Di fronte all’emergenza sanitaria data dalla pandemia di Covid-19, la paura ha lavorato come un potente stimolatore di comportamenti protettivi, così come un decisivo inibitore di abitudini che si sono interrotte per rispettare le misure di lockdown.
Il testo è una versione breve e rielaborata dell’articolo: Venuleo, C., Gelo, O., Salvatore, S. (2020). Fear affective semiosis, and management of the pandemic crisis: covid-19 as semiotic vaccine. Clinical Neuropsychiatry, 17(2), 117-130.
L’adattamento all’emergenza sanitaria mette oggi le persone davanti al complesso compito socio-cognitivo di integrare nel loro assetto mentale il riferimento ad un bene comune astratto come regolatore saliente del loro modo di sentire, pensare, e agire; se non sostenuto, questo compito sarà particolarmente difficile da realizzare entro le forme emozionali di interpretazione dell’ambiente che sembrano caratterizzare l’attuale risposta della popolazione alla crisi pandemica.
La pandemia del COVID-19 è esperita oggi come una delle più grandi minacce di tutti i tempi, a differenti e interrelati livelli: preoccupazioni individuali – la paura di essere contagiati e/o di infettare qualcuno, di perdere famigliari ed amici, di rimanere soli, di non farcela economicamente – si intrecciano con preoccupazioni a livello sociale, economico e anche politico, e il senso generale di essere proiettati in un scenario di incertezza, dove niente sarà come prima (Time, 2020).
La situazione confronta i clinici, le istituzioni sanitarie e i politici con uno scenario dove, probabilmente per la prima volta, dimensioni di salute e dimensioni sociali sono ricorsivamente e profondamente intrecciate: da un lato, l’evoluzione della situazione sanitaria, e quindi la possibilità di tutelare la salute psico-fisica di migliaia di persone, dipende da come la società gestisce il lockdown; dall’altro lato, la praticabilità del lockdown è in funzione delle persone, driver non intenzionali di contagio.
Come risultato di questo intreccio, le classiche distinzioni tra livelli di analisi e di intervento (ad es., il livello individuale della salute psico-fisica individuale e il livello sistemico del governo delle condizioni sociali economiche e sanitarie) vengono meno, portando all’emergenza di un nuovo pattern di problemi critici che, per aggiungere un ulteriore elemento, devono essere compresi e affrontati molto rapidamente.
La risposta emozionale all’emergenza sanitaria: risorse e limiti
Una serie di sintomi rende evidente come le persone abbiano risposto all’emergenza “con la pancia”: si pensi alle connotazioni polarizzate delle esperienze delle persone (da un lato la valorizzazione dell’in-group, il senso di appartenenza ad una nazione chiamata a lottare e resistere insieme, dall’altro la connotazione dell’altro come nemico e fonte di problemi – ad es. i runner, le persone a passeggio con il cane), al linguaggio intriso di metafore di guerra (i medici come eroi e combattenti, gli ospedali come trincee), alla tendenza non secondaria ad aderire a teorie complottiste.
D’altra parte, una reazione di paura, e più in generale un’attivazione affettiva connotata di ansietà, è una risposta comune a condizioni ed eventi che rappresentano un’importante violazione di canonicità (per una review, vedi Townsend, Eliezer & Major, 2013; per un’analisi della risposta emozionale alla pandemia, vedi Kim & Niederdeppe, 2013). L’attivazione legata alla paura può giocare un ruolo importante nell’adattamento, consentendo all’organismo di interrompere routine e mobilitare risorse cognitive e fisiche rispetto al compito vitale di affrontare l’emergenza (Lazarus, 1991). Rispetto al COVID-19, è ragionevole pensare che la diffusa risposta di paura abbia lavorato come un potente stimolatore di comportamenti protettivi (lavarsi frequentemente le mani, indossare le mascherine, rispettare le distanze sociali), così come un decisivo inibitore di abitudini che si sono interrotte per rispettare le misure di lockdown; per restare nel contesto italiano, i livelli di compliance della popolazione sono stati marcatamente più alti di quelli che ci sarebbe potuto aspettare se si considera il livello piuttosto basso di capitale sociale (spirito pubblico, fiducia nelle istituzioni, committenza sul bene comune) caratterizzante la comunità italiana (Salvatore, Avdi et al., 2019).
Tuttavia, come da più parti sottolineato (inter alia: Nacoti et al., 2020; Radulescu & Cavanagh, 2020), la gestione della pandemia non potrà esaurirsi nel momento in cui sarà raggiunto il livello zero del contagio, ma richiederà una strategia a medio termine, che dovrà impegnare le istituzioni in uno sforzo di coordinamento transazionale delle politiche socio-sanitarie (ad es., nel campo della ricerca scientifica e farmaceutica, dell’organizzazione della salute, della regolazione delle frontiere) e coinvolgere le persone nella modifica delle loro abitudini quotidiane (ad es. limitazioni di movimenti, uso delle maschere protettive, rispetto delle misure di distanziamento nei contatti sociali).
Nel vicino futuro, le persone dovranno non solo aderire a misure di regolazione restrittiva e nuove routine, ma soprattutto confrontarsi con il difficile compito di modulare i propri comportamenti nella vita quotidiana, trovando un equilibrio contingente tra le domande multiple della vita (relazioni sociali, richieste lavorative) e richieste del governo post crisi. Inoltre, dovranno farlo in una finestra temporale relativamente estesa. Ciascuno dovrà compiere scelte quotidiane in condizioni di ambiguità e di conflitto – cioè mediare continuamente tra abiti consolidati e nuove regole di prevenzione e precauzione che implicitamente veicolano un differente modello di relazione sociale. In ultima analisi, ciò significa che le persone dovranno integrare nel loro assetto mentale il riferimento ad un bene comune astratto – il governo del rischio di nuova insorgenza della pandemia – come regolatore saliente del loro modo di sentire, pensare, e agire.
La nostra ipotesi è che, se non sostenuto, questo complesso compito socio-cognitivo sarà particolarmente difficile da realizzare entro le forme emozionali di interpretazione dell’ambiente che sembrano caratterizzare l’attuale risposta della popolazione alla crisi pandemica. Come evidenziato dalla tradizione psicodinamica, l’interpretazione emozionale porta infatti le persone a modi semplificati di interpretazione dell’esperienza e si caratterizza in senso auto-referenziale, volta com’è a riprodurre il proprio sistema di assunzioni, piuttosto che ad esplorare la realtà analiticamente (Salvatore, 2016; Salvatore & Venuleo, 2009; 2017). Quando pensano “con la pancia” le persone danno per scontata la loro esperienza, che quindi diventa non interrogabile, satura, invariante, caratterizzata da rigide posizioni, affermazioni dicotomiche (si/no), valutazioni polarizzate (bello/brutto, buono/cattivo, amico/nemico). Dunque, più il ricorso a forme emozionali di interpretazione dell’esperienza è elevato, meno le persone sono capaci di usare la cognizione per esplorare, modulare, imparare dagli errori, valorizzare la pluralità dei punti di vista – dunque, in ultima analisi, andare oltre l’assolutizzazione del proprio mondo di vita e assimilare la dimensione sistemica del bene comune nella loro vita (Salvatore, Mannarini et al., 2019).
Il COVID-19 come “attaccapanni” dell’incertezza
Come suggerito da una prospettiva semiotica e psicodinamica e dalla psicologia culturale (Fornari, 1979; Salvatore & Freda, 2011; Salvatore & Venuleo, 2008; Valsiner, 2007), il processo di costruzione del significato (sensemaking) non si sviluppa in risposta a fatti e oggetti singoli e discreti del mondo sociale e fisico ma è organizzato da significati generalizzati (ad es. “la vita è una questione di fortuna”; “il mondo è sotto l’attacco di un estraneo pericoloso”) che orientano poi specifiche valutazioni ed opinioni rispetto a quegli oggetti. In accordo a questo principio, le persone non rispondono emozionalmente alla pandemia di per sé, ma al più globale scenario mediatico e istituzionale che media e dà forma alla rappresentazione della pandemia. Più nello specifico, le persone hanno iniziato a preoccuparsi quando e a causa del fatto che si sono verificate una sequenza di rotture nelle stabili routine personali e sociali – ad es., il capo di governo che comunica direttamente alla nazione, le trasmissioni tv e i giornali monopolizzati da temi ruotanti attorno alla pandemia, scuole ed uffici chiusi, restrizioni individuali che riducono la libertà individuale come mai accaduto prima. Se a livello funzionale queste misure costituiscono risposte tecniche alla questione socio-sanitaria, a livello semiotico – e cioè a livello di costruzione dei significati con cui si interpreta la realtà – esse si sono offerte come un pattern di elementi che nella loro totalità hanno alimentato una connotazione embodied e generalizzata del campo globale di esperienza come minacciato da un potente nemico.
In accordo alla nostra ipotesi interpretativa, le risposte psicologiche di paura, preoccupazione, sospetto e così via non devono essere comprese, dunque, come risposte alla pandemia da essa intrinsecamente determinate, ma come modalità di dare senso all’esperienza di rapido cambiamento distruttivo del campo socio-istituzionale. Per avere un’idea dell’evidenza controfattuale a supporto di questa tesi, consideriamo il cambiamento climatico, un driver reale e concreto dall’impatto catastrofico per l’intera umanità, esponenzialmente molto più dirompente della Sars-CoV-2, ma incapace di produrre anche remotamente una reazione di paura come quella attivatasi con la pandemia.
Comprendere, anche nella sua evoluzione, l’interpretazione affettiva dell’attuale scenario, richiede di tenere in conto il contesto e la dinamica di questa interpretazione, cioè le condizioni culturali entro cui tale interpretazione affettiva è stata attivata. Anche se un’analisi sistematica di tali condizioni va al di là degli scopi di questo articolo, qui possiamo brevemente riferirci ai diversi autori che, da prospettive diverse, hanno evidenziato come lo scenario socio-culturale contemporaneo sia caratterizzato da una condizione endemica di ansietà, alimentata dalla profonda incertezza attivata dalla turbolenza socio-economica (ineguaglianza economica trasformazione antropologica indotta dal flusso migratorio, trasformazione delle forme di lavoro, accelerazione tecnologica, progressive sinergie uomo-macchina) indotta dallo sviluppo tecnologico e dalla globalizzazione (Elchardus & Spruyt, 2016; Inglehart & Norris, 2017; Mannarini & Salvatore, 2019; Russo, Mannarini & Salvatore, 2020). La nemicalizzazione dell’altro – cioè l’interpretazione del campo sociale nei termini dello schema amico/nemico (Salvatore, Mannarini et al., 2019) – è l’indicatore più evidente di questa ansietà. L’interpretazione affettiva dello scenario pandemico è dunque in piena continuità con l’ansietà culturale che è al cuore del milieu culturale. E, in ultima analisi, questo significa che, indipendentemente dalle caratteristiche mediche della pandemia COVID-19, è il milieu culturale che rende prevalente questa interpretazione – e la relativa risposta di paura – in molte società, non l’opposto. Questa tesi può apparire paradossale; tuttavia, si possono considerare due aspetti a suo supporto. Primo, la variabilità del modo con cui la pandemia è stata approcciata nei diversi paesi, che porta a pensare che l’interpretazione sia funzione delle differenti cornici affettive che caratterizzano i diversi milieu culturali di questi paesi. Per esempio, la visione svedese delle misure restrittive di contrasto e prevenzione può essere compresa come riflettere l’interpretazione affettiva della società come dotata di una capacità di contenimento, un inerentemente “buono” da portare in primo piano; per fare un altro esempio, l’orientamento inziale del governo britannico di contare sull’immunità di gregge può essere vista come riflettere la connotazione focalizzata sul potere dell’in-group di sconfiggere il nemico, qualunque sia il sacrificio individuale. In secondo luogo, la storia recente insegna che l’interpretazione affettiva in termini di ansietà/paura dello scenario sociale non necessita di una reale situazione pericolosa per attivarsi. L’élite politica, l’Euro, i migranti o gli Arabi sono segni generalizzati usati in anni recenti per alimentare ciò quella che è stata chiamata politica della paura (Wodak, 2015).