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Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro

Esiste una relativa superiorità di efficacia e/o efficienza di un trattamento? Si è cercato di rispondere a questa domanda attraverso il confronto diretto tra psicoterapie tramite Trial clinici, gli studi controllati randomizzati e le meta-analisi.

Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Il primo contributo ci ha aiutato a comprendere il punto di vista di Rosenzweig sull’efficacia delle procedure psicoterapiche

 

Non dipende dai veloci
la corsa,
nè dai forti
la guerra,
nè dai sapienti
il nutrimento,
nè dai più abili
la ricchezza
e neppure dai più sensibili
una grazia. (Qoelet 9,11)

Secondo quadro: Luborsky: di chi è la vittoria? – La “corsa arruffata” delle psicoterapie – Secondo slittamento

Qualcuno obbietterà: esiste o potrebbe esistere, in ogni caso, una relativa superiorità di efficacia e/o efficienza di un trattamento. E questo vorrebbe dire che UNO ha vinto.

Questa ipotesi è stata formulata e messa alla prova attraverso il confronto diretto tra psicoterapie. Le tecniche di confronto utilizzate sono state i Trial clinici, gli studi controllati randomizzati e le meta-analisi. Lo studio fondamentale, costituito da una meta-analisi di meta-analisi, è stato effettuato da Luborsky e coll. nel 2002. Nella loro meta-analisi, che analizzava 17 meta-analisi di confronto tra diverse psicoterapie, emergeva un effect size di 0.20, troppo piccolo e statisticamente non significativo. Tale coefficiente è ulteriormente diminuito (0.12) quando hanno tenuto conto dell’ “effetto fedeltà” (Therapist and Researcher Allegiance).

Per Therapist and Researcher Allegiance, nella ricerca in psicoterapia, si intende che l’esito degli studi di comparazione del trattamento aumenterà sistematicamente l’effetto di quello favorito dai ricercatori.

Nel 2001 Ahn and Wampold (2001) hanno condotto una meta-analisi sulle diverse componenti includibili nel trattamento psicoterapeutico, e concludono che non vi sono differenze significative di outcome dipendenti dalla presenza o assenza di specifici fattori, e pertanto che un concreto specifico componente fosse necessario all’effetto terapeutico.

Di più ancora, una meta-analisi (Henry, Schacht, Strupp, Butler, & Binder, 1993) sugli effetti di terapie manualizzate, che rappresenterebbero il gold standard delle psicoterapie, mostravano che l’adesione al manuale non incrementava l’efficacia della terapia, ed era invece, al contrario, correlato al deterioramento dell’alleanza terapeutica in numerosi studi esaminati.

Si possono citare ulteriori studi sulla questione della superiorità di un trattamento rispetto ad altri e avremo risultati altalenanti, ambigui, contestabili, etc.

Una domanda qui va posta: sono sensati e a cosa servono gli studi randomizzati controllati (CRT)?

Howard e coll. pongono alcune questioni basilari di metodo che possono spiegare, almeno in parte, perché si possa avere “l’effetto Dodo”, e che sono legate ai problemi creati dalle difficoltà procedurali nell’impostare gli studi, dalle limitazioni dei disegni sperimentali (come, ad esempio la rappresentatività delle misure utilizzate per valutare i processi del trattamento), nonché allo stesso potere persuasivo dei risultati (Howard, Krause, Sauders, & Kopta,1997).

Blatt rileva che spesso non vengono tenute in considerazione dimensioni quali le interazioni tra le personalità dei partecipanti all’interazione clinica, le credenze su ciò che funziona o non funziona in terapia, il tipo di manifestazioni psicopatologiche rilevanti, nonché la possibilità che vi siano differenti effetti in persone diverse (“different strokes for different folks”), che Blatt definisce effetti diversi “in vitro” e “in vivo” (Blatt, 1992).

Nel 2009 Budd e Hughes sottolineano come la validità di Trials randomizzati controllati nel campo delle psicoterapie sia afflitta da vizi distorsivi dei risultati, poiché incorporano assunzioni legate alla loro adesione al razionale riduzionistico. Ad esempio, l’uso inappropriato di campioni clinici che, pur essendo omogenei dal punto di vista della diagnosi nosografica secondo i criteri diagnostici standard (DSM, per capirci) non lo sono da quello della validità “ecologica”, sia per la alta comorbidità tra condizioni psicopatologiche, sia per i confini sfocati tra le diverse condizioni. Gli stessi autori rilevano che non è fondato il criterio di considerare il tipo di terapia come una variabile indipendente. Esiste una difficoltà ulteriore legata all’oggetto di studio, cioè la possibilità di distinguere e confrontare in modo chiaro i diversi tipi di intervento, anche per la tendenza dei terapeuti a mescolare tecniche appartenenti a modelli diversi. Infine, un’assunzione fallace è determinata dalla deriva verso una prospettiva riduzionista dei processi che governano l’insorgenza, il mantenimento e il trattamento dei disturbi mentali, considerati analoghi a quelli che governano le malattie organiche. In questa analogia, la psicoterapia è una “cura” e le sedute sono la “dose”. Ma, come da molti sostenuto, i disturbi mentali non si comportano come costrutti medici, ed è perciò necessario essere molto cauti nell’applicare la stessa logica nel costruire gli studi e nell’interpretarli (Borsboom & Cramer, 2013).

Mi accorgo qui che sto dicendo cose talmente ovvie e scontate che, forse, non valeva lo sforzo di cercare e scriverne. Eppure è necessario.

Ad ogni buon conto e per amore di discussione, consideriamo la “corsa arruffata” una procedura valida per designare un vincitore; anche così è proprio vero che UNO vince?

Vi faccio un esempio in cui NESSUNO vince: i concorsi in magistratura o per l’abilitazione notarile. In questi concorsi esiste una soglia minima di votazione per risultare idoneo, perciò è possibile che nonostante si abbiano a disposizione un certo numero di posti, ma è possibile (in linea teorica e spesso anche in concreto) che i concorrenti possano arrivare primi, senza vincere alcun premio, perchè non raggiungono il punteggio minimo richiesto. Qual è uno standard minimo soddisfacente per vincere nella gara tra psicoterapie? In effetti, è possibile essere migliori di altri, ma non vincenti. Credo che questa sia la tesi di Dimaggio. In questo caso direi “che una psicoterapia vince, ma non convince”.

Ma può essere anche possibile che MOLTI (O TUTTI) vincano, pur essendo UNO solo il primo, e anche in questo caso anche il verdetto del Dodo sarebbe del tutto vero. Essere primi ed essere vincenti non sono necessariamente termini sovrapponibili.

Parliamo di farmaci, ad esempio gli antiipertensivi. Esistono almeno 5 categorie di farmaci (Diuretici, Sartani, ACE inibitori, beta bloccanti, vasodilatatori). Due di queste categorie agiscono sulla funzione (sartani e ace inibitori), mentre all’interno del gruppo dei diuretici ci sono diversi meccanismi d’azione che ottengono lo stesso effetto clinico. Lo stesso si può affermare per i vasodilatatori (che comprendono i calcio antagonisti, gli alfa litici, il catapresan).

TUTTE le categorie di farmaci citate sono efficaci, perciò TUTTE vincono e TUTTE ricevono il premio, senza che vi sia una classifica in cui UNO risulta il primo.

Concludendo, l’efficacia, ossia il vincere, ha a che fare con l’appartenere a un insieme (l’insieme dei vincitori), arrivare primo ha a che vedere con una classifica e il primo in classifica può appartenere o no all’insieme dei vincitori.

Si può anche obbiettare che si fanno alcuni errori di logica quando si accetta il verdetto del Dodo, ad esempio inferire dalla difficoltà a identificare il trattamento più efficace l’equivalenza tra i trattamenti. Ma non è questo il nostro caso infatti quel che si va a verificare è che, mostrando tutti  i trattamenti di pari efficacia,  qualcosa deve accomunarli. La storia parte dalla constatazione di similarità negli esiti e si conclude con il tentativo di spiegare la sovrapponibilità di risultato.

CHI ha mai detto, però, che i trattamenti sono uguali? Gli effetti ed alcuni specifici effetti (sui sintomi espliciti e presi come indicatori di una diagnosi nosografica, magari DSM omologata?) sono (possono essere) uguali, ma non è affatto detto che TUTTI gli effetti siano uguali!

Sostiene lo stesso Luborsky insieme ad Asay (1999) che le spiegazioni per la sovrapposizione di esiti possono essere almeno tre. Primo, che diverse terapie possono giungere a risultati simili attraverso processi diversi. Secondo, che i risultati potevano essere stati diversi, ma che la ricerca in questione non li aveva identificati o riconosciuti. Solo la terza spiegazione è quella che “fattori comuni” possano essere attivi, ma che non siano enfatizzati dalla teoria del cambiamento centrale in una singola scuola.

Ci può essere un secondo errore, questa volta legato alla mancanza di considerazione dell’effettiva superiorità di alcuni trattamenti così come risulta dalla letteratura scientifica, infatti alcuni trattamenti si sono dimostrati migliori di altri.

La domanda qui è: migliore per cosa, migliore rispetto a cosa? La discussione precedente e le altre innumerevoli che si sono susseguite nel corso dei decenni contengono molte ipotesi e teorizzazioni in proposito.

Solo a titolo esemplificativo citiamo l’articolo di Kazdin e Bass (1989), che hanno messo in dubbio il valore della maggior parte degli studi comparativi passati sulla base di una “mancanza di potere statistico” e quello dello stesso Lambert e coll., che segnala, appunto, “seri problemi nella misurazione accurata del cambiamento comportamentale” (Lambert, Christensen, DeJulio, 1983).

Se la corsa “arruffata” è una scelta bizzarra, chi la propone e cerca a tutti i costi un vincitore e spara sul verdetto del Dodo?

Secondo alcuni autori che mi hanno guidato in questa rassegna, due classi di persone: l’associazione degli psicologi americani, che teme che operatori non professionali propongano interventi di aiuto concorrenziali con quelli psicologici codificati e certificati, e le agenzie di assicurazione che vogliono trattamenti brevi ed economicamente convenienti (Belopavlovic e coll, 2018) (tra le agenzie, ovviamente, ci sono i servizi sanitari, prima di ogni altro quello britannico, thatcherianamente riformato, aggiungo io).

E tuttavia, nonostante questo, noi (tutti noi, io credo) continuiamo incessantemente a correre, nell’attesa di ricevere un riconoscimento, anche se tardo e parziale, perché non riusciamo a farne a meno.

Commento

Correre non è un buon modo di asciugarsi, come pesare il cavallo non è il miglior modo per farlo ingrassare. Ma ad alcuni piace correre e ad altri pesare cavalli. Ad altri sembra conveniente che ci sia una corsa o una pesata. Così è e così sia!

Ringraziamenti

Ringrazio mio figlio Filippo, brillantissimo logico, per avermi suggerito l’articolazione della discussione sull’antefatto.

Ringrazio Mancini per la sua lucidità, che permette anche ai suoi interlocutori di chiarirsi le idee.

Ringrazio il Ruggiero e con lui Sassaroli e Caselli, che offre l’occasione per pensare a ciò che agiamo.

I meriti del mio commento sono di tutti gli autori citati; le banalità, le inesattezze e gli errori tutti miei.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Metacognizione nel Binge Eating Disorder

Al fine di sviluppare e valutare trattamenti psicologici efficaci per il Binge Eating Disorder, è importante essere in grado di misurare in modo affidabile le caratteristiche sottostanti lo sviluppo e il mantenimento del disturbo. 

Alice Covolan – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

II binge eating, come già è stato scritto in diversi articoli, si manifesta in episodi di alimentazione incontrollata, ciò significa mangiare una quantità di cibo oggettivamente grande in un periodo di tempo discreto, il tutto accompagnato da un senso di perdita di controllo. Nel BED, e spesso in altri disturbi alimentari, gli episodi di abbuffate sono associati a senso di colpa, disgusto, angoscia marcata e/o umore basso. Gli studi finora fatti negli Stati Uniti e in Australia hanno riscontrato una prevalenza di circa 1-1.5% per la Bulimia Nervosa (BN), 1.5-1.6% per il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (BED), 0.4-0.5% per l’Anoressia Nervosa (AN) e 3.2% per Altri Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione con Specificazione OSFED. La prevalenza di ricorrenti abbuffate nella comunità generale è stata compresa tra il 7,2% e il 13%, ed è previsto un futuro aumento nel corso degli anni.

Nel tentativo di comprendere meglio il complesso sintomo del disturbo alimentare di binge eating, in letteratura sono stati proposti numerosi modelli psicologici per il binge eating, molti dei quali focalizzati sul ruolo del limite di quantità alimentare, sulla scarsa autostima, sulla scarsa tolleranza alla sofferenza, su una sopravvalutazione del proprio peso corporeo e della propria forma, e sulle specifiche metacognizioni che invalidano la persona con binge eating. È perciò particolarmente importante valutare e riconoscere le convinzioni metacognitive che stanno alla base dello sviluppo e del mantenimento del binge eating, affinché il trattamento psicologico possa essere utile ed efficace nel tempo.

Credenze metacognitive principali

Cooper, Wells e Todd (2008) identificano tre tipi principali di convinzioni metacognitive che agiscono insieme per mantenere il binge eating: credenze positive, negative e permissive sul cibo. Secondo questo modello, un episodio di alimentazione incontrollata è scatenato da un evento angosciante che attiva una convinzione negativa sul sé come persona, come ad esempio: “non sono amabile” o “sono un fallimento”. L’attivazione di queste credenze negative su di sé è accompagnata da sentimenti di ansia, depressione o senso di colpa. Il modello propone che gli individui affetti da BED, comincino ad abbuffarsi come mezzo per far fronte a queste spiacevoli emozioni e che l’abbuffata riduca l’intensità degli stati emotivi a breve termine, il che rafforza ulteriormente le convinzioni positive riguardanti l’alimentazione. Le convinzioni positive riguardano i benefici percepiti del binge eating, in particolare nel ridurre il disagio emotivo (ad esempio: “mangiare mi aiuta a far fronte ai sentimenti negativi”). Cooper et al. (2008) descrivono un conflitto vissuto da coloro che hanno credenze positive e avversive riguardo al cibo, come “mangiare mi aiuterà a farcela, ma mangiare mi farà anche ingrassare”. Questo conflitto causa ulteriore angoscia. Di conseguenza, le credenze permissive e le credenze negative (“sono senza controllo”) sul mangiare si sviluppano come mezzo per tentare di ridurre questo disagio. Le convinzioni permissive sono quelle che permettono all’individuo di iniziare o continuare un episodio di abbuffate, ma non affrontano le convinzioni sulla propria capacità di controllare le pulsioni di abbuffarsi (per esempio: “mi merito di avere un momento di piacere come un’abbuffata”). Le convinzioni negative (“sono senza controllo”), riguardano l’incapacità percepita dall’individuo di controllarsi in termini di resistenza al cibo (oggetto desiderato) e mangiare (e / o smettere di mangiare) una volta iniziato un episodio di abbuffate (ad esempio: “una volta che inizio a mangiare non posso smettere”). L’attivazione di convinzioni permissive e credenze negative innescano episodi di binge: permettono alla persona di iniziare un’abbuffata e / o di sentirsi incapace di evitare di iniziare un’abbuffata. A sua volta, l’atto del binge eating attiva ulteriormente auto-credenze negative (ad esempio: “io sono debole”) e pensieri avversivi sul mangiare (ad esempio: “diventerò grasso”), che portano ad ulteriori episodi di abbuffata. Il ciclo viene ulteriormente rafforzato quando i comportamenti di abbuffata riattivano e / o rinforzano ulteriormente le convinzioni positive e permissive, e le convinzioni negative sul non controllo dell’atto di mangiare abbuffandosi. Pertanto, Cooper et al. (2008) suggeriscono che sono la combinazione e l’interazione delle convinzioni fondamentali (auto-credenze negative) e i tre tipi di credenze metacognitive (convinzioni positive, permissive e negative sul mangiare) a mantenere il comportamento di abbuffate.

EBQ-18 Autovalutazione delle credenze metacognitive positive, negative e permissive

Nei recenti studi di Burton et al. (2018), The revised short-form of the Eating Beliefs Questionnaire: Measuring positive, negative, and permissive beliefs about binge eating e Beliefs about Binge Eating: Psychometric Properties of the Eating Beliefs Questionnaire (EBQ-18) in Eating Disorder, Obese, and Community Samples, i ricercatori indagano le credenze metacognitive che stanno alla base del binge eating, utilizzando il questionario sulle credenze alimentari (EBQ), clinicamente testato, il quale indaga diciotto voci sull’alimentazione (EBQ-18) ed è suddiviso nelle tre sottoscale (credenze negative, positive e credenze permissive sul mangiare). Lo strumento è basato sulla teoria metacognitiva e sul modello cognitivo.

Le diciotto credenze principali sono:

  • Non sono in grado di controllare i miei impulsi di mangiare
  • Una volta che inizio a mangiare non riesco a smettere
  • Non ho forza di volontà in relazione al cibo
  • Non riesco a controllare la mia alimentazione perché sono debole
  • Se non controllo me stesso non smetterei mai di mangiare
  • Non c’è nulla che io possa fare per smettere di mangiare
  • Mangiare significa che non devo pensare a cose negative
  • Mangiare aiuta a controllare le mie emozioni
  • Mangiare mantiene i miei sentimenti ad un livello tollerabile
  • Mangiare mi aiuta ad affrontare pensieri negativi
  • Mangiare mi aiuta a far fronte ai sentimenti negativi
  • Mangiare è il mio modo migliore di far fronte a sentimenti indesiderati
  • L’abbuffata è qualcosa che posso avere per me stesso
  • Mi merito di avere un piacere come le abbuffate
  • Sono d’accordo nell’avere una bella esperienza nelle abbuffate
  • Bingeing mi permette di avere qualcosa di carino per me stesso
  • Non farà differenza se mangio di più
  • Mi piace abbuffarmi

Tali convinzioni metacognitive riguardanti il cibo e il pensiero alimentare sono rilevanti per il mantenimento del comportamento alimentare incontrollato e convergono con i sintomi del disturbo alimentare, della regolazione emotiva, dell’umore e dell’ansia. La valutazione delle credenze che fa l’EBQ è utile e preziosa sia per i clinici che per i ricercatori che desiderano misurare le cognizioni di mantenimento chiave, e come queste si spostano nel corso dell’intervento con individui che mangiano in modo incontrollato.

Credenza di desiderio

Lo studio di Spada et al. (2016) indaga come le metacognizioni negative sul pensiero desiderante predicano la gravità del binge eating nelle donne. Inoltre hanno verificato le possibili connessioni con l’età, l’indice di massa corporea auto-riferito (BMI), l’umore negativo, le credenze alimentari irrazionali e il craving (la voglia di..), dimostrando che le metacognizioni negative sul pensiero desiderante predicono la gravità del binge eating. Perché le metacognizioni negative sul pensiero desiderante dovrebbero essere un predittore della gravità del binge eating? La spiegazione probabile, in linea con la comprensione teorica esistente e con risultati empirici, è che tali metacognizioni guidino la perseveranza del pensiero desiderante (Caselli & Spada, 2015). In altre parole, l’attivazione di queste metacognizioni segnala che non vi è alcuna possibilità di controllare attivamente le intrusioni legate al pensiero desiderante (MDTQ-2) o alla cessazione del pensiero desiderante (MDTQ-1). Questo probabilmente porterà alla perseveranza del pensiero desiderante, all’escalation di craving e al conseguente sentimento negativo, poiché l’obiettivo desiderato (mangiare) viene ripetutamente elaborato ma non raggiunto, avendo l’opzione di mangiare come via principale per ottenere l’autoregolazione emotiva (Caselli & Spada, 2010; 2011; Spada, Caselli & Wells, 2013; Spada, Caselli, Nikčević & Wells, 2015). A sostegno di questa visione, vi sono risultati che associano la psicopatologia con le metacognizioni sull’incontrollabilità dei processi di pensiero (come ruminazione e rimuginio), che rappresentano i fattori fondamentali nella previsione del disagio psicologico e della ricaduta dopo il trattamento (Wells, 2013).

La valutazione delle credenze metacognitive negative sul pensiero desiderante di cibo può avere utilità e riscontro in ambito clinico. L’evidenza suggerisce che, sebbene la CBT sia un trattamento efficace, i tassi di recidiva rimangono moderatamente alti (ad esempio Brown & Keel, 2012). Il modello CBT focalizza il trattamento sul cambiamento delle credenze principali e sul loro contenuto (core belifes, credenze sull’autostima e credenze irrazionali sul cibo), nonché sull’estrema moderazione della dieta. Il trattamento delle metacognizioni, invece, si rivolge ad un gruppo di credenze di ordine superiore (metacognizioni) coinvolto nel controllo e nella regolazione della cognizione (Wells, 2013). In particolare, affrontando le metacognizioni dell’incontrollabilità del pensiero desiderante, si può raggiungere una nuova dimensione di comprensione dei meccanismi che guidano l’escalation di craving, gli impulsi per il cibo e conseguentemente la frequenza di abbuffate. Gli interventi potrebbero anche mirare attivamente all’interruzione del pensiero sul desiderio e modificare le metacognizioni associate. Questo si potrebbe fare sostenendo il paziente ad individuare la propria elaborazione metacognitiva, ottenendo un controllo flessibile sull’attenzione e sullo stile di pensiero, e sviluppando nuovi piani di elaborazione. L’intervento avviene attraverso l’applicazione delle Tecniche di Terapia Metacognitiva come Training Attentivo (ATT), Detached Mindfulness, Rifocalizzazione dell’Attenzione Situazionale (Wells, 2009), così come i Compiti Visuospaziali (May, Andrade, Panabokke e Kavanagh, 2010), che possono aiutare a migliorare l’attenzione e la flessibilità cognitiva generale e l’elaborazione delle credenze metacognitive, che controllano il pensiero desiderante e la sua perseveranza.

Metacognizione e funzioni esecutive

Quattropani et al. (2016) ci invitano a porre attenzione sulle funzioni esecutive del paziente e i bisogni psicologici, utili al trattamento metacognitivo. Gli autori infatti hanno esplorato l’associazione tra metacognizioni, funzionamento esecutivo, bisogni psicologici e comportamento alimentare. I risultati di un numero crescente di studi hanno suggerito un legame tra obesità, scarso rendimento cognitivo e deficit nel funzionamento esecutivo (Sorensen, Sonne-Holm, Christensen e Kreiner, 1982). Studi precedenti si sono concentrati sull’associazione tra processi metacognitivi disfunzionali e disturbi alimentari come l’Anoressia Nervosa – AN (Cooper, Grocutt, Deepak & Bailey, 2007), la Bulimia Nervosa – BN (Sassaroli et al., 2007) o il Binge Eating Disorder – BED (Harltey, 2013), confermandone la correlazione.

Nello specifico, Quattropani et al. (2016) hanno individuato delle correlazioni tra le metacognizioni disfunzionali come: convinzioni negative sulla preoccupazione riguardo all’incontrollabilità e al pericolo, la necessità di controllare certi tipi di pensieri, un disadattamento psicologico generale e conseguenti problemi affettivi, presenti nelle persone con un livello di istruzione basso ed elevati valori di rischio di disturbo alimentare. Questa differenza, dicono gli autori, potrebbe essere dovuta a un funzionamento metacognitivo ed esecutivo leggermente compromesso e ipotizzano inoltre che questa condizione potrebbe non solo avere influito sulle prestazioni accademiche e sul successo, ma potrebbe avere un ruolo centrale nel comportamento alimentare, riducendo il controllo nell’assunzione di cibo.

 

Ma che cosa ho in testa – Recensione del libro di Tim Parks (2019)

Ma che cosa ho in testa di Tim Parks è un bel “Viaggio di un ignorante tra i misteri della mente” come recita il sottotitolo, un viaggio ben riuscito e alla portata di tutti. Per chi non conoscesse l’Autore, basti sapere che è uno scrittore e giornalista inglese, che scrive anche di tutt’altro.

 

Ma che cosa ho in testa: un susseguirsi di tanti stimoli di riflessione semplici alla scoperta di argomenti estremamente complessi

Sono quasi 300 le pagine di questo libro che, edito nel 2017, è stato tradotto in italiano nel 2019 e inizia con il racconto di un risveglio mattutino dell’Autore nella forma del flusso della sua coscienza: un’esperienza nella quale ognuno di noi può ritrovarsi e nella quale ogni terapeuta può riconoscere le caratteristiche di un Sé integrato, che fin dal mattino sa distinguere diversi stati mentali e vive un’esperienza di sé unica, senza switch bruschi.

Il racconto prosegue poi di pari passo con le attività della giornata di Parks, che si appresta a qualche giorno di riflessione, con alcuni studiosi, sulla coscienza.

Le sue parole evidenziano bene, all’inizio senza troppe etichette o spiegazioni teoriche, alcuni meccanismi psicofisiologici della percezione; ad esempio il fatto che siamo coscienti e convinti dell’esistenza di un armadio sebbene ne percepiamo attraverso il senso della vista solo una porzione. Realtà e percetto non coincidono e gli strumenti per l’indagine del cervello che abbiamo a disposizione oggi ce lo spiegano sempre meglio.

Stessa cosa vale anche per un costrutto caro al comportamentismo, come lo stimolo condizionato che impone di aprire gli occhi quando si sente la sveglia al mattino.

Un altro stimolo interessante è la riflessione – anche filosofica – sul rapporto tra linguaggio e realtà:

Nessuno in tutta la sua vita ha mai visto un oggetto per intero, da ogni parte, sopra e sotto, nel modo in cui lo denota una parola.

Ma che cosa ho in testa: la narrazione di Sé

Un altro snodo del libro particolarmente caro agli psicoterapeuti è la differenza tra la realtà e come ce la raccontiamo: proprio in questa differenza si annidano spesso grovigli di sofferenza, dati in gran parte da giudizi, pretese, aspettative, rappresentazioni, che a volte, specie nei disturbi di personalità, sono difficili da riconoscere anche perché la realtà viene confusa con lo stato mentale, fatto di cognizioni ed emozioni. Il pretesto narrativo di Parks in questo caso è il rapporto con la sua compagna di vita molto più giovane di lui e su cosa possano pensare gli altri vedendoli. Come nel celebre Inside Out, ciò che permette di viverci come una persona unica, con un continuum di esperienza, è dato anche dal non lasciare campo libero alle nostre parti emotive che in certe occasioni possono staccarsi tra loro e dare origine a esperienze dissociative.

Ma che cosa ho in testa: pensieri ed emozioni non sono la realtà

Sono diversi gli studiosi e i punti di vista, dalla filosofia alla psicologia, dall’arte alle neuroscienze, che Parks cita e con cui discute in questo libro: tutti ambiti che si sono occupati e si occupano di mente, cervello, coscienza e conoscenza, aspetti intrinsecamente legati tra loro, di cui credo non si possa parlare se non in quest’ottica multidisciplinare, sebbene ci interessi maggiormente solo un ambito, magari quello in cui lavoriamo o si tenda a dare più credenziali all’uno o all’altro.

Pensavi che l’erba fosse verde, e invece no. Pensavi di avere freddo, ma in realtà sei caldo. Pensavi di essere tu a decidere, invece ti stanno manipolando. Pensavi di soffrire, ma non è così. Pensavi di essere felice, ma la felicità non esiste. E, naturalmente, se il mio dolore è falso, lo sarà anche il tuo.

Può apparire una sconcertante verità, ma per chi lavora con le risorse e il dolore delle persone, è un grande vantaggio, come ci insegnano le terapie cognitive di terza ondata.

Terapia elettroconvulsivante e schizofrenia: a che punto siamo?

Per quanto riguarda il trattamento della schizofrenia, nei paesi più sviluppati l’utilizzo dell’ECT è in costante declino e rappresenta il trattamento di ultima scelta, quando altri tipi di terapia si siano dimostrati inefficaci

 

La terapia elettroconvulsivante (ECT) – ideata negli anni Trenta e basata sull’induzione di convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello – dagli anni Settanta è stata vista con un pessimismo crescente (Teodorkzuk et al., 2019). Per quanto riguarda il trattamento della schizofrenia, nei paesi più sviluppati l’utilizzo dell’ECT è in costante declino e rappresenta il trattamento di ultima scelta, quando altri tipi di terapia si sono dimostrati inefficaci (Chanpattana & Andrade, 2006). Nei paesi meno sviluppati l’ECT è utilizzata più frequentemente: l’utilizzo dell’ECT nei pazienti affetti da schizofrenia varia dal 3.1% in Canada al 15.2% in Cina (Sanghani et al., 2018).

A prescindere dalla frequenza di utilizzo, vi è una crescente evidenza scientifica a supporto dell’efficacia dell’ECT nel trattamento della schizofrenia, soprattutto come terapia supportiva alla farmacoterapia antipsicotica: Lally e colleghi (2016) hanno accertato il ruolo dell’ECT come agente potenziante della clozapina in pazienti resistenti al trattamento, cosa confermata anche da Grover et al. (2015). Pompili et al. (2013) hanno confermato l’efficacia dell’ECT combinata con la farmacoterapia nei pazienti affetti da schizofrenia – specialmente se caratterizzati da catatonia, aggressività e tendenze suicidarie, condizioni per le quali sono necessari rapidi miglioramenti globali e riduzione della sintomatologia acuta.

Anche i pazienti curati con farmacoterapia antipsicotica alternativa alla clozapina hanno mostrato un miglioramento quando sottoposti all’ECT, nonostante siano stati segnalati dai pazienti stessi effetti collaterali legati a difficoltà della memoria e mal di testa (Zheng et al., 2016).

Una domanda che si chiedono in molti è: l’ECT è un trattamento pericoloso? Per la verità, sono sempre più gli studi che considerano l’ECT come una terapia sicura: non sono state riscontrate difficoltà cognitive nei pazienti affetti da schizofrenia dopo il trattamento con l’ECT (Pawelczyk et al., 2015) – anzi, ci sono stati miglioramenti nelle funzioni esecutive e nella memoria verbale (Vuksan Cusa et al., 2018). Inoltre, altri studi hanno constatato come l’ECT aumenti la qualità della vita dei pazienti affetti da schizofrenia (Chanpattana, 2007; Garg et al., 2011).

Per chi dunque potrebbe risultare utile il trattamento con l’ECT? Sembrerebbe che i pazienti affetti da schizofrenia con sintomi affettivi non abbiano particolari benefici dall’utilizzo dell’ECT (Chanpattana & Sackheim, 2010). L’ECT avrebbe risultati migliori in pazienti schizofrenici con più sintomi positivi che negativi (Pawelczyk et al., 2015). Purtroppo la ricerca sugli effetti di una terapia ECT mantenuta nel tempo in questa tipologia di pazienti – seppur con dati incoraggianti – è limitata a un solo studio single case (Moeller et al., 2018).

Siccome in ogni caso l’ECT è utilizzata nei casi di pazienti più resistenti in generale, gli indici di ricaduta sono alti (McCall, 2001). Questo è confermato da Lally e colleghi (2016), che ha identificato la possibilità di ricaduta in un paziente su tre dopo lo stop dell’ECT. In questo senso bisognerà che la ricerca futura si occupi urgentemente di indagare quanto il trattamento con l’ECT debba durare (Teodorkzuk et al., 2019).

Altro punto a favore dell’utilizzo dell’ECT nei casi di pazienti resistenti alla terapia farmacologica sono gli effetti della psicosi se non curata in alcun modo: questa avrebbe infatti degli effetti deleteri sul funzionamento del cervello, attraverso la disregolazione presinaptica del rilascio di dopamina e l’iperstimolazione prolungata nello strato limbico che portano a cambiamenti neurologici strutturali (Sheitman & Lieberman, 1998). In una certa misura, questo può spiegare la logica di chi è a favore di un intervento precoce sulla psicosi e perché i pazienti psicotici trattati in grave ritardo hanno meno probabilità di ottenere la remissione dei sintomi.

In effetti, se ci si basasse esclusivamente sull’efficacia scientifica, l’ECT non dovrebbe essere considerato un trattamento di ultima istanza (Teodorkzuk et al., 2019). Piuttosto dovrebbe essere visto come un’alternativa per i pazienti resistenti ai farmaci o impossibilitati nell’assunzione di questi a causa degli effetti collaterali.

Parallelamente alla ricerca sulle prove cliniche di efficacia si dovrebbe forse anche indagare quanto l’aspetto socio/culturale abbia contribuito a stigmatizzare l’ECT come un trattamento oscuro da utilizzare solo in casi estremi.

 

Alti livelli di ketamina possono spegnere momentaneamente il cervello

I ricercatori hanno identificato due fenomeni cerebrali che possono spiegare gli effetti collaterali dell’uso di ketamina.

 

Lo studio condotto su una pecora a cui sono state somministrate dosi di ketamina, fornisce un’iniziale spiegazione sulle esperienze di depersonalizzazione e sullo stato di oblio che occorrono quando si fa uso di questa droga (Nicol & Morton, 2020).

In uno studio volto a comprendere l’effetto dei farmaci terapeutici sul cervello delle persone affette dalla malattia di Huntington, i ricercatori hanno utilizzato l’elettroencefalografia per misurare i cambiamenti immediati nelle onde cerebrali degli animali una volta che la ketamina – un farmaco anestetico e antidolorifico – veniva loro somministrato. Mentre le pecore dormivano, si registrava un’attività cerebrale a bassa frequenza. Quando il farmaco svaniva, e le pecore riprendevano conoscenza, si osservava un’oscillazione tra le onde a bassa e ad alta frequenza: queste alterazioni all’inizio erano irregolari, ma diventavano regolari in pochi minuti (Nicol & Morton, 2020). L’insorgere degli insoliti schemi dell’attività cerebrale delle pecore corrisponde al tempo in cui, quando un soggetto umano assume ketamina, riferisce di sentirsi disconnesso dal proprio corpo; secondo i ricercatori, è probabile che le oscillazioni cerebrali causate dal farmaco possano impedire che le informazioni provenienti dal mondo esterno vengano elaborate normalmente.

I risultati sono emersi nell’ambito di un più ampio progetto di ricerca sulla malattia di Huntington, una condizione che impedisce al cervello di funzionare correttamente.

Nello studio in questione sono state scelte le pecore come soggetti sperimentali, perché sono riconosciute come un adeguato modello preclinico di disturbi del sistema nervoso umano, inclusa la malattia di Huntington (Nicol & Morton, 2020). A sei pecore su dodici è stata somministrata una dose più elevata di ketamina, 24 mg / kg, questo dosaggio è considerato anestetico, tuttavia nella realtà dei fatti si misura una risposta analoga anche con dosi più basse; entro due minuti dalla somministrazione del farmaco, l’attività cerebrale di cinque delle sei pecore si è fermata completamente, un fenomeno mai visto prima. Sebbene le pecore anestetizzate sembrassero addormentate, il loro cervello era in realtà spento, ma pochi minuti dopo si registrava un’attività cerebrale normale (Nicol & Morton, 2020).

I ricercatori ritengono che questa pausa nell’attività cerebrale possa corrispondere a ciò che i tossicodipendenti descrivono come il “buco K”, uno stato di oblio paragonato a un’esperienza di pre-morte, seguito da una sensazione di grande serenità. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports (Nicol & Morton, 2020).

È noto che i tossicodipendenti assumono dosi spesso superiori a quelle somministrate alle pecore in questa ricerca; si verifica inoltre (come in tutte le droghe) lo sviluppo di tolleranza verso la ketamina, cioè per arrivare ad avere effetti medesimi è necessario assumere dosi sempre più elevate della sostanza.

Gli effetti collaterali fisiologici che spesso risultano fatali quando si assume ketamina, sono la compromissione irreversibile del fegato e l’arresto cardiaco (Nicol & Morton, 2020).

La ketamina è ampliamente utilizzata come anestetico sicuro per il trattamento di animali di grossa taglia, inclusi cani, cavalli e pecore. Viene anche usato in medicina, noto come un ‘anestetico dissociativo’ dato che i pazienti possono apparire svegli e muoversi, ma non sentono dolore e non sono in grado di elaborare normalmente le informazioni provenienti dall’ambiente (Berman et al., 2000).

A dosi più basse la ketamina ha un effetto antidolorifico e il suo uso nell’uomo adulto è principalmente limitato a situazioni militari, soprattutto per dare sollievo dal dolore quando un soldato viene ferito.

La ketamina è stata recentemente proposta come nuovo trattamento per la depressione e il disturbo da stress post traumatico. Al di là delle sue azioni anestetiche, tuttavia, si sa molto poco sugli effetti che provoca alle funzioni cerebrali (Nicol & Morton, 2020).

La Terapia Online durante e dopo l’emergenza sanitaria: l’esperienza del paziente ** PARTECIPA ALLA RICERCA **

La Terapia Online durante e dopo l’emergenza Covid-19

Una survey per indagare il vissuto dei pazienti

 

Fino a qualche mese fa la psicoterapia online era poco diffusa. Negli USA un sondaggio del 2018 ha rilevato che meno della metà dei terapeuti eroga prestazioni psicologiche in teleterapia e di questi la maggior parte predilige il telefono o l’email rispetto alla modalità di videochiamata. In Europa si stima che solo il 30% ne faccia utilizzo.

Con lo scoppio della pandemia e le conseguenti misure di contenimento adottate dal Governo, i terapisti hanno dovuto trovare un’alternativa per non lasciare i propri pazienti senza supporto. Pertanto molti hanno deciso di proseguire l’attività clinica online grazie all’utilizzo di strumenti di videochiamata.

Questo cambio di modalità ha avuto delle ripercussioni sui pazienti? E se sì, quali?

Per rispondere a queste domande, Studi Cognitivi, network di Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, ha deciso di effettuare un sondaggio anonimo tra i pazienti per indagare come abbiano vissuto il passaggio dalla terapia in studio alla modalità online e i cambiamenti che questo ha comportato.

Infatti un percorso psicoterapeutico ha un forte impatto emotivo sui pazienti, in cui giocano un ruolo importante fattori quali il setting, gli aspetti tecnici e la relazione terapeutica. La modalità con cui viene svolta la psicoterapia, dal vivo oppure online, può influenzare questi fattori e di conseguenza l’esperienza del paziente.

Il breve questionario richiede al paziente di soffermarsi su diversi aspetti cardine dell’esperienza psicoterapeutica, come per esempio la relazione con il proprio terapista, la capacità di concentrarsi ed esprimere le proprie emozioni, l’efficacia del percorso e gli eventuali progressi percepiti.

Partecipare al sondaggio significa dare un contributo importante alla ricerca scientifica in ambito clinico poiché i dati raccolti forniranno indicazioni preziose sul vissuto dei pazienti nei confronti della terapia online che permetteranno di migliorare il lavoro dello psicoterapeuta e l’efficacia complessiva della psicoterapia stessa.

SE HAI SEGUITO (O STAI SEGUENDO) UNA TERAPIA IN FORMA ONLINE O MISTA PRESENZA/ONLINE DURANTE E DOPO L’EMERGENZA SANITARIA COVID-19, PARTECIPA ALLA RICERCA!


SEI UN TERAPEUTA? PARTECIPA AL SONDAGGIO ANONIMO CHE INDAGA L’ESPERIENZA DEL TERAPEUTA 

Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro

Rosenzweig sostiene due cose: la prima è che il successo terapeutico non è una valida prova della bontà della teoria che la sostiene, la seconda è che, se vediamo effetti analoghi in trattamenti che si dichiarano diversi, viene da supporre che in essi agiscano fattori comuni.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo nei prossimi giorni i successivi contributi

 

Non dipende dai veloci
la corsa,
né dai forti
la guerra,
né dai sapienti
il nutrimento,
né dai più abili
la ricchezza
e neppure dai più sensibili
una grazia. (Qoelet 9,11)

Antefatto: La gara.

La mia discussione si articola in un antefatto, tre quadri ed un epilogo:

  • Antefatto: La gara
  • Primo Quadro: Rosenzweig – primo slittamento
  • Secondo Quadro: Luborsky  – secondo slittamento
  • Terzo Quadro: Ruggiero ed altri – slittamento fatale e finale
  • Epilogo e penultimo verdetto

L’assemblea che si riunì alla spiaggia era oltremodo bizzarra – figuratevi, gli uccelli avevano le piume fradice, e gli altri animali avevano il pelo incollato a’ loro corpicciuoli; e tutti erano inzuppati, grondanti acqua, tristi e malcontenti.

Naturalmente la prima quistione che fu posta fu quella di sapere come si sarebbero asciugati: si consultarono insieme su questo argomento, e pochi minuti dopo Alice si mise a parlare familiarmente con loro, come se li avesse conosciuti da un secolo. Ebbe una lunga discussione col Lori, ma bentosto quest’ultimo le fece un viso arcigno, e disse perentoriamente, “Son più vecchio di lei, perciò devo saper più di lei;” ma Alice non volle convenirne se prima non le avesse detto quanti anni aveva. Il Lori non volle dirlo, e la loro conversazione cessò.

(Dopo una interessantissima discussione il DODO prende la parola)

“Allora,” disse il Dodo con voce solenne, e levandosi in piedi, “propongo che il parlamento si aggiorni, accioché sieno adottati rimedii più energici.”

“Ma parli italiano!” sclamò l’Aquilotto. “Non capisco la metà delle sue parolone, e forse lei stesso non ne intende cica!”. E l’Aquilotto abbassò la testa per nascondere un sorriso, ma alcuni degli uccelli sghignazzarono apertamente.

“Volevo dire,” continuò il Dodo, facendo il broncio, “che il miglior modo di seccarsi sarebbe quello di fare una Corsa arruffata.”

“Che è la Corsa arruffata?” domandò Alice; non le premeva molto di saperlo, ma il Dodo taceva come se qualcheduno dovesse parlare, mentre niuno sembrava disposto ad aprire becco o bocca.

“Ecco,” disse il Dodo, “il miglior modo di spiegarla è quello di eseguirla”. (E siccome vi potrebbe venire la voglia di provare questa Corsa in qualche giorno d’inverno, vi dirò come il Dodo la diresse.)

Imprima tracciò la linea dello steccato, una specie di circolo (“già, non importa che sia ben tracciata,” disse), e poi tutta la comitiva entrò nello steccato mettendosi chi quà, chi là. Non si udì “Uno, due, tre, — via!” ma cominciarono a correre a piacere, e si fermarono quando n’ebbero voglia, di tal che non si seppe quando la Corsa fosse terminata. Ad ogni modo, dopo che ebbero corso una mezz’ora o quasi, e si sentirono tutti ben seccati, il Dodo sclamò tutt’a un tratto, “La corsa è finita!” e tutti l’intorniarono anelanti, e sclamando, “Ma chi ha vinto?”

Questa domanda impensierì immensamente il Dodo, perciò sedette e restò lungo tempo con un dito appoggiato alla fronte (tale e quale come è rappresentato Dante), mentre gli altri zittivano. Finalmente il Dodo disse, “ Tuttiquanti hanno vinto, e tutti debbon’essere premiati”. (L. Carrol: Alice nel paese delle meraviglie. Capitolo 3)

Commento

Il problema da risolvere per tutti gli animali è quello di asciugarsi.

La procedura che viene proposta dal Dodo è di fare una “corsa arruffata”.

La corsa arruffata è una corsa senza regole:

tutt’insiem, tutt’insiem senza una ragione, viene come vien, tutti di corsa tutt’insiem (Mary Poppins, diretto da R. Stevenson,1964).

Quando tutti sono stanchi e asciutti chiedono al Dodo: “chi ha vinto?”

La domanda chi ha vinto a cosa si riferisce?

Non ha niente a che vedere con lo scopo della corsa arruffata, non ha a che vedere con il problema che TUTTI dovevano risolvere: asciugarsi. E la gara non aveva niente a che vedere con il loro problema, non ci si asciuga correndo!

Ma il Dodo non ha perso la testa, non si lascia fuorviare ed emette il verdetto sulla questione vera: tutti hanno corso, tutti si sono asciugati, tutti hanno vinto e hanno perciò diritto a un premio.

Dunque, il verdetto riguarda la gara o il problema?

Il problema, con tutta evidenza; e rispetto alla soluzione del problema vi è che tutti sono asciutti, tutti hanno vinto, perciò tutti hanno diritto ad un premio.

Conclusione

Quando si accetta una procedura assurda per la risoluzione di un problema si procede di assurdità in assurdità fino al risultato finale che, generalmente, è la confusione mentale e il grigio indistinto.

Primo quadro: Rosenzweig: dov’è la vittoria? – Primo slittamento

Rosenzweig (1936) dà per scontato che le procedure psicoterapeutiche abbiano effetti e che il quesito riguardi il come sia possibile che procedure che si appoggiano a teorie dissimili e dicono di applicare specifiche tecniche abbiano risultati sovrapponibili.

Ecco cosa dice il nostro:

È stato spesso osservato che nessuna forma di psicoterapia è priva di effetti curativi per un paziente. Psicoanalisi, trattamento per persuasione, Christian Science e qualsiasi altra teoria psicoterapica può rivendicare notevoli successi. L’implicazione di questo fatto non è, tuttavia, univoca. L’orgoglioso sostenitore (di un approccio), avendo ottenuto il successo nei casi che menziona, ritiene implicito, anche quando non lo dice, che la sua teoria è così dimostrata vera, (mentre quella di) tutti gli altri falsa. Osservatori più distaccati, d’altra parte, osservando l’intero campo tendono, per motivi logici, a trarre conclusioni molto diverse. Se tali procedure, teoricamente contrastanti sostengono che possono portare al successo, spesso anche in casi simili, allora il risultato terapeutico non è una guida affidabile alla validità della teoria. Si deve riflettere ben poco per capire dove si radica la difficoltà, dal punto di vista logico.
Non solo è ragionevole credere che la stessa conclusione non può seguire da premesse opposte, ma quando tale contraddizione appare, come sembra essere vero nel presente caso, è giustificabile chiedersi (I) se i fattori che si presume operino in una data terapia siano identici a quelli che stanno effettivamente operando e (2) se i fattori che effettivamente stanno operando in diverse terapie potrebbero non avere molto di più in comune di ciò che hanno i fattori che si presume siano operativi. (Rosenzweig 1936)

L’autore sostiene due cose: la prima è che il successo terapeutico non è una valida prova della bontà della teoria che la sostiene, la seconda è che se vediamo effetti analoghi in trattamenti che si dichiarano diversi viene da supporre che in essi agiscano fattori comuni.

Dunque Rosenzweig non dubita affatto che le psicoterapie siano efficaci, ma si chiede perché possano essere ugualmente efficaci. La tesi che sostiene è che le psicoterapie possono avere analoghi successi perché condividono fattori comuni, e potrebbero essere questi che determinano in gran parte il successo delle stesse, mentre le tecniche specifiche di ciascuna psicoterapia assumono un ruolo meno determinante.

Chi mette in dubbio l’efficacia delle psicoterapie è invece Eysenk, nel 1952.

Dice Eysenk che la psicoterapia psicodinamica e altre forme eclettiche di psicoterapia non solo sono inefficaci, ma che le remissioni spontanee superano percentualmente quelle attribuibili a interventi psicoterapeutici.

Lo stesso Rosenzweig prima (Rosenzweig, 1954), nel 1994, Lambert e Bergin poi, ancora Lambert e Barley (2001) e Wampold e Imel (2015), documentano la inequivocabile efficacia dei trattamenti psicoterapeutici a confronto con il trattamento usuale. Il focus si è così spostato sul confronto tra terapie piuttosto che tra psicoterapia versus trattamento standard.

Commento

Il primo slittamento consiste nello spostare il problema sul perché si abbiano risultati e non se questi risultati vi siano.

Il problema non è chi ha vinto, ma perché TUTTI vincono, visto che sistemi psicoterapeutici basati su fondamenti teorici diversi, talora opposti, vantano gli stessi risultati. L’accento è qui posto sul perché i trattamenti possano essere ugualmente efficaci, e la ragione addotta da Rosenzweig è che esistono fattori comuni che i terapeuti utilizzano anche al di là di quanto ne siano consapevoli, e che possano agire altri fattori legati al paziente, o al contesto stesso della psicoterapia, che la rende efficace al di là della tecnica specifica.

Conclusione

Rosenzweig non fornisce un verdetto, ma la motivazione dello stesso: tutti vincono perché tutti fanno la stessa cosa decisiva e ottengono perciò il risultato, non perché tutti arrivano primi.

Quando si cerca il “perché” di qualcosa l’orizzonte si apre e la cooperazione si prende il suo spazio.

Ringraziamenti

Ringrazio mio figlio Filippo, brillantissimo logico, per avermi suggerito l’articolazione della discussione sull’antefatto.

Ringrazio Mancini per la sua lucidità, che permette anche ai suoi interlocutori di chiarirsi le idee.

Ringrazio il Ruggiero, e con lui Sassaroli e Caselli, che offre l’occasione per pensare a ciò che agiamo.

I meriti del mio commento sono di tutti gli autori citati; le banalità, le inesattezze e gli errori tutti miei.

 

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Vaginismo e Dispareunia: differenze e trattamento

Le interpretazioni cognitive come attribuzioni o credenze sul dolore contribuiscono all’incremento della sua intensità (Jodoin et al., 2011) e rivestono quindi un ruolo importante in disturbi come vaginismo e dispareunia.

Andrea Goldoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il dolore cronico sessuale femminile

I problemi di dolore cronico che coinvolgono il sistema riproduttivo femminile rappresentano un importante argomento che riguarda le donne di ogni età. Nonostante ci siano stati progressi significativi nel settore, queste patologie sono ancora poco comprese: solo il 60% delle donne cerca attivamente un trattamento, e il 52% di queste non riceve una diagnosi formale (Harlow et al., 2014). I disturbi da dolore sessuale, vaginismo e dispareunia, che ora sono classificati all’interno del DSM-5 come una singola entità chiamata disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (American Psychiatric Association, 2013), affliggono secondo le stime dal 14 al 34% delle donne giovani e dal 6,5 al 45% delle donne più anziane. (van Lankveld et al., 2010)

Anche se vaginismo e dispareunia sono stati entrambi classificati come disturbi da dolore sessuale all’interno del DSM-IV, erano differenziati dalle loro principali caratteristiche cliniche. La dispareunia era caratterizzata principalmente da dolore genitale durante il rapporto/penetrazione, che poteva essere introitale (localizzato all’entrata della vagina), profonda (riguardante la parte profonda della vagina o la pelvi), o entrambe (Graziottin, Gambini, 2017). Di contro, il vaginismo era caratterizzato da spasmi involontari del muscolo vaginale, forti abbastanza da interferire con la penetrazione, o da impedirla. (Graziottin, Gambini, 2017; Perez et al., 2016)

All’interno della pratica clinica, tuttavia, i disturbi apparivano spesso in comorbidità, oppure erano difficilmente differenziabili: le aspettative negative o la paura di provare dolore genitale nella dispareunia, ad esempio, potrebbero causare una contrazione involontaria del muscolo pelvico rendendo il rapporto sessuale difficile, e allo stesso modo la contrazione involontaria del muscolo pelvico nel vaginismo potrebbe causare dolore genitale durante un tentativo di penetrazione. In più, è stato rilevato che lo spasmo del muscolo vaginale, la caratteristica principale del vaginismo, non ha costituito un criterio valido e affidabile nel momento in cui è stato testato empiricamente (Reissing et al., 2014; Perez et al., 2016). Molti ricercatori perciò hanno postulato che l’efficacia diagnostica sarebbe aumentata combinando entrambi i disturbi in un’unica categoria.

Caratteristiche del disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD)

Gli attuali criteri diagnostici del DSM-5 per il disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD) includono difficoltà persistenti e ricorrenti in uno dei seguenti ambiti, per almeno 6 mesi e risultanti in un disagio clinicamente significativo: (1) penetrazione vaginale durante il rapporto; (2) marcato dolore vulvo-vaginale o pelvico durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale; (3) marcata paura o ansia per il dolore pelvico o vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale. (4) marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale.

I modelli concettuali del dolore sessuale presentano una visione multifattoriale, poiché le prove empiriche suggeriscono l’esistenza di percorsi eziologici multipli, che portano allo sviluppo e al mantenimento del dolore e alle difficoltà relazionali e psicosessuali associate.

Fattori biologici

Studi recenti mostrano almeno quattro possibili percorsi che possono influenzare il rischio di sviluppare questo disturbo: (1) cambiamenti ormonali, (2) cambiamenti neurologici, (3) infiammazione cronica e (4) ipertonia dei muscoli del pavimento pelvico (Bouchard et al., 2002; Harlow et al., 2008). L’inizio potrebbe essere attivato da traumi fisici/meccanici nella zona genitale, con conseguente infiammazione, disfunzione dei muscoli pelvici e altri cambiamenti locali che porterebbero a una sensibilizzazione dei nocicettori e ad altre alterazioni periferali e centrali del processo di elaborazione del dolore (Bergeron et al., 2011). Fattori cognitivi, comportamentali, affettivi e interpersonali possono modulare l’esperienza di dolore e le conseguenze negative associate, in quanto non tutte le donne che hanno un’esperienza iniziale di dolore sono a rischio di sperimentare una condizione persistente (Vlaeyen, Linton, 2000) o di sviluppare un disturbo sessuale.

Fattori psicologici

Similmente ai fattori biologici, anche i fattori psicologici coinvolti nell’eziologia del disturbo sono multifattoriali e vari. In uno studio trasversale su larga scala, le ragazze adolescenti che provavano dolore durante il rapporto sessuale hanno riportato con più frequenza una storia personale di abuso sessuale, timore di essere abusate sessualmente e ansia di tratto (Bouchard et al., 2002). Nello stesso studio, le adolescenti che riferivano abuso sessuale erano più inclini a riportare dolore sessuale rispetto a chi non ha sperimentato un abuso (Landry, Bergeron, 2011). Utilizzando uno studio caso-controllo, dei ricercatori hanno cercato di esaminare il ruolo dei fattori di stress psicosociale nell’eziologia del dolore sessuale. Rispetto alle donne non affette dal disturbo, le donne affette da dolore sessuale hanno sperimentato con una frequenza maggiore di tre volte gravi abusi fisici o sessuali durante l’infanzia, o hanno vissuto da bambine una forte paura di poter essere abusate (Khandker et al., 2014). In uno studio è stato dimostrato che il dolore vulvo-vaginale era quattro volte più probabile nelle donne che avevano precedentemente sperimentato un disturbo depressivo o di ansia, e che questi disturbi erano maggiormente presenti anche come conseguenza del dolore vulvare, rispetto ai controlli sani (Khandker et al., 2011).

Coerentemente con il modello biopsicosociale, sono presenti prove empiriche che indicano che le interpretazioni cognitive come attribuzioni o credenze sul dolore contribuiscono all’incremento della sua intensità (Jodoin et al., 2011) e perciò hanno un grande ruolo nella sua gestione e modulazione. Le donne affette dal disturbo riportano livelli maggiori di catastrofizzazione verso il dolore (ovvero una prospettiva esagerata e pessimistica), rispetto al campione di controllo sano (Payne et al., 2007; Pukall et al., 2002) e mostrano anche alti livelli di ipervigilanza nei confronti del dolore rispetto a uno stimolo neutro. Livelli più alti di catastrofizzazione, paura del dolore, ipervigilanza e bassa autoefficacia sono correlati con un maggiore dolore, mentre livelli più alti di ansia ed evitamento sono correlati con un livello maggiore di disfunzioni sessuali. (Desrochers, et al. 2009).

Fattori relazionali

Dato che il disturbo è sperimentato in contesti sessuali, la ricerca si è gradualmente concentrata sul ruolo dei fattori relazionali. La risposta del partner, la più studiata dei fattori relazionali, può essere negativa (ostilità), preoccupata o facilitante (affetto e incoraggiamento all’utilizzo di strategie di coping adattive). Negli studi trasversali, maggiori risposte facilitanti del partner sono state associate a un minore dolore sessuale femminile (Rosen et al., 2012) e a un migliore funzionamento sessuale (Rosen, 2014), oltre che a una maggiore soddisfazione di coppia, relazionale e sessuale (Rosen, 2015).

Di contro, maggiori risposte negative e preoccupate del partner sono state associate a un maggior dolore (Desrosiers, 2008; Rosen, 2015) e a maggiori sintomi depressivi nelle donne (Rosen, 2014), oltre che a un funzionamento sessuale più basso e a una minore soddisfazione relazionale e sessuale. Mentre le risposte facilitanti promuovono l’uso all’interno della coppia di strategie di coping adattive e di una regolazione emotiva condivisa di fronte al dolore, le risposte ostili o preoccupate del partner rinforzano l’evitamento del dolore e del sesso e compromettono il coping e la regolazione delle emozioni legati alle sensazioni dolorose. Una maggiore ambivalenza nell’espressione emotiva all’interno della coppia (uno degli indicatori di scarsa regolazione emotiva) è stata associata a una riduzione del funzionamento e della soddisfazione sessuale (Awada, 2014). Inoltre, gli studi che hanno esaminato le cognizioni relative al dolore dei partner hanno mostrato che una minore catastrofizzazione verso il dolore era correlata a un minore livello di dolore nelle donne. Di contro, maggiori attribuzioni negative verso il dolore hanno predetto maggiore distress all’interno della coppia, minore soddisfazione sessuale e relazionale, e livelli maggiori di dolore nella donna (Jodoin et al., 2008).

Questi studi evidenziano i diversi modi tramite i quali le convinzioni e le esperienze relative al dolore nel partner possono influenzare direttamente o indirettamente il dolore sessuale della donna, oltre che condizionare la serenità psicologica, relazionale e sessuale all’interno della coppia.

Le coppie in cui è presente il disturbo sono più inclini a sperimentare ostacoli relazionali rispetto alle altre coppie nella popolazione generale. Ad esempio, le donne affette da questi sintomi presentano con più frequenza uno stile di attaccamento insicuro (Granot et al., 2011), e le coppie affette dai sintomi, riportano una minore comunicazione sessuale rispetto alle coppie sane (Smith, Pukall, 2011; Pazmany, 2014). Di contro, una minore comunicazione sessuale e la presenza di un attaccamento insicuro sono associati a una maggiore sofferenza sessuale nelle donne (Pazmany, 2015), un minore funzionamento sessuale all’interno della coppia (Leclerc et al., 2014), e una minore soddisfazione relazionale. Tali studi sottolineano l’importanza da attribuire al contesto diadico nel quale si presenta il sintomo.

Il modello paura-evitamento

Lo sviluppo e la persistenza del disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione sono stati concettualizzati sotto forma di un circolo vizioso, utilizzando il modello paura-evitamento per spiegare il mantenimento del dolore (Basson, 2012).

Un’esperienza iniziale di dolore produce pensieri ansiosi e catastrofici sul dolore e sul suo significato. Questi portano a un’ipervigilanza somatica che amplifica tutte le sensazioni potenzialmente negative, aumenta le emozioni negative associate al dolore e l’evitamento dell’attività sessuale. A seguito di ciò, si ha una risposta di ipertono dei muscoli del pavimento pelvico, che aumenta la negatività dell’esperienza. Il dolore impedisce l’eccitazione genitale, portando a una minore lubrificazione e a una penetrazione dolorosa. Esperienze ripetute di dolore sessuale confermano la paura e la necessità dell’ipervigilanza, contribuendo all’evitamento della penetrazione vaginale. Infine, l’evitamento dell’attività sessuale previene la disconferma dei pensieri automatici negativi (van Lankveld, 2006).

Il trattamento del disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione

La terapia cognitivo-comportamentale è stata uno degli interventi più studiati per il trattamento del disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione (Goldfinger, 2016), e diversi studi hanno dimostrato la sua efficacia (ter Kulle, 2007; van Lankveld, 2006; Breton, 2008; Bergeron, 2016; Brotto, 2015; Goldfinger, 2016; Bergeron, 2001; Engman et al., 2010; Lofrisco, 2011; Ter Kuile, 2015). Gli obiettivi principali della terapia sono le distorsioni cognitive, la disregolazione emotiva e i comportamenti maladattivi che sottendono i sintomi e che disturbano la relazione di coppia. (Bergeron, 2014). Uno dei punti chiave della terapia è lo stabilire obiettivi terapeutici realistici: alcuni esempi sono la riduzione del dolore da grave a moderato o lieve; la riduzione della tensione muscolare nel perineo/pelvi; la riduzione delle cognizioni negative relative al dolore (pensieri catastrofici meno frequenti e l’abilità di considerare le situazioni che generano dolore in una maniera più positiva); coping positivo (l’abilità di focalizzarsi sulle componenti positive dell’esperienza sessuale); miglioramento del funzionamento sessuale (esplorazione delle espressioni della sessualità che non includono la penetrazione, e l’abilità di comunicare i propri desideri al partner) (Engman, 2010).

L’approccio terapeutico iniziale consiste nella psicoeducazione della coppia (Dunkley, Brotto, 2016;). Né il paziente né il partner dovrebbero affrontare la problematica assumendo un ruolo passivo: è un’opportunità per comprendere il problema, aumentare le conoscenze sull’anatomia femminile e sfatare i miti sulla sessualità. La coppia dovrebbe anche essere informata riguardo la natura biopsicosociale del disturbo e sul ruolo delle problematiche psicologiche e di coppia come fattori di innesco e di mantenimento (Weijenborg et al., 2009). La coppia inoltre va messa a conoscenza di strategie comportamentali che possono aiutare a ridurre il dolore.

Un altro obiettivo importante nell’approccio iniziale verso il disturbo è la riduzione dell’ansia. Non è infrequente che, presentandosi al/alla terapeuta, la coppia sia bloccata in un circolo di evitamento: dell’intimità, della discussione del problema, della ricerca di soluzioni, e infine dell’attività sessuale. Nel momento in cui finalmente cominciano il trattamento, è probabile che si sentano ansiosi perché sarà necessario discutere del problema e in seguito riprendere ciò che stavano attivamente evitando: il sesso. E’ importante che il terapeuta sia a conoscenza di questa situazione e rinforzi positivamente il fatto che la coppia abbia cercato aiuto. E’ di fondamentale importanza informarli sul fatto che la terapia si focalizzerà sull’incremento del desiderio, dell’eccitazione e dell’intimità, e non sull’aumento della frequenza delle penetrazioni. Il rapporto sessuale completo non è un obiettivo primario, ma una conseguenza di un trattamento di successo (Meana et al., 2017).

In un secondo stadio della terapia, è importante che il/la terapeuta metta in discussione determinati pensieri riguardo il sesso che sono comuni tra le coppie. Due distorsioni cognitive comuni nelle donne affette nel disturbo, come precedentemente detto, sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione del dolore. Affrontare queste distorsioni è essenziale per ridurre le reazioni emotive disfunzionali. Inoltre, l’uso delle fantasie sessuali dovrebbe essere incoraggiato, poiché le cognizioni sessuali positive incrementano il desiderio e l’eccitazione, i quali possono aumentare la lubrificazione e il piacere, e ridurre il dolore.

La coppia dovrebbe anche essere incoraggiata a esprimere attivamente le sue emozioni e a mostrare fisicamente affettività. L’obiettivo è di scollegare l’affetto fisico dall’anticipazione del dolore genitale, riducendo l’ansia anticipatoria. Ciò può essere raggiunto tramite la tecnica di focalizzazione sensoriale sviluppata da Masters e Johnson e pubblicata nel 1970 nel loro libro Human Sexual Inadequacy. Lo scopo è di passare gradualmente da carezze non genitali a carezze genitali, e infine alla penetrazione. All’inizio, la penetrazione è proibita, cosa che solitamente riduce l’ansia della paziente, permettendole di focalizzarsi sulle sensazioni corporee piacevoli. Questa esposizione graduale al contatto fisico di solito risulta in un aumento del desiderio e dell’eccitazione, e in una riduzione del dolore. La focalizzazione sensoriale è anche utile per espandere il repertorio sessuale della coppia (ter Kuile, 2015).

Poiché la contrazione dei muscoli pelvici è considerata una risposta condizionata alla paura, è consigliabile l’utilizzo delle tecniche di esposizione (ter Kuile et al., 2007). E’ opportuno inoltre l’utilizzo di dilatatori vaginali progressivamente più grandi (desensibilizzazione sistematica), associati a un programma specifico di fisioterapia (Dunkley, Brotto, 2016). L’efficacia di questo intervento è mediata dalla riduzione del comportamento di evitamento e delle distorsioni cognitive, oltre che dall’aumento del controllo del dolore (ter Kuile, 2015). Al termine del trattamento cognitivo-comportamentale i livelli di ansia nella donna si abbassano, e inoltre si ottengono un incremento dell’armonia di coppia e un miglioramento della soddisfazione sessuale generale (Kabakci, Batur, 2003)

“Esserci – Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini” (2020) di Siegel e Bryson. Recensione del libro

Il libro Esserci. Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini offre, a partire dalla teoria dell’attaccamento e dalla neurobiologia interpersonale, una guida su cosa possono fare i genitori per aiutare i bambini a crescere in modo ottimale, anche se non perfetto: esserci.

 

“Esserci significa portare tutti noi stessi – la nostra attenzione e consapevolezza – nel momento in cui stiamo con nostro figlio. Esserci vuol dire essere presenti mentalmente ed emotivamente per il bambino quando siamo insieme a lui”. Si tratta di presenza fisica ma soprattutto della qualità della presenza.

Facile a dirsi, ma per colmare la parte pratica lì dove è assente, il libro ci serve sul piatto un “cocktail” di quattro elementi – chiamato il “poker dell’attaccamento”, in grado di creare un attaccamento sicuro – alla base di uno sviluppo ottimale: protezione, comprensione, conforto, sicurezza (Imm. 1)

Esserci. Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini Imm 1
Imm.1: i quattro elementi alla base di uno sviluppo ottimale.

Dopo una introduzione panoramica sulla teoria dell’attaccamento, ogni capitolo è dedicato ad una di queste parole chiave e viene dato spazio anche a strumenti per individuare il tipo di attaccamento che abbiamo avuto noi genitori, in modo da riflettere su di esso, dare un senso e creare una “narrazione coerente” – condizioni necessarie per poter offrire ai nostri figli una base amorevole, persino se noi non l’abbiamo avuta. Gli autori accennano infatti al concetto di attaccamento sicuro guadagnato – riferito alla possibilità di cambiare il proprio stile di attaccamento.

In ogni capitolo vengono dati suggerimenti su come sviluppare ognuna delle quattro capacità e alla fine di ogni capitolo, ci sono una serie di strumenti per comprendere la propria storia e per individuare il tipo di attaccamento che abbiamo anche noi genitori, in modo da proporci in maniera ottimale per i nostri figli. Vediamo in sintesi cosa significa ognuno degli ingredienti proposti dagli autori.

Proteggere è l’opposto di minacciare, significa tenere il bambino a riparo da esperienze avverse di abuso e trascuratezza (fisici, emotivi e relazionali) o altri tipi di episodi in cui si incute paura e soprattutto riparare quando si sbaglia. Importante anche non diventare iperprotettivi, considerato che sostituirsi a loro non è protettivo, ma svalutante. L’idea quindi è non prevenire e risolvere per loro i problemi, ma stargli accanto in momenti difficili facendogli capire che hanno la forza di gestirli e uscirne bene, nei limiti del proprio livello di sviluppo, temperamento e situazione. È importante che i bambini si trovino ad affrontare i problemi e incontrino anche qualche insuccesso.

Comprendere significa vedere ciò che succede dietro i comportamenti (pensieri, emozioni, ricordi), sintonizzandosi con lo stato mentale del bambino e dando senso a ciò che capita, invece di etichettare un comportamento.

Confortare significa consolare, riuscire a calmare il bambino quando prova emozioni forti, stando accanto a lui, stimolando così lo sviluppo della capacità di calmarsi da solo e lo sviluppo della parte “superiore” del cervello.

La sicurezza è il risultato dei primi tre concetti: la base sicura viene creata se riusciamo a proteggere il bambino, a comprenderlo e confortarlo.

Il libro è scritto in maniera comprensibile anche per i non addetti ai lavori, con diversi esempi, e anche stimoli alla riflessione sul proprio stile di attaccamento. È un libro per genitori ma anche per chi sta in contatto con i bambini da un altro ruolo, nonché per coloro che vogliono approfondire il proprio stile di attaccamento.

 

Un videogioco online per ridurre il pregiudizio etnico

La discussione relativa al pregiudizio etnico è più che mai accesa in questi giorni. Fin dagli anni ’50, la psicologia sociale si è occupata di definire che cosa siano gli stereotipi e i pregiudizi e di comprendere come essi si formano.

 

Gli psicologi sociali hanno anche indagato se e come sia possibile ridurre i pregiudizi. Alcune modalità di riduzione del pregiudizio sono state individuate, tra cui il contatto intergruppi (Pettigrew e Tropp, 2006) e il perspective taking (Dovidio e colleghi, 2004), che si potrebbe tradurre come “assunzione di prospettiva”. Il perspective taking permette di comprendere le esperienze di una persona proveniente da un gruppo sociale diverso dal proprio. È ciò che comunemente si definirebbe “mettersi nei panni di un altro”.

Il perspective taking si è rivelato efficace nel ridurre il pregiudizio intergruppi, ad esempio tra Americani bianchi e di colore (Dovidio, 2004). Tuttavia, Simonovits, Kézdi e Kardos (2018) si sono chiesti come implementare interventi di riduzione del pregiudizio concretamente realizzabili, economicamente sostenibili e che coinvolgessero un ampio numero di persone.

Gli autori hanno quindi svolto uno studio sperimentale, in cui hanno utilizzato un videogioco online per indurre i partecipanti ad assumere la prospettiva della minoranza etnica Rom. I Rom sono un gruppo sociale marginalizzato non solo in Ungheria, dove è stato condotto l’esperimento, ma anche in altri paesi europei, inclusa l’Italia. L’obiettivo principale dello studio era verificare l’efficacia del videogioco nel ridurre il pregiudizio verso le persone di etnia Rom.

Questo studio risulta innovativo rispetto ad altri che applicano il perspective taking per ridurre il pregiudizio. Infatti, generalmente il partecipante ascolta o guarda passivamente delle storie che riportano l’esperienza di una persona proveniente da una minoranza sociale. In questo studio, invece, i partecipanti giocano volontariamente al videogioco online e si immedesimano attivamente nel personaggio protagonista del videogioco. Il videogioco è del tipo “scegli la tua avventura” e racconta la storia di un adolescente diciottenne di etnia Rom, che arriva a Budapest per iniziare una nuova vita. Il videogioco racconta la storia dal punto di vista dell’adolescente Rom. Il giocatore deve quindi prendere decisioni e agire come se lui o lei fosse l’adolescente protagonista della storia. Il videogioco è pertanto strutturato in modo da facilitare il perspective taking.

Lo studio ha coinvolto 385 partecipanti di età compresa tra i 24 e i 26 anni. Ciascun partecipante aveva completato, nel 2009, una scala di misurazione del pregiudizio etnico verso i Rom. I partecipanti erano divisi in due condizioni: in quella sperimentale giocavano al videogioco sopra descritto, in quella di controllo giocavano a un videogioco irrilevante per il pregiudizio etnico. La stessa misurazione del pregiudizio etnico verso i Rom è stata somministrata subito dopo aver giocato al videogame e anche un mese dopo l’esperimento.

I risultati indicano che il videogioco ha efficacemente ridotto il pregiudizio verso le persone di etnia Rom non solo immediatamente dopo aver giocato online, ma anche dopo un mese. È possibile che la riduzione del pregiudizio sia legata al fatto di aver empatizzato con il personaggio, ma gli esatti meccanismi di riduzione del pregiudizio dovrebbero essere ulteriormente indagati.

Gli autori hanno inoltre valutato se la riduzione del pregiudizio verso lo specifico gruppo dei Rom avesse effetti anche su altri gruppi stigmatizzati. I risultati indicano che ciò è avvenuto per i rifugiati, ma non per i senzatetto. Di conseguenza, si può ipotizzare che assumere la prospettiva di un gruppo stigmatizzato possa aiutare a ridurre il proprio pregiudizio in generale, ma ciò dipende anche da altri fattori. Ad esempio, quanto intenso è il pregiudizio verso i senzatetto o i rifugiati, o quanto essi assomigliano ai Rom, cioè al gruppo sociale targettizzato nell’intervento di perspective taking.

Infine, lo studio ha mostrato che il videogioco online ha avuto effetti anche sulle intenzioni comportamentali dei partecipanti. In particolare, i partecipanti nella condizione sperimentale avevano una minore intenzione di votare per un partito ungherese di estrema destra, la cui propaganda era discriminatoria verso i Rom, rispetto al gruppo di controllo.

Ulteriori studi sono necessari per comprendere meglio i meccanismi che rendono il videogioco efficace nella riduzione del pregiudizio. Inoltre, studi futuri potrebbero coinvolgere partecipanti più anziani, che potrebbero avere maggiori resistenze a modificare i propri pregiudizi rispetto ai giovani adulti. Infine, sarebbe utile estendere lo studio ad altri contesti sociopolitici.

L’esperimento di Simonovits, Kézdi e Kardos (2018) rimane un utile esempio di intervento di riduzione del pregiudizio. Infatti, esso rappresenta un intervento che può essere particolarmente efficace data la sua natura interattiva e che, essendo online, ha costi contenuti e può raggiungere un ampio numero di persone.

 

Attaccamento, disregolazione emotiva e relazioni di coppia: perché si scelgono le persone sbagliate?

Cosa significa regolare le proprie emozioni? Ed esiste un collegamento tra le nostre esperienze precoci di attaccamento a una figura di riferimento, la regolazione delle emozioni e come tendiamo a comportarci con i nostri partner e più in generale nei rapporti interpersonali?

Giulia Lo Verde – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

Introduzione

Uno dei motivi per cui spesso si sceglie di iniziare un percorso terapeutico è la difficoltà di gestione di un’emozione specifica e dei suoi riflessi a livello personale e interpersonale. Le emozioni, infatti, hanno una funzione importante di regolazione all’interno dell’ambiente che si manifesta soprattutto nella relazione con gli altri. Cosa significa regolare le proprie emozioni? Ed esiste un collegamento tra le nostre esperienze precoci di attaccamento a una figura di riferimento, la regolazione delle emozioni e come tendiamo a comportarci con i nostri partner e più in generale nei rapporti interpersonali?

Come sappiamo, e probabilmente come abbiamo provato più volte nell’arco di un’intera giornata, le nostre emozioni variano, sono mutevoli e dinamiche in risposta ad eventi di varia natura, compresi eventi interni come ad esempio un ricordo, un pensiero o anche un’immagine mentale.

Hanno una funzione fondamentale nell’aiutarci a conoscere e ad interagire con la realtà che ci circonda. Esse ci segnalano che è presente un cambiamento nella realtà esterna o interna che da noi è percepito come rilevante. All’emozione si accompagna una valutazione cognitiva dello stimolo emotigeno che ci prepara all’azione attraverso un’attivazione fisiologica e corporea (ad esempio sensazioni corporee e mutamenti dell’espressione facciale). Tutto ciò si traduce in una specifica risposta comportamentale (Zorzi e Girotto, 2004).

La maggior parte degli approcci teorici sulle emozioni evidenziano come ciò che pensiamo sia interdipendente e sia parte del processo emotivo. Pertanto, la variabilità dell’esperienza emotiva è dovuta a un processo multidimensionale e complesso.

Cos’è la competenza emotiva e dove la impariamo?

La competenza emotiva è la capacità di percepire e riconoscere le emozioni, di discriminare tra di esse, di nominarle e dare loro un nome. Questo comporta anche l’apprendimento e lo sviluppo di abilità metacognitive e di autoriflessività, la capacità sociale di riconoscimento delle emozioni altrui e l’abilità di regolazione del nostro comportamento e della manifestazione delle nostre emozioni.

Quando si manifestano problemi legati alla sfera emotiva, sono presenti difficoltà legate all’acquisizione di queste competenze che ci aiutano anche a gestire lo stress e le situazioni difficili.

Un contributo fondamentale nello sviluppo e nell’apprendimento di tale competenza sono le esperienze precoci avute durante l’infanzia, mediate dai nostri caregiver. Per permettere ciò è necessario un ambiente che validi le nostre esperienze emotive senza negarci di provare emozioni positive e negative, riconoscendone le funzioni e le espressioni adeguate al contesto, aiutandoci a sviluppare la nostra competenza emotiva.

Cosa accade se ciò non avviene?

Disregolazione emotiva e alessitimia

La regolazione emotiva è un’abilità che ci aiuta nel rapporto con noi stessi e con gli altri perché ci permette di capire cosa stiamo provando e cosa stanno provando e sentendo gli altri.

Quando questa abilità è deficitaria si parla in psicologia clinica di alessitimia e di disregolezione emotiva. L’alessitimia è la difficoltà a identificare i sentimenti propri e altrui, a riconoscere le espressioni facciali, a descrivere le emozioni. Consiste inoltre, nell’avere una scarsa capacità immaginativa, uno stile di pensiero orientato verso l’esterno e la tendenza alla somatizzazione delle emozioni (Taylor, Bagby & Parker, 1997).

La disregolazione emotiva è una difficoltà nell’autoregolazione dei propri stati interni e nell’espressione di tali stati emotivi in modo adeguato in risposta all’ambiente circostante. Ciò significa che sono presenti deficit nell’utilizzo flessibile di strategie per modulare l’intensità e/o la durata dell’esperienza emotiva (Gross & John, 2004).

Quando l’ambiente di sviluppo viene definito invalidante, il bambino non apprende ad utilizzare strategie efficaci di regolazione degli stati emotivi né a tollerare emozioni difficili imparando a mettere spesso in atto strategie di evitamento e di mancata accettazione di esse prolungando di conseguenza l’esperienza emotiva negativa (Hayes, Strosahl & Wilson, 1999).

In particolare la disregolazione emotiva è associata alla tendenza ad agire legata all’emozione e a uno scarso controllo degli impulsi (Linehan, 1993; Melnick & Hinshaw, 2000). Campbel-Sills e Barlow (2007) suggeriscono che le persone con problemi di ansia e depressione impiegano delle strategie di regolazione degli stati affettivi controproducenti. Queste azioni hanno infatti il duplice effetto di accentuare l’intensità e la frequenza delle emozioni indesiderate (regolazione delle emozioni inefficace) e di contribuire all’intensificazione e alla persistenza dell’umore negativo (regolazione dell’umore inefficace). Più specificatamente, gli individui con disturbi d’ansia e/o depressivi, evidenziano una serie di difficoltà nel fronteggiamento dei vissuti emotivi: scarsa conoscenza delle emozioni e delle relative componenti, elevata tendenza a reagire negativamente alle esperienze emozionali e difficoltà nel recupero dalle emozioni negative (Mennin, Heimberg, Turk & Fresco, 2005).

Nei disturbi di personalità si rileva spesso la presenza di una difficoltà nella regolazione delle emozioni. Il cluster più rappresentativo di questa difficoltà è il cluster b. In particolare nel disturbo borderline di personalità è possibile rilevare numerose difficoltà nella regolazione degli stati affettivi. I soggetti con tale disturbo sono caratterizzati da: un eccesso di esperienze emozionali avversive, l’incapacità di regolare l’intenso arousal fisiologico, la difficoltà a distogliere l’attenzione dallo stimolo emozionale, la presenza di distorsioni cognitive e di difetti nella elaborazione delle informazioni, un insufficiente controllo dei comportamenti impulsivi correlati a emozioni positive e negative, la difficoltà a coordinare ed organizzare le attività utili al raggiungimento di un obiettivo non coerente con l’umore in condizioni di forte attivazione e la tendenza a “congelare” o dissociare i vissuti emotivi in condizioni di forte stress (Linehan, Bohus & Lynch, 2007).

Tutto ciò che influenze e quali connessioni ha con i nostri legami di coppia?

Attaccamento, esperienze precoci e relazione con gli altri

Come ci formiamo le idee che abbiamo su di noi e sugli altri? Come mai tendiamo a pensare spesso le stesse cose e le nostre relazioni molto spesso si somigliano?

L’attaccamento è quel comportamento che motiva il bambino a cercare la vicinanza fisica dei genitori, o di chi se ne prende cura, quando egli vive emozioni di paura, di sofferenza fisica e di dolore emotivo. Questo sistema comportamentale è presente per tutta la vita, è innato e regola la modalità con la quale, anche da adulti, saranno gestite le emozioni di paura e sofferenza (Bolby, 1973, 1980). Ogni individuo svilupperà pertanto il proprio e personale sistema di attaccamento modulato dalla relazione con la madre, diversa a seconda della tipologia di risposta della madre alle esigenze del figlio. Le differenti strategie sviluppate corrispondono ai diversi stili di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, insicuro ansioso – ambivalente, disorientato/disorganizzato (Ainsworth, Blehar, Waters & Wall, 1978). La qualità della relazione di attaccamento condiziona le modalità di regolazione delle emozioni, le capacità sociali e lo sviluppo della funzione metacognitiva. Ciò permette di comprendere l’importanza che le relazioni di attaccamento hanno nella costruzione e nello sviluppo della nostra mente (La Mela, 2014). Durante il primo anno di vita, all’interno della relazione di attaccamento, il bambino elabora le informazioni riguardanti le reali e concrete risposte della propria figura di attaccamento alle proprie richieste di cura, vicinanza e protezione in un modello della figura di attaccamento che per generalizzazione diventa lo schema dell’altro. Nello stesso tempo, per rispecchiamento, le reazioni individuali del bambino al modo in cui la sua figura di attaccamento risponde alle sue richieste di cura, creeranno un modello di sé e delle previsioni sulle proprie future reazioni durante l’attivazione del sistema di attaccamento e, sempre per generalizzazione, plasmeranno una rappresentazione di sé valida anche al di fuori di una relazione di cura. È così che, all’interno della dimensione relazionale, partendo dalle memorie che abbiamo sulle nostre relazioni reali con le figure di attaccamento, si costruiscono lo schema di sé e dell’altro, le rappresentazioni e le aspettative delle relazioni interpersonali in vari contesti e non solo in quello di cura. Vengono a crearsi quindi degli schemi interpersonali che operano come griglie interpretative per elaborare le informazioni relative ai contesti interpersonali e per orientare il nostro comportamento in ambito relazionale.

Ognuno di noi mette in atto delle strategie nello stare con gli altri in base al contesto relazionale (bisogno di cura, contesto di sfida, ecc.), in base a come supponiamo che gli altri si relazioneranno con noi (disponibili, rifiutanti, leali, ecc.) e a come pensiamo di essere (autonomi, vulnerabili, non amabili, ecc.).

Lo sviluppo di un attaccamento sicuro durante l’infanzia promuove la costruzione di uno stato mentale “libero” (Main & Goldwyn, 1984) grazie al quale si hanno capacità cognitive e metacognitive, una serena espressione di tutte le emozioni e una diminuzione della possibilità di incorrere in equivoci comunicativi in situazioni in cui i segnali non verbali di natura emotiva sono complessi, favorendo la costruzione di un sistema cognitivo flessibile, in grado di accettare le nuove informazioni derivanti dal contesto sociale non come scompensanti ma arricchenti (Liotti 1994/2005).

Se l’interazione con il nostro caregiver non ci permette di sviluppare un attaccamento sicuro?

Schemi disfunzionali, regolazione emotiva e relazioni

Nonostante durante l’infanzia gli schemi interpersonali che si sono sviluppati da stili di attaccamento insicuro risultino utili a rispondere al meglio alle modalità interpersonali delle figure significative, nella vita adulta limiteranno la vita relazionale. Essi infatti renderanno più probabile la costruzione di un sistema cognitivo-affettivo povero e rigido, oppure talmente lasso, incoerente e non integrato da favorire la costruzione in età adulta di cicli interpersonali disfunzionali (Liotti 1994/2005).

Gli schemi che tendono alla rigidità sceglieranno di escludere alcune informazioni che non concordano con le nostre aspettative e, senza alcuna consapevolezza, si preferiranno tipologie di persone e di relazioni che li confermeranno. Ciò significa che siamo portati a confermare i nostri schemi interpersonali disfunzionali scegliendo di rimanere in relazioni non soddisfacenti. Nel tentativo di proteggere la stabilità degli schemi, è probabile che si creino dei cicli interpersonali che determineranno un rinforzo degli schemi stessi. Gli schemi interpersonali non solo influenzano la rappresentazione di sé e dell’altro nei vari contesti, ma creano aspettative sulle emozioni che si proveranno e determinano le strategie comportamentali volte a gestire i vari eventi relazionali. Ciò che è deficitario e problematico è la difficoltà nell’espressione dei bisogni coerentemente con il contesto (di cura, di accudimento ecc.) e la modalità (strategia) con la quale vengono richiesti.

Ad esempio se un individuo ha uno schema di sé come vulnerabile, avendo avuto scarse esperienze di accudimento nei momenti di difficoltà, di fronte ad uno stress potrebbe non esprimere una richiesta di aiuto in maniera efficace, in particolare dal punto di vista emotivo (espressione facciale, richiesta esplicita del bisogno, ecc..), ma potrebbe farlo con rabbia generando nell’altro un distanziamento o un abbandono, confermando pertanto la sua rappresentazione dell’altro come non disponibile e cattivo. Gli schemi, pertanto, favoriscono la creazione di cicli interpersonali problematici anche a causa di un’estrema difficoltà sia nella comprensione che nella gestione delle emozioni proprie e altrui (disregolazione emotiva), generando dei veri e propri equivoci comunicativi, i quali sono peraltro tipici e ripetuti per ogni singola persona.

Cosa sostiene la ricerca sulle coppie?

Ricerche recenti indicano che la disregolazione emotiva è associata a tassi più elevati di aggressività psicologica tra i partner, poiché la disregolazione emotiva è caratterizzata dalla difficoltà ad utilizzare strategie che permettano alle persone di rispondere in modo non aggressivo quando sono turbati (Dutton & White, 2012; Shorey, McNulty, Moore & Stuart, 2015). Gli studiosi dell’attaccamento sostengono che primariamente le persone imparino a regolare le emozioni attraverso la relazione con le prime figure di attaccamento e, successivamente, queste esperienze infantili influenzino poi le loro capacità di regolazione emotiva nel contesto delle loro relazioni adulte (Bowlby, 1988). Infatti si è riscontrato che le persone con attaccamento insicuro, le cui esperienze con le figure di attaccamento hanno portato ad una visione di sé come non degna di amore o di una visione degli altri come emotivamente non disponibili – o entrambi – sono più propensi a sperimentare disregolazione emotiva (Karakurt, Keiley & Posuda, 2013).

Uno studio effettuato sulle coppie (Cheche, 2017) ha voluto indagare come l’attaccamento insicuro (ansioso o evitante) sia associato alla disregolazione emotiva negli individui e, sapendo che la disregolazione emotiva aumenta il rischio di aggressione psicologica nei confronti di un partner durante una situazione conflittuale, come la disregolazione emotiva abbia un ruolo mediatore tra attaccamento insicuro e aggressività psicologica nelle coppie. Inoltre i ricercatori hanno indagato la relazione tra i livelli di attaccamento ansioso ed evitante e i livelli di aggressione psicologica dell’individuo stesso e anche i livelli di aggressione psicologica del partner in risposta all’attaccamento del compagno. Lo studio ha esaminato i livelli delle variabili su 110 coppie e ha rilevato che la disregolazione emotiva non spiega il rapporto tra livelli di attaccamento insicuro e aggressione psicologica come già riscontrato da Riebel (2015).

Considerando come la capacità di regolare le emozioni, così come il modo in cui una persona interagisce con il proprio partner, quando si è angosciati sono aspetti importanti e particolarmente influenti della teoria dell’attaccamento dell’adulto (Mikulincer & Shaver, 2012; Babcock, Jacobson, Gottman & Yerington, 2000), gli autori ritengono sorprendente che la disregolazione emotiva non medi almeno parzialmente l’attaccamento e l’aggressione psicologica nella coppia. Essi ipotizzano che l’attaccamento insicuro possa predire altri tipi di comportamento disadattivo nei rapporti come criticare o fare ostruzionismo verso il partner anziché utilizzare l’aggressività psicologica e che questa relazione sia mediata dalla disregolazione emotiva.

I soggetti con attaccamento ansioso potrebbero non mettere in atto comportamenti psicologicamente aggressivi perché tali comportamenti potrebbero creare troppa distanza con il partner mentre la loro modalità di ricercare in modo maladittivo supporto è più vicina a infastidire o a trovare difetti nel partner. Al contrario, i soggetti con attaccamento evitante è più probabile che manchino di consapevolezza della loro disregolazione e che tendano a chiudersi e a isolarsi dal partner quando sono angosciati piuttosto che mettere in atto comportamenti psicologicamente aggressivi. I ricercatori hanno però riscontrato una relazione tra i livelli di attaccamento insicuro e una reazione psicologica aggressiva del loro partner sia negli uomini che nelle donne. Ad esempio, livelli più elevati di attaccamento ansioso di un partner sono associati con l’iperattivazione del sistema di attacco dell’altro partner durante una situazione stressante per l’utilizzo di comportamenti quali avvinghiarsi al partner, controllarlo o insistere rabbiosamente per avere una sua risposta che potrebbero spingerlo a rispondere con un’aggressione psicologica per creare distanza e allontanarlo (Shaver & Mikulincer, 2002, Brennan, Clark & Shaver, 1998). Al contrario, i soggetti con attaccamento evitante sono più propensi a disattivare situazioni di stress emotivo, spegnendo l’emotività ed evitando pertanto il conflitto con il partner. È però emersa una relazione tra entrambi i tipi di attaccamento insicuro (ansioso ed evitante) e la disregolazione emotiva.

Concludendo, sarebbe necessaria un’indagine ulteriore di come queste variabili siano interconnesse tra loro in particolare alla luce della cornice teorica che esiste in letteratura sull’attaccamento e sulla disregolazione emotiva.

È evidente come, anche in questa ricerca, siano presenti cicli interpersonali che tendono a ripetersi e a mantenersi nelle coppie attraverso un’interazione reciproca tra il proprio stile di attaccamento, la propria regolazione emotiva e la conseguente costruzione di schemi interpersonali e il tipo di attaccamento, la competenza emotiva e gli schemi del partner.

Spesso ci diciamo che “incontriamo sempre persone sbagliate” non accorgendoci che alla base ci sono le nostre modalità relazionali che in determinati contesti interpersonali, ci inducono a mettere in atto comportamenti che favoriscono risposte negative da parte dell’altro.

 

Tommaso (2016) e la paura dell’intimità nelle relazioni sentimentali – Recensione del film

Numerosi uomini, come Tommaso, lanciano segnali importanti che vengono abilmente ignorati dalle compagne; queste nutrono fiducia, avviano un rapporto significativo e si trovano in una situazione di “improvvisa” rottura relazionale. Cosa è successo?

 

Tommaso è un attore di circa 40 anni, convive da tempo con una compagna il cui rapporto entra in crisi per la sua “freddezza”. Bello e affascinante, il protagonista, interpretato dal regista Kim Rossi Stuart, non può fare a meno di desiderare qualsiasi donna attraente che gli passi accanto; dalla farmacista, alla giovane intenta a leggere un libro su una panchina, ognuna innesca fantasie erotiche persistenti e invadenti che gli confermano di essere giunto al capolinea della convivenza con Chiara.

Tommaso desidera ardentemente l’anima gemella, ma quando la relazione si stabilizza, inizia a notare i difetti e le imperfezioni; il desiderio si spegne e si riavvia il nastro della crisi esistenziale, delle ossessioni sul sesso. Non percepisce l’entità del problema e si rivolge a chi non potrà aiutarlo, a Mario, un falso psicoterapeuta che si appella al “bambino traumatizzato”, rifila espressioni liriche e consigli strampalati, che il protagonista accoglie meccanicamente nella confusione totale. E qui, a mio avviso, il regista ha voluto sottolineare i potenziali danni degli pseudo-professionisti che oltre a non saper gestire una situazione complessa e delicata, frutto di traumi irrisolti ed esperienze dolorose, indirizzano una persona, in un momento di fragilità, su strade impervie e dannose.

Così, Tommaso, nel mezzo di un periodo doloroso in cui la fine di una relazione significativa si mescola alla crisi personale, fatta di paure, incertezze e sconforto viene spronato da Mario a ricominciare un rapporto. Nulla di più dannoso per una persona che in quel preciso istante avrebbe bisogno di una pausa per lavorare sulla solitudine, sulle emozioni e i pensieri che lo perturbano, su questa convivenza che non ha funzionato e che lo riporta allo stesso punto di partenza, a cercare legami che si rivelano insoddisfacenti, deludenti non solo nell’estetica, ma anche nella dinamica relazionale: tutte che vogliono un progetto di vita insieme, Tommaso no. Da cosa scappa quindi? Scappa perché non scatta davvero nulla con nessuna? Perché non riesce a frenare l’idealizzazione e si imbatte, così, in rapide delusioni? Scappa per prevenire un ipotetico abbandono? Le risposte non si escludono per forza, ma necessitano di un lavoro sul caso specifico, senza appiccicare la teoria sulla persona.

Questa fretta di accantonare una parte preziosa di sé, per precipitarsi nelle braccia della ex, Federica, non lo aiuta a stare meglio, ma lo invita a ripetere la stessa esperienza, ad interrompere un rapporto proprio sul punto di avvicinarsi, di stringere il legame e concretizzare i progetti di vita, i figli, l’avvio di una convivenza. Tommaso oscilla da attribuire la responsabilità alle donne, alla scintilla che non è scattata, a rimuginare sulle ossessioni, sulle paure, fino al giorno in cui incontra Sonia, decisamente più giovane di lui, ironica e sfuggente. Con Sonia non c’è una relazione, ma una non-relazione, un rapporto indefinito: lui tenta di avvicinarsi mentre lei si destreggia tra provocarlo e tirarsi indietro. In questa giostra confusa, però, l’attore cambia registro e aspetto, si veste come un ragazzino, si taglia la barba, sembra finalmente innamorato di una ragazza diversa dalle solite coetanee con tante aspettative: e infatti Sonia non vuole un rapporto stabile, capisce al primo colpo le sue intenzioni e non si fa problemi a rinfacciarglielo quando la situazione diventa ingestibile.

Diversamente da Federica, che in preda alla speranza dimentica di essere stata abbandonata già una volta da Tommaso, Sonia coglie bene la differenza tra chi elargisce solenni promesse e chi le mantiene, tra chi ha accettato i suoi pregi e i difetti e chi è attratto da un’immagine che lei stessa ricalca per stare nel gioco. Pertanto non ha quei vissuti irrisolti che la portano a fidarsi di chi manifesta svariate difficoltà relazionali, di chi finirà per abbandonarla senza sapere perché. Proprio per questa ragione il personaggio di Sonia dovrebbe innescare una riflessione in molte ragazze che si trovano di fronte un Tommaso in piena crisi esistenziale, ma preferiscono continuare a credere in un lieto fine insieme a lui che presto o tardi uscirà dalla loro vita. Non solo Tommaso necessita di una psicoterapia, ma anche le ex che vivono una relazione inizialmente idilliaca e successivamente sempre più difficile da gestire, perché le aspettative e i desideri di ognuno entrano in contraddizione generando uno stallo. Numerosi Tommaso lanciano segnali importanti che vengono abilmente ignorati dalle compagne che nutrono fiducia, avviano un rapporto importante e si trovano in una situazione di “improvvisa” rottura relazionale; può essere un eccessivo coinvolgimento agli inizi, la predisposizione a bruciare le tappe, a fare tutto in fretta (come si intravede nel film con Federica), oppure una giostra di fughe e ritorni, in mezzo alla quale scappa qualche spiegazione, qualche frase, elementi che spesso vengono minimizzati e dimenticati, ma che sovente risultano preziosi.

Uomini come Tommaso, invece, richiedono spesso una psicoterapia in occasione di cambiamenti relazionali importanti. Come succede nel film, la discussione con Sonia invita il protagonista a soffermarsi, finalmente sull’incoerenza tra desideri e fatti: volere una storia seria, ma trovarsi inspiegabilmente solo. Il dialogo con la giovane e l’incidente lo perturbano abbastanza da avviare la consapevolezza di avere un problema, di dover affrontare i suoi traumi con un vero terapeuta: rivolgersi ad un professionista non è un caso, ma accade proprio quando prende contatto con le esperienze di abbandono subite nell’arco delle fasi evolutive, quando sente nel corpo, e non solo con la mente, di necessitare un vero aiuto.

 

Ciclo mestruale e orientamento sessuale – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Buon pomeriggio, volevo chiedere: se diverse donne vivono nella stessa casa i cicli si possono sincronizzare? (Amela)

 

Gentile Amela,

la sincronizzazione del ciclo mestruale è stata introdotta da uno studio di Martha K. McClintock pubblicato su Nature nel 1971, in cui la psicologa, ha studiato la sincronizzazione del ciclo mestruale di 135 ragazze di età compresa tra i 17 ed i 22 anni, conviventi in un dormitorio. Da questo studio è nato anche il nome “McClintock effect” per rifersi a tale fenomeno. Negli anni tale effetto è stato però disconfermato da successivi studi, i quali non hanno più riscontrato un effetto di sincronizzazione mestruale in coppie-gruppi di donne a stretto contatto.

Greta Riboli

 


 

Come capisco il mio orientamento sessuale? (M.)

 

Gentile M,

Secondo quanto riportato dall’American Psychological Association l’orientamento sessuale, contraddistinto da attrazione emotivo, romantica e/o sessuale, emerge tra la mezza infanzia e la prima adolescenza. Alcune persone conoscono il proprio orientamento prima di avere relazioni, mentre altre affrontano diverse esperienze prima di “assegnarsi” un orientamento preciso. Fenomeni di pregiudizio e discriminazione possono rendere difficile la rivendicazione di un’identità non eterosessuale.

Qualora avesse bisogno di maggiore supporto a riguardo le consiglio di contattare un professionista per intraprendere una terapia affermativa (ulteriori approfondimenti QUI).

Greta Riboli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

I confini della propria libertà terminano dove iniziano quelli dell’altro: questa è la bioetica – Recensione del saggio “Bioetica tra ‘morali’ e diritto”

Il saggio Bioetica tra “morali” e diritto di Patrizia Borsellino, nella nuova edizione aggiornata edita Raffaello Cortina Editore, riflette sulla necessità di trovare e dare spazio ad un argomento molto delicato e intricato di nodi, difficili da dipanare, come quello della bioetica.

 

Oggi, come mai prima d’ora, si sta riflettendo sugli impatti degli avanzamenti scientifici e biotecnologici sulla vita dell’essere umano, della società nel suo complesso e dell’ambiente, impatti che costringono a risollevare problemi di natura etica per la cui soluzione è necessario disporre di criteri normativi (regole, principi, valori) sulla base dei quali implementare linee guida di scelta e d’azione approvate e consensuali per sana crescita morale, culturale, civile della società.

Si pensa alla bioetica come a qualcosa di molto distante dalle nostre vite, qualcosa a cui non serve prestare attenzione nella quotidianità, di cui si dibatte solo nelle aule deputate; al contrario, oggi più che mai, in un momento storico in cui migliaia di laboratori in tutto il mondo sono all’affannata ricerca di un vaccino, appare ancor più inevitabile riflettere su alcune questioni etiche.

Da mesi il COVID-19 si è imposto nelle nostre vite e con esso sono state portate alla nostra attenzione alcune sfide alle quali siamo e saremo chiamati a rispondere come i delicati temi etici della sperimentazione clinica, terapeutica e non, di medicinali e vaccini sull’uomo e della tutela della privacy e del trattamento dei dati sensibili, dopo il rilascio in tutto il mondo di applicazioni per il tracciamento degli individui positivi al virus potenzialmente contagianti.

Il saggio di Patrizia Borsellino, docente universitario di Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ci accompagna, suo malgrado, a riflettere riguardo una delle grandi sfide (tra le innumerevoli) a cui il COVID 19  ci ha esposto: ovvero il rapporto tra ricerca, sperimentazione clinica sull’uomo e tutela della sua salute.

La questione della regolamentazione di qualsiasi sperimentazione sull’uomo sia esso un farmaco, un vaccino o una procedura biomedica risale al codice di Norimberga del 1949, all’indomani della sentenza emessa dal tribunale internazionale dopo la scoperta degli atroci delitti emessi dai medici nazisti che avevano eseguito esperimenti criminali su donne, uomini e bambini prigionieri nei campi di sterminio.

Questa sentenza ha scolpito nella pietra i principi di rispetto della vita umana e il diritto per qualsiasi essere umano all’autodeterminazione e a compiere in piena consapevolezza e autonomia scelte ed azioni.

Tralasciando per un momento le particolareggiate descrizioni delle normative attualmente in atto concernenti questo tema, dalla dichiarazione di Helsinki negli anni ’70, fino alla “legge Balduzzi” del Novembre 2012 che ha definito il ruolo e i compiti dei comitati etici, massima espressione del controllo e delle valutazioni dei protocollo medici e di ricerca a tutela del benessere psico-fisico degli individui coinvolti, è opportuno domandarsi se ad esempio una persona, che volontariamente e con intenzione si sottopone ai trial clinici per la ricerca del vaccino anti COVID-19 sia realmente informata sui rischi e pericoli e sia quindi realmente in grado di rilasciare un consenso.

Nel capitolo che riguarda lo spinoso tema della sperimentazione clinica sull’uomo, l’autrice tratta il nodo del consenso informato soffermandosi su due punti, a mio parere significativi: il primo riguarda l’informazione e il secondo i potenziali “vincoli” alla libertà di scelta dell’individuo.

In merito al primo punto, affinché la persona sana possa predisporre di Sé e del suo corpo e compiere così una scelta consapevole, è essenziale che questo venga informato in modo chiaro e comprensibile sulla natura, modalità, procedure e scopi della ricerca, ma soprattutto sull’eventualità che per lui potrebbero non esserci benefici ma rischi e pericoli diretti o indiretti a seguito della sperimentazione.

Il consenso informato in questi casi dovrebbe rappresentare la massima espressione della libertà personale di un individuo e non dovrebbe assumere (come spesso succede) la forma di un mero documento da sottoporre alla firma dell’individuo come semplice obbligo di adempimento burocratico che esonera gli sperimentatori da eventuali responsabilità.

La necessità di informare l’individuo la sua intenzionalità a sottoporsi ad una procedura rischiosa si scontra tuttavia con un altro principio base dell’etica sancito dall’articolo 5 del c.c per il quale è vietato qualsiasi atto di disposizione del proprio corpo che possa cagionare danno all’integrità fisica e mentale della persona.

Seguendo tale principio, si potrà considerare rispettato il diritto al mantenimento della propria integrità fisica qualora il soggetto decida di sottoporsi ad una procedura che potrebbe comportare più rischi per la salute che vantaggi?

Si potrebbe dibattere a questa domanda affermando che si potrà procedere con il consenso e con la procedura fintanto che il soggetto volontario risulti perfettamente informato e in grado di scegliere.

Tuttavia, come può un individuo prendere consapevolmente parte ad una sperimentazione se considerato “vulnerabile” cioè affetto da patologie che ne limitano l’autonomia – anche decisionale – se minore o malato terminale o incapace di intendere e di volere, le cui libertà personali e il diritto di scelta vengono delegati ad un terzo che ha la responsabilità di preoccuparsi del suo benessere e dei suoi interessi?

Inoltre, quando si arruolano soggetti sperimentali, quanto si è sicuri che la loro libertà decisionale non venga influenzata da timori di ritorsioni come nel caso degli studenti di medicina, delle scuole infermieristiche o dei dipendenti delle aziende farmaceutiche, o non vi siano effetti su di esso determinati da interessi economici-politici e di denaro (come le remunerazioni) che potrebbero minare la validità del consenso?

Qual è il compromesso accettabile tra ricerca clinica per lo sviluppo di farmaci, terapie o cure indispensabili al benessere dell’intera comunità, il denaro, la solidarietà sociale e le scelte compiute in piena consapevolezza riguardo il proprio corpo che, come ribadito e sancito più volte, non deve essere oggetto e fonte di guadagno?

Infine, ammesso anche che il consenso venga validamente presentato sia per i soggetti “sani” che per la categoria “vulnerabile”, siamo davvero sicuri che esso sia sufficiente a garantire l’eticità di una sperimentazione e che fornisca sufficiente tutela?

Nonostante tutte le procedure vengano ideate, controllate e redatte con lo scopo primario di causare il minor danno e disagio possibili, tuttavia anche la più scrupolosa e ponderata valutazione può limitare al massimo, ma non escludere del tutto, l’eventualità che un soggetto subisca un danno in conseguenza della sua partecipazione allo studio, né che la comunicazione dell’informazione possa essere  “immune” da interessi politici o economici.

Bioetica tra “morali” e diritto affronta queste delicatissime questioni e altre, relative ai modi della nascita, della morte, senza cadere nel pregiudizio o in discorsi di senso comune.

Offre innanzitutto una panoramica giuridica che consenta al lettore di comprendere tecnicamente come la giurisprudenza sia intervenuta per regolare la scienza e il suo avanzamento tecnologico nel momento in cui si relaziona all’essere umano e all’ambiente, con l’obiettivo ultimo di salvaguardarne e tutelare la vita e i principi di autonomia e autodeterminazione.

Il tutto viene affrontato con una scrittura comprensibile e guardando a ciascuna questione etica con laicità, con distacco, senza la pretesa di imporre un’etica personale, frutto della propria cultura, storia ed educazione, come criterio di comportamento destinato a valere per tutti.

L’ adozione di una prospettiva “laica” nel trattare i diversi argomenti rispetta le caratteristiche sfaccettate e variegate del contesto sociale e culturale in cui siamo immersi e dove non esiste un’unica Morale con un significato univoco e globalmente condiviso.

Essa ne rispetta infatti la diversità e prende a riferimento l’unico principio che dovrebbe costituire il faro per tutte le intricate questioni all’interno della matassa chiamata bioetica: il principio di autonomia.

In un contesto globalizzato e multiculturale come quello attuale, in cui è difficile stabile a priori e universalmente cosa sia eticamente giusto o sbagliato, l’irrinunciabile conquista deve essere il diritto a vivere secondo i proprio scopi, in conformità con le proprie aspettative, convenzioni religiose e culturali con l’unico limite che consiste nel non provocare danno e ledere la libertà altrui nell’ottemperare questo principio.

Lo sapevi che scegliamo il cibo in base alla nostra personalità?

Sembra che la personalità influenzi il modo di alimentarsi e possa, quindi, essere considerata un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche.

 

Un recente studio condotto da Keller e Siegrist (2015) si è proposto di indagare se i tratti di personalità influenzano le scelte alimentari delle persone o l’adozione di un particolare stile alimentare. Nello specifico, viene considerato il modello dei “Big Five” (McCrae & Costa, 1997), il quale caratterizza gli individui in termini di pattern relativamente duraturi e universali di pensieri, sentimenti e azioni (McCrae & Costa, 2008): elevati livelli di nevroticismo comportano un maggior rischio di depressione, ostilità e sentimenti di inutilità; elevati livelli di estroversione si associano all’essere attivo, ottimista e assertivo; elevata apertura all’esperienza comporta maggiore curiosità e capacità di immaginazione; le persone con elevata coscienziosità tendono ad essere più ordinati e autodisciplinati; infine, la gradevolezza è caratterizzata da maggior altruismo e simpatia (McCrae & Costa, 1997, 2008). Per quanto concerne gli stili alimentari, Keller e Siegrist (2015), hanno individuato il “mangiare emotivo”, ovvero il consumo di cibo in risposta a emozioni negative o a stress, il “mangiare esterno”, ossia in risposta a stimoli alimentari esterni, e, infine, l’ “alimentazione moderata”, cioè la restrizione consapevole di cibi energetici (Van Strien & Van de Laar, 2008).

La ricerca considera 951 partecipanti, a cui sono stati somministrati tre differenti questionari. I tratti di personalità sono stati valutati utilizzando il NEO Five – Factor Inventory (Costa e McCrae 1992): ai partecipanti è stato chiesto di indicare quanto bene ognuno dei 60 item li ha descritti, su una scala Likert a 5 punti (da per nulla accurato a molto accurato). Gli stili alimentari, invece, sono stati valutati con l’ Eating Behavior Questionnaire (DEBQ) (Van Strie net al. 1986), composto da 33 items a cui i partecipanti hanno risposto tramite una scala likert a 5 punti (da mai a molto spesso): la scala dell’alimentazione moderata comprende 10 items che misurano il controllo del peso, un tipico item è “quando hai messo su peso, mangi meno di quanto mangi di solito?” oppure “Tieni conto del tuo peso mentre mangi?”; la scala emozionale della DEBQ è composta da 13 items che indagano il mangiare in risposta a stati emotivi negativi, ad esempio “Quando sei irritato ti viene voglia di mangiare?”; la scala esterna, invece, si compone di 10 items che misurano il consumo di cibo in risposta a stimoli esterni, indipendentemente dallo stato di fame o sazietà, ad esempio “Se il cibo è buono, mangi più del solito?” oppure “Se vedi che altri mangiano, viene anche a te la voglia di mangiare?”. Infine, è stato utilizzato il Food Frequency questionnaire (FFQ) per indagare con quanta frequenza vengono consumati cibi dolci, salati, verdure, insalata, frutta, carne e bevande zuccherate.

Rispetto agli uomini, le donne del campione avevano un maggiore livello di nevroticismo, di apertura all’esperienza e di gradevolezza; inoltre, risultano più contenute nel mangiare, consumano più frutta, verdura e insalata, meno carne e meno bevande zuccherate. E’ inoltre emerso che i fattori di personalità correlano con gli stili e le scelte alimentari delle persone. Nello specifico, le persone estroverse, con una fitta rete sociale (Friedman et al. 2010), avendo più spesso occasione di uscire fuori a pranzo o a cena, sono più esposti al cibo buono ed esteticamente invitante, ovvero la cosiddetta “alimentazione esterna”. I soggetti con elevato nevroticismo tendono ad avere uno stile alimentare più improntato all’emotività e all’esterno, oltre che ad essere poco moderato e a scegliere in misura pressoché simile cibi dolci e salati. Al contrario, individui coscienziosi tendono ad avere uno stile alimentare poco emotivo ed esterno e più propenso alla dieta, prediligendo il consumo di verdure e insalate. Coloro che sono più aperti alle nuove esperienze privilegiano frutta e verdura, a scapito di carne e bevande zuccherate, esattamente come i soggetti con il tratto di personalità “gradevolezza”. I risultati rivelano anche che l’alimentazione esterna, a sua volta, si associa negativamente al consumo di frutta, che invece è associata positivamente con l’alimentazione moderata. Lo stile alimentare moderato si associa in modo positivo al consumo di verdura e insalata. L’apertura all’esperienza non ha mostrato di avere effetti significativi sul dolce e sul salato, a differenza della sovralimentazione, dell’alimentazione esterna ed emotiva che hanno una correlazione positiva. Inoltre, avere un’alimentazione moderata correla negativamente con il consumo di cibi dolci e salati. L’estroversione sembra essere l’unico tratto fra quelli analizzati ad avere un effetto positivo sul consumo di carne e sul consumo di bevande zuccherate, così come soltanto l’alimentazione esterna si associa positivamente al consumo di carne e di bevande zuccherate, mentre tutti gli altri stili e tratti correlano negativamente.

Questi risultati hanno chiaramente dimostrato che le caratteristiche di personalità giocano un ruolo alquanto importante nella scelta del cibo, così come nello stile alimentare in sé. E’ chiaro che individui nevrotici e emotivamente instabili adottino un’alimentazione emotiva poco salutare, utilizzando il cibo proprio come strumento per far fronte alle emozioni negative (Groesz et al., 2012). Al contrario, soggetti con alti livelli di coscienziosità sembrano adottare un’alimentazione più equilibrata, escludendo cibi poco sani, probabilmente grazie alla propria capacità di evitare o di gestire i fattori stressanti (Shanahan et al., 2014). L’apertura nei confronti delle esperienze gioca un ruolo importante nell’adesione dei singoli ad una dieta sana ed equilibrata (Tiainen et al., 2013): probabilmente questi soggetti sono sempre stati più predisposti ad assaggiare un’ampia gamma di alimenti, incluso cibi più amari, ma certamente più sani come frutta e verdura (Birch, 1999). Infine, la gradevolezza correla negativamente, mentre l’estroversione positivamente con il consumo di carne. Nel primo caso, probabilmente il tratto viene proiettato ed esteso, non soltanto alle persone, ma anche agli animali, tant’è che le motivazioni alla base, spesso, sono etiche, incentrate sulla simpatia e l’altruismo (Forestell et al., 2012). Nel secondo caso, l’estroversione è stata associata con l’alimentazione esterna, a sua volta associata con un maggior consumo di carne, probabilmente sia per il costo relativamente inferiore, che per la maggiore praticità nel cucinarla rispetto, ad esempio, alla verdura. Interessante è sottolineare il paradosso tra l’estroversione, come tratto benefico e protettivo per la salute mentale, e l’estroversione come fonte di rischio per un’alimentazione poco corretta, in quanto espone i soggetti al consumo di cibi che fanno poco bene se consumati frequentemente. Così, la personalità di una persona può essere un fattore di rischio per una dieta sbilanciata, portando a sua volta ad un aumento della probabilità di sviluppare malattie croniche come quelle cardiovascolari, cancro o diabete. Infine, di grande interesse sarebbe esplorare eventuali correlazioni tra la personalità e la scelta di intraprendere un’alimentazione vegetariana o vegana.

 

Dialoghi con Sandra – Ora disponibili in versione podcast

Si è recentemente concluso il ciclo di incontri online “Dialoghi con Sandra”: ogni settimana, per otto settimane, la Dott.ssa Sandra Sassaroli, accompagnata dai clinici del suo gruppo, ha presentato un particolare argomento di interesse psicologico su cui discutere e riflettere.

E così, con un ospite diverso ad ogni incontro, si è parlato di motivazione, rabbia, disturbi alimentari e molto altro, non fermandosi alla clinica ma aprendosi anche a importanti riflessioni sulla nostra esistenza e sul vivere quotidiano.

Dato il successo dell’iniziativa, su State of Mind abbiamo pubblicato i video degli eventi. Ma non è tutto.. per chiunque si fosse perso gli incontri o per chi ha semplicemente voglia di riascoltarli, i “Dialoghi con Sandra” sono ora disponibili in versione podcast.

I podcast sono distribuiti su:

Buon ascolto!

 

Un mondo di bugiardi!

Quando mentiamo mettiamo il nostro cervello nelle condizioni di dover confezionare in un attimo una risposta che contenga una “verità alternativa”, che risulti credibile.

 

“Ad oggi nel mondo si contano circa 7.5 miliardi di bugiardi”, ossia l’intera popolazione mondiale. Inizia con questa sconcertante affermazione il libro di Francesco Albanese, psicologo e psicoterapeuta, che ha affrontato lo spinoso teme della menzogna mettendoci davanti una verità piuttosto scomoda: siamo tutti bugiardi.

Un esempio? Usciamo di casa incontriamo un conoscente che ci chiede “Come va?”, rispondiamo “Bene!” e invece no, abbiamo appena litigato con il nostro miglior amico, siamo arrabbiati e amareggiati ma non abbiamo voglia di parlarne. Ecco che abbiamo mentito.

Perché mentiamo?

Mentiamo per diversi motivi e con diverse intenzioni. Per non ferire gli altri, ad esempio. Ad un’amica che ci fa vedere il suo nuovo abito non potremmo che dire “Bello!” anche se lo troviamo orribile. Mentiamo per avere un vantaggio, per evitare una punizione o un giudizio negativo, per ottenere qualcosa, per sottrarci ad un compito sgradito. Mentiamo per recare danno consapevolmente e deliberatamente ad altre persone. Le bugie usate con questo scopo possono avere l’effetto di lame sottili che scagliamo verso il prossimo.

In ogni caso, più o meno nobili siano le nostre motivazioni, mentiamo tutti. Tutti i giorni, più volte al giorno e indistintamente con tutte le persone che ci stanno intorno. Conoscenti, amici, colleghi, familiari.

Appurato che siamo tutti bugiardi, e in fondo possiamo anche passarci sopra, proviamo a vedere queste considerazioni da un’altra prospettiva: come noi mentiamo agli altri allo stesso modo gli altri mentono a noi. In modo diverso e con fini diversi ma ci confezionano bugie su bugie che spesso non riusciamo a cogliere. Ci mentono colleghi e amici, ci mentono genitori, figli, mariti e mogli!

Da questo punto di vista il tutto assume una luce molto più sinistra. Come difenderci da questi bugiardi? Come smascherarli?

Il Dottor Albanese ci quantifica le nostre possibilità di riuscita: diciamo subito che è bene non farsi troppe illusioni, ma che possiamo lavorare su un miglioramento. Senza nessuna preparazione le possibilità di riuscita si aggirerebbero intorno al 50%, ossia saremmo in grado di riconoscere come tali la metà delle bugie che ci vengono raccontate. Seguendo qualche indicazione, come spiegheremo più avanti, e facendo un po’ di pratica potremmo raggiungere un discreto 70%. Solo se a questo possiamo aggiungere l’aiuto di un grande intuito arriveremo a toccare un notevole 90%, che non ci mette comunque completamente al riparo da ogni bugiardo ma aumenta notevolmente le nostre possibilità di non cadere nelle trappole che ci vengono tese.

Tanto per cominciare, il dottor Albanese ci spiega che mentire implica per il nostro cervello uno sforzo superiore che non dire la verità. Quando mentiamo mettiamo il nostro cervello nelle condizioni di dover confezionare in un attimo una risposta che contenga una “verità alternativa”, che risulti credibile. Probabile quindi che impieghi qualche frazione di secondo in più rispetto a quando stiamo invece dicendo la verità, ma se siamo abituati a mentire, anche il nostro cervello sarà più rapido nel confezionare una bugia e noi avremo imparato a gestire quei sentimenti di paura e senso di colpa che accompagnano i bugiardi occasionali.

Attenzione al corpo

Quello che maggiormente tradisce i bugiardi è il corpo. A questo riguardo sono state compiute ricerche che hanno dato risultati molto significativi.

Di notevole importanza il contributo dato da Paul Ekman, psicologo statunitense, che attraverso le sue ricerche scientifiche ha studiato come riconoscere le emozioni attraverso il comportamento non verbale, in particolare basandosi sulle espressioni del volto.

Nel suo libro I volti della menzogna, Ekman spiega come nel rapporto tra chi mente con la sua ipotetica “vittima” entrino in gioco elementi di tipo emotivo, comportamentale, legati al contesto, al carattere e alla disposizione tra il mentitore e chi vorrebbe essere in grado di valutare la sincerità o meno di chi gli sta di fronte.

Alcuni esempi pratici

Ed ora veniamo alla pratica. Come dicevamo, esistono dei metodi non infallibili ma in grado di darci qualche possibilità di riuscita in più. Innanzitutto partiamo dal presupposto che se possiamo mentire con le parole, molto più difficilmente riusciremo a farlo con il corpo. Posizione del corpo, tono della voce, pausa e vicinanza di chi parla con noi, espressioni del viso, scelte linguistiche sono tutti indicatori che difficilmente possono essere manipolati.

Facciamo qualche esempio partendo dai gesti. Prendiamo in considerazione gesti illustratori e indicatori.

I gesti illustratori sono quei gesti che accompagnano e rafforzano il contenuto di quello che stiamo dicendo. Coinvolgono tutto il corpo, in particolare le mani, gli occhi, le sopracciglia. Chi mente (soprattutto se lo fa preso alla sprovvista e non in modo premeditato) concentra le sue energie cognitive e mentali nel confezionare la bugia, tende quindi a muoversi poco perché il suo sforzo possa concentrarsi altrove.

I gesti indicatori sono quei movimenti di viso e corpo associati alle 7 emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disprezzo, disgusto), sono indicatori molto utili in quanto difficilmente manipolabili e quindi in grado di contraddire quanto invece si sta affermando a parole.

Veniamo ora alle espressioni facciali.

Riconosciamo ad esempio quando la felicità è sincera non dalla zona della bocca ma dagli occhi, questo perché il muscolo orbicolare dell’occhio si attiva involontariamente e non ci consente di modificarne la sua reazione per adattarla alle nostre eventuali intenzioni menzogniere.

La sorpresa è l’emozione che sparisce più rapidamente dal nostro volto, se dura più di un secondo non è autentica.

Interessante, e sorprendente, quello che possono rivelarci gli occhi: se chi sta parlando rivolge lo sguardo in alto a destra (alla sua destra), sta accedendo all’emisfero destro del suo cervello, quello della creatività, e sta probabilmente cercando non un’informazione che possiede ma qualcosa da creare con la fantasia (una menzogna?). Al contrario, se lo sguardo si rivolge in alto a sinistra, si attinge alla sfera dei ricordi, quindi a qualcosa di reale.

Allo stesso modo, la posizione delle gambe, dei piedi, delle mani, possono darci indicazioni preziose e, come ci suggerisce maliziosamente il dottor Albanese, padroneggiare queste conoscenze può anche fare di noi dei perfetti bugiardi!

Terapie affermative per pazienti LGBT-Q+

Far parte di una minoranza sessuale crea spesso un senso di appartenenza ad una comunità in cui vengano condivisi vissuti simili. La LGBT-Q+ include molte esperienze di diverso tipo, tutte accomunate da vissuti di minoranza.

 

L’orientamento sessuale è costituito da attrazioni emotive, romantiche e/o sessuali nei confronti di uomini, donne, entrambi e/o altri generi. Inoltre, una componente importante dell’orientamento sessuale è data anche dal senso di identità fondato sulle sopra citate attrazioni, sui comportamenti ad esse corrispondenti e sull’appartenenza ad una comunità di persone che condividono attrazioni simili. Spesso l’esser parte di una minoranza sessuale crea un senso di appartenenza ad una comunità, a prescindere dallo specifico orientamento sessuale, tant’è che la sigla LGBT-Q+ include molte esperienze di diverso tipo, ma appartenenti a vissuti di minoranza.

Alcune esperienze vissute dalle persone LGBT-Q+ si riferiscono a componenti legate al genere e non necessariamente all’orientamento, i quali sono due costrutti differenti. Il primo (identità di genere) si riferisce al senso psicologico dell’essere maschio, femmina, entrambi o nessuno. A differenza dell’identità di genere, del sesso biologico e del ruolo di genere, l’orientamento sessuale è un vissuto personale, che comporta anche un’espressione dello stesso attraverso comportamenti relazionali, che possono rispondere a profondi bisogni di attaccamento e intimità (American Psychological Association, 2008).

Le persone LGBT-Q+ possono vivere momenti complessi dettati dall’appartenenza ad una minoranza sessuale. Le esperienze di discriminazione, stigma, basso supporto sociale familiare o di amici e una possibile omofobia interiorizzata possono portare a disagio psicologico marcato. Inoltre, l’ansia è un’emozione spesso condivisa da pazienti LGBT-Q+ i quali, affrontano la difficoltà del coming out e delle conseguenze dello stesso, di eventuali outing, di trovare amici-partner se si abita in zone a bassa densità di popolazione (piccoli paesi/province) e la possibile scelta di intraprendere percorsi di transizione in caso di esperienze legate ad identità di genere transessuali.

Nonostante l’omosessualità già dal 1974 è stata eliminata dal manuale diagnostico dei disturbi mentali, dagli anni Ottanta sono entrate in vigore le terapie riparative allo scopo di guarire le persone dall’omosessualità e negli anni a seguire da altre condizioni, legate all’identità sessuale, considerate, da parte di alcuni teologi, psichiatri e psicologi, patologiche. Moltissimi studi sono stati condotti a riguardo e hanno riscontrato la nocività di tali trattamenti, i quali possono provocare sintomatologia ansiosa e depressiva. Per questo motivo, da diversi anni le terapie riparative sono state bannate, per lasciare spazio a terapie in grado di supportare e trattare pazienti LGBT-Q+ in base alle problematiche da essi riportati. In particolare, la terapia affermativa è un tipo di psicoterapia il cui scopo è quello di convalidare e sostenere le esigenze di clienti che appartengono a minoranze sessuali. Evidenze scientifiche riportano gli effetti benefici di tali terapie sull’autorealizzazione dei propri pazienti, i quali nel corso di queste terapie vivono un ambiente di accoglienza, accettazione e assenza di eterosessismo, come presupposti terapeutici. La maggior parte delle persone appartenenti a minoranze sessuali vivono quotidianamente esperienze di eterosessismo e molti di essi hanno vissuto tali esperienze a contatto con operatori sanitari, tra cui psicologi e psicoterapeuti. L’eterosessismo può esser definito come un insieme di atteggiamenti a favore di una sessualità eterosessuale, escludendo possibili altre forme di sessualità e, nelle declinazioni più estreme, considerando le esperienze eterosessuali come unica e superiore opzione. Atteggiamenti di chiusura da parte di un terapista possono minacciare l’alleanza terapeutica e impedire di lavorare adeguatamente con il proprio paziente o portarlo ad un rapido drop-out.

 

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