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La morte in sala parto. Gli operatori sanitari tra difficoltà professionali e dolore personale

Gli operatori sanitari che incorrono in una perdita perinatale sono impegnati a un duplice livello: devono operare professionalmente e nel contempo ne sono emotivamente coinvolti. Trovare la “giusta distanza” è un modo per non incorrere nella sindrome di burnout, non sviluppare sintomi psicopatologici e mantenere elevate le proprie prestazioni professionali.

 

La morte che incorre durante la gravidanza o nei primissimi giorni dopo il parto è un evento paradossale e impensabile, che può lasciare a lungo traccia di sé nelle persone che ne sono coinvolte.

Gli studi e le riflessioni cliniche si sono per lo più soffermate a indagare le ripercussioni emotive dell’evento sulla donna e sulla coppia genitoriale, mentre meno è stato scritto sui vissuti degli operatori sanitari. Eppure, il personale che si trova ad affrontare l’evento ricopre una difficile posizione: deve affrontare lo strazio dei genitori nei primi momenti che seguono l’evento, e contemporaneamente esperisce sul piano personale reazioni emotive difficili da gestire (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

Quando vengono a contatto con una morte così assurda, gli operatori sanitari possono percepirsi inadeguati, privi degli strumenti necessari e di conoscenze approfondite, e sperimentare rabbia, sgomento, tristezza, incredulità, impotenza e colpa, come se il lutto fosse legato alla propria inadeguatezza professionale (Montero, Sànchez, Montoro, Crespo, Jaén, Tirado, 2011). I genitori possono accusare gli operatori dell’accaduto, manifestare ostilità e agire comportamenti aggressivi, generando frustrazione, impotenza e autoaccusa.

Talvolta l’operatore sanitario tenta di proteggersi dal rischio di un eccessivo coinvolgimento emotivo e di prendere le distanze dall’evento, con diverse modalità: può mettere in atto comportamenti di evitamento nei confronti dei genitori, anestetizzarsi di fronte alle emozioni proprie e altrui, proteggersi con un linguaggio tecnico e difficilmente comprensibile, allontanarsi dal reparto temporaneamente o definitivamente (Pullen, Golden, Cacciatore, 2012).

Pochi studi approfondiscono il rischio psicopatologico per gli operatori che affrontano la morte perinatale; prevalentemente si riscontrano sintomi psicosomatici, post-traumatici, ansiosi e depressivi, e un rischio di burnout che si declina come perdita di sensibilità, depersonalizzazione, irritabilità e aumento dell’assenteismo (Ben-Ezra, Palgi, Walker, Many, Hamam-Raz, 2014).

Qualche anno fa abbiamo condotto una ricerca esplorativa sui vissuti degli operatori sanitari dei reparti di Ginecologia e Ostetricia (Gandino, Anfossi, Vanni, Loera, 2014). Ci siamo rivolte a tutti i Punti nascita della Regione Piemonte, ricevendo l’adesione di 485 soggetti (ostetriche, infermieri/e, medici e operatori socio-sanitari) appartenenti al 72% delle strutture presenti nella Regione.

La ricerca ha evidenziato il forte impatto emotivo che la perdita perinatale suscita negli operatori, i quali esprimono per lo più angoscia e tristezza, ma anche compassione e solidarietà per i genitori. Particolarmente gravosa risulta per i medici la comunicazione del decesso, mentre ostetriche e infermieri sentono il peso di proporre e di gestire l’incontro con il bambino, ma anche di essere a contatto con il dolore dei genitori e di condividere con loro i primi momenti di dolore lancinante conseguenti alla perdita. Gli psicologi, a cui dovrebbe competere l’accoglienza e l’accompagnamento emotivo, sono presenti in reparto solo negli ospedali più grandi, mentre non sono in organico nei reparti di Ostetricia e Ginecologia degli ospedali minori.

Tutto il personale del reparto sente la necessità di maggiore formazione professionale sul tema specifico, esigenza espressa soprattutto dai medici; il personale non-medico sente inoltre il bisogno di avere tempi e spazi per la condivisione in équipe e per ricevere supervisione clinica.

Interessante appare che gli operatori dei reparti di maternità intervistati per lo più non presentano i sintomi di burnout.

L’Esaurimento emotivo e la depersonalizzazione – due dei tre parametri con cui si valuta il burnout attraverso il questionario più diffuso sul tema (Maslach & Jackson, 1981) – risultano ben al di sotto dei valori medi normativi, mentre il terzo parametro – la Realizzazione Professionale – risulta più elevato della media. La ricerca tuttavia evidenzia che nel personale medico e paramedico i segnali di burnout crescono all’aumentare delle esperienze di morte perinatale, in particolare al numero di interruzioni terapeutiche di gravidanza e di morti endouterine fetali.

E non è difficile comprenderne il motivo. Alcuni studi dimostrano che una buona care si compone della capacità del personale ospedaliero di riconoscere la perdita e di interagire con la coppia in modo empatico (Cacciatore, 2010). Tale compito tuttavia è emotivamente gravoso per gli operatori sanitari, impegnati a fornire pratiche cliniche adeguate e contemporaneamente permeati dalle proprie emozioni, cercando di porsi a una “giusta distanza”: non troppo vicini emotivamente, perché rischierebbero di diminuire la propria professionalità, ma nemmeno troppo distanti, perché ne risentirebbero i loro assistiti.

I risultati della nostra ricerca sono in linea con quanto sostiene la letteratura internazionale: la capacità di gestire i vissuti dolorosi connessi alle perdite perinatali che avvengono in reparto senza sviluppare la sindrome di burnout è legata alla possibilità di avere spazi di condivisione delle proprie emozioni, percorsi specifici di formazione professionale e incontri di supervisione clinica (Montero, Sànchez, Montoro, Crespo, Jaén, Tirado, 2011; Wallbank, Robertson, 2013; Nuzum, Meaney, O’Donoghue, 2014; Gandino, Anfossi, Vanni, Loera, 2014; Gandino, Bernaudo, Di Fini, Vanni, Veglia, 2017).

La psicologia clinica può dunque adoperarsi affinché il benessere degli operatori sanitari sia la base sulla quale essi possano costruire la care necessaria ad accompagnare le donne e le coppie nei primi momenti successivi alla perdita.

Dialoghi con Sandra – VIDEO dell’ottavo incontro “Perché vogliamo gli animali in casa? Cosa ci danno?”

Dalla clinica alle più profonde riflessioni sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo. L’iniziativa Dialoghi con Sandra ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’ottavo incontro con il Dott. Gabriele Caselli.

 

I Dialoghi con Sandra sono nati con l’intento di offrire un’occasione per confrontarsi e uno spazio per pensarsi. A partire dagli argomenti riguardanti la clinica, ci si è aperti a riflessioni più ampie sulla nostra esistenza e sul contesto in cui oggi viviamo, accompagnati da Sandra Sassaroli e dai clinici del suo gruppo.

Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale, ad ogni incontro è stato presente un ospite diverso, invitato a discutere in tono lieve e confidenziale di un particolare argomento con Sandra, coinvolgendo tutti i partecipanti all’evento virtuale.

Ospite dell’ottavo incontro è stato il Dott. Gabriele Caselli, il quale ha affrontato l’argomento “Perchè vogliamo gli animali in casa? Cosa ci danno?”.

Per tutti gli interessati, pubblichiamo il video dell’incontro:

 

“I lati oscuri della mente – viaggio nel mondo sommerso degli istinti” (2019) di Cecilia Smeraldi – Recensione del libro

Il libro I lati oscuri della mente – viaggio nel mondo sommerso degli istinti, di Cecilia Smeraldi, dottore di ricerca in Neuroscienze e disturbi del comportamento, è un agevole piccolo volume che vuole fornire una panoramica lieve e non certamente esausistiva di alcuni disturbi di personalità.

 

La struttura snella del discorso, la scelta di semplificare al massimo i concetti per renderli accessibili a tutti, senza per questo sminuire la profondità del messaggio, ne fanno un buon testo di consultazione veloce, semplice e interessante.

Per il professionista è una lettura leggera, che può fungere da “ripasso” per concetti già noti, ma articolati (ad esempio la classificazione dei disturbi tratta dal DSM 5 e PDM II, riportata per ogni disturbo in modo molto semplificato e parziale); per il “profano” è una lettura interessante che non scade nel banale, ma che prova a veicolare informazioni e riflessioni digeribili.

L’autrice si esprime con semplicità e chiarezza, con rispetto ed umiltà su ciò che è analizzabile (la mente e il comportamento umano), ma non sempre e non del tutto conoscibile (l’uomo), non incappando mai in giudizi o affermazioni esagerate.

L’argomento è di sicuro interesse, non solo per i professionisti del settore ma anche per un pubblico su larga scala, e tocca sei Disturbi di Personalità (Sadismo, Masochismo, Narcisismo, Disturbo Antisociale, Disturbo Istrionico, Disturbo Ossessivo Compulsivo) cercando ogni volta in modo intelligente di “paragonare” la clinica ad un romanzo / opera lirica / film noti al grande pubblico, per poter così fornire una sorta di polaroid del concetto, che possa “visivamente” e totalmente (per quanto, in modo artefatto) rappresentare ciò di cui si sta parlando.

La lettura, così come l’analisi dei diversi disturbi, procede snella e leggera, senza addentrarsi in profondità, rimanendo cioè sulla soglia delle considerazioni e riflessioni, e cercando di recuperare informazioni da testi diversi che rappresentano capisaldi della storia della psicologia, psicoanalisi, o neuroscienza.

Non sono certa, però, che il libro rispetti appieno le premesse e il titolo.

Sebbene si riesca facilmente ad intuire perché i disturbi sopra elencati rappresentino o siano visti come lati oscuri della mente, non c’è alcuna analisi o paragone di un eventuale lato “chiaro” della stessa.

Molto probabilmente, come già detto, per la sua leggerezza, il testo non aveva lo scopo né di un confronto, né di un’analisi approfondita.

Sicuramente la premessa è onesta: fornire una panoramica di alcuni comportamenti che socialmente e umanamente possono spaventare, cercando di fornire una leggera spiegazione sul loro strutturarsi.

Interessante e di utile strumento clinico anche il collegamento tra il disturbo presentato e l’emozione principale sottostante, che può fungere da bussola per orientarsi e muovere i primi passi verso la comprensione e lo studio di determinate dinamiche e menti.

I likes su Instagram influenzano la percezione della propria bellezza individuale?

Piattaforme come Instagram si basano principalmente sull’attività di scambio di likes. Una foto che ha ricevuto molti likes può venir considerata come una prova tangibile di bellezza e valore personale ed è in grado di esercitare un’influenza considerevole sulla percezione che l’individuo ha del proprio corpo e del proprio aspetto in generale.

 

Instagram è una piattaforma dedicata interamente alla pubblicazione e condivisione di foto, che possono essere modificate e migliorate utilizzando un insieme di accorgimenti che permettono all’utente di gestire i contenuti da postare e di rendere la propria immagine il più possibile attrattiva (Dumas, Maxwell-Smith, Davis, & Giulietti, 2017), in modo da ottenere un numero di likes elevato.

Infatti, questo social network si basa principalmente sull’attività di scambio di likes (Frison & Eggermont), in quanto una foto che ha ricevuto molti likes indica un alto livello di apprezzamento dal popolo online e viene considerata come una prova tangibile di bellezza e valore personale (Chua & Chang’s, 2016), in grado di esercitare un’influenza considerevole sulla percezione che l’individuo ha del proprio corpo e del proprio aspetto in generale (Thompson & Stice, 2001).

A partire da queste premesse, il presente studio (Tiggermann, Hayden, Brown, & Veldhuis, 2018) si propone di indagare l’effetto che il numero di likes ha sul grado di insoddisfazione del proprio corpo, oltre che del proprio viso, e di valutare quanto il coinvolgimento nell’uso di questo social media la relazione tra le variabili considerate.

220 studentesse di età compresa tra i 18 e i 22 anni, sono state assegnate casualmente alla visione di una serie di foto di una magrezza ideale e nella media aventi un numero basso o alto di likes ricevuti su Instagram.

Prima e dopo aver visto aver visto le immagini, le ragazze sono state sottoposte alla misurazione della Visual Analogue Scale (VAS; Heinberg & Thompson, 1995) per valutare l’umore, l’insoddisfazione corporea e l’insoddisfazione per il proprio viso, oltre che ad una terza VAS per valutare in modo specifico l’insoddisfazione riguardante le caratteristiche facciali. Successivamente, alle partecipanti è stato chiesto di indicare su una scala Likert a 7 punti come esse valutano il loro aspetto esteriore dopo aver visto le precedenti foto, attraverso la State Appearance Comparison Scale (Tiggermann & McGill’s, 2004) ed in aggiunta, di rispondere ad una serie di domande riguardo il loro uso di Instagram, indicando nello specifico il numero di foto pubblicate nell’ultimo mese (0, 1-5, 5-10, >10), la media di likes ricevuti ai contenuti postati (0-10, 10-50, 100-200, 200+), il più alto numero di likes che esse abbiano mai ottenuto, il grado di importanza che esse attribuiscono alla qualità visiva delle loro foto ( 1=non importante, 5= molto importante), la rilevanza data al numero di likes alle foto proprie ed altrui ( 1= non importante, 5= molto importante) ed, infine, di riportare la media dei likes che pensavano avessero le foto precedentemente mostrate loro ed il grado di magrezza che ritenevano avere le donne nelle suddette foto.

I risultati mostrano che l’esposizione ad immagini di magrezza ideale portano a maggior insoddisfazione per il proprio aspetto rispetto ad immagini di una forma fisica nella media, che il numero di likes non ha effetto sul confronto tra il proprio aspetto esteriore e quello altrui né sull’insoddisfazione corporea, ma che è stato rilevato un effetto positivo significativo tra il numero di likes e l’aumento dell’insoddisfazione riguardo il proprio viso. Inoltre è stato evidenziato che ciò non risulta mediato dal grado di coinvolgimento o dall’uso di Instagram, ma che quanto più è alto il grado di coinvolgimento in Instagram tanto più aumenta la misura in cui il soggetto confronta il proprio aspetto esteriore con quello altrui ed aumenta l’insoddisfazione per il proprio viso.

In conclusione, i dati a nostra disposizione indicano quanto i social media in generale, ed Instagram in particolare, vengano usati per accrescere la propria autostima, attraverso l’attività di postare foto e ricevere likes, e come tuttavia sia bene dissuadere gli utenti dal ricercare di ottenere più consenso possibile attraverso i likes, in quanto essi non misurano in modo obiettivo la bellezza o il valore personale dell’individuo.

 

Iperconnessione digitale e le possibili implicazioni psicopatologiche

La tecnologia, in particolare internet e i social network, hanno consentito di andare al di là dei confini geografici e di prendere parte, anche ad elevate distanze, a ciò che accade ad amici, parenti o conoscenti, in qualsiasi momento della giornata, ma può anche portare in alcuni casi allo sviluppo di psicopatologie.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Se fino a poco tempo fa Internet rappresentava un’ambiziosa risorsa oggetto di desiderio, oggi risulta invece essere percepita come scontata ed ovvia.

La tecnologia, infatti, non può essere più intesa semplicemente come uno strumento, ma è diventata un ambiente da abitare, un’estensione della mente umana, un mondo virtuale che si intreccia con il mondo reale e che determina vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali capaci di ridefinire la costruzione dell’identità, delle relazioni e del vissuto da esperire.

Come afferma il filosofo Levy, con il termine “virtuale” non si intende esprimere il contrario di “reale”: un oggetto virtuale non è qualcosa di inesistente, ma esiste senza esser là, senza avere delle coordinate spazio-temporali precise.

Il cyberspazio, tuttavia, attrae e cattura. Ha il seducente potere di rendere l’utente attivo grazie alla sua smisurata potenzialità interattiva che rende la comunicazione caratterizzata da ipertestualità, ipermedialità ed elevata velocità. A rendere allettante il contesto della comunicazione digitale è l’ulteriore possibilità di nascondersi restando in anonimato o di interagire nelle vesti di molteplici identità, di superare i confini spaziotemporali, di sperimentare emozioni inedite ed inaspettate, di allineare o annientare le diversità individuali.

È in atto una vera e propria rivoluzione digitale del Terzo millennio che ha già provocato una modificazione delle potenziali capacità mentali e sensoriali dell’uomo definito homo tecnodigitalicus.

L’uso delle nuove tecnologie è ormai sempre più oggetto di interesse ed ha spalancato le porte a numerosi studi rivolti alle sue possibili conseguenze. Esistono infatti ricerche che mettono in evidenza una positiva associazione tra l’uso di internet e livello di interazione sociale, la possibilità di consolidare vecchi rapporti e crearne nuovi (Gross 2004), favorendo un effetto vantaggioso dal punto di vista personale e sociale (Leung e Wei 2000, Mathews 2004). Di contro, altri studi sottolineano gli effetti negativi collegati all’uso della rete. Uno studio ha rilevato che la reperibilità così facile e immediata di informazioni costituirebbe un fattore di rischio per lo sviluppo di condotte disfunzionali, tanto che il 100% di un campione di soggetti consumatori di sostanze, avrebbe consultato internet per ricevere informazioni sui rischi e sulle modalità di consumo (Boyer et al. 2005). In aggiunta, tra gli aspetti negativi influenti, sono emersi il cyberbullismo, la condivisione di comportamenti a rischio e i confronti auto-denigratori con gli altri.

I dati di una ricerca, condotta su tutto il territorio nazionale dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza nel 2017, su un campione di circa 8000 ragazzi, ci informano che il 98% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni possiede uno smartphone personale a partire dai 10 anni d’età. Lo studio dimostra come i giovani si siano avvicinati all’uso delle tecnologie precocemente, senza aver ricevuto una preliminare preparazione volta ad educare e sensibilizzare il ragazzo di fronte ai pericoli del web. Sono oltre 3 adolescenti su 10, infatti, ad aver avuto modo di interfacciarsi con lo smartphone sin dalla prima infanzia, già a partire dal primo anno e mezzo di vita. A confermare questi dati, una recente ricerca condotta da AVG Digital Skills Study, dove si afferma che le capacità dei bambini dell’odierna generazione sono notevolmente cambiate rispetto ai bambini di 20-30 anni fa: se da un lato non sono in grado di svolgere mansioni comuni come nuotare, allacciarsi le scarpe o fare colazione in autonomia, dall’altro mostrano elevate abilità nell’accendere il computer, nel giocare ai videogiochi e nel gestire lo smartphone dei genitori.

La dilagante diffusione delle nuove tecnologie sta oggigiorno rivoluzionando in maniera silente la nostra esistenza, dalle relazioni interpersonali all’intrapsichico. A modificarsi visibilmente sono soprattutto le abitudini, essendo l’uomo portato a plasmare il suo apparato psichico, adeguando le proprie funzioni cognitive a quelle dello strumento tecnologico.

Risulta pertanto essenziale approfondire i cambiamenti che avvengono nel funzionamento cognitivo legati alla diffusione della rete e le possibili ripercussioni psicopatologiche legate al suo uso, non ancora ufficialmente riconosciute nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale – DSM-5.

La tecnologia, in particolare i social media, hanno consentito di andare al di là dei confini geografici e di prendere parte, anche ad elevate distanze, a ciò che accade ad amici, parenti o conoscenti, in qualsiasi momento della giornata. I social media, in tal modo, promuovono la socializzazione, rinforzando i legami e innescando un senso di appartenenza. La continua e costante partecipazione e condivisione, tuttavia, può indurre a generare atteggiamenti competitivi, specie se in un contesto narcisistico, in cui vengono messe a paragone le proprie esperienze con quelle degli altri, facilmente considerate più sensazionali delle proprie.
A tal proposito, la F.O.M.O., dall’inglese Fear of Missing Out, fa riferimento alla paura di essere tagliati fuori, una paura legata al pensiero costante che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante di ciò che stiamo facendo noi. La paura di mancare l’opportunità porta coloro che sono affetti da FOMO a ricercare continuamente un contatto con gli eventi del cybermondo, costringendoli ad un compulsivo controllo degli aggiornamenti e dei messaggi di stato. La FOMO può anche scatenare disordini emotivi sotto forma di agitazione, rimpianti, invidia, secondo Sherry Turkle dell’Initiative on Technology and Self del MIT.

La FOMO compare quando non riusciamo ad apprezzare le esperienze offline che stiamo vivendo perchè il nostro pensiero si focalizza ossessivamente su quello che non stiamo facendo, spiega Arnie Kozak.

Andrew Przybylski (2013) dell’Università di Oxford è stato il primo, insieme ai ricercatori dell’Università della California, di Rochester e di Essex, a condurre una ricerca empirica su questo fenomeno. Dallo studio è emerso che i livelli di FOMO sono maggiormente elevati nelle persone giovani e, in particolare, negli individui di sesso maschile e derivano dalle differenti circostanze sociali. Bassi livelli di soddisfazione della propria vita corrispondono con alti livelli di FOMO.

Questo accade perché, tra i bisogni psicologici universali, dai quali dipende la salute mentale dell’essere umano, vi è la necessità di percepirsi in relazione con gli altri, cioè di sperimentare un senso di vicinanza e connessione (Decy e Ryan,1985).

Di fronte a queste dinamiche, ne consegue una drastica riduzione della propria intimità. È stato riscontrato, infatti, che circa 5 adolescenti su 10 percepiscono come normale la condivisione non solo di tutto ciò che fanno, ma anche di foto che ritraggono momenti della propria intimità. Stando ai dati riportati dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza, i ragazzi della fascia 14-19 anni scattano circa 5 selfie al giorno, fino ad un massimo di 100, contro i 2 selfie dei più piccoli che prediligono l’uso di video o messaggi audio.

Lo share, o meglio l’oversharing, ovvero la condivisione eccessiva di informazioni, diventa una modalità diffusa adottata dalla maggior parte degli attori dei social. Ciò sottende un forte desiderio di apparire e di mostrare il meglio di ciò che si è o di ciò che si vorrebbe essere, tanto da costruirsi una vita ideale, meritevole di approvazione. Tutto ciò che viene condiviso è indispensabile che venga sottoposto al giudizio altrui, espresso attraverso il “mi piace o non mi piace”. È stato rilevato che tanti like accrescono l’autostima, la popolarità ed il senso di sicurezza personale e, viceversa, un giudizio contrario condiziona l’umore e la percezione di sé in senso negativo.

Di conseguenza, pur di ricevere un feedback positivo, i ragazzi sono disposti, ad esempio, a mettersi a dieta per essere in linea alla tendenza del momento, o a fare selfie pericolosi mettendo a repentaglio la propria vita come dimostrazione di avere coraggio.

Si pensi ad un recente fenomeno social degli ultimi tempi, le cosiddette “Challenge”, una catena in cui i ragazzi sono chiamati a postare un video o un’immagine inerente alla moda del momento e a nominare, a loro volta, amici o conoscenti. Trovano massimo riscontro le sfide che potrebbero comportare conseguenze rischiose, in una fase di crescita nella quale si struttura la propria personalità ed identità, anche attraverso modelli esterni e ideali da raggiungere.

Facendo riferimento ai dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, 1 ragazzo su 10 ha preso parte a sfide alcoliche e 5 ragazze su 10 seguono mode legate all’ispirazione del magro. Le ragazze sono disposte a fare sforzi enormi, in termini di dimagrimento pur di mostrare una perfetta forma fisica, rischiando di ammalarsi.

Cosa spinge l’essere umano a condividere le proprie esperienze con gli altri? È stato dimostrato che comunicare i propri pensieri, emozioni, riflessioni è fortemente correlato con l’attivazione di aree cerebrali deputate alla percezione del senso di gratificazione e di piacere. Diana Tamir e Jason Mitchell, studiosi di Harvard, hanno sottoposto alcuni soggetti ad un’indagine con risonanza magnetica funzionale nel momento in cui raccontavano di sé, delle proprie idee e riflessioni; questa sperimentazione ha dimostrato l’attivazione del nucleo accumbens che è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale. Tale nucleo svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, i quali provocano un aumento della concentrazione di dopamina, neurotrasmettitore del piacere. Parlare di sé agli altri, in definitiva, dà un piacere simile a quello intrinseco al cibo e al sesso, definito primario.

Di contro, non avere la possibilità di monitorare il web o di essere raggiungibili, può portare a sperimentare sensazioni di paura, disagio ed inadeguatezza. A delineare le caratteristiche più specifiche di questo fenomeno è la nomofobia, da No-mobile-Phone, detta anche sindrome da disconnessione, che fa riferimento alla paura di restare senza telefono o senza connessione ad Internet o al 4G. Tale condizione può essere vissuta in modo talmente angosciante al punto da sperimentare effetti fisici collaterali simili all’attacco di panico, come mancanza di respiro, vertigini, tremori, sudorazione, battito cardiaco accelerato, dolore toracico, nausea.

Come affermato dall’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo, ad evidenziare una distinzione tra la dipendenza ed un’attività controllata e ponderata di utilizzo dello smartphone, sono caratteristiche psicologiche e comportamentali, quali:

  • l’uso regolare del telefono cellulare ed il trascorrere molto tempo su di esso;
  • l’avere sempre con sé uno o più dispositivi ed il caricabatteria, per evitare di restare senza batteria;
  • il mantenere sempre il credito;
  • l’esperire vissuti di ansia e nervosismo al solo pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile o non utilizzabile;
  • il monitoraggio costante dello schermo del telefono, per vedere se sono stati ricevuti messaggi o chiamate, o della batteria, per controllare se il telefono è scarico;
  • il mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno);
  • l’andare a dormire con cellulare o tablet a letto;
  • l’uso dello smartphone in posti poco pertinenti.

La Nomofobia è una patologia attualmente poco indagata e scarsamente delineata. Essendo composta dal suffisso fobia, dovrebbe essere ascrivibile ai disturbi d’ansia, caratterizzati da uno stato di attivazione che risulta eccessivo e pervasivo e limita il funzionamento della persona.

Tuttavia, uno studio condotto da King, Valença, Nardi (2010), ricercatori del Panic and Respiration Laboratory dell’Università Federale di Rio de Janeiro, sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.

Dagli studi di David Greenfield, professore di psichiatria all’Università del Connecticut, è emerso che l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze, per il fatto che causa delle interferenze nella produzione di dopamina che, essendo il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa, non fa altro che facilitare le persone a svolgere attività che ritengono piacevoli. In tal modo, l’arrivo di una notifica sul cellulare innalza i livelli di dopamina poiché si è portati automaticamente a credere che contenga contenuti interessanti. Dal momento però che non è possibile prevedere l’effettiva desiderata ricezione di notifiche, si sviluppa il costante impulso a controllare, tipico del giocatore d’azzardo che, sperando di ricevere una grande quantità di denaro, continua a giocare.

Strettamente legato alla Nomofobia e riferito ugualmente all’abuso dello smartphone è il Vamping. Il termine viene comunemente tradotto con “vampireggiare” poiché, proprio come i vampiri, i ragazzi attendono la notte per rimanere svegli fino alle prime ore del mattino per socializzare, chattare e tenere contatti con gli altri utenti della rete. I dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza rilevano che il 62% degli adolescenti resta sveglio fino a tarda notte per chattare, parlare o giocare con gli amici e partner, a guardare video o serie TV in streaming, e un 15% si sveglia, anche dopo essersi addormentato, per controllare le notifiche sui social network.

Il Vamping permette di partecipare ad una sorta di cybercomunità notturna, dove ritrovarsi e darsi degli appuntamenti virtuali grazie a degli hashtag ben specifici (come #Vamping). Tale fenomeno ha origine negli Stati Uniti ma ha preso rapidamente piede anche in Italia.

Il vamping ha notevoli ripercussioni negative sulla quantità e la qualità del sonno. Tale condotta comporta delle conseguenze estremamente nocive, andando ad interferire nella quotidianità dei ragazzi poiché provoca difficoltà di concentrazione e di attenzione, funzioni cognitive indispensabili per il rendimento scolastico. È stato ulteriormente dimostrato che favorisce l’insorgenza di stati ansiosi, influenzando l’umore e il controllo degli impulsi, con manifestazioni di aggressività, comportamenti antisociali e predisposizione all’uso di sostanze.

In linea più generale, parliamo della “Social Network addiction”, ovvero una sorta di dipendenza legata ad un bisogno di connettersi, aggiornare il proprio profilo e controllare la propria pagina web. Come ogni dipendenza, anche in questo caso, sono presenti sintomi di tolleranza relativa alla sensazione di appagamento quando si è in collegamento; sintomi di astinenza manifestati da sensazioni di disagio psico-fisico provate quando non si ha la possibilità di collegarsi per un certo periodo di tempo; e i sintomi di craving, desiderio irresistibile.

La dipendenza dai Social Network sembra derivare dal forte senso di sicurezza che apparentemente offrono in maniera immediata e agevole.

Oltre a tale dipendenza, tuttavia, non è da trascurare che l’uso eccessivo dello smartphone, può favorire conflitti interpersonali minacciando il benessere relazionale. Di recente è stato coniato il termine phubbing, dalla fusione delle parole “phone” (telefono cellulare) e “snubbing” (snobbare), per definire il comune atto di ignorare o trascurare il proprio interlocutore in un contesto sociale concentrandosi sul proprio smartphone.

In uno studio, condotto dall’Università di Baylor, pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior, è stato evidenziato che tale fenomeno può incrementare i conflitti di coppia, particolarmente nelle persone con un attaccamento ansioso, ed avere un impatto diretto sullo sviluppo di disturbi depressivi. Un’ ulteriore ricerca, condotta dall’Università del Kent, mostra risultati simili sottolineando come il phubbing sia una forma di esclusione sociale, capace di “minacciare bisogni umani fondamentali come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo”.

In definitiva, la partecipazione ai Social Network consentirebbe di mascherare le personali ansie e preoccupazioni legate alla percezione di sé attraverso il rafforzamento del proprio ego e meccanismi neuropsicologici di immediata ricompensa e soddisfazione. Di contro, favorirebbe un’alterazione delle principali sfere di vita personali, causando una tendenza all’isolamento sociale.

Rischia, inoltre, di essere alterata la personale visione dei rapporti affettivi e sociali, dal momento che le “amicizie” possono essere vissute come “mezzi” per il soddisfacimento del proprio bisogno di apparire.

 

Primo Soccorso Psicologico

La NCTSN propone un programma di formazione a distanza della durata di 6 ore sulle tecniche di Primo Soccorso Psicologico (Psychological First Aid).

 

The NCTSN National Child Traumatic Stress Network è un’organizzazione americana che riunisce 150 centri per la salute pubblica; la coordinano e supervisionano due prestigiose università: l’UCLA in California e la Duke University nel North Carolina.

La NCTSN nasce negli Stati Uniti con l’obbiettivo di implementare gli standard assistenziali dei servizi rivolti a bambini, famiglie e adulti coinvolti in eventi altamente traumatici ad alto impatto emotivo. Nello specifico l’organizzazione forma e supervisiona il personale sanitario e non sanitario chiamato ad effettuare interventi di primo soccorso nel corso di disastri naturali, attacchi terroristici, gravi incidenti stradali.

La NCTSN propone un programma di formazione a distanza della durata di 6 ore sulle tecniche di Primo Soccorso Psicologico (Psychological First Aid).

Il training offre contenuti teorici, presentazioni di casi reali e simulazioni video per esercitarsi ad applicare le tecniche di intervento in modo corretto.

La NTCS ha dato vita anche a un’ampia Learning Community dove è possibile accedere a contenuti e risorse sia durante la fase formativa sia durante i successivi interventi sul campo.

Il Corso si ispira ai cinque principi di base del Primo Soccorso Psicologico:

  • Sicurezza
  • Calma
  • Connessione
  • Autoefficacia ed efficacia di comunità in termini di appartenenza a un gruppo
  • Speranza

Il PFA è un protocollo di intervento da applicare nelle fasi immediatamente successive al verificarsi di un disastro o di una calamità:

  • è un protocollo destinato a bambini, adulti e famiglie e al personale coinvolto e nei soccorsi;
  • contiene le forme acute di stress presenti in una situazione emergenziale;
  • promuove le capacità di coping che facilitano un adeguato funzionamento psichico anche dopo un trauma;
  • crea una rete di servizi utili ai sopravvissuti, fornendo loro le risorse necessarie per affrontare l’emergenza;

Le fasi di intervento del PFA sono otto e si succedono secondo un ordine prestabilito. Ciascuna fase è lo step di un piano di intervento strutturato.

Vediamo quali sono le otto fasi di intervento:

1 – Stabilire un contatto e una presa in carico

Il primo obbiettivo è stabilire un contatto con i sopravvissuti; per farlo occorre attenersi a un’indicazione: “osserva in modo attento prima di effettuare un intervento”. “Tieni a mente che stabilire un contatto con un superstite non significa necessariamente avviare una presa in carico”.

Il primo contatto ha caratteristiche definite:

  • tiene conto delle specificità individuali del sopravvissuto legate all’ appartenenza a uno specifico contesto culturale e/o religioso
  • risponde a bisogni immediati e contingenti
  • tutela la privacy: i contenuti condivisi fra soccorritore e superstite rimangono strettamente confidenziali;

La presa in carico successiva avviene secondo il seguente ordine di azioni:

  • Osservazione
  • Valutazione: chi fra i superstiti necessita di assistenza immediata? Molti superstiti non cercano aiuto in modo autonomo, pertanto l’osservazione e la ricerca attiva di chi può essere in difficoltà è un aspetto cruciale del primo intervento. Allo stesso modo non tutti i sopravvissuti desiderano ricevere assistenza. Il timing in questa fase è cruciale.
  • Presentazione: occorre farla comunicando la propria qualifica evitando di interrompere conversazioni già in corso.
  • Indagine: quali sono i bisogni immediati dei sopravvissuti?

2 – Accrescere la sicurezza e il comfort dei sopravvissuti

L’obbiettivo principale di questa fase dell’intervento è fornire conforto fisico e supporto emotivo; ristabilire un adeguato senso di sicurezza riduce significativamente lo stress e l’ansia. Fornire ai sopravvissuti aggiornamenti rispetto all’accaduto aiuta inoltre a ripristinare il senso di controllo rispetto all’emergenza.

Infine occorre evitare che i sopravvissuti siano nuovamente esposti a eventi traumatici: l’impatto dello stress già subito va contenuto quanto più possibile. Ulteriori fonti di ansia potrebbero essere lesive.

Nello specifico la priorità deve essere data:

  • ai bambini non accompagnati
  • a chi ha perso familiari o congiunti nel corso del disastro.

3 – Fase di stabilizzazione

Stabilizzare significa tranquillizzare e calmare i sopravvissuti in preda ad ansia e/o agitazione. La stabilizzazione avviene secondo due fasi:

  • riconoscere i comportamenti che possono essere indicativi di uno stato di agitazione o disorientamento come ad esempio sguardo perso nel vuoto, mancanza di reattività, disorientamento, risposte emotive esasperate, reazioni fisiche incontrollabili, comportamenti frenetici o di ricerca affannosa;
  • individuare la strategia di intervento più adatta per la stabilizzazione:
    • favorire il riconoscimento delle proprie emozioni validandole e inserendole in un contesto di emergenza: è normale sentirsi agitati e confusi dopo un evento traumatico
    • insegnare tecniche di respirazione per ridurre lo stato di agitazione;
    • promuovere tecniche di grounding qualora le precedenti non siano state sufficientemente efficaci.

La tecnica del grounding, detta anche del radicamento, consiste in una successione di azioni utili per riacquisire una connessione consapevole con sé stessi dopo un trauma. Questo può indurre un temporaneo stato dissociativo, che riduce significativamente lo stato di consapevolezza e di vigilanza. La tecnica del grounding mira a ripristinare attraverso azioni guidate la percezione di sé nel momento attuale.

Nello specifico la persona in difficoltà è invitata a focalizzare la propria attenzione: nominando 5 oggetti non angoscianti che vede attorno a sé, quindi 5 suoni che sente e infine nominando 5 percezioni a livello tattile. Ogni fase è intervallata da una serie di profondi respiri.

4 – Fase di raccolta delle informazioni

Secondo un criterio di urgenza si definiscono i bisogni primari dei sopravvissuti; è preferibile raccogliere questo tipo di informazioni attraverso una conversazione spontanea, in alcuni casi può essere di aiuto avvalersi di un questionario predisposto. Una volta definito il/i bisogno/i si procede con l’attuazione dell’intervento (soccorso fisico e/o psicologico, aiuto logistico e/o organizzativo).

5 Fornire assistenza pratica

Si tratta ora di rispondere alle esigenze immediate di assistenza dando la priorità all’esigenza di cibo, acqua, riparo, vestiti e cure mediche. Occorre rimandare (spiegando il motivo) a una fase successiva la risposta ad altri tipi di esigenze meno prioritarie.

Il piano di intervento dovrebbe essere concordato con i sopravvissuti: una volta garantita la loro incolumità, si forniscono le informazioni necessarie sulle possibili soluzioni di intervento.

Il criterio della non intrusività va tenuto sempre presente.

6 – Mettere in contatto i sopravvissuti con la rete sociale

I sopravvissuti a un evento fortemente traumatico hanno una probabilità maggiore di riprendersi dal trauma se sono sostenuti da una rete di persone a loro familiari, che siano essi parenti, congiunti o amici.

Individuare la rete sociale di riferimento per il sopravvissuto è prioritario, così come attivare le risorse disponibili perché vi sia una presa in carico da parte di questa.

E’ bene prestare particolare attenzione ad alcune forme di ritrosia o vergogna: alcuni sopravvissuti possono essere in difficoltà nel chiedere l’aiuto alla propria rete sociale di riferimento.

Questo può accadere per vari motivi:

  • Alcune persone non sono pienamente consapevoli di necessitare di sostegno o supporto
  • Ad altre può essere accaduto in passato di avere chiesto aiuto ma di non averlo ricevuto
  • Altri ancora possono trovarsi in uno stato di forte prostrazione tale da impedire loro di essere abbastanza motivati da chiedere aiuto

In ogni caso va prestata la massima attenzione e valutato l’intervento anche su questi fattori psicologici.

7 – Informare: come posso affrontare l’emergenza dal punto di vista psicologico?

Sapere che in situazioni di stress post traumatico è normale avere reazioni inconsuete può aiutare a ridurre la preoccupazione, l’agitazione e la vergogna. Validare le emozioni aiuta a promuovere forme di gestione più attiva dello stress acuto da parte dei sopravvissuti.

Riconoscere che emozioni come ansia, disorientamento, rabbia, forte attivazione dell’arousal ed evitamento sono frequenti nel corso di eventi traumatici è il primo passo per promuovere e sostenere le abilità di gestione attiva delle criticità successive all’emergenza.

Ad esempio ricordi traumatici ricorrenti possono gravare sulla qualità della vita di un sopravvissuto. Secondo il PFA quali strategie sono utili per gestirli?

Si può invitare il sopravvissuto a:

  • parlare con il personale,
  • coinvolgersi in attività di tipo pratico,
  • mantenere abitudini sane in merito al sonno e all’alimentazione,
  • partecipare a un gruppo di supporto,
  • focalizzarsi su ciò che si può fare di utile al momento
  • evitare strategie che ostacolano una gestione attiva della situazione come il ricorso ad alcool o sostanze, assumere comportamenti a rischio, essere aggressivi nei confronti dei familiari, incolparsi, manifestare comportamenti di rabbia eccessiva.
  • Può essere di aiuto insegnare alcune tecniche di base (respirazione guidata, rilassamento, training autogeno, grounding) per gestire alcune reazioni emotive intense.

8 – Creare una rete di soccorso e sostegno con altri servizi

Ad alcuni superstiti sarà necessario garantire continuità assistenziale anche nelle fasi successive all’intervento di primo soccorso. Possono esserci esigenze pratiche legate alla gestione della quotidianità (alloggio, risorse economiche) ed esigenze sanitarie, connesse ad esempio a sintomatologie pregresse che si sono accentuate con la crisi.

Per la successiva presa in carico è utile fornire informazioni quanto più dettagliate sui servizi disponibili nel territorio.

Servizi scolastici e di trasporto, ambulatori medici, farmacie, gruppi di sostegno, centri religiosi sono risorse preziose per la ripresa delle attività quotidiane una volta superata la fase emergenziale acuta.

L’importanza di rendersi cura di sé stessi

È possibile sostenere psicologicamente gli altri con efficacia nella misura in cui si è in un buon stato di salute psico – fisica.

Questo presupposto richiede azioni specifiche:

  • Lavorare all’interno di un sistema di rete di altri soccorritori
  • Calibrare l’esposizione rispetto a situazioni ad alto impatto emotivo
  • Fare riferimento in caso di bisogno a un supervisore per monitorare e gestire il proprio stress
  • Non eccedere nel numero di ore di servizio né saltare pause fra un intervento e l’altro
  • Evitare un uso eccessivo di dolci, caffè o sostanze che possono causare una qualche alterazione dello stato di piena vigilanza
  • Non pensare che non si sta facendo abbastanza ma focalizzarsi su quanto si sta facendo e cercare di farlo al meglio evitando aspettative irrealistiche
  • Conservare un buon stato di salute riposandosi o fermandosi quando ci si accorge che si è troppo stanchi o emotivamente turbati.

Sofferenza emotiva delle donne in seguito all’aborto e importanza del supporto sociale per superare la perdita

L’aborto è considerato come una delle possibili complicazioni della gravidanza, in grado di rappresentare un evento altamente traumatico per la donna e di causare un insieme di conseguenze negative associate alla perdita di una nuova vita.

 

Oltre alle problematiche fisiche ed economiche che l’operazione comporta, è necessario sottolineare gli alti costi sociali e psicologici che la donna deve sostenere, in quanto l’aborto è comunemente visto in accezione negativa dalla società e suscita un insieme di emozioni negative nella donna che ospita il feto (McCoyd, 2007).

Considerando che l’ansia, la depressione, il senso di colpa e il rimpianto, sono le difficoltà psicologiche maggiormente esperite dalle donne dopo un aborto terapeutico e che l’attivazione di strategie di coping funzionali è essenziale per superarlo, il presente studio (Akdag Topal & Terzioglu, 2018) si propone di indagare i livelli di ansia e depressione in donne sottoposte ad aborto terapeutico e di determinare quanto il supporto sociale sia rilevante nel ridurre la loro sofferenza emotiva.

60 partecipanti che hanno affrontato un aborto terapeutico tra la decima e la ventesima settimana di gestazione, suddivise in base all’età (<25, 25-35, 35+), hanno risposto alle domande derivanti da due questionari semistrutturati, il The Hospital Anxiety and Depression Scale (Zigmond & Snaith, 1983), utilizzato per determinare il rischio della paziente di sviluppare ansia e depressione, oltre che i cambiamenti nel corso del tempo del grado di severità della sintomatologia, ed il Multidimensional Scale of Perceived Social Support (Zimet, Dahlem, & Zimet, 1988), adoperato per valutare l’adeguatezza del supporto sociale post-evento da tre punti di vista, quello della famiglia, quello degli amici ed infine quello degli altri significativi.

I risultati dello studio indicano che più della metà delle donne hanno mostrato alti livelli di ansia (61.7%) e di depressione (85%), rilevando quindi livelli di sintomatologia ansiosa e depressiva più alti di quelli visti in letteratura (Broen, Moum, Bodtker, & Ekeberg, 2004), senza tuttavia evidenziare differenze relative all’età dei soggetti esaminati, in quanto i livelli di ansia sono risultati alti sia nelle donne più giovani che in quelle più adulte. Oltre a ciò, si è visto che il supporto derivante dalla famiglia e dagli amici è in grado di ridurre significativamente i livelli di ansia e depressione e che, nello specifico, il supporto del partner è in grado di abbassare i livelli di ansia, ma non i livelli di depressione della donna.

In conclusione, possiamo dire che l’aborto è un evento molto delicato nella vita di una donna e che, per evitare ripercussioni negative sulla sua vita, è bene conoscere gli effetti negativi che l’aborto ha a livello psicologico, ed attivare una serie di interventi di supporto per accettare e superare la perdita. In primo luogo, il personale sanitario riveste un ruolo fondamentale per queste donne, in quanto partecipa ed aiuta la paziente nella fase di presa di decisione ed ha il compito di fornire tutte le informazioni riguardo le procedure utilizzate, i tassi di rischio dell’operazione, il dolore e i tempi di ripresa dall’aborto (Goss, 2002). Oltre a ciò, è bene sensibilizzare anche le persone care e vicine alla donna a mostrare il proprio sostegno in questo periodo, in quanto i dati dicono che il supporto derivato dai familiari, amici ed altri significativi, è in grado di ridurre la possibilità non solo di sperimentare ansia e depressione, ma anche sintomi fisici, come dolori, crampi e vertigini (Akdag Topal & Terzioglu, 2018). In altre parole, è bene non lasciare sole le donne in questo particolare momento, ma mostrare vicinanza emotiva e monitorare il loro stato di salute mentale, in modo da migliorare il loro benessere psico-fisico.

 

La Distanza Fisica: un piccolo elemento spaziale, una grande componente psicofisica e comunicativa. Il ruolo fondamentale della Prossemica nella comunicazione non verbale umana

La distanza umana, indicata nel mondo accademico con il termine di prossemica, ha ancora un ruolo fondamentale nella nostra comunicazione, pure in questo momento della Storia Umana caratterizzata dalle comunicazioni social.
 Ne segue una breve descrizione divulgativa.

 

La comunicazione non verbale, ovvero l’espressione delle emozioni, dei bisogni, delle intenzioni e dei comportamenti che accompagnano o meno l’apparato comunicativo verbale (J.A.Hall, 2001), ha ancora un grande ruolo nello studio della comunicazione umana, sia per quanto riguarda il materiale divulgativo che ne sottolinea l’importanza (Phutela, Deepika, 2015; Zeki, 2009), sia per quanto riguarda il materiale circa i suoi limiti (Chamorro-Premuzi, 2015; Jarrett, 2009) e che ha reso i suoi maggiori studiosi, principalmente Paul Ekman (Foreman, 2003) e Albert Mehrabian (Freeman, 2009), nomi noti al pubblico generale.

Uno degli apparati comunicativi non verbali più importanti, per quanto riguarda gli aspetti formali ed interculturali, è la prossemica, ovvero “(…) lo studio dello spazio umano e della distanza interpersonale nella loro natura di segno”
. Di fatti, proseguendo questa definizione di Michele Bracco, essa “(…) indaga il significato che viene assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che questi interpone tra sé e gli altri, tra sé e gli oggetti, e, più in generale il valore che viene attribuito da gruppi culturalmente o storicamente diversi al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo, su cui influiscono elementi di carattere etnologico e psicosociologico” (2000). Questo elemento comunicativo è stato contestualizzato ed analizzato secondo le indicazioni dell’antropologo americano Edward T. Hall (1914 – 2009), fornite nel 1966 attraverso il suo lavoro divulgativo intitolato Hidden Dimension.


Nel suo saggio, Hall, basandosi sul materiale da lui reperito, analizza il fenomeno prossemico e la sua principale componente, ovvero l’utilizzo dello spazio nelle culture densamente popolate e come questo influenzi il comportamento, la comunicazione e l’interazione sociale umana (2015). Nella interazione fisica, gli attori, come indica sempre l’antropologo statunitense, mantengono, a seconda del grado di formalità e di conoscenza degli altri attori, questi quattro spazi: lo spazio intimo, ovvero lo spazio riservato ai nostri conoscenti più intimi a cui riserviamo elementi interpersonali come l’abbraccio, la carezza ed il rapporto sessuale; lo spazio personale, riservato agli amici e ai membri della propria famiglia; lo spazio sociale, riservato alle interazioni con gli attori con cui si ha un rapporto sociale avviato; lo spazio pubblico, riservato alle interazioni formali come il public speaking (Kreuz, Roberts, 2019).

La prossemica è influenzata principalmente da due fattori: dal fattore neurologico, attraverso recezioni emotive, sociali e cognitive percepite dall’amigdala (Kennedy et al., 2009) e dal fattore culturale, dipendente dalla Cultura e dall’Educazione percepita (Sorokowska et al, 2017).
 La prossemica oggi è soprattutto analizzata dal punto di vista della sua influenza sui social media (Cristiani, Vinciarelli, Paggetti, Bazzani, Menegaz e Murino, 2011) e sulla distanza sociale, soprattutto in questo periodo di pandemia del Covid-19 (Bell, 2020)

Cicli interpersonali e Disturbo Paranoide di Personalità: la prospettiva della Terapia Metacognitiva Interpersonale

Nel Disturbo Paranoide di Personalità la conseguenza della cronicizzazione dei cicli interpersonali di sospettosità è il ritiro sociale, l’isolamento. Si arriva così allo stadio finale del disturbo, ovvero il ciclo di abbattimento.

 

In psicoterapia è ormai nota la crescente attenzione alla relazione (Gilbert & Lehay, 2009; Kazantis, Dattilio, & Dobson, 2019) all’interno del setting terapeutico, così come nella vita quotidiana del paziente e più in generale come fattore di aiuto o di ostacolo nel trattamento. Nel modello della TMI o Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013; Carcione, Nicolò e Semerari, 2016) all’origine e al mantenimento di molti disturbi di personalità vi sono stati mentali problematici, importanti deficit di base delle funzioni metarappresentative (integrazione, decentramento e rappresentazione dello stato mentale dell’altro), difficoltà di regolazione emozionale e monitoraggio degli stati interni e soprattutto innesco e amplificazione di cicli interpersonali. Il disturbo paranoide di personalità non fa eccezione.

La diagnosi nosografica del DSM 5 (2014) definisce il Disturbo Paranoide di Personalità come caratterizzato da “diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri” presenti dalla prima età adulta ed in diversi contesti. I criteri diagnostici da soddisfare includono caratteristiche piuttosto tipiche e riconoscibili: il sospetto costante di essere danneggiato, il portare continuo rancore per presunti danni subiti e l’incapacità di confidarsi per il timore di ritorsioni. La TMI, spostandosi dalla visione clinica della descrizione dei sintomi a quella più terapeutica dei processi e delle funzioni del paziente, permette di descrivere le conseguenza che hanno tali caratteristiche nella mente dell’altro e, in definitiva, nella relazione. E’ proprio la risposta dell’altro, infatti, a confermare e amplificare l’ideazione paranoide e l’aggressività preventiva che caratterizza il disturbo, innescando così cicli interpersonali devastanti e spesso irreversibili, che creano attorno al paziente un vero e proprio deserto, portandolo spesso al totale isolamento e favorendo così la cronicizzazione della patologia.

Semerari e colleghi (2003) individuano e descrivono almeno tre cicli interpersonali fondamentali associati al Disturbo Paranoide di Personalità: il ciclo sospettoso irritante, il ciclo interpersonale aggressivo e il ciclo interpersonale di abbattimento. Tendenzialmente questi cicli tendono a presentarsi uno di seguito all’altro e a perpetuarsi tra loro con effetti deleteri.

Nel ciclo sospettoso irritante, tendenzialmente il primo ad attivarsi all’interno della relazione, il paziente presenta di partenza un contenuto mentale problematico. Il deficit metacognitivo porta a far partire il paranoide da una posizione fortemente prevenuta, in cui il dialogante è percepito come una persona sempre e solo malevola, minacciosa e con l’obiettivo della sopraffazione. Questo deficit è alla base di un’interazione che segue lo stesso schema rigido: il paziente testa costantemente l’altro, ne verifica e soppesa le reazione, a tratti lo provoca palesemente (“stai insinuando che sono stupido?”). Tutto questo si verifica ovviamente restando all’oscuro di cosa il dialogante possa pensare in risposta a questi stimoli. L’altro si sentirà infatti sopraffatto e in stato di perenne accusa, reagirà con rabbia e con sdegno, diventerà diffidente oppure metterà addirittura egli stesso in atto un comportamento aggressivo come difesa (“E se anche insinuassi che tua sia stupido?”).

Il feedback ricevuto ovviamente non farà altro che confermare i dubbi del paranoide, amplificando al massimo il ciclo interpersonale e portando spesso alla rottura rabbiosa e risentita della relazione. Si innesca cioè quello che si definisce ciclo interpersonale aggressivo: è ormai certo che l’altro tenta di ingannare, mentire, sfruttare. In questo stato generale di allarme le funzioni metacognitive sono notevolmente inficiate, cosa effettivamente favorita anche in soggetti normali nei momenti di maggiore attivazione. In particolare, risulta compromessa la capacità di differenziazione, ovvero la capacità di distinguere la realtà dalle proprie ipotesi, e quella di decentramento, ovvero il saper riconoscere che lo stato mentale dell’altro può essere diverso dal proprio e da quello che gli attribuiamo. Nella mente del paziente, dunque, non è minimamente presente la consapevolezza del suo ruolo nel ciclo attivatosi e anzi, data la minaccia ormai rilevata, urge difendersi onde evitare l’ennesimo vilipendio alla propria persona. Nei casi più gravi questi cicli possono portare all’acting out del paranoide, in particolare se è presente un alto livello di impulsività, o anche all’innesco di veri e propri deliri persecutori, solitamente lucidi, se presenti anche tratti psicotici ed un esame di realtà più labile. Tutto questo evidenzia quanto sia importante, all’interno della relazione terapeutica, non solo la conoscenza del funzionamento del disturbo ma anche la disciplina interiore del terapeuta e la capacità di mantenere lucidità e consapevolezza dinanzi ai continui test di fiducia o snervanti accuse a cui è sottoposto. Interessante è come si possano manifestare stati problematici e cicli interpersonali nei pazienti che presentano anche tratti del Disturbo Narcisistico di Personalità. In questi casi, la percezione di aver ricevuto un’offesa può attivare stati problematici e cicli interpersonali differenti, in particolare desiderio di rivalsa narcisistica e rimurginio rabbioso, in cui il paziente reitera continuamente nella sua mente l’ingiustizia subita e riesce a trovare sollievo solo se l’affronto è stato ripagato con gli interessi, ripristinando così un’ipertrofica immagine di grandezza che non deve essere disturbata.

La conseguenza della cronicizzazione di questi cicli interpersonali di sospettosità è prevedibilmente la solitudine, il ritiro sociale, l’isolamento e col tempo la perdita di abilità, prima almeno in parte acquisite. Si arriva così allo stadio finale del funzionamento del paranoide, ovvero il ciclo di abbattimento. Dopo aver sventato una serie di presunte aggressioni ci si ritira in buon ordine, con la consapevolezza che l’interazione con gli altri genera sempre allarme e una serie di emozioni spiacevoli da evitare. Il paziente è ora sconfortato e provato dai continui scontri per mantenere la sua integrità, e si affaccia sulla sua quotidianità lo spettro cupo della depressione. L’assenza di confronto con gli altri in questa fase altro non fa che esacerbare i deficit metacognitivi precedentemente descritti. Non è infrequente l’uso di sostanze per cercare di lenire la sintomatologia depressiva. E’ forse in questa fase, in cui le difese danno prova di essere poco adattive, che il terapeuta può, con estrema cautela e solo se il clima è di buona fiducia, iniziare a favorire il decentramento e la differenziazione nel paziente. Anche in tal caso può essere interessante ciò che si verifica in presenza di tratti narcisistici. In quadri clinici simili il paziente può entrare in quello che si definisce stato di vuoto devitalizzato, cioè in uno stato successivo all’ingiustizia subita e in cui prevale un distacco egodistonico dal mondo, una forte anedonia, un senso di estraneità che non di rado si associa a fantasie di successo compensatorie o a rischio suicidario.

Il circuito, giunti a questo punto, si autoperpetua. La compromissione delle funzioni metacognitive impedisce al paziente di uscire dalla trappola. Il calo dell’umore o il semplice stato di necessità spingono la persona a riaffacciarsi alla vita senza aver corretto schemi e aspettative sugli altri. Le passate esperienza hanno semmai confermato che occorre essere ancora più guardinghi e prudenti e ci si ritrova così in quello stato problematico di mente prevenuta da cui tutto è iniziato. Date queste premesse, il risultato non può che essere scontato e, alla prima occasione, il ciclo interpersonale sospettoso irritante si riattiverà quanto e più di prima.

 

Gaslighting: quando la manipolazione annulla la libertà

Quando la manipolazione non è uno strumento ma un fine, e il manipolatore è consapevole del processo che sta mettendo in atto per fare in modo che la sua vittima abbracci totalmente il suo punto di vista, ci troviamo di fronte al Gaslighting.

 

Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà verità. (Anonimo)

Che cos’è la fiducia? Potremmo forse figurarcela come un mantello, ampio abbastanza da poter essere portato da due o più persone contemporaneamente e tessuto in un percorso comune, che opera come un’ala protettiva, favorendo un’oasi di serenità.

Sicuramente ogni rapporto di fiducia rappresenta uno spazio di condivisione e benessere protetto tenacemente dai singoli che ne fanno parte, che spesso porta con sé una chiusura verso l’esterno, ma allo stesso tempo anche un abbassamento delle proprie difese personali. Se ben combinati questi due elementi non sono necessariamente nocivi, tuttavia, quando poniamo nelle mani di altri i nostri segreti, le nostre debolezze, e in generale tutto ciò che attiene alla nostra intimità possiamo renderci vulnerabili e in realtà, nella maggioranza dei casi, rischiamo un tipico passo falso: ci esponiamo alla possibilità di sbilanciarci troppo a favore dell’altro, restando totalmente assorbiti dalla nuova relazione.

La fiducia è necessaria ad ogni relazione e certamente ne costituisce una componente attrattiva, ma per poter riconoscere un’eventuale relazione tossica bisognerebbe far caso a una serie di aspetti, come ad esempio un cambiamento veloce delle proprie abitudini, del modo di usare il tempo, e la continua messa in discussione di sé stessi.

Quando si crede sia necessario cambiare il proprio modo di pensare in quanto inadeguato ci si illude spesso di aver raggiunto un nuovo grado di maturità e una maggiore consapevolezza di sé, ma in realtà, in alcuni casi, questo convincimento può essere la conseguenza di una lunga attività di suggestione, da cui uno dei due soggetti cerca di trarre vantaggio, mentre l’altro ne subisce gli effetti avendo spesso molta difficoltà a rendersene conto.

Chi riesce a tessere questo tipo di relazione è un abile manipolatore, ossia una persona in possesso di una grande capacità persuasiva, in grado di modificare le percezioni della vittima, soggiogandola al punto tale da farla dubitare di ogni cosa e “costringendola” ad abbracciare il punto di visita dello stesso burattinaio.

Questo processo può avvenire in vari modi e, paradossalmente, il manipolatore è anch’esso vittima della sua incapacità di vedere la realtà in modo obiettivo.

Costui o costei infatti agisce spinto dalla estrema convinzione riposta nelle proprie idee e di conseguenza attua i suoi schemi affinché molti altri li condividano; legandoli progressivamente a sé, traendo appagamento dal loro sostegno e approvazione e dunque rinnovate energie, perpetrando le sue macchinazioni, nella convinzione sempre più radicata di agire nel migliore dei modi, se non nel solo modo possibile.

Normalmente il manipolatore riesce nel suo intento e ottiene un discreto successo, dal momento che non di rado investe gran parte del suo tempo e delle sue risorse per maturare competenze utili allo scopo fin da bambino.

Nel caso invece in cui il suo disegno non arrivi a compimento, questi potrebbe persino destabilizzarsi al punto da compiere gesti estremi.

Quando la manipolazione non è uno strumento ma un fine, e il manipolatore è consapevole del processo che sta mettendo in atto per fare in modo che la sua vittima abbracci totalmente il suo punto di vista, ci troviamo di fronte a una sua forma estrema: il Gaslighting.

In questa forma il manipolatore cerca di far dubitare la vittima della sua percezione fino a rendere persino il ricordo del proprio vissuto così debole, da essere relegato a mero fatto immaginato, con conseguenze gravi e profonde sull’autostima del bersaglio, che potrebbe infine ritenersi stupido e incapace, o addirittura pazzo; è insidiata ogni certezza e sicurezza della persona.

Il termine deriva dal film Gas light del 1938 e dai suoi rifacimenti successivi, tra cui vale la pena ricordare Rebecca – la prima moglie di Alfred Hitchock (1940).

In tutti questi film è descritto bene il contesto in cui avviene la violenza psicologica. Un marito occupato a frugare casa per trovare le ricchezze della moglie abbassa, come effetto collaterale delle sue ricerche, l’intensità di alcune luci a gas. La moglie se ne accorge e manifesta disappunto e disagio, ma il marito riesce a convincerla che tutto quello che sta avvenendo sia in realtà solo frutto della sua immaginazione, sostenendo che l’intensità delle luci sia rimasta la medesima di sempre, in questo modo nascondendo il suo operato.

La situazione si protrae a lungo e alla fine la moglie finisce con l’impazzire.

Così funziona il Gaslighting: la vittima viene gradualmente indebolita e resa malleabile, un disegno spietato che viene portato a compimento utilizzando una strategia subdola in cui si persegue il preciso obiettivo di deprimere totalmente il bersaglio.

Nel film ci viene mostrato come l’obiettivo sia perseguito alterando piccoli elementi dell’ambiente di vita quotidiano, tuttavia, nella realtà spesso questo si traduce in stratagemmi che, presi singolarmente, potrebbero non suggerire alcun indizio in merito a ciò che effettivamente sta avvenendo, ma la natura continuativa e costante di queste “piccole manipolazioni quotidiane”, portate avanti in modo sistematico, le rende estremamente pericolose.

Il Gaslighter infatti spesso fa uso di frasi tipiche, anche riproposte nella forma di “battutine” per rimarcare difetti e difficoltà (“vedi che non sei capace”; “vedi che non ci arrivi”; “vedi non ci si può fidare di te”; “vedi, questo è avvenuto per colpa tua!”, “ma non si può nemmeno scherzare?”, eccetera eccetera), e mostra un continuo e autentico malumore per le “incapacità” della vittima, cercando allo stesso tempo di farle intendere che lui la conosca meglio di chiunque altro, e che quindi possa davvero aiutarla a sopperire alle sue “mancanze”.

Si crea così un rapporto tossico, in cui la vittima si sente inadeguata, incapace, stupida, ma contestualmente vede nel suo aggressore una “fonte di autorità”, perché la associa a una possibilità di crescita e miglioramento personale. Probabilmente questi cambiamenti tanto desiderati non si verificheranno mai in relazioni così strutturate, in quanto a prevalere è la dipendenza emotivo-affettiva; viene a mancare il rispetto reciproco e si è quasi impossibilitati a considerare il proprio carnefice o viceversa la propria vittima se non come parte imprescindibile di queste stesse dinamiche.

Un’altra conseguenza tipica che colpisce le vittime di questo modus operandi è l’insorgere di una vera e propria dipendenza dall’opinione altrui, che si manifesta come un pesante senso di insicurezza e inadeguatezza: il bersaglio si sente spinto a cercare sempre l’approvazione di un altro che non ha alcun interesse a rendere la sua vittima più autonoma e indipendente.

Entrambi finiscono per maturare una dipendenza reciproca: il gaslighter rinfaccia al bersaglio le sue mancanze, per contro il bersaglio trova in lui un’ancora di salvezza a cui crede di potersi appoggiare per mitigare il suo senso di insicurezza: lo scopo comune a entrambi pare essere quindi una deresponsabilizzazione che vede però il manipolatore in una posizione di forza. Mentre l’aggressore ha ormai il controllo del suo bersaglio, parallelamente la vittima è sempre più inconsapevole di quello che sta accadendo e, come vedremo in seguito è portata a chiudersi in uno stato depressivo.

Nonostante sia una forma di violenza estrema, il gaslighting è tuttavia più diffuso di quel che si possa pensare.

Uno dei motivi della difficoltà a contrastarlo (se non identificarlo), è l’esperienza che il gaslighter accumula nel mettere in atto le sue strategie. I tratti tipici del manipolatore come già accennato sono presenti in alcuni soggetti già da bambini e, se non vengono contenuti con risposte affettive adeguate, diventano un tratto tipico. Il manipolatore accumula una grande esperienza che si traduce in un grande vantaggio rispetto a chi cerca di combatterlo.

In particolare, è un calcolatore formidabile delle possibili reazioni delle sue vittime di cui studia i punti deboli. Diviene straordinariamente capace di fornire alla sua vittima sia messaggi positivi che negativi. Il suo scopo non è deprimerla o affossarla ma renderla migliore secondo il suo disegno. In pratica la rende totalmente dipendente da lui, ostacolando tutto quello che si discosta dal suo disegno. Nonostante queste sue grandi capacità di pianificazione, il manipolatore, tuttavia, è spesso incapace di accettare una qualunque critica destinata alla sua persona, in pressoché qualunque ambito, in modo particolare verso quello legato al suo comportamento. Per questo motivo, se messo in discussione, quando non può argomentare il suo comportamento in modo razionale, lo giustificherà come una necessità imposta dall’esterno per difendere sé stesso (o altri) da potenziali pericoli.

Una realtà tipica è quella che vede protagonisti genitore e figlio: quando il rapporto non matura alle fasi adulte e il genitore continua a relazionarsi con il/la figlio/a adoperando un fare autoritario, non permette a quest’ultimo di svilupparsi pienamente nella sua personalità.

È il paradigma del genitore autoritario e iperprotettivo che tratta il figlio da incapace rendendolo soggetto passivo della sua stessa vita.

In quasi tutte le forme di gasligthing è infatti presente anche l’elemento dell’iperprotezione: il gasligther è convinto di proteggere la sua vittima al punto da sentirsi autorizzato a sostituirsi a essa, anche se questo avviene spesso in modo inconsapevole.

Nella sua massima espressione il gaslighting proiettato a livello familiare arriva a strutturarsi in quella che è una permanenza senza uscita dal modello educativo autoritario genitore-bambino.

In questo modello l’autorità genitoriale è assoluta: non deve fornire spiegazioni di nessun tipo alla prole in merito alle proprie azioni o ai propri ordini, ed è incapace di riconoscere i figli come soggetti autonomi, che hanno desideri e capacità proprie da sviluppare. Nonostante lo scorrere del tempo, il gaslighter mantiene i figli in un limbo in cui sono costantemente deprivati delle responsabilità, a favore, invece, di un forte senso di colpa. Il risultato è che la vittima rimane come imprigionata nella condizione infantile del “subordinato”, e il manipolatore prolunga un modello relazionale basato più sul senso di proprietà che su affettività ed educazione.

Il gaslighting può naturalmente applicarsi anche alle dinamiche che intercorrono tra partner e amici. In alcune relazioni amorose o amicali, si ripropone il medesimo schema: un rapporto impari fra superiore e subordinato che predomina rispetto sulla dimensione sentimentale ed affettiva.

La mancanza di parità e intesa genera un vuoto in cui non vi può essere sincero amore o in cui, nel migliore dei casi, questo è inevitabilmente soffocato, posto in secondo piano rispetto all’esigenza primaria di controllo del manipolatore e di sollevamento dalle responsabilità del soggetto in posizione passiva.

Il manipolatore è, in ultima analisi, una vittima delle proprie stesse azioni: costretto a destreggiarsi all’interno di una recita infinita, utile solo a mantenere viva una sorta di “auto-glorificazione di sé” e spesso incapace di autentica empatia e di sincero interesse verso l’altro, è spinto passo dopo passo verso la totale negazione dell’identità e dei bisogni altrui.

Queste “maschere” servono paradossalmente al manipolatore come una “protezione”, una sorta di “nuovo guscio” in cui sentirsi coccolato e auto-gestirsi, in perenne attesa di una rinascita che non arriverà mai; verso una ipotetica “nuova vita” in cui possa finalmente sentirsi emancipato dalle delusioni, dall’impressione di abbandono e dalle frustrazioni interiori accumulate nell’infanzia ma anche nell’età adulta.

Chi è nella posizione del subordinato, invece, può acconsentire all’essere completamente gestito e manipolato, così offrendo a chi ha il possesso “dell’autorità” la possibilità di “rigirare la frittata” a suo piacimento, negando qualsiasi responsabilità e scaricando sempre le colpe sull’altro elemento della relazione.

Non è raro che in relazioni conflittuali tra coniugi vengano perpetrati comportamenti simili, allo scopo di allontanare o punire il coniuge quando si presentano insoddisfazioni personali. Quando questo accade però, il coniuge abusato torna spesso sui suoi passi permettendo al meccanismo di autocompiacimento del coniuge abusante di ripartire.

Può talvolta accadere che una frustrazione verso la quale non si sappia reagire adeguatamente metta in crisi la sicurezza e la fiducia che il manipolatore ripone in sé, e a quel punto tutto può crollare: l’amore e i suoi simulacri sono sostituiti dall’aggressività più spietata e gratuita, se non da vere e proprie molestie; le emozioni e la razionalità percettiva vengono annullate, quasi come se la vittima venisse svuotata delle proprie energie, e si trovasse in uno stato di “sonno indotto” che la allontana sempre di più dalla realtà.

Gli effetti di questo lento processo possono essere anche molto gravi per la vittima, che diviene progressivamente incapace di percepirsi come soggetto autonomo. La sua salute psicologica può restare per molto tempo destabilizzata e ne potrà uscire solo mediante un lungo percorso.

Per chi vive una relazione di questo tipo ė difficile accorgersene e forse, ancor di più, ammettere di essere manipolato/a, anche se, a uno sguardo più attento, è possibile individuare veri e propri campanelli d’allarme.

Tra questi, il fatto d’essere sempre d’accordo con il genitore, con il partner o con l’amico/a, la scelta di rinunciare sempre a esprimere la propria opinione anche in presenza di dubbi legittimi, frutto della scarsa considerazione e della sensazione di inadeguatezza da questo generata, il fatto che si arrivi ad esprimere un approccio eccessivamente giustificatorio nei confronti dell’agire altrui, anche quando non lo si vorrebbe, e a vivere secondo soggiacenza passiva a volontà terze verso cui non vi è un reale e sentito accordo.

Chi vive una situazione di tale disagio ha bisogno di un aiuto concreto per uscirne. È necessario un lungo percorso in cui la vittima riesca a vedersi come autonoma portatrice di capacità e ritrovi occasioni per dimostrare, soprattutto a sé stessa, quanto valga.

Purtroppo oggi, in Italia, troppo spesso queste problematiche vengono sottovalutate, e anche il contesto sociale, che potrebbe essere motivante a fine terapeutico, si abitua invece al contatto con queste dinamiche patologiche, non riuscendo più a concepire strutture differenti, tendendo anzi alla loro giustificazione.

Esempio di questo possono essere fenomeni di tolleranza e sminuimento verso i casi di violenza sulle le donne, in cui spesso è proprio la vittima a essere biasimata per il fatto accaduto. Ci sono molti casi anche nel bullismo in cui il contesto sociale nel suo insieme giustifica il bullo invece che essere unito nel contrastare il fenomeno

In conclusione, vale ancora la pena sottolineare come, per le possibili gravi conseguenze psicologiche che il gaslighting può portare alle sue vittime e per il probabile protrarsi nel tempo di tale violenza, sia sempre indispensabile rivolgersi allo psicologo o allo psicoterapeuta.

 

L’autismo tra i banchi di scuola: strategie per l’intervento

Con il termine Autismo si intende un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da una sindrome comportamentale causata da un disordine biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita.

 

Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri. L’Autismo, pertanto, si configura con delle caratteristiche “permanenti” che accompagnano la persona nel suo ciclo vitale, seppur presentino un’espressività variabile nel tempo e cambino da soggetto a soggetto (Linee Guida per l’Autismo, L. 134/2015).

ll DSM 5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) definisce i Disturbi dello Spettro dell’Autismo secondo due principali criteri:

  • deficit persistenti della comunicazione sociale e dell’interazione sociale
  • pattern di comportamento, interessi o attività ristretti e ripetitivi

In questo scenario, si pone enfasi sul concetto di spettro come di un continuum che va da deficit più gravi a meno gravi, pertanto si tratta di uno spettro variabile, che può comprendere sia persone con alto quoziente intellettivo che con ritardo mentale. All’interno dello spettro autistico, infatti, troviamo diverse diagnosi, che vanno dalla Sindrome di Asperger, che definisce persone ad “alto funzionamento”, al Disturbo autistico, che descrive invece persone a “basso funzionamento”, con grave disabilità verbale ed intellettuale.

Attualmente non sono state ancora individuate le cause certe dell’autismo: la comunità scientifica internazionale, però, tende a riconoscere un’origine multifattoriale, in cui le alterazioni genetiche avrebbero un ruolo principale, accompagnate da altri fattori ambientali, sia di tipo biologico, esperienziale, che psicologico, con grande variabilità da una persona all’altra. Tale interazione darebbe luogo ad alterazioni strutturali e funzionali del sistema nervoso centrale a partire dalla vita intrauterina e con evoluzione più o meno rapida e marcata.

Non sembra esserci nemmeno una prevalenza geografica ed etnica, in quanto è stato delineato in tutto il mondo, in ogni popolazione e ambiente sociale; presenta invece una prevalenza di genere, poiché viene diagnosticato maggiormente nei maschi (da 2,5 a 4 volte di più) rispetto alle femmine.

Autismo e scuola

Vari studi e ricerche dimostrano che la prevalenza dell’autismo tra gli alunni delle scuole italiane, e non solo, è in continuo aumento, attestandosi ormai intorno all’1% della popolazione scolare totale. Il dato è confermato dall’Osservatorio Nazionale per il Monitoraggio dei Disturbi dello Spettro Autistico, il quale sottolinea come si tratti di disturbi ad elevata complessità, che accompagnano l’individuo per tutta la vita e che, per questo, mettono alla prova tutto il sistema di assistenza (sanitario, educativo, economico).

In tutto questo, la scuola svolge un ruolo molto delicato e talvolta determinante: infatti, proprio all’ingresso della scuola dell’infanzia possono essere notati i primi segnali di “qualcosa che non va”. Si osserva, ad esempio, come i bambini fatichino a interagire con gli altri oppure a separarsi dalle loro attività solitarie per integrarsi nel gruppo. Non di rado gli insegnanti faticano ad affrontare questa situazione con i genitori, non sapendo cosa dire e soprattutto come dirlo. E’ possibile che nei genitori nascano dei sentimenti di negazione e rifiuto, per questo è importante che sia insegnanti che genitori siano accompagnati in questi delicati momenti da personale esperto, come può essere lo Psicologo Scolastico. E’ bene sottolineare come questi timori e questi dubbi spesso non facciano altro che ritardare la presa in carico di questi bambini, mentre l’Istituto Superiore di Sanità, nelle sue Linee Guida, pone proprio l’accento sulla necessità di un intervento precoce, in modo da aumentare l’efficacia dell’intervento stesso. Nei gradi scolastici superiori, invece, il problema non diventa più riconoscere e affrontare la presenza di autismo, quanto creare un percorso di studi e di inclusione che permetta a ogni bambino e ragazzo con Disturbo dello Spettro Autistico di svilupparsi e di apprendere al meglio delle sue potenzialità e di aumentare la qualità della sua vita, soprattutto in un’ottica di crescita dell’autonomia, anche in una prospettiva a lungo termine.

In Italia gli alunni con diagnosi di autismo frequentano regolarmente la scuola e sono seguiti da un insegnante di sostegno e, in alcuni casi, anche da altre figure professionali, come educatori, psicologi o assistenti alla comunicazione, che offrono assistenza scolastica specialistica. Ma questo non basta: un opportuno trattamento di questo disturbo, infatti, spesso prevede la conoscenza e la padronanza di tecniche specifiche e il problema che spesso si riscontra nelle scuole è la mancanza di personale adeguatamente formato. Ad esempio, uno dei metodi maggiormente usati ed efficaci, soprattutto nei casi di basso funzionamento, è quello ABA (Applied Behavior Analysis), ovvero l’analisi applicata al comportamento per la modificazione dei comportamenti disadattivi, metodo complesso che richiede una formazione specifica. Esso si focalizza su comportamenti significativi dal punto di vista sociale, consentendo così una reale crescita del soggetto e l’incremento dei comportamenti adattivi che sono presenti nei soggetti della stessa età cronologica e gruppo sociale di riferimento. I bambini e i ragazzi con autismo frequentemente non riescono ad imparare dall’ambiente naturale e per superare questo problema la terapia ABA si avvale di prove discrete (the discrete trial) in cui competenze e componenti sono suddivise in piccole parti più facilmente insegnabili. Si avvale, quindi, di programmi basati sui rinforzi, sfruttando la loro motivazione, e si struttura attraverso il raggiungimento di obiettivi chiari e precisi. Anni di ricerca internazionale hanno dimostrato l’efficacia dei trattamenti comportamentali nella riduzione di comportamenti impropri e nell’incremento della comunicazione, dell’apprendimento e di comportamenti adeguati nei soggetti con autismo.

Il bambino o ragazzo con autismo solitamente è seguito da un terapista debitamente formato e segue lo stesso protocollo anche a casa, per cui diventa fondamentale sviluppare una stretta collaborazione e una sinergia tra scuola-famiglia-specialista, in modo che tutti contribuiscano positivamente al buon esito del trattamento.

E’ però innegabile che la scuola costituisca di per sé un ambiente particolare: ci sono molte persone e molti stimoli a volte incontrollabili, spesso possono accadere imprevisti che rompono la routine (così basilare per i soggetti dotati di questo disturbo) e molto altro, per cui, se da una parte agli insegnanti è chiesto di aderire ai consigli di terapisti e genitori, dall’altra devono costantemente mostrare una grande capacità di anticipazione, adattamento ed inventiva. In classe vanno presentate strategie ad hoc.

Alcune strategie

Questi bambini e ragazzi, a causa dei deficit delle competenze relazionali, hanno bisogno di strumenti adeguati per interagire con gli altri, pertanto risulta importante:

  • incoraggiare a salutare appena il bambino o il ragazzo entra in classe, sia i compagni che il corpo docenti;
  • aiutare il bambino o il ragazzo ad attirare l’attenzione degli altri toccandoli o chiamandoli;
  • insegnare a chiedere aiuto quando ne ha bisogno, toccando e/o chiamando oppure con l’ausilio di immagini (Pecs – Picture Exchange Comunication System) se necessario;
  • incoraggiare a condividere le proprie cose con gli altri;
  • promuovere l’inclusione nel contesto classe proponendo delle attività e dei giochi da poter fare insieme.

Altro aspetto importante da considerare, a causa delle abitudini e dei rituali molto rigidi, è l’eventualità che si verifichino crisi o scoppi di collera, non riuscendo a reagire in modo funzionale alle rotture o forzature di tali rigidità. E’ pertanto auspicabile non forzarli bruscamente a cambiare le proprie abitudini, ma osservare il comportamento per imparare ad anticipare e gestire al meglio i problemi comportamentali. Ed è proprio nell’anticipare che si può cercare di insegnare ai bambini e ai ragazzi nuovi comportamenti adattivi e nuove abitudini più funzionali. Per fare ciò, a scuola, si potrebbe:

  • utilizzare l’analisi funzionale per individuare gli elementi che favoriscono i comportamenti problematici e in questo modo anticiparli e/o evitarli. L’analisi funzionale aiuta a sviluppare ipotesi circa lo scopo del comportamento messo in atto e la relazione tra il comportamento e l’ambiente, secondo un modello ABC basato sugli antecedenti, comportamento e conseguenze.
  • rispettare i suoi tempi;
  • strutturare la sua giornata in classe pianificando in anticipo le attività da svolgere (Agenda Visiva);
  • organizzare il materiale didattico e di gioco in modo ordinato così che sappia prendere autonomamente le sue cose;
  • incoraggiare l’imitazione dei pari;
  • assicurarsi che il bambino o il ragazzo rimanga in classe e con i compagni il più a lungo possibile, cercando di coinvolgerlo nelle attività. Risulta infatti di fondamentale importanza strutturare l’ambiente scolastico in modo adatto e favorevole.
  • insegnargli a riferire il suo stato/emozione anche attraverso le pecs;
  • scrittura/lettura di Storie sociali che descrivono, attraverso le immagini, una situazione sociale semplice. Ciò aiuta a capire i comportamenti propri ed altrui in modo chiaro e semplice;
  • utilizzare un programma di rinforzi per favorire e stabilizzare i comportamenti positivi e funzionali. Un esempio potrebbe essere la Token Economy, tecnica basata sull’erogazione di rinforzatori simbolici (token/gettoni) ogni volta che il comportamento bersaglio viene emesso, fino al raggiungimento di punti (stabiliti precedentemente) che permetterà l’accesso al premio finale (il rinforzatore vero e proprio).

Alla luce delle varie difficoltà di un bambino o ragazzo con autismo è necessaria un’alleanza tra i vari professionisti (Insegnante, Terapista, Educatore, Psicologo Scolastico, Logopedista, Psicomotricista e Neuropsichiatra Infantile) che mettano in campo metodologie, tecniche e strategie volte a favorire l’acquisizione o il potenziamento di abilità funzionali alla crescita della persona nei vari gradi scolastici e in tutti i contesti di vita. Altrettanto importante è la famiglia, coinvolta insieme ai professionisti stessi nell’azione di cura e progettazione di un percorso caratterizzato da un impegno condiviso per realizzare un efficace e reale inclusione sociale e per promuovere un progetto di vita declinato sulla persona, che va accompagnata e sostenuta nel diritto di autodeterminarsi e di raggiungere la maggiore autonomia possibile.

L’esito più evidente di tale alleanza è la stesura del PEI (Piano Educativo Individualizzato), documento che la scuola redige in collaborazione con tutti i servizi che seguono questi bambini e ragazzi, e che deve essere approvato anche dalla famiglia. Il PEI non è solo un “pezzo di carta”, come purtroppo spesso viene svalutato, ma una colonna portante del percorso di crescita degli alunni con disabilità; esso viene stilato sulla base della Diagnosi Funzionale scritta dal Neuropsichiatra Infantile e sul Profilo Dinamico Funzionale compilato dagli insegnanti proprio a partire da questa Diagnosi. La caratteristica di questi documenti è di valutare il funzionamento di ogni bambino per tutte le aree personali, sociali e scolastiche, evidenziando non solo le criticità, ma anche i punti di forza (è bene ricordare, infatti, che accanto a molti deficit, spesso sono presenti delle abilità, specie percettive e visuo-spaziali, attenzione per i dettagli e meticolosità). In questo modo viene costruito un iter scolastico che permette al singolo soggetto di raggiungere i propri obiettivi, tarati sulle sue potenzialità e sui suoi margini di miglioramento.

In conclusione, la scuola italiana ha una grande vocazione per l’inclusione, ma ciò non basta. Spesso, infatti, ci si scontra con dei limiti strutturali e logistici degli istituti (mancanza di spazi e materiali, scarsa formazione del personale docente sulle dinamiche specifiche proprie dell’autismo, difficoltà dei contatti tra i servizi…) che impediscono di mettere davvero in pratica tutte le buone intenzioni.

Se lasciata sola, la scuola può arrivare solo fino ad un certo punto, per questo è importante sottolineare come la presa in carico degli alunni con autismo (ma anche con disabilità in generale) debba necessariamente prevedere la partecipazione attiva e costante di tutti gli attori chiamati in causa: famiglie, scuola, servizi territoriali e specialisti. Solo in questo modo si può garantire ai nostri bambini e ragazzi un percorso di vita coerente, lineare e positivo.

 

Essere un carattere (2020) di Christopher Bollas – Recensione del libro

Il testo di Bollas, Essere un carattere, non è semplicemente un libro, bensì un insieme di finestre che si aprono sul nostro mondo inconscio e sulla pratica psicoanalitica.

 

L’opera è una raccolta di saggi scritti sul finire degli Anni ‘80, e ci consente di ripercorrere quasi tutti i temi caldi del suo pensiero, che non sempre è semplice da comprendere o “metabolizzare”.

Il titolo originale (Being a Character: Psychoanalysis and Self Experience) forse aiuta a cogliere meglio lo spirito di questo testo e il filo conduttore che lo cuce.

Chi, infatti, non dovesse avere familiarità con la psicoanalisi “contemporanea”, potrebbe non aver mai sentito nominare un concetto introdotto da Bollas e che – paradossalmente – troviamo ben rappresentato persino in una canzone dei Pearl Jam: il conosciuto non pensato (“Unthought Known”, espressione che ritroviamo nel titolo di un suo precedente libro, per l’appunto). Ma proviamo ad andare con ordine.

Essere un carattere cerca di rispondere ad una cruciale domanda: qual è l’impatto degli oggetti sul Sé?

Non stiamo parlando solo di oggetti “interni” (ossia rappresentazioni del mondo e delle persone reali che noi interiorizziamo e che influenzano il nostro modo di essere e di agire), bensì – e soprattutto – anche di oggetti fisici, concreti, che investiamo di significato e che usiamo e ri-usiamo per definirci nel mondo.

Domanda e riflessione quanto mai attuale, in un periodo che ci ha visti costretti/ci costringe più che mai tra gli oggetti (mentali e reali) delle mura domestiche.

Gli oggetti non solo contengono le proiezioni del soggetto, bensì lo plasmano e parlano “con” lui tramite un discorso inconscio continuo e “per” lui, mostrando cioè al mondo (e a se stesso) parti di questo dialogo interno continuo.

Bollas si spinge un passo avanti rispetto alla classica “Teoria dei rapporti oggettuali”, ed è come se cercasse di cambiare prospettiva, non per confutare la visione psicoanalitica, ma per proporne una più ampia.

Se siamo abituati a pensare agli oggetti come “recipienti” nei quali “lasciamo” parti di noi, cosa accade quando riprendiamo in mano questi oggetti?

Con un esempio concreto: se decido di leggere un romanzo invece di ascoltare una canzone o di vedere un film, sto parlando a me stessa e sto – soprattutto – oniricamente (quindi: inconsciamente) ricercando qualcosa che ho “lasciato” in quel determinato oggetto (una parte di me, uno stato del mio Sé, una memoria, un ricordo etc).

Per chi conosce la saga di Harry Potter, gli Horcrux possono fungere da similitudine per il concetto. Voldemort, infatti, “spezzetta” la propria anima e la lascia custodita all’interno di determinati oggetti concreti, che hanno un significato preciso, non solo per lui, ma per l’intero mondo magico (Bollas, infatti, parla anche di oggetti generazionali e storici, non solo cari al singolo).

Quindi, quando decidiamo di riprendere in mano proprio quel determinato oggetto, incontreremo anche quella parte del nostro Sé che si è legata all’oggetto.

Ne deriva che la nostra scelta non è mai casuale, e riflettere su di essa potrebbe aiutarci a conoscere qualcosa in più rispetto alla nostra mente.

Naturalmente “essere nel mondo” significa anche esporsi all’incontro con oggetti casuali e/o fortuiti, nei quali e grazie ai quali ci formeremo rappresentazioni mentali e da lì partirà nuovamente un ciclo di rapporti soggetto-oggetto.

Come anticipato, il libro di Bollas contiene tantissimi riferimenti e spunti di riflessione e di rilettura dei principali concetti psicoanalitici, e “risuona” del vasto bagaglio culturale dell’autore. Non è certamente un volume semplice per i non addetti ai lavori, nonostante lo stile sia scorrevole e il talento dell’autore evidente.

Gli oggetti, e l’influenza che giocano sul Soggetto, risuonano anche nella stanza d’analisi, che vede analista e analizzando impegnati in un lavoro che è al contempo un gioco (di Winnicottiana memoria) e che consente la produzione di nuovi stati psichici che consentono ad entrambi di evolvere.

Nessuno, infatti, è indifferente “al tocco degli oggetti”, siano essi – come già abbiamo detto – reali (un libro, una sinfonia, un museo, una persona) o fantasmatici (la rappresentazione/idea che io ho di mio padre o di mia madre, che non corrisponde mai al 100% alla realtà di chi siano i miei genitori in quanto esseri umani).

Il trauma è ciò che rende il soggetto indifferente all’oggetto, nel senso che impedisce all’essere umano di evolvere, perché lo costringe in una dinamica ripetitiva e svuotante.

Partendo da questa linea di pensiero, nella seconda parte del libro, Bollas delinea magistralmente alcuni racconti di diversi “Stati mentali del Sé”, che toccano diverse angolazioni della sofferenza umana: una donna che si taglia, la complessità della spinta di alcuni omosessuali alla ricerca di rapporti occasionali (“Cruising”, in Inglese), lo stato mentale fascista, che impedisce la messa in discussione del Sé, l’innocenza violenta che costringe l’altro alla confusione mentale ed emotiva, ed infine la coscienza generazionale, che vede il singolo come parte di un discorso storico molto più ampio.

Non è forse un caso che questo testo sia un insieme di frammenti, talvolta anche criptici, che aprono (come detto) porte e finestre ad ulteriori riflessioni e invitano non solo alla scoperta del nuovo, ma anche alla ri-scoperta di qualcosa che nel profondo sappiamo, ma a cui non riuscivamo a dare un nome o uno spazio.

Il conosciuto non pensato, appunto, citato in apertura.

Sogni connotati da emozioni di paura e attività cerebrali coinvolte: esiste un collegamento tra attività onirica e situazioni di vita reale?

Vari studi confermano l’ipotesi secondo cui l’attività fisiologica del sonno offre al soggetto la possibilità di riprocessare e riorganizzare le informazioni cariche emotivamente.

 

Infatti, la teoria della simulazione della minaccia afferma che il sogno svolge una funzione neurobiologica, consentendo una simulazione offline dell’incombere di eventi minacciosi e promuovendo risposte comportamentali più adattive nelle situazioni di vita reale (Valli & Revonsuo, 2009). In altre parole, il dover affrontare delle circostanze problematiche durante la notte, fornirebbe gli strumenti per essere in grado di meglio superare le difficoltà anche di giorno (Valli et al, 2005). Questo però non è l’unico modello presente ed altri si focalizzano sulla capacità del sogno di facilitare la risoluzione di attuali conflitti emotivi (Cartwright et al., 2006), la riduzione dell’umore negativo il giorno successivo (Schredl, 2010), e l’apprendimento del comportamento di estinzione (Nielsen & Levin, 2007). Sebbene con delle differenze riguardo agli aspetti considerati, tutti questi modelli concordano nel suggerire che i sogni portano a risposte più adattive ai segnali di minaccia che si presentano durante l’attività diurna (Scarpelli et al, 2019), in quanto l’ambiente virtuale ed altamente sicuro del sogno permette di mettere in scena gli eventi di vita della storia personale dell’individuo e consente di elaborare ed organizzare nuovamente quello che è precedentemente accaduto e che non era stato adeguatamente compreso (Perogamvros & Schwartz, 2012).

A partire da queste considerazioni il presente studio (Sterpenich et al., 2019) si propone di indagare le regioni cerebrali attivate durante il giorno e durante la notte in conseguenza di situazioni emotive che evocano emozioni di paura, oltre che il collegamento tra l’attività cerebrale durante la veglia e quella esperita durante il sonno.

Nello specifico, nel primo step sono stati selezionati 18 partecipanti non aventi problemi di tipo neurologico o psichiatrico, che sono stati sottoposti al metodo del “risveglio seriale”, in cui gli individui sono stati svegliati molte volte per rispondere a domande in grado di evidenziare la presenza o l’assenza di emozioni di paura o ansia nel momento presente. Parallelamente, a questi soggetti è stata misurata l’attività cerebrale attraverso l’elettroencelografia (EEG), in modo da rilevare le aree cerebrali più coinvolte nelle situazioni minacciose.

Nel secondo step, invece, 89 partecipanti hanno compilato un diario sull’attività del sonno e onirica, in cui è stato chiesto di riportare il contenuto dei sogni avuti la notte precedente e la presenza o assenza di specifiche emozioni durante i sogni, prima di essere sottoposti alla sessione di risonanza magnetica funzionale (fMRI) ed alla misurazione del movimento degli occhi e del diametro pupillare.

I risultati hanno evidenziato che la corteccia insulare e la corteccia cingolata anteriore sono attive entrambe nei sogni che evocano paura e nelle situazioni minacciose di vita reale, in linea con le conclusioni rilevate da precedenti ricerche (Alves et al., 2013; Casanova et al., 2016; Pereira et al., 2010), e che gli individui con un’alta propensione a sperimentare paura nei sogni aumentano l’attivazione della corteccia prefrontale mediale quando affrontano stimoli minacciosi da svegli e mostrano una diminuzione dell’attività dell’amigdala, dell’insula e della corteccia cingolata anteriore.

In conclusione, possiamo dire che in entrambi gli step, le metodologie utilizzate e i risultati ottenuti forniscono informazioni complementari riguardo ai processi cerebrali e ai collegamenti tra aree cerebrali coinvolte in situazioni minacciose durante la veglia e durante l’attività onirica, supportando l’ipotesi secondo cui l’attività del sognare migliorerebbe le funzioni di regolazione emotiva del soggetto e lo preparerebbe ad affrontare le evenienze del giorno successivo.

 

Intelligenza artificiale e evoluzionismo darwiniano

Le ultime innovazioni nel campo dell’intelligenza artificiale sono programmi come AutoML-Zero, che permette di far competere fra loro una popolazione di algoritmi generati casualmente e individuare il migliore in ciascun ciclo o iterazione o “fase evolutiva”.

 

L’essere umano occupa un posto rilevante nel ciclo di produzione dell’intelligenza artificiale (“Human-in-the-loop Artificial Intelligence” – HitAI). Ne risulta che l’output è ancora condizionato dalla creatività e dai progressi dei data scientists, nonché inficiato dai loro pregiudizi (Gent, 2020). Tuttavia, nella ricerca di frontiera nell’ambito dell’intelligenza artificiale (IA), il “fattore produttivo uomo” tende a svanire e a essere progressivamente rimpiazzato dalla macchina. L’input uomo, in tale contesto, diventa obsoleto rispetto ad altri fattori produttivi.

Lungo tale direzione, un nuovo promettente campo di applicazione è costituito dalla biologia evoluzionistica di tipo darwiniano: la IA può essere istruita per evolversi da sola, cioè senza l’apporto umano.

La teoria evoluzionistica della selezione naturale, elaborata all’inizio della seconda metà del ‘800 da Charles Darwin, potrebbe così rappresentare un punto di partenza per la realizzazione di IA più avanzate, capaci di evolversi da sole per arrivare a risultati finora mai raggiunti.

In generale, è noto come la costruzione di un algoritmo richieda parecchio tempo. Consideriamo, ad esempio, un tipo di machine learning usato per lo sviluppo di tecniche di guida autonoma. Le reti neurali imitano in maniera elementare la struttura del cervello umano e imparano cosa fare tramite i dati “di allenamento”, rafforzando così le connessioni tra i loro neuroni artificiali. Di regola si procede progettando “sotto-reti” neurali dedicate a compiti specifici – per esempio comprendere la segnaletica stradale – che poi vengono connesse insieme per collaborare evitando – è il caso di dire – incidenti di percorso. Ma la strada è lunga…

Uno scienziato informatico di Google, Quoc V. Le, insieme ad altri ricercatori, ha provato a individuare una strada più rapida ed efficiente per realizzare gli algoritmi. Il programma di IA chiamato AutoML-Zero – con zero “input umani” – è riuscito a replicare decenni di ricerche sulla IA in soli pochi giorni (Gent, 2020). Grazie a meccanismi di variazione, eredità e selezione ispirati all’evoluzione biologica, l’AutoML-Zero di Le è in grado di automigliorarsi, replicandosi di generazione in generazione in versioni sempre più adatte a svolgere un determinato compito che gli è stato assegnato – ad esempio, distinguere un gatto da un camion (Sabato, 2020). Il programma AutoML-Zero seleziona gli algoritmi attraverso un’approssimazione del processo evolutivo in natura. In termini darwiniani, sopravvivono gli algoritmi capaci di adattarsi meglio all’ambiente esterno grazie a progressive mutazioni (“survival of the fittest”). L’ambiente è complesso, incerto, carente di informazioni, evolve nel tempo, è soggetto a shock, è subordinato al complesso delle condizioni geoclimatiche, dipende dall’insieme degli altri esseri con cui ognuno entra in contatto e interagisce. Le mutazioni genetiche hanno messo in condizione gli esseri umani – e più in generale tutte le forme di vita – di sopravvivere a shock come siccità, carestie, malattie e a calamità di varia natura, vale a dire a quanto Darwin chiamava “condizioni di vita”. Un esempio attualissimo è offerto dallo studio (2020) condotto dal Cnr, insieme ad altre istituzioni, e pubblicato su Scienze Advances. Esso mostra come i nostri organismi abbiano evoluto i processi cellulari innati di immunizzazione in grado di “hackerare” il codice genetico del Sars-CoV-2 attraverso un particolare processo noto come “editing” dell’RNA (in chimica esso è l’acronimo dell’acido ribonucleico, un enzima implicato in vari ruoli biologici di codifica, decodifica, regolazione e espressione dei geni. In biologia molecolare, l’editing costituisce un insieme di processi molecolari che danno come risultato una modificazione chimica dell’RNA, adattandolo a nuovi sopravvenuti eventi). Dunque, l’essere vivente cerca di adattarsi ai mutamenti dell’ambiente esterno attraverso un lungo e faticoso processo di “groping”, “trial and errors” che hanno come risultato mutazioni genetiche. Quando l’idea di Darwin viene trasposta nel campo dell’IA, la “fitness” non si applica più all’essere biologico, bensì all’algoritmo.

L’idea è quella di far competere fra loro una popolazione di algoritmi generati casualmente e individuare il migliore in ciscun ciclo o iterazione o “fase evolutiva”.

In particolare, attraverso operazioni matematiche molto semplici, il software inizia creando una popolazione di 100 algoritmi candidati a evolversi. AutoML-Zero li verifica facendo loro compiere attività elementari, come ad esempio riconoscere se una certa immagine corrisponde a quella di un topo o di un camion (Gent, 2020). Tale processo si dipana per cicli, analoghi alle varie fasi del processo evolutivo biologico o, in termini di Teoria dei Giochi, ai vari rounds di un gioco ripetuto. I primi test basati sul riconoscimento di alcune immagini sembrano confermare l’effettivo funzionamento del nuovo sistema.

Per ogni ciclo, il programma AutoML-Zero confronta le prestazioni di questi algoritimi rispetto alla performance di algoritmi progettati a mano e seleziona all’interno del primo gruppo quelli più performanti. Attraverso mutazioni aleatorie (random), il programma realizza delle copie di questi ultimi. I nuovi algoritmi che scaturiscono da tale processo – vale a dire quelli appartenenti alla generazione successiva – vanno ad alimentare la popolazione di partenza, a scapito degli algoritmi più obsoleti di detta popolazione. Tale processo iterativo continua quindi con un nuovo ciclo – proprio come in un processo evolutivo di società – che seguirà il medesimo pattern e con una popolazione che muta continuamente. I programmi di IA migliorano così di generazione in generazione senza istruzioni esterne umane. Alla lunga l’algoritmo autogenerantisi può diventare il migliore disponibile, superando quelli progettati a mano. Tale successione di generazioni evolve quindi verso una soluzione ottima del problema assegnato.

Lo stesso Le ammette che oggi questo approccio si comporta in modo incerto su una serie di tecniche di machine learning classiche. Le soluzioni che egli individua sono semplici rispetto agli algoritmi più avanzati già esistenti, ma il suo studio (Real et al., 2020, presente sull’archivio on line arXiv, che raccoglie gli studi in attesa di approvazione e pubblicazione da parte della comunità scientifica) intende essere una dimostrazione concettuale, prodromica a nuove IA più complesse che possono svilupparsi lungo due direzioni: la prima è quella di focalizzarsi su problemi più piccoli invece che su un intero algoritmo, la seconda è quella di ampliare la batteria di operazioni matematiche e di dedicare più risorse di calcolo per AutoML-Zero.

E’ una direzione che ci interessa molto. E’ la scoperta di qualcosa di davvero fondamentale che richiederebbe all’uomo molto tempo anche solo per immaginarlo”, suggerisce Le. “Il nostro obiettivo finale è quello di sviluppare effettivamente nuovi concetti di apprendimento automatico che nemmeno i ricercatori potrebbero trovare (Gent, 2020).

I potenziali risultati al momento sono difficili da prevedere, ma senz’altro si può affermare che siamo spettatori di rapidi avanzamenti che sollevano riflessioni etiche, filosofiche e antropologiche sempre più pressanti. Si ravvede infatti un trade-off: i progressi sull’“human-in-the-loop”, con la scomparsa dell’uomo nel processo, se possono costituire un indicatore di un guadagno in termini di efficienza della IA, potrebbero sfuggire di mano, surclassando le nostre stesse capacità intellettive e con effetti imprevedibili. E quanto tempo occorrerà per arrivare a tutto ciò? Al di là delle controversie attuali e future su questo tema essenziale, ancora più urgente è la risposta all’interrogativo: se apparisse una IA superumana, sarebbe una buona cosa? Di qui una analisi affascinante dei possibili scenari: una superintelligenza che conviva con gli umani; ovvero che li sostituisca del tutto (Tegmark, 2018). A quali interazioni e dinamiche porterà tale convivenza? Anche in questo caso, attraverso un processo iterativo di adattamento del fattore umano, l’evoluzione darwiniana potrà dare una risposta.

 

Il cervello adolescente: tra fragilità e potenzialità

Il sistema di ricompensa degli adolescenti è meno attivo, quindi hanno bisogno di esperienze più forti perché si sentano pienamente gratificati, questo li predispone ad adottare comportamenti a rischio.

Pierantoni Serena – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

I tratti distintivi dell’adolescenza, che possono essere un dono e allo stesso tempo una sfida, sono proprio ciò di cui abbiamo bisogno da adulti per mantenere la carica vitale nella nostra esistenza. (D. Siegel)

Introduzione

L’adolescenza è quel periodo lungo, complesso e, allo stesso tempo, straordinario, di transizione dall’infanzia all’età adulta, caratterizzato da numerosi cambiamenti in diversi ambiti.

Questa fase di vita è ancora circondata da miti che la descrivono come un periodo oscuro e incontrollabile a causa degli ormoni impazziti e dell’assenza di maturità.

Gli adolescenti, è vero, spesso sono lunatici, si comportano in modo bizzarro, apparentemente inadeguato, tendono ad adottare comportamenti rischiosi e si lasciano trascinare dal gruppo dei pari. Le scienze psicologiche e sociali hanno ricercato le cause di questi comportamenti nei cambiamenti ormonali e nel contesto culturale; per molti anni l’adolescente è stato descritto come sofferente, violento, antisociale, sollecitato dai media e dalla televisione.

Oggi è possibile dare al fenomeno dell’adolescenza una spiegazione più complessa e completa, che tiene conto anche delle modifiche che avvengono a livello cerebrale. Le recenti acquisizioni in ambito neurofisiologico e neuroscientifico sullo sviluppo cerebrale mostrano che alla base dei comportamenti tipici dell’adolescenza vi sono precise ragioni neurologiche.

Considerare questi aspetti della crescita adolescenziale consente di non stigmatizzare gli adolescenti, di costruire con essi relazioni efficaci e di investire sui loro cervelli, dal momento che in questa fase sono particolarmente recettivi e plastici.

Solo avventurandosi alla scoperta del cervello è dunque possibile comprendere a pieno le ragioni dei comportamenti adolescenziali e riuscire a leggerli in modo più funzionale.

Caratteristiche mentali dell’adolescente

I cambiamenti cerebrali determinano la comparsa di quattro caratteristiche mentali: esplorazione creativa, maggiore intensità emotiva, coinvolgimento sociale, ricerca di novità.

  • Esplorazione creativa: in adolescenza la conquista del pensiero formale consente al ragazzo di ragionare in modo astratto, queste nuove capacità di pensiero e di ragionamento permettono agli adolescenti di essere innovativi e creativi.
  • Maggiore intensità emotiva: contemporaneamente si assiste all’intensificarsi di emozioni che regalano all’adolescente la vitalità tipica di questa fascia di età, ma che può mantenersi per tutta la vita.
  • Coinvolgimento sociale: i giovani si sperimentano in abilità e relazioni. Il gruppo dei pari diventa fondamentale: l’adolescente crea la sua identità tramite l’altro che diventa uno specchio in cui rivedere le proprie paure e perplessità. I legami che si creano a questa età potrebbero diventare una rete di sostegno per tutto il corso di vita, allo stesso tempo però, il ragazzo potrebbe assumere decisioni e comportamenti pericolosi solo per ottenere l’approvazione degli altri.
  • Ricerca di novità: in adolescenza inoltre, diventa forte la spinta verso la gratificazione, quindi verso la scoperta di nuove esperienze che non escludono anche comportamenti a rischio.

Ciascuna di queste caratteristiche presenta aspetti positivi e aspetti negativi e può comportare rischi o benefici nella vita dell’adolescente.

Modifiche neurologiche e comportamenti adolescenziali

Pruning, Mielinizzazione e Neuroplasticità

Durante l’adolescenza il cervello si prepara ad una profonda rivoluzione. Si verificano modifiche strutturali e funzionali a carico di aree cerebrali corticali e sottocorticali tramite due fenomeni: pruning sinaptico o potatura sinaptica e mielinizzazione. Questi processi migliorano l’efficienza di elaborazione delle informazioni e la velocità di comunicazione dei neuroni.

L’essere umano adulto ha circa 85 miliardi di neuroni nel suo cervello, queste cellule si formano e si disfano continuamente, così come le cosiddette sinapsi, ovvero le connessioni tra di esse. Dalla nascita in poi la materia grigia e il volume cerebrale aumentano raggiungendo un picco di densità alla fine dell’infanzia. Il cervello in questa fase è ricco di neuroni e di sinapsi, che però sono disordinate e in eccesso rispetto a quanto serva veramente. Per mantenere la rete cerebrale organizzata ed efficiente, a partire dalla preadolescenza fino ai vent’anni inizia un processo detto pruning o potatura sinaptica che rimuove, entro la fine dell’adolescenza, il 50% delle sinapsi che si son formate durante l’infanzia, lasciando le connessioni più importanti ed eliminando quelle che non sembrano più necessarie. Il cervello reagisce al modo in cui focalizziamo l’attenzione sulle attività che svolgiamo, selezionando le sinapsi che utilizziamo maggiormente. Più i circuiti vengono usati, quindi attivati, più si rafforzeranno, meno saranno usati e maggiori saranno le probabilità che vengano eliminati in adolescenza. Il risultato è che tra i 20 e i 25 anni il volume della materia grigia è diminuito, il numero delle sinapsi è quasi dimezzato, ma esse sono più robuste, ordinate e quindi funzionali.

Sembrerebbe una contraddizione che proprio nel momento in cui la persona ha bisogno del massimo della sua potenza cerebrale, si trovi a subire una riduzione così drastica delle connessioni nervose.

In realtà è un fenomeno che serve a migliorare l’efficienza, il trambusto che si crea nel cervello dell’adolescente è finalizzato al passaggio da un cervello con molti neuroni poco connessi, ad uno con meno neuroni, integrati in circuiti ben collegati. È un po’ quello che succede quando si pota un rosaio, vengono tagliati i rami più deboli, così quelli più importanti possono crescere più forti.

Parallelamente, nel cervello dell’adolescente si completa lo sviluppo della sostanza bianca, formata da fibre che collegano le aree del cervello e che si arricchiscono di mielina.

La mielina è una guaina isolante che ricopre gli assoni (vie di comunicazione) dei neuroni e che migliora l’efficienza della conduttività neurale rendendo la trasmissione dei messaggi più rapida. Durante l’adolescenza la quantità di mielina quasi raddoppia in alcune regioni cerebrali rendendo ancora più rapida la propagazione dei messaggi nervosi, come un treno ad alta velocità. Questi processi che coinvolgono la sostanza grigia e la sostanza bianca permettono un incremento cognitivo rapido. Queste conoscenze hanno ripercussioni importanti sull’educazione, la prevenzione e l’intervento.

In questo periodo di vita dunque, il cervello è sottoposto ad un lavoro profondo di ristrutturazione che lo rende particolarmente adattabile e malleabile, per questo l’adolescenza viene definita seconda finestra di opportunità. Si tratta di un momento dello sviluppo in cui il cervello è massimamente plastico, pronto a ricevere stimoli e a rispondere in modo ottimale.

Gli adolescenti hanno un’opportunità fantastica per imparare e dovrebbe essere indispensabile per loro frequentare la scuola secondaria in modo da poter sfruttare a pieno le potenzialità del cervello.

Allo stesso tempo e per gli stessi meccanismi di sviluppo cerebrale, il cervello adolescente è più fragile e vulnerabile. L’esposizione a fattori traumatici o tossici può facilmente avere effetti negativi in questa fase di vita. Alcuni studi mostrano, ad esempio, un assottigliamento della corteccia cerebrale tra gli adolescenti che abusano di alcol. Un dato che potrebbe indicare un pruning non favorevole o un’inibizione della moltiplicazione cellulare.

Corteccia Prefrontale e Sistema Limbico

Le diverse parti del cervello umano hanno differenti ritmi di sviluppo durante la crescita. La corteccia prefrontale e in particolare la dorsolaterale è l’ultima area corticale a raggiungere lo spessore definitivo, intorno ai 30 anni.

Il lobo frontale è la porzione più anteriore del cervello, è molto più grande nell’uomo rispetto alle altre specie e si occupa di una serie di funzioni cognitive di alto livello, le funzioni esecutive: consente di ragionare in modo critico e con giudizio, controllare gli impulsi e inibire atteggiamenti inappropriati, pianificare gli eventi, prendere decisioni ponderate, definire priorità e organizzare i pensieri, comprendere le intenzioni e il punto di vista altrui. Tutte capacità che appaiono carenti negli adolescenti.

Anche le competenze sociali si affinano in adolescenza. Circuiti specifici della corteccia prefrontale sottendono all’empatia, ovvero la capacità di sentire e riconoscere le emozioni altrui, che permette di predire il comportamento dell’altro e tenerne conto nella relazione interpersonale. Allo stesso modo, in via di sviluppo è anche l’abilità di mettersi nei panni dell’altro e considerare la prospettiva altrui. Par tali motivi, gli adolescenti hanno difficoltà a prendere decisioni basandosi sulle emozioni altrui e considerando punti di vista diversi dai loro. In sostanza l’ultima parte del cervello a maturare è quella coinvolta in quelle competenze considerate più “mature e razionali” utili in particolare in situazioni nuove nelle quali l’utilizzo di comportamenti e abilità di routine non è più sufficiente.

Di contro, nelle aree limbiche si verifica una maggiore attività. Il sistema limbico comprende una serie di strutture sottocorticali, tra cui l’amigdala, situate nella parte più profonda e antica del telencefalo ed è responsabile della regolazione emotiva e delle reazioni primitive ed istintuali. Queste evidenze spiegano gli scoppi d’ira, i comportamenti impulsivi e le montagne russe emotive da cui sono pervasi gli adolescenti.

Nella filosofia platonica veniva già descritta la complessa relazione tra emozione e ragione. Platone paragonava l’anima ad un carro trainato da due cavalli: uno bianco che simboleggiava la parte spirituale, e uno nero, che rappresentava la parte più corporea e legata ai sensi. La ragione è simboleggiata dall’auriga che ha il compito di guidare la biga alata trovando il modo di mantenere l’equilibrio tra le spinte contrapposte dei due cavalli. Ma durante l’adolescenza lo sviluppo cerebrale non è ancora completo e non c’è una comunicazione efficacie tra le varie regioni cerebrali, che possa consentire di prendere decisioni ponderando emozione e ragione.

Di conseguenza accade che le emozioni possano emergere in maniera rapida e intensa, senza che le funzioni esecutive (corteccia prefrontale), ancora in via di sviluppo, riescano a “frenare” e fungere da regolatori. Ecco perché gli adolescenti sembrano essere governati dall’azione più che dalla riflessione e dall’emozione più che dalla ragione.

Alla luce di ciò, l’adulto potrebbe rimandare al ragazzo feedback onesti ma rispettosi, aiutarlo ad esaminare ciò che ha fatto per migliorare la volta successiva, ragionare insieme a lui sulle possibili alternative di risoluzione di un problema, contribuendo allo sviluppo e all’evoluzione delle abilità frontali.

L’adulto dovrebbe aiutare il ragazzo a guidare la biga alata, finché non sarà in grado di farlo da solo, quando le aree prefrontali e limbiche saranno ben integrate e coordinate tra loro. Non sempre questo processo di integrazione va a buon fine, a volte porta alla luce vulnerabilità dell’individuo che fino a quel momento sono state latenti. La mancanza di integrazione del cervello ha come naturale conseguenza una riduzione della flessibilità mentale e della resilienza, ossia della capacità di resistere e riprendersi da condizioni di stress e difficoltà.

Dopamina e sistema di ricompensa

Il sistema limbico è inoltre connesso con il Nucleo Accumbens e riceve proiezioni dopaminergiche dal mesencefalo, partecipando quindi al sistema di ricompensa.

Il sistema di ricompensa dal punto di vista anatomo-funzionale è una struttura complessa che si origina nei nuclei profondi dell’encefalo ed è distribuita nei centri cerebrali preposti al comportamento motivazionale ed emozionale.

Ogni qual volta si prova gratificazione, sia di tipo fisico che di tipo psicologico, il sistema di ricompensa rilascia dopamina, un neurotrasmettitore molto potente che funge da rinforzo.

Il circuito di ricompensa spinge ad adottare e ripetere quei comportamenti che hanno dato piacere e innesca il noto meccanismo della dipendenza.

Durante l’adolescenza il livello di base della dopamina è inferiore a quello caratteristico di altre età mentre il suo rilascio in relazione alle esperienze compiute è maggiore. Gli adolescenti, pertanto, si sentono facilmente “annoiati” e cercano esperienze nuove, stimolanti, eccitanti, spesso connesse a comportamenti a rischio e capaci di dare forti sensazioni.

Una situazione pericolosa o proibita è altamente desiderabile per gli adolescenti, perché la gratificazione ad essa connessa viene percepita come più alta. È questo il motivo per cui i ragazzi, specialmente prima dei 16 anni, adottano condotte a rischio e comportamenti insensati. Contrariamente a ciò che si pensa, i ragazzi conoscono i rischi ma hanno bisogno che gli vengano ricordate le conseguenze di certi comportamenti perché non riescono a resistere davanti ad un comportamento che può condurre ad una forte gratificazione.

Ciò che muove il comportamento dei ragazzi non è solo l’aspettativa di ricompensa ma anche l’immediatezza, sono guidati dalla ricerca di piacere ma anche dall’impulsività.

Gli studi conosciuti come Marshmallow Test dimostrano come il sistema di auto-regolazione si sviluppi lentamente dall’infanzia all’età adulta. Da questi studi si evince come tra una gratificazione piccola e immediata, ed una più grande ma posticipata, i bambini scelgono quasi certamente la prima, mentre gli adolescenti scelgono sicuramente la prima.

Gli adolescenti quindi non decidono in base a ciò che è giusto, ma in base a ciò che è più gratificante nell’immediato.

L’approvazione del gruppo dei pari è ovviamente quanto di più soddisfacente ci possa essere, per questo le decisioni più pericolose vengono assunte in presenza di coetanei (effetto coetanei).

La sola presenza dei coetanei provoca scariche di dopamina paragonabili a quelle procurate da piaceri più concreti come sesso, alcol e droga.

Perciò quando l’adolescente intraprende azioni pericolose sa che sta superando il limite, ma tenta comunque per ottenere il plauso dei coetanei che ha un valore nettamente superiore al rischio.

Gli adolescenti sono dunque predisposti all’eccitazione del rischio, sono particolarmente emotivi, maggiormente portati all’aggressività e all’impulsività, con un sistema frenante non ancora sviluppato. La corteccia prefrontale permette di elaborare un giudizio e prendere una decisione valutando il rapporto costi/benefici, ma nell’adolescente quest’area cerebrale è ancora in fase di costruzione, per questo in loro prevale l’azione alla riflessione.

Quando capita che il ragazzo dica “non ci avevo pensato”, non mente, frequentemente non ci ha pensato davvero!

L’adolescente ha la sensazione di dominare il mondo; il piacere di rischiare, la guida pericolosa, le frequentazioni a rischio, l’assunzione di sostanze stupefacenti sono comportamenti estremamente attraenti. Una droga, assunta per pura curiosità, per il bisogno di riconoscimento, per impulsività, per pura ricerca di sensazioni emotivamente forti, induce nel cervello dell’adolescente un rilascio di dopamina in quantità notevoli. A causa dei processi descritti e della neuroplasticità di cui è dotato, il cervello dell’adolescente è molto fragile e vulnerabile e questo lo predispone allo sviluppo di dipendenze. Si può quasi parlare di paradosso, il sistema di ricompensa degli adolescenti di base è meno attivo, quindi hanno bisogno di esperienze più forti perché si sentano pienamente gratificati, questo li predispone ad adottare comportamenti a rischio che consentono un rilascio di dopamina maggiore. Il rilascio di dopamina funge però da potente rinforzo e può determinare il bisogno irrefrenabile di mettere di nuovo in atto il comportamento pericoloso.

È rassicurante sapere che con la maturazione della corteccia prefrontale si sviluppa una nuova competenza, la capacità di controllo cognitivo che permette di controbilanciare il sistema di ricompensa e crea uno spazio mentale di riflessione tra impulso e azione.

Conclusioni

Grazie anche al contributo delle neuroscienze il fenomeno dell’adolescenza sta diventando più comprensibile.

I processi di maturazione cerebrale fanno sì che nel cervello adolescente prenda il sopravvento il sistema limbico, responsabile dell’elaborazione della gratificazione, del piacere e degli stati emotivi, a fronte di una corteccia prefrontale (il sistema esecutivo, di controllo e regolazione) ancora immatura che si trova ad affrontare, proprio in adolescenza, un processo di profonda ristrutturazione. A causa dei processi di pruning sinaptico e mielinizzazione, l’adolescente ha enormi potenzialità e la neuroplasticità di cui è dotato il suo cervello gli permette di imparare ed essere creativo ai massimi livelli. Allo stesso tempo, egli è come se vivesse in una sorta di turbine emotivo, in cui nulla è relativo e tutto è percepito in modo assoluto. Qualsiasi situazione vissuta come un pericolo, uno shock o un forte stress, determina reazioni emotive istintive che bypassano la valutazione razionale della situazione. La rabbia è di tipo esplosivo, la tristezza diventa disperazione, la gioia è euforia pura.

Il processo decisionale degli adolescenti è guidato dalla ricerca di gratificazione immediata, senza capacità di valutare alternative e prevedere conseguenze future.

È come se gli adolescenti si trovassero a condurre una macchina emotiva potente e veloce con impianto frenante piccolo e con i pezzi non uniti tra loro.

Questo spiega la loro elevata reattività emozionale, l’impulsività, la sottovalutazione dei rischi, la ricerca del piacere a breve termine e la vulnerabilità alle sostanze psicoattive.

Per il fatto che il cervello dell’adolescente è ancora in progress, le esperienze che fa lasciano conseguenze: l’adolescente va quindi responsabilizzato. Gli errori che commette, da una parte, non vanno eccessivamente colpevolizzati perché necessari al raggiungimento della maturità, dall’altra parte, vanno interpretati seriamente. Se un adolescente si espone a dei rischi, deve sapere che non si tratta di un’avventura, ma di un evento che agisce sul su cervello per il resto della sua vita.

L’immaturità dei controlli cognitivi e l’ipersensibilità per le ricompense costituiscono una vulnerabilità verso i comportamenti rischiosi; tuttavia, questi due tratti, possono rappresentare potenti leve per agire sullo sviluppo delle capacità di controllo del comportamento.

In tale direzione, nei contesti educativi e sociali, l’uso intelligente delle ricompense può prevenire la ricerca del piacere offerto dalle sostanze e dagli altri comportamenti a rischio e può promuovere la capacità di controllo e di regolazione del rapporto con le sostanze stesse. Bisognerebbe lavorare su questa capacità, piuttosto che investire in via esclusiva sull’ideale della distanza dalle sostanze psicoattive, del rifiuto all’uso.

Lo sport può avere a questo proposito un ruolo fondamentale, fonte di piacere a basso costo, è capace di attivare il sistema di ricompensa cerebrale, sviluppare le funzioni cognitive ed esecutive, ma anche coinvolgere in relazioni sociali con i pari in un contesto meno rigido di quello scolastico: è in grado di offrire gli elementi che più concorrono ad incrementare le capacità adattive e di autoregolazione.

Comprendere le cause, anche cerebrali, del fatto che l’adolescente improvvisamente inizi a comportarsi in maniera diversa rispetto al passato, aiuta a non spaventarsi ed evita di adottare interventi autoritari che rinforzano la ribellione.

Non solo, consente anche di considerare gli aspetti positivi dell’adolescente che, pieno di energia e dotato di un cervello così plastico, va assolutamente incoraggiato a ricercare la genialità, la creatività, anche l’impulsività, in quanto fonte di esperienza, guidandolo e restandogli vicini senza opporsi.

Strategie di coping e sintomi somatici

Pochi sono gli studi che hanno esaminato la relazione tra strategie di coping e sintomi somatici. In generale, dalla letteratura emerge che il coping ricopre un ruolo importante nell’influenzare i comportamenti legati alla salute e gli esiti di disturbi con sintomi psicologici e fisici come i disturbi somatoformi (Rasmussen et al. 2010).

 

La ricerca ha mostrato che i sintomi somatici non spiegabili dal punto di vista medico sono associati ad alti livelli di disagio psicologico, povertà, bassa scolarizzazione, difficoltà sul piano interpersonale, disoccupazione ed elevati costi sanitari a causa delle frequenti visite mediche (Shaw e Creed, 1991; Burton, 2003; Terluin et al. 2001; Kroenke, 2003; Mai, 2004; Barsky et al. 2005; So, 2008; Grabe et al. 2009).

Diversi autori sostengono che alcune strategie di coping possono favorire il mantenimento o il peggioramento dei sintomi non spiegabili dal punto di vista medico (De Gucht e Maes 2006; Panayiotou et al. 2014). Il modo in cui una persona fronteggia le difficoltà quotidiane potrebbe innescare il manifestarsi di sintomi somatici e psicologici, e successivamente, influenzarne la durata e la gravità (Nezu et al. 2001; SeiffgeKrenke, 2000).

Uno studio condotto da Beasley et al. (2003) ha riportato che l’utilizzo di strategie di coping emotion focused, come il distanziamento o il rifiuto, che mirano ad evitare le emozioni e i pensieri sgradevoli è associato con livelli più alti di sintomi somatici e sofferenza.

Alcuni studi (Rachman, 2012; Van De Heuvel et al. 2014) hanno sottolineato la similarità tra i disturbi caratterizzati da sintomi somatici senza una spiegazione esauriente dal punto di vista medico e i disturbi d’ansia, enfatizzando il ruolo della ricerca di rassicurazioni e dell’evitamento come fattori di mantenimento dei sintomi. Kashdan et al. (2006) hanno identificato il coping centrato sull’evitamento come un fattore generale di vulnerabilità psicologica chiamata evitamento esperienziale. Questo è risultato essere di impedimento al miglioramento del benessere psicologico in soggetti con disturbi depressivi, ansiosi, e di somatizzazione (Hayes et al. 2006; Tull et al. 2004). Dalla ricerca è emerso che l’ansia per la salute e le preoccupazioni ipocondriache correlano positivamente con l’evitamento cognitivo (Fergus e Valentiner, 2010), il rimuginio e la ruminazione, la catastrofizzazione (Bailey e Wells, 2015; Görgen et al. 2013; Marcus et al. 2008), i sensi di colpa e l’inibizione dell’espressione delle emozioni (Görgen et al. 2013; Hall et al. 2011; Rasmussen et al. 2010): tutti fenomeni orientati alla riduzione delle emozioni negative, piuttosto che a cercare di agire per modificare la causa dello stress (Penley et al. 2002).

Le strategie di coping disengagement possono ridurre il disagio nel breve termine, ma si traducono in un numero maggiore di sintomi psicologici, compromissione del funzionamento e minore qualità di vita nel lungo termine (Eftekhari et al. 2009; Gross e John, 2003; Saxena et al. 2011; Sempertegui et al. 2016). Modalità di coping engagement, che mirano invece ad affrontare la situazione stressante, come il problem solving e la rivalutazione cognitiva, sono associate ad una migliore qualità di vita, benessere e minore intensità della sintomatologia sia nei disturbi d’ansia sia nei soggetti con sintomi di somatizzazione (Fergus e Valentiner, 2010; Görgen et al. 2013; Sempertegui et al. 2016).

Circa la metà dei pazienti con disturbo depressivo maggiore presenta sintomi somatici e disturbi somatoformi (Ohayon, 2004). La letteratura ha mostrato che i fenomeni depressivi possono intensificare i sintomi somatici ma anche che questi ultimi possono portare alla depressione (Hotopf et al. 1998; Magni et al. 1994; Ohayon, 2004; Schatzberg, 2004). I soggetti depressi utilizzano frequentemente strategie di coping come la ruminazione o incolpare sé stessi per la situazione stressante, che possono mantenere o peggiorare i sintomi somatici non spiegabili dal punto di vista medico (Garnefski et al. 2001; 2004; Kraaij et al. 2002; Ravindran et al. 2002). In un altro studio è emerso che una minor tendenza alla ruminazione e un maggiore senso di controllo sulla situazione sono associati a livelli bassi di sintomatologia somatica e depressiva (Jensen et al. 2001; 2006). Contrariamente a queste ricerche, Ruiter et al. (2008) sostengono che, sebbene sia evidente la relazione tra sintomi depressivi e somatici, nei pazienti depressi la messa in atto di strategie di coping problem e emotion focused non sembra avere nessuna influenza sui sintomi somatici.

Il costrutto di flessibilità psicologica ha origine dalla terapia ACT e descrive l’abilità di vivere coscientemente il momento presente, con consapevolezza e apertura e di agire guidati dai propri valori (Hayes et al. 2012; Kashdan e Rottenberg, 2010). Studi recenti hanno suggerito che anche la flessibilità psicologica, che comprende la capacità di usare specifiche strategie di coping in relazione alla situazione, è benefica per il benessere (Bonanno et al. 2004; Karekla e Panayiotou, 2011; Panayiotou et al. 2014; Thompson, 1994). La flessibilità nelle risposte di coping infatti è associata ad un funzionamento più adattivo, migliore salute mentale e fisica e maggiore soddisfazione con la propria vita (Eftekhari et al. 2009; Haga et al. 2009; Hu et al. 2014) ed a più bassi livelli di emozioni negative, ansia e sintomi somatici (Masuda e Tully, 2012).

Diverse ricerche hanno approfondito la relazione tra coping e sintomi non spiegabili dal punto di vista medico nei bambini in età scolare e negli adolescenti. Si ritiene che tra il 2 e il 4% di tutte le visite pediatriche riguardi la presenza di sintomi non spiegabili dal punto di vista medico (Campo e Reich, 1999). Questo comporta non solo elevati costi per la famiglia e per la sanità, ma può tradursi in procedure mediche non necessarie (Campo e Fritsch, 1994; Campo e Reich, 1999). Come per gli adulti, la presenza di sintomi somatici non spiegabili dal punto di vista medico è associata a compromissione del funzionamento e a sintomi ansiosi e depressivi (Garber et al. 1990; Walker e Greene, 1989). Evidenze empiriche suggeriscono che bambini e adolescenti con questi sintomi prediligono strategie di coping meno adattive e più centrate sull’emozione rispetto a bambini con malattie organiche e a bambini sani (Aromaa et al. 2000; Bandell-Hoekstra et al. 2002; Rauste-von Wright et al. 1981; Rocha et al. 2003; Ruchkin et al. 2000; Thomsen et al. 2002; Walker et al. 1997). Esse includono diverse forme di disengagement coping, ruminazione riguardo al dolore, evitamento e reazioni di rabbia.

 

Psiconcologia: tra aspetti psicologici nel malato oncologico e richiesta di supporto

L’evento cancro coinvolge numerosi aspetti della vita della persona, a partire dal momento diagnostico ai successivi follow-up e sono numerose le ripercussioni psicologiche che si hanno sul paziente oncologico e sulla sua famiglia.

 

Assistiamo oggi alla crescente capacità di cronicizzazione delle malattie mortali grazie alle innovazioni farmacologiche che permettono al paziente di convivere con la malattia per molti anni (Taylor, 2014) ed assume un valore crescente il concetto di “qualità di vita”. Diventa sempre più importante conoscere ed identificare l’impatto e le ripercussioni emotive della malattia per assicurare un sostegno psicologico ed uno spazio di contenimento emotivo al paziente oncologico ed ai familiari (Moreno-Smith et al., 2010; Lim et al., 2013), in una cornice comunicativa efficace tra l’operatore sanitario ed il paziente (Stamataki et al., 2015).

L’evento cancro coinvolge numerosi aspetti della vita della persona, a partire dal momento diagnostico ai successivi follow-up ed sono numerose le ripercussioni psicologiche che si hanno sul paziente oncologico e sulla sua famiglia.

In uno studio longitudinale (Williams et al., 2016) è stato indagato l’impatto della diagnosi di cancro sull’aspetto psicologico del paziente, dividendo il campione in tre categorie: due anni prima della diagnosi, entro i due anni dalla diagnosi e i successivi quattro. La ricerca ha considerato variabili quali la qualità di vita, le difficoltà quotidiane, l’ansia e la depressione. Come si può immaginare, l’impatto della diagnosi ha comportato un maggior declino della salute percepita, maggiori difficoltà quotidiane riportate e punteggi di ansia e depressione considerevolmente superiori al gruppo di controllo.

Il punto cardine dello studio consiste nell’aver dimostrato che questi punteggi non tornano, sebbene si attenuino con il tempo, ai livelli pre-diagnosi, rimanendo significativamente più bassi rispetto ai soggetti sani; suggerendo che la patologia impatti sul funzionamento psico-fisico a lungo termine e confermando l’importanza di un sostegno psicologico che accompagni il paziente lungo l’evento malattia nelle sue fasi e nel follow-up.

In una ricerca del 2014 (Nikbakhsh et al.) è stato esaminato un campione  di 150 soggetti  con cancro ed è emerso come il 40% mostrasse livelli subclinici di depressione, mentre il 32% arrivasse a punteggi indicativi di depressione clinica. Per quanto concerne la percentuale di ansia, i relativi punteggi subclinici e clinici indagati con l’HADS (Hospital Depression Anxiety Scale) erano rispettivamente di 44% e 22%.

Mentre in uno studio del 2012 (Linden et al.) che ha coinvolto 10153 pazienti oncologici è stata altresì riportata una percentuale di depressione e ansia subclinica rispettivamente del 17% e 23%, raggiungendo livelli clinici nel 13% e 19% dei casi. Possiamo affermare quindi che

Continuous screening for anxiety and depression is recommended as a necessary approach for good cancer care; on the other hand, after diagnosis of clinically important psychological disorder, proper treatment interventions must be performed to improve the quality of life (Nikbakhsh et al., 2014).

Tali dati sembrano essere confermati anche in studi qualitativi, ad esempio attraverso intervista ermeneutica (Stamataki et al., 2015) sono state indagate quattro aree: area emozionale, effetti sulle relazioni, effetti funzionali e sistema di salute in pazienti con melanoma. Alcuni temi emersi sono l’incertezza per il futuro ed il sentimento di impotenza, derivante probabilmente dal percepirsi solo passivo nell’affrontare la malattia e non proattivo nella guarigione; l’immagine corporea alterata, data dall’esito cicatriziale dell’intervento di rimozione chirurgica del melanoma, che contribuirebbe a compromettere la percezione di integrità fisica ed estetica. Vi sono state ripercussioni sulle relazioni familiari, desiderio di non gravare sulla famiglia, di mantenere un’autonomia funzionale e di proteggere i parenti da paure connesse alla malattia e da sentimenti negativi. Sono stati riportati molti problemi funzionali come dolore, stanchezza e spossatezza che influiscono sul portare a termine il lavoro, sugli hobby, sulle attività quotidiane e sul partecipare alle relazioni sociali. È stato riportato come molto frequente il sentimento di riorganizzazione della propria vita intorno al sintomo.

Riassumendo, emerge evidente come l’evento cancro comporti un susseguirsi di emozioni che si ripercuotono sul soggetto stesso, sulla famiglia, sugli amici e sugli operatori sanitari, portando ad una reciproca influenza che riguarda sia il paziente sia l’ambiente a lui vicino.

Esistono fasi nella elaborazione della malattia oncologica?

Un contributo importante dato all’ambito psiconcologico è rappresentato dal lavoro pionieristico di Elizabeth Kluber-Ross (1969), l’autrice ha infatti descritto le cinque fasi che il paziente percorre nella malattia terminale. Le cinque fasi riportate rappresentano in maniera chiara le reazioni del paziente alla patologia e costituiscono un punto cardine nella realtà clinica poiché, anche se non è evidente che si susseguano in un ordine specifico, permettono di identificare i bisogni sottostanti del malato e di favorire un adeguato sostegno e intervento dove richiesto e opportuno. Le fasi riportate dall’autrice sono:

1) La negazione: questa fase è frequente nel momento della diagnosi e rappresenta un meccanismo di difesa attraverso il quale le persone cercano di proteggersi dagli effetti di una malattia. La persona può comportarsi come se la patologia non fosse grave o, nei casi più estremi, come se non fosse successo; il paziente può infatti negare di avere una malattia malgrado i risultati diagnostici. La negazione rappresenta una fase normale attraverso la quale il soggetto prende inizialmente distanza dalla possibile prospettiva della propria morte, tuttavia se persiste e si irrigidisce può necessitare di un intervento psicologico.

2) La rabbia: questa è la seconda reazione che il paziente può avere di fronte alla prospettiva della propria morte. La rabbia può essere espressa direttamente verso le persone che lo circondano come il personale sanitario, la famiglia ed amici, poiché in salute ad esempio, o indirettamente esprimendo amarezza. Si può frequentemente ironizzare sul fatto che molte cose non  si potranno più fare, sul deterioramento fisico o fare battute pungenti sul tema della morte. Non è infrequente che il paziente si chieda come mai sia capitato a lui e sperimenti un’invidia verso persone che siano in salute o che siano guarite da malattie. La rabbia può essere rivolta verso i familiari ed è importante che il clinico normalizzi e contestualizzi tali emozioni.

3) La trattativa: il paziente può abbandonare la rabbia in favore della trattativa, ovvero la convinzione che se eseguirà atti moralmente giusti ed etici avrà in cambio la salute. Eventi come doni di beneficenza o comportamenti insolitamente piacevoli possono essere un indizio di questa fase, perciò si ha una negoziazione tra buona condotta in cambio di buona salute.

4) La depressione: in questa fase il paziente riconosce che può fare ben poco per tenere sotto controllo la malattia. Questa realizzazione coincide con un brusco calo di umore, peggioramento dei sintomi, aumento della stanchezza, fatica e dolore. È difficile distinguere tra i sintomi derivanti dalla depressione e quelli derivanti dal trattamento farmacologico o dalla malattia, perciò è importante un’adeguata distinzione clinica tra le due. Kluber-Ross (1969) identifica questa fase come la fase del “lutto anticipatorio”, dove i pazienti “piangono” la prospettiva della loro morte, anticipano la perdita di relazioni e di attività future.

5) L’accettazione: ultima fase degli stadi riportati dalla Kluber-Ross, rappresenta una presa di coscienza globale della propria morte, dove il paziente può essere troppo stanco per essere arrabbiato e troppo abituato alla malattia per essere depresso.

L’accettazione non è detto che sia pacifica e comprenda uno stato di calma, ma alcuni pazienti usano questo tempo per fare preparativi, decidere come suddividere i loro beni e come passare il tempo rimasto con i familiari.

La malattia oncologica può essere considerata una malattia sistemica, coinvolgendo il paziente stesso, la famiglia e la rete sociale in cui è inserito

Le reazioni e le mutue influenze che si possono verificare all’interno della famiglia sono molteplici: può avvenire per esempio che con l’avanzare della malattia e il conseguente declino fisico e psicologico il paziente decida di allontanarsi dalla famiglia e dalle interazioni sociali (Taylor, 2014); può avvenire che il paziente scelga di non parlare della malattia con i familiari ed amici al fine di non gravare su di essi (Stamataki, 2015). La famiglia a sua volta può andare incontro a una riorganizzazione dei ruoli in funzione del malato, con ripercussioni sul lavoro o su altre relazioni familiari.

In una rassegna del 2010 (Stenberg et al.) su un campione di quasi 20.000 caregivers familiari, i principali problemi riportati da questi sono stati: depressione, stanchezza, ansia, incertezza, paura, difficoltà nel dormire, perdita di peso e appetito.

Come suggeriscono gli autori, la malattia di una persona sconvolge i ruoli familiari, i quali possono divenire iperprotettivi ed imporsi standard elevati nella cura del paziente, assumendo un’elevata responsabilità nei suoi confronti; se il lavoro non è flessibile possono prendere giorni di ferie o di malattia, riorganizzandosi in funzione del malato. Identificare i familiari “assistenti” che sono in difficoltà ed integrarli nel percorso di sostegno  psiconcologico rappresenta un punto fondamentale della presa in carico globale del paziente, in quanto supportare i familiari è di notevole importanza per il paziente e per un percorso di cura più efficace/efficiente e meno doloroso.

Verso la presa in carico del paziente oncologico…

Nonostante le evidenze a favore del sostegno sociale nel ridurre lo stress e nell’incrementare il benessere psicologico percepito (Kiecolt-Glaser et al., 2002), è bassa la percentuale di pazienti oncologici che ricercano supporto psicologico e vi è un numero elevato di operatori sanitari che sottostimano le difficoltà emotive riportate da questo target. È stata presa in esame (Merckaert et al., 2009) la percentuale di pazienti affetti da cancro che ricercavano supporto: su 381 pazienti, solo il 25% delle donne ha espresso il desiderio di un sostegno psicologico, mentre elevati livelli di ansia e depressione erano sperimentati dal 70% del campione femminile; per quanto riguarda il campione maschile il 10% ricercava aiuto su una percentuale di 50% che riportava punteggi significativi di ansia e depressione. La maggior richiesta da parte delle donne può essere spiegata dalla loro tendenza ad adottare un maggior coping attivo, volto alla ricerca di sostegno. Secondo gli autori la percentuale bassa di pazienti che richiedevano aiuto può essere spiegata dalla loro sottostima dei benefici derivanti dal supporto psicologico e dal considerare ansia e depressione come conseguenze normali dell’impatto del cancro e del trattamento.

A tal proposito, Butow e collaboratori (2002) hanno esaminato i pattern di risposta dei medici e le informazioni richieste in reparto oncologico ed è stato riportato che i medici rispondono maggiormente a richieste di informazioni sulla prognosi, trattamento etc., piuttosto che a richieste di supporto emotivo. Di contro i pazienti sono più propensi a richiedere informazioni di carattere medico, in quanto percepiscono i medici e operatori come “indaffarati” e non ritengono opportuno coinvolgerli nelle loro paure ed ansie. Come riportano gli autori

if doctors do not recognise and acknowledge patient’s cues for emotional support, patients will be discouraged from seeking that support during the consultation.

Si può quindi sostenere che il dare informazioni ritagliate sulla persona con sensibilità, il coinvolgere il paziente nel trattamento e nelle decisioni affinché abbia un ruolo attivo ed il riconoscere il disagio emotivo, siano fattori che contribuiscono alla riduzione della morbilità psicopatologica nei pazienti affetti da cancro (Butow et al., 2002).

Tuttavia, è doveroso specificare che la presenza di risposte emotive dipende anche dalla capacità dell’équipe di far emergere i “bisogni psicologici” e di rispondere con congruenza a questi, sottolineando la necessità di sensibilizzare il personale sanitario verso il distress esperito dal paziente oncologico; quindi l’importanza di porre attenzione a tali segnali ed interpretare i bisogni sottostanti alle reazioni emotive elicitate dalla malattia oncologica nelle sue diverse fasi, così come nelle fasi del trattamento. Lavorare in un’ottica biopsicosociale comprende dare il giusto peso alle variabili psicologiche, sociali e biologiche che, interagendo tra loro, possono contribuire nella riuscita di un trattamento; essendo in stretta interazione tali variabili è necessario sia informare il paziente circa gli aspetti medici della malattia, sia informare circa sentimenti, paure e angosce comuni nell’iter oncologico, assicurando l’opportunità di essere seguiti in un percorso psicologico. L’aspetto emotivo della malattia, soprattutto se mortale, è sempre più importante e degno di essere monitorato al fine di garantire un’accettabile e soddisfacente qualità di vita esperita dal paziente, ribadendo il fatto che al giorno d’oggi si assiste ad una sempre più frequente cronicizzazione della malattia (Matarazzo, 1980) ed a una esigenza crescente di convivenza con questa.

 

Pandemic Shaming: stigmatizzazione e ostilità nella storia delle epidemie

Un atteggiamento raccapricciante, ma purtroppo veritiero, è quello a cui si è assistito con l’espandersi sempre più massiccio del virus: offese e insulti diretti a sconosciuti o conoscenti, categorie di untori condannati al rogo, così come chiunque uscisse di casa, senza conoscerne le reali motivazioni. Parliamo di pandemic shaming, ma perché tutto questo?

 

Non posso controllare chi si ammala di Covid e come o quando torneremo alla normalità. Ma c’è una cosa che posso controllare: individuare chi non rispetta le misure preventive, smascherarlo e severamente ammonirlo”. È questo l’assunto alla base del pandemic shaming, fenomeno di attacco e calunnia mediatica e non, diffusosi dall’inizio della pandemia in Italia e nel mondo. Il pretesto attorno al quale si sviluppa la contestazione e che genera l’ira funesta è l’utilizzo adeguato di una delle primarie misure di protezione e prevenzione contro il virus: la mascherina.

Un atteggiamento raccapricciante, ma purtroppo veritiero e spesso attuato anche consapevolmente, è quello a cui si è assistito con l’espandersi sempre più massiccio del virus: offese e insulti diretti a sconosciuti o conoscenti, categorie di untori condannati al rogo, così come chiunque uscisse di casa, senza conoscerne le reali motivazioni. Ma perché tutto questo?

Dinanzi alla paura e alla rabbia di non riuscire a combattere o comprendere un nemico invisibile, inaspettato e subdolo come il Covid, la gente reagisce spesso esternalizzando i propri sentimenti e proiettando frustrazioni e paure sugli altri, denigrandoli e scagliandovisi contro. Per dirla con il ciclo del dolore di Kubler-Ross, siamo nella fase della rabbia, fronteggiando un dolore collettivo dato dal senso di perdita che il virus sta causando: perdita di sicurezza, certezze e incolumità. La rabbia, che è una manifestazione della paura, diventa strategia di coping svolgendo una funzione “empowering”, potenziante, che conferisce forza e controllo. Dinanzi alla paura e all’impotenza a cui il virus ci soggioga, la rabbia ci dà l’impressione, o l’illusione, di avere ancora un controllo sulla situazione. Scagliarsi sul primo malcapitato che non rispetta le norme ministeriali, in rete o dalla propria finestra che sia, diventa allora una malsana seppure efficace modalità per fronteggiare quel disagio interiore fatto di paura, incertezza e frustrazione che si sente dentro. Ciò si verifica anche perché, a seguito della negazione iniziale, quando ci si convince che il problema è reale e se ne realizza la gravità, scatta un secondo meccanismo: la ricerca del colpevole a cui attribuire la responsabilità di quanto avvenuto. Lo abbiamo visto in Italia con i diversi capri espiatori o meglio gli untori: prima i runners, dopo gli asintomatici, colpevoli di essere immuni alla malattia pur avendo inoculato e trasmesso il virus; poi i bambini, i più bisognosi di aria aperta ma i più abbandonati e trascurati da tutti, persino dai decreti; i lavoratori che non hanno mai smesso di lavorare per permettere al resto della popolazione di stare noi a casa; e infine il personale sanitario, lo stesso che mette a rischio ogni giorno la sua e dei propri cari vita, per salvarne di migliaia, ma è visto come un pericoloso untore per i condomini.

La stigmatizzazione nella storia delle epidemie

Eppure questo non è il primo episodio di stigma e colpevolizzazione nella storia delle pandemie. Ne fa un’analisi approfondita David Barnet, professore associato di medicina e salute pubblica a Penn, cultore della relazione tra stigma e pandemie. Storicamente le malattie si sono prestate all’associazione con gli stranieri e quindi con le stigmatizzazioni, si pensi al modo in cui apprendiamo di “malattie che vengono da altrove e che si stanno diffondendo da qualche altra parte”. Ne consegue che, nel momento in cui queste malattie toccano noi, ci si sente invasi, contagiati. È quello che successe con la peste di Milano, di cui narra Manzoni ne I Promessi Sposi e in cui si possono ritrovare tante analogie con il Covid. In primis, la diffusione del contagio, ora come allora, pochi contagi sparsi nel territorio, voci lontane di quel che avveniva altrove, corredate da un frequente sottovalutare o ridicolizzare dell’allarme. Poi la ricerca del paziente zero:

Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso

si legge nel romanzo a proposito della peste bubbonica. Di lì al rintracciare la categoria di untore su cui far ricadere la colpa, il passo è breve. Tuttavia, Barnet evidenzia come ciò che ha permesso che nella fase iniziale del Covid non si scatenasse il “panico da malattia” consiste proprio nei sintomi del virus, spesso sovrapponibili a quelli di una comune influenza. Qualcosa di familiare che si ripete ogni anno; non qualcosa di fatale, con sintomi drammatici e che viene da lontano in termini non solo geografici ma anche culturali. Come accade per l’Ebola o la Febbre Gialla.

Il fenomeno del pandemic shaming

In Italia, il pandemic shaming si è concentrato relativamente attorno al proprio quartiere anche a causa della ferrea circoscrizione attuata che limitava al minimo gli spostamenti: urla dal balcone per chi era in strada o non indossava la mascherina, foto e chiamate alla polizia e minacce intimidatorie affisse all’uscio di casa o nelle scale del palazzo. Gli attacchi mediatici non sono mancati, si pensi alle reazioni verso le onde migratorie che hanno attraversato la penisola prima del lockdown. Tuttavia, essendo poi stato un fermo totale e nazionale, non vi erano molti modi e soprattutto appigli per accanirsi con qualcuno. Ma come si sarà potuto reagire in assenza di un lockdown imposto, né di precise misure preventive e tutele messe in atto da parte del governo?

È il caso di UK e USA, dove l’ondata di pandemic shaming mediatico ha assunto dimensioni tanto virali quanto letali. Gli effetti sono stati borse di studio minacciate, profili social rimossi, minacce di morte moltiplicati per cento se non mille a partire dalla metà di marzo con conseguente impatto psicologico e sociale altissimo. È accaduto che, alla comunicazione del governo di attuare misure di autoisolamento per contenere la diffusione del virus, sia proliferata, soprattutto in America, una frenesia per la gogna pubblica verso tutti coloro che assumevano pratiche improprie a proteggersi e proteggere dal contagio. La gogna si è consumata prevalentemente sui social media e la piattaforma più utilizzata come patibolo è stata Twitter. Si pensi che lo slang “covidiot” decodificato dall’Urban Dictionary come “colui che ignora avvertimenti in materia di salute pubblica e sicurezza” ha visto una impennata di quasi 3000 tweet nell’arco di pochi giorni. Target principali erano i pendolari che tossivano sui mezzi pubblici, tutti coloro che hanno partecipato a party in spiaggia e parchi specie durante il Miami spring break e i venditori di rose. Premesso che l’accanimento alle manifestazioni pubbliche di grandi dimensioni è comprensibile visto che sono proprio gli assembramenti il veicolo primo di contagio del virus, questo non giustifica la modalità aggressiva.

Gli effetti della vergogna

Gli psicologi sono scesi in campo sulla tematica, disincentivando tali comportamenti ed evidenziandone non solo gli effetti lesivi, ma anche inefficaci e controproducenti. Non è, infatti, inducendo la vergogna nella gente che si indurrà un cambio di comportamento. I bersagliati della gogna pubblica non solo non cambieranno idea a seguito dell’ondata di scherno sociale ma anzi potrebbero opporvi resistenza. La vergogna, a differenza di quanto si possa pensare, non è produttiva bensì controproducente. La psicologa June Tangney assume come, quando si vergognano, le persone tendono a diventare molto difensive, ad incolpare gli altri piuttosto che assumersi la responsabilità e riflettere sul possibile comportamento da cambiare. Di fatto nel far vergognare pubblicamente le persone, ancor più se non vi è relazione alcuna con queste, si incoraggia l’effetto contrario. A chiunque sia deciso a cambiare il comportamento di qualcun altro, la Dott.ssa Lindsey, direttrice del Behavioral Health Services at Legacy Health, raccomanda di approcciarvisi con la stessa premura e preoccupazione che si avrebbe nel vedere qualcuno poco coperto in pieno inverno. Evitando di farlo vergognare del suo stato, ma piuttosto cercando di aiutarlo o fargli comprendere il rischio in cui incorre. Del resto non è puntando il dito contro o assumendo un atteggiamento inquisitorio che si aiuterà il povero sprovveduto a non patire più il freddo. È bene ricordare che, incrementare l’ostilità in un ambiente già di per sé fragile e instabile, non fa altro che promuovere la norma dell’aggressione e dell’ostilità come tecnica di coping per fronteggiare la situazione stessa. E ricorrere a tali modalità non porta mai a nulla di costruttivo e duraturo.

In conclusione, che se ne abbiano valide ragioni o meno e pur nel mezzo di una pandemia globale, sta nell’umiliare, attaccare gratuitamente e minacciare qualcuno per un comportamento ritenuto improprio, la vera vergogna. Atto non solo sbagliato ma persino inutile; la vergogna non giova né all’accusato, né al giudicante: il primo non modificherà quel comportamento e il secondo non verrà ricompensato nel nome del senso civico e comunitario, semmai fossero quelle le ragioni. Alla luce di quanto visto finora, verrebbe piuttosto da pensare che non sia il senso di responsabilità e protezione verso la comunità a motivare tali reazioni, quanto il bisogno di avere un bersaglio contro cui scagliarsi e su cui riversare le proprie paure e frustrazioni. Il sentirsi autorizzati e legittimati ad odiare, e ancor peggio avere la serenità di esserne assolti, come del resto avveniva anche prima del Covid19.

 

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