expand_lessAPRI WIDGET

Depressione – MCT vs CBT

La depressione è la seconda causa di disabilità a livello mondiale e comporta sofferenza personale, perdita di qualità della vita e rischio di suicidio (Ferrari et al., 2013).

 

Per quanto riguarda il trattamento della depressione, tra le terapie psicologiche disponibili la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è la più utilizzata e studiata, con un’efficacia simile agli antidepressivi nel breve periodo e maggiore nei follow-up (Vittengl et al., 2007).

In uno studio recentissimo (Callesen et al., 2020) si è ipotizzato che la Terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2009) – che ha come target i processi di controllo mentale che contribuiscono al mantenimento della sintomatologia depressiva – potesse essere più efficace della CBT nel trattamento della depressione.

Per fare ciò 155 pazienti con diagnosi di Depressione Maggiore (DSM-5, 2013) sono stati coinvolti nello studio: 73 assegnati alla MCT, 82 alla CBT. I trattamenti sono durati fino a 24 sedute da 60 minuti ciascuna, effettuati da psicologi clinici addestrati allo scopo.

Diversi test sono stati sottoposti ai pazienti in tre momenti diversi: prima del trattamento, dopo il trattamento e in un follow-up a 6 mesi dalla fine del trattamento. L’Hamilton Depression Rating Scale (HDRS; Hamilton, 1960), compilato direttamente dal terapeuta, e il Beck Depression Inventory II (BDI-II; Beck et al., 1996), autosomministrato, sono stati utilizzati per la valutazione della gravità della sintomatologia depressiva; il Beck Anxiety Inventory (BAI; Beck et al., 1988) per la misurazione della gravità dell’ansia; il Metacognitive Questionnaire-30 (MCQ-30; Wells & Cartwright-Hatton, 2004), la Negative Beliefs about Rumination Scale (NBRS; Papageorgiou & Wells, 2004), la Positive Beliefs about Rumination Scale (PBRS; Papageorgiou & Wells, 2001) (26), la Dysfunctional Attitude Scale (DAS; Weissman % Beck, 1979) e il Young’s Schema Questionnaire (YSQ; Young, 1998) per la misurazione dei processi di pensiero.

Dai risultati si è riscontrato che non ci sono state differenze post-trattamento nei punteggi dell’HDRS tra MCT e CBT. Differenze che invece si sono presentate nei punteggi del BDI-II, dimostrando la superiorità dell’MCT per quanto riguarda i punteggi sulla sintomatologia depressiva, sia nel momento appena successivo al trattamento, sia nel follow-up di 6 mesi dopo.

I due gruppi MCT e CBT non hanno mostrato differenze per quanto riguarda l’ansia esperita, né nel post-trattmento, né nel follow-up.

L’MCT si è inoltre dimostrata più efficace della CBT in entrambi i checkpoint post-trattamento e follow-up nei punteggi riguardanti gli aspetti processuali e le credenze metacognitive (MCQ, NBRS, PBRS, DAS), a eccezione della YSQ, per la quale non si sono evidenziate differenze significative.

Altro dato importante a livello clinico è che il 74% dei pazienti sottoposti alla MCT soddisfaceva i criteri per un recupero sintomatologico (basato sulla BDI-II) sia nel post-trattamento, sia nel follow-up; i pazienti sottoposti alla CBT si sono fermati al 52% (nel post-trattamento) e al 56% nel follow-up. Questi ultimi dati, in linea con la letteratura (Wells et al., 2009; Jordan et al., 2014; Jarrett & Vittengl, 2016), sottolineano la maggiore efficacia della MCT rispetto alla CBT nel trattamento della depressione e riaprono il dibattito sulla miglior efficacia terapeutica per quanto riguarda questo disturbo.

 

Covid-19 e resilienza: uno studio su bambini dai 5 ai 10 anni – Partecipa alla ricerca

La ricerca è destinata a genitori di bambini di età compresa tra i 5 e i 10 anni, la Sua partecipazione è preziosissima per noi e per la ricerca scientifica.

Lo studio è promosso dalla Sigmund Freud University ed è stato approvato dal Comitato Etico di Ateneo (Prot. nr. JBPEM6ZIAODL5Y87968 del 2 giugno 2020).

 

Le famiglie sono state chiamate in questo periodo a supportare i bambini, aiutandoli ad adattarsi ai tanti cambiamenti di vita ed eventi stressanti che questo periodo ha comportato e comporta, dalla chiusura delle scuole, all’impossibilità di giocare con i coetanei, dalla malattia di familiari, ai lutti. Il nostro interesse è comprendere meglio la reazione dei bambini da un punto di vista psicologico indagando l’impatto che questa situazione di emergenza ha nel presente e che potrebbe continuare ad avere, a distanza di un anno da questa prima rilevazione, nella vita dei bambini. L’obiettivo è quello di sviluppare interventi sempre più efficaci per sostenere le famiglie e i bambini stessi, in particolare promuovendo la resilienza, ossia la capacità di adattarsi positivamente alle difficoltà che la vita ci presenta.

La compilazione del questionario richiede circa 20 minuti e il questionario sarà disponibile online fino al 30 giugno 2020. Qualora avesse più di un figlio nella fascia di età 5-10 anni può compilare il questionario più volte (una per ciascun figlio).


Il “negazionismo psicologico” nella gestione della pandemia da Covid-19

Investire risorse nel settore sanitario e biomedico includendovi anche quello psicologico non solo risulta essere la migliore soluzione per limitare la vulnerabilità dell’attuale pandemia, ma anche come misura preventiva per altri possibili scenari emergenziali (e non) che la nostra società fortemente interdipendente potrebbe affrontare nel prossimo futuro.

 

In questo periodo in Italia siamo stati testimoni della formale transizione delle misure di contenimento adottate per gestire la pandemia dalla “fase 1” di emergenza sanitaria alla “fase 2” di semi-emergenza psicosociale ed economica destinata a perdurare almeno nel breve e medio termine.

Come sappiamo la pandemia è un complesso fenomeno biopsicosociale che cambia nel tempo caratterizzato dalla finalità (tecnicamente denominata teleonomia) strettamente biologica del virus che necessita di un ospite umano interagendo direttamente o meno con le finalità biologiche, psicologiche e socioculturali peculiari della nostra specie (Agnoletti, 2020).

La “fase 1” della pandemia ha dovuto considerare, oltre all’aspetto strettamente biologico e fisiologico dell’interazione del virus (vedi i reparti di cura intensiva come esempio paradigmatico), anche l’amministrazione coercitiva dei comportamenti sociali che ne impediscono la diffusione attraverso politiche finalizzate alla realizzazione di una parziale quarantena (o distanziamento sociale). La quarantena è infatti uno strumento funzionale al contenimento della pandemia ma, come è ormai noto, produce una serie di problematiche psicofisiche rilevanti e diffuse (Brooks et al, 2020).

Già nella “fase 1” l’aspetto delle politiche sociali avrebbe potuto beneficiare grandemente dall’applicazione delle conoscenze scientifiche della psicologia sociale, in particolare della Prospettiva Temporale e della Persuasione (Agnoletti & Zimbardo, 2020a; Agnoletti & Zimbardo, 2020b), oltre naturalmente allo specifico supporto psicologico dedicato alle categorie sociali più colpite dallo stato emergenziale.

Nella “fase 2” delle misure di contenimento (intrinsecamente caratterizzate dalle priorità delle dimensioni psicosociali ed economiche della gestione della pandemia) dove vi è un massiccio e diffuso trasferimento di responsabilità dalle regole di quarantena imposte dalle autorità alle scelte individuali e sociali prese quotidianamente dai cittadini all’interno della loro maggiore grado di libertà ed autonomia acquisita, il contributo della psicologia (in particolare della psicologia clinica e sociale) dovrebbe essere considerato ancor più importante rispetto la “fase 1” se non ritenuto addirittura indispensabile per un’efficace gestione della pandemia.

È triste invece constatare che le recenti politiche italiane adottate dal governo per fronteggiare e gestire la “fase 2” non abbiano sostanzialmente previsto alcuna risorsa al comparto psicologico negando la solida letteratura scientifica e le prevedibili conseguenze economiche negative derivanti dal mancato investimento in questo settore.

Purtroppo infatti non è difficile prevedere che se non si correggerà velocemente questo deficit culturale, che ho soprannominato “negazionismo psicologico”, i danni psicologici, sociali ed economici saranno rilevanti, ampliando il divario socio-economico del nostro paese peggiorando ulteriormente la già incerta situazione italiana.

Riscontrare che il cosiddetto Decreto Rilancio non investe nessuna risorsa dei 3,25 miliardi previsti per il Servizio Sanitario agli psicologi purtroppo conferma quanto arretrato culturalmente sia il nostro paese in questo settore e quanto questa arretratezza sia potenzialmente rischiosa per i cittadini italiani.

Poter investire risorse nel settore sanitario e biomedico includendovi anche quello psicologico non solo risulta essere la migliore soluzione per limitare la vulnerabilità dell’attuale pandemia, ma anche come misura preventiva per altri possibili scenari emergenziali (e non) che la nostra società fortemente interdipendente potrebbe affrontare nel prossimo futuro.

Se da una parte l’Italia ha effettuato nella “fase 1” della pandemia delle scelte politiche lungimiranti e condivisibili che hanno dato la priorità alla futura salute pubblica sacrificando giustamente aspetti economici nel breve termine, la gestione iniziale della “fase 2” sembra essere di segno opposto per il fatto che irrazionalmente sottostima grandemente l’impatto futuro delle dinamiche psicologiche e sociali.

Le cause di questo “negazionismo psicologico” realizzato dal governo italiano non possono essere unicamente attribuibili alla scarsa “visibilità” delle scienze psicologiche proposta in passato dalle istituzioni psicologiche italiane stesse per il semplice fatto che in un mondo culturalmente globalizzato come quello attuale, l’importanza di includere le conoscenze ed i servizi psicologici all’interno delle politiche istituzionali non è più né pensabile né concepibile.

È auspicabile quindi correggere velocemente questo errore della politica italiana dando maggiore importanza al settore del benessere psicologico così fondamentale quanto strategico sia per la salute che per l’economia del nostro paese.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità e Il Disturbo da Uso di Sostanze: evidenze scientifiche di efficacia del trattamento DBT

Numerosi studi hanno mostrato una comorbilità tra disturbo da uso di sostanze e disturbo borderline di personalità. Quale sarà con questi pazienti l’efficacia del trattamento DBT e DBT-DUS, un adattamento del trattamento DBT standard?

Ornella Lastrina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La DBT e il modello bio sociale

La DBT (Dialectical Behavior Therapy, DBT), è un trattamento cognitivo-comportamentale originariamente sviluppato per soggetti a grave rischio suicidario che soffrono di disturbo borderline di personalità.

La DBT basa il suo fondamento teorico sulla teoria biosociale della personalità, marcando il ruolo della disregolazione emotiva sia nei comportamenti suicidari, in generale, sia come fattore eziopatogenetico, nello specifico, del disturbo di personalità borderline (Linehan M., 1993).

Secondo tale formulazione teorica, l’individuo si trova in una condizione di interdipendenza e mutua reciprocità con l’ambiente che lo circonda, l’ambiente e l’individuo si adattano reciprocamente e si influenzano. L’esistenza di una relazione bidirezionale tra disfunzione biologica del sistema di regolazione emotiva e disfunzionalità della comunicazione con l’ambiente sociale di riferimento, definita invalidazione, viene individuata come responsabile della caratteristica disregolazione emotiva di questi pazienti (Linehan M., 2015).

L’ambiente invalidante può infatti contribuire all’insorgenza della disregolazione emotiva: il bambino in tali condizioni, sperimenta maggiore difficoltà a regolare le risposte emotive e spesso tende ad autoinvalidarle perché le percepisce come inappropriate.

Per disregolazione emotiva si intende perciò l’incapacità, malgrado gli sforzi, di regolare o riportare entro la norma le reazioni emotive ai trigger emotigeni.

Alcune delle caratteristiche principali della disregolazione emotiva sono un’incapacità di controllare intensi stati di attivazione emotiva, un eccesso di esperienze emotivamente dolorose, scarso controllo degli impulsi comportamentali, difficoltà a organizzare obiettivi in modo indipendente dal proprio stato emotivo, difficoltà a concentrarsi (LinehanM.,&Dimeff, 1997).

La disregolazione emotiva viene considerato come un importante costrutto transdiagnostico (Gratz et al., 2015); è individuabile, infatti, alla base di diversi comportamenti disfunzionali, quali i comportamenti aggressivi auto e etero diretti, l’uso di sostanze, i comportamenti sessuali a rischio, e presente in differenti forme di psicopatologia.

Comorbilità tra DBP e disturbo da uso di sostanze

Numerosi studi hanno mostrato una comorbilità tra disturbo da uso di sostanze e disturbo borderline di personalità (Akiskal, Chen, & Davis, 1985; Dulit, Fyer, Haas, Sullivan, & Frances, 1990; Links, Heslegrave, Mitton, & van Reekum, Patric, 1995; Loranger & Tulis, 1985; Oldham et al., 1995; Trull, Sher, Minks-Brown, Durbin, & Burr, 2000; Zanarini, Gunderson,Frankenburg, & Chauncey, 1989; Zimmerman & Coryell, 1989).

Alcuni autori hanno ipotizzato una comune eziologia tra il DBP e il disturbo da uso di sostanze, individuando come fattore comune la disregolazione emotiva (Linehan M., 1993) o il discontrollo degli impulsi (Siever & Davis, 1991; Zanarini, 1993). Molti autori considerano, inoltre, il disturbo da uso di sostanze come una manifestazione dell’impulsività che è anche una delle caratteristiche centrali del DBP (Links, Heslegrave, & van Reekum, 1999). Uno studio del 2004 (Darke et al., 2004), condotto in Australia, ha rilevato il 42 per cento di prevalenza del DBP in un campione di 615 abusatori di eroina. Al contrario, una review del 2000 (Trull et al., 2000) ha esaminato gli studi pubblicati dal 1986 al 1997, mostrando una percentuale di disturbo da uso di sostanze, tra il 26 e l’84 per cento, nei pazienti che ricevevano un trattamento per il DBP.

Il Trattamento DBT dei pazienti con comorbilità tra DBP e disturbo da uso di sostanze

Il trattamento DBT prevede una strutturazione gerarchica dei comportamenti target della terapia, dove al primo posto troviamo la diminuzione dei comportamenti suicidari, successivamente la diminuzione dei comportamenti che interferiscono con la terapia, seguiti dai comportamenti che interferiscono con la qualità di vita del paziente, per proseguire con l’incremento delle abilità comportamentali, la diminuzione dello stress-postraumatico, l’incremento del rispetto per se stessi ed infine, il raggiungimento degli obiettivi individuali.

In questa organizzazione gerarchica, l’uso problematico di sostanze si colloca nei comportamenti che interferiscono con la qualità di vita e che quindi ostacolano il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta.

Gli obiettivi che il trattamento DBT si pone per agire sul comportamento di dipendenza sono (Linehan, & Dimeff, 2002):

  • ridurre l’uso della sostanza, compreso l’uso di sostanze illegali e di farmaci non prescritti;
  • diminuire la sofferenza fisica data dall’astinenza dalla sostanza e/o dalle crisi di astinenza;
  • diminuire il craving e il desiderio di uso della sostanza;
  • evitare le circostanze e i trigger che sono collegati all’abuso, per esempio, nello specifico viene utilizzata la tecnica del “bruciare i ponti” con persone, posti e oggetti associati con la sostanza di cui si è fatto abuso (si raccomanda anche il cambio di numero di telefono e l’eliminare tutti i contatti telefonici delle persone con cui solitamente si abusava ed eliminare tutti gli strumenti che venivano utilizzati per l’uso della sostanza);
  • ridurre tutti i comportamenti che conducono all’uso della sostanza, come per esempio momentanei ripensamenti rispetto all’obiettivo di astinenza e il credere che non sia possibile evitare l’uso della sostanza;
  • incrementare comportamenti salutari e di supporto, come allargare la rete di amicizie, iniziare nuove attività e privilegiare ambienti che supportano l’astinenza dalla sostanza, piuttosto che ambienti che ne favoriscono l’uso.

Il trattamento DBT prevede come obiettivo l’astinenza dialettica, questa è una sintesi tra: astinenza, ovvero l’abbandono completo dei comportamenti di dipendenza e la riduzione del danno, cioè riconoscere che ci saranno dei cedimenti e riduzione al minimo dei danni. Nel trattamento con il paziente ci si pone come obiettivo il mettere in atto tutte le abilità per rimanere astinenti, ma contemplando la possibilità che ci saranno cedimenti che saranno gestiti insieme con specifiche skills.

L’astinenza dialettica è un processo suddiviso in tre fasi: in prima fase, i pazienti devono trovare un modo per impegnarsi fortemente nell’astinenza. In secondo luogo, l’obiettivo è individuare le modalità per rimanere astinenti e in terza fase, devono avere un piano per la riduzione del danno in caso di ricaduta occasionale.

E’ utile stilare già in prima fase un piano ben strutturato e condiviso che indichi cosa fare nel momento in cui si potrà verificare una ricaduta occasionale.

Il paziente è introdotto ad uno stato di “mente chiara” che è una modalità intermedia tra “mente dipendente” in cui quello che ci governa è la dipendenza e “mente pulita”, condizione nella quale non è più presente la preoccupazione e la dipendenza dalla sostanza. Essere in mente chiara significa perciò non fare più uso della sostanza, ma essere comunque consapevoli dei pericoli di recidiva, per questo si mettono in atto strategie per prevenire una possibile ricaduta occasionale o una recidiva.

Alcune strategie di prevenzione sono:

  • fare surf sull’impulso (Marlatt, Witkiewitz,et al., 2004), ovvero osservare in modo mindful impulsi, craving e preoccupazioni, senza reagire, giudicarli e agire in base ad essi.
  • ribellione alternativa (Safer, Telch, Chen, 2009), il comportamento di dipendenza può essere, a volte, una modalità di ribellione, è utile perciò individuare modalità alternative per ribellarsi in modo efficace e non distruttivo.

Nel trattamento DBT la ricaduta occasionale è considerata come un problema da risolvere, piuttosto che come un’evidenza di inadeguatezza del paziente o di scarsa efficacia del trattamento. Si impara perciò ad analizzare insieme la ricaduta attraverso la catena comportamentale per individuare i fattori di vulnerabilità in quella circostanza, gli eventi che hanno preceduto e seguito l’uso della sostanza ed esplorare quindi quali sono gli elementi che potranno essere utili per prevenire o affrontare le eventuali successive ricadute (Dimeff & Linehan, 2008).

Le strategie strutturali del trattamento DBT si bilanciano tra strategie di cambiamento (problem solving) e strategie di accettazione. In quest’ottica, il trattamento DBT prevede l’insegnamento di skills per la regolazione emotiva e tolleranza della sofferenza che risultano essere particolarmente efficaci per il comportamento target di abuso di sostanze. Spesso, infatti, i pazienti con disturbo da uso di sostanze hanno difficoltà a individuare i trigger del comportamento di abuso e le conseguenze negative di quest’ultimo, il trattamento DBT prevede un modulo di mindfulness che può essere dunque un utile strumento per una maggiore consapevolezza e per avere una modalità di reazione diversa agli stimoli trigger (Stotts, 2015).

Inoltre, il trattamento DBT non si focalizza solo sul ridurre il comportamento di abuso e gestire il craving, ma anche sull’individuare insieme al paziente i valori e le caratteristiche di una vita che per lui sia degna di essere vissuta. Questo permette di ampliare il trattamento non solo ad una gestione contingente del comportamento problematico, ma di fornire al paziente un più ampio repertorio di strategie e strumenti per facilitare comportamenti più funzionali (Dufrene T. e Wilson K., 2012).

Efficacia del trattamento DBT per pazienti con comorbilità con disturbo da uso di sostanze

Il primo studio che ha esplorato se vi fosse una minore efficacia del trattamento DBT, per pazienti con comorbilità con disturbo da uso di sostanze è quello di van den Bosch e colleghi, del 2002. Lo studio RCT ha messo infatti in evidenza che sia nei pazienti che presentavano comorbilità con disturbo da uso di sostanze che nei pazienti senza tale comorbilità, il trattamento DBT aveva la stessa efficacia. Gli autori suggeriscono inoltre un’implementazione dei programmi DBT con focus specifico su ciascun comportamento target, in particolare quello dell’abuso di sostanze, soprattutto considerando i risultati del trattamento DBT-SUD, un adattamento del trattamento DBT standard per pazienti con disturbo da uso di sostanze. Gli esiti di tale trattamento (Koerner & Linehan, 2000), mettono in evidenza come il trattamento DBT abbia avuto risultati significativi nella riduzione dell’uso di sostanze, in corso di trattamento e ad un follow-up a 16 mesi, questi risultati erano, inoltre, migliori, se confrontati con un gruppo di pazienti sottoposti a trattamento standard.

Le principali modifiche apportate al trattamento standard DBT erano le seguenti:

  • aggiunta di target specifici per l’uso di sostanze;
  • incremento di strategie per favorire l’aderenza del paziente al trattamento individuale e a quello in team;
  • un programma di sostituzione per la sostanza:
  • analisi delle urine tre volte a settimana;
  • case management (Linehan & Dimeff, 1997).

Uno studio di follow-up (Linehan et al., 2002) ha comparato un gruppo di pazienti con diagnosi BPD e dipendenza da oppiacei con un gruppo di controllo sottoposto a differente trattamento, i risultati hanno messo in evidenza che in entrambi i gruppi si verificava una riduzione dell’uso di sostanza, sebbene il gruppo di controllo avesse una migliore risposta al trattamento (64% vs 100%). Ulteriori risultati dimostrano come il trattamento DBT-SUD fosse più efficace a lungo termine nella riduzione dell’uso della sostanza, comparandolo ai risultati ottenuti con counseling di gruppo o individuale, focalizzato sulla dipendenza da sostanza (Mercer D. & Woody G., 2000). Ulteriori evidenze di effetti a lungo termine nella riduzione dell’uso della sostanza sono stati individuati in pazienti sottoposti al trattamento DBT-SUD, considerando gli ultimi 4 mesi di trattamento (Linehan et al., 2002).

E’ indicato utilizzare il trattamento DBT per pazienti che hanno un disturbo da uso di sostanze, ma non una diagnosi di DBP? In linea generale, viene consigliato di utilizzare un trattamento meno complesso di quello DBT come scelta di primo trattamento e soprattutto considerare quanto per il caso singolo del paziente, la disregolazione emotiva abbia peso nel disturbo da uso di sostanza, (Dimeff & Linehan, 2008). Il trattamento DBT è stato infatti pensato e strutturato soprattutto per pazienti che presentano una pervasiva disregolazione emotiva e sarebbe perciò indicato per coloro che presentano un disturbo da uso di sostanze fortemente correlato ad un discontrollo di tipo affettivo.

 

Le più famose dittature della storia e il fenomeno della psicologia delle folle 

Nella folla il tono emotivo è accentuato dai suggerimenti dei leader, dall’uso di simboli verbali e di altri simboli, dai gesti eccitati dei membri della folla e da altre circostanze dell’occasione. Sulla base di queste caratteristiche emotive, la folla è facilmente guidata.

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La psicologia della folla è l’ampio studio di come il comportamento individuale venga influenzato quando grandi folle si raggruppano insieme. 
II primo contributo decisivo allo studio di questo fenomeno deriva dal pensatore francese Le Bon con la sua opera Psicologia delle Folle del 1895. Le Bon era rimasto estremamente colpito dal comportamento delle folle specialmente durante la rivoluzione francese nel 1789 e nelle rivoluzioni degli anni successivi. Le Bon aveva notato come nei gruppi fosse presente una grossa suggestionabilità reciproca con una forte esasperazione dei sentimenti. Egli aveva descritto come le folle fossero capaci di commettere azioni che i singoli individui non sarebbero stati in grado di compiere soli, con la presenza di agiti irrazionali, impulsivi e connotati da forte aggressività. Insieme a Le Bon anche Gabriel Tarde aveva suggerito come all’origine della folla e dei suoi processi ci fossero degli istinti e l’imitazione di massa.

Le opere di Le Bon e Tarde evidenziavano e proponevano le tecniche adatte per guidare e controllare le folle, per questo motivo furono lette e studiate dai più grandi dittatori del Novecento. Uomini come Hitler o Mussolini basarono tutto il loro successo e potere sulla capacità di controllare e manipolare le folle.

Secondo Le Bon, l’individuo cede agli istinti che, se fosse stato solo, avrebbe potuto tenere sotto controllo. Come la persona ipnotizzata, “non è più consapevole dei suoi atti …. Allo stesso tempo in cui certe facoltà vengono distrutte, altre possono essere portate ad un alto grado di esaltazione…Non è più sé stesso, ma è diventato un automa che ha smesso di essere guidato dalla sua volontà … Nella folla è barbaro. Possiede la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche l’entusiasmo e l’eroismo degli esseri primitivi” (Le Bon,1985).

Mentre spiegava il comportamento della folla, Le Bon sviluppò la sua più importante nozione di “mente di gruppo”. La mente di gruppo fa sentire, pensare e agire in un modo completamente diverso da quello in cui ogni individuo si sentirebbe, penserebbe e agirebbe se si trovasse in uno stato di isolamento.

La mente di gruppo non è una semplice somma delle menti di tutti i singoli membri di un gruppo. È una mente distinta dalle menti che lavorano su diversi livelli. Il suo funzionamento si basa su emozioni, appelli, suggerimenti e slogan.

I suoi atti sono meno razionali e più emotivi. È una mente irresponsabile che focalizza la sua attenzione su un oggetto immediato. Il suo livello mentale è molto basso, diventa facilmente eccitata e agisce in modo ipnotico. È su questa premessa che le persone si comportano in modo irrazionale in una folla rispetto a quando sono da sole.

Le idee di Le Bon possono essere riassunte come segue:

  • Le folle emergono attraverso l’esistenza dell’anonimato (che consente un declino della responsabilità personale);
  • Le folle emergono in contagio (idee che si muovono rapidamente attraverso un Gruppo)
  • Le folle si formano attraverso il fenomeno della suggestionabilità. Nella folla, la psicologia individuale è subordinata a una “mentalità collettiva” che trasforma radicalmente il comportamento individuale. Le Bon ha illustrato come in periodi di declino sociale e disintegrazione, la società sia stata minacciata dal dominio delle folle.

La teoria dello psicologo William McDougall sul comportamento di gruppi non organizzati, è praticamente la stessa di Le Bon. Egli spiega che i due fenomeni centrali del comportamento della folla sono l’intensificazione dell’emozione e l’abbassamento del livello intellettuale.

McDougall spiega che maggiore è il numero di persone in cui le stesse emozioni possono essere osservate simultaneamente, maggiore è il contagio emotivo. L’individuo sotto l’influenza dell’emozione perde il potere di essere critico per sperimentare e sentire la stessa emozione.

L’emozione collettiva viene intensificata ulteriormente dall’interazione reciproca. L’intensificazione dell’emozione e il non essere preparati ad opporsi all’autorità della folla, a loro volta, inibiscono i processi intellettuali e determinano l’abbassamento del livello intellettivo della folla.

McDougall ha descritto il comportamento della folla con le seguenti parole:

Una folla è “eccessivamente emotiva, impulsiva, volubile, incoerente, irresoluta ed estrema nell’azione, mostrando solo le emozioni più grossolane e i sentimenti meno raffinati; estremamente suggestionabile, incurante nella deliberazione, frettolosa nel giudizio, incapace di qualsiasi altra forma di ragionamento più semplice e imperfetta; facilmente influenzata e guidata, priva di autocoscienza, priva di rispetto di sé e di senso di responsabilità …. Quindi il suo comportamento è come quello di un bambino indisciplinato o è come una bestia selvaggia”.

La teoria di McDougall sull’induzione simpatica per spiegare l’intensificazione delle emozioni non è stata accettata da tutti gli studiosi. Sigmund Freud nel suo saggio Psicologia di gruppo e analisi dell’Io suggeriva che ciò che tiene insieme qualsiasi gruppo è una relazione d’amore, cioè il possedere dei legami emotivi. Questo riteneva essere “il principale fenomeno della psicologia di gruppo”.

Attraverso una folla, le restrizioni di un Super-Io sono rilassate ed entrano in gioco gli impulsi dell’Io primitivo. Il “censore” all’interno dell’individuo viene messo da parte nella folla e gli “istinti” o impulsi di base, che sono normalmente confinati nelle profondità interiori della personalità, vengono alla superficie. La folla fornisce quindi un rilascio momentaneo di unità altrimenti represse.

La teoria freudiana è utile per spiegare il comportamento della folla, anche se non è supportata da osservazioni fattuali. A volte il comportamento della folla può essere l’espressione di unità represse, ma potrebbe non essere vero per tutte le folle. Inoltre, la sua teoria non è in grado di spiegare tutte le caratteristiche del comportamento della folla.

F. H. Allport ha proposto una spiegazione alternativa del comportamento della folla delineando due principi, di cui uno è il principio della facilitazione sociale.

Secondo questo principio, uno stimolo comune prepara due individui alla stessa risposta e vedere uno dei due individui attuare quella risposta aumenterebbe la probabilità della stessa risposta nell’altro.

Il sociologo Ralf Turner ha superato la spiegazione inadeguata del comportamento della folla e ha sviluppato una prospettiva nuova per spiegare il fenomeno. La tesi centrale di questa prospettiva è che anche nelle folle più violente e pericolose esiste una interazione sociale, in cui viene definita una situazione, emergono le norme per il comportamento sanzionatorio e le linee d’azione sono giustificate e concordate.

Tuttavia, tutte le spiegazioni delineate sopra non riescono a spiegare completamente il complesso fenomeno del comportamento della folla. Ci sono inoltre molteplici fattori che vanno considerati quando si parla di folle, come l’anonimato, la stimolazione, l’emotività, la suggestionabilità, l’iniziazione, il contagio, la mancanza di volontà, la forza degli impulsi inconsci, ecc., che sono altrettanto responsabili dell’emergere del comportamento tipico della folla.

La teoria del comportamento della folla attualmente si è allontanata dalla prospettiva più antica (McDougall, Le Bon, ecc.) che considerava l’individuo come sotto l’influenza della folla e che perdeva la sua capacità di giudizio razionale prima del dilagare di un travolgente contagio emotivo. Invece, i sociologi ora spiegano il comportamento della folla secondo gli stessi concetti sociologici che spiegano il comportamento dei gruppi sociali.

I sociologi hanno dimostrato con ricerche che il comportamento nelle folle è molto più consapevole, razionale e socialmente organizzato di quanto Le Bon credesse. Non solo questo, hanno ampliato il campo e hanno coniato il nuovo termine “comportamento collettivo” per includere sommossa, panico e mania, voci, pubblico, movimenti pubblici e di massa (sociali), insieme alla folla.

Molte teorie sono state proposte da vari psicologi e sociologi per spiegare perché la folla si comporta in un modo particolare. Quello che è importante sottolineare, è che il comportamento della folla è sempre determinato emotivamente.

Le cose che accomunano tutte le persone sono emozioni così fondamentali come paura, rabbia e collera. Con queste emozioni in comune, le folle si formano, interagiscono e agiscono.

Nella folla il tono emotivo è accentuato dai suggerimenti dei leader, dall’uso di simboli verbali e di altri simboli, dai gesti eccitati dei membri della folla e da altre circostanze dell’occasione. Sulla base di queste caratteristiche emotive, la folla è facilmente guidata. Nella folla, le facoltà per lo più critiche restano in sospeso. Gli individui accettano come vere le dichiarazioni più improbabili.

Sulla base di queste notizioni, capiamo come diventa facile spiegare anche il fenomeno delle dittature.

Adolf Hitler per esempio, nel suo Mein Kampf parla della propaganda efficace: “.. i suoi effetti devono sempre essere rivolti al sentimento, e solo limitatamente alla cosiddetta ragione. …la prudenza di evitare qualsiasi presupposto spiritualmente troppo elevato non sarà mai abbastanza grande. (…) La ricettività della grande massa è molto limitata, la sua intelligenza mediocre, e grande la sua smemoratezza. Da ciò ne segue che una propaganda efficace deve limitarsi a pochissimi punti, ma questi deve poi ribatterli continuamente, finché anche i più infelici siano capaci di raffigurarsi, mediante quelle parole implacabilmente ripetute, i concetti che si voleva restassero loro impressi”.

In Italia allo stesso modo, Mussolini prese il potere e fece della sua oratoria lo strumento principale di manipolazione delle masse. Mussolini giudicava le masse come “stupide e pigre” e il suo compito era quello di supportarle ma anche di punirle. Mussolini, nei suoi discorsi al popolo, utilizzava un linguaggio molto semplice, con parole chiave e regalava forti immagini visive, parlando spesso dal suo balcone a Palazzo Venezia. Mussolini aveva letto il libro di Le Bon più volte, e utilizzava le tecniche del pensatore francese mentre parlava alla folla. Per esempio, invitava il popolo a rispondere alle sue domande e creava nella folla sentimenti di patriottismo in cui le emozioni venivano risvegliate e si diffondevano tra i vari componenti.

Da allora le folle sono diventate oggetto di studio di varie scienze. Oggi gli studi di psicologi e sociologi si concentrano sulla manipolazione mediatica e sui cambiamenti che il web ha determinato nella manipolazione della comunicazione.

 

C’è differenza tra un qualunque sistema familiare e la comunità ebraica ortodossa descritta in “Unorthodox”?

Il percorso della protagonista di Unorthodox prevede uno svincolo dalla mente unica dell’Io familiare, che nel suo caso si potrebbe definire come “Io comunitario”, al fine di non soffocare i propri bisogni e il proprio Sé.

 

Il presente articolo, riprendendo riassuntivamente la descrizione della comunità ebraica ortodossa della serie Unorthodox, ricalca le similitudini nelle caratteristiche e nel processo di svincolo che intercorrono in questo tipo di comunità e in un qualsiasi altro sistema familiare, attraverso la citazione degli autori sistemici – relazionali Murray Bowen e Salvador Minuchin.

Una delle ultime serie prodotte da Netflix ha il titolo di Unorthodox ed è basata sull’autobiografia di Deborah Feldman. La regia si sofferma sulla descrizione di alcune delle usanze tipiche nella comunità ebrea ortodossa a New York.

Da quel che si evince attraverso il telefilm, questa comunità è come se fosse una grande famiglia dove tutti i componenti sono indifferenziati gli uni dagli altri, riprendendo Bowen, autore d’impronta sistemica – relazionale del libro Dalla famiglia all’individuo.

È interessante la descrizione di passaggi della storia della coppia nella comunità, a partire dalla scelta del partner fino al matrimonio e al concepimento dei figli. Già dalla scelta del coniuge la decisione diventa di tutta la famiglia: la madre del ragazzo deve approvare la nuora prima che diventi tale; la cerimonia matrimoniale coinvolge tutti i membri della comunità nelle diverse fasi; gli stessi rapporti sessuali non godono di libertà di movimento, in quanto necessitano di seguire un protocollo che preservi l’autostima del marito e al contempo abbia unicamente l’obiettivo del concepimento, e non viene rispettata neanche la privacy, poiché tutti i familiari sono al corrente di quello che accade o accadrà nella stanza da letto.

L’indifferenziazione, intesa da Bowen come un’unica mente comune appartenente a tutti i membri della famiglia, è riscontrabile non solo nella storia della coppia, ma anche in valori, miti e pensieri di ogni componente della comunità ortodossa, poiché inequivocabili, accettati ed assorbiti da ognuno, tanto da soffocare i propri bisogni individuali.

La differenza tra una famiglia ortodossa e qualsiasi altra famiglia sembrerebbe quasi nulla se notiamo che in entrambi i casi il Sé si annulla per mantenere la stabilità della massa indifferenziata dell’Io familiare.

Anche nella storia della coppia sono riscontrabili caratteristiche simili a quelle di molte altre coppie, in quanto nella scelta del partner inconsciamente convergono motivazioni, credenze, ideali e aspettative che appartengono alla massa indifferenziata dell’Io familiare e che permettono di rispettare vincoli di lealtà con le relazioni nella famiglia d’origine; la cerimonia matrimoniale spesso vede la partecipazione attiva degli altri familiari che non siano la coppia stessa; infine capita che la stessa vita sessuale non venga vissuta liberamente, ma sempre in funzione delle convinzioni appartenenti alla massa indifferenziata dell’Io.

Il percorso della protagonista prevede uno svincolo da questa mente unica dell’Io familiare, che nel suo caso si potrebbe definire come “Io comunitario”, al fine di non soffocare i propri bisogni e il proprio Sé e di rinunciare, dunque, al suo ruolo sacrificale, che permetteva la stabilità del sistema. Lo stesso processo di svincolo avviene per ogni individuo che si permette di affrontare l’adolescenza nella propria famiglia.

Ogni famiglia è caratterizzata da proprie convinzioni, valori, aspettative e vincoli di lealtà impliciti che legano i componenti in una rete difficile da districare ma non impossibile, seppure nel momento in cui si tira un filo, è imprevedibile il destino dei vari incastri. Allo stesso modo, nel momento in cui la protagonista della serie, o un qualunque adolescente, inizia lo svincolo dalla massa dell’Io indifferenziata, alla scoperta del proprio Sé, non sa cosa accadrà alle proprie relazioni familiari. Alcune famiglie accetteranno a piccoli passi questo processo, mentre altre, con confini più rigidi, come le descriverebbe Minuchin in Famiglie e terapia della famiglia, non riusciranno ad accettarlo e l’individuo rischierà di essere espulso, al fine di mantenere l’omeostasi del sistema. La comunità descritta in Unorthodox sembra essere una grande famiglia con confini rigidi.

Pertanto, la comunità ortodossa non è poi tanto diversa da molte altre famiglie o comunità,che fondano la propria stabilità e continuità su credenze, usanze, valori e vincoli di lealtà impliciti o espliciti, chiedendo ai membri di sacrificare il proprio Sé, e di conseguenza i propri bisogni, al fine di non incorrere in un imprevedibile cambiamento.

 

Il ruolo dell’immaginazione motoria nei processi di apprendimento

Grazie all’immaginazione motoria, dall’inglese “motor imagery”, l’atleta riesce a rappresentarsi mentalmente un movimento senza implementare una risposta motoria. La motor imagery può essere suddivisa in visual imagery e kinaesthetic imagery.

 

L’immaginazione motoria dall’inglese “motor imagery” consiste dal punto di vista dell’atleta di formare una rappresentazione di un movimento senza implementare una risposta motoria. Oggetto di studio e di approfondimento sono state in particolare le varie articolazioni di questo costrutto nel campo dell’apprendimento e del perfezionamento di un atto motorio. La motor imagery (MI) infatti può essere suddivisa, così emerge dalla letteratura, in visual imagery e kinaesthetic imagery.

La prima riguarda la composizione all’interno dell’encefalo, di un’immagine di un gesto motorio che sintetizza gli aspetti visivi della percezione (forma, colore, dimensione, posizione nello spazio, coordinate durante il movimento), la seconda invece riguarda la costituzione di una rappresentazione non visiva sintetizzando aspetti propriocettivi, tattili, viscerali (es. temperatura corporea, battiti cardiaci, sensazione di pesantezza o leggerezza di un arto, contrazione muscolare). Se si va ad indagare e a scavare in profondità, si può notare come i processi di immaginazione così distinti non seguano due vie neuronali completamente svincolate tra loro. E’ vero che nel caso della visual imagery vi è un coinvolgimento maggiore delle aree occipitali e nella kinaesthetic imagery delle aree somatosensoriali, ma diversi studi hanno dimostrato la compresenza di questi due processi in un network in comune. In particolar modo si fa riferimento alla corteccia supplementare motoria e alla corteccia pre-frontale. Questo significa che diverse modalità di rappresentazione di un atto motorio condividono dei network in comune.

Tale risultato è stato il punto di partenza per un’altra serie di ricerche che hanno indagato sulla comparazione tra i meccanismi neuro-fisiologici coinvolti nella MI e su quelli coinvolti durante l’osservazione di un atto motorio. Da queste ricerche emerge come osservazione e immaginazione di un atto motorio coinvolgano aree pressoché sovrapponibili. Questi dati hanno potenzialmente un valore importante per chi si occupa di apprendimento, se si assume poi, come si deduce dalla teoria piagetiana che la base di tutti gli apprendimenti è di natura motoria. Non si può prescindere, quindi, dalla conoscenza delle tappe dello sviluppo dell’immaginazione motoria se si vuole parlare di apprendimento cioè di come utilizzare questo costrutto in maniera fruttifera.

In particolare Mizuguchi (2016) ha perfezionato uno strumento di facile somministrazione nella scuola elementare per i processi di immaginazione motoria nella prima infanzia e in adolescenza. Tale studio prevedeva che alcuni bambini delle scuole elementari dovessero osservare delle immagini ritraenti alcune mani secondo diversi orientamenti (dorsale, palmare) e secondo diverse angolazioni (0°,90°,180°), e in un secondo momento dichiarare se l’immagine ritraeva una mano destra o una mano sinistra. Tale compito, come ha spiegato il ricercatore, presuppone abilità di rotazione mentale di oggetti e quindi la costituzione di veri e propri tracciati del percorso effettuato dalla mano nello spostamento. I risultati hanno dimostrato che prima degli 8 anni di età i bambini effettuavano molti più errori rispetto a quelli di 11 anni di età. Questa fase di pre-adolescenza sembrerebbe il crocevia per lo sviluppo di abilità di immaginazione motoria. L’abilità di immaginazione motoria segue una parabola discendente dopo i 60 anni di età e questo è supportato dalla vasta gamma di studi sull’effetto di accoppiamento bimanuale, in cui viene chiesto di eseguire un gesto con una mano e di immaginare di eseguire un gesto con l’altra mano in maniera sincronizzata, l’incapacità di eseguire il compito si traduce in un’interferenza dei meccanismi di immaginazione sui meccanismi di esecuzione. In particolare i bambini sviluppano precocemente abilità di visual imagery a dispetto della kineasthetic imagery. La seconda abilità immaginativa è strettamente correlata allo sviluppo del sistema limbico e quindi intorno ai 17 anni di età.

Tenendo conto di queste premesse lo studio dell’apprendimento e del perfezionamento di abilità di immaginazione motoria ha trovato terreno fertile soprattutto nel campo della psicologia dello sport. Nel settore sportivo riprendendo i concetti precedentemente esposti, la visual imagery, ovvero la visualizzazione di un atto motorio, è stata suddivisa in Visual Internal Imagery e in Visual External Imagery.

La visual internal imagery fa riferimento alla visualizzazione di un atto motorio in prima persona, quindi l’atleta immagina/visualizza le parti del suo corpo muoversi come se avesse una telecamera sul capo, mantenendo quindi delle coordinate spaziali di tipo egocentrico. La visual external imagery invece fa riferimento alla visualizzazione di un atto motorio in terza persona, quindi l’atleta immagina sé stesso da fuori nell’esecuzione di un atto motorio. Nel secondo caso quindi l’atleta è spettatore di sé stesso. Questa suddivisione è stata innovativa nel campo della ricerca in ambito sportivo, perché i risultati descrivono come gli atleti principianti (e spesso più giovani) siano inclini e più propensi ad utilizzare immagini in terza persona nelle fasi di apprendimento di un nuovo atto motorio e immagini in prima persona nella fase di perfezionamento o consolidamento di un atto motorio. Risultati che sono opposti a quelli dei professionisti che sembrano più concentrati sul “sentire” o percepire quelle sensazioni viscerali e tattili legate ad un atto motorio nelle fasi di apprendimento, quindi utilizzando immagini in prima persona, e viceversa sembrano utilizzare immagini motorie in terza persona nella fase di consolidamento o perfezionamento di un atto motorio. Questo significa che l’atleta più giovane è nelle fasi iniziali concentrato prevalentemente sugli aspetti ecologici dell’apprendimento, per poi familiarizzare e prendere consapevolezza dei cambiamenti personali che intercorrono mentre esegue un gesto. L’atleta professionista, data la vasta gamma di esperienze a cui ha preso parte, conosce alla perfezione il proprio corpo e le sue reazioni e ha imparato a spostare il focus prima su sé stesso nelle fasi di apprendimento, per migliorare la prestazione del gesto singolo, e poi a concentrarsi sugli aspetti ecologici che prevedono l’articolazione dei vari gesti in relazione allo spostamento dell’avversario e/o compagni di squadra.

Sulla base di questi risultati Holmes e Collins (2007) hanno sviluppato il modello PETTLEP per progettare un allenamento basato sull’immaginazione motoria. L’acronimo PETTLEP si riferisce ad alcune caratteristiche che un un allenamento basato sull’immaginazione motoria dovrebbe avere ovvero:

  • Fisica: l’immagine è più efficace quando include tutti i sensi che sarebbero coinvolti e le sensazioni cinestetiche che potrebbero essere vissute durante le prestazioni effettive.
  • Ambientale: è importante che l’ambiente in cui si svolge il processo di immaginazione sia simile all’ambiente reale di esecuzione.
  • Attività: l’attività immaginata deve essere strettamente correlata all’attività effettiva. I partecipanti dovrebbero essere incoraggiati a riportare verbalmente il coinvolgimento fisiologico e comportamentale.
  • Tempistica: l’equivalenza temporale tra movimento immaginato ed eseguito è importante, i tempi di immaginazione e i tempi di esecuzione dovrebbero essere simili per poter accedere alla stessa rappresentazione motoria durante l’immaginazione.
  • Apprendimento: il contenuto delle immagini deve essere adattato alla fase di apprendimento in cui si trova attualmente l’atleta. Per prima cosa quindi un esecutore non esperto dovrà pensare di più alla tecnica, ma nelle fasi successive dell’apprendimento potrà focalizzarsi maggiormente sulla “sensazione” del movimento.
  • Emozione: la persona dovrebbe provare e sperimentare le stesse emozioni associate alla performance, le risposte emotive del performer devono quindi essere incluse nelle immagini.
  • Prospettiva: le immagini in prima persona, soprattutto nelle fasi iniziali, sono preferibili perché sono più simili a ciò che l’atleta vede quando esegue il movimento.

Tale training, se supportato dalla pratica fisica e dall’osservazione costante, rende l’allenamento completo perché va a stimolare tutte le componenti coinvolte in qualsiasi performance sportiva: Immaginazione, Osservazione, Esecuzione.

L’immaginazione motoria consente quindi di apprendere nuovi atti motori e di perfezionare quelli precedentemente appresi ed è alla base della creatività, cioè di quella capacità di formare e combinare rappresentazioni diverse di uno stesso gesto.

 

Disturbo bipolare: i benefici di una buona alleanza di lavoro

Nonostante il trattamento, molti pazienti affetti da disturbo bipolare soffrono di una compromissione del funzionamento e di una diminuzione della qualità della vita. Una buona collaborazione tra paziente e figure professionali potrebbe certamente influenzare positivamente gli esiti del trattamento.

 

Il disturbo bipolare è un disturbo cronico dell’umore, caratterizzato da ricorrenti episodi depressivi e maniacali o ipomaniacali (AAI, 2000). La prevalenza a vita per questo tipo di disturbo va dall’ 1.5% al 2.4% (De Graaf, Ten Have, Van Gool,& Van Dorsselaer, 2011), comportando un funzionamento marcatamente alterato ed una diminuzione della qualità della vita. Inoltre, i pazienti considerano i sintomi depressivi più pesanti e debilitanti rispetto a quelli maniacali (IsHak et al., 2012).

Nello specifico, è stato sviluppato un programma di assistenza collaborativa (Collaborative Care Program) per questa tipologia di pazienti, il quale pone una forte enfasi sulla qualità dell’alleanza di lavoro. Le ricerche sugli effetti dell’alleanza di lavoro, tra professionista della salute mentale e pazienti con disturbo bipolare, sugli esiti dei trattamenti è limitata, sebbene rivelino che una buona alleanza si associa ad una diminuzione del tempo trascorso nella fase depressiva (Gaudiano & Miller, 2006), ad una diminuzione dei pensieri suicidari (Ilgen et al., 2009) e ad una migliore aderenza al trattamento (Perrone et al., 2009). Pertanto, questo studio si focalizza sui benefici dell’alleanza di lavoro terapeutico e su quali aspetti del terapeuta contribuiscono positivamente o negativamente al recupero da un episodio depressivo.

I partecipanti alla ricerca sono stati reclutanti per mezzo di dati LCM (Life Chart Method) raccolti dagli esaminatori attraverso i colloqui telefonici. Esso è uno strumento di autovalutazione per pazienti con disturbo bipolare, che si propone di indagare la gravità dei sintomi. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: presenza di mania o depressione molto grave, un decorso stabile della malattia nell’ultimo anno, non in grado o disposto a dare il consenso informato.

Tutti i pazienti ritenuti idonei (N=18) sono stati invitati, a loro volta, a partecipare allo studio attuale. Di questi, quattro hanno interrotto il colloquio e non hanno completato la ricerca. A questo punto, a ciascun partecipante è stata somministrata un’intervista semi-strutturata basata su una lista di temi fondamentali. L’intervista è iniziata, in primo luogo, con la raccolta delle caratteristiche di background e della malattia; successivamente è stato valutato il quadro depressivo attuale, esplorando, in particolare, l’ultimo episodio depressivo sperimentato dal paziente, a partire dalla domanda: “Può dirmi di più su come ha vissuto quell’episodio?”; infine, è stato approfondito il tema dell’alleanza di lavoro con il terapeuta durante l’episodio depressivo. Nello specifico, gli argomenti si sono basati su due fonti: (1) gli items del Working Alliance Iventory Scale, basate sulle tre dimensioni di Bordin (obiettivi, compiti e legami), per misurare la qualità dell’alleanza (Horvath & Greenberg,1989), e (2) le caratteristiche tipiche dell’alleanza di lavoro secondo il programma Collaborative Care , come la natura specifica della collaborazione tra paziente e clinico, l’identificazione strutturata e la valutazione degli obiettivi del trattamento.

Il terapeuta di riferimento crea un “ambiente di accoglienza” (“Holding Environment” di Winnicott, 1965), è affidabile, presente, empatico, accoglie e accetta con atteggiamento non giudicante (Meyer, 1993; Winnicott, 1965). In questo modo egli permette al paziente di comprendere quanto sta accadendo nella sua vita, riducendone lo stato di confusione. Così facendo, inoltre, il paziente viene incoraggiato ad assumere un atteggiamento attivo nel processo di riabilitazione. Per costruire una buona e forte alleanza di lavoro, i pazienti devono sentire che il clinico si prende del tempo per conoscerli come persone, al di là della malattia (Kirsh & Tate,2006).

Inoltre, il programma di assistenza collaborativa (CC) sottolinea l’importanza di collaborare e di creare buone alleanze all’interno del team (Van der Voort et al., 2015).  Nello specifico, i pazienti dello studio hanno confermato i principali elementi del programma CC, in relazione all’alleanza di lavoro: gli sforzi attivi del terapeuta di adattare il trattamento alle esigenze del paziente, la posizione del clinico come responsabile dell’assistenza, del suo coordinamento e della sua continuità, ma al contempo a disposizione del paziente. Uno dei moduli di intervento più apprezzato del programma CC, da parte dei pazienti dello studio, è quello relativo al problem solving: operatore e paziente hanno l’opportunità di collaborare alla soluzione di problemi personali, stimolando il ritrovamento del senso di controllo e, al contempo, promuovendo una buona alleanza di lavoro.

In conclusione, i risultati rivelano che i temi fondamentali che hanno caratterizzato il supporto che gli operatori della salute mentale hanno offerto ai pazienti durante la convalescenza sono: la creazione di un ambiente sicuro e di supporto e il fornire chiarimenti circa il disturbo.

 

Stravolti da webinar, videocall, videolezioni e aperitivi telematici? Ecco qui la Zoom Fatigue e come porvi rimedio

Durante le videocall il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale. Questo è uno dei fattori che contribuiscono alla cosiddetta Zoom Fatigue.

 

La pandemia che ci ha colpito ha mutato radicalmente le nostre abitudini e senz’altro abbiamo trovato molto confortante che la tecnologia ci permettesse di mantenere un legame con chi non potevamo più abbracciare.

Anche la scuola si è trasferita online, così come le riunioni, i colloqui di lavoro, le sessioni di laurea e anche gli aperitivi o le cene tra fidanzati sono diventati telematici.

Abbiamo cercato di tenerci compagnia con video divertenti ed emozionanti, rilanciato post, abbiamo approfittato di questo tempo sospeso per aggiornarci mediante webinar o per trovare forme innovative per le nostre professioni e attività.

E qualcuno di noi si è anche perso nei meandri di videogiochi, scommesse online, shopping senza limite, alla ricerca compulsiva di contatto virtuale, dell’anima gemella o di sesso online: un mondo dei balocchi di cui troverà purtroppo il conto da pagare all’uscita. Ma forse non saranno gli unici.

Tutti noi abbiamo aumentato esponenzialmente il nostro tempo di connessione per svago, per fuga, per studio, per lavoro. E forse mai come prima, abbiamo la possibilità oggi di sentire sulla nostra pelle ciò di cui molti autori, rimasti nell’ombra fino a poco tempo fa, ci avvisavano: internet e lo smartphone hanno anche pesanti effetti collaterali.

Sapevamo già dalle ricerche riportate da Jean Twenge (2018) che l’attività a schermo prolungata oltre le due ore quotidiane correla con aumenti significativi di percezione di infelicità, solitudine, depressione e, addirittura, ideazioni suicidali nelle nostre ultime generazioni (Millennial e iGen) e, dalla lettura dei libri di Manfred Spitzer (2015, 2018, 2019), trasalivamo nel costatare che la presenza continua dello smartphone incide davvero su attenzione, memoria, sicurezza stradale, capacità di lettura e calcolo, sonno, salute, stati ansiosi e depressivi.

Così come era chiaro, a chiunque si permettesse di osservarsi, che lo smartphone è diventato il nostro migliore amico, cui diamo da mangiare, per il quale ci preoccupiamo quando sta per morire, che vestiamo con protezioni colorate o glitterate quasi fosse un cucciolo: un oggetto ormai animato che condivide tutto il tempo con noi, veglia su di noi di notte, il primo ad essere guardato al mattino e a cui affidiamo sempre più la nostra memoria e possibilità di controllo degli altri (Valorzi e Berti, 2019).

Ma mai come adesso abbiamo anche la possibilità di sentire quanto possano essere stancanti e/o invasive le videocall, tanto che ricercatori e stampa internazionale stanno già parlando di Zoom Fatigue.

Ma perché ne usciamo così a pezzi?

Intanto, perché il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale.

Così come innaturale è essere deprivati di tutta una serie di comunicazioni non verbali che in presenza avvengono in modo automatico e che ora possiamo solo provare a ricostruire (faticosamente). Sempre che almeno si possano notare le espressioni sottili del viso che, visto la qualità della connessione, spesso si freezano, si quadrettano, si offuscano.

L’attenzione alle parole deve rimanere altissima e altissimo è il rischio di “perdere” l’altro o di essere interrotti anche solo perché la carica di un device è insufficiente o perché c’è una chiamata altrui in entrata.

Lo sguardo è continuo, sebbene disallineato (chi mai guarda solo l’obiettivo e non lo schermo?), perché guardare lo schermo sembra essere il modo con cui comunichiamo silenziosamente la nostra attenzione a chi sta parlando (i microfoni si attivano solo all’occorrenza e non per sussurrare un empatico “mhmm”) e il viso dell’altro appare a una distanza (reale) dai nostri occhi che mai terremo dal vivo (troppo vicini).

Dato non da poco: avete notato come si abbia la sensazione di essere guardati da tutti? Un po’ come nei peggiori incubi dei ragazzi che a scuola soffrono di ansia sociale immaginando che tutti (anche i compagni delle file dietro e davanti) li stiano guardando con aria giudicante.

Sì, giudicante, perché sembra che quando il piccolo ritardo nel suono, dovuto al mezzo imperfetto, supera i 1200 ms (Schoenenberg, Raake, Koeppe, 2014) aumenti la sensazione di avere un interlocutore meno amichevole. Come parlare dal vivo con qualcuno che ha un viso tirato e che lascia scorrere il tempo prima di esprimersi lasciandoci il tempo di pensare “Oddio, avrò detto una cosa intelligente?”. Innaturale.

Non parliamo del fatto che la nostra attenzione, già messa a dura prova dall’attrazione del guardare gli scorci delle abitazioni di ogni partecipante, si trova spesso nella tentazione di osservare e controllare la nostra stessa immagine nel riquadro anziché rimanere in quel flusso comunicativo, nel ballo del dialogo sintonizzato.

Le emozioni sono più faticose da lasciar emergere (i nostri neuroni specchio funzionano meglio a distanza reale ravvicinata) e non possiamo neppure fare un commento simpatico al nostro virtuale compagno di banco, fosse anche solo per chiedergli di ripeterci l’ultima parola che ci è sfuggita.

Ecco, avessimo avuto bisogno di capire quanto la comunicazione tecnologicamemte mediata possa incidere sulla nostra mente e sul nostro corpo, ora non possiamo non notarlo.

Eppure siamo qui e l’alternativa è non poter comunicare (o lavorare) o farlo a distanza con la mascherina. Niente di molto attraente.

Così, come le scimmiette di Harlow (1958) dovevano accontentarsi di una madre di stoffa piuttosto di quella di freddo metallo per non cadere nella depressione anaclitica osservata nei bambini degli orfanotrofi di Spitz (1965), dobbiamo accontentarci di questo in assenza di una madre di carne e ossa.

Cosa possiamo fare allora per non soffrire massicciamente di questa alterazione (speriamo meno prolungata possibile) di piano comunicativo, visto che nel nostro DNA è inciso i nostro bisogno di contatto?

  • Intanto possiamo già lasciare spazio al desiderio di ricongiungimento reale e non confonderci illudendoci che sia la stessa cosa.
  • Potremmo anche comunicare che non è necessario avere sempre la videocamera accesa, anzi, senza possiamo concentrarci meglio sui contenuti che possono piuttosto essere proposti in slide che tutti potremmo guardare senza distrazioni.
  • Possiamo ridurre le videocall a quelle davvero necessarie alla nostra operatività e al nostro cuore che sente tanto nostalgia senza avere alternative.
  • Lasciarci spazio per muoverci, bere dell’acqua, dare acqua alle piante (giusto per ricordarci che anche noi facciamo parte della natura) durante pause più ravvicinate, e sottolineare che stiamo tutti facendo uno sforzo importante e che ci meriteremo poi una attività piacevole (noi psicoterapeuti potremmo consigliare anche una visualizzazione compassionevole o di un luogo sicuro, ma ci starebbe bene anche una bella canzone o un abbraccio forte alla persona con cui conviviamo).
  • Possiamo declinare gentilmente gli inviti alle videoconferenze non preventivamente concordate e invadenti della privacy ricordando che sarebbe più sano non esporsi al sovraffaticamento e che una telefonata in cui si cammina sembra attivare più facilmente la creatività.

Il fatto che abbiamo tutti scoperto che ci si può anche “incontrare” su Zoom, su Skype, WhatsApp o FeceTime in condizione di crisi non vuol dire che dovremmo tenerlo come abitudine quando potremo finalmente uscire.

 

La perdita ambigua, l’impatto sul sistema familiare e il legame con il Covid-19

É andato via per sempre? Tornerà o non lo vedrò mai più? Non ho mai visto il suo corpo, è morto davvero? L’impossibilità di dare risposta a queste domande impedisce all’individuo di riorganizzarsi nei pensieri e nelle emozioni. La perdita ambigua ai tempi del Covid-19.

 

Da sempre gli esseri umani hanno mostrato la necessità psicologica di sancire in qualche modo la definitiva perdita di una persona cara, arrivando così a creare forme ritualistiche di diversa natura attraverso cui comunicare, a sé stessi e agli altri, che il cambiamento (la perdita) è immutabile. Queste forme di comunicazione sociale non determinano solamente l’ufficialità della morte e la perdita, ma permettono ai sopravvissuti di avviarsi verso il doloroso, ma naturale, processo di elaborazione del lutto, alla fine del quale l’individuo si scoprirà riorganizzato nella sue funzioni psicologiche, cognitive ed emotive e in grado di muoversi ancora all’interno del mondo, pur in assenza della persona cara (Boss, 2009).

Vi sono però delle situazioni in cui la messa in atto dei classici rituali di passaggio non è possibile. Sono quei casi in cui la perdita della persona cara non può essere dichiarata con certezza o in modo chiaro e definito. In questa categoria rientrano i rapimenti, i dispersi di guerra, le morti senza corpo, ma anche tutti coloro che pur essendo presenti fisicamente sono estremamente distanti cognitivamente ed emotivamente. Ecco quindi che i confini della perdita si fanno sfuocati e confusi e la perdita diventa ambigua.

La teoria della perdita ambigua compare in letteratura grazie ai lavori di Pauline Boss, e viene descritta come una perdita sfuggente, confusa, non chiara, in qualche modo sospesa nel tempo e nello spazio (Boss, 1999).

Essere in presenza di un perdita ambigua, secondo Boss (1999), congela il processo di elaborazione del dolore, impedisce la riflessione cognitiva e quindi le strategie di coping adattive, arrivando a configurare la perdita come traumatica, proprio a causa dell’incertezza che la circonda. È questa incertezza che, secondo l’autrice, alimenta nell’individuo una posizione ambivalente e contraddittoria, destinata per sua natura ad essere irrisolvibile. In tale senso, non è solo l’ambiguità a diventare la fonte di stress traumatica, ma anche l’angoscia derivante dalla conseguente costante ricerca di coerenza. É andato via per sempre o solo per un po’? Tornerà o non lo vedrò mai più? Non ho mai visto il suo corpo, è morto davvero? L’impossibilità di dare risposta a queste domande impedisce all’individuo di riorganizzarsi nei pensieri e nelle emozioni, così da poter fronteggiare l’assenza e ridefinire il proprio ruolo.

Nella teoria della perdita ambigua Boss (1999) individua due tipi di perdite: la presenza fisica della persona che risulta psicologicamente assente (good-bye without leaving) e la presenza psicologica della persona fisicamente assente (leaving without good-bye). Se nel primo tipo di perdita la persona è presente fisicamente, ma il suo stato cognitivo le impedisce di partecipare pienamente alle dinamiche familiari e di mantenere il ruolo che ha sempre ricoperto, nel secondo caso la persona pur essendo fisicamente assente, continua ad avere, su familiari e amici, un’influenza psicologica così importante da renderla al medesimo tempo viva e presente.

Colpisce come all’interno del contesto della pandemia da Covid-19 si possano spesso trovare entrambi i tipi di perdite, addirittura in modo consequenziale nei casi più gravi. Prima il ricovero, la separazione fisica e improvvisa della persona cara, che tuttavia rimane con noi, con i suoi vestiti nell’armadio e il suo spazzolino accanto al nostro. Poi, a volte, il coma indotto, una mente assente all’interno di un corpo vivo a cui non possiamo avvicinarci per il nostro stesso bene. E, infine, nei casi più sfortunati, la morte, che viene comunicata, ma non può essere vista, toccata e vissuta nella camera mortuaria o al funerale. Solo una bara vista da lontano.

La perdita di una persona cara, tuttavia è un fattore che non colpisce solamente l’individuo sopravvissuto nella sua singolarità, ma anche l’intero sistema famigliare. Secondo la prospettiva sistemica la riorganizzazione del ciclo di vita famigliare non coinvolge solamente la famiglia nucleare, ma l’intero sistema in termini trigenerazionali. È questa infatti la rete che costituisce le radici dell’individuo e, insieme agli amici, si caratterizza come risorsa di supporto importante di fronte alla perdita (Canevaro, 2005).

Ogni sistema possiede delle strategie, che si declinano in modo unico e singolare, che mette in atto per superare i compiti famigliari legati all’elaborazione del lutto. Idealmente per superare un lutto il sistema coinvolto dovrà in primo luogo riconoscere e accettare la morte, creare un luogo in cui poter comunicare emotivamente attorno alla perdita, rinunciare alla persona scomparsa, riadattare i ruoli familiari ed extrafamiliari, per giungere infine alla riaffermazione del senso di appartenenza al nuovo sistema familiare con l’ingresso in una nuova fase del ciclo di vita (Godlberg, 1973; Pereira, 1998).

Le strategie di coping che ciascun individuo possiede e che apprende nel corso dell’infanzia, intuendo ciò che può essere apertamente discusso o meno e quali stati emotivi siano accettabili (Betz e Thorngren, 2006), interagiscono con la rete costituita dai membri del sistema, in un gioco di relazioni che si evolve e viene trasmesso all’interno della storia transgenerazionale familiare (Moos, 1995). Il dolore legato alla perdita tocca le strategie legate all’attaccamento di ognuno, l’identità di ogni membro, la stabilità emotiva e relazionale, i ruoli sociali e familiari. Il sistema dovrà quindi mettere in campo modalità orientate alla ridefinizione dell’identità familiare e dei ruoli dei suoi membri, trovando un significato condiviso rispetto a quanto accaduto (Rycroft e Perlesz, 2001).

Di fronte a una perdita ambigua, però, la famiglia si trova a vivere uno stato di immobilità e incapacità di andare avanti a causa della specificità della situazione e dell’impossibilità di attribuirle un significato. I fattori che nel caso di un lutto sostengono la famiglia nel processo di elaborazione, vengono in questo caso a mancare, rendendo il processo maggiormente complesso.

Rifacendosi ai due tipi di perdite ambigue individuate da Boss (1999), gli elementi che sembrano impedire e bloccare il normale, per quanto doloroso, processo del lutto sono l’assenza di pratiche che sanciscono la perdita anche in caso di incertezza e parzialità (demenze, traumi e lesioni cerebrali, coma) e la mancanza fisica della persona e i dubbi rispetto al suo destino (è morta davvero?). Ecco quindi che l’incertezza e la sospensione della morte alimentano il senso di solitudine, di impotenza e di stallo di chi invece resta, conducendo alla cristallizzazione delle dinamiche e delle relazioni interne impedendo alla famiglia e all’individuo di evolversi e di riadattarsi.

I cambiamenti che hanno coinvolto i rituali attorno alla morte nel corso della pandemia da Covid-19 (Moore, Tulloch, Ripoll, 2020), si traducono così in un dispiacere senza diritti, in cui la mancanza di riconoscimento e condivisione sociale e culturale compromettono le risorse che supportano il processo del lutto (Zhai, Du, 2020). La narrazione interna si blocca e il lutto diventa traumatico, segnando come una ferita che continua a sanguinare la storia intrapsichica dell’individuo e quella transgenerazionale del nucleo famigliare (Paul e Grosser ,1965).

La situazione presente diventa quindi un’occasione, nel qui ed ora, per riflettere sul tipo di sostegno che il professionista della salute può e deve offrire a chi si sta confrontando (o si è confrontato) con una perdita ambigua. In una società occidentale sempre alla ricerca di risposte rapide, definite e coerenti, la perdita ambigua rappresenta la prova evidente del fatto che non tutto è controllabile e definibile in modo chiaro e preciso.

Le persone, tuttavia, hanno bisogno di un po’ di padronanza e controllo sulla propria vita. Il trucco è bilanciare la necessità di controllo con l’accettazione di una perdita irrisolvibile. Accettiamo l’ambiguità perché non c’è nient’altro che possiamo fare. Riconosciamo che il mondo non è sempre giusto, che le cose non vanno sempre come desideriamo e che possiamo esternare la colpa, additando l’ambiguità come la responsabile della nostra sofferenza. Facciamo scelte e decisioni ove possibile e troviamo aspetti che possiamo controllare, come la ricostruzione dei legami famigliari e la condivisione emotiva della perdita (Boss, 1999, 2010).

Per potersi spostare verso la speranza e i bei ricordi, quindi, è necessario che il sistema famigliare integri l’esperienza vissuta nella propria storia, modificando il significato che i suoi membri attribuiscono alla perdita ambigua.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del settimo incontro “I genitori dei pazienti con distubi alimentari”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del settimo incontro con la Dott.ssa Sara Novero.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del settimo incontro è stata la Dott.ssa Sara Novero, la quale ha affrontato l’argomento “I genitori dei pazienti con distubi alimentari”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici (2020) di D. Baroni – Recensione del libro

Duccio Baroni, nel suo libro L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici, suggerisce una serie di passi e strumenti per poter affrontare la rottura di una relazione sentimentale.

 

La fine di una relazione è un evento doloroso molto comune nella vita delle persone. Siamo biologicamente predisposti a ricercare e costruire relazioni, che diventano quindi un aspetto molto importante della nostra esistenza. Pertanto è normale che, quando un rapporto significativo termina, ciò procuri una sofferenza che può incidere fortemente su vari ambiti della vita.

Come poter superare un momento così difficile e far in modo che diventi anche un’occasione per ripartire su basi migliori?

Duccio Baroni, nel suo libro L’arte di riparare un cuore. Superare la fine di un amore e tornare a vivere felici suggerisce una serie di passi e strumenti per poter affrontare questo momento critico.

Non propone un “protocollo” specifico, consapevole che una procedura ben precisa che valga per tutti non esiste, bensì suggerisce un percorso con passaggi da attraversare e riattraversare, all’insegna dell’accettazione delle normali reazioni emotive che possono emergere e dell’impegno a mettere in atto le strategie indicate, assumendosi ognuno la responsabilità del proprio percorso di cambiamento.

L’arte di riparare un cuore: le fasi di elaborazione della rottura

Il processo di elaborazione della fine di una relazione è un percorso composto da tre fasi dai confini sfumati: possono esserci oscillazioni tra una fase e un’altra, ma ogni volta che una fase viene rivissuta, ciò avviene con meno dolore e ci si resta per minor tempo. Per questo è un percorso che assomiglia più a una spirale, che a una linea retta:

Fase 1: Lo shock. E’ la fase dell’incredulità, dell’incapacità di rendersi conto della perdita che si sta attraversando, una perdita che va oltre la persona fisica, ma che riguarda anche le energie e le aspettative investite nella relazione, l’identità di coppia, le abitudini e gli amici comuni. Permette di non essere sommersi da emozioni che pensiamo di non poter gestire e, di solito, si risolve naturalmente, dandoci il tempo di adattarci alla nuova situazione e di prepararci a iniziare l’elaborazione.

Fase 2: La tempesta. E’ la fase delle tempeste emotive, in cui diventa importante mettere in atto strategie per poter gestire le reazioni che più caratterizzano questo momento (tristezza, ansia, ruminazione, rabbia, colpa e rimorso, senso di fallimento, speranza).

Fase 3: Comprensione, accettazione e integrazione. Il punto centrale di questa fase è l’accettazione di quanto è accaduto e del fatto che non può essere cambiato. Non è un passo semplice, in quanto ci si ritroverà a oscillare spesso tra accettazione e rifiuto. Tuttavia, con il tempo e l’impegno, i periodi di calma saranno sempre più lunghi e si andrà verso una profonda riorganizzazione della propria vita, con una maggiore attenzione alla cura dei propri bisogni e desideri. Ci si darà il permesso di tornare a vivere e ad amare.

Per aiutare nella buona riuscita di questo percorso, nel libro vengono proposti dei passaggi da seguire secondo l’ordine proposto, accompagnati da esercizi che aiutino la persona nel raggiungimento dei vari step.

Un concetto centrale che viene ribadito è che il tempo non basta per la riparazione di un cuore, ma che fondamentale sia l’uso che viene fatto di questo tempo.

L’arte di riparare un cuore: gestire l’emergenza

Nei primi quattro capitoli vengono presentate, in dettaglio e con apposite schede, strategie per affrontare l’emergenza emotiva e imparare a regolare l’intensità delle emozioni spiacevoli (esercizi di rilassamento, grounding/radicamento, uso di vari tipi di diario).

Un paio di capitoli vengono dedicati all’importanza di creare una rete di supporto e di prendersi cura del proprio corpo (alimentazione sana, esercizio fisico, cura del sonno) e della propria mente (meditazione, contrastare i pensieri autocritici, scrivere giornalmente un diario, attività rigeneranti).

Un raccomandazione necessaria viene fatta per i casi in cui, dopo circa un mese, non si abbia una leggera diminuzione in frequenza o intensità degli episodi di forte dolore: per queste specifiche situazioni, si consiglia di rivolgersi all’aiuto di una figura professionale.

L’arte di riparare un cuore: elaborare la fine di una relazione

Una volta raggiunti gli obiettivi e le competenze necessarie nella gestione delle forti emozioni provate, dai capitoli quinto all’ottavo vengono presentati i passi per l’elaborazione della fine della relazione, in cui diventa importante comprendere le cause della rottura, i propri schemi relazionali per non esserne più schiavi, dare un significato a ciò che è stato, lasciare andare il passato e perdonare sé stessi e l’altro (da non confondere con ignorare o dimenticare quanto successo).

Il processo di riparazione del cuore implica tempo e, soprattutto, il rispetto dei tempi della propria mente: l’elaborazione richiede circa dai sei ai diciotto mesi e comporta lo sviluppo della capacità di stare soli, per poter decidere chi avere accanto ed essere, di conseguenza, felici anche in coppia.

L’arte di riparare un cuore: verso una nuova vita

Gli ultimi due capitoli forniscono utili suggerimenti per la ripresa di una nuova vita e l’apertura a una possibile nuova relazione di coppia, dove elemento principale rimane l’assumersi la responsabilità del proprio benessere emotivo facendo scelte che proteggano dalla sofferenza.

I passi presentati in questo libro-vademecum, pur focalizzati sul superamento della rottura di una relazione, in realtà vanno nella direzione più ampia di una riconquista della fiducia in sé stessi e di un procedere verso un’esistenza in linea con i propri desideri, in equilibrio tra la cura di sé e la cura dell’altro.

Rispettando te stesso, le tue emozioni e i tuoi valori, ti esorto a esplorare il mondo non per trovare la persona «giusta», ma per aprirti a ciò che troverai sul cammino che ogni giorno sceglierai.

 

Ansia sociale e consumo di sigarette

Nonostante i rischi associati al consumo di sigarette siano spesso ben noti, intraprendere e mantenere nel tempo la decisione di smettere di fumare può essere difficile.

 

Ciò può essere ancor più difficile per le persone che soffrono di ansia sociale, le quali mostrano maggiori livelli di dipendenza da nicotina e riportano un maggior numero di tentativi falliti di smettere di fumare (Cougle, Zvolensky, Fitch, & Sachs-Ericsson, 2010).

Buckner, Zvolensky e Lewis (2019) hanno ipotizzato che le persone con ansia sociale possano fumare sigarette per cercare di regolare le loro emozioni negative. Le sigarette rappresenterebbero quindi una modalità inefficace di gestire sensazioni negative.

Nelle persone con disturbi d’ansia, è frequente l’uso di strategie poco efficaci per ridurre l’ansia, ossia i falsi comportamenti di sicurezza (false safety behavior, FSB). Un FSB è un comportamento che fa sentire l’individuo protetto dallo stimolo che causa ansia. Tuttavia, sebbene i falsi comportamenti di sicurezza permettano di sperimentare un’immediata riduzione dell’ansia, a lungo termine possono costituire un fattore di mantenimento del disturbo ansioso.

Gli autori hanno quindi verificato se più alti livelli di ansia sociale aumentassero la tendenza ad usare FSB frequentemente, e se questo a sua volta comportasse un maggior consumo di sigarette al giorno.

Buckner, Zvolensky e Lewis (2019) hanno coinvolto un campione di 71 studenti universitari, a cui hanno chiesto quante sigarette fumassero al giorno. Inoltre hanno raccolto informazioni circa i livelli di ansia sociale negli studenti e la tendenza ad utilizzare vari tipi di FSB quando si sentivano nervosi, preoccupati o ansiosi. Attraverso la Safety Aid Scale (SAS; Korte & Schmidt, 2014), hanno misurato la presenza di falsi comportamenti di sicurezza, tra cui: cercare continue rassicurazioni; farsi accompagnare da un amico quando si deve affrontare una situazione sociale; evitare situazioni in cui si incontreranno altre persone, ad esempio una festa; controllare mentalmente che vi sia la possibilità di uscire dalla stanza; o ancora prepararsi eccessivamente prima di un evento sociale.

I risultati indicano che maggiori livelli di ansia sociale si associano a un maggior numero di sigarette fumate al giorno e a un maggior uso di evitamento come FSB. Quest’ultimo tipo di FSB risulta associato a sua volta al numero di sigarette fumate al giorno. Il modello di mediazione ipotizzato è quindi confermato dai dati: l’ansia sociale agisce indirettamente sul consumo di sicurezza attraverso i FSB.

Questo studio presenta diverse limitazioni: innanzitutto coinvolge un campione di studenti universitari prevalentemente femminile, pertanto sarebbe opportuno replicare lo studio su un campione più inclusivo, che coinvolga anche fumatori che hanno intenzione di smettere di fumare. Inoltre sarebbe utile valutare come altri tipi di ansia siano connessi con i FSB e di conseguenza con il consumo di sigarette. Infine, bisognerebbe approfondire ulteriormente la relazione specifica tra FSB e uso di sigarette.

Sebbene quindi lo studio sia da considerare un punto di partenza per comprendere la relazione tra ansia sociale e fumo, un’importante implicazione clinica è che i fumatori potrebbero trarre beneficio dall’insegnamento di modalità più adattive di gestire le emozioni negative.

 

Resilienza: un’abilità verso il cambiamento

Il termine resilienza è un termine specifico che appartiene al campo della metallurgia e si riferisce alla capacità dei materiali che ne fanno parte, di resistere agli urti senza danneggiarsi, mantenendo le loro qualità adattive nonostante gli agenti esterni aggressivi.

 

In tal senso, potremmo pensare la resilienza in psicologia, sostanzialmente, come la capacità di saper trasformare un’esperienza dolorosa in un’esperienza positiva.

Il termine resilienza deriva dal verbo latino resilio, che significa rimbalzare, saltare indietro. Indica, in generale, l’essere resistenti e forti ai traumi, quindi la capacità di affrontare le avversità e superare le fratture che comportano.

Logicamente, il termine resiliente si estende sia ai singoli individui che ad un gruppo esteso di persone. Esso s’impiega spesso per indicare un soggetto in grado di dare uno slancio positivo alla propria vita, raggiungendo obbiettivi importanti, malgrado le circostanze; invece, se applichiamo il termine resilienza ad un gruppo di persone, esso indica la capacità di un gruppo sociale di far fronte collettivamente ad eventi traumatici o catastrofi naturali, adottando linee guida che consentano la sopravvivenza della comunità. In entrambi i casi, sicuramente, vengono utilizzate le abilità di ciascuno in una versione multi-tasking per poter dare un risultato ottimale alla situazione da affrontare.

L’uomo reagisce, in questi casi, attraverso una risposta adattativa, cioè lo stress, che consiste in un insieme di risposte sia psichiche che fisiche agli eventi.

Spesso, come sinonimo di resilienza, viene utilizzato il termine resistenza, ma in realtà viene impiegato in maniera impropria, poiché il primo si riferisce a una qualità aggiunta al proprio modo di vivere, ovvero trovare soluzioni agli squilibri, seppur non previsti, facendone una forza personale; invece si parla di resistenza, quando s’insiste su qualcosa che non ci porta ad un miglioramento, perciò ci arrochiamo a prendere le stesse strade per sentirsi rassicurati ma non per evolvere ed esplorare le proprie risorse. Proprio nel momento in cui attingiamo dalle risorse che non sapevamo di avere, si attivano le nostre capacità resilienti, tracciando un’alternativa a quella che si sarebbe rivelata il nostro unico dolore. In fin dei conti, nel corso del nostro ciclo di vita, gli eventi non sono sempre positivi, né essi sono compatibili con i nostri stati emotivi, né con le nostre situazioni di base.

I fattori che fanno parte delle persone resilienti, sono molteplici. Fra questi, potremo elencare:

  • l’ottimismo inteso come la capacità di prendere il lato buono di ogni cosa. Questa visione, favorisce il benessere individuale e difende dalla sofferenza perché dona lucidità;
  • l’autostima, indice di un’equilibrata considerazione del sé che consente di sopportare meglio le critiche, senza subirne gli effetti amari, riducendo la possibilità sviluppare sintomi depressivi;
  • l’inclinazione propositiva delle componenti quali il controllo, l’impegno e la sfida, ovvero la predisposizione a considerare i cambiamenti come opportunità piuttosto che come minacce;
  • le emozioni positive, ovvero la capacità di concentrarsi su ciò che si possiede anziché su quel che ci manca.

Allora, come possiamo fare per essere resilienti senza farci assorbire del tutto dalle avversità?

Dovremmo apprendere ogni giorno che questa abilità, pur essendo una capacità innata in alcune persone, va coltivata ogni giorno; si comprende che la quotidianità è un’arma a doppio taglio, la quale si rivela la nostra comfort zone ma, allo stesso tempo, un frame troppo rigido per far emergere le nostre vere competenze. Questa cornice è valida per tutti quegli eventi che comportano un trauma al soggetto, come i lutti e gli abbandoni, i quali richiedono un lavoro di elaborazione e di ristrutturazione del sé di enorme portata.

Migliorare la comunicazione, i nostri valori interpersonali e l’empatia può essere una risposta efficace per fronteggiare le situazioni ostili, perché la scelta è solo nostra, se apprendere una lezione definitiva, per allenare nuove strategie di coping o abbandonarci a noi stessi, per poi magari ritrovarci a fare le stesse domande. Per questo è importante avere una nostra guida, per non sprofondare in patologie più serie, come i disturbi d’ansia, il panico o la depressione.

Le angosce sono, in prima linea, delle spie che ci comunicano il senso d’inquietudine e la vita alternativa, forse più adatta alle nostre necessità in quel determinato momento. Questo segnale va ascoltato anche tramite l’educazione affettiva, il buon uso della lettura dei social media, che è possedere diverse chiavi di lettura, e non solamente leggere il punto di vista dello scrittore.

La resilienza va costruita proprio grazie alle diverse opportunità che ci offre la vita ma per impararla sulla nostra pelle ed insegnarla ai nostri figli, bisogna sempre che qualcuno ci dia il buon esempio.

 

Immaginazione guidata e video-terapia

Siamo a inizio marzo, si inizia a parlare di distanza sociale, quarantena, lockdown. Il pensiero corre velocemente ai miei pazienti: dovremo interrompere le terapie? Quanti di loro accetteranno di continuare online?

 

Riusciremo a sentirci a nostro agio con uno schermo che ci separa (col senno di poi, direi più “che ci unisce”)? Ma soprattutto, la video-terapia sarà ugualmente efficace e potremo ottenere benefici da questo nuovo setting? L’isolamento sociale a cui siamo stati chiamati ha richiesto alla psicoterapia un adattamento importante a condizioni, oserei dire, uniche.

Prima dell’8 marzo di quest’anno, mi era capitato di fare delle sedute Skype solamente con una paziente e solo per 4 o 5 volte. Non mi allettava particolarmente l’idea della video-terapia, più che altro perché non ero sicura di esserne in grado, in realtà senza nemmeno averci mai provato realmente.

Ora però la faccenda della video-terapia si fa più pressante, andare in studio mette a rischio me e gli altri: decido di non voler interrompere le sedute perché alcune terapie sono in pieno assessment e stiamo gettando le basi per la ricostruzione degli schemi interpersonali, altre sono nel pieno della condivisione del funzionamento, altre ancora sono in una fase avanzata di promozione del cambiamento. Decido quindi di proporlo a tutti i pazienti, ma per alcuni in particolare sentivo ancor più opprimenti le domande che mi ponevo.

Tecniche esperienziali in psicoterapia: a quale scopo?

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) negli anni si è sempre più arricchita di tecniche esperienziali includendo tecniche corporee, drammaturgiche e meditative (Dimaggio et. al., 2019). Nell’utilizzare questi strumenti, possiamo perseguire differenti scopi a seconda della fase di terapia e, più nello specifico, della procedura decisionale che stiamo seguendo (Dimaggio et al., 2013). In TMI, se ci troviamo nella macrosezione iniziale di formulazione condivisa del funzionamento, con l’utilizzo delle tecniche esperienziali puntiamo a migliorare l’accesso al mondo interno del paziente ed accrescere il suo senso di agency su di esso, a migliorare le capacità metariflessive, a ricostruire gli schemi interpersonali, a promuovere la differenziazione. In una fase più avanzata, di promozione del cambiamento, ci porremo gli obiettivi di ampliare la differenziazione, adottare nuovi punti di vista e accedere alle parti sane, costruendo una visione di sé integrata (Dimaggio et. al., 2019). Fondamentale è l’utilizzo di queste tecniche prestando costante attenzione alla formulazione del caso e delle procedure decisionali, cercando sempre di lavorare nella zona terapeutica di sviluppo prossimale (Leiman, Stiles, 2001).

Quello che emerge dalla pratica clinica e dalla ricerca è che l’utilizzo di tecniche esperienziali e corporee quali immaginazione guidata, role-play, gioco delle due sedie, mindfulness migliora l’accesso al mondo interno ed accelera il cambiamento, coadiuvando senza dubbio le tecniche puramente cognitive (Arntz, 2012; Brewin et al., 2009; Lee & Kwon, 2013; Morina, Lancee, & Arntz, 2017; Norton & Abbott, 2016; Reimer & Moscovitch, 2015).

Tecniche esperienziali in video-terapia: immaginazione guidata

La quarantena mi ha costretta a fare ricorso alla costruzione di una massiccia dose di auto-regolazione del mio assetto mentale riguardo i miei timori sull’efficacia della video-terapia, ma soprattutto sull’essere personalmente in grado di lavorare in questo nuovo setting. Mi sono riallineata quindi con gli scopi delle terapie in corso che sarebbero proseguite online. In parole povere, ho deciso di sperimentare insieme ai miei pazienti ciò che avevamo già/non avevamo ancora provato in seduta dal vivo.

L’immaginazione guidata mi ha sempre affascinata ed ho deciso di approfondirne lo studio. Si ripete spesso che il terapeuta dovrebbe utilizzare strumenti che ben padroneggi e che – soprattutto – gli piacciano e lo facciano sentire a proprio agio, no? Ed è ciò che ho voluto fare.

Inizialmente mi sono domandata se lo schermo di un PC potesse rendere più difficile l’utilizzo di questa tecnica. Poi ho pensato anche che in fondo nell’immaginazione guidata il terapeuta non viene propriamente incluso, è una sorta di voce fuori campo, il paziente ha gli occhi chiusi ed è immerso nel ricordo. Lo vedremo tra poco, mi dico.

Immaginazione guidata in video-terapia: la storia di Mirko

Piuttosto che descriverne la teoria rischiando di annoiare (e annoiarmi), ho preferito snocciolare l’applicazione dell’immaginazione guidata attraverso il racconto di un paziente. Insieme abbiamo deciso di rivivere un ricordo emerso nelle ultime due settimane di terapia su Skype ed identificato da lui stesso come elemento centrale dei suoi problemi relazionali attuali: se esprimo le mie emozioni e i miei bisogni, oppure se perseguo i miei piani, l’altro soffre ed io mi sento in colpa perché faccio male alle persone che amo.

Mirko è un ragazzo di 27 anni. Evitare la critica dell’altro per paura del rifiuto e dell’abbandono è sempre stata una costante nella sua esistenza, la profonda convinzione di valere meno degli altri e di essere intellettualmente limitato lo bloccano da tempo, il resto del mondo è descritto come “capace” e dominante rispetto a lui. Dopo una vita vissuta all’insegna dell’evitamento cognitivo ed emotivo, entrare in contatto con le proprie emozioni sembra una vera sfida.

Regolazione della relazione terapeutica

Per prima cosa condivido con Mirko l’utilità ed il possibile beneficio dell’esercizio che gli sto proponendo. Gli anticipo anche che con tutta probabilità ciò evocherà dolore psicologico, ma che saremo in grado di regolarlo insieme, anche attraverso lo schermo. E’ la prima volta che torniamo su questa scena, perciò spiego al paziente che il nostro obiettivo primario è l’incremento dell’esperienza emotiva. In realtà per lui anche solo entrare in contatto con un’emozione sarebbe un ottimo risultato, quindi l’obiettivo è impegnativo. Ma entrambi ne siamo consapevoli perché la condivisione del funzionamento ormai è assodata da un bel pezzo. Mirko dice di essere curioso di quello che accadrà. L’alleanza terapeutica è solida ed entrambi siamo pronti ad intraprendere questo viaggio nel passato.

Evocare una scena definita nello spazio e nel tempo

Il racconto strutturato dell’episodio lo abbiamo dalla seduta precedente, perciò propongo un breve riassunto per entrambi, facendo attenzione ad includere chi era presente nella scena, dove e quando si è svolto l’episodio e tenendo a mente la struttura dello schema interpersonale di Mirko.

Brevi istruzioni

Spiego al paziente che dovrà raccontare la scena utilizzando la prima persona e l’indicativo presente, descrivendo suoni, colori, voci delle persone presenti, tutto ciò che lo aiuti a rivivere il ricordo come se fosse lì in quel momento, nel qui e ora, evitando di commentarla per bypassare l’io narrante. Preparo Mirko alla possibilità che io possa intervenire per farlo tornare nella scena e rimandando ad un secondo momento qualsiasi riflessione emergesse. Questo previene la possibilità che possa sentirsi invalidato se dovesse uscire momentaneamente dal ricordo per pensare, invece che rivivere (nota: lui stesso aveva precedentemente riconosciuto il suo meccanismo di evitamento “inizio a ragionare per non sentire emotivamente”, quindi è stato più facile condividere con lui l’intento di bypassare la narrazione).

Ingresso attraverso tecniche di grounding e mindfulness

Mirko è seduto sulla sedia in cucina, con le gambe rannicchiate al petto. Gli propongo un breve esercizio di grounding e mindfulness. Gli chiedo di provare a sistemare l’inquadratura in modo che possa vedere il busto per intero, per monitorare il più possibile buona parte del corpo (posizione delle spalle e del busto, velocità della respirazione, movimenti delle mani). Assume una posizione più composta, con i piedi che toccano il pavimento, la schiena dritta ma non rigida, le mani morbidamente sulle gambe. Gli chiedo di chiudere gli occhi, se gli va. Li chiude. Sente il contatto del corpo con la sedia. Immagina che dalle piante dei piedi fuoriescano radici che lo ancorano saldamente al pavimento. Porta l’attenzione sul respiro, senza modificarlo. Si sente rilassato e connesso. Possiamo cominciare.

Esecuzione dell’immaginazione guidata

Mirko ha 7 anni ed è nella sua cameretta con il fratello minore di 4. I genitori stanno litigando violentemente nella stanza accanto, urlano, lanciano oggetti, spostano mobili. I due bambini sono dietro la porta socchiusa ad ascoltare ciò che accade. Mi accorgo che Mirko sta raccontando, più che rivivendo il ricordo, perché descrive tutto in modo neutro, con il suo tipico distacco emotivo, il volto inespressivo, utilizza espressioni come “Penso di provare paura”. L’io narrante è attivo. Per aiutarlo ad entrare nella scena, faccio domande mirate su dettagli sensoriali: “Cosa vedi intorno a te?” “Il letto, i giocattoli”; “Com’è la luce che entra dalla finestra?” “Calda, arancione, sta tramontando il sole, è tardo pomeriggio”; “Guarda tuo fratello e nota che espressione ha” “E’ spaventato, sta per piangere, la sua faccia chiede aiuto, è come se dicesse “ho paura, aiutami””.

Proseguo. “Cosa stai pensando mentre guardi il volto di tuo fratello che chiede aiuto?” “Non devo mostrargli che ho paura anche io, altrimenti si spaventa ancora di più, non posso piangere”. “Guarda la sua faccia che ti chiede aiuto. Cosa provi?” “Sento come una doppia paura: i miei genitori stanno per separarsi e mio fratello è spaventato, come faccio a tranquillizzarlo?”

Mirko si muove nervosamente sulla sedia, appare agitato. “Cosa senti ora?” “Ansia, devo tenere il controllo. E’ un mio dovere non far peggiorare la situazione. Se mi ci metto pure io… Non so gestire la situazione”. Dal video noto che l’espressione di Mirko cambia, gli chiedo cosa prova. “Tanta tristezza per mio fratello che ha paura e per i miei genitori che stanno per separarsi”.

Noto nuovamente che Mirko è tornato a raccontare una storia, non sta sperimentando le emozioni dolorose che riporta. Decido di utilizzare la tecnica della ripetizione di frasi emotivamente cariche con marcatura, dando enfasi emotiva ed accentuandone le sfumature negative dello schema: “E’ sbagliato mostrare ciò che provo, Se mostro ciò che provo, l’altro soffre, Se mi lascio andare emotivamente, perdo il controllo sulla situazione e l’altro soffre, E’ più importante quello che provano gli altri rispetto a ciò che provo io, Non posso chiedere supporto, sono io a dover dare supporto”.

“Vorrei tornare al giorno prima, fare come se nulla fosse successo. Ora finisce, ora finisce, ora finisce. Più lo ripeto, più l’ansia aumenta. Sto mostrando a mio fratello che sono spaventato. Sì, ma non in modo volontario eh, comunque non gli faccio vedere che sto per piangere, quello no!” Sta di nuovo ragionando, quindi gli chiedo di ripetere a voce alta quelle frasi, prestando attenzione a come si sente.

Mirko inizia a ripetere, ma con scarsa convinzione nel tono della voce e con un’espressione del volto che leggo come vergogna. Gli chiedo un feedback su cosa stia provando. Ride imbarazzato. “Una sensazione stranissima. Mi vergogno a dire queste cose. Ma non di te. E’ che mi rendo conto che è la verità, ma io non la voglio dire a voce alta.” Gli chiedo di ripetere con un tono più deciso, il volume della voce più alto. Mirko appare agitato, il volto contratto dalla vergogna, le mani si muovono nervosamente. Ci riprova. “E’ fortissima questa cosa, mamma mia.” Fa un profondo sospiro, la voce trema, sembra che gli venga da piangere. Non era mai successo che si attivasse in questo modo in seduta. Lascio che sperimenti ancora per qualche secondo le emozioni dolorose, poi decido di interrompere l’immaginazione. Torniamo al respiro e all’ancoraggio al terreno tramite i piedi. Quando si sente pronto, riapre gli occhi.

Discussione sull’esperienza

Siamo tornati ad oggi, lui nella sua cucina, io nello studio di casa. Mirko cerca subito di distaccarsi dalle emozioni che fino a poco prima stava sperimentando, e ridendo mi dice: “Mamma mia, ho le mani sudatissime e mi lacrimano gli occhi”. Gli chiedo se stesse piangendo, provocandolo volutamente. Ride. “Non ti darò mai questa soddisfazione!” Ridiamo insieme. “Scherzi a parte, l’emozione è stata molto forte. Che strano…”. Procedo chiedendo un feedback sull’esperienza appena vissuta, prima di condividere le mie osservazioni con lui. Dice di aver provato forte ansia e gli chiedo di specificarmi dove l’abbia sentita nel corpo. Mi riporta la sensazione di spiazzamento e sorpresa alla mia proposta di ripetere le frasi che suggerivo, sottolineando la fatica nel ripeterle ed ammettendo di aver cercato di controllarsi mentre lo faceva la prima volta. Mi spiega come la vergogna provata durante l’immaginazione fosse legata al fatto di impedirsi di sentire ed esprimere ciò che prova, “è una cosa brutta da fare a me stesso”. Insieme notiamo come non importasse che anche lui fosse un bambino di soli 7 anni che sente i genitori litigare, che teme possano abbandonarlo (altro suo schema) e che ha bisogno di conforto, perché in quel momento aveva preso il sopravvento la paura di spaventare il fratello, il dover tenere tutto sotto controllo, il prendersi cura dell’altro a scapito delle proprie emozioni e dei propri bisogni. La sua storia era ricca di ricordi nei quali Mirko non doveva piangere perché era il fratello maggiore, Mirko non doveva fare i capricci perché c’era già il fratello a farli, Mirko doveva prendersi cura del padre che si era ammalato gravemente. Ne avevamo già parlato altre volte, ma ora abbiamo avuto l’opportunità di incarnare la forza dello schema. Noto che Mirko è ancora attivato emotivamente (e ne sono “terapeuticamente” felice), gli chiedo nuovamente cosa stia provando. E’ positivamente scosso perché non aveva mai provato nulla di così forte, è come se gli stesse “scorrendo davanti agli occhi tutta la vita, vissuta pensando sempre a cosa pensa l’altro, a come sta l’altro, a come reagisce l’altro. Mi sono dimenticato di me”. Valido la fatica di Mirko nell’esporsi alle emozioni dolorose di quel ricordo, rimandandogli come fossero state visibili dal suo non verbale, particolarmente evidente grazie all’inquadratura della webcam. Mi soffermo quindi sull’importanza dell’esperienza emotiva appena vissuta, che era riuscita ad interrompere l’evitamento.

Benefici dell’immaginazione guidata: agire le nuove consapevolezze

Nei giorni seguenti, Mirko ripensa a tutte le volte in cui nella sua vita ha soppresso i propri bisogni, desideri, propensioni, piani anteponendo la felicità altrui alla propria. Il giorno precedente la nostra seduta, decide spontaneamente di mettere alla prova lo schema e di interrompere il coping. Comunica a due cari colleghi la sua scelta di cambiare lavoro (desiderio emerso nell’ultimo mese e che gli stava creando grandi preoccupazioni non tanto per sé e per il cambio di vita repentino, quanto per le reazioni altrui). Nonostante il dispiacere e la sofferenza dell’altro – un collega si è messo a piangere – dopo uno o due minuti in cui avrebbe voluto ritrattare per evitare i sensi di colpa, Mirko si è poi detto che il suo futuro e la sua soddisfazione professionale fossero la cosa prioritaria alle quali prestare attenzione e cura. Nelle prossime settimane, la sfida più grande sarà comunicarlo ai suoi genitori.

 

Gruppi di culto: caratteristiche dei membri e difficoltà ad uscirne

Jonestown, Heaven’s Gate, Aum Shinrikyo, cosa hanno in comune? Sono tutti gruppi di culto finiti sulle pagine di cronaca degli anni settanta per aver indotto alla morte numerose persone. Partendo da tale fenomeno psicologi, psichiatri e sociologi si sono posti alcune domande a cui hanno cercato di dare spiegazione: quali motivazioni spingono una persona ad entrare in un gruppo di culto? Alla base vi è la presenza di un disturbo psichiatrico? Come mai una volta entrati nei gruppi di culto è così difficile uscirne?

 

Partiamo dalla definizione di culto. Per West (1980) un culto è un gruppo di persone o un movimento che viene riunito attorno ad un’idea o ad un leader carismatico tramite l’utilizzo di tecniche persuasive e manipolative che inducono a promuovere gli scopi del leader, verso cui si mostra devozione, anche a discapito degli obiettivi personali dei membri.

Caratteristiche dei culti

I gruppi di culto si costruiscono sia attorno ad un “manifesto” come un libro o una dottrina che disciplina il comportamento dei membri della cerchia sia attorno alla figura di un leader carismatico, solitamente investito di “poteri mistici” (Appel, 1983) e capace di offrire al gruppo una sorta di “ricompensa” che può riguardare la salvezza eterna così come gratificazioni materiali.

Alla base dei gruppi di culto vi è una struttura di potere organizzata gerarchicamente con precise e rigide norme di comportamento da seguire ed una condivisione di un sistema di credenze e valori, una sorta di “verità assoluta”, capace di dare risposta ai problemi della vita, di semplificare la complessità della realtà, di generare uno scopo da perseguire per cui valga la pena impegnarsi e di attribuire un significato spirituale all’esistenza rispetto a quello puramente materiale che persegue chiunque non sia parte del gruppo. Tali elementi se da una parte contribuiscono allo sviluppo di un sentimento di superiorità, di “specialità”, offrendo la sensazione di far parte di un’élite, dall’altra hanno la funzione di accrescere un senso di coesione interno, rispetto ad un fuori nemico che ha lo scopo di isolare gradualmente l’individuo dal mondo esterno e che perseguito anche attraverso l’uso di rituali catartici ed esperienze extrasensoriali provocate da droghe, ipnosi e canti; l’utilizzo di luoghi fissi di incontro in cui la comunità si riunisce per lo svolgimento di attività quotidiane e la condivisione di un linguaggio proprio e caratteristico del gruppo (Levine, 1989).

Peculiarità delle persone che si avvicinano ai culti

Studi di Levine (1989) hanno individuato alcune caratteristiche presentate dagli individui che fanno parte dei gruppi di culto come la giovane età (circa 22 anni), il genere sia femminile sia maschile, il trovarsi a vivere situazioni di stress e sofferenza psicologica, la presenza di vuoti da riempire, il bisogno di perseguire nuovi obiettivi, una cerchia ristretta di legami, la bassa autostima e la facile suggestionabilità. Tale condizione costituirebbe un fattore di vulnerabilità, su cui il gruppo farebbe leva per avvicinare l’individuo a sé, fornendo un’immagine della cerchia accogliente, promettendo salvezza e procurando uno scopo superiore da perseguire.

Motivazioni che rendono difficile abbandonare un culto

Ma veniamo ora alle quattro principali ragioni che portano una persona a restare nel culto una volta entrato a farne parte: il bisogno di appartenenza, il brainwashing, la dissonanza cognitiva e le tecniche di controllo.

Il bisogno emotivo di appartenenza ed identificazione è un bisogno innato e comune ad ogni essere umano che riguarda il sentirsi supportati e l’essere vicini emotivamente a qualcuno con cui si condividono dei valori. L’individuo che entra a far parte di un gruppo di culto sente di trovarsi in un ambiente protetto, solidale e sperimenta una sensazione di benessere psicologico e di sollievo dalle emozioni negative che rinforza la conformità alle regole del gruppo (Galanter, 1999). Tutto questo però avrebbe un prezzo: la persona viene sottoposta inconsapevolmente a un processo di persuasione graduale. Tale fenomeno fa riferimento al controverso concetto di brainwashing, che comporterebbe:

  • alterazioni della coscienza dovute all’uso di esperienze meditative, rituali di guarigione e droghe;
  • manipolazione, filtraggio o censura delle notizie;
  • mancanza di privacy in favore dell’autorità del leader;
  • induzione dello sviluppo di un tipo di pensiero bianco-nero e buono-cattivo;
  • soppressione delle risposte emotive di paura o colpa, regolatori della moralità e di ciò che è giusto o sbagliato (Zablocki 2001).

Tale processo di cambiamento che conduce ad un collasso del pensiero critico e indipendente (Lifton 1961), che elimina la tendenza al dubbio e all’incredulità e che porta a reinterpretare la propria storia di vita alterando la visione del mondo (Singer 2003), avviene facendo sì che l’individuo sperimenti la sensazione di essere uscito da un tunnel e di essere rinato spiritualmente grazie ad una propria scelta.

Conway e Siegelman (2005) a questo proposito parlano di “disturbo dell’informazione” e cioè di uno stato continuo di consapevolezza alterata frutto sia del controllo e dalla manipolazione esercitati a lungo termine sia della mancanza di sonno e di una dieta povera che ha come conseguenza una distorsione della capacità di processare informazioni, ricordare e pensare.

Oltre tali fattori, ciò che rende difficile abbandonare un gruppo di culto, anche quando l’immagine positiva di questo si è incrinata, è la dissonanza cognitiva (Festinger 1964) e cioè il bisogno di coerenza interna dell’individuo che lo porta sia ad occultare o minimizzare qualsiasi disconferma proveniente dalla realtà esterna circa la capacità salvifica del gruppo sia ad accettare qualsiasi spiegazione, anche lacunosa, capace di proteggere il culto. Tale operazione è compiuta sulla base di una valutazione costi-benefici in cui il prezzo dovuto all’abbandono del gruppo è considerato superiore del vantaggio, tenuto conto del tempo e delle energie investite e dei problemi finanziari e relazionali che ne seguirebbero (Zablocki 1998).

Infine le tecniche di controllo esercitate dai leader dei gruppi di culto inducono le persone a credere che sia sbagliato e pericoloso abbandonare il gruppo in quanto unico detentore di “verità” ed instillano il timore, per chi non rispetta le norme, di essere punito o scomunicato incrementando il senso di “impotenza appresa” e cioè la percezione di non avere controllo e potere sulla situazione (Enroth 1982).

L’insieme di questi meccanismi psicologici, unitamente alla solitudine causata dall’aver tagliato i ponti con famiglia ed affetti, impedisce all’individuo di lasciare il gruppo di culto anche quando improvvisamente, sembra risvegliarsi da un lungo sonno ed acquisisce consapevolezza delle incongruenze e delle ipocrisie del gruppo.

 

Dialoghi con Sandra – VIDEO del sesto incontro “Come riconoscere che stiamo soffrendo?”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del sesto incontro con la Dott.ssa Daniela Rebecchi.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite del sesto incontro è stata la Dott.ssa Daniela Rebecchi, la quale ha affrontato l’argomento “Come riconoscere che stiamo soffrendo?”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

Un viaggio chiamato psicoterapia. Storia di un percorso difficile, emozionante e a tratti ironico (2019) di A. Parentela e M. Longo – Recensione del libro

Un libro che parla di relazioni umane, di come affrontare i problemi della vita, della consapevolezza di sé, della psicoterapia.

 

Questo libro è per tutti. Perché tutti dovrebbero interrogarsi su chi sono, per darsi l’opportunità di vivere l’unica vita che hanno nel miglior modo possibile. E il modo migliore lo si conquista soprattutto con la consapevolezza di sé. Per chi ha fatto un percorso di psicoterapia. Per chi sta pensando di intraprenderlo. E anche per chi vuole solo conoscere un po’ di più della psicoterapia. Per chiunque consideri le relazioni umane pietra miliare della propria esistenza. Perché questo libro parla di psicoterapia, e di una relazione tanto difficile quanto profonda, di quelle che tutti dovrebbero provare, ma che forse non tutti hanno la fortuna di sperimentare nella propria vita.

  Le autrici del libro sono due, Alessandra Parentela, psicoterapeuta, e Michela Longo, una sua paziente; due donne che si sono incontrate per caso e che hanno deciso di condividere il loro percorso raccontandolo ognuna dal suo punto di vista.

Nella prima parte Alessandra Parentela ci introduce nel mondo della psicoterapia, raccontandoci in modo semplice e chiaro che cos’è, illustrandoci perché è importante iniziare un percorso di questo tipo e quali sono i suoi obiettivi. Se, infatti, vi siete mai chiesti “Perché iniziare una psicoterapia?”, in questo testo sono tante le risposte a questa domanda.

La psicoterapia, alla luce di quello che oggi stiamo attraversando, è un cammino molto importante e, se paragonato a un viaggio, è forse il più importante della nostra vita.

Nel libro viene inoltre affrontato il tema del pregiudizio che, purtroppo, è ancora oggi presente nei confronti delle persone che vanno dallo psicoterapeuta, considerate deboli o inadeguate. Attraverso la storia di Michela però, si capisce l’importanza che ha questo percorso nella comprensione di ciò che siamo e desideriamo realmente.

Nella seconda parte del libro, infatti, viene raccontato questo viaggio attraverso gli occhi di Michela Longo, che durante tutta la terapia ha appuntato i suoi pensieri e le sue emozioni; è proprio dalle sue parole che si riesce a capire l’importanza della figura del terapeuta e della relazione tra quest’ultimo e il paziente. Se infatti le relazioni rappresentano il fulcro della nostra esistenza, quale miglior “luogo” se non quello della relazione terapeutica per scoprire noi stessi?

Il terapeuta mette a disposizione dei pazienti tecniche, strategie ed empatia per accompagnarli nel percorso di scoperta di loro stessi e di esplorazione degli angoli più bui e dolorosi della loro vita. Attraverso l’aiuto della psicoterapeuta, Michela, passo dopo passo riesce a comprendere l’importanza che ha l’accettazione di se stessi, degli avvenimenti che non possiamo cambiare e il riconoscimento delle proprie emozioni nella svolta della propria vita.

Accettare rende il pensiero più positivo, predispone in modo migliore verso gli altri e distende l’animo.

Pregio di questo libro è il duplice punto di vista, il parere della specialista da una parte e le riflessioni della paziente dall’altra; un libro che può incoraggiare chi ha dei dubbi sull’intraprendere un percorso di psicoterapia e che può arricchire tutti coloro che vogliono approfondire questo argomento.

Buona lettura!

cancel