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Il tatuarsi aumenta l’autostima e la soddisfazione per il proprio corpo?

I tatuaggi si possono definire come un mezzo di comunicazione non verbale utilizzato dal soggetto per inviare informazioni su di Sé in modo indiretto ed in grado di dare forma ad un’immagine personale ideale. 

 

La diffusione dei tattoo è un fenomeno ampiamente diffuso all’interno della società occidentale e spinge gli individui a scegliere di tatuarsi immagini, frasi, volti e paesaggi, ritenuti da loro significativi, nell’intento di apparire alla moda, sicuri di sé, unici ed interessanti (Armstrong et al., 2002). Infatti il tatuaggio si può definire come un mezzo di comunicazione non verbale utilizzato dal soggetto per inviare informazioni su di Sé in modo indiretto ed in grado di dare forma ad un’immagine personale ideale.

Ciò è confermato dalle motivazioni che la maggior parte degli individui dà rispetto alla scelta di tatuarsi. Le spiegazioni più frequenti riguardano l’acquisizione di maggior controllo del proprio corpo, oltre alla possibilità di esprimere il proprio Sé e di differenziarsi dagli altri, apparendo unici e speciali (Forbes, 2001; Carroll & Anderson, 2002; Armstrong et al, 2008).

Per questo motivo recentemente diversi studi hanno esplorato il legame tra autostima e comportamento di tatuarsi, oltre che l’influenza di quest’ultimo sull’incremento della soddisfazione corporea, ed il presente studio (Kertzman et al., 2019) si propone di approfondire questi aspetti.

Sono stati formati due gruppi, ciascuno composto da 60 donne, nel primo le donne presentano tutte dei tattoo e sono di età compresa tra i 18 e i 35 anni, mentre nel secondo, le partecipanti rientrano nella stessa fascia d’età, ma non hanno tatuaggi.

Servendosi del software PsyScan ed utilizzando nello specifico The repertory grid tecnique (RGT), che utilizza i colori come strumento d’indagine in grado di cogliere aspetti emotivi e cognitivi impliciti, gli autori hanno studiato le relazioni tra immagini corporea, autostima e comportamento di tatuarsi. A ciascun soggetto, preso singolarmente, è stato chiesto di indicare quale dei sette colori presentati era in grado di rappresentare maggiormente il costrutto esaminato (il proprio corpo, il Sé ideale, ecc.), ripetendo la procedura fino all’eliminazione di tutti i colori, e, una volta che la stessa operazione è stata applicata a tutti i costrutti, la relazione tra questi è stata studiata sulla base della precedente selezione degli elementi, in quanto ciascuna scelta è considerata indicativa per l’esame delle variabili oggetto di studio.

I risultati rilevano che le donne con i tatuaggi mostrano di avere un’autostima più bassa rispetto alle donne senza tatuaggi, in linea con i precedenti studi secondo cui il tatuarsi comporta una maggior accettazione del proprio corpo (Swami, 2011), che viene più graditamente esibito, in quanto diventa specchio della propria individualità (Pajor, Broniarczyk-Dyla, & Switalska, 2015), portando ad una maggior soddisfazione per il proprio corpo.

In conclusione, possiamo dire che è presente una relazione tra la scelta di tatuarsi ed il bisogno di sentirsi padroni del proprio corpo, motivo per cui questo comportamento ha inizio durante la fase adolescenziale, momento in cui il corpo cambia, assumendo forme e funzioni diverse, che si ripercuotono nel tentativo dell’individuo di dare un significato a tali trasformazioni, oltre che definire la propria identità alla luce del passaggio verso una nuova fase del ciclo di vita.

 

Miti sulla maternità: sviluppare uno stile di ragionamento efficace

La gravidanza, la nascita e primi tempi della maternità rappresentano per la maggior parte delle donne un’esperienza molto positiva. Tuttavia questo è un periodo di transizione e potrebbe rivelarsi difficile adattarvisi.

Alessandra Epis – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Alcune aspettative delle persone nei confronti della gravidanza e della maternità sono troppo idealizzate e si manifestano sottoforma di pensieri poco realistici quali:

  • Le donne in gravidanza sono sempre felici;
  • Sarò sempre felice di essere incinta e di essere madre;
  • C’è qualcosa di sbagliato in me se non ce la faccio ad affrontare le situazioni;
  • Le madri riconoscono e amano immediatamente il proprio bambino;
  • Le brave madri non provano sentimenti negativi nei confronti del proprio bambino;
  • Tutte le altre madri ce la fanno benissimo.

Purtroppo queste aspettative sono irrealistiche perché non tengono conto che diventare madri è un cambiamento di vita non solo esaltante, ma anche pieno di incognite e di difficoltà difficilmente prevedibili.

I compiti che aspettano una madre possono essere enormi, ci sono una gran quantità di cose da imparare, ogni parto e ogni bambino sono diversi.

La maggior parte delle donne desidera essere una buona madre e a volte, qualsiasi cosa meno della perfezione, può sembrare un enorme delusione.

“Mio figlio Andrea aveva spesso le coliche, ma io non andavo sempre in tilt. Anche se la situazione era sempre la stessa, non tutti i giorni io stavo male, anzi, c’erano dei giorni che avevo dei barlumi di serenità. Se non era la situazione esterna a me che cambiava, forse dovevo proprio iniziare a pensare che era qualcosa dentro la mia testa a farmi vedere la realtà con occhi diversi”.

Secondo la terapia cognitivo-comportamentale, i pensieri possono avere un grande impatto sull’umore e sul comportamento e possono diventare sia il peggior nemico che il miglior alleato di una persona.

Questi pensieri le persone non possono né verderli né conoscerli se non vengono esplicitati, invece spesso ci si aspetta che gli altri conoscano e comprendano quello che ci passa per la testa e rispondano in maniera appropriata.

Spesso ci capita di dare per scontato che certe cose siano ovvie e significative per gli altri così come lo sono per noi; questo è un errore e può creare molte incomprensioni ad esempio con il partner.

Può capitare di pensare che il nostro compagno possa leggerci nel pensiero e che automaticamente capisca di andare a prenderci una confezione di pannolini nella camera del bimbo; se lui però se ne sta seduto a bersi un caffè e automaticamente valutiamo questo comportamento come negativo, saltando alla conclusione che il nostro compagno non ci considera abbastanza, il risultato sarà che ci sentiremo arrabbiate e frustrate e ci comporteremo in modo scontroso con lui. Allo stesso tempo, lui si innervosirà perché non capirà il motivo per cui ce l’abbiamo con lui. La conseguenza più probabile di questo processo sarà che ci sentiremo ancora più arrabbiate e frustrate.

Un modo utile per non cadere in questo errore di ragionamento, cioè nel pensare che l’altro ci possa leggere nel pensiero, è quello di utilizzare una comunicazione assertiva, comunicando all’altra persona ciò di cui abbiamo bisogno e rispettando anche il punto di vista dell’altro.

Un altro modo utile per affrontare meglio certe situazioni consiste nel cominciare anche a non dare per scontato che quello che ci viene in mente sia automaticamente la sola possibile spiegazione e pensare che ci possono essere delle alternative di interpretazione anche se meno immediate.

Facciamo un esempio: il mio compagno riesce a calmare il bambino meglio di me, a questo punto posso iniziare a pensare di essere una cattiva madre e questo mi porterà a sentirmi depressa, arrabbiata e abbattuta, fino a litigare con il compagno, oppure potrei interpretare diversamente la situazione e pensare che finalmente qualcuno è riuscito a calmare il bambino e che il fatto di non esserci riuscita da sola, non fa di me una cattiva madre. Questa nuova interpretazione mi porterà a ridurre l’ansia e probabilmente a sentirmi anche più sollevata per il fatto di vedere il bambino più tranquillo, arrivando anche a ringraziare il compagno.

Le tecniche cognitive servono per imparare a valutare i fatti in modo più efficace, attraverso un approccio basato sulla verifica dell’attendibilità delle proprie interpretazioni, e a sviluppare un modo più utile ed efficace di valutare gli eventi. Questo processo parte dall’identificazione dei pensieri disfunzionali negativi e mira a metterli in discussione per modificarli.

Il modo di pensare è un’abitudine e come ogni abitudine richiede tempo e tenacia per essere modificata.

Il primo passaggio da fare per riconoscere possibili interpretazioni errate è quello di identificare i pensieri automatici che passano nella mente nel momento in cui si accorge di provare sentimenti negativi, troppo intensi e disturbanti. All’inizio cercare di identificare i pensieri disfunzionali può essere sgradevole perché concentrare l’attenzione su di essi può portare a sentirsi momentaneamente peggio. Può essere utile tenere una sorta di diario giornaliero in cui scrivere tutte le situazioni e i pensieri fatti che ti hanno portato a stare male.

Due modi per valutare e in seguito contrastare meglio i pensieri negativi, consistono nel dare a ogni pensiero negativo, un punteggio relativo al malessere provato che può andare da 0 (benessere e rilassamento) a 10 (la peggiore condizione possibile di malessere, depressione, ansia).

Valutare in questo modo l’intensità del proprio stato d’animo può servire ad imparare a non giudicare solo in termini di bianco o nero, di presenza o assenza, ma in termini di gradazioni di grigio così da capire come l’umore varia nel corso della giornata e delle giornate.

Un’altra misurazione utile da adottare nel processo di analisi critica dei pensieri automatici negativi è relativa al grado di convizione, ovvero a quanto questi pensieri siano ritenuti credibili e veri sempre su una scala da 0 (questo pensiero non è assolutamente credibile, vero) a 10 (sono totalmente convinto che questo pensiero di credibile, vero). In questo modo è più facile rendersi consapevoli che ad alcuni pensieri si crede di più rispetto che ad altri e che questa convinzione può variare da un giorno all’altro.

Normalmente c’è un forte legame tra il grado di malessere e il grado di convinzione.

E’ importante ricordare che chi sta affrontando un periodo di tristezza intensa, tende a notare e a ricordare gli aspetti negativi e a interpretare i fatti compiendo degli errori di ragionamento; è fondamentale non saltare a conclusioni affrettate e cercare di considerare i pensieri automatici negativi come delle ipotesi da esaminare.

Il processo di valutazione e critica dei pensieri disfunzionali corrisponde al momento in cui ci si accorge che ciò che si vede, è filtrato dalle lenti oscurate degli occhiali che si indossano.

La “messa in discussione” dei pensieri negativi: per verificare quanto sono accurati e fondati i modi di pensare, si possono fare alcune domande quali “che prove ci sono a favore di ciò che credo e che prove ho contro?” così da distinguere le impressioni dalla realtà; “quanto è probabile che questa cosa che penso sia vera o che accada realmente?”;“se anche ciò che penso fosse vero, qual è la cosa peggiore che realisticamente potrebbe capitare?”.

Lo scopo è quello di mettere in dubbio la veridicità di ciò che penso che mi porta a stare male, per favorire la ricerca di pensieri alternativi più utili e funzionali a promuovere il benessere.

Dopo aver analizzato un pensiero, è possibile renderlo più funzionale.

Facciamo un esempio:

la mia bambina quando le do il latte non mangia abbastanza, non mangia per colpa mia, non sono capace di prenderla nel modo giusto, sono un disastro come madre e questo mi fa sentire triste e in colpa.

A questo punto, proviamo a mettere in discussione i pensieri disfunzionali chiedendosi per esempio: Che prove ho a favore del fatto che io sia un disastro come madre solo perché la mia bambina mangia poco latte? Che prove ho contro questo mio pensiero?

Una “prova contro”, potrebbe essere il fatto che la pediatra mi ha detto che succede a molti bambini e che non dipende dal latte materno ma quanto dalla costituzione del bambino. Quindi un nuovo modo di interpretare la situazione potrebbe essere questo:

la mia bambina quando le do il latte non mangia abbastanza, ma questo non fa di me una cattiva madre.

Una volta costruiti dei pensieri funzionali è utile valutare le loro conseguenze sull’umore e sul comportamento, identificare l’intensità dell’emozione (che, con i pensieri più funzionali, ci aspettiamo che diminuisca) e valutare il grado di convinzione come descritto sopra.

Altre domande utili per costruire pensieri funzionali alternativi sono:

  • Su 100 persone, quante in questa situazione reagirebbero nel mio stesso modo?
  • Cosa potrebbe pensare in questa situazione un’altra persona?
  • Che cosa direi ad un’altra persona se pensasse quello che penso io?
  • Quali altri modi di considerare la situazione ci potrebbero essere senza cadere negli errori di interpretazione?

Modificare i pensieri negativi non significa passare dal vedere tutto nero al vedere tutto rosa poiché nella realtà le situazioni hanno una sfumatura di grigio/rosa in cui gli aspetti negativi si mescolano con quelli positivi. Nel costruire pensieri alternativi funzionali, bisogna pertanto cercare di essere obiettivi e realistici cioè non sottovalutare le difficoltà né sopravvalutare i punti di forza.

Quando si è in una situazione stressante può essere difficile identificare i pensieri automatici, potrebbe essere più facile riconoscerli in un secondo momento quando si è ritrovata un po’ di calma. Può essere altrettanto difficile trovare pensieri alternativi, ma all’inizio può bastare riuscire a mettere in discussione i pensieri disfunzionali.

Quando si è riusciti a costruire dei pensieri alternativi, non è necessario esserne convinti, ma basta considerarli come delle ipotesi da valutare e comportarsi come se queste ipotesi fossero vere e vedere cosa succede.

Ad esempio, per mettere alla prova l’ipotesi di non essere l’unica mamma che non riesce ad allattare il proprio bambino, si può chiedere ad altre mamme se anche a loro è capitato e che interpretazioni avevano costruito.

Non bisogna scoraggiarsi se alcuni vecchi pensieri disfunzionali continueranno per un po’ a tornare in mente, l’esercizio e la costanza nel modificarli creeranno nuove abitudini di pensiero.

Quando si è diventati consapevoli dei pensieri negativi e del loro ruolo nell’influenzare l’umore, si possono usare a sostegno delle tecniche cognitive descritte sopra, alcuni metodi per ridurre la forza dei pensieri negativi:

  • Interrompere il flusso di preoccupazioni (ad esempio: “decido di non pensare a questa cosa ora che sto giocando con il mio bambino/ sto pranzando/ sto per andare a dormire”);
  • Stabilire un tempo per le preoccupazioni (ad esempio: si può dedicare loro un momento della giornata predefinito della durata di non più di 30 minuti).

Dei buoni metodi per rinforzare i pensieri funzionali sono:

  • Cercare di notare con maggiore attenzione ciò che si è riuscite a fare piuttosto che gli insuccessi, scrivere ad esempio un elenco dei risultati positivi quotidiani;
  • Portare sempre con sé dei bigliettini su cui sono stati trascritti i pensieri funzionali e rileggerli più volte durante la giornata;
  • Farsi dei complimenti (“oggi sono stata brava a fare le lavatrici..”).

La maternità è un’esperienza allo stesso tempo esaltante e terribile, gratificante e frustrante. Se una donna ha nei confronti di questo ruolo solo aspettative positive può essere riluttante a cercare aiuto, temendo di essere giudicata una madre inadeguata, invece di rendersi conto che ci vuole tempo per adattarsi alla maternità e che alla base del malessere vi sono spesso delle interpretazioni errate delle situazioni e dei pensieri disfunzionali, che possono essere messi in discussione, arrivando a costruire pensieri più utili che ridurranno l’intensità dell’emozione disturbante.

 

Piccoli imprenditori ai tempi del Covid-19

In una società improntata sul lavoro, ci siamo chieste quali fossero state le conseguenze del coronavirus sui lavoratori, in particolare, sui piccoli imprenditori. Tale categoria è stata la più colpita, sia a livello economico, che a livello psicologico.

Antonella Bascià e Greta Maiorano

 

In generale, dai primi risultati dello studio condotto dalle Università degli Studi dell’Aquila e di Roma Tor Vergata e dal progetto Territori Aperti, è emerso che le misure contenitive, l’impatto economico e la pandemia stessa stanno avendo un importante impatto sui livelli di depressione, ansia, insonnia e sintomi di stress (R.Rossi, V. Socci, D. Taveli et al., 2020).

Ma tutti i piccoli imprenditori, che hanno visto chiudere le loro attività senza ricevere entrate economiche, come hanno affrontato la situazione? Quali strategie di coping hanno messo in atto?

Abbiamo posto tali domande ad alcuni imprenditori italiani in modo da farci un’idea generale dell’impatto psicologico che ha avuto la pandemia. Le domande sono state poste a un numero esiguo di persone; la nostra non vuole essere una ricerca, ma un mettere in luce i vissuti emotivi e le strategie di adattamento di una specifica categoria lavorativa.

La ristorazione, ad oggi, è uno dei settori maggiormente più colpiti dalla situazione pandemica, insieme al settore dei parrucchieri/estetisti e ai liberi professionisti. Abbiamo, perciò, indagato i vissuti emotivi di tali categorie lavorative.

Oscar (27 anni), proprietario e cuoco di un locale takeaway a Milano che ha aperto poco prima che scattasse il periodo di lockdown, si è ritrovato con tante spese accumulate e uno spreco notevole di risorse e materie prime. Nel descrivere i suoi vissuti emotivi riguardo a tutta la situazione, Oscar afferma di essersi sentito “abbattuto nello spirito” e lui e il suo socio si sono ritrovati “con le spalle al muro”. Le emozioni che ha sperimentato sono state principalmente: ansia per il futuro, paura di ritrovarsi sommersi dai debiti, agitazione sia per il virus che per l’attività, abbandono. Sì, l’abbandono è una tematica ricorrente nelle parole del giovane imprenditore, afferma di aver provato un “caos interiore” e sensazione di abbandono da parte di un Paese che ha concesso pochi aiuti economici e nessun sostegno psicologico rivolto alla sua categoria lavorativa. Nonostante ciò, si sente fortunato perché riesce a resistere e non demordere, soprattutto quando guardandosi intorno, molte attività storiche milanesi sono state costrette a chiudere. Tuttavia, il tempo di quarantena ha permesso di attuare delle strategie, come ad esempio l’investire in una maggiore pubblicità, capire le richieste del mercato e quando Oscar guarda al futuro, prova “incertezza, paura e tanta speranza di farcela”.

Elisa (26 anni), invece, è arrivata a Milano con la voglia di far carriera nel campo del make-up. Anche per lei è stato difficoltoso, in quanto la sua tipologia di lavoro non ha permesso la riorganizzazione da casa. Elisa afferma di essersi “sentita molto giù” perché proprio quando cominciavano ad aprirsi delle nuove strade, il lockdown ha bloccato tutto. Gli stati interni maggiormente sperimentati sono stati: senso di impotenza per la paura di “non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose”, alternati a momenti positivi in cui si “faceva forza” e si ripeteva che “tutto sarebbe passato”. Durante la quarantena, si è reinventata pubblicizzandosi molto sui social, presentando dei make-up estroversi su sé stessa. Se volge lo sguardo verso il futuro, ha tanta speranza che prima o poi la città della moda riprenda tutta la sua vitalità e ha tanta voglia di rimettersi in gioco.

Gianni (56 anni), parrucchiere e barbiere da 40 anni, afferma di essersi sentito perso perché si è ritrovato a casa, fermo e ciò ha portato “grosse sofferenze e non poche difficoltà”. Anche per Luigi è stata dura, si è ritrovato con sempre più tasse che si accumulavano, mentre la saracinesca del suo negozio era abbassata. Tuttavia, ha cercato di trascorrere nel miglior modo possibile i giorni di quarantena, dedicandosi alle passioni che aveva messo da parte da tempo. La ripresa lavorativa è stata faticosa, anche perché trascorre le ore lavorative con mascherina e visiera, disinfetta continuamente l’intero negozio, con la paura costante di contrarre il virus e infettare i suoi familiari. Tutto ciò però ha portato anche a risvolti positivi: con le nuove restrizioni, i clienti sono costretti a prendere appuntamento e ciò gli consente di pianificare al meglio la sua giornata lavorativa e la quotidianità, traendone dei grossi benefici.

Infine Sonia, una creatrice di bijoux artigianali, si è ritrovata con la produzione bloccata e di conseguenza bloccata economicamente. Sonia riferisce di “aver visto nero” e di aver provato tanta paura, soprattutto per il futuro. Passata la paura, però, ha iniziato a reinventarsi e si è dedicata al marketing online. Un mondo, per Sonia, totalmente nuovo e sconosciuto, ma ciò non l’ha fermata, anzi, le ha dato la spinta necessaria per promuovere la sua attività attraverso i social network. Il suo lavoro è totalmente cambiato: prima del virus consegnava i suoi gioielli nei negozi, adesso i social sono diventati la sua vetrina ed è intenzionata a proseguire su questa strada.

Dalle parole emerse di tutti gli intervistati, nonostante età e settori lavorativi differenti, si evince che l’adattamento è la parola chiave di questo strano periodo, che ha colpito tutti noi. Ognuno di loro ha adottato diverse strategie di coping, traendone dei benefici dal cambiamento.

Possiamo racchiudere il tutto in una sola parola: resilienza.

Le persone intervistate hanno dimostrato di avere una forte capacità di resilienza, ovvero il riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita in seguito ad un evento stressante o traumatico.

Dalla letteratura scientifica si evince che la resilienza è un “fenomeno ordinario dell’essere umano e non stra-ordinario”. Dunque, le persone si dimostrano resilienti e nella maggior parte dei casi riescono a adattarsi positivamente alle avversità della vita (Fiore F., 2016).

In conclusione, possiamo affermare che le persone intervistate sono riuscite a superare un periodo critico, facendo leva esclusivamente sulle loro risorse interiori. Nonostante la sensazione di abbandono provata, si sono rimboccate le maniche e hanno trovato il modo di adattarsi alla situazione, scoprendo nuovi lati del proprio modo essere e lavorare.

 

I sette pilastri della Mindfulness (2020) di Maria Beatrice Toro – Recensione del libro

I sette pilastri della Mindfulness racconta il metodo mindfulness, che ci porta dal fare all’essere, disinnescando il pilota automatico per lasciare andare la presa che i desideri hanno su di noi.

 

La Mindfulness come approccio di terza onda della terapia cognitvo-comportamentale si è ormai diffusa da qualche anno sia come Mindfulness-Based Cognitive Approach, sia come Mindfulness-Based Stress Reduction.

La decisione dell’autrice del libro I sette pilastri della Mindfulness di mettere nero su bianco tutto ciò che conosce sulla meditazione consapevole è partita da un evento di vita che l’ha vista prima giacere inerme in un letto di ospedale e poi riorganizzare completamente la propria vita e le proprie abitudini a seguito del malessere.

Il momento particolare che tutti noi stiamo attraversando, caratterizzato dalla pandemia, ci ha spinto a ripensare e riorganizzare la nostra vita un po’ come è successo alla Toro e proprio per questo la lettura di questo testo può esserci utile. La mindfulness, infatti, ci apre all’essenziale, al nostro stato originario di presenza.

La prima parte del libro I sette pilastri della Mindfulness presenta gli elementi essenziali della meditazione: come nasce, che cos’è, come si può praticare, a quali scopi.

Il prestare attenzione con intenzione al momento presente, in modo non giudicante produce una serie di benefici che vanno dal potere antinfiammatorio, alla modulazione delle difese immunitarie, dalla regolazione funzionale degli stati interni, alla creazione di nuovi percorsi sinaptici, all’impatto sullo stress, le malattie psicosomatiche e vari disturbi di natura psicologica.

L’autrice si sofferma sulla descrizione dei sette pilastri che considera punti fermi, non solo a livello tecnico, ma anche come idee chiave, principi, visioni d’insieme e abitudini di vita. La pratica sviluppa i pilastri della consapevolezza: non giudizio, pazienza, mente del principiante, fiducia, non cercare risultati (se non la pienezza dell’esperienza presente), accettazione e capacità di lasciare andare.

Il metodo mindfulness ci porta dal fare all’essere disinnescando il pilota automatico per lasciare andare la presa che i desideri hanno su di noi.

Nella seconda parte del libro la Toro descrive i pilastri prendendo in prestito sette storie di persone che svelano con le loro esperienze cosa siano tali pilastri di saggezza. Ognuno di essi è presentato con una breve premessa, a cui seguono esercizi e storie.

Il giudizio restringe la visione, focalizzando l’attenzione su alcuni dati e non altri, separando ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Saper quindi esercitare la sospensione del giudizio è indispensabile almeno quanto il saper giudicare e saper discernere. La fretta non è mai una buona consigliera e saper prendere il proprio tempo è una capacità preziosa. La mente aperta è pronta al nuovo, non ha paura ma è attratta da ciò che non conosce, non teme gli errori. Diventare coscienti di cosa significa essere realmente noi stessi, presuppone la capacità di fidarsi di essere noi stessi. Imparare l’arte del non fare o della non azione è il principio paradossale dell’azione senza azione. L’idea, infine, che sottende il pilastro del lasciar andare è quella di smettere di combattere e permettere a ciò che non ci occorre di scorrere, senza più trattenerlo.

Nella terza e ultima parte l’autrice presenta le nuove applicazioni e le prospettive della mindfulness che da semplice disciplina per la riduzione dello stress e dei pensieri negativi sta diventando sempre più sinonimo di ‘approccio filosofico consapevole alla vita’. Sono illustrati gli effetti che l’approccio produce: sulle relazioni affettive, nel mondo del lavoro, sulla salute, sul rapporto che abbiamo con il corpo e con il cibo.

Nel testo sono presentati sia gli esercizi codificati per sviluppare la consapevolezza sia i valori, i pilastri su cui si basa la pratica, aspetti diversi ma profondamente interconnessi.

Gli eventi della vita non sono controllabili e il Covid-19 ne è una testimonianza presente; possiamo, però, agire sul modo in cui li affrontiamo e la mindfulness può arginare la sofferenza, aumentare la pace interiore, la disposizione alla gioia e l’apertura amorevole verso l’altro.

 

Donne e sex toys

Una volta considerato tabù, la disponibilità e l’uso di prodotti per il potenziamento del piacere sessuale (cioè i sex toys) sta diventando sempre più comune in Nord America (Novak & Reece, 2012).

 

Indagini rappresentative a livello nazionale negli Stati Uniti indicano che il 52,5% delle donne dichiara di aver usato un vibratore nella propria vita (Herbenick et al., 2009) in diversi contesti sessuali, tra cui la masturbazione, rapporti sessuali e preliminari con un partner (Rosenberger & Reece, 2011). L’interesse accademico per l’uso dei sex toys è aumentato con l’aumentare della loro diffusione e del loro impiego all’interno di scenari sessuali (Rosenberger et al., 2012). Tuttavia, gran parte della ricerca si è focalizzata esclusivamente sull’utilizzo dei vibratori, con pochi studi che esaminano ulteriori tipologie di sex toys che le donne utilizzano per migliorare la propria vita sessuale. Approfondire tale argomento può essere estremamente utile nel fornire informazioni importanti a medici ed educatori relativamente al piacere sessuale e alla salute sessuale. Indispensabile è anche comprendere le implicazioni sanitarie dei comportamenti igienici associati all’uso dei sex toys: da ricerche precedenti è emersa una relazione tra problematiche vulvovaginali e l’impiego dei giocattoli sessuali (Fethers et al., 2009) proprio a causa di una errata pulizia di essi oppure della condivisione tra i partner.

Un recente studio si è posto come obiettivo, in un campione di donne canadesi (N=1408), quello di (1) indagare la prevalenza, la frequenza e la tipologia di giocattoli sessuali, (2) indagare i predittori socio-demografici e comportamentali dell’uso dei sex toys, (3) descrivere la prevalenza e la frequenza della condivisione e dei comportamenti igienici e, infine, (4) esaminare se la condivisione di sex toys e la frequenza con cui i partecipanti puliscono i loro giocattoli siano correlati all’insorgenza di patologie mediche, come ad esempio HPV, infezione batterica (BV) e infezioni da candida. Nello specifico i partecipanti dovevano compilare un questionario online su: informazioni demografiche, orientamento ed educazione sessuale; le domande volte ad indagare l’utilizzo di sex toys indagavano, nello specifico, l’uso di giocattoli sessuali fatti in casa o acquistati in negozio (potevano rispondere ‘sì’ o ‘no’), la frequenza con cui i giocattoli venivano usati (7 opzioni di risposta da ‘mai’ a ‘tutti i giorni’) e, infine, una domanda aperta in cui i partecipanti potevano specificare il tipo di giocattolo utilizzato; alcune domande approfondivano le abitudini sessuali dei partecipanti (rapporti vaginali, anali e orali), la condivisione dei sex toys e le pratiche igieniche utilizzate, infine, domande volte ad esplorare la salute dei partecipanti, cioè se avevano avuto diagnosi negli ultimi sei mesi di HPV, BV, candida e altre infezioni.

Dai risultati è emerso che il 52.3% dei partecipanti utilizza o ha utilizzato sex toys: il 24.7% li usa una volta a settimana, il 26.4% li utilizza una volta al mese o più, il 14.7% li utilizza meno di una volta all’anno, e soltanto il 7.8% non li utilizza affatto. Per quanto riguarda le tipologie di giocattoli utilizzati, il più comune è il vibratore (54.5%), il 21.3% utilizza il dildo e il 9.3% ha utilizzato giocattoli legati alle attività BDSM (bondage, disciplina, sadismo, mascochismo). Tra gli oggetti segnalati con meno frequenza vi sono i giocattoli home – made come il soffione per la doccia, spazzolini elettrici e altri. L’uso di sex toys non varia in base all’età o allo status di single o in coppia. Inoltre, i partecipanti che più frequentemente utilizzano giocattoli di questo tipo, sono coloro che hanno un livello di istruzione più elevato e coloro che hanno dichiarato di essere lesbiche o bisessuali. Dai risultati emerge anche che l’uso di giocattoli sessuali è significativamente associato alla pratica di sesso orale e anale, oltre a quello vaginale, suggerendo a sua volta un’associazione degli stessi con un repertorio più ampio di pratiche sessuali. Il 78.3% ha affermato di non condividere i propri toys e il 87.7% rivela di non utilizzare custodie usa e getta. Il 96% dei partecipanti lava il proprio giocattolo, di cui il 71.5% prima di ogni utilizzo o dopo ogni utilizzo. Il disinfettante più utilizzato è acqua e il comune sapone intimo (69.7%). Fra coloro che sono soliti condividere i propri sex toys, il 25.5% ha avuto infezioni vaginali, di cui il 75.2% ha avuto infezioni da candida, contro il 16.8% di coloro che non li condividono.

In conclusione, i risultati dello studio indicano che l’uso di giocattoli sessuali è comune tra le donne canadesi e che i partecipanti utilizzano una varietà di giocattoli sessuali al fine di migliorare la loro vita. Inoltre, i risultati hanno ulteriori implicazioni per gli educatori e i professionisti così che possano promuovere l’uso di sex toys in un modo che sia piacevole e al contempo riconosca l’importanza dei comportamenti igienici ad essi associati, al fine di ridurre la possibilità di trasmettere infezioni tra i partner. Di grande interesse per la ricerca futura sarebbe approfondire i fattori contestuali e motivazionali che influiscono sui comportamenti di igiene delle donne.

 

Neuroscienze – Lo studio scientifico del sistema nervoso

Dark: facciamo luce sulla serie tv del momento

Il 27 giugno 2020 è la data di uscita della tanto attesa terza stagione di Dark, nonché la data dell’apocalisse dovuta all’inizio del terzo ed ultimo ciclo. A cosa è dovuto il successo della serie tv tedesca che ha intrigato gli spettatori, lasciandoli bramanti in attesa della terza stagione?

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Una commistione di fattori ha reso la trama avvincente e coinvolgente, come fosse una fiaba per adulti. Una fiaba che inizia con una situazione reale, che si permea però di elementi fantastici per trasmettere qualcosa.

In una piccola cittadina tedesca, Winden, scompare un ragazzino nelle vicinanze di una grotta, immersa in un bosco. Il bosco è anche un simbolo che rimanda ad un luogo interiore in cui ci si può addentrare e perfino perdere. Dark rimanda agli spettatori l’idea che è possibile addentrarsi non solo nel bosco, bensì nella caverna, ed uscirne diverso, capace di comprendere la verità delle cose, come nel mito platonico la fuoriuscita dalla caverna consente di scorgere la realtà.

Nella caverna si trova una frattura temporale che catapulta, chi è in grado di attraversarla, nell’anno 1953, 1986, 2019. Questo è possibile grazie/a causa della centrale nucleare presente a Winden, le cui scorie radioattive hanno aperto una breccia nella dimensione temporale, mediante un processo spontaneo che ha determinato la creazione della particella di Dio.

Non è chiaro quale sia il punto di origine della vicenda, il primo episodio della prima stagione ha inizio con il suicidio di Michael, padre di Jonas, il protagonista adolescente che a seguito dell’evento viene ricoverato in una clinica psichiatrica e, al suo ritorno a Winden, scopre della scomparsa dello spacciatore della scuola.

A partire da questa morte e da questa scomparsa avvengono, a cascata, una serie di eventi concatenati, l’uno causa ed effetto dell’altro. Infatti, il tentativo di prevenire scenari catastrofici futuri e di non perdere le persone amate, porta i diversi personaggi a commettere le azioni che provocano gli eventi che avrebbero voluto evitare, determinando anche un loop temporale infinito.

Il che rimanda alla teoria di Nietzsche dell’eterno ritorno e della visione circolare del tempo:

Tutto quello che succede è contenuto sia nel passato che nel futuro.
Tutto è già avvenuto e deve tornare ad accadere.

Il superuomo è il fanciullo-filosofo che obbedisce alla propria volontà, anche a “ritroso”, poiché quanto si è compiuto nel passato è fatto perché in quel momento si riteneva l’azione migliore che si potesse compiere. Pertanto non ci sono sentimenti quali colpa, rimorso, rammarico, che tengano, bensì vi è un’assoluzione dagli errori compiuti.

Gli spettatori guardando Dark ricercano l’esperienza della catarsi, cioè della liberazione dalle emozioni possibile grazie all’avvicendarsi di situazioni possibilmente reali: tradimenti, incomprensioni, utilizzo d’alcol e di sostanze, problemi tra genitori e figli adolescenti, disturbi psichici e altri ancora.

Gli spettatori possono rintracciare qualcosa di sé negli abitanti della cittadina di Winden, che si disvela a poco a poco essere “malata, come una piaga infetta” e i suoi abitanti ne sono “parte” anch’essi malati, o forse, semplicemente umani. Dark pare il quadro di Escher Relatività, il quale raffigura scale che salgono e scendono in un gioco di prospettiva inusuale, ma che, guardato da diverse prospettive, quelle dei personaggi del quadro, diventa comprensibile.

La storia dei protagonisti, appartenenti a quattro delle famiglie di Winden, viene presentata attraverso epoche diverse. Ogni personaggio è alla ricerca di qualcosa, la verità, e di qualcuno, sia egli figlio, fratello, padre, marito, innamorato, disperso, assassino. Ognuno di loro inizia un percorso di conoscenza che si può riassumere con la frase di Helge Doppler:

Siamo tutti alla ricerca del nostro filo di Arianna, che ci mostri qual è la strada giusta che ci faccia da guida nelle tenebre. Chi di non vorrebbe conoscere il proprio futuro?

In qualche modo ogni personaggio cerca di controllare una situazione che gli sfugge dal controllo. Gli spettatori si riconoscono in questo. Dark è potente nel presentare il conflitto adolescenziale autonomia-dipendenza facendo ruotare la trama attorno ad esso.

Jonas torna nel 1986 per riportare indietro il padre nel 2019. Non lo fa perché questo impedirebbe la sua stessa esistenza: Mikkel/Michael non conoscerebbe la moglie, Hanna. Il compito dell’adolescente è proprio quello di svincolarsi dalle figure genitoriali affinché avvenga la costruzione dell’identità (Erik Erikson) e non ci sia invece identità diffusa.

È lo stesso Mikkel/Michael che si fa da parte per permettere a Jonas di svolgere il suo ruolo, il compito datogli dallo Jonas del futuro, costruendo se stesso: quando Jonas lo raggiunge per impedirgli di suicidarsi Mikkel/Michael, che non aveva intenti suicidi, li realizza.

Jonas è chiamato ad assumersi le sue responsabilità, la cosiddetta moratoria psicosociale, e lo fa spostandosi non solo avanti e indietro nel tempo, ma perfino fra più mondi, guidato da quello che Daniel Siegel definisce l’ESSENCE dell’adolescenza.

Essence è l’acronimo di:

  • Emotional Spark, l’aumento dell’intensità delle emozioni esperite;
  • Social Engagement, il maggior coinvolgimento sociale;
  • Novelty-seeking, la ricerca di novità;
  • Creative Exploration, l’esplorazione creativa.

Insomma, altri ingredienti della ricetta che rendono Dark una tra le serie più viste di Netflix.

 

L’impatto del coming out sulle relazioni familiari estese

Solitamente, nella vita di una persona omosessuale, bisessuale o queer (LGBQ), prima o poi arriva quel momento, colloquialmente definito coming out, in cui si decide di comunicare il proprio orientamento sessuale alla propria famiglia.

 

Condividere un aspetto così personale di sé può far sentire vulnerabili. Parallelamente, ricevere questa notizia può attivare svariate dinamiche psicologiche, sociali ed emotive nei familiari, ad esempio rifiuto oppure senso di colpa o di vergona (Grafsky, Hickey, Nguyen, & Wall, 2018).

Grafsky, Hickey, Nguyen e Wall (2018) hanno approfondito l’impatto del coming out sulle relazioni familiari, avendo in mente questa domanda: che differenze ci sono nella rivelazione del proprio orientamento sessuale da parte di adolescenti e giovani adulti ai diversi membri della famiglia?

Gli autori hanno sottolineato che tradizionalmente la ricerca si focalizza sulla rivelazione dell’orientamento sessuale ai propri genitori e sulle loro reazioni. Tuttavia, tutti i membri della famiglia, inclusi i fratelli e altri parenti meno prossimi come nonni o zii, possono differenziarsi e influenzarsi a vicenda rispetto alle modalità con cui accolgono l’informazione e reagiscono ad essa.

Per questo Grafsky e colleghi (2018) hanno intervistato ventidue adolescenti e giovani adulti di età compresa tra i 14 e i 21 anni, che si identificavano come gay, lesbiche, bisessuali, queer o pansessuali. Durante l’intervista ciascun partecipante doveva individuare sei persone significative della propria famiglia, descrivere la propria relazione con ciascuna di esse e indicare se queste fossero a conoscenza o meno del loro orientamento sessuale. I partecipanti dovevano poi riportare se la rivelazione fosse stata spontanea o dovuta alla comunicazione da parte di altri, specificando in questo caso chi avesse comunicato la notizia. Infine dovevano spiegare la loro decisione di rivelare il proprio orientamento sessuale a specifici membri della famiglia e raccontare esperienze positive e negative associate al coming out.

I risultati indicano che circa il 63% di tutti i familiari individuati era a conoscenza dell’orientamento sessuale degli intervistati. I familiari a cui più probabilmente veniva rivelato l’orientamento sessuale erano i fratelli (84%), seguiti dalle madri (81%). In generale, i genitori e i fratelli erano più probabilmente a conoscenza dell’orientamento sessuale dei figli rispetto ai parenti al di fuori del nucleo familiare stretto.

Le interviste hanno inoltre mostrato come la condivisione del proprio orientamento sessuale sia diversa a seconda della relazione che si ha con un particolare componente della famiglia. In particolare, gli autori hanno operato una distinzione tra rapporti “orizzontali” e “verticali”. Nel primo caso, i rapporti sono caratterizzati da pari status, reciprocità, vicinanza e intimità, come avviene tra fratelli. Nel secondo caso, le relazioni sono maggiormente gerarchiche e prevedono ruoli più distinti: da un lato, c’è chi ha più autorità, si prende cura ed è responsabile per l’altro, dall’altro c’è chi è in certa parte dipendente e deve mostrare più obbedienza e rispetto. Questo è il caso delle relazioni tra genitori e figli o tra nonni e nipoti.

Secondo quanto emerso dalle interviste, rivelare l’orientamento sessuale ai fratelli comportava ansia, ma anche sentimenti di lealtà e vicinanza. Quando i fratelli erano supportivi, fare coming out poteva rafforzare il loro legame.

I partecipanti ritenevano che fare coming out con i componenti della famiglia estesa era meno urgente e necessario che con i propri genitori e fratelli. La decisione di parlare del proprio orientamento sessuale dipendeva soprattutto dalla vicinanza geografica e relazionale con nonni, zii e cugini. Tendenzialmente, il coming out con la famiglia estesa era un processo non lineare e che ciclicamente si ripeteva con i diversi familiari.

Gli intervistati erano meno propensi a fare coming out con i nonni, in parte perché la differenza di età li faceva sentire a disagio a discutere di sessualità, in parte perché temevano che i nonni avessero dei pregiudizi nei confronti delle persone LGBQ. Gli adolescenti e giovani adulti erano preoccupati che i nonni potessero rifiutarli o di comunicare loro una notizia difficile da processare, aggiungendo a eventuali problemi di salute un’ulteriore difficoltà. In alcuni casi però il supporto da parte dei nonni è risultato significativo.

Un ruolo importante nel processo di coming out è quello rivestito da zie o zii. Gli autori hanno definito “diagonale” la relazione tra un adolescente o giovane adulto e gli zii. Infatti gli zii possono condividere relazioni affettuose con i propri nipoti, mantenendo un certo grado di autorità in quanto adulti, pur senza rivestire lo stesso ruolo educativo di un genitore. Per questo, i partecipanti hanno raccontato che spesso gli zii avevano un ruolo di mediazione con altri membri della famiglia o davano consigli su come comunicare la notizia ai genitori. Pertanto, gli zii possono essere preziosi sostenitori nel processo di rivelazione del proprio orientamento sessuale.

Un ruolo simile poteva essere ricoperto dai genitori adottivi, qui intesi come patrigni o matrigne, in quanto anche la loro relazione con i figli può essere definita diagonale. Tuttavia in questo caso la prossimità e la vicinanza dovevano essere negoziate e condivise. Similarmente, la condivisione con i fratelli acquisiti dipendeva dall’aver sviluppato con loro un legame più o meno stretto.

Questo studio presenta anche alcune limitazioni: è stato condotto su un campione poco numeroso, con metodi qualitativi e con partecipanti provenienti dagli Stati Uniti. Sarebbe interessante confrontare l’impatto del coming out sui vari componenti della famiglia e sull’intreccio dei loro rapporti in differenti culture.

Tuttavia, questo studio permette di affacciarsi sul complesso mondo delle relazioni familiari e di iniziare a comprendere come queste possano essere una fonte di sostegno emotivo e di comprensione, ma talvolta anche di stress, per ragazzi LGBQ+.

Per i clinici che lavorano con adolescenti e giovani adulti LGBQ+, è importante ricordare che fratelli, zii, nonni e membri della famiglia estesa, in virtù dei loro specifici ruoli, possono rappresentare fonti di stress o risorse da tenere in considerazione quando si discute della condivisione del proprio orientamento sessuale con la famiglia. Del resto, riconoscere l’orientamento sessuale dei membri LGBQ+ della propria famiglia significa anche ampliare il concetto di famiglia nucleare eteronormativa per accogliere la possibilità di famiglie più fluide, in cui conta la relazione più che il ruolo sociale.

 

Gravidanza tardiva: perché decidere di avere un figlio dopo i 40 anni?

Dato il cambiamento culturale e il maggior desiderio di autosufficienza, frutto dell’emancipazione moderna, avere figli dopo i 35-40 anni è una decisione che deve essere presa liberamente dalla donna, dopo un’accurata riflessione su di sé e sulle proprie possibilità, senza basarsi su pregiudizi o pressioni sociali.

 

Negli ultimi anni si assiste ad un cambiamento radicale della figura femminile e del rapporto con la maternità, non più legato esclusivamente alla volontà di realizzarsi come madre. Sono sempre più numerose le donne che scelgono di avere figli dopo i 35-40 anni e la creazione di una famiglia non si definisce più come una necessità evolutiva di genere, quanto più come un’opzione alla realizzazione della coppia matura, permettendo alla donna di poter compiere una scelta attiva in merito. Questo processo decisionale, ad oggi è possibile grazie alla diffusione dagli anni ‘60 degli anticoncezionali, ai trattamenti per la fertilità, la fecondazione in vitro e la legalizzazione dell’aborto per le gravidanze non desiderate (Christoffersen e Lausten, 2009).

Esiste quindi un reale orologio biologico? E quali sono le implicazioni bio-psico-sociali nella scelta di fare figli dopo i 35 anni?

Motivazioni a favore della maternità tardiva

Relazioni stabili e sicure

Molte donne scelgono di fare figli più tardi anche in relazione alla loro stabilità di coppia, rassicurate maggiormente dalla volontà di entrambi i partner di prendersi cura del bambino, in modo che nessuno dei due si debba trovare davanti alla scelta di sacrificare il lavoro per la famiglia o viceversa (Mills et al., 2011). La percezione di una disparità nella distribuzione del lavoro domestico e nell’occuparsi del figlio rende questo aspetto molto rilevante durante il processo decisionale nell’intraprendere o meno il percorso della genitorialità (Hook, 2010).

Istruzione e condizioni lavorative vantaggiose

Il lavoro a tempo pieno non tiene conto dell’impegno che richiede necessariamente la cura del figlio; con l’impostazione delle 8 ore lavorative, una coppia che decide di avere un figlio deve prendere in considerazione lavoro part-time e asili nido o babysitter che comunque comportano costi ed orari da rispettare. A complicare ulteriormente il processo decisionale c’è la difficoltà della donna a recuperare il proprio posto di lavoro una volta sostituita per i congedi di maternità, come molto spesso accade per la precarietà della posizione. Ad oggi, purtroppo, le conquiste delle donne per l’eguaglianza sul lavoro continuano a non essere abbastanza per assicurare compatibilità con la scelta di essere una madre giovane. La possibilità di intraprendere una carriera, dopo il percorso universitario, rientra comunque in un range di vita che va dai 30 ai 40 anni, periodo in cui biologicamente è predisposta al concepimento. Coerentemente, decidere di avere un figlio a carriera già avviata, e non prima della laurea o durante gli studi, assicura maggiore autonomia economica nel mantenimento e uno stipendio più alto. I percorsi di studio dopo l’istruzione superiore sono lunghi ed evitare la gravidanza in questo periodo formativo è la risultante della percezione di “non poterselo permettere” (Miller, 2010).

Maturità delle capacità cognitive ed emotive

Decidere di avere un figlio più in là con gli anni comporta sicuramente una maggiore consapevolezza delle proprie risorse personali, cognitive ed emotive, nel saper cogliere e interpretare correttamente i bisogni del bambino, strutturando un sistema coerente di regole all’interno dell’ambiente domestico. Studi confermano che l’età materna superiore ai 27-30 anni è predittiva di una maggiore autosufficienza del figlio in età adulta, associata a risultati scolastici e psicosociali migliori (Fergusson, 1999).

Elaborazione di una nuova identità

La maternità comprende una trasformazione inevitabile dell’identità connessa all’abbandono definitivo dello status di “figlia” per quello di “madre” che comprende una ridefinizione del proprio assetto mentale, affrontare gravidanza e parto (che implicherebbe in parte l’angoscia di morte), un annullamento di sé (del proprio tempo e spazio) in funzione della cura del figlio e l’abbandono di molti aspetti individualistici, come l’aspetto fisico (Schirone, 2013). Tutto ciò creerebbe sentimenti di ambivalenza connessi strettamente alla percezione del proprio orologio biologico, in difesa della sopravvivenza della specie, contro quello psicologico, in difesa delle aspirazioni identitarie. Inoltre, la cultura occidentale ad oggi pone molta enfasi sulla giovinezza e sulla bellezza fisica associata al successo, negando l’invecchiamento biologico e favorendo la percezione che ci possa essere qualcosa di assoluto e irrecuperabile nell’abbracciare l’identità materna. Scegliere di fare un figlio più tardi può essere comprensibile alla luce della voglia di potersi esprimere al meglio quando si è più giovani e di fare esperienze che altrimenti la cura del bambino durante i suoi primi anni non permetterebbe (viaggi, opportunità di lavoro, trasferirsi in un’altra città) (Chodorow, 2003).

Motivazioni a sfavore della maternità tardiva

I rischi più noti di una gravidanza “tardiva” sono quelli di natura biologica e medica, ma molti studi hanno evidenziato come la maternità in età avanzata potrebbe avere effetti anche di tipo psicologico e sociale.

Complicanze mediche

Affrontare una gravidanza in età avanzata potrebbe comportare tre esiti negativi: l’aborto spontaneo, la gravidanza ectopica (cioè con l’impianto dell’embrione in sedi diverse dalla cavità uterina; ad esempio: la gravidanza intrauterina e la gravidanza extrauterina) o la morte fetale tra la ventesima e la ventottesima settimana di gravidanza. Le ipotesi riguardo alle morti antepartum si possono ricollegare ad anomalie cromosomiche dei feti, al diabete gestazionale della madre e alla preclampsia (EPH), una sindrome caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di ipertesione, edema e proteinuria. Inoltre, altre complicanze dovute all’età della madre possono essere: le gravidanze gemellari (probabilmente dovute anche all’utilizzo della fecondazione in vitro nelle donne in età avanzata), che possono comportare maggiori difficoltà sia durante la gestazione che durante il parto; le malformazioni genetiche del bambino, tra le quali la Sindrome di Down sembra maggiormente collegarsi all’avanzata età della madre (Steine Susser, 2000).

Maggior rischio di disagio psicologico e sociale

Sempre più numerose in letteratura sono le ricerche che collegano la maternità tardiva al rischio di depressione dopo il parto (Carlson,2011;Aasheim et al.,2012;Muraca e Joseph, 2014). L’aumento di questo rischio può essere dovuto al fatto che le mamme più anziane hanno affrontato più difficoltà, sia durante la loro vita, sia, nello specifico, durante la gravidanza (per i motivi discussi nel paragrafo precedente); inoltre, a causa della concezione di maternità che è cambiata, e sta cambiando, col tempo potrebbero soffrire la mancanza di sostegno sociale e soprattutto del gruppo dei pari (Muraca e Joseph, 2014).

Altri studi, hanno invece collegato la maternità in età avanzata ad un aumento dell’ansia, riconducibile alla paura di perdere il proprio bambino, ma anche alla preoccupazione riguardo alla loro futura adeguatezza sociale e alla loro identità come madre. Quest’ultimo punto, si può collegare al fatto che, spesso, queste madri sono vittime di pregiudizi da parte sia della comunità (alimentati dalla propaganda mediatica) sia dai propri amici e parenti. Le ansie più specifiche che vengono riportate da queste madri sono: la preoccupazionedi essere considerata egoista da parte degli altri per il voler avere comunque un figlio nonostante l’età, la diminuzione dei livelli di energia fisica e mentale e il timore di non essere capace di affrontare e risolvere le situazioni. Infine, un’ulteriore preoccupazione che influisce sulla sintomatologia ansiosa è quella di poter morire presto e non riuscire a veder crescere i propri figli (Shaw e Giles, 2009).

Conclusioni

Dato il cambiamento culturale e il maggior desiderio di autosufficienza, frutto dell’emancipazione moderna, avere figli dopo i 35-40 anni è quindi una decisione che deve essere presa liberamente dalla donna, in seguito ad un’accurata riflessione su se stessa e sulle sue possibilità di offrire un futuro adeguato al proprio bambino, senza basarsi su pregiudizi o pressioni sociali. Anche decidere di non averne, quindi, non deve essere considerato un impedimento alla realizzazione personale né tanto meno frutto di sensi di colpa legati alla mancata generatività.

 

Il terapeuta che ride in seduta: osservazioni e riflessioni sul ruolo del riso in psicoterapia

Può un terapeuta sentirsi autorizzato in modo sincero e trasparente a lasciarsi andare ad una battuta o a ridere?

 

La mia collega (e omonima) Virginia Failoni tempo fa ci ha regalato un bellissimo articolo sul ruolo che può assumere il pianto all’interno del setting terapeutico, evento che si è meritato il costrutto di ‘Therapists’ Crying In Therapy’. Infatti non stiamo parlando di un pianto qualsiasi ma di quello del terapeuta. Sì sì, avete capito bene: anche lo psicoterapeuta può lasciarsi andare alla commozione e al pianto. La collega riporta, con sua sorpresa, i pochi riferimenti scientifici e i dati di letteratura a riguardo ma le conclusioni hanno normalizzato le lacrime che a volte condividiamo con i nostri pazienti. Sulla scia del suo contributo, ho pensato ad un momento al mio ultimo anno di specializzazione. Chiesi al mio supervisore se era permesso ridere durante la seduta. Cosa mi aspettavo? Che mi dicesse che ero pazza oppure che ridesse a sua volta alla mia domanda? Invece la sua reazione fu: ‘Fammi capire dai…a che stai pensando?

Ed eccoli lì, i frames di turno. In settimana avevo accolto un paziente e qualche secondo prima avevo ascoltato l’audio di un’amica. Gli aprii la porta mentre ridevo ancora. Quando entrò in stanza mi guardò con il volto visibilmente triste e fece un’espressione di disprezzo. Viceversa con un’altra paziente che mi aveva raccontato una storia davvero buffa io risi a stento. Non che non la trovassi divertente. Effettivamente lo era ma subito mi chiesi se era giusto-possibile-corretto-adeguato-ecc ecc ridere durante la seduta. Tuttavia, il mese successivo, una paziente con degli occhi blu molto intensi, aveva appena finito di piangere raccontandomi della morte del padre. Per asciugarsi le lacrime, prese un fazzolettino dalla scatola che si trasformò in un milione di pezzettini che le rimasero incollati alle palpebre. Come se fosse uno sketch comico, iniziai a ridere senza riuscire più a fermarmi. Lei, appena ne comprese il motivo, rise di gusto assieme a me. Il tutto durò la bellezza di qualche minuto.

Tornando al mio supervisore, ricordo che mi disse che se avessi trascorso due ore nel corridoio del suo studio avrei sentito tante risate e tante lacrime sia dei pazienti che dei terapeuti. Aveva ragione: proprio non esistono prescrizioni. Se non quelle che ci siamo costruiti nella nostra mente, durante la nostra storia di sviluppo o durante gli anni della formazione professionale.

Eventi di vita infatti consolidano dentro di noi schemi maladattivi interpersonali (Dimaggio et al. 2013; 2019) con cui conferiamo significato agli eventi. Se, per l’appunto, ci rincorre e domina l’idea di doverci mostrare sempre seri, composti e aderiamo all’immaginario collettivo che vede il terapeuta imperturbabile a tutto, allora sarà più difficile lasciarci andare. Potremmo vergognarci all’idea di trasmettere una risata sfacciata nello stesso modo in cui può essere difficile condividere qualche lacrima. Magari ci ritornano scene in cui ci è stato detto ‘Fannullone…sii concentrato a lavoro, non c’è spazio per altro’. Potremmo provare paura all’idea di non saper gestire le conseguenze e le ricadute nello spazio relazionale della terapia. D’altro canto, potremmo notare conseguenze nella relazione anche quando, con l’intento di soffocare una determinata reazione emotiva, ad esempio cercando di fare abortire una risata, inibendone l’emersione, appariamo inautentici.

Proprio come Virginia, ho provato anche io a fare un giro su Pubmed, e ho scoperto che nomi del calibro di Ellis, Perls, Erickson, Satir, Rogers sono considerati dei ‘super-therapists’ in grado di usare l’umorismo e le risate nelle terapie con i pazienti gravi, all’interno di terapie sia individuali sia di gruppo, sia in setting privati che in contesti istituzionalizzati (Adams, 2008). Sono, però, tecniche ben precise, volte all’induzione attiva di uno stato mentale positivo attraverso la visione di film immagini o storie, ad esempio (Martin, 2007). Anche Linge-Dahl et al. (2018) hanno mostrato l’importanza dell’uso della risata nelle cure palliative e, scorrendo nella ricerca, si trovano altri risultati circa l’applicazione della risata e dell’ironia in casi di insonnia, dipendenza, attacchi di panico e molto altro.

Quello su cui, invece, voglio puntare l’attenzione è un altro aspetto della risata e fa riferimento alla componente del tutto naturale e sincera, casuale, non lontana da quello che accade durante una cena tra amici. A questo punto la domanda dovrebbe essere posta in modo diverso: può un terapeuta sentirsi autorizzato in modo sincero e trasparente a lasciarsi andare ad una battuta o ad una risata? Ma su questo, nessun dato di ricerca. Ho però trovato un interessante studio in cui i soggetti interpretavano la risata dell’altro (quindi anche quella del proprio terapeuta) come scherno o presa in giro. Ovviamente si tratta di pazienti con idee paranoidee o con ansia sociale che faticano a decentrare e a non interpretare le reazioni degli altri se non in modo autoriferito e negativo. In tal caso però si tratta di un problema metacognitivo o di un bias cognitivo legato alla patologia (Kreifelts et al., 2014).

Ecco sciolto il mistero. Probabilmente non esiste una idea standard né universale sul riso nella stanza di terapia ma è necessario che il terapeuta si interroghi su quello che per lui può rappresentare e, soprattutto, che esplori assieme al paziente cosa gli passa nella mente mentre vede il proprio terapeuta lasciarsi andare alla risata, da quella riservata a quella più fragorosa. Abbiamo una domanda che, nella sua semplicità e sincerità, ci permette di indagare davvero di tutto. Suona tipo ‘Ma lei, in questo momento, come mi sta percependo?’ non molto diversamente da quando noi ci chiediamo come ci risuona quello che sta dicendo o facendo il paziente in un determinato momento. E lì bisogna corazzarsi di apertura mentale per poter incassare ogni tipo di risposta da parte dell’altro. Safran e Muran (2019) spiegano in modo chiaro l’importanza di questa disposizione interna, per certi versi difficile da coltivare, ma importante per sondare quello che accade nella danza relazionale di fronte a delle reazioni emotive fisiologiche e automatiche come appunto le lacrime e il riso, oppure anche il rossore, il sopracciglio alzato del disprezzo, gli occhi spalancati per la paura. Grazie a questo tipo di confronto scoprii che il paziente di cui accennavo prima, si sentì sottovalutato nel suo bisogno di attaccamento nel momento in cui mi vide sorridere alla porta. Viceversa, la paziente con i fazzolettini sugli occhi mi disse che era stato importante notare che, anche un dolore intenso può essere temporaneo e modificabile. Infine emerse anche il tema dell’accudimento nei miei confronti: temeva di avermi appesantito con la storia del padre. E fu così che scoprimmo un ulteriore tassello del suo funzionamento.

Tra utopia e fanatismo – Il caso di Jim Jones

Jim Jones ha concepito l’idea di creare un’utopia socialista, dove la fratellanza e la tolleranza avrebbero avuto la meglio sul materialismo e sul razzismo che detestava; arriva così a fondare una città con i suoi seguaci che prende il nome di Jonestown.

 

Uno dei casi più famosi che risponde alla definizione di delirio è ‘il caso Jonestown’, che non è un delirio individuale, bensì un delirio collettivo propagatosi a causa dell’effetto massa.

L’obiettivo del presente articolo è quello di realizzare una disamina su una delle menti più controverse del dopoguerra, quella di Jim Jones; per raggiungere questo obiettivo analizzeremo le fasi rilevanti della sua vita allo scopo di ipotizzare una diagnosi.

La giovinezza

James Warren Jones nasce nel 1931 nell’Indiana rurale e sin da giovane viene descritto dai conoscenti come un ‘ragazzo strano’ per via delle sue occupazioni: studiare religione, torturare gli animali e parlare di morte.

I suoi genitori non sono religiosi, ma Jones inizia a manifestare fanatismo sin da quando è molto giovane: la domenica mattina passa da una chiesa protestante all’altra, appassionandosi ad improvvisare sermoni con gli amici e a bacchettare chi fa rumore durante il salmo. Racconta di una chiamata del Signore, nonostante per molti quello sembrasse solo un disperato bisogno di attenzione. Jones studia pedagogia all’università dell’Indiana, e a 21 anni inizia a fare il pastore. L’integrazione è al centro delle sue prediche ma i suoi primi gesti concreti hanno poco successo, dato che diverse famiglie lasciano la chiesa quando i primi neri entrano dalla porta. Questo non lo scoraggia, anzi è un incentivo per la creazione della sua chiesa chiamata il ‘Tempio del Popolo’.

Interessante, per il nostro scopo, è sapere che suo padre era un reduce disabile della prima guerra mondiale, iscritto al Ku Klux Klan, nome utilizzato da diverse organizzazioni segrete esistenti negli Stati Uniti d’America, con finalità politiche e terroristiche a contenuti razzisti e sostenitrici della superiorità dell’etnia caucasica bianca.

Naturalmente sorge una domanda: abbiamo a che fare con un ‘genetico fanatismo’ o il suo estremismo nasce da una forma di ribellione nei confronti dell’ideologia del padre?

L’utopia multietnica

Il ‘Tempio Del Popolo’ nasce come un movimento laico di volontariato, con connotazioni politico-socialiste unite a principi della chiesa protestante (Wessinger, 2000).

Jones ha concepito l’idea di creare un’utopia socialista, dove la fratellanza e la tolleranza avrebbero avuto la meglio sul materialismo e sul razzismo che detestava (Zimbardo, 2008).

Inizialmente diffonde il suo messaggio incoraggiando i propri discepoli a donare cibo e lavoro ai poveri, per i quali avvia una mensa e un ospizio. Impressionati dalla sua opera pia, molti si uniscono alla sua chiesa, ma, successivamente, riferendo della visione di un imminente attacco nucleare ai danni del Midwest americano, convince un centinaio di persone a seguirlo in California, dove continua la sua attività offrendo sostegno anche ad alcolisti e tossicomani.

Oltre alla sua comunità multietnica c’è il suo stretto nucleo familiare che comprende quattro bambini, di cui tre adottati da diverse etnie.

Quello che all’inizio è un piccolo progetto di creare una famiglia multietnica, si estende sempre più fino ad includere un migliaio di persone. Predicare libertà e uguaglianza, nell’epoca in cui imperversa la guerra fredda, fa guadagnare facili consensi, soprattutto tra le minoranze etniche più deboli e svantaggiate, di cui i suoi seguaci fanno parte. Per molti Jones rappresenta la salvezza e la speranza di una vita migliore.

Il sogno diventa realtà

A seguito di accuse di promiscuità sessuale e di attività politiche segrete, la setta si trasferisce nella giungla della Guyana, al confine col Venezuela, fondando qui la nuova città di Jonestown, ma, prima di trasferirsi, i fedeli devono vendere o lasciare alla chiesa tutti i loro beni terreni. Jones sceglie questo posto perché lo ritiene il luogo ideale per pregare e salvarsi da una guerra nucleare (incipit indicativo dei suoi tratti paranoici e deliranti).

L’idea è, quindi, di trasformare questa comunità in un paradiso in Terra: i membri vengono indottrinati con linguaggio millenaristico e tecniche di lavaggio del cervello. Coloro che abbandonano la comune sono definiti disertori ed esiste una polizia informale per ostacolare, se non rendere impossibile, la fuga. Le diserzioni sono comunque pochissime poiché le persone vivono una vita completamente comunitaria, in cui è difficile sviluppare il desiderio di andarsene, ma pian piano i suoi squilibri si fanno sempre più evidenti.

Il suo carisma è fortemente percepito, così come la sua necessità di tenere tutto sotto controllo: non a caso crea un sistema di controllo interno che ha come obiettivo iniziale quello di assicurarsi che tutti stiano bene, ma che successivamente si tramuta in un vero lavoro di spionaggio, in cui sono proibiti persino i rapporti sessuali senza la sua concessione.

‘Per una serie inspiegabile di ragioni, accade che io sia stato scelto per essere Dio’ predica Jones. Nella sua dottrina, che chiama socialismo divino, il ruolo di Jim Jones come autore di miracoli e salvatore dell’umanità si va ampliando fino a mettere in ombra quello di Gesù Cristo.

L’organizzazione si fa sempre più severa, il lavoro più duro e con orari sempre più lunghi. Non avendo denaro la gente sembra non avere scelta e continua a vivere nella convinzione di una giusta causa, in cui il sacrificio avrebbe portato alla creazione del mondo ideale tanto sognato.

Leadership

Uno studio che indaga lo stile di leadership ha suggerito che l’onnipotenza, la paranoia e la costruzione di monumenti sono le principali caratteristiche dello stile di leadership della megalomania (Seifries, 2018).

Da una ricerca inedita, Zimbardo ha scoperto che Jones ha molto probabilmente acquisito la sua capacità di convincere da un famoso pensatore sociale: George Orwell (Dittman, 2003).

Durante 25 anni di ricerche e interviste con i sopravvissuti di Jonestown, Zimbardo ha trovato analogie tra le tecniche di controllo mentale usate da Jones a Jonestown – ovvero sofisticati tipi di acquiescienza , conformità e obbedienza – e quelle descritte nel libro di fantascienza di Orwell 1984. Alcune delle tecniche di controllo mentale sono:

  • Il Grande fratello ti sta guardando. Zimbardo afferma: ‘Jones ha usato questa idea per guadagnare la fedeltà dei suoi seguaci. Ha ottenuto che i seguaci si spiassero l’un l’altro e ha fatto sì che degli autoparlanti inviassero messaggi in modo tale che la sua voce fosse sempre presente mentre i suoi seguaci lavoravano, dormivano e mangiavano‘.
  • Auto-incriminazione. Jones incaricava i seguaci di rendergli dichiarazioni scritte chiamate confessioni in cui dicevano di aver abusato delle proprie figlie o commesso altri gravi crimini. Le confessioni venivano ritirate e conservate negli archivi della chiesa. Le defezioni non erano ammesse: chi provava a lasciare il culto veniva perseguitato e minacciato per molto tempo dai fedelissimi di Jones. Dal pulpito, Jones non mancava mai di ricordare storie terribili di disgrazie o di morte che avevano per protagonisti i traditori.
  • Induzione al suicidio. I seguaci di Jones facevano esercitazioni pratiche di suicidio fino al dell’evento vero e proprio che li coinvolse nel suicidio di massa.
  • Distorcere la percezione della gente.Jones ha offuscato il rapporto tra le parole e la realtà, per esempio, imponendo ai suoi seguaci di rendergli grazie ogni giorno per il buon cibo e per il lavoro, eppure la gente era affamata e lavorava sei giorni e mezzo a settimana. Per padroneggiare queste tecniche di controllo mentale, Jones è stato in grado di ottenere obbedienza e fedeltà dai seguaci. Jim Jones è probabilmente il leader del culto più carismatico dei tempi moderni, a causa del suo carisma, della sua oratoria, del suo sex appeal, del suo dinamismo e della sua partecipazione totale nel controllo di ogni membro del suo gruppo‘ afferma Zimbardo.
  • La tecnica del ‘piede oltre la soglia’. Jones agganciava le persone richiedendo donazioni e impegno inizialmente esigui, ma gradualmente estendeva tali richieste, per cui il soggetto, già inserito nel sistema, non poteva sottrarsi al crescente coinvolgimento e si ritrovava a reclutare nuovi malcapitati, a dover assistere a lunghe funzioni religiose, a dover essere attivo politicamente per difendere il proprio gruppo.
  • La psicologia del conformismo. Qualsiasi forma di dissenso non veniva tollerata e i suoi personali informatori erano invitati a diventare amici di coloro che esprimevano dubbi riguardo al gruppo, per poi eliminare i disaccordi mediante pestaggi o umiliazioni pubbliche; le famiglie venivano divise, i bambini allontanati dai genitori, le coppie spinte a relazioni extraconiugali per indebolire la forza del loro legame. L’isolamento geografico del gruppo dalla società ottenuto a Jonestown è solo la ciliegina sulla torta di questa strategia.
  • Guarigioni miracolose venivano presentate al gruppo sotto forma di giochi di prestigio, grazie alla collaborazione di suoi seguaci molto devoti (che pur credevano nei suoi poteri sovrannaturali).
  • L’autogiustificazione. Sebbene si sia portati a pensare che riti di iniziazione dolorosi o bizzarri svalutino agli occhi del soggetto l’appartenenza al gruppo, è piuttosto vero il contrario; ciascuno giustificava la propria sofferenza mettendosi positivamente a disposizione dell’organizzazione.

La diagnosi ipotetica

Possiamo ipotizzare in Jones un’organizzazione personologica narcisistica. Inoltre l’importanza delle sue prediche nasceva dalla convinzione che presto sarebbero stati invasi, che i nemici erano nascosti nella giungla e presto li avrebbero attaccati. Possiamo, quindi ipotizzare che si tratti di un Disturbo Delirante, ma quest’ultimo potrebbe essere insorto anche nel contesto di un preesistente Disturbo Paranoide di Personalità. In tali soggetti, nella prima età adulta si manifestano una sfiducia e una sospettosità pervasive nei confronti degli altri e delle loro intenzioni, che si protraggono per tutta la vita.

Delirio di persecuzione, di religione o di grandezza?

Il delirio è una condizione acuta di distacco e percezione distorta della realtà, che risulta costante e pervasivo nella vita della persona e non è bizzarro come nella schizofrenia; secondo il DSM-5 è caratterizzato da un’alterazione della coscienza e da modificazioni cognitive che si sviluppano in un breve lasso di tempo. Il Disturbo Delirante è quindi un disturbo caratterizzato da convinzioni deliranti, in assenza degli altri sintomi tipici della schizofrenia ed evolve in genere dalla degenerazione di tratti caratteriali come il fanatismo, la diffidenza, l’inclinazione al rancore e via dicendo. La nascita del disturbo può non avere sintomi rilevanti dal punto di vista delle capacità dell’individuo di vivere una vita sociale relativamente normale, ma la sua degenerazione può modificare questa situazione, come nel caso descritto.

Il contenuto delle idee di Jones ci indica che si tratta di un delirio di grandezza, più che religioso o di persecuzione, considerato che il leader aveva la convinzione di essere estremamente importante, di possedere un ruolo di grande rilievo e qualità particolari, come quella di compiere miracoli (che in realtà inscenava). Il delirio di onnipotenza porta il soggetto coinvolto a voler avere il controllo su ciò che per lui rappresenta la sua proprietà, e possiamo dedurre che nel caso di Jones si tratti di possedere molteplici persone (la comune), nonché di un’idea: la pseudo-religione che ha creato. Nell’uomo tendenzialmente questa possessività eccessiva si manifesta con un aumento dell’aggressività verso chi o cosa può minacciare la o le sue proprietà, reali o immaginarie. Scatti d’ira, agitazione, rabbia e impulsività rappresentano i connotati principali di questa forma di psicosi e si ritrovano tutte in Jones. Ogni singolo gesto può scatenare la psicosi, ma di solito questa non sfocia in un atto violento, bensì si sviluppa a cerchi concentrici, come minacce e raggiri.

L’epilogo

In seguito alle rivendicazioni delle famiglie di alcuni membri, che ritengono i loro parenti trattenuti contro la loro volontà, una delegazione guidata dal deputato Leo Ryan decide di recarsi al tempio.

Quindici persone in cerca di libertà, confessano di essere state trattenute forzatamente nella comune da Jim Jones, per questo il servizio di sicurezza del movimento, contrariato dal tradimento, inizia a sparare lasciando pochi superstiti. Venuto a conoscenza dell’accaduto, Jones convoca un’assemblea generale in cui avanza la richiesta ai membri di effettuare un suicidio di massa per la gloria del socialismo, porgendo loro un cocktail a base di cianuro e valium e parole rassicuranti:

Se non ci lasciano vivere in pace, allora moriremo in pace. Senza di me la vita non ha senso. Seguitemi amici, è facile‘.

La vicenda conosce un epilogo tragico il 18 novembre 1978 con il suicidio collettivo di 913 adepti, di cui 219 bambini. Esistono testimonianze provenienti dai pochi superstiti i quali riferiscono che le persone che si opposero alla decisione di Jones, furono uccise a colpi di arma da fuoco e che il livello di fanatismo estremo portò le madri ad avvelenare spontaneamente i loro figli.
I sopravvissuti descrivono Jonestown come una combinazione di prigione, bucolica isola di felicità e riuscita integrazione multietnica.

 

La VideoTherapy (VDT) come strumento terapeutico. Studio pilota su un nuovo protocollo di trattamento

Durante l’adolescenza ogni esperienza e relazione concorre a sviluppare la propria identità e le esperienze psicotiche precoci influenzano l’abilità degli individui di integrare la propria personalità in una struttura unificata e coerente.

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Introduzione

La VideoTherapy (VDT) è un protocollo di intervento basato sull’utilizzo di tecniche di videoconfrontazione. Essa è stata concepita, sviluppata e studiata presso il Centro Adolescenza di Bassano del Grappa (VI) come risposta all’esigenza di implementare modalità di trattamento innovative e specifiche, da affiancare alle tecniche standard, con l’obiettivo di rinforzare alcuni aspetti di percezione di Sé ed autoconsapevolezza (Brazzale et al., 2018).

Il Centro Adolescenza è un servizio di intervento precoce e prevenzione in giovani con disagio psicologico, prime manifestazioni di disturbi psichici, stati mentali a rischio o all’esordio psicotico. L’esperienza maturata in questo ambito ha fatto sì che emergesse il bisogno di rinforzare alcuni aspetti di percezione di Sé e del mondo che appaiono disfunzionali nei giovani, in particolare in quelli a rischio.

La percezione di Sé

Una prima riflessione è legata al fatto che le esperienze psicotiche – in particolare quelle precoci – portano con sé il rischio di intaccare la percezione di un Sé coerente, unico e solido, portando alla frammentazione del Sé (Goldstein, 1995; Cullberg, 2006).

Considerando dunque la popolazione giovanile, è comprensibile come queste riflessioni assumono rilevanza. Durante l’adolescenza, infatti, ogni esperienza e relazione concorre a sviluppare la propria identità e le esperienze psicotiche precoci influenzano l’abilità degli individui di integrare la propria personalità in una struttura unificata e coerente. Il primo episodio psicotico in tal senso può avere conseguenze drammatiche, dando luogo a sentimenti di smarrimento, di discontinuità, diminuita coerenza interna e confusione (Grazebrook et al., 2004; Cullberg, 2006; Hertz, 2008).

Metacognizione e percezione dell’altro

Oltre alla percezione di Sé, vi è un’altra componente frequentemente danneggiata in tali disturbi: la percezione dell’altro, del mondo esterno, che ha conseguenze sulle relazioni e sulla qualità delle interazioni sociali (Flaherty, 2014). Gli studi sulla Metacognizione, in particolare di Stephen Moritz, hanno confermato come vi siano bias specifici attivi in tali contesti di interazione, portando l’autore a sviluppare un Training specifico per le psicosi basato sul rinforzo di competenze specifiche e sul rendere più flessibili alcune strategie cognitive in atto nelle situazioni sociali, come ad esempio il saltare alle conclusioni e gli stili attributivi (Moritz et al. 2010: Moritz et al. 2013; Moritz et al. 2016).

Sulla base di questi studi si è deciso di valutare la possibilità di introdurre VDT come nuovo ed innovativo strumento di rinforzo della percezione di Sé, accompagnata da uno strumento già standardizzato che avesse come focus la percezione dell’esterno, attraverso l’uso del Training Metacognitivo per le Psicosi (Moritz et al., 2013). Ben prima dell’efficacia clinica e terapeutica di questo strumento, è stato importante valutarne la sostenibilità all’interno di un servizio pubblico, osservando e considerando i feedback dei giovani partecipanti in questa prima fase.

La VDT

La VDT è uno strumento che si fonda sull’incontro ed il confronto tra l’individuo e la propria immagine, con cui dialoga e su cui riflette, studiato in varie forme applicative con pazienti con Disturbi Alimentari, Disturbi dell’Umore e Schizofrenia (Brazzale et al., 2018). Giusti (1999) sottolinea come tale incontro fondi le basi per una esperienza di revisione: tramite l’interazione con l’immagine riflessa, la stessa immagine diventa l’interlocutore del soggetto in un processo di confronto con sè stessi.

Lo scopo di questa operazione consiste nel rendere più adattive e sane le modalità interpretative del soggetto, portandolo a considerare la realtà non più come oggettiva, ma come il risultato di un’operazione attiva da parte del soggetto percepiente. Uno dei principali effetti terapeutici della VDT entra in gioco quando l’immagine diventa autonoma, o meglio, quando avviene un processo di “distanziamento” dall’immagine mentale di sé. La fase del playback nel protocollo VDT ha proprio questa fondamentale  funzione all’interno del processo di cambiamento.

Questa distanza tra l’immagine riflessa e quella mentale, permette all’individuo anche di riconoscere le discrepanze tra il Sé ideale e il Sé reale, mettendo in moto un necessario processo di differenziazione e/o di integrazione dei diversi aspetti del Sé rappresentato e pensato, oltre che approfondire la consapevolezza di alcune modalità relazionali e di interazione.

Abbiamo ritenuto che tale progetto di utilizzo delle tecniche di VDT potesse promuovere una nuova esperienza percettiva e psicologica, insolita ed originale, il cui fine può essere proprio l’integrazione delle diverse parti del Sé neutralizzando la dissociazione psicotica. Ulteriori effetti terapeutici della VDT, inoltre, risultano essere attivi nella capacità di stimolare una osservazione e monitoraggio delle propri bias implicati giudizio di Sé (Bias interni, giudizio e monitoraggio del Sé) (Brazzale et al. 2018). Tale azione potrebbe dunque agire sul Sé sociale o Sé narrativo, una delle strutture del Sé più evolute, il quale permette all’individuo di accedere ad una riflessione su sé stesso ad auto descriversi. Questa struttura è tra le prime ad essere compromessa nelle fasi a rischio, arrivando ad una destrutturazione del Sé minimo o nucleare nelle patologie psicotiche e nella schizofrenia (Cozzi, 2018).

Lo studio

Nel 2015 è stato dunque strutturato uno studio pilota condotto da diverse Aziende Sanitarie Locali del Veneto, al fine di testare l’applicabilità dello strumento all’interno del sistema sanitario pubblico ed osservarne la possibile efficacia clinica. Considerando che il principale obiettivo era valutare la sostenibilità dell’intervento, sono state svolte principalmente osservazioni di tipo qualitativo, accompagnate dalla somministrazione pre- e post- intervento, di alcuni test clinici e questionari per valutare aree sintomatiche, la teoria della mente e le abilità percettive e di manipolazione dell’immagine visiva. Come detto precedentemente, l’efficacia clinica della tecnica non è stata oggetto di indagine in questa prima fase, motivo per cui l’analisi dei dati ha avuto un ruolo più marginale, seppur dando indicazioni incoraggianti rispetto ad una possibile efficacia. Tali dati sono stati comunque esposti e discussi nel manoscritto originale pubblicato presso American Psychiatry (Brazzale et al, 2018).

In questa fase sperimentale, il protocollo VDT è stato testato con ragazzi che riportavano una sintomatologia psicotica lieve, piuttosto che con coloro che avessero già sperimentato un episodio psicotico (FEP), al fine di valutare l’attuabilità con la popolazione in fase premorbosa e pertanto a rischio clinico (CHR) sulla base dato clinico e di ricerca secondo cui le stesse esperienze pseudo psicotiche siano presenti in queste fasi già in forma lieve (Larson et al, 2010; Yung et al, 2013, Cozzi, 2017).

La VDT si svolge tramite l’utilizzo di un I-Pad o tablet posto all’altezza degli occhi, con il quale il soggetto interagisce in varie forme. Le tecniche principali consistono nella Video Confrontazione, Video Story e PlayBack (Brazzale et al., 2018).

Nella Video Confrontazione, gli individui si osservano nel monitor, commentando l’immagine, i sentimenti e le sensazioni elicitate, dialogando con la persona riflessa nello schermo.

Nella Video Story il soggetto lavora con delle foto di sé che porta in seduta, descrivendo le circostanze, i sentimenti, le emozioni e i ricordi che suscitavano in lui.

Il PlayBack è un momento in cui il soggetto rivede la seduta registrata tramite il tablet e viene stimolato a fare ulteriori commenti e raccontare le proprie sensazioni nel rivedersi.

Tale protocollo è stato applicato a 18 adolescenti (12-21 anni), in carico presso le ULSS locali e valutati come a rischio per lo sviluppo di un disturbo psicotico, con lo scopo di valutarne l’applicabilità in un contesto ambulatoriale. Ai ragazzi è stata spiegata la natura sperimentale dell’intervento, che non ha sostituito il trattamento standard che stavano svolgendo.

I risultati e la risposta positiva dei giovani trattati hanno permesso di verificare la sostenibilità applicativa dell’intervento. La VDT è apparsa come una tecnica promettente, essa infatti è stata un’attività originale, interessante ed appetibile per i ragazzi.

L’interesse mostrato dai giovani rispetto a queste nuove tecniche alternative al colloquio standard ha inoltre permesso di contrastare l’isolamento e la resistenza in terapia, stimolando di fatto nei ragazzi una rinnovata curiosità e la partecipazione attiva rispetto al processo terapeutico.

Sono state fatte osservazioni riguardanti la possibile efficacia clinica nel breve termine, le quali hanno mostrato come effettivamente vi sono dati incoraggianti. I limiti legati alla scarsa numerosità e rappresentatività del campione non consentono tuttavia di trarre maggiori conclusioni.

L’associazione della VDT con tecniche di intervento di stampo meta-cognitivo ha infine conferito complementarità e incisività all’intervento (Brazzale et al., 2018).

 

La dinamica della cura (2019) di Jean-Paul Hiltenbrand – Recensione del libro

Lo scritto La dinamica della cura va alla scoperta dei concetti psicodinamici di pulsione, ripetizione e rimozione che da Freud ad oggi rimangono temi fondamentali per la psicologia clinica e la psicoanalisi.

 

Il secondo libro dell’autore francese Jean-Paul Hiltenbrand, come la sua prima opera Transfert, Oggetto a, Identificazione. Concetti fondamentali della psicoanalisi,  magistralmente racchiude le trascrizioni dei seminari milanesi tenuti per gli allievi del Laboratorio freudiano e i soci dell’Associazione lacaniana. Un percorso dedicato a tre concetti fondamentali e cari alla psicoanalisi che l’autore espone restituendoli al suo pubblico esperto in modo originale, chiaro ed esemplificativo.

I seminari approfondiscono e riesaminano i concetti di pulsione, ripetizione e rimozione analizzati in relazione alla cura e al rapporto tra analista e paziente. Le prime pagine sono dedicate al ‘solo elemento concettuale puro’ della psicoanalisi, ovvero la pulsione, quella nota ‘forza che spinge l’uomo verso un sistema di piacere o dispiacere e che si articola nel corpo’, concetto che Hiltenbrand espone riprendendo le formulazioni di Freud e paragonandolo continuamente al pensiero di Lacan. Nel farlo egli ravviva la spiegazione rimandando ad esempi di pulsione nella relazione tra paziente e analista sostenendo quanto questa sia talvolta difficilmente accessibile al terapeuta. Egli presenta al pubblico racconti e aneddoti divertenti, arricchendo la trattazione con descrizione di casi clinici, fatti di cronaca e rispondendo alle curiosità del pubblico, anche quando queste esulano dal topic principale.

L’autore passa poi a trattare il ‘concetto’ di desiderio e domanda attraverso illustrazioni ideate da Lacan per descrivere questi fenomeni e inquadrarli all’interno della relazione madre-bambino. Egli affronta poi il desiderio maschile e femminile, trattando la questione con toni talvolta duri e fronteggiando temi sociali attuali in maniera originale.

Il secondo seminario affronta poi il percorso storico della ripetizione approfondendo alcuni testi freudiani attraverso i quali questo concetto si è ‘trasformato subendo varie vicissitudini‘. Un concetto che Lacan ha scelto di considerare come uno dei quattro concetti fondamentali della psicanalisi e che definisce come ‘qualcosa che richiede sempre del nuovo e non è la ripetizione di un identico‘. All’interno del processo di cura, la ripetizione è ‘una resistenza che va attraversata‘ e che va distinta dal transfert.

Per fare subito la differenza tra transfert e ripetizione, vi ricordo ciò che ho detto ieri. Il transfert è una messa in atto della realtà dell’inconscio attraverso le strade di quell’inganno che è l’amore. Ma a differenza della ripetizione che è una messa in atto di un reale, il transfert tocca la dimensione della domanda e della mancanza e quindi tocca la struttura di beanza del soggetto.

Hiltenbrand dedica un ultimo seminario alla rimozione, definita come ‘uno dei punti fondamentali della psicoanalisi, poiché legata alla concezione di sintomo e alla sua interpretazione’. Tale concetto si situa ‘all’incrocio tra l’inconscio e il sintomo’ e ha un valore fondamentale nell’ambito della clinica e in relazione al processo di cura. In questo senso, lo scopo dell’analisi è ‘sollevare’ la rimozione in modo civile, riconoscere il rimosso e accertarne la dimensione, identificando e decifrando i sintomi che ne derivano.

Questo testo, nelle modalità con cui è stato ideato e grazie alle trascrizioni delle lezioni/seminari risulta una testimonianza importante grazie alla quale sia analisti sia pazienti, nell’ambito della dinamica della cura, possono cercare soluzioni a dilemmi e precisazioni sui temi che riguardano la pulsione, la ripetizione e la rimozione. Il lettore troverà così uno spazio narrativo in cui riscoprire i concetti della psicoanalisi freudiana e lacaniana, trattati in modo originale ed arricchiti da una clinica attuale sempre più rivolta a tematiche del mondo odierno.

 

MCT di gruppo per il GAD – fattibilità ed efficacia

Uno studio pilota recente condotto in una clinica psichiatrica norvegese ha cercato di valutare la fattibilità della g-MCT per i pazienti adulti affetti da GAD e la sua efficacia nella riduzione della sintomatologia ansiosa, depressiva, nonché sulla riduzione delle metacognizioni positive e negative e le strategie di coping disadattive.

 

Il Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD) è un disturbo comune associato tipicamente a un decorso cronico e a una riduzione significativa della qualità di vita del paziente (Spitzer et al., 2006; DSM-5, 2013). Esso è caratterizzato da preoccupazioni eccessive e incontrollabili legate a molteplici eventi o attività (DSM-5, 2013).

La Metacognitive Therapy (MCT) (Wells, 2009) ambulatoriale individuale per il GAD ha un’efficacia ben consolidata in ricerca (Wells & King, 2006; Wells et al., 2010; van der Heiden et al., 2012; Nordahl et al., 2018), tanto da essere stata inserita come trattamento d’elezione all’interno delle linee guida del National Institute for Health and Clinical Excellence (2011). Tuttavia, l’efficacia di una terapia di gruppo MCT (g-MCT) per il GAD è stata analizzata solo in uno studio (van der Heiden et al., 2013), il quale, pur avendone constatato l’efficacia nella riduzione dei sintomi del GAD, ha lasciato aperte ancora altre questioni, soprattutto in riguardo all’effettiva fattibilità (recrutamento, grandezza del gruppo, dropout) di una terapia così strutturata.

Di conseguenza, uno studio pilota recente (Haseth et al., 2019) condotto in una clinica psichiatrica norvegese ha cercato di valutare la fattibilità della g-MCT per i pazienti adulti affetti da GAD e la sua efficacia nella riduzione della sintomatologia ansiosa, depressiva, nonché sulla riduzione delle metacognizioni positive e negative e le strategie di coping disadattive.

Il campione era composto da 23 partecipanti, di cui 22 donne (95,7%), con diagnosi primaria di GAD (ADIS-IV, Brown et al., 1994). I partecipanti sono stati suddivisi in cinque gruppi g-MCT, ciascuno con 4-6 pazienti, e sottoposti a 10 sessioni di gruppo settimanali (gestite da psicologi e psichiatri addestrati allo scopo), ciascuna con una durata di 90 minuti. Le sessioni della g-MCT erano strutturatate sulla formulazione del caso personale, la messa in discussione delle credenze metacognitive, e la prevenzione delle ricadute.

I pazienti sono stati sottoposti inoltre alla seguente testistica (pre-trattamento, post-trattamento e in un follow-up a tre mesi dalla fine del trattamento): il The Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) per la misurazione della gravità del rimuginio; il Generalized Anxiety Disorder-7 (GAD-7; Spitzer et al., 2006) per l’assessment dei sintomi del GAD; il The Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9; Kroenke et al., 2001) per la sintomatologia depressiva; la Generalized Anxiety Disorder Scale-Revised (Wells, 2009) per la valutazione del GAD secondo il modello metacognitivo.

Analizzando i risultati, il trattamento con la g-MCT si è dimostrato efficace sia nel ridurre i sintomi legati al rimuginio, all’ansia e alla depressione, sia ad abbattere le credenze metacognitive e le strategie di coping disadattive. Nel rilevamento post-trattamento il 65,3% dei pazienti aveva mostrato un tasso di recupero sintomatologico, il 30,4% era migliorato e il 4,3% non aveva mostrato alcun cambiamento (1 paziente soltanto). Al follow-up di 3 mesi, il tasso di recupero era aumentato al 78,3%. Inoltre, i tassi di recupero erano paragonabili per i pazienti con e senza comorbidità.

Per quanto riguarda gli aspetti legati alla fattibilità della terapia di gruppo, circa il 75% dei pazienti eleggibili per la terapia di gruppo aveva accettato questo tipo di trattamento e non si sono verificati drop out durante le dieci sessioni. Alla fine del trattamento i terapeuti ne erano soddisfatti e lo consideravano come un metodo applicabile alla pratica clinica.

In conclusione, la g-MCT per il GAD è un trattamento che può offrire un approccio alternativo (ed economicamente vantaggioso) rispetto a quello individuale MCT. I tassi di recupero e le dimensioni degli effetti sui sintomi suggeriscono che la g-MCT potrebbe essere efficace quanto la MCT individuale e la CBT: in questo senso è auspicabile che la ricerca futura si occupi di testare questi dati di efficacia su campioni più numerosi.

 

Mobbing – caratteristiche psicosociali e strategie di intervento di un fenomeno diffuso

Il mobbing (da to mob, ossia ‘assalire tumultuosamente’) viene definito in differenti modalità come molestia verbale, aggressione verbale, isolamento, calunnia ripetute nei confronti di una specifica persona per uno specifico periodo di tempo (Einarsen, 2005).

 

L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l’ufficio internazionale del lavoro (ILO) (Takaki et al., 2010) definiscono il mobbing alla luce di comportamenti ripetuti e offensivi (di stampo vendicativo o malizioso) finalizzati all’umiliazione e a porre in uno stato di inferiorità – minorità un singolo individuo lavoratore o un gruppo di lavoratori. Il primo studioso ad introdurre il termine fu Konrad Lorenz nel 1958 descrivendo, in campo etologico, il comportamento animale volto a minare e ad intimidire il rivale.

Harald Edge (n.d.) definisce il mobbing nel seguente modo:

Con la parola Mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro,
esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o
superiori. La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata,
criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all’altro, o
viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si
arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può
essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo
‘scomoda’, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato
licenziamento.

Lo stesso Edge (n.d) lo definisce altresì come un conflitto che accade a lavoro, solo a lavoro, con una frequenza di tutti i giorni, pochi giorni alla settimana o al mese per almeno sei mesi (Maran, 2018).

La legislazione italiana (Regione del Veneto, 2012) recepisce il mobbing e lo definisce nel seguente modo (l’articolo è stato tratto dal codice di protezione della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori nella Pubblica Amministrazione):

Costituisce mobbing un complesso di atti e comportamenti ostili, aggressivi o vessatori, posti in essere reiteratamente e sistematicamente, con modalità persecutorie, nei confronti della lavoratrice o del lavoratore da chi si trova in posizione sopraordinata (mobbing verticale) ovvero da colleghi (mobbing orizzontale) e che, creando un clima intimidatorio, umiliante, degradante, ed offensivo, hanno lo scopo o l’effetto, anche emarginandolo/a dall’ambiente di lavoro, di violarne la dignità personale e di danneggiare l’integrità psico-fisica.

Questo articolo, il 5 del Codice sopra citato, è interessante poiché evidenzia un legame molto stretto tra ciò che la legge identifica come mobbing e le evidenze scientifiche emerse in campo psicologico. Non sempre è presente questo tipo di legame e quando presente si avverte della necessità di una stretta collaborazione interdisciplinare che è sempre un passo avanti nell’integrazione e nello sguardo rivolto alla teoria della complessità. Ma l’articolo del Codice si spinge più in là per chiare esigenze normative e pone la necessità di un nesso causale tra il comportamento rivolto al lavoratore e il danno arrecato allo stesso, nonché la necessità di inscrivere gli atti di mobbing all’interno di un preciso piano vessatorio. Esiste dunque una intenzionalità di ledere la dignità del lavoratore e la sua integrità psico-fisica agendo con animus nocendi. È proprio tale volontà di nuocere che pone un legame con la violazione dei vincoli contrattuali che legano il datore di lavoro al lavoratore e ne descrivono il rapporto in funzione delle generali clausole di correttezza e buona fede. Da un punto di vista civilistico il mobbing viola l’articolo 2087 del c.c. che pone un generale obbligo di sicurezza sul lavoro, imponendo al datore di intraprendere tutte le misure necessarie per proteggere l’integrità fisica e psicologica del lavoratore (Menduto, 2020).

Il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro pone la necessità di una valutazione, in capo al datore di lavoro, che evidenzi tutti i rischi connessi alla salute. In questi debbono rientrare, evidentemente, anche i fattori di stress lavoro correlati o, in modo più specifico, i fattori di stress psicosociale a lavoro. Prima di procedere, oltre a tali fonti dell’ordinamento giuridico, esiste altresì anche un’altra fonte sopra le altre: la Costituzione. Essa infatti pone una tutela per i diritti fondamentali della persona nonché riconoscendo che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, pone di fatto, una necessità alla sua tutela come bene essenziale per la sua stessa sopravvivenza. Nel 2002 l’OMS (Zeynep, 2019) ha definito il mobbing un problema per la salute mondiale con conseguenze dannose.

Oltre agli aspetti civilistici che pongono una questione relativa al risarcimento e alla restaurazione, esistono altresì delle conseguenze a livello penale per lesioni per le quali si verifichi malattia del corpo e/o della mente.

Dunque dalla Costituzione, alle leggi Statali, alla P.A., fino ai luoghi di lavoro privati, la salute psico-fisica del lavoratore è al centro. O, almeno, al centro della tutela legislativa che si differenzia dall’idea che uno stesso principio di tutela della persona sia effettivamente al centro del sistema socio-economico del nostro paese.

Per quanto riguarda la sistematicità e reiterazione del comportamento con finalità persecutorie e vessatorie, qualcosa di più specifico è fornito da Leymann che, definendo il mobbing un ‘conflitto non violento nel luogo di lavoro’ (Zeynep, 2019), sostiene una frequenza del comportamento pari a una volta a settimana per almeno sei mesi (2019).

Esistono altresì figure che si occupano nello specifico di consulenza, assistenza e prevenzione in questioni inerenti la salute del lavoratore, o che almeno dovrebbero: psicologi del lavoro, medico del lavoro, responsabile del servizio protezione e prevenzione, rappresentante dei lavoratori in materia di sicurezza e organi statali per la sorveglianza della P.A. quali il comitato unico di garanzia, l’organo indipendente di valutazione e, in genere, le organizzazioni sindacali e il dipartimento risorse umane di ciascuna azienda privata o pubblica. Queste le figure coinvolte, in linea generale, a tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Tuttavia, seppure esiste un largo impiego degli psicologi all’interno del dipartimento risorse umane, non esiste ancora una chiara legislazione che ne regolamenti nello specifico il ruolo. Per fare un esempio, anche laureati in sociologia, giurisprudenza, economia possono ricoprire tale ruolo. Forse sarebbe necessario, come fa notare Altrapsicologia (2019), riuscire a regolamentare in modo più specifico il campo di applicazione delle conoscenze e possibilità della psicologia all’interno dell’ambito lavorativo.

Ritornando al mobbing, dati dal 2011 al 2016 riferiscono circa più di 38 mila casi in Turchia (Zeynep, 2019) mentre dati del 2018 dicono una prevalenza del 5/10% in Europa, del 50% negli USA e del 4% in Italia. Questo per fornire anche un’inquadratura mondiale del fenomeno. Nelle economie maggiormente capitalistiche e competitive il fenomeno appare più sviluppato. Tuttavia, il 4% non è poco, poiché spesso il mobbing è legato a disturbi psicologici come conseguenza dello stesso, se non viene affrontato seriamente si corre il rischio di ritrovarsi una società ‘ammalata’ che comporterà nuovi costi per la politica che si potrebbero evitare. Per farlo, tuttavia, occorre anche modificare il modo di pensare di fare impresa ed economia e non solo intervenire laddove esistono dei potenziali rischi, giacché rilevarli significherebbe che il contesto è già potenzialmente ‘affetto’ e il danno può essere fatto. Come sempre, la prevenzione è la miglior cura, tuttavia occorre, in questo caso, cambiare il modo di pensare e sentire che si traduce in una diversa modalità di fare impresa ed economia.

Un ulteriore dato evidenzia come in prevalenza le donne di una fascia compresa tra i 34 e i 45 anni di età siano oggetto di mobbing (Kostev et al., 2014). Sembra essere più diffuso tra la popolazione femminile e quella dei laureati (Zeynep, 2019). Vi possono essere tre ordini di spiegazione: il primo di stampo femminista afferma la cultura del patriarcato che prevarica e considera inferiori le donne. Il secondo di stampo sociologico afferma che le donne sono più esposte a condizioni di stress poiché si occupano del lavoro e dell’accudimento dei figli (o della famiglia in genere) e lo stress è uno dei fattori di rischio più importanti quando si parla di mobbing. La terza spiegazione è di stampo psicologico: le donne parlano molto di più dei loro problemi rispetto agli uomini per i quali affermare di essere vittime di mobbing da parte di un superiore, per esempio, potrebbe essere una ferita narcisistica importante tale da preferire il silenzio alla possibile, e percepita, offesa al loro valore. Per quanto riguarda i laureati sembra che essi, avendo avuto accesso ad una cultura più ampia, siano in grado di riconoscere tali fenomeni e di agire utilizzando gli strumenti legislativi idonei.

I fattori di stress psicosociali a carico dell’ambiente di lavoro (e delle relazioni immerse in tale ambiente) sono gli aspetti più importanti relativi alla valutazione dei rischi e prevenzione per quanto riguarda la salute psico-fisica dei lavoratori. Infatti è ormai comprovato che lo stress nel luogo di lavoro può condurre a problematiche di tipo respiratorio, cardiocircolatorio, muscolo-scheletriche, dei tessuti connettivi, digestive e sintomi/patologie psicologiche e psichiatriche come depressione, distimia, ansia, problemi del sonno, PTSD e anche suicidio (con conseguente responsabilità del datore di lavoro per casi accertati), abuso di sostanze, fobia sociale. Nel caso specifico del mobbing sembra che esso sia fortemente legato al PTSD. Il DSM (il manuale di riferimento per i disturbi connessi alla mente) prevende sintomi come evitamento dell’evento e ripetizione dello stesso. Ossia il soggetto evita tutti quei luoghi, persone, oggetti che in qualche modo lo possono riportare all’evento traumatico ma attraverso sogni (incubi) e flashback esiste una ripetizione dell’evento traumatico. Questi stessi comportamenti e sintomi sono stati riscontranti anche come conseguenza del mobbing (Zeynep, 2019). Quanto detto porta a considerare il mobbing come evento traumatico in se stesso. Un altro studio (Kostev, 2014) riporta, come conseguenze prevalenti, depressione, somatizzazioni e ansia (in quest’ultimo caso fino a tre volte in più rispetto a soggetti non esposti a mobbing). In generale lo studio rileva una possibilità di ammalarsi fino a due volte superiore.

Ma quali sono i fattori psicosociali che incidono sul clima lavorativo? A tal proposito occorre partire con alcuni modelli che possono fornire una utile delucidazione per comprendere quali siano gli elementi che incidono sul clima di lavoro. Un primo modello, definibile bidimensionale, è fornito da Karasek (1979) che, in modo molto semplice ma efficace, pone al centro la richiesta lavorativa in rapporto alla cosiddetta ‘latitudine decisionale’, che indica appunto la distanza tra il lavoro che è richiesto di svolgere e il potere del singolo di assumere decisioni in maniera autonoma sullo stesso. Appare evidente che questa dimensione chiama in causa l’autonomia del lavoratore e la possibilità di vedere impiegate al meglio le sue abilità e capacità naturali e acquisite. Sulla base dell’intrecciarsi di queste modalità Karasek individua tre tipologie di lavoro:

  • Lavori ad alta sollecitazione (ove la domanda è elevata ma il controllo da parte dei lavoratori è basso e le loro abilità/capacità di rispondere alla domanda non sono impiegate o non sono adeguate rispetto alla richiesta lavorativa aumentando lo stress nei lavoratori ed esponendoli a patologie cardiovascolari e muscoloscheletriche);
  • Lavori attivi (ove la richiesta lavorativa è adeguata alle capacità dei lavoratori e vi è un buon controllo e autonomia da parte degli stessi. I lavoratori si sentono motivati e stimolati).
  • Lavori a bassa sollecitazione (ove la richiesta lavorativa è bassa rispetto alle capacità/abilità e al controllo da parte dei lavoratori. Questi ultimi si sentono demotivati e sotto stimolati, fino a percepirsi come inutili).

Questo modello è stato integrato dagli studi di Johnson (1988) che individua una terza dimensione nel cosiddetto ‘supporto sociale lavorativo’ ossia il supporto fornito da colleghi (orizzontale) e responsabili (verticale). Sembra che il supporto che proviene in senso verticale sia maggiormente efficace come fonte di rinforzo positivo per i lavoratori che si sentono motivati e stimolati. Questo, chiaramente, offre una spiegazione di facile portata: in senso psicoanalitico il superiore gerarchico è assimilabile alla figura del padre che è fortemente legata al valore di un soggetto. Agisce dunque come oggetto-sé a supporto del sé del lavoratore e fornendo coesione narcisistica allo stesso. È come se, usando un’immagine metaforica, si costruisse una seconda pelle attorno al soggetto (il lavoratore) che gli fornisce uno strumento di difesa ulteriore; in questo modo è più resiliente ad eventuali stress lavorativi, famigliari, personali, che potrebbero incidere negativamente sulla sua efficacia ed efficienza.

Sull’importanza del rinforzo positivo si è sviluppato un ulteriore modello offerto da Siegrist (1996) basato su due fattori: sforzo e ricompensa. Se il modello precedente era definito ‘modello richiesta/controllo’, questo viene definito ERI (o effort-reward imbalance). Anche questo modello è di facile accesso poiché pone variabili accessibili anche al buon senso comune, ossia lo sforzo che il lavoratore compie e la ricompensa verso lo stesso.

Questi modelli, come altri, sono stati criticati in funzione di teorie derivanti dall’ambiente sociologico (per il quale occorre tenere in considerazione la classe di appartenenza del lavoratore. Classi più basse sono esposte maggiormente al rischio di burnout o patologie) e dallo stesso ambiente psicologico (tratti di personalità e costrutto della resilienza sono fattori individuali in capo al singolo lavoratore che influenzano in maniera negativa quanto positiva le relazioni con colleghi, superiori e la sua produttività).

In ogni caso esistono differenti studi che pongono in relazione questi modelli con lo stress lavoro correlato e quindi con potenziali rischi per il clima lavorativo, in questo si possono dunque includere tutti quei rischi legati allo sviluppo di comportamenti violenti o aggressivi come il mobbing. Una valutazione sul clima lavorativo e sui rischi legati al mobbing deve dunque tenere in considerazione questi aspetti legati al clima e di cui i modelli sopra citati offrono un adeguato strumento di indagine.

Naturalmente esistono anche questionari come il QCE, il WES e l’IMPC che sono validi strumenti per ottenere una stima dei costrutti ‘clima aziendale’ e ‘stress lavoro-correlato’.

È possibile muovere una ulteriore critica a questi modelli e più in generale al lavoro. Oggi la società è prevalentemente capitalistica. Nei grandi centri capitalistici come l’America pare che il mobbing sia più diffuso, lo si è visto prima con i dati forniti. Tutti questi modelli e gli strumenti oggi adottati per l’intervento sul clima di lavoro, sulle relazioni tra colleghi e superiori e al fine di minimizzare i rischi che possono portare a situazioni civilistiche e penali complicate come il mobbing o la molestia sessuale, sono pressoché inutili, o quanto meno offrono solamente vane illusioni, se non sono inseriti all’interno di un’idea più importante, alta, che possa guidare l’azienda tanto privata quanto pubblica in qualsiasi forma. Questi modelli risentono infatti dell’esigenza capitalistica di produzione, che si declina poi nei termini di efficacia ed efficienza del lavoratore. Questo è corretto ma si rischia di rimuovere una parte essenziale in questo discorso. Da un punto di vista psicoanalitico si potrebbe dire che il rischio è quello di forcludere questo aspetto. Ciò di cui si sta parlando è la persona. Come visto, questo termine appare nella Costituzione, nelle leggi e nei codici che la tutelano ma spesso viene mascherata (come se già essa stessa non fosse sufficiente, persona significa appunto maschera) da termini come lavoratore o, ancora in modo più brutale: risorsa di mercato. Questo tipo di pensiero, che guida il mondo dell’imprenditoria, Marina Valcharenghi (2003) lo chiamerebbe maschile, ossia atto ad analizzare, creare ordine, scomporre. Un pensiero digitale, ossia che funziona per categorie come il codice binario 0-1 piuttosto che un pensiero analogico atto a recuperare la relazione e le somiglianze tra gli oggetti (più tipico della donna). Per porre al centro la persona occorre pensare in modo femminile, un po’ come faceva Adriano Olivetti (2015) che pensava ad una fabbrica come comunità, come luogo nella cultura e nella cittadinanza, inserito in un ambiente non per modificarlo ma per rispettarlo. Un imprenditore che, dunque, pensava anche all’estetica della fabbrica e al suo organismo (termine forse più sensato di organigramma) inteso come un insieme pulsante e vivo di persone appartenenti ad una comunità. Un imprenditore ‘padre’ ma anche ‘madre’ che sappia fare del luogo di lavoro un luogo sì di efficacia ed efficienza prestazionale, ma mai in misura maggiore rispetto al valore della cultura, della crescita personale e della tutela della persona come fine e non come mezzo per un plusvalore personale.

Se si ripensa a quanto scritto all’inizio dell’articolo su Lorenz appare evidente che, in una cultura orientata alla competizione e all’ansia da prestazione, l’altro diventi una minaccia da neutralizzare. Questo, chiaramente, è eccessivo per poter essere adoperato come spiegazione del singolo caso di mobbing, rischiando per altro di oscurare le responsabilità individuali tanto del datore di lavoro quanto della vittima. A tal proposito gli studi di Baumeister (1997) affermano come la vittima possa benissimo essere al posto del carnefice poiché vi è spesso un circolo vizioso fatto di attacchi reciproci e inadeguate difese da entrambe le parti.

Si può ora abbandonare questa breve riflessione per ritornare al mobbing in senso stretto. Esistono almeno tre soggetti nel mobbing: la vittima, il mobber e il testimone e differenti sottocategorie per la prima e la seconda di queste. La vittima può essere prigioniera, passiva, ambiziosa, ipocondriaca, capro espiatorio; mentre il mobber può essere istigatore, collerico, maniacale, carrierista, sadico, frustrato. In genere il mobbing può provenire in senso orizzontale (dai colleghi), in senso verticale (dai superiori) o essere strategico (finalizzato, per esempio, ad ottenere le dimissioni della persona).

Esistono, altresì, differenti condizioni di mobbing (Camerino & Marlasca, 2017):

  • Minare la dignità personale;
  • Minare la dignità lavorativa;
  • Impedire il progresso al lavoro (sia come obbiettivi di lavoro sia come carriera);
  • Bloccare la comunicazione;
  • Intimidazioni velate/manifeste.

Secondo gli studi di Edge (n.d.), il mobbing si sviluppa in fasi:

  • Conflitto mirato: si sceglie la vittima.
  • Inizio del mobbing: questo non produce ancora effetti dannosi sulla vittima che comunque inizia a percepire un senso di disagio e malessere.
  • Sintomi psico-somatici.
  • Errori ed abusi dell’amministrazione del personale.
  • Situazione di malattia conclamata del lavoratore (fino alla vera e propria depressione. In questa fase si sviluppano tutti i sintomi che gli studi riscontrano).
  • Esclusione del lavoratore dal mondo del lavoro.

Oltre al mobbing è stato introdotto da Edge anche un altro termine noto come straining e indicante una situazione di stress sul luogo di lavoro. È possibile quindi affermare che al centro vi sia sempre la tutela della persona e che, dunque, anche quando i comportamenti non raggiungono l’intensità, la quantità e la qualità per definire il mobbing ma arrecano danno al lavoratore devono essere tenuti in considerazione. Dunque lo strainining si distingue dal mobbing più per intensità che per qualità o quantità ma è in ogni caso presente l’animus nocendi. Dello stesso parere risulta essere, ancora una volta, la legislazione che recepisce lo straining con la sentenza del tribunale di Bergamo n.286 del 2005.

Le soluzioni al mobbing possono riguardare, chiaramente, le vie legali, oppure ‘aggiustamenti’ come spostare il proprio luogo di lavoro da una sede all’altra o da un ufficio all’altro, licenziare il mobber, cambiare lavoro e altre misure che, in ogni caso, intervengono quando il danno è stato fatto.

Molto più interessante e meno valutato è l’aspetto dedicato alla prevenzione. Esistono alcune linee guida generali che pongo al centro la formazione e l’informazione: appendere cartelli informativi che consentano alle persone di individuare e riconoscere il fenomeno del mobbing qualora questo dovesse presentarsi (si ricorda appunto che i laureati erano in percentuale maggiore proprio perché si pensa sappiano riconoscere il fenomeno e possiedano le conoscenze per tutelarsi anche legalmente); organizzare in azienda dei corsi formativi rispetto alla tematica, alle conseguenze e alla legislazione in merito per offrire a tutti un chiaro quadro di responsabilità ed eventuali conseguenze civili e penali. Tuttavia questo non basta ed è qui che il ruolo dello psicologo e dello psicoterapeuta sono più utili e occorrerebbe integrarli in azienda in modo attivo all’interno delle dinamiche relazionali come forse solo Olivetti ha saputo fare con Musatti.

Il lavoratore è pur sempre, come si ricordava prima, una persona, dunque possiede alle sue spalle una storia e una personalità che ne guidano il pensiero, il sentire e l’azione. Un’azienda che sia parte della comunità, la cui finalità sia di integrarsi nella comunità e non tanto di realizzare un plusvalore, quanto piuttosto di crescere assieme alla comunità, non può esimersi dal considerare la storia del singolo lavoratore come parte integrante della sua storia personale. L’azienda diverrebbe in questo modo una comunità che possa accogliere i membri della collettività nella quale si insedia. Questo non deve dimenticare certo l’economia e le necessità che derivano dalla produzione, bensì deve essere anche a suo favore. È questo aspetto che meno viene considerato: la possibilità di coniugare una crescita umana e una crescita economica. L’ago della bilancia è totalmente spostato verso quest’ultimo aspetto. L’equilibrio degli opposti che da Epiteto a Ermete Trismegistro fino a Jung è posto al centro del mondo e della possibilità della persona di essere nel mondo è in agonia a favore della ‘risorsa di mercato’ dimenticandosi totalmente dell’uomo e del suo essere integrato nella natura. Il mondo sembra aver attraversato una fase schizo-paranoide con difese come scissione e onnipotenza, proiettando sempre al di fuori di sé il seno cattivo attivando l’angoscia paranoide nei confronti della figura dell’altro. Solo oggi si cominciano ad intravedere un primo ritiro delle proiezioni che, inevitabilmente, porteranno ad una fase depressiva con angoscia connessa.

Come scrive Conrad (2002) nel suo libro Cuore di tenebra il lavoro permette ‘di trovare sé stessi’ (p.8). Sulla stessa linea di pensiero si muove anche Fougeyrollas (1974) che, definendo l’uomo un processo di autoformazione in divenire, recupera la teoria marxista evidenziando che attraverso il lavoro l’uomo crea se stesso. L’uomo, strappando materie prime alla natura, le consegna al processo produttivo attraverso il quale si astrae, per mezzo del suo lavoro, dalla natura e si inscrive nell’ambito della cultura. In tal senso è forse comprensibile la frase di Geertz (1998) che afferma che ‘la natura dell’uomo è la sua cultura e la cultura dell’uomo è la sua natura’ (pp. 63-64), e tra l’una e l’altra si insinua il lavoro attraverso il quale l’uomo opera sulla natura, crea cultura, ma soprattutto crea relazioni di produzione che sono la base della società. Questa breve riflessione permette di comprendere come il lavoro sia molto di più di ciò che comunemente si intende e sia, come già la stessa Costituzione riconosce, al centro della stessa possibilità di una società di esistere ma non tanto per l’importanza dell’economia intesa come finanza e del mercato economico in quanto piazza di scambio di valore e di realizzazione del plusvalore, ma poiché il lavoro è il mezzo attraverso il quale l’uomo trova e realizza se stesso, ossia la sua natura che è la cultura. Per tale motivo il luogo del lavoro è una comunità di crescita e di destino poiché lega tra loro gli uomini in quanto tali e non in quanto risorse di mercato. Questa riflessione è utile al fine della tematica del mobbing poiché, se si sposta l’attenzione alla prevenzione, appare fondamentale pensare che non vi possa essere prevenzione senza un cambiamento radicale di prospettiva che guida l’azione economica che debba essere intesa come gestione della casa comune, quale etimologicamente si riferisce. Naturalmente questo implica che il lavoratore non sia più solo una risorsa di mercato ma una persona integrata nell’azienda che diviene una comunità di destino, il destino attraverso il quale l’uomo e l’umanità realizza se stessa non all’interno di dinamiche di potere o di principi di produzione, ma creativamente. Questo implica liberare una quota di Eros repressa dal capitalismo e poter ripensare al modello economico per riuscire davvero a trasformare il lavoro nell’opera di realizzazione della natura dell’uomo. In tal senso il lavoro cesserebbe di essere lavoro alienante e di produrre cretinismo dell’operaio come sosteneva Marx.

Di questo forse Olivetti ha saputo aprire la strada per poter pensare ad una crescita stessa dell’operaio che è crescita dell’azienda e della comunità nella quale è inserita. Per far questo è però necessario integrare quelle figure professionali che possono fungere da guida nell’intercettare eventuali distorsioni rispetto alla tendenza naturale dell’uomo e del suo sviluppo. Queste figure sono coloro che, in una categoria generale, appartengono alle scienze umane. Anche queste si trovano a vedere represso il loro Eros per vederlo asservito alla logica capitalistica del plusvalore. Basti pensare che ciò a cui classicamente si dedica la psicologia del lavoro è la selezione o ricerca del personale o, come più comunemente viene detto con un anglicismo (poiché oggi anche la lingua è soggetta alle logiche del capitale e della globalizzazione capitalistica), HR, piuttosto che dedicarsi allo studio di come migliorare un pensiero imprenditoriale che sappia coniugare il valore della persona umana e la necessità di crescita, non in senso economico inteso come realizzazione del plusvalore, ma in senso umano come crescita dell’uomo. Chiaramente l’aspetto economico è qui incluso ma ad esso viene attribuito un diverso valore. Non si tratta di fornire uno stipendio per introdurre liquidità nel mercato, generare domanda e dare avvio al moltiplicatore di keynesiana memoria al fine di generare più offerta e di assumere più persone, ma piuttosto con il fine di attribuire valore alla singola persona in quanto tale e permetterle di inserirsi nel destino che ci lega gli uni agli altri. Il pensiero è di fondamentale importanza poiché guida l’azione e in questo gli psicologi, per esempio, possono offrire un grande aiuto. Questa forse è la migliore prevenzione che è possibile effettuare, non solo per cercare di arginare fenomeni quali il mobbing, ma anche per ridare al lavoro il suo giusto valore (non a caso lavoro e valore sono parole molto simili tra di loro e come tutte le parole nascono come astrazione dal copro inconscio comunicando qualcosa che appartiene allo stesso e dunque alla nostra stessa natura).

Esiste, altresì, un’altra opportunità con la quale l’azienda può realizzare il suo destino di comunità e di crescita intrecciandosi a quello dell’uomo e che, allo stesso tempo, può offrire un’opportunità di prevenzione per il mobbing, ipotesi con la quale si vuol concludere questo articolo. Tra le numerose critiche rivolte agli studi citati e non, ci sono quelle che vedono nei tratti di personalità del lavoratore dei fattori che possono essere legati, in modo più deterministico, agli esiti psico-somatici. In tal senso non sarebbe il mobbing in quanto tale ad arrecare danno alla salute del singolo lavoratore, ma piuttosto una condizione di stress che il lavoratore non riesce a tollerare a causa della sua personalità e della sua bassa resilienza. Un pensiero di questo tipo è corretto, ma è l’uso che se ne vuol fare che diventa perverso. Un’azienda che sia anche comunità di crescita non può e non deve assurgere a tali giustificazioni, ma deve saper farsi carico dei suoi organi vivi (i lavoratori) e saperli mantenere in salute. In tal senso introdurre la psicoterapia all’interno dell’azienda, così come esiste il medico e l’infermiere, al completo servizio gratuito del lavoratore (persona), è un modo per mantenere la salute dell’azienda stessa ma anche per farsi carico della comunità nella quale sorge e alla quale deve offrire un’opera di destino che non può solo legarsi alla generazione del plusvalore e alla ricompensa economica offerta alla ‘risorsa di mercato’, ma deve saper farsi carico della persona in quanto tale. Solo così un imprenditore diverrà veramente se stesso; l’etimologia del termine rimanda appunto a prahendere, ossia ‘prendere sopra di sé’ o ‘farsi carico’.

Ma di cosa egli si fa carico? Dell’attività economica certamente ma se l’attività economica si realizza mediante il lavoro e il lavoro è il centro della possibilità dell’uomo di realizzare sé stesso (purché creativo e non alienante), ciò vuol dire che l’imprenditore si fa carico anche del lavoratore in quanto persona. Ovviamente non si possono addebitare ad egli soltanto le colpe, è necessario un complice scambio tra lo Stato e il mondo dell’impresa che però debba basarsi, o avere come sfondo o fine, questo tipo di pensiero. Solo così si potranno considerare davvero i fattori psico-sociali alla base del mobbing e di altri comportamenti che arrecano danno alla dignità del lavoratore e alla sua integrità psico-fisica, che è danno alla possibilità della persona di realizzare se stessa e si potrà davvero fare prevenzione verso gli stessi contribuendo al destino degli uomini in quanto tali.

Quando la paura può diventare una cattiva consigliera – Intervista al Prof. Paolo Legrenzi

Per meglio comprendere la paura, secondo il Prof. Legrenzi, è fondamentale tenere conto di come funziona la nostra mente: non sempre la paura si innesca di fronte a un pericolo reale o in proporzione all’entità o all’intensità del pericolo.

 

In questi mesi ho avuto il piacere di svolgere delle interviste a grandi personalità nell’ambito della psicologia, approfondendo con ognuno di loro tematiche specifiche all’interno di una macroarea, ossia Emozioni e Ragione.

Nel presente articolo sono state elaborate le riflessioni emerse dall’intervista al grande psicologo e accademico di fama internazionale nel campo della psicologia cognitiva, Paolo Legrenzi, sul tema della paura.

Autore di numerose pubblicazioni tra le quali Come funziona la mente, Psicologia generale, Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze, Perché gestiamo male i nostri risparmi, Perché abbiamo bisogno dell’anima, tra i suoi ultimi libri troviamo A tu per tu con le nostre paure e Paura, panico, contagio. Il Prof. Legrenzi ci spiega come la paura, seppur emozione importante per l’essere umano, talvolta può divenire disfunzionale e ‘cattiva consigliera’.

Le nostre paure sono molto più numerose dei pericoli che corriamo.
Soffriamo molto di più per la nostra immaginazione che per la realtà.
(Lucio Anneo Seneca)

Il Prof. Paolo Legrenzi (Fig. 1) apre l’intervista spiegando come le emozioni svolgano un ruolo essenziale per l’essere umano, guidando i suoi comportamenti, le sue scelte, le azioni e i processi di adattamento all’ambiente esterno più in generale.

Paura quando e disfunzionale e come gestirla Intervista al Prof Legrenzi Fig 1

Fig. 1: Il Prof. Paolo Legrenzi

Riprendendo le sue parole dobbiamo “pensare alla persona umana come ad un’automobile ed alle emozioni come al carburante; emozioni connotate positivamente, come ad esempio il piacere, danno una spinta, sono più motivanti, al contrario emozioni connotate negativamente, come ad esempio la paura, il dolore, sono come dei freni, ci bloccano e/o orientano verso altre direzioni” al fine di preservarci da un pericolo o una minaccia.

Ma entrando nel vivo della paura, continua a spiegare il Prof. Paolo Legrenzi, va tenuto conto di come funziona la nostra mente, e non sempre la paura si innesca di fronte un pericolo reale o in proporzione all’entità o intensità del pericolo. La paura infatti, continua a spiegarci il Prof. Legrenzi, è determinata più dalla percezione soggettiva del pericolo che dalla reale entità del pericolo stesso. Entrano in gioco in tal senso variabili come la lontananza, la novità e l’alterità dell’evento, che contribuiscono ed incidono a farcelo percepire come più o meno pericoloso. Il Prof. Legrenzi, in tal senso, ci porta a riflette su come ad esempio temiamo un attentato terroristico, un crollo della borsa, un disastro aereo più di quanto temiamo ad esempio morti per incidenti stradali, perché più frequenti e più abitudinari, oppure non temiamo il riscaldamento globale in quanto evento a lungo termine e meno temuto di quanto invece si dovrebbe.

In altri casi invece la paura si rivela funzionale in quanto ci induce ad attingere alle nostre risorse per affrontare un problema o un pericolo, che va adeguatamente conosciuto, valutato, affrontato e non evitato per come saremmo più propensi a fare.

Ma parlando di paura, continua il Prof. Legrenzi, diventa importante riconoscere e distinguere le nostre dalle paure collettive, poiché, sottolinea, anche quelle sono virali e contagiose, e si diffondono molto di più e più rapidamente di quanto lo facciano i virus da un punto di visto biologico.

In merito a ciò, il Prof. Legrenzi fa riferimento a quanto abbiamo vissuto e continuiamo a vivere in rapporto alla pandemia causata dalla diffusione del Covid-19 ed in tal senso per approfondimenti si rimanda alla recensione del suo ultimo libro Paura, panico, contagio che ne offre un’attenta analisi.

Infine, ho chiesto 3 consigli su come poter sfruttare a nostro vantaggio la paura e non rimanere incastrati in trappole che spesso poi generano patologia.

Il Prof. Legrenzi ci suggerisce che la prima operazione da fare è chiedersi se la nostra paura è proporzionata al pericolo e per fare ciò dobbiamo conoscere l’entità del pericolo.

Secondo punto essenziale, secondo il prof. Legrenzi, è il principio del controllo, ossia valutare cosa sia veramente sotto il nostro controllo e cosa non lo sia per non disperdere energie psicofisiche. Infine armarci di coraggio e saggezza per accettare ciò che non dipende da noi.

A conclusione della presente, ritengo calzante riportare un pensiero di San Francesco d’Assisi che recitava:

Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio per cambiare quelle che posso,
e la saggezza per riconoscerne la differenza.

 

La fatica di essere pigri (2020) di Gianfranco Marrone – Recensione del libro

La fatica di essere pigri è un libro fondato sul paradosso secondo il quale per essere pigri sia necessario adoperarsi al massimo e compiere uno sforzo intellettuale e fisico.

 

Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, autore del libro La fatica di essere pigri, ci regala un testo sulla pigrizia, un atteggiamento duramente criticato dalla società occidentale. L’uscita del libro durante la fase di ripresa dopo il lockdown a causa della pandemia da Covid-19 sembra paradossalmente calzante, poiché, chiusi nelle nostre case, abbiamo sperimentato un periodo di ‘ozio forzato’ che ci ha messo di fronte alla difficoltà del rimanere fermi.

L’arte del dolce far nulla è il nucleo centrale del libro, una libertà che nella società viene attribuita a chi resiste ai doveri sociali e si ribella ai ritmi frenetici della vita moderna, rinunciando così all’operosità e alla produttività richiesta in favore dell’aspirazione al riposo. Ma questa brama, questo diritto di libertà del poter non far nulla coinvolge in realtà uno sforzo superiore a quanto si possa credere. Essere pigri è da pochi, esige un lungo lavoro di apprendimento, poiché il pigro, ovvero colui che sembra non fare nulla, in realtà non fa quello che gli altri si aspettano da lui e si adopera ardentemente per fabbricare le condizioni che gli permettano di difendere questa inerzia.

Ma cos’è la pigrizia? Che sia essa una forma d’ozio?

La pigrizia ha una lunga storia che si è in effetti incrociata a quella dell’ozio. In realtà, spiega Marrone citando Bertrand Russell, ‘l’ozio è essenziale per la civiltà‘ e non è un vizio, così come invece è vista la pigrizia. L’ozio è un atteggiamento di cultura del sapiente, che predilige la cura dello spirito non comportando necessariamente inoperosità. In epoca moderna, al contrario, l’ozio è stato considerato un malcostume e assimilato alla pigrizia.

La storia antropologica e filosofica della pigrizia viene disegnata attraverso le riflessioni di numerosi filosofi e mostrando le differenze di concezione del termine tra la cultura occidentale e asiatica. Nel Buddismo Zen giapponese, per esempio, questa ‘oziosità’ viene interpretata come una forma di devozione verso il mondo, un’attività permeata dell’arte e della bellezza e, citando lo scrittore cinese Lin Yutang, ‘la cultura sarebbe proprio un prodotto dell’ozio‘.

L’autore opera una ricostruzione dell’area semantica del termine pigrizia utilizzando detti e proverbi, arrivando ad approfondire i racconti e le fiabe russe. In queste entrano in gioco personaggi come Oblòmov di Ivan Gončarov, considerato ‘il celebre pigro letterario’, un protagonista inoperoso e inattivo che oziando sembra in realtà celare un comportamento di sovversione contro la società capitalista russa dell’Ottocento.

L’analisi narrativa non si ferma alla fiaba russa, ma approfondisce personaggi della cultura popolare come Snoopy e Paperino. Quest’ultimo, che aspira a riposare tutto il giorno sulla sua amaca, è invece costretto a lavorare costantemente di modo da conquistare il suo amato momento di relax. Ed ecco la morale ritornare. Ecco nuovamente il paradosso. Il riposo è l’oggetto desiderato dal simpatico papero, un’utopia, perché per ottenerlo è costretto a faticare.

Per essere pigri bisogna lavorare moltissimo, scontrarsi con un mondo che cambia e che pretende sempre di più un attivismo ipocritamente euforico. La pigrizia non è un dono, né un tratto caratteriale: è semmai un oggetto da conquistare dopo infinite lotte.

Così il lettore viene infine messo di fronte alla questione:

Cos’è la pigrizia oggi? Come può trovare spazio questo termine nella società odierna? Siamo davvero capaci di non fare nulla, poltrire e piegarci a queste forme di inoperosità estremamente antisociali e impossibili?

Secondo Roland Barthes, la pigrizia consiste nello spezzare il tempo il più spesso possibile, nel diversificarlo, ricercando tale vizio in piccole azioni e diversivi che possano sconvolgere il ritmo dell’esistenza frantumando la routine. Così, oggi, possiamo praticare la pigrizia e riprenderci questa libertà a piccole dosi, anche solo a cominciare dalla semplice azione di prepararci un caffè.

Disturbi del sonno in età infantile predicono la presenza di disturbi mentali in adolescenza?

Secondo uno studio condotto da un team della School of Psychology dell’Università di Birmingham, specifici problemi del sonno tra neonati e bambini molto piccoli possono essere collegati a disturbi mentali negli adolescenti (Lereya et al., 2017). 

 

Lo studio longitudinale, con sede nel Regno Unito, è stato condotto su 14.000 donne incinte e i risultati mostrano che i bambini piccoli che si svegliavano regolarmente durante la notte e sperimentavano routine del sonno irregolari tendevano a sviluppare sintomi psicotici in adolescenza. Emerge inoltre che i bambini che dormono poco di notte e che vanno a letto tardi, hanno maggiori probabilità di sviluppare un disturbo borderline di personalità (BPD) durante la loro adolescenza.

Precedenti ricerche hanno dimostrato che gli incubi persistenti nei bambini correlano con lo sviluppo di psicosi e del disturbo borderline di personalità (Lereya et al., 2017).

I ricercatori hanno esaminato i dati provenienti da 7000 partecipanti che riportavano sintomi psicotici e oltre 6.000 individui che mostravano i sintomi del disturbo borderline di personalità. I dati analizzati provengono dallo studio Children of the 90s (noto anche come coorte di nascita Avon Longitudinal Study of Parents and Children – ALSPAC) che è stato istituito dall’Università di Bristol.

Il comportamento del sonno dei partecipanti è stato monitorato dai genitori quando i bambini avevano 6, 18 e 30 mesi e valutato di nuovo a 3, 4, 5 e 8 anni (Lereya et al., 2017).

I risultati, pubblicati su JAMA Psychiatry, mostrano associazioni significative con esperienze psicotiche in adolescenza, tra i bambini di 18 mesi che tendevano a svegliarsi più frequentemente di notte e che avevano una routine del sonno anormale già a partire dai 6 mesi di età (Lereya et al., 2017).

Ciò supporta l’evidenza esistente che l’insonnia contribuisce alla psicosi, ma suggerisce che queste difficoltà potrebbero essere già presenti anni prima che si verifichino esperienze psicotiche.

Il team ha anche scoperto che i bambini che dormivano meno durante la notte e andavano a letto più tardi all’età di tre anni e mezzo tendevano poi a sviluppare il disturbo borderline di personalità.

Infine, i ricercatori hanno scoperto che la depressione ha mediato i legami tra problemi del sonno infantili e l’insorgenza di psicosi negli adolescenti, ma questa mediazione non è stata osservata nel disturbo di personalità borderline, suggerendo l’esistenza di un’associazione diretta tra problemi del sonno e sintomi del BPD (Lereya et al., 2017).

Il professor Steven Marwaha, autore senior dello studio, suggerisce che è fondamentale identificare i fattori di rischio che potrebbero aumentare la vulnerabilità degli adolescenti allo sviluppo di questi disturbi, identificare quelli ad alto rischio e fornire conseguentemente interventi efficaci.

Secondo gli autori dell’articolo, il sonno potrebbe essere uno dei più importanti fattori sottostanti a certi disturbi mentali; se così fosse, agire prontamente quando iniziano a presentarsi problemi del sonno in infanzia, potrebbe fungere come prevenzione del disturbo mentale in adolescenza (Lereya et al., 2017).

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