone con ansia sociale possano fumare sigarette per cercare di regolare le loro emozioni negative. Le sigarette rappresenterebbero quindi una modalità inefficace di gestire sensazioni negative.

Nelle persone con disturbi d’ansia, è frequente l’uso di strategie poco efficaci per ridurre l’ansia, ossia i falsi comportamenti di sicurezza (false safety behavior, FSB). Un FSB è un comportamento che fa sentire l’individuo protetto dallo stimolo che causa ansia. Tuttavia, sebbene i falsi comportamenti di sicurezza permettano di sperimentare un’immediata riduzione dell’ansia, a lungo termine possono costituire un fattore di mantenimento del disturbo ansioso.

Gli autori hanno quindi verificato se più alti livelli di ansia sociale aumentassero la tendenza ad usare FSB frequentemente, e se questo a sua volta comportasse un maggior consumo di sigarette al giorno.

Buckner, Zvolensky e Lewis (2019) hanno coinvolto un campione di 71 studenti universitari, a cui hanno chiesto quante sigarette fumassero al giorno. Inoltre hanno raccolto informazioni circa i livelli di ansia sociale negli studenti e la tendenza ad utilizzare vari tipi di FSB quando si sentivano nervosi, preoccupati o ansiosi. Attraverso la Safety Aid Scale (SAS; Korte & Schmidt, 2014), hanno misurato la presenza di falsi comportamenti di sicurezza, tra cui: cercare continue rassicurazioni; farsi accompagnare da un amico quando si deve affrontare una situazione sociale; evitare situazioni in cui si incontreranno altre persone, ad esempio una festa; controllare mentalmente che vi sia la possibilità di uscire dalla stanza; o ancora prepararsi eccessivamente prima di un evento sociale.

I risultati indicano che maggiori livelli di ansia sociale si associano a un maggior numero di sigarette fumate al giorno e a un maggior uso di evitamento come FSB. Quest’ultimo tipo di FSB risulta associato a sua volta al numero di sigarette fumate al giorno. Il modello di mediazione ipotizzato è quindi confermato dai dati: l’ansia sociale agisce indirettamente sul consumo di sicurezza attraverso i FSB.

Questo studio presenta diverse limitazioni: innanzitutto coinvolge un campione di studenti universitari prevalentemente femminile, pertanto sarebbe opportuno replicare lo studio su un campione più inclusivo, che coinvolga anche fumatori che hanno intenzione di smettere di fumare. Inoltre sarebbe utile valutare come altri tipi di ansia siano connessi con i FSB e di conseguenza con il consumo di sigarette. Infine, bisognerebbe approfondire ulteriormente la relazione specifica tra FSB e uso di sigarette.

Sebbene quindi lo studio sia da considerare un punto di partenza per comprendere la relazione tra ansia sociale e fumo, un’importante implicazione clinica è che i fumatori potrebbero trarre beneficio dall’insegnamento di modalità più adattive di gestire le emozioni negative.

 

Resilienza: un’abilità verso il cambiamento

Il termine resilienza è un termine specifico che appartiene al campo della metallurgia e si riferisce alla capacità dei materiali che ne fanno parte, di resistere agli urti senza danneggiarsi, mantenendo le loro qualità adattive nonostante gli agenti esterni aggressivi.

 

In tal senso, potremmo pensare la resilienza in psicologia, sostanzialmente, come la capacità di saper trasformare un’esperienza dolorosa in un’esperienza positiva.

Il termine resilienza deriva dal verbo latino resilio, che significa rimbalzare, saltare indietro. Indica, in generale, l’essere resistenti e forti ai traumi, quindi la capacità di affrontare le avversità e superare le fratture che comportano.

Logicamente, il termine resiliente si estende sia ai singoli individui che ad un gruppo esteso di persone. Esso s’impiega spesso per indicare un soggetto in grado di dare uno slancio positivo alla propria vita, raggiungendo obbiettivi importanti, malgrado le circostanze; invece, se applichiamo il termine resilienza ad un gruppo di persone, esso indica la capacità di un gruppo sociale di far fronte collettivamente ad eventi traumatici o catastrofi naturali, adottando linee guida che consentano la sopravvivenza della comunità. In entrambi i casi, sicuramente, vengono utilizzate le abilità di ciascuno in una versione multi-tasking per poter dare un risultato ottimale alla situazione da affrontare.

L’uomo reagisce, in questi casi, attraverso una risposta adattativa, cioè lo stress, che consiste in un insieme di risposte sia psichiche che fisiche agli eventi.

Spesso, come sinonimo di resilienza, viene utilizzato il termine resistenza, ma in realtà viene impiegato in maniera impropria, poiché il primo si riferisce a una qualità aggiunta al proprio modo di vivere, ovvero trovare soluzioni agli squilibri, seppur non previsti, facendone una forza personale; invece si parla di resistenza, quando s’insiste su qualcosa che non ci porta ad un miglioramento, perciò ci arrochiamo a prendere le stesse strade per sentirsi rassicurati ma non per evolvere ed esplorare le proprie risorse. Proprio nel momento in cui attingiamo dalle risorse che non sapevamo di avere, si attivano le nostre capacità resilienti, tracciando un’alternativa a quella che si sarebbe rivelata il nostro unico dolore. In fin dei conti, nel corso del nostro ciclo di vita, gli eventi non sono sempre positivi, né essi sono compatibili con i nostri stati emotivi, né con le nostre situazioni di base.

I fattori che fanno parte delle persone resilienti, sono molteplici. Fra questi, potremo elencare:

  • l’ottimismo inteso come la capacità di prendere il lato buono di ogni cosa. Questa visione, favorisce il benessere individuale e difende dalla sofferenza perché dona lucidità;
  • l’autostima, indice di un’equilibrata considerazione del sé che consente di sopportare meglio le critiche, senza subirne gli effetti amari, riducendo la possibilità sviluppare sintomi depressivi;
  • l’inclinazione propositiva delle componenti quali il controllo, l’impegno e la sfida, ovvero la predisposizione a considerare i cambiamenti come opportunità piuttosto che come minacce;
  • le emozioni positive, ovvero la capacità di concentrarsi su ciò che si possiede anziché su quel che ci manca.

Allora, come possiamo fare per essere resilienti senza farci assorbire del tutto dalle avversità?

Dovremmo apprendere ogni giorno che questa abilità, pur essendo una capacità innata in alcune persone, va coltivata ogni giorno; si comprende che la quotidianità è un’arma a doppio taglio, la quale si rivela la nostra comfort zone ma, allo stesso tempo, un frame troppo rigido per far emergere le nostre vere competenze. Questa cornice è valida per tutti quegli eventi che comportano un trauma al soggetto, come i lutti e gli abbandoni, i quali richiedono un lavoro di elaborazione e di ristrutturazione del sé di enorme portata.

Migliorare la comunicazione, i nostri valori interpersonali e l’empatia può essere una risposta efficace per fronteggiare le situazioni ostili, perché la scelta è solo nostra, se apprendere una lezione definitiva, per allenare nuove strategie di coping o abbandonarci a noi stessi, per poi magari ritrovarci a fare le stesse domande. Per questo è importante avere una nostra guida, per non sprofondare in patologie più serie, come i disturbi d’ansia, il panico o la depressione.

Le angosce sono, in prima linea, delle spie che ci comunicano il senso d’inquietudine e la vita alternativa, forse più adatta alle nostre necessità in quel determinato momento. Questo segnale va ascoltato anche tramite l’educazione affettiva, il buon uso della lettura dei social media, che è possedere diverse chiavi di lettura, e non solamente leggere il punto di vista dello scrittore.

La resilienza va costruita proprio grazie alle diverse opportunità che ci offre la vita ma per impararla sulla nostra pelle ed insegnarla ai nostri figli, bisogna sempre che qualcuno ci dia il buon esempio.

 

Immaginazione guidata e video-terapia

Siamo a inizio marzo, si inizia a parlare di distanza sociale, quarantena, lockdown. Il pensiero corre velocemente ai miei pazienti: dovremo interrompere le terapie? Quanti di loro accetteranno di continuare online?

 

Riusciremo a sentirci a nostro agio con uno schermo che ci separa (col senno di poi, direi più “che ci unisce”)? Ma soprattutto, la video-terapia sarà ugualmente efficace e potremo ottenere benefici da questo nuovo setting? L’isolamento sociale a cui siamo stati chiamati ha richiesto alla psicoterapia un adattamento importante a condizioni, oserei dire, uniche.

Prima dell’8 marzo di quest’anno, mi era capitato di fare delle sedute Skype solamente con una paziente e solo per 4 o 5 volte. Non mi allettava particolarmente l’idea della video-terapia, più che altro perché non ero sicura di esserne in grado, in realtà senza nemmeno averci mai provato realmente.

Ora però la faccenda della video-terapia si fa più pressante, andare in studio mette a rischio me e gli altri: decido di non voler interrompere le sedute perché alcune terapie sono in pieno assessment e stiamo gettando le basi per la ricostruzione degli schemi interpersonali, altre sono nel pieno della condivisione del funzionamento, altre ancora sono in una fase avanzata di promozione del cambiamento. Decido quindi di proporlo a tutti i pazienti, ma per alcuni in particolare sentivo ancor più opprimenti le domande che mi ponevo.

Tecniche esperienziali in psicoterapia: a quale scopo?

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) negli anni si è sempre più arricchita di tecniche esperienziali includendo tecniche corporee, drammaturgiche e meditative (Dimaggio et. al., 2019). Nell’utilizzare questi strumenti, possiamo perseguire differenti scopi a seconda della fase di terapia e, più nello specifico, della procedura decisionale che stiamo seguendo (Dimaggio et al., 2013). In TMI, se ci troviamo nella macrosezione iniziale di formulazione condivisa del funzionamento, con l’utilizzo delle tecniche esperienziali puntiamo a migliorare l’accesso al mondo interno del paziente ed accrescere il suo senso di agency su di esso, a migliorare le capacità metariflessive, a ricostruire gli schemi interpersonali, a promuovere la differenziazione. In una fase più avanzata, di promozione del cambiamento, ci porremo gli obiettivi di ampliare la differenziazione, adottare nuovi punti di vista e accedere alle parti sane, costruendo una visione di sé integrata (Dimaggio et. al., 2019). Fondamentale è l’utilizzo di queste tecniche prestando costante attenzione alla formulazione del caso e delle procedure decisionali, cercando sempre di lavorare nella zona terapeutica di sviluppo prossimale (Leiman, Stiles, 2001).

Quello che emerge dalla pratica clinica e dalla ricerca è che l’utilizzo di tecniche esperienziali e corporee quali immaginazione guidata, role-play, gioco delle due sedie, mindfulness migliora l’accesso al mondo interno ed accelera il cambiamento, coadiuvando senza dubbio le tecniche puramente cognitive (Arntz, 2012; Brewin et al., 2009; Lee & Kwon, 2013; Morina, Lancee, & Arntz, 2017; Norton & Abbott, 2016; Reimer & Moscovitch, 2015).

Tecniche esperienziali in video-terapia: immaginazione guidata

La quarantena mi ha costretta a fare ricorso alla costruzione di una massiccia dose di auto-regolazione del mio assetto mentale riguardo i miei timori sull’efficacia della video-terapia, ma soprattutto sull’essere personalmente in grado di lavorare in questo nuovo setting. Mi sono riallineata quindi con gli scopi delle terapie in corso che sarebbero proseguite online. In parole povere, ho deciso di sperimentare insieme ai miei pazienti ciò che avevamo già/non avevamo ancora provato in seduta dal vivo.

L’immaginazione guidata mi ha sempre affascinata ed ho deciso di approfondirne lo studio. Si ripete spesso che il terapeuta dovrebbe utilizzare strumenti che ben padroneggi e che – soprattutto – gli piacciano e lo facciano sentire a proprio agio, no? Ed è ciò che ho voluto fare.

Inizialmente mi sono domandata se lo schermo di un PC potesse rendere più difficile l’utilizzo di questa tecnica. Poi ho pensato anche che in fondo nell’immaginazione guidata il terapeuta non viene propriamente incluso, è una sorta di voce fuori campo, il paziente ha gli occhi chiusi ed è immerso nel ricordo. Lo vedremo tra poco, mi dico.

Immaginazione guidata in video-terapia: la storia di Mirko

Piuttosto che descriverne la teoria rischiando di annoiare (e annoiarmi), ho preferito snocciolare l’applicazione dell’immaginazione guidata attraverso il racconto di un paziente. Insieme abbiamo deciso di rivivere un ricordo emerso nelle ultime due settimane di terapia su Skype ed identificato da lui stesso come elemento centrale dei suoi problemi relazionali attuali: se esprimo le mie emozioni e i miei bisogni, oppure se perseguo i miei piani, l’altro soffre ed io mi sento in colpa perché faccio male alle persone che amo.

Mirko è un ragazzo di 27 anni. Evitare la critica dell’altro per paura del rifiuto e dell’abbandono è sempre stata una costante nella sua esistenza, la profonda convinzione di valere meno degli altri e di essere intellettualmente limitato lo bloccano da tempo, il resto del mondo è descritto come “capace” e dominante rispetto a lui. Dopo una vita vissuta all’insegna dell’evitamento cognitivo ed emotivo, entrare in contatto con le proprie emozioni sembra una vera sfida.

Regolazione della relazione terapeutica

Per prima cosa condivido con Mirko l’utilità ed il possibile beneficio dell’esercizio che gli sto proponendo. Gli anticipo anche che con tutta probabilità ciò evocherà dolore psicologico, ma che saremo in grado di regolarlo insieme, anche attraverso lo schermo. E’ la prima volta che torniamo su questa scena, perciò spiego al paziente che il nostro obiettivo primario è l’incremento dell’esperienza emotiva. In realtà per lui anche solo entrare in contatto con un’emozione sarebbe un ottimo risultato, quindi l’obiettivo è impegnativo. Ma entrambi ne siamo consapevoli perché la condivisione del funzionamento ormai è assodata da un bel pezzo. Mirko dice di essere curioso di quello che accadrà. L’alleanza terapeutica è solida ed entrambi siamo pronti ad intraprendere questo viaggio nel passato.

Evocare una scena definita nello spazio e nel tempo

Il racconto strutturato dell’episodio lo abbiamo dalla seduta precedente, perciò propongo un breve riassunto per entrambi, facendo attenzione ad includere chi era presente nella scena, dove e quando si è svolto l’episodio e tenendo a mente la struttura dello schema interpersonale di Mirko.

Brevi istruzioni

Spiego al paziente che dovrà raccontare la scena utilizzando la prima persona e l’indicativo presente, descrivendo suoni, colori, voci delle persone presenti, tutto ciò che lo aiuti a rivivere il ricordo come se fosse lì in quel momento, nel qui e ora, evitando di commentarla per bypassare l’io narrante. Preparo Mirko alla possibilità che io possa intervenire per farlo tornare nella scena e rimandando ad un secondo momento qualsiasi riflessione emergesse. Questo previene la possibilità che possa sentirsi invalidato se dovesse uscire momentaneamente dal ricordo per pensare, invece che rivivere (nota: lui stesso aveva precedentemente riconosciuto il suo meccanismo di evitamento “inizio a ragionare per non sentire emotivamente”, quindi è stato più facile condividere con lui l’intento di bypassare la narrazione).

Ingresso attraverso tecniche di grounding e mindfulness

Mirko è seduto sulla sedia in cucina, con le gambe rannicchiate al petto. Gli propongo un breve esercizio di grounding e mindfulness. Gli chiedo di provare a sistemare l’inquadratura in modo che possa vedere il busto per intero, per monitorare il più possibile buona parte del corpo (posizione delle spalle e del busto, velocità della respirazione, movimenti delle mani). Assume una posizione più composta, con i piedi che toccano il pavimento, la schiena dritta ma non rigida, le mani morbidamente sulle gambe. Gli chiedo di chiudere gli occhi, se gli va. Li chiude. Sente il contatto del corpo con la sedia. Immagina che dalle piante dei piedi fuoriescano radici che lo ancorano saldamente al pavimento. Porta l’attenzione sul respiro, senza modificarlo. Si sente rilassato e connesso. Possiamo cominciare.

Esecuzione dell’immaginazione guidata

Mirko ha 7 anni ed è nella sua cameretta con il fratello minore di 4. I genitori stanno litigando violentemente nella stanza accanto, urlano, lanciano oggetti, spostano mobili. I due bambini sono dietro la porta socchiusa ad ascoltare ciò che accade. Mi accorgo che Mirko sta raccontando, più che rivivendo il ricordo, perché descrive tutto in modo neutro, con il suo tipico distacco emotivo, il volto inespressivo, utilizza espressioni come “Penso di provare paura”. L’io narrante è attivo. Per aiutarlo ad entrare nella scena, faccio domande mirate su dettagli sensoriali: “Cosa vedi intorno a te?” “Il letto, i giocattoli”; “Com’è la luce che entra dalla finestra?” “Calda, arancione, sta tramontando il sole, è tardo pomeriggio”; “Guarda tuo fratello e nota che espressione ha” “E’ spaventato, sta per piangere, la sua faccia chiede aiuto, è come se dicesse “ho paura, aiutami””.

Proseguo. “Cosa stai pensando mentre guardi il volto di tuo fratello che chiede aiuto?” “Non devo mostrargli che ho paura anche io, altrimenti si spaventa ancora di più, non posso piangere”. “Guarda la sua faccia che ti chiede aiuto. Cosa provi?” “Sento come una doppia paura: i miei genitori stanno per separarsi e mio fratello è spaventato, come faccio a tranquillizzarlo?”

Mirko si muove nervosamente sulla sedia, appare agitato. “Cosa senti ora?” “Ansia, devo tenere il controllo. E’ un mio dovere non far peggiorare la situazione. Se mi ci metto pure io… Non so gestire la situazione”. Dal video noto che l’espressione di Mirko cambia, gli chiedo cosa prova. “Tanta tristezza per mio fratello che ha paura e per i miei genitori che stanno per separarsi”.

Noto nuovamente che Mirko è tornato a raccontare una storia, non sta sperimentando le emozioni dolorose che riporta. Decido di utilizzare la tecnica della ripetizione di frasi emotivamente cariche con marcatura, dando enfasi emotiva ed accentuandone le sfumature negative dello schema: “E’ sbagliato mostrare ciò che provo, Se mostro ciò che provo, l’altro soffre, Se mi lascio andare emotivamente, perdo il controllo sulla situazione e l’altro soffre, E’ più importante quello che provano gli altri rispetto a ciò che provo io, Non posso chiedere supporto, sono io a dover dare supporto”.

“Vorrei tornare al giorno prima, fare come se nulla fosse successo. Ora finisce, ora finisce, ora finisce. Più lo ripeto, più l’ansia aumenta. Sto mostrando a mio fratello che sono spaventato. Sì, ma non in modo volontario eh, comunque non gli faccio vedere che sto per piangere, quello no!” Sta di nuovo ragionando, quindi gli chiedo di ripetere a voce alta quelle frasi, prestando attenzione a come si sente.

Mirko inizia a ripetere, ma con scarsa convinzione nel tono della voce e con un’espressione del volto che leggo come vergogna. Gli chiedo un feedback su cosa stia provando. Ride imbarazzato. “Una sensazione stranissima. Mi vergogno a dire queste cose. Ma non di te. E’ che mi rendo conto che è la verità, ma io non la voglio dire a voce alta.” Gli chiedo di ripetere con un tono più deciso, il volume della voce più alto. Mirko appare agitato, il volto contratto dalla vergogna, le mani si muovono nervosamente. Ci riprova. “E’ fortissima questa cosa, mamma mia.” Fa un profondo sospiro, la voce trema, sembra che gli venga da piangere. Non era mai successo che si attivasse in questo modo in seduta. Lascio che sperimenti ancora per qualche secondo le emozioni dolorose, poi decido di interrompere l’immaginazione. Torniamo al respiro e all’ancoraggio al terreno tramite i piedi. Quando si sente pronto, riapre gli occhi.

Discussione sull’esperienza

Siamo tornati ad oggi, lui nella sua cucina, io nello studio di casa. Mirko cerca subito di distaccarsi dalle emozioni che fino a poco prima stava sperimentando, e ridendo mi dice: “Mamma mia, ho le mani sudatissime e mi lacrimano gli occhi”. Gli chiedo se stesse piangendo, provocandolo volutamente. Ride. “Non ti darò mai questa soddisfazione!” Ridiamo insieme. “Scherzi a parte, l’emozione è stata molto forte. Che strano…”. Procedo chiedendo un feedback sull’esperienza appena vissuta, prima di condividere le mie osservazioni con lui. Dice di aver provato forte ansia e gli chiedo di specificarmi dove l’abbia sentita nel corpo. Mi riporta la sensazione di spiazzamento e sorpresa alla mia proposta di ripetere le frasi che suggerivo, sottolineando la fatica nel ripeterle ed ammettendo di aver cercato di controllarsi mentre lo faceva la prima volta. Mi spiega come la vergogna provata durante l’immaginazione fosse legata al fatto di impedirsi di sentire ed esprimere ciò che prova, “è una cosa brutta da fare a me stesso”. Insieme notiamo come non importasse che anche lui fosse un bambino di soli 7 anni che sente i genitori litigare, che teme possano abbandonarlo (altro suo schema) e che ha bisogno di conforto, perché in quel momento aveva preso il sopravvento la paura di spaventare il fratello, il dover tenere tutto sotto controllo, il prendersi cura dell’altro a scapito delle proprie emozioni e dei propri bisogni. La sua storia era ricca di ricordi nei quali Mirko non doveva piangere perché era il fratello maggiore, Mirko non doveva fare i capricci perché c’era già il fratello a farli, Mirko doveva prendersi cura del padre che si era ammalato gravemente. Ne avevamo già parlato altre volte, ma ora abbiamo avuto l’opportunità di incarnare la forza dello schema. Noto che Mirko è ancora attivato emotivamente (e ne sono “terapeuticamente” felice), gli chiedo nuovamente cosa stia provando. E’ positivamente scosso perché non aveva mai provato nulla di così forte, è come se gli stesse “scorrendo davanti agli occhi tutta la vita, vissuta pensando sempre a cosa pensa l’altro, a come sta l’altro, a come reagisce l’altro. Mi sono dimenticato di me”. Valido la fatica di Mirko nell’esporsi alle emozioni dolorose di quel ricordo, rimandandogli come fossero state visibili dal suo non verbale, particolarmente evidente grazie all’inquadratura della webcam. Mi soffermo quindi sull’importanza dell’esperienza emotiva appena vissuta, che era riuscita ad interrompere l’evitamento.

Benefici dell’immaginazione guidata: agire le nuove consapevolezze

Nei giorni seguenti, Mirko ripensa a tutte le volte in cui nella sua vita ha soppresso i propri bisogni, desideri, propensioni, piani anteponendo la felicità altrui alla propria. Il giorno precedente la nostra seduta, decide spontaneamente di mettere alla prova lo schema e di interrompere il coping. Comunica a due cari colleghi la sua scelta di cambiare lavoro (desiderio emerso nell’ultimo mese e che gli stava creando grandi preoccupazioni non tanto per sé e per il cambio di vita repentino, quanto per le reazioni altrui). Nonostante il dispiacere e la sofferenza dell’altro – un collega si è messo a piangere – dopo uno o due minuti in cui avrebbe voluto ritrattare per evitare i sensi di colpa, Mirko si è poi detto che il suo futuro e la sua soddisfazione professionale fossero la cosa prioritaria alle quali prestare attenzione e cura. Nelle prossime settimane, la sfida più grande sarà comunicarlo ai suoi genitori.

 

Gruppi di culto: caratteristiche dei membri e difficoltà ad uscirne

Jonestown, Heaven’s Gate, Aum Shinrikyo, cosa hanno in comune? Sono tutti gruppi di culto finiti sulle pagine di cronaca degli anni settanta per aver indotto alla morte numerose persone. Partendo da tale fenomeno psicologi, psichiatri e sociologi si sono posti alcune domande a cui hanno cercato di dare spiegazione: quali motivazioni spingono una persona ad entrare in un gruppo di culto? Alla base vi è la presenza di un disturbo psichiatrico? Come mai una volta entrati nei gruppi di culto è così difficile uscirne?

 

Partiamo dalla definizione di culto. Per West (1980) un culto è un gruppo di persone o un movimento che viene riunito attorno ad un’idea o ad un leader carismatico tramite l’utilizzo di tecniche persuasive e manipolative che inducono a promuovere gli scopi del leader, verso cui si mostra devozione, anche a discapito degli obiettivi personali dei membri.

Caratteristiche dei culti

I gruppi di culto si costruiscono sia attorno ad un “manifesto” come un libro o una dottrina che disciplina il comportamento dei membri della cerchia sia attorno alla figura di un leader carismatico, solitamente investito di “poteri mistici” (Appel, 1983) e capace di offrire al gruppo una sorta di “ricompensa” che può riguardare la salvezza eterna così come gratificazioni materiali.

Alla base dei gruppi di culto vi è una struttura di potere organizzata gerarchicamente con precise e rigide norme di comportamento da seguire ed una condivisione di un sistema di credenze e valori, una sorta di “verità assoluta”, capace di dare risposta ai problemi della vita, di semplificare la complessità della realtà, di generare uno scopo da perseguire per cui valga la pena impegnarsi e di attribuire un significato spirituale all’esistenza rispetto a quello puramente materiale che persegue chiunque non sia parte del gruppo. Tali elementi se da una parte contribuiscono allo sviluppo di un sentimento di superiorità, di “specialità”, offrendo la sensazione di far parte di un’élite, dall’altra hanno la funzione di accrescere un senso di coesione interno, rispetto ad un fuori nemico che ha lo scopo di isolare gradualmente l’individuo dal mondo esterno e che perseguito anche attraverso l’uso di rituali catartici ed esperienze extrasensoriali provocate da droghe, ipnosi e canti; l’utilizzo di luoghi fissi di incontro in cui la comunità si riunisce per lo svolgimento di attività quotidiane e la condivisione di un linguaggio proprio e caratteristico del gruppo (Levine, 1989).

Peculiarità delle persone che si avvicinano ai culti

Studi di Levine (1989) hanno individuato alcune caratteristiche presentate dagli individui che fanno parte dei gruppi di culto come la giovane età (circa 22 anni), il genere sia femminile sia maschile, il trovarsi a vivere situazioni di stress e sofferenza psicologica, la presenza di vuoti da riempire, il bisogno di perseguire nuovi obiettivi, una cerchia ristretta di legami, la bassa autostima e la facile suggestionabilità. Tale condizione costituirebbe un fattore di vulnerabilità, su cui il gruppo farebbe leva per avvicinare l’individuo a sé, fornendo un’immagine della cerchia accogliente, promettendo salvezza e procurando uno scopo superiore da perseguire.

Motivazioni che rendono difficile abbandonare un culto

Ma veniamo ora alle quattro principali ragioni che portano una persona a restare nel culto una volta entrato a farne parte: il bisogno di appartenenza, il brainwashing, la dissonanza cognitiva e le tecniche di controllo.

Il bisogno emotivo di appartenenza ed identificazione è un bisogno innato e comune ad ogni essere umano che riguarda il sentirsi supportati e l’essere vicini emotivamente a qualcuno con cui si condividono dei valori. L’individuo che entra a far parte di un gruppo di culto sente di trovarsi in un ambiente protetto, solidale e sperimenta una sensazione di benessere psicologico e di sollievo dalle emozioni negative che rinforza la conformità alle regole del gruppo (Galanter, 1999). Tutto questo però avrebbe un prezzo: la persona viene sottoposta inconsapevolmente a un processo di persuasione graduale. Tale fenomeno fa riferimento al controverso concetto di brainwashing, che comporterebbe:

  • alterazioni della coscienza dovute all’uso di esperienze meditative, rituali di guarigione e droghe;
  • manipolazione, filtraggio o censura delle notizie;
  • mancanza di privacy in favore dell’autorità del leader;
  • induzione dello sviluppo di un tipo di pensiero bianco-nero e buono-cattivo;
  • soppressione delle risposte emotive di paura o colpa, regolatori della moralità e di ciò che è giusto o sbagliato (Zablocki 2001).

Tale processo di cambiamento che conduce ad un collasso del pensiero critico e indipendente (Lifton 1961), che elimina la tendenza al dubbio e all’incredulità e che porta a reinterpretare la propria storia di vita alterando la visione del mondo (Singer 2003), avviene facendo sì che l’individuo sperimenti la sensazione di essere uscito da un tunnel e di essere rinato spiritualmente grazie ad una propria scelta.

Conway e Siegelman (2005) a questo proposito parlano di “disturbo dell’informazione” e cioè di uno stato continuo di consapevolezza alterata frutto sia del controllo e dalla manipolazione esercitati a lungo termine sia della mancanza di sonno e di una dieta povera che ha come conseguenza una distorsione della capacità di processare informazioni, ricordare e pensare.

Oltre tali fattori, ciò che rende difficile abbandonare un gruppo di culto, anche quando l’immagine positiva di questo si è incrinata, è la dissonanza cognitiva (Festinger 1964) e cioè il bisogno di coerenza interna dell’individuo che lo porta sia ad occultare o minimizzare qualsiasi disconferma proveniente dalla realtà esterna circa la capacità salvifica del gruppo sia ad accettare qualsiasi spiegazione, anche lacunosa, capace di proteggere il culto. Tale operazione è compiuta sulla base di una valutazione costi-benefici in cui il prezzo dovuto all’abbandono del gruppo è considerato superiore del vantaggio, tenuto conto del tempo e delle energie investite e dei problemi finanziari e relazionali che ne seguirebbero (Zablocki 1998).

Infine le tecniche di controllo esercitate dai leader dei gruppi di culto inducono le persone a credere che sia sbagliato e pericoloso abbandonare il gruppo in quanto unico detentore di “verità” ed instillano il timore, per chi non rispetta le norme, di essere punito o scomunicato incrementando il senso di “impotenza appresa” e cioè la percezione di non avere controllo e potere sulla situazione (Enroth 1982).

L’insieme di questi meccanismi psicologici, unitamente alla solitudine causata dall’aver tagliato i ponti con famiglia ed affetti, impedisce all’individuo di lasciare il gruppo di culto anche quando improvvisamente, sembra risvegliarsi da un lungo sonno ed acquisisce consapevolezza delle incongruenze e delle ipocrisie del gruppo.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del sesto incontro “Come riconoscere che stiamo soffrendo?”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del sesto incontro con la Dott.ssa Daniela Rebecchi.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del sesto incontro è stata la Dott.ssa Daniela Rebecchi, la quale ha affrontato l’argomento “Come riconoscere che stiamo soffrendo?”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

Un viaggio chiamato psicoterapia. Storia di un percorso difficile, emozionante e a tratti ironico (2019) di A. Parentela e M. Longo – Recensione del libro

Un libro che parla di relazioni umane, di come affrontare i problemi della vita, della consapevolezza di sé, della psicoterapia.

 

Questo libro è per tutti. Perché tutti dovrebbero interrogarsi su chi sono, per darsi l’opportunità di vivere l’unica vita che hanno nel miglior modo possibile. E il modo migliore lo si conquista soprattutto con la consapevolezza di sé. Per chi ha fatto un percorso di psicoterapia. Per chi sta pensando di intraprenderlo. E anche per chi vuole solo conoscere un po’ di più della psicoterapia. Per chiunque consideri le relazioni umane pietra miliare della propria esistenza. Perché questo libro parla di psicoterapia, e di una relazione tanto difficile quanto profonda, di quelle che tutti dovrebbero provare, ma che forse non tutti hanno la fortuna di sperimentare nella propria vita.

  Le autrici del libro sono due, Alessandra Parentela, psicoterapeuta, e Michela Longo, una sua paziente; due donne che si sono incontrate per caso e che hanno deciso di condividere il loro percorso raccontandolo ognuna dal suo punto di vista.

Nella prima parte Alessandra Parentela ci introduce nel mondo della psicoterapia, raccontandoci in modo semplice e chiaro che cos’è, illustrandoci perché è importante iniziare un percorso di questo tipo e quali sono i suoi obiettivi. Se, infatti, vi siete mai chiesti “Perché iniziare una psicoterapia?”, in questo testo sono tante le risposte a questa domanda.

La psicoterapia, alla luce di quello che oggi stiamo attraversando, è un cammino molto importante e, se paragonato a un viaggio, è forse il più importante della nostra vita.

Nel libro viene inoltre affrontato il tema del pregiudizio che, purtroppo, è ancora oggi presente nei confronti delle persone che vanno dallo psicoterapeuta, considerate deboli o inadeguate. Attraverso la storia di Michela però, si capisce l’importanza che ha questo percorso nella comprensione di ciò che siamo e desideriamo realmente.

Nella seconda parte del libro, infatti, viene raccontato questo viaggio attraverso gli occhi di Michela Longo, che durante tutta la terapia ha appuntato i suoi pensieri e le sue emozioni; è proprio dalle sue parole che si riesce a capire l’importanza della figura del terapeuta e della relazione tra quest’ultimo e il paziente. Se infatti le relazioni rappresentano il fulcro della nostra esistenza, quale miglior “luogo” se non quello della relazione terapeutica per scoprire noi stessi?

Il terapeuta mette a disposizione dei pazienti tecniche, strategie ed empatia per accompagnarli nel percorso di scoperta di loro stessi e di esplorazione degli angoli più bui e dolorosi della loro vita. Attraverso l’aiuto della psicoterapeuta, Michela, passo dopo passo riesce a comprendere l’importanza che ha l’accettazione di se stessi, degli avvenimenti che non possiamo cambiare e il riconoscimento delle proprie emozioni nella svolta della propria vita.

Accettare rende il pensiero più positivo, predispone in modo migliore verso gli altri e distende l’animo.

Pregio di questo libro è il duplice punto di vista, il parere della specialista da una parte e le riflessioni della paziente dall’altra; un libro che può incoraggiare chi ha dei dubbi sull’intraprendere un percorso di psicoterapia e che può arricchire tutti coloro che vogliono approfondire questo argomento.

Buona lettura!

Le parole hanno un potere? – Linguaggio e consapevolezza: la responsabilità comunicazionale delle parole

Le parole hanno un potere? Qual è il modo migliore di usare le parole in un percorso di crescita personale? Che cos’è il linguaggio consapevole?

 

In che modo, la risposta a queste domande, dovrebbe interessarci?

Sin da sempre le parole in ogni loro forma hanno reso possibile la concretizzazione simbolica dell’immaginario, l’espressione percettibile dei segni dell’anima, di fantasie individuali e collettive di bene e di male, di ignoto, di paura e di speranza.

Le parole raccontano di noi, delle nostre memorie, dei nostri ricordi, sono uno strumento incredibilmente utile che ci aiuta a capire meglio noi stessi ed il mondo.

Secondo il saggista Igor Sibaldi, le parole hanno prima di tutto il potere di:

  • Fare esistere le cose. Ad esempio, se vi dicessi: – una casa dello stesso colore delle rose – ecco che, un secondo fa, questa casa nella vostra mente non c’era, adesso c’è.
  • La parola però ha un secondo potere limitante, non fa esistere tutto. La parola appartiene ad una lingua, la lingua appartiene ad un popolo e questo popolo ha una storia culturale e linguistica.

Pensiamo alla parola “crisantemo”. Da noi, nella cultura occidentale questa parola fa esistere un fiore associato alla morte, in altri popoli, con altre storie culturali, rappresenta un fiore di vita.

Ogni lingua fa esistere qualcosa e non un qualcos’altro e impone dei limiti.

Adesso, se io vi chiedessi: – Di cosa sa una pesca? –

Lo riuscite ad esprimere? No, vero? Potete provare a descrivere se dolce, amara. Ma il suo sapore? Si può dire solo che una pesca sa di pesca.

Quindi la nostra lingua non ha la capacità di descrivere il sapore che ha una pesca, figuratevi, quindi, quante cose la nostra lingua non è capace di descrivere!

Tu conosci tanti sapori, li hai dentro, ma non puoi farli esistere perché non hai le parole per farlo.

Il linguaggio, quindi, è un modo di costruire immagini per riconoscersi, di amplificare contesti per poter finalmente toccare ciò che in noi sembra sfuggente per renderlo manifesto.

La lingua tenta di descrivere la realtà e si trasforma rapidamente come il contesto temporale in cui viviamo.

La parola descrive qualcosa di me, mi identifica (origini, usi e costumi, influenze, tipo di professione, ecc.), descrive, oltre al mondo di provenienza e appartenenza, anche la mia personalità e la mia identità: per questo una maggiore attenzione al linguaggio che adoperiamo consente di comprendere meglio l’altro e di instaurare relazioni e “conversazioni” consapevoli.

Nello sviluppo evolutivo, da quando cresciamo, ci formiamo delle idee, delle credenze e dei concetti su ogni cosa con cui entriamo in contatto, fino a che da adulto ti ritrovi a dire “io sono fatto così, la penso così, le mamme sono così, le donne sono così, avevano ragione a dire così di tizio, secondo me le cose sono così e basta! E’ come dico io e tu hai torto!”

Questi sono modi di definirci e rappresentano il modo in cui organizziamo, strutturiamo la nostra vita, è ciò che insieme a quello che è scritto sui documenti identificativi viene chiamato identità. Infatti, rappresentano chi crediamo di essere, cosa sappiamo del mondo, i nostri valori, e noi agiamo, ci muoviamo nel mondo e scegliamo in base a queste idee.

Ma ci siamo mai chiesti se queste idee, credenze e concetti sono davvero assoluti?

E come le esprimiamo queste idee? Proprio con le parole, ed il linguaggio.

P.D.Ouspensky, citando Gurdjieff dice:

Il linguaggio è pieno di concetti falsi, di classificazioni false, di associazioni false.  Le persone non si accorgono quanto il loro linguaggio sia soggettivo e quanto le parole che dicono siano diverse, benché impieghino tutte le stesse parole. Non vedono che ognuno parla una lingua sua propria, non comprendendo affatto o solo in modo vago quella degli altri, e non avendo la minima idea del fatto che gli altri parlano sempre in una lingua a loro sconosciuta. Le persone sono assolutamente convinte di avere una lingua comune e di comprendersi reciprocamente, ma, in realtà, questa convinzione non ha il minimo fondamento. Le parole delle quali fanno uso sono adattate ai bisogni della vita pratica; possono in tal modo scambiarsi delle informazioni di carattere pratico, ma non appena passano in un campo un po’ più complesso, si smarriscono e cessano di comprendersi, benché non se ne rendano conto.

Qual è il campo complesso di cui parla Gurdjieff? Per rispondere a questa domanda riprendiamo il potere delle parole di far esistere e non far esistere le cose.

Alla domanda che sapore ha una pesca di solito si tentenna perché si ha una difficolta ad esprimere un qualcosa, un sapore che è ma non esiste a parole.

Il sapore degli eventi che viviamo e gli stati d’animo che sentiamo restano inespressi, nel nostro vocabolario non esistono, ma non per questo non ci sono.

Se pensate che noi costruiamo la vita e ci aggrappiamo solo alle cose che possiamo esprimere a parole, dove va a finire il sentire di quello che viviamo? Non ne permettiamo l’esistenza a parole e quindi non ce ne serviamo e tendiamo a dimenticarlo e rimuoverlo nella nostra vita. E allora come non fai esistere il sapore di una pesca non fai esistere il sentire, il sapore di te stesso e del mondo intersoggettivo. Ed è questo è il campo complesso! La nostra soggettività!

Dietro ogni parola e comunicazione c’è sempre un intento che viene prima.

Quale il vostro intento nel chiedere ad una persona come sta? E quando viene chiesto a voi come rispondete? – Bene, grazie! – ma dentro lo sai solo tu come ti senti, e quando pronunci la parola: bene, senti dentro che il sapore di quel bene stona con la verità.

E allora che senso ha usare parole vuote, mentire e non essere autentici senza rendersi conto che le contraddizioni nel linguaggio e nella coerenza interna sono fattori che hanno conseguenze sul nostro stato di salute psico-fisica? Le contraddizioni producono dissonanze cognitive ed hanno come effetti la separazione della coscienza del sé.

Lucina Landolfi parla di responsabilità energetica comunicazionale, ovvero: ciò che dico crea campo energetico e questo campo energetico coinvolge, anche a insaputa del soggetto in ascolto, un mutamento delle funzioni fisiche, somatiche in senso ampio, nell’interlocutore, modificando ritmo respiratorio e postura. Ad esempio, quando usiamo l’espressione “tu mi togli il fiato”, questo accade davvero. Quando dici: “Tu mi abbatti”, la tua colonna vertebrale si piega. L’espressione, per esempio “mi ha pugnalato alle spalle” non solo non ci porterà a sentire la colonna vertebrale forte e fluida, ma potrebbe, nella sua continua ripetizione, invitare il corpo a rappresentarla con dolori di tipo acuto e pungente!

Allora responsabilmente possiamo decidere di prenderci cura di noi e della nostra salute anche attraverso la consapevolezza delle parole.

Il modo più semplice di cambiare il mondo è scoprire il vero senso delle parole con cui ne parli, ogni parola ha un potere evocativo intrinseco, quindi impariamo a usarle consapevolmente, dosandole e ritmandole nel modo più funzionale.

Possiamo agire per fare in modo che quando alla domanda “come stai?” rispondiamo “bene”, quel bene sia davvero bene, abbia sapore di autentico bene. Ma perché non stiamo bene?

Ci siamo mai chiesti se questo sottofondo che ci fa stare così malinconici e soli, quel senso di vuoto come se ci mancasse sempre qualcosa è una conseguenza del fatto che abbiamo fondato la nostra vita e il nostro mondo senza prendere in considerazione l’aspetto del sapore del sentire la realtà?

Non stiamo bene perché non ci sentiamo più autenticamente e non abbiamo un linguaggio consapevole e comune per esprimere autenticamente i nostri stati emotivi.

Noi non ci forniamo delle informazioni della componente del sentire per valutare la realtà. Questi sono dati necessari per valutare ogni cosa con cui entriamo in contatto. Io ragiono e mi rapporto alle cose, alle persone alle situazioni in base a come le definisco e le definisco con le parole con cui mi posso far capire.

Ma non potendo esprimere il sapore delle cose non le racconterò e non facendole esistere con le parole non porterò nella realtà fisica la mia soggettività! Escludendo il sentire, affronterò la vita in modo razionale e limitante non risolvendo conflitti e traumi che si celano nel campo complesso e non espresso!

Iniziare a dare la giusta attenzione al linguaggio, modificando il nostro vocabolario, si dimostra efficace per ridurre un disagio. Piuttosto che dire: – Mi sento bloccato in un disagio e devo sbloccarmi – , usa la formula: – Questa situazione è da fluidificare.. – userai solo una parola ad alta risonanza che non ispira immobilità, muri, ma movimento attivo e responsabile.

Quando in un percorso di guarigione si chiede ad un soggetto di riportare uno stato di disagio, facendogli cambiare lessico, l’informazione mnemonica non è più mantenuta nel cervello e nel corpo con lo stesso livello di energia e si amplia la percezione limitata di quello stato.

Se cambi le parole, insomma, cambi il modo in cui stai, ed anche il corpo reagisce in modo diverso, mutando repentinamente tono e umore a seconda delle parole ascoltate o lette e delle immagini che esse costruiscono nella mente.

L’autenticità, la coerenza interna e la felicità diventano così una scelta consapevole, sia fisica che linguistica che consente di accorgersi che, attraverso nuove coscienti parole, si può far esistere oltre una casa color delle rose anche il sapore unico e autentico di una pesca.

Tu sei quella pesca!

 

Il paziente espressivo e il terapeuta curioso: acceleratori interattivi della comprensione terapeutica

Da una parte c’è il paziente che arriva in terapia con la sua espressività, apertura, confidenza, confessione ed auto-tradimento; dall’altra si trova il terapeuta, aperto, disponibile, con una sana curiosità (e non un narcisismo epistemofilico!); ed in mezzo ci sta l’interazione primaria creativa tra i loro inconsci comunicanti.

 

Questo lavoro ha lo scopo di chiarire come la naturale tendenza del paziente all’espressività e la spontanea controtendenza del terapeuta alla curiosità clinica catalizzino un’accelerazione interattiva del processo comprensivo e terapeutico già durante il primo incontro. Mi sono prevalentemente ispirato, a tal fine, al pensiero dello psicologo psicoanalista Theodor Reik. Il presente articolo fa seguito ad uno precedente in cui avevo affrontato, in un’ottica ancora prevalentemente centrata sul terapeuta, il suo processo mentale duale di congettura e comprensione (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola, prendendo spunto sempre da Reik. Il paziente tende spontaneamente ad aprirsi, confidarsi, confessarsi, auto-tradirsi col terapeuta che, a sua volta, ha una sana curiosità (né narcisistica né epistemofilica) a recepire l’essenza dell’interlocutore. Da questa base scaturisce una dinamica interattiva a vari livelli (conscio, preconscio ed inconscio). In modo particolare, l’intersoggettività inconscia primaria può portare ad una profonda comprensione e cura del caso anche al primo incontro.

Introduzione

Nel corso degli ultimi anni, partendo da una riflessione sulla prima visita psichiatrica e psicoterapica, sono arrivato a concepire e a praticare clinicamente una consultazione terapeutica bi-sistemica singola (CTBS) (Gherardi, 2019). I pazienti vengono spesso da noi una o due volte in tutto e quindi, la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione, perché è finalizzata anche a stimolare l’auto-analisi e le risorse auto-terapeutiche del paziente. E’ bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, è sistematico-analitica ed intuitiva nelle modalità d’indagine e di cura. Come sosteneva Reik (1933, 1936, 1948), l’essenza della tecnica psicoanalitica è il raggiungimento e la chiarificazione della verità interiore del paziente. L’intersoggettività primaria inconscia tra paziente e terapeuta ci permette di riuscire, in meno tempo e più facilmente, a cogliere l’essenza del primo, a formulare e ad adottare terapeuticamente un’ipotesi esplicativa profonda anche nel primo e spesso unico incontro. Nel mio precedente articolo (2019) mi sono maggiormente focalizzato sul lavoro congetturale e comprensivo del terapeuta, sul suo “ascoltare col terzo orecchio” (Reik, 1948). Nel presente lavoro vorrei porre più l’accento sul carattere interattivo della relazione terapeutica, dando più spazio alla soggettività ed alle motivazioni del paziente. Nel mio piccolo, in realtà, ho fatto il contrario di ciò che ha fatto Reik. Negli anni ’20, si è occupato prevalentemente dell’espressività del paziente, della formazione dei sintomi e della tendenza impulsiva a confessarsi (1967). Poi, negli anni ’30 e ’40, si è maggiormente dedicato a riflettere sull’ascolto e sulla comprensione del terapeuta (1933, 1936, 1948). Purtroppo, non ha mai integrato la sua teoria dell’illuminazione reciproca con il suo precedente lavoro sullo sviluppo dell’espressione e della compulsione a confessare, come già evidenziato da  Kyle Arnold (2006). Quindi, da una parte c’è il paziente che arriva da te con la sua espressività, apertura, confidenza, confessione ed auto-tradimento. Dall’altra si trova il terapeuta, aperto, disponibile, con una sana curiosità (e non un narcisismo epistemofilico!). Espressività e curiosità si attraggono reciprocamente. Ed in mezzo ci sta l’interazione primaria creativa tra i loro inconsci comunicanti.

Il paziente espressivo

Il Super-io gioca un ruolo decisivo nel determinare come e se un particolare pensiero sarà espresso (Reik, 1967). Il Super-io induce l’Io a rigettare le espressioni dell’Es e lo fa producendo colpa. Colpa intesa come ansietà sociale internalizzata, inseparabile dalle relazioni interpersonali. Reik, a differenza di Freud, collega la rimozione al Super-io, sottolineando il ruolo della colpa nel motivare la rimozione. Quindi, il Super-io è il “sine qua non” della rimozione stessa. L’Autore offre così una teoria che sottolinea la relazione tra la rimozione e le risposte internalizzate dei caregivers. Per Reik, come per Freud, i sintomi iniziano con un impulso vietato. Ma mentre per Freud l’impulso proibito è una spinta mono-personale per la scarica sessuale o aggressiva, per Reik l’impulso proibito è un bisogno bi-personale di comunicare. Per entrambi, l’impulso proibito è bloccato dalla rimozione. Per Reik, la rimozione avviene quando il Super-io produce colpa per le comunicazioni proibite, inducendo l’Io a censurare queste comunicazioni. Ma la rimozione delle espressioni rinforza il bisogno di esprimersi. La “conoscenza segreta” strepita per essere rivelata. Siccome il bisogno rimosso di esprimersi rimane attivo nonostante la proibizione del Super-io, è modificato dalla colpa e dal bisogno di punizione. La colpa inibisce la libera espressione e motiva anche la compulsione a confessare. La colpa inconscia porta con sé il bisogno di punizione. Il bisogno di alleviare la colpa provocando la punizione da parte degli altri aggiunge una qualità compulsiva alla confessione. I sintomi nevrotici ed altri tipi di confessione sono compositi del bisogno di punizione e del rinforzato impulso ad esprimersi. Reik definisce la compulsione a confessare come la tendenza inconscia verso l’espressione degli impulsi rimossi istintuali che è modificata dall’influenza del bisogno di punizione. I sintomi prendono la forma di compositi tra l’auto-espressione e l’auto-punizione perché tali compositi forniscono la massima gratificazione attraverso il rinforzo reattivo. Il fine di ogni confessione non è solo l’espressione e l’auto-punizione, ma anche il perdono. La “riconquista” dell’oggetto è una delle funzioni essenziali della confessione che tende a riguadagnare l’amore dell’altro.

Il terapeuta curioso

Il terapeuta curioso deve esercitare l’arte della maieutica, l’arte della levatrice alla quale Socrate paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi. La maieutica è quindi una ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in se stesso e a tirarla fuori in modo attivo e partecipe. Come faccio, durante la CTBS, a favorire l’espressività, l’apertura, la confidenza, la confessione e l’auto-tradimento del paziente nel breve arco temporale a mia disposizione? Lo posso certamente stimolare con domande sistematiche (strumenti tipici della curiosità), sempre più mirate. Ma ci vuole anche una mia massima espressività, apertura, disponibilità all’ascolto ed alla comprensione. Devo essere “pronto all’introiezione” del paziente (Reik, 1948), senza un atteggiamento critico o pregiudiziale da parte soprattutto del mio Super-io. Ci vuole una sana curiosità, né narcisistica, né epistemofilica. La curiosità è infatti il desiderio di rendersi conto di qualcosa, in modo sollecito, attento e diligente. Deriva dal latino “curiosus”, che significa cura, premura, sollecitudine. E, come dice Reik (1948), ci vuole un grande “coraggio morale” per scoprire e fronteggiare la veracità interna del paziente e la propria.

La comprensione terapeutica

Per una visione generale sull’argomento rimando il Lettore al mio precedente lavoro (2019). In questa sede mi soffermo sugli aspetti interattivi dell’espressività. Ci viene ricordato da Freud che i mortali non sono fatti per trattenere i segreti e che quindi, l’auto-tradimento schizza fuori da tutti i nostri pori. Noi reagiamo all’inconscio altrui con tutti i nostri organi, con tutti i nostri vari strumenti di ricezione e comprensione. Ogni mia espressione presuppone una forma di identificazione primaria per comunicare efficacemente con l’altro. Io devo cogliere qualche parte della sua vita mentale. La ricezione delle espressioni che mi vengono date dall’altro diventa decisiva per il loro successivo sviluppo. Tali espressioni portano il segno della loro ricezione da parte dell’altro, internalizzate con l’identificazione primaria. La visione di Reik della relazione tra espressione ed identificazione primaria ha un’influenza considerevole sulla sua concettualizzazione del Super-io. Il Super-io origina dalle risposte del mondo sociale del bambino, che sono perpetuate nell’istituzione del Super-io. Ogni espressione ha quindi un nocciolo di identificazione primaria. Io non posso comunicare con successo con un’altra persona senza afferrare, cogliere il suo stato mentale così che io possa anticipare la sua risposta. Il tipo di identificazione primaria nella comunicazione è una identificazione con la ricezione dell’altro della nostra espressione. Io non posso parlare con un’altra persona senza prenderlo dentro di me. Reik intende l’identificazione primaria come un’illuminazione reciproca tra le due menti. Con l’aiuto del concetto di Freud di identificazione primaria, Reik colloca quindi lo sviluppo del Super-io e la rimozione in un contesto interpersonale.

Conclusioni

Spesso noi non riusciamo nemmeno a confessarci internamente attraverso il nostro dialogo interiore. Come ci riusciamo allora a farlo con un estraneo, in questo caso il terapeuta, e soprattutto nell’arco di una prima e forse ultima seduta? Il paziente ed il terapeuta si attraggono perché sono motivati da forze che confluiscono nello stesso scopo. Il dialogo interiore del paziente deve essere rapidamente facilitato dal terapeuta a diventare un dialogo interiore a voce alta, un dialogo esteriore. Come se il terapeuta non ci fosse, grazie all’eclissi temporanea del suo Io e soprattutto del suo Super-io ed al suo trasformarsi immediatamente in specchio. Così anche il Super-io del paziente può scomparire temporaneamente e permettergli una notevole e precoce apertura. E’ come se il paziente, da “solo”, nel setting terapeutico, si confessasse a se stesso ad alta voce davanti ad uno specchio. Io sono per un attimo l’altro e l’altro è me stesso. C’è un rispecchiamento, una riflessione reciproca ricorrente, un’identificazione inconscia primaria. Solo indirettamente è possibile conoscere la nostra mente e quella altrui. Noi vediamo noi stessi attraverso il riflesso nell’altro e viceversa. Come dice Reik (1948), ci illuminiamo reciprocamente con la nostra soggettività. Il terapeuta è come uno specchio che fa domande al paziente, l’esatto contrario dello specchio a cui vengono fatte domande narcisistiche da parte della strega della favola di Biancaneve e i sette nani. E’ come se la “response” del terapeuta ci fosse prima dello stimolo del paziente, il controtransfert avvenisse prima del transfert, con una sorta di “anticipazione” (Reik, 1948): se riesco ad anticipare e a guidare opportunamente la mia “response” al paziente, favorisco fin dall’inizio la sua confessione esterna. Il segreto interiore viene mantenuto come segreto esteriore, perché è come se lo confidassi a me stesso e il cosìddetto “rispetto del segreto professionale” influenza ben poco tale dinamica interpersonale. Se l’inconscio del paziente non si fida di quello del terapeuta, con cui comunica in maniera diretta ed inconsapevole, non si confesserà mai a quel terapeuta. Il paziente poi, prima di giungere in rapporto con noi, ha praticato spesso un’auto-analisi, ma, nonostante ciò, ha sentito il bisogno di farsi aiutare da una figura terapeutica esterna e neutrale. Ma l’auto-analisi non è altro che una forma di dialogo interiore, che comprende anche l’auto-confidenza dei propri segreti, e che viene successivamente esternalizzata in etero-analisi? Nonostante tutto ciò, paziente e terapeuta continuano spesso a sorprendersi dei livelli di confidenza raggiunti tra estranei in così poco tempo.

 

Intervista ad Anna Porta, psicoterapeuta sistemico-relazionale che lavora presso l’Hospice della LILT di Biella

Lavorando in Hospice lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe

 

Anna Porta è psicologa e psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia sistemico-relazionale presso l’EIST di Milano. Dal 2005 lavora presso l’Hospice della LILT di Biella e dal 2008 è parte del Gruppo “Geode”, gruppo di ricerca in cure palliative. Dal 2014 al 2019 ha fatto parte di gruppi di ricerca monoprofessionali per la SICP (Società Italiana di Cure Palliative), finalizzati alla individuazione degli interventi di supporto alle équipe in cure palliative e alla ricerca delle buone pratiche psicologiche in cure palliative. Dal 2019 è coordinatrice del gruppo di lavoro sulle cure palliative presso l’Ordine Psicologi del Piemonte in collaborazione e la SICP Piemonte.

Edoardo Perini (E): Anna, lavori in HOSPICE da 15 anni, abbinando alla clinica anche la ricerca, che svolgi in collaborazione con altri colleghi sistemici, che, come te, si sono formati all’EIST, di Milano.

Anna Porta (A): E’ dal 2008 che io e Federica Azzetta ci occupiamo di ricerca sulla psicologia nelle cure palliative. Questa attività ha avuto origine dall’iniziativa di Federica di connettere i colleghi che lavoravano nel settore, dando vita al gruppo “Geode”. La figura dello psicologo delle cure palliative non era ben delineata, per questo ci interessammo ad approfondire il suo operato in un contesto multidisciplinare dove il sistema è la base di partenza. Un sistema che incontra altri sistemi, ed essendo noi sistemiche non potevamo che rimanere affascinate.

E: Ci puoi descrivere cos’è un Hospice e quali sono le mansioni e le specificità degli psicologi che lavorano in questa realtà?

A: L’Hospice è una struttura residenziale per malati terminali. Nasce in Inghilterra ed ha una storia abbastanza antica ma anche profondamente recente: inizialmente indirizzato alle patologie oncologiche, l’Hospice è andato progressivamente comprendendo un’altra patologia che all’epoca portava a terminalità, ovvero l’AIDS, per poi successivamente aprirsi alla cronicità complessa, nella quale rientrano malattie cardio-vascolari, malattie nefrologiche, le demenze, ecc.. Dunque lo spettro si sta ampliando.

L’équipe di cure palliative ha trovato una sua precisa definizione e composizione nella Legge 38 del 2010: essa comprende il medico, l’infermiere, l’operatore socio-sanitario e lo psicologo. Possono poi essere presenti anche un fisioterapista o altre figure a seconda delle necessità della singola situazione, in quanto l’obiettivo delle cure palliative è andare incontro al paziente e alle sue esigenze per migliorarne la qualità di vita.

Lo psicologo è parte integrante dell’équipe e lavora in modo sistemico con tre destinatari: il paziente, la sua famiglia e l’équipe (mantenendo con essa uno strettissimo coordinamento). Ciò perché la Legge 38 stabilisce che al centro dell’intervento ci sia non solo il paziente ma anche la famiglia.

E: Veniamo ora alle domande più specifiche che riguardano questo periodo, nel quale la pandemia del coronavirus coinvolge tutte le realtà. Quale eco ritieni che stia avendo il coronavirus presso la struttura nella quale lavori?

A: Vi sono stati sicuramente dei cambiamenti significativi, anche se l’Hospice non è dedicato ai pazienti affetti da coronavirus, in quanto le strutture preposte al trattamento di questa patologia hanno caratteristiche specifiche e richiedono presidi sanitari che l’Hospice non può offrire.

Per entrare presso la nostra struttura in questo momento, gli ospiti devono aver prima fatto il tampone, tuttavia sappiamo dagli organi di stampa che questo strumento non possiede una validità del 100%; ciò comporta che i nostri ospiti possano vivere il timore di contrarre il coronavirus, oltre alla patologia dalla quale sono già affetti. È risaputo che gli individui con una precedente patologia sono più a rischio di altri nel caso contraggano il virus, quindi è comprensibile che gli ospiti possano preoccuparsi: pur essendo in una fase terminale, essi sperano di potersi godere appieno i giorni della propria vita fino alla fine.

Va detto poi che ci sono alcuni pazienti che non desiderano ricevere informazioni relative al proprio stato di salute e delegano ad altri la gestione di queste informazioni; per questi pazienti la consapevolezza dei rischi connessi al coronavirus è diventata un’ulteriore fonte di angoscia e preoccupazione, la quale coinvolge naturalmente anche i familiari. A proposito di quest’ultimi, l’Hospice è da sempre una struttura aperta, senza orari o vincoli specifici, nella quale i parenti possono accedere liberamente per poter accompagnare i loro cari nel percorso di terminalità. Naturalmente, in presenza del coronavirus, per tutelare i malati, i familiari e gli stessi operatori, abbiamo dovuto adeguarci alle vigenti norme di sicurezza, cambiando il nostro modus operandi: ciò nonostante, abbiamo mantenuto la possibilità dell’accesso di un familiare al giorno per ogni ospite, permettendo di restare accanto al proprio caro per tutto il tempo desiderato, in modo da potergli stare vicino nei suoi ultimi momenti di vita. Sentiamo di tante storie di malati di coronavirus che muoiono in solitudine e l’assenza di contatto è straziante, sia per chi viene a mancare, che non può salutare i propri cari, sia per i familiari, che in questo modo non possono essere accompagnati in un percorso di elaborazione del tempo del lutto nella sua fase anticipatoria. Ciò a livello prognostico non è positivo.

E: Un primo elemento che emerge dalle tue riflessioni riguarda l’importanza per l’Hospice di mantenere una propria flessibilità anche in una situazione come questa. Ora vorrei chiederti come stanno vivendo questa situazione gli operatori, i medici e gli infermieri che collaborano con te. Come stanno affrontando il paradosso di essere curanti ma allo stesso tempo anche potenziali veicoli del virus?

A: Con consapevolezza: gli operatori non soltanto possono portare il virus, ma possono anche prenderlo. Il senso di responsabilità e il grande spirito di gruppo dimostrato dai miei colleghi dell’Hospice della LILT di Biella, hanno permesso di non cambiare la qualità del servizio, anche se non è semplice: noi abbiamo solo delle protezioni base previste dalle linee guida, con tutti i rischi annessi e connessi.

Anche la mancanza di contatto fisico può tramutarsi in un problema. Quando la parola viene meno, la comunicazione con i familiari passa attraverso una carezza, una mano appoggiata sulla spalla: la pandemia fa venire a mancare questa comunicazione naturale, spontanea e fondamentale, tanto che a volte ci si trova a doversi frenare per non ritrovarsi in un abbraccio.

Un elogio va ai nostri infermieri, che in alcuni casi non frequentano neanche i familiari per ridurre i rischi di contagio. Può essere un’esperienza complicata e la paura è comune a tutti in questo periodo, nonostante il desiderio di mantenere un servizio di alta qualità. Come sempre, sono molto importanti i momenti di équipe nei quali si può parlare delle proprie paure: in questi frangenti si comprende appieno il senso della presenza dello psicologo all’interno della squadra. La morte è un’esperienza difficile e a volte è importante rielaborare i vissuti insieme a qualcuno per trovare “la via giusta”.

E: Veniamo ora alla parte relativa alla clinica psicologica. Come ti stai occupando dei pazienti terminali e dei loro familiari in questa situazione? E come stanno reagendo i pazienti e le loro famiglie al coronavirus?

A: Io non ho cambiato più di tanto il mio modo di lavorare, a parte il fatto che uso la mascherina. Non ho infatti alterato la mia presenza in struttura, in accordo con il presidente della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori di Biella, l’ente che si occupa dell’Hospice di Biella.

Ciò che faccio è valutare insieme all’equipe, al paziente e ai familiari i bisogni rilevati. Facendo un esempio, stamattina quando sono arrivata in struttura, la dottoressa mi ha riferito di una paziente che voleva parlarmi perché aveva chiesto di tornare a casa, anche se era molto titubante ed ambivalente: abbiamo lavorato insieme sul significato di quanto mi raccontava rispetto al suo desiderio di tornare a casa. Mi ha descritto, associati alla casa nella quale voleva tornare, bellissimi ricordi della sua giovinezza, momenti molto vitali ma anche ricordi del marito con cui ha vissuto per molti anni e che è venuto a mancare. Abbiamo parlato di quanto difficile fosse fare i conti con l’assenza del marito, perché stare in Hospice le permetteva di non prenderne contatto con la quotidianità e di quanto invece l’ipotesi di tornare a casa muovesse in lei tutto quel dolore con cui non aveva ancora fatto i conti; abbiamo quindi ragionato insieme e le ho restituito dei significati relativi proprio al tema delle cure palliative e alla terminalità della vita.

Noi psicologi e psicoterapeuti spesso abbiamo a che fare con situazioni stagnanti, dove riuscire a smuovere dei cambiamenti può essere complicato; in una situazione di terminalità i cambiamenti sono invece inevitabili, quindi il compito è quello di accompagnare le persone nel cambiamento, evitando che si creino delle empasse, e aiutando le persone ad affrontare degli irrisolti.

E: Ciò che dici coglie secondo me un punto molto significativo: la realtà totalizzante del coronavirus sembra entrare relativamente nelle storie di vita dei pazienti che attraversano un momento così cruciale come quello di cui ci parli. La loro storia, che affrontano in modo così vitale, supera le difficoltà contingenti con cui tutti noi viviamo l’attuale quotidianità.

A: Certo. In queste situazioni la malattia è venuta prima ed è quella che porta alla morte, mentre per quanto riguarda il coronavirus potrebbe essere qualcosa in più che si va a declinare all’interno della storia di ognuno, assumendo forme differenti e significati differenti, dipendenti dalla propria storia di vita.

E: Passerei all’ultima domanda: rispetto alla tua esperienza professionale con il tema della morte, cosa ti sentiresti di suggerire agli operatori, penso ad esempio a coloro che lavorano attualmente nei reparti di pneumologia? Che suggerimenti daresti a chi si trova a fare i conti con la morte in questo periodo?

A: Mi sentirei superba a dare suggerimenti a loro, tuttavia è vero che coloro che lavorano in reparti in cui si fanno terapie attive spesso non hanno a che fare con la cura palliativa: il coronavirus, così come tutte le altre malattie che possono portare alla morte, suscita negli operatori un grande senso di impotenza rispetto alla malattia. Io sono una fervente sostenitrice del fatto che il modello formativo delle cure palliative debba diventare paradigmatico in tutti i reparti che hanno in cura dei pazienti, non necessariamente terminali. In particolare per l’operatore avere una competenza dal punto di vista della comunicazione, punto cardine della legge 219/17, e in particolar maniera della “comunicazione delle cattive notizie” è protettivo: la comunicazione rende l’operatore più “forte” e una formazione nell’ambito delle cure palliative aumenta la consapevolezza del clinico circa il fatto che la persona che si ha di fronte può morire, e che questo non è indice di incompetenza, bensì del normale fluire della vita. In diversi studi studi specifici a riguardo, è percezione diffusa tra i tecnici, emerge che il tasso di burnout tra gli operatori delle cure palliative è sensibilmente inferiore rispetto a quello degli operatori che lavorano in altri reparti. Riflettendo sulle differenze che ci sono con le altre équipe che operano in situazioni pur sempre complicate, due sono le differenze che emergono: una formazione specifica degli operatori sulle tematiche delle cure palliative e la presenza di uno psicologo integrato nell’équipe e che ne conosce bene le dinamiche.

Un imperdonabile vulnus delle università è la mancanza di una formazione specifica rispetto alla comunicazione e alle tematiche specifiche delle cure palliative. La nostra società, la SICP, in collaborazione con la FCP (Federazione Cure Palliative) sta portando avanti una battaglia importante legata anche alla Legge 38 e alle sue evoluzioni, per fare in modo che esistano all’interno delle università dei moduli formativi sulle cure palliative, nello specifico in tutte le facoltà che formano alle professioni di aiuto, quindi psicologia, medicina, scienze infermieristiche etc…. la legge Gelli ha dato un ulteriore impulso positivo in questo senso.

 

La nostra personalità influenza il nostro atteggiamento verso l’ambiente?

Sebbene il COVID-19 in questo momento sia al centro della nostra attenzione, il cambiamento climatico resta una delle più grandi minacce per l’umanità.

 

Svariate ricerche hanno indagato come coinvolgere le persone affinché si impegnino nella lotta al cambiamento climatico. Una meta-analisi, pubblicata su Psychological Science, ha rivelato che particolari tratti della personalità si associano a più o meno atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

Lo scopo di questo lavoro è quello di rinnovare le campagne a favore dell’ambiente con il fine di sensibilizzare le persone che solitamente fanno fatica ad attuare un cambiamento comportamentale a favore dell’ambiente. Studiare i tratti di personalità risulta quindi imperativo per comprendere il motivo per cui certi individui sono resistenti al cambiamento (Soutter & Mottus, 2020).

Alistair Raymond Bryce Soutter dell’Università di Edimburgo ha analizzato i dati di 38 articoli, tra cui 44.993 partecipanti provenienti da 19 paesi di quattro continenti. Tutti gli articoli presi in esame utilizzavano un test di personalità, nello specifico il Big Five (estroversione, nevroticismo, gradevolezza, coscienziosità e apertura).

Negli articoli considerati per la meta-analisi, oltre che ad utilizzare il test di personalità venivano anche utilizzate una serie di scale per misurare gli atteggiamenti e i comportamenti pro-ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

Dalla analisi dei dati, è stato dimostrato che il tratto di personalità ‘’apertura all’esperienza’’ mostrava la più forte associazione con atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali. Secondo i ricercatori, questo dato ha un razionale, cioè le persone più aperte tendono ad essere più intelligenti e meglio informate, e quindi possono avere una maggiore conoscenza delle conseguenze delle azioni umane sull’ambiente, che a loro volta motiva il loro ambientalismo. Le persone molto aperte sono anche più disponibili ad adottare nuove idee, quindi potrebbero avere maggiori probabilità di acquistare un’auto elettrica, o installare pannelli solari.

Un altro tratto della personalità altrettanto associato all’ambientalismo è l’onestà-umiltà che sarebbe la tendenza a cooperare e non a sfruttare gli altri, sembrerebbe quindi che individui con questa caratteristica personologica potrebbero avere una naturale sensibilità verso l’ambiente.

Anche i tratti gradevolezza e coscienziosità risultano associati in modo significativo ai comportamenti pro-ambientali, tuttavia in misura minore (Soutter & Mottus, 2020).

Un’interessante considerazione emersa da questa ricerca è che le persone che sono spinte a seguire le norme sociali possono in alcuni casi essere scoraggiate a mettere in atto comportamenti pro-ambientali. Ad esempio, un obiettivo sociale spesso desiderabile è riuscire a viaggiare o possedere una grande casa. Tuttavia, entrambi questi comportamenti non sono spesso rispettosi verso l’ambiente (Soutter & Mottus, 2020).

I risultati di questa meta-analisi, potrebbero risultare utili per progettare interventi più efficaci, atti a sensibilizzare le persone insensibili verso il cambiamento climatico.

Una strategia efficacie sembra essere quella di far passare messaggi che enfatizzano i guadagni personali, ad esempio i risparmi sui costi dell’utilizzo dell’elettricità piuttosto che della benzina (nel caso delle automobili). Tuttavia quando si affrontano queste tematiche, oltre alla personalità dell’individuo, è necessario tenere conto di età, cultura, esperienze dell’infanzia con la natura, ideologia politica, società in cui si vive ecc, tutte queste variabili sono infatti associate agli atteggiamenti e ai comportamenti ambientali (Soutter & Mottus, 2020).

 

Un’analisi in chiave psicoanalitica di Berlino de La Casa de Papel

La diagnosi di Berlino, uno dei protagonisti de La Casa di Carta, potrebbe essere a tutti gli effetti quella di un erotomane, un soggetto nel quale l’amore è patologizzato, incastrato nella certezza di essere amato e quindi impossibilitato ad amare.

ATTENZIONE! L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

 

La Casa di Carta è una serie tv di successo di produzione spagnola, distribuita da Netflix, giunta alla quarta stagione e in procinto di proseguire con quinta e sesta. Nella sua assurdità dei fatti di rapine al limite dell’immaginabile, ha generato relazioni particolari e personaggi ben caratterizzati, facendo affezionare il pubblico puntata dopo puntata. Berlino è uno dei personaggi principali, che un episodio si ama e quello dopo si odia, ma che alla fine si è obbligati ad amare.

Berlino, la morte non è un limite

Berlino è un badass, un personaggio determinato, un leader autoritario a tratti anche carismatico, che viene a mancare al concludersi della prima rapina cioè della seconda stagione ma che sopravvive sullo schermo grazie a continui flashback del Professore.

Il personaggio di Berlino fin dalla prima serie è però già condannato a morte a causa di una malattia degenerativa e questo è uno dei primi elementi che rivela il suo rapporto con la vita ma soprattutto con la morte.

Andrés de Fonollosa, questo il suo vero nome all’interno della serie, appare come uno psicotico, un soggetto che non può desiderare, può solo godere, senza così tollerare i limiti e le castrazioni che la dinamica del desiderio implica (Freud, 1989; Lacan, 1974). La consapevolezza della morte incombente è il limite ultimo che non viene simbolizzato, dolore e paura divengono oggetto del meccanismo che contraddistingue la struttura psicotica, la forclusione (Recalcati, 2012). Angoscia e sofferenza non vengono metaforizzate, vengono annullate e non rimosse, diventando l’ennesima ed ultima occasione per godersela fino alla fine.

Tutti dobbiamo morire. È a questo che brindo: al fatto che siamo vivi. E al fatto che il piano funziona che è una meraviglia. Alla vita!

Ma verso quale deriva psicotica potrebbe tendere Berlino?

Andrés: o lo ami o lo ami

La diagnosi di Berlino potrebbe essere a tutti gli effetti quella di un erotomane, un soggetto nel quale l’amore è patologizzato, incastrato nella certezza di essere amato e quindi impossibilitato ad amare. Le caratteristiche del delirio erotico sono definite da Esquirol come: la certezza di essere amati, comportamenti affettivi paradossali e contraddittori e una sostenuta libertà sentimentale.

Freud (1989) successivamente intende l’erotomania all’interno delle psicosi e Lacan (1974) poi specifica che la certezza di questo folle amore ricevuto dall’Altro è il delirio psicotico nell’erotomania, cioè l’essere certi di essere amati e quindi poi agire senza possibilità di simbolizzare la mancanza dell’Altro e, di conseguenza, amarlo.

Berlino svela molte di queste caratteristiche nell’arco delle quattro stagioni.

Il delirio erotico più plateale di Berlino si svela nei confronti di Ariadna, il suo ostaggio che per paura nei suoi confronti propone e acconsente dei favori sessuali. Il favore sessuale va così ad infiammare, senza poi più possibilità di spegnimento, la convinzione di Berlino che lei sia effettivamente innamorata di lui e che il sesso non sia solo una via per garantirsi più possibilità di sopravvivenza. Berlino quindi si convince che a rapina conclusa si sposerà con Ariadna, confermando la sua assoluta prospettiva egoica, cioè che l’importante sia il suo godimento fino alla fine.

Berlino dimostra però comportamenti anche contraddittori. Nonostante la sua vita sia dedita all’essere riconosciuto e all’essere amato, è estremamente misogino, irrispettoso nei confronti delle donne, proiezione della dolce paranoia di essere amato da chi vuole lui, agendo questa coazione a ripetere (Freud, 1920) contradditoria con la dichiarazione di aver alle spalle ben quattro matrimoni.

Le donne ti garantiscono il sesso perché sono programmate per irretirti e farsi fecondare, poi non esisti più e lo capisci durante il parto

Il sacrificio egoistico

La diagnosi di Berlino non è però limitata solo a quella di una struttura psicotica, ma come è definito anche dalla sua cartella clinica svelata dalla polizia nella prima stagione, possiede una personalità narcisistica (McWilliams, 2012), è maniaco di grandezza, mancante di empatia e ha un imponente senso dell’onore. Dipendenza dalla propria immagine, che lo obbliga alla costante ricerca di riconoscimento, accettazione, apprezzamento e rispetto.

Per Andrés di fatti la ferita più sofferta durante la rapina è la diffamazione pubblica, subita da una falsa dichiarazione della polizia attraverso i media, di essere uno sfruttatore di prostitute e ragazze minorenni. L’essere riconosciuto e apprezzato è anche evidente su come si mostri un cultore dell’estetica con una particolare ricercatezza nel vestire e un distinto savoir faire che lo eleva nel gruppo a intellettuale dal buon gusto.

Ma l’atto psicotico erotico più eclatante e che ben si sovrappone al narcisismo di Berlino coincide con il suo sacrificio finale. Berlino, ostruendo l’irruzione della polizia con la propria vita e permettendo ai suoi compagni di scappare, compie un suicidio narcisitico (Kernberg, 2004) dalla connotazione eroica con cui celebra un debito d’amore eterno che la banda, ma anche noi spettatori, avremo sempre nei suoi confronti.

 

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