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Quando la paura può diventare una cattiva consigliera – Intervista al Prof. Paolo Legrenzi

Per meglio comprendere la paura, secondo il Prof. Legrenzi, è fondamentale tenere conto di come funziona la nostra mente: non sempre la paura si innesca di fronte a un pericolo reale o in proporzione all’entità o all’intensità del pericolo.

 

In questi mesi ho avuto il piacere di svolgere delle interviste a grandi personalità nell’ambito della psicologia, approfondendo con ognuno di loro tematiche specifiche all’interno di una macroarea, ossia Emozioni e Ragione.

Nel presente articolo sono state elaborate le riflessioni emerse dall’intervista al grande psicologo e accademico di fama internazionale nel campo della psicologia cognitiva, Paolo Legrenzi, sul tema della paura.

Autore di numerose pubblicazioni tra le quali Come funziona la mente, Psicologia generale, Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze, Perché gestiamo male i nostri risparmi, Perché abbiamo bisogno dell’anima, tra i suoi ultimi libri troviamo A tu per tu con le nostre paure e Paura, panico, contagio. Il Prof. Legrenzi ci spiega come la paura, seppur emozione importante per l’essere umano, talvolta può divenire disfunzionale e ‘cattiva consigliera’.

Le nostre paure sono molto più numerose dei pericoli che corriamo.
Soffriamo molto di più per la nostra immaginazione che per la realtà.
(Lucio Anneo Seneca)

Il Prof. Paolo Legrenzi (Fig. 1) apre l’intervista spiegando come le emozioni svolgano un ruolo essenziale per l’essere umano, guidando i suoi comportamenti, le sue scelte, le azioni e i processi di adattamento all’ambiente esterno più in generale.

Paura quando e disfunzionale e come gestirla Intervista al Prof Legrenzi Fig 1

Fig. 1: Il Prof. Paolo Legrenzi

Riprendendo le sue parole dobbiamo “pensare alla persona umana come ad un’automobile ed alle emozioni come al carburante; emozioni connotate positivamente, come ad esempio il piacere, danno una spinta, sono più motivanti, al contrario emozioni connotate negativamente, come ad esempio la paura, il dolore, sono come dei freni, ci bloccano e/o orientano verso altre direzioni” al fine di preservarci da un pericolo o una minaccia.

Ma entrando nel vivo della paura, continua a spiegare il Prof. Paolo Legrenzi, va tenuto conto di come funziona la nostra mente, e non sempre la paura si innesca di fronte un pericolo reale o in proporzione all’entità o intensità del pericolo. La paura infatti, continua a spiegarci il Prof. Legrenzi, è determinata più dalla percezione soggettiva del pericolo che dalla reale entità del pericolo stesso. Entrano in gioco in tal senso variabili come la lontananza, la novità e l’alterità dell’evento, che contribuiscono ed incidono a farcelo percepire come più o meno pericoloso. Il Prof. Legrenzi, in tal senso, ci porta a riflette su come ad esempio temiamo un attentato terroristico, un crollo della borsa, un disastro aereo più di quanto temiamo ad esempio morti per incidenti stradali, perché più frequenti e più abitudinari, oppure non temiamo il riscaldamento globale in quanto evento a lungo termine e meno temuto di quanto invece si dovrebbe.

In altri casi invece la paura si rivela funzionale in quanto ci induce ad attingere alle nostre risorse per affrontare un problema o un pericolo, che va adeguatamente conosciuto, valutato, affrontato e non evitato per come saremmo più propensi a fare.

Ma parlando di paura, continua il Prof. Legrenzi, diventa importante riconoscere e distinguere le nostre dalle paure collettive, poiché, sottolinea, anche quelle sono virali e contagiose, e si diffondono molto di più e più rapidamente di quanto lo facciano i virus da un punto di visto biologico.

In merito a ciò, il Prof. Legrenzi fa riferimento a quanto abbiamo vissuto e continuiamo a vivere in rapporto alla pandemia causata dalla diffusione del Covid-19 ed in tal senso per approfondimenti si rimanda alla recensione del suo ultimo libro Paura, panico, contagio che ne offre un’attenta analisi.

Infine, ho chiesto 3 consigli su come poter sfruttare a nostro vantaggio la paura e non rimanere incastrati in trappole che spesso poi generano patologia.

Il Prof. Legrenzi ci suggerisce che la prima operazione da fare è chiedersi se la nostra paura è proporzionata al pericolo e per fare ciò dobbiamo conoscere l’entità del pericolo.

Secondo punto essenziale, secondo il prof. Legrenzi, è il principio del controllo, ossia valutare cosa sia veramente sotto il nostro controllo e cosa non lo sia per non disperdere energie psicofisiche. Infine armarci di coraggio e saggezza per accettare ciò che non dipende da noi.

A conclusione della presente, ritengo calzante riportare un pensiero di San Francesco d’Assisi che recitava:

Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio per cambiare quelle che posso,
e la saggezza per riconoscerne la differenza.

 

La fatica di essere pigri (2020) di Gianfranco Marrone – Recensione del libro

La fatica di essere pigri è un libro fondato sul paradosso secondo il quale per essere pigri sia necessario adoperarsi al massimo e compiere uno sforzo intellettuale e fisico.

 

Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, autore del libro La fatica di essere pigri, ci regala un testo sulla pigrizia, un atteggiamento duramente criticato dalla società occidentale. L’uscita del libro durante la fase di ripresa dopo il lockdown a causa della pandemia da Covid-19 sembra paradossalmente calzante, poiché, chiusi nelle nostre case, abbiamo sperimentato un periodo di ‘ozio forzato’ che ci ha messo di fronte alla difficoltà del rimanere fermi.

L’arte del dolce far nulla è il nucleo centrale del libro, una libertà che nella società viene attribuita a chi resiste ai doveri sociali e si ribella ai ritmi frenetici della vita moderna, rinunciando così all’operosità e alla produttività richiesta in favore dell’aspirazione al riposo. Ma questa brama, questo diritto di libertà del poter non far nulla coinvolge in realtà uno sforzo superiore a quanto si possa credere. Essere pigri è da pochi, esige un lungo lavoro di apprendimento, poiché il pigro, ovvero colui che sembra non fare nulla, in realtà non fa quello che gli altri si aspettano da lui e si adopera ardentemente per fabbricare le condizioni che gli permettano di difendere questa inerzia.

Ma cos’è la pigrizia? Che sia essa una forma d’ozio?

La pigrizia ha una lunga storia che si è in effetti incrociata a quella dell’ozio. In realtà, spiega Marrone citando Bertrand Russell, ‘l’ozio è essenziale per la civiltà‘ e non è un vizio, così come invece è vista la pigrizia. L’ozio è un atteggiamento di cultura del sapiente, che predilige la cura dello spirito non comportando necessariamente inoperosità. In epoca moderna, al contrario, l’ozio è stato considerato un malcostume e assimilato alla pigrizia.

La storia antropologica e filosofica della pigrizia viene disegnata attraverso le riflessioni di numerosi filosofi e mostrando le differenze di concezione del termine tra la cultura occidentale e asiatica. Nel Buddismo Zen giapponese, per esempio, questa ‘oziosità’ viene interpretata come una forma di devozione verso il mondo, un’attività permeata dell’arte e della bellezza e, citando lo scrittore cinese Lin Yutang, ‘la cultura sarebbe proprio un prodotto dell’ozio‘.

L’autore opera una ricostruzione dell’area semantica del termine pigrizia utilizzando detti e proverbi, arrivando ad approfondire i racconti e le fiabe russe. In queste entrano in gioco personaggi come Oblòmov di Ivan Gončarov, considerato ‘il celebre pigro letterario’, un protagonista inoperoso e inattivo che oziando sembra in realtà celare un comportamento di sovversione contro la società capitalista russa dell’Ottocento.

L’analisi narrativa non si ferma alla fiaba russa, ma approfondisce personaggi della cultura popolare come Snoopy e Paperino. Quest’ultimo, che aspira a riposare tutto il giorno sulla sua amaca, è invece costretto a lavorare costantemente di modo da conquistare il suo amato momento di relax. Ed ecco la morale ritornare. Ecco nuovamente il paradosso. Il riposo è l’oggetto desiderato dal simpatico papero, un’utopia, perché per ottenerlo è costretto a faticare.

Per essere pigri bisogna lavorare moltissimo, scontrarsi con un mondo che cambia e che pretende sempre di più un attivismo ipocritamente euforico. La pigrizia non è un dono, né un tratto caratteriale: è semmai un oggetto da conquistare dopo infinite lotte.

Così il lettore viene infine messo di fronte alla questione:

Cos’è la pigrizia oggi? Come può trovare spazio questo termine nella società odierna? Siamo davvero capaci di non fare nulla, poltrire e piegarci a queste forme di inoperosità estremamente antisociali e impossibili?

Secondo Roland Barthes, la pigrizia consiste nello spezzare il tempo il più spesso possibile, nel diversificarlo, ricercando tale vizio in piccole azioni e diversivi che possano sconvolgere il ritmo dell’esistenza frantumando la routine. Così, oggi, possiamo praticare la pigrizia e riprenderci questa libertà a piccole dosi, anche solo a cominciare dalla semplice azione di prepararci un caffè.

Disturbi del sonno in età infantile predicono la presenza di disturbi mentali in adolescenza?

Secondo uno studio condotto da un team della School of Psychology dell’Università di Birmingham, specifici problemi del sonno tra neonati e bambini molto piccoli possono essere collegati a disturbi mentali negli adolescenti (Lereya et al., 2017). 

 

Lo studio longitudinale, con sede nel Regno Unito, è stato condotto su 14.000 donne incinte e i risultati mostrano che i bambini piccoli che si svegliavano regolarmente durante la notte e sperimentavano routine del sonno irregolari tendevano a sviluppare sintomi psicotici in adolescenza. Emerge inoltre che i bambini che dormono poco di notte e che vanno a letto tardi, hanno maggiori probabilità di sviluppare un disturbo borderline di personalità (BPD) durante la loro adolescenza.

Precedenti ricerche hanno dimostrato che gli incubi persistenti nei bambini correlano con lo sviluppo di psicosi e del disturbo borderline di personalità (Lereya et al., 2017).

I ricercatori hanno esaminato i dati provenienti da 7000 partecipanti che riportavano sintomi psicotici e oltre 6.000 individui che mostravano i sintomi del disturbo borderline di personalità. I dati analizzati provengono dallo studio Children of the 90s (noto anche come coorte di nascita Avon Longitudinal Study of Parents and Children – ALSPAC) che è stato istituito dall’Università di Bristol.

Il comportamento del sonno dei partecipanti è stato monitorato dai genitori quando i bambini avevano 6, 18 e 30 mesi e valutato di nuovo a 3, 4, 5 e 8 anni (Lereya et al., 2017).

I risultati, pubblicati su JAMA Psychiatry, mostrano associazioni significative con esperienze psicotiche in adolescenza, tra i bambini di 18 mesi che tendevano a svegliarsi più frequentemente di notte e che avevano una routine del sonno anormale già a partire dai 6 mesi di età (Lereya et al., 2017).

Ciò supporta l’evidenza esistente che l’insonnia contribuisce alla psicosi, ma suggerisce che queste difficoltà potrebbero essere già presenti anni prima che si verifichino esperienze psicotiche.

Il team ha anche scoperto che i bambini che dormivano meno durante la notte e andavano a letto più tardi all’età di tre anni e mezzo tendevano poi a sviluppare il disturbo borderline di personalità.

Infine, i ricercatori hanno scoperto che la depressione ha mediato i legami tra problemi del sonno infantili e l’insorgenza di psicosi negli adolescenti, ma questa mediazione non è stata osservata nel disturbo di personalità borderline, suggerendo l’esistenza di un’associazione diretta tra problemi del sonno e sintomi del BPD (Lereya et al., 2017).

Il professor Steven Marwaha, autore senior dello studio, suggerisce che è fondamentale identificare i fattori di rischio che potrebbero aumentare la vulnerabilità degli adolescenti allo sviluppo di questi disturbi, identificare quelli ad alto rischio e fornire conseguentemente interventi efficaci.

Secondo gli autori dell’articolo, il sonno potrebbe essere uno dei più importanti fattori sottostanti a certi disturbi mentali; se così fosse, agire prontamente quando iniziano a presentarsi problemi del sonno in infanzia, potrebbe fungere come prevenzione del disturbo mentale in adolescenza (Lereya et al., 2017).

Storia Critica della Psicoterapia (2020) di R. Foschi e M. Innamorati – Recensione

Foschi e Innamorati costruiscono una storia della psicoterapia che è al contempo sia racconto in senso stretto che storia delle idee, indagando gli avvenimenti che ne hanno costellato l’evoluzione e il rapporto con i suoi presupposti filosofici

 

Si legge scorrevolmente la Storia Critica della Psicoterapia di Renato Foschi e Marco Innamorati. Esauriente, istruttivo e appassionante e racconta la storia della psicoterapia per quella che è: il romanzo di formazione dell’immaginario culturale del XX secolo, l’avventura spirituale dell’età contemporanea, la quest di una moderna compagnia dell’anello, una quest ora di ambiente steam punk con Freud, ora fantasy con Jung e ora science fiction con la mindfulness. Solo la terapia cognitivo comportamentale, quotidiana e borghese come una villetta con giardino di un sobborgo americano, si presta meno bene a questa avventurosa metafora.

Foschi e Innamorati costruiscono una storia della psicoterapia che è al contempo sia racconto in senso stretto che storia delle idee, indagando gli avvenimenti che ne hanno costellato l’evoluzione e il rapporto con i suoi presupposti filosofici, dando spazio al pensiero di Freud e alle sue evoluzioni, le contestazioni di Adler e Jung, le trasgressioni di Ferenczi, Rank e Reich, la nascita dell’analisi infantile, lo sviluppo dei diversi modelli psicodinamici alternativi (le relazioni oggettuali, la psicologia del sé, il modello culturale di Horney e Fromm, la Psicologia dell’Io, l’Intersoggettivismo, l’Ermeneutica, il Lacanismo, l’Analisi Relazionale). Sono presenti poi i modelli non psicodinamici, dal Cognitivismo alla Terapia Familiare alla Bioenergetica, fino all’Analisi Transazionale e alla Terapia della Gestalt. In parallelo, presenta anche l’origine autonoma del Comportamentismo e il suo successivo incontro col Cognitivismo, descrivendo le diverse evoluzioni che da questo incontro si sono generate. Ancora, il libro dà conto anche della genesi della Psicologia Umanistica e dei suoi sviluppi e anche del modello Strategico e Sistemico.

È però vero che un libro che si chiama Storia Critica della Psicoterapia senza aggettivi soffre del fatto che la parte del leone di questa storia vada ai modelli psicodinamici che da soli occupano i tre quarti del libro mentre gli altri modelli si devono accontentare delle briciole di poche decine di pagine sparse qua e là, per quanto benissimo scritte. Speriamo che la prossima edizione sia più equilibrata a favore dei modelli cognitivisti e comportamentisti, sistemici, umanistici ed esperienziali. E non perché manchino porzioni dedicate a questi modelli e non siano ben scritti. Il problema è che però i modelli non psicodinamici sono serviti con porzioni da sushi mentre i capitoli dedicati alla psicoanalisi sono pantagruelici arrosti di cinghiale.

Questo difetto del libro si lascia però perdonare dalla competenza che i due autori mostrano quando trattano gli altri modelli. Ad esempio, dal punto di vista cognitivo comportamentale, per quanto nel libro ci siano troppo poche le pagine (solo una trentina) dedicate a questo modello, non si può che rimanere ammirati da quanto dense esse siano, soprattutto quando trattano gli inizi comportamentisti, davvero erudite e istruttive. Altrettanto stupefacente è la conoscenza storica dei modelli pre-freudiani francesi, a cominciare da quello di Pierre Janet.

Vi è però un secondo difetto nella trattazione dei modelli cognitivi e comportamentali: vi sono alcune imprecisioni concettuali che riguardano la narrazione degli sviluppi storici da Beck in poi di questo modello. Questo difetto probabilmente non è imputabile ai due autori, ma più alla difettosa conoscenza storica che il modello cognitivo e comportamentale ha di se stesso.

Conoscenza difettosa che ha inquinato le fonti storiche a cui hanno attinto Foschi e Innamorati e che ha le sue ragioni. La prima è la scarsa propensione dei cognitivisti e comportamentisti per l’approfondimento storico. Mentre la psicoanalisi ha tratto beneficio dalle sue parentele umanistiche per sviluppare un acuto senso storico, reso necessario anche per comprendere i suoi numerosi scismi, l’impostazione più empirista e lo sviluppo apparentemente più lineare delle terapie cognitive e comportamentali hanno limitato la riflessione storica in questo campo. La conseguenza è l’eccesiva diffusione di narrazioni semplicistiche.

Tra le tante, ne predominano due. La prima – diffusa nei paesi anglo-sassoni – è quella che racconta l’armonica nascita del cognitivismo dal grembo del comportamentismo seguita dalla felice fioritura della cosiddetta terza onda processuale e funzionalista. Tre generazioni senza conflitti. Purtroppo si comincia a capire che non è andata così. Va detto che a questa vulgata troppo lineare Foschi e Innamorati riescono a sfuggire: essi sono consci ad esempio delle influenze psicodinamiche di Beck che col comportamentismo mai ebbe a che fare. Questa è una prova di quanto i due autori siano ottimi storici della psicoterapia.

La seconda vulgata –diffusa in Italia ma presente anche altrove- contrappone un modello cognitivo anglo-sassone che sarebbe semplicistico, ingenuamente scientista, ma al fondo rozzo e probabilmente nemmeno così efficace come esso pretenderebbe di essere, a un modello cognitivo alternativo più complesso e clinicamente realistico, ingiustamente trascurato perché meno evidence based ma provvisto di raffinate radici costruttiviste, culturalmente europeo e aperto alla felice integrazione con le forme più sofisticate di psicoterapia psicodinamica, soprattutto di impostazione relazionale. Questo vangelo alternativo si conclude insinuando che la cosiddetta “terza onda” cognitivista è in realtà la resa del rozzo modello anglo-sassone alle ragioni della complessità, inevitabilmente destinate a forgiarsi nella fucina di Mime dell’integrazione tra i modelli grazie a un impavido Sigfrido di là da venire.

A onore del forte intuito storico di Foschi e Innamorati, essi non solo riescono a sfuggire felicemente alla prima vulgata ma nutrono dei sospetti anche verso la seconda, per quanto in parte li irretisca. Dove invece non centrano del tutto il bersaglio è nella descrizione della terza onda, da loro compresa più nel suo versante integrazionista, che pure esiste. La verità è che la terza onda non cerca l’integrazione; al contrario essa è frutto del recupero concettuale del rigore funzionalista di matrice comportamentale. Questo verdiano “Torniamo all’antico e sarà un progresso” del funzionalismo cognitivo di terza onda sembra meno chiaro a Foschi e Innamorati. Sarà per la prossima edizione. Intanto, seguendo il consiglio di Verdi, torniamo ad ascoltare Palestrina.

 

K-SADS-PL DSM-5: l’intervista diagnostica per la valutazione dei disturbi psicopatologici in bambini e adolescenti

La K-SADS-PL DSM-5 è un ottimo strumento per l’identificazione della diagnosi primaria e per l’identificazione della diagnosi in comorbilità e utile per la comprensione e l’evoluzione del disturbo psicopatologico riscontrato in età precoce.

Arianna Ferretti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

La K-SADS-PL DSM-5

La K-SADS-PL DSM-5 è un’intervista diagnostica sviluppata da Kauffman, Birmaher, Brent, Rao e Ryan nel 1997 che valuta i disturbi psicopatologici in bambini e adolescenti secondo i criteri del DSM-5. Pertanto tiene in considerazione sia le precedenti edizioni che l’introduzione dei nuovi disturbi dell’età evolutiva, quali il disturbo dello spettro dell’autismo e il disturbo da disregolazione dell’umore dirompente. È un ottimo strumento per l’identificazione della diagnosi primaria e per l’identificazione della diagnosi in comorbilità. È utile per la comprensione e l’evoluzione del disturbo psicopatologico riscontrato in età precoce. La somministrazione della K-SADS-PL è norma che venga effettuata da un operatore esperto, che assuma un atteggiamento neutrale e non teso a dare suggerimenti di risposta. Tuttavia la sola somministrazione della K-SADS-PL non è sufficiente per una corretta valutazione psicodiagnostica e risulta necessaria un’integrazione al fine di ottenere una valutazione più definita e completa.

Le diagnosi primarie

La K-SADS-PL DSM-5 valuta le seguenti diagnosi primarie:

KSADSPL DSM5 valutazione dei disturbi psicopatologici in minori TAB1Tabella 1: Diagnosi prese in esame dallo strumento K-SADS-PL DSM-5

Per poter procedere con l’intervista diagnostica è necessario, prima, effettuare i seguenti passaggi:

  1. Compilazione della scala trasversale di valutazione dei sintomi per bambini e genitori;
  2. Fare una breve intervista introduttiva non strutturata;
  3. Fare un’intervista diagnostica di screening;
  4. Compilare la checklist per la somministrazione dei supplementi;
  5. Approfondire gli eventuali supplementi diagnostici necessari;
  6. Compilare la checklist complessiva della storia clinica del paziente.

Andiamo a capire concretamente cosa significano e come sono strutturate queste tappe.

1. Compilazione della scala trasversale di valutazione dei sintomi per bambini e genitori

Prima della somministrazione dell’intervista diagnostica è necessario che sia i genitori che i bambini compilino la scala di valutazione dei sintomi trasversali, composta da 25 item che valutano la severità dei sintomi riscontrati nelle ultime due settimane.

2. Breve intervista introduttiva non strutturata

A questo punto il valutatore, in una breve intervista di circa 15 minuti, raccoglie informazioni dai genitori e dal paziente circa:

  • dati demografici;
  • lo stato di salute;
  • i sintomi attuali;
  • eventuali informazioni su trattamenti psicologici o neuropsichiatrici passati;
  • il funzionamento scolastico del bambino;
  • gli hobby;
  • la qualità delle relazioni familiari;
  • la qualità delle relazioni con il gruppo dei pari.

Lo scopo di tale intervista introduttiva è quello di stabilire un setting caratterizzato da un clima rilassato per il paziente e di comprendere se si sia verificata un’alterazione del funzionamento del bambino/ragazzo. Per quanto riguarda i genitori si cerca di ottenere informazioni circa le fasi dello sviluppo del figlio, elemento che potrebbe facilitare la diagnosi differenziale. È importante che il valutatore modifichi il proprio linguaggio sulla base di quello usato dai genitori e dal bambino/ragazzo.

3. Intervista diagnostica di screening

Questa intervista si sofferma sui sintomi delle differenti diagnosi primarie. Per ogni sintomo sono previste domande specifiche e criteri che vanno ad indagare i vari aspetti caratteristici del disturbo indagato. Si approfondisce, inoltre, se quanto riscontrato è un sintomo attuale o se si è verificato in altri momenti della vita del bambino. Il valutatore, man mano che procede con l’intervista di screening, si annota il punteggio che il paziente ottiene fino ad esplorare tutte le possibili diagnosi primarie.

Successivamente si procede prendendo in considerazione i criteri di esclusione delineati per gli episodi attuali o passati del disturbo. Se il bambino non raggiunge i criteri di esclusione per qualche diagnosi si va a somministrare un apposito supplemento specifico (punto 5).

4. Compilare la checklist per la somministrazione dei supplementi

Alla fine dell’intervista di screening, sul manuale, si trova una scheda chiamata “checklist diagnostica complessiva” in cui si annotano i supplementi richiesti insieme alle date di eventuali episodi pregressi o attuali nel disturbo.

5. Approfondire gli eventuali supplementi diagnostici necessari

I supplementi diagnostici che possono essere approfonditi, qualora il paziente non raggiunga i criteri di inclusione per qualche diagnosi sono:

La funzione principale di questi supplementi diagnostici è quella di facilitare la diagnosi differenziale e di fornire informazioni importanti prima di andare a valutare, nel dettaglio, i sintomi caratteristici dei diversi disturbi.

6. Checklist complessiva della storia clinica del paziente

Si tratta di un modello da compilare, inserito al termine dei supplementi del manuale K-SADS-PL, utile per registrare le informazioni diagnostiche attuali e le informazioni salienti relative all’intera vita del paziente. Contiene anche una sessione per il follow-up della checklist ideale per avere utili informazioni sul decorso longitudinale della patologia.

La validità diagnostica

La K-SADS-PL risulta essere l’intervista psichiatrica per l’età evolutiva maggiormente usata nella ricerca su popolazioni cliniche. Infatti, in letteratura, è possibile reperire una modesta quantità di studi che la includono e la utilizzano. È tradotta in numerose lingue tra cui l’italiano, lo spagnolo, il portoghese, il francese e il cinese. È stata dimostrata la sua validità diagnostica nel differenziare le popolazioni cliniche dai controlli e nel differenziare le diverse diagnosi nei campioni clinici. Per quanto riguarda l’Italia, il gruppo di Sogos, Di Noia, Fiorello e Picchiotti, che ha inoltre curato la traduzione del manuale in lingua italiana, ne ha valutato l’attendibilità sulla popolazione clinica dimostrando una congruenza tra la diagnosi effettuata tramite K-SADS-PL e l’osservazione clinica. La validità diagnostica è stata dimostrata anche in Spagna.

 

ACT: Acceptance and Commitment Therapy (2020) – Il primo libro italiano interamente dedicato all’ACT. Recensione del nuovo volume di Paolo Moderato, Giovambattista Presti, Francesco dell’Orco


ACT: Acceptance and Commitment Therapy è un testo fruibile a chi si affaccia per la prima volta al mondo dell’ACT, perché ne presenta i processi fondamentali e come applicarli, e utile per chi conosce già il modello, per riordinare e riorganizzare le proprie conoscenze.

 

Il panorama di libri sull’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) è ormai fiorente anche in Italia, ma fino ad ora abbiamo avuto il piacere di leggere esclusivamente traduzioni dagli autori internazionali. 
Poi finalmente, in piena pandemia da COVID-19, ha visto la luce il primo volume interamente dedicato all’ACT scritto da autori italiani, conosciuti e stimati dalla comunità ACT del nostro Paese.

Gli autori

Paolo Moderato, ordinario di Psicologia alla IULM, Milano, presidente dell’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), membro dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), past president della European Association for Behavioral and Cognitive Therapies (EABCT) e presidente di CBT-Italia.

Giovambattista Presti, professore associato di Psicologia generale all’Università di Enna Kore, è presidente della Società Italiana degli Analisti del Comportamento in campo Sperimentale e Applicato (SIACSA), past president dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), membro fondatore dell’European Association for Behaviour Analysis (EABA).

Francesco dell’Orco, psicologo e psicoterapeuta, membro del consiglio direttivo di ACT-Italia, ricercatore clinico dell’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), membro del GIS ACT FOR KIDS di ACT-Italia.

Hanno contribuito alla stesura di alcuni capitoli anche le psicoterapeute Marta Schweiger e Anna Bianca Prevedini.

Punto di forza

Uno dei pregi di questo manuale è quello di riuscire a chiarire una caratteristica fondamentale dell’ACT, che non è sempre di facile comprensione quando la si incontra inizialmente. E cioè che l’ACT non è un insieme di tecniche, strategie o protocolli destinati ai vari disturbi. Ma è piuttosto un modello transdiagnostico, un approccio globale alla persona in qualsiasi età e situazione si trovi, con lo scopo di aiutarla a vivere una vita attiva e significativa anche, ma non solo, nei momenti di difficoltà e sofferenza.

Struttura

Il volume fa parte della collana 100 domande, pertanto il contenuto è esposto attraverso una serie di domande e risposte tipiche di quando si affronta un caso clinico o quesiti che vengono frequentemente posti riguardo questo modello terapeutico. Gli argomenti comprendono tutto ‘il tema’ di cui questo specifico volume si occupa e raccolgono anche le domande cui talvolta non si trova risposta nei testi tradizionali: una sorta di manuale semplice e di veloce consultazione, che consente di rispondere ai maggiori dubbi sul tema presentato.

Il testo è accompagnato da riferimenti grafici al glossario e risorse di approfondimento e, dove opportuno, alcune risposte rinviano ad altre domande nel corso del volume, simulando l’interattività dei supporti digitali.

Sono compresi anche tabelle, esercizi, metafore, esempi clinici e 7 questionari per la valutazione.

Questo format rende il testo sia fruibile a chi si affaccia per la prima volta al mondo dell’ACT, perché può trovare un’esaustiva rassegna di come si articola l’ACT nei suoi processi fondamentali e come applicarli, sia utile per chi conosce già il modello, perché può essere un modo per riordinare e riorganizzare le proprie conoscenze e rivedere aree o concetti da approfondire. Inoltre, chi volesse mettere alla prova la propria conoscenza e comprensione della materia, potrebbe provare a rispondere alle varie domande proposte e successivamente verificarne l’accuratezza nelle risposte del testo.

Contenuti

Il volume si apre offrendo le basi teoriche dell’ACT, che nasce all’interno della cosiddetta terza ondata delle psicoterapie cognitivo-comportamentali e si sviluppa in sei processi chiave, descritti chiaramente nel testo. In questa parte si specifica anche l’importanza del linguaggio, dell’analisi del comportamento e del concetto di flessibilità psicologica per iniziare a comprendere i punti cardine del modello.

Si prosegue con una serie di quesiti volti a far comprendere come la consapevolezza dei propri valori consenta di ottenere e mantenere una direzione verso cui muoversi tramite azioni impegnate. Gli autori ci spiegano come sia fondamentale nella vita della persona, affinché sia piena e significativa, ma anche in terapia, per poter produrre un reale cambiamento concreto e non solo ‘mentale’.

Nella terza parte ci si concentra sulla mente e sui pensieri, che nell’ACT non vanno messi in discussione o modificati, ma piuttosto riconosciuti come eventi mentali che fanno parte dell’esperienza della persona. Gli autori ci spiegano quando possono diventare problematici e oggetto di intervento terapeutico, in particolare se diventano di ostacolo alla persona, nel senso che ci si lascia ‘catturare’, e quando ci si fonde con essi e si mettono in atto comportamenti che rendono la vita meno ricca e significativa. Il concetto di fusione (cognitiva) è centrale nel modello psicopatologico dell’Acceptance and Commitment Therapy (e per questo viene più volte chiamato in causa nei vari capitoli) e consiste nel ritenere un proprio pensiero come una realtà, una verità oggettiva, invece che una valutazione, un giudizio verbale legato ad un determinato contesto.

Grazie al contributo di Marta Schweiger, si viene introdotti alla Mindfulness, che nell’ACT viene intesa come capacità di vivere nel momento presente e se ne illustrano i principi, le pratiche fondamentali. Nel presente modello, l’abilità di stare nel qui e ora è centrale perché è un prerequisito in ciascuno degli altri processi chiave ed è fondamentale per favorire la flessibilità psicologica.

Nella quinta parte viene esposto come è possibile rispondere alle emozioni: con l’evitamento oppure con disponibilità e accettazione. Gli autori approfondiscono nel dettaglio come promuovere queste abilità durante i colloqui terapeutici.

Si prosegue poi con la descrizione del Sé, che nell’ACT è di tipo operazionale e distingue fra Sé come contenuto o concettualizzato e Sé come contesto o osservante. Il primo corrisponde ad una definizione di se stessi basata sul ‘vociare della mente’ ed è costruito quindi verbalmente su giudizi e categorizzazioni, le storie che la persona (si) racconta su di sé. Il secondo, denominato anche Sé osservante, è la prospettiva da cui possiamo osservare l’attività verbale, i pensieri, le sensazioni e le emozioni, una sorta di ‘consapevolezza pura’. Gli autori ci spiegano quando e come il Sé concettualizzato possa diventare problematico e come aiutare il paziente a lasciarlo andare. Ci mostrano anche come sviluppare il Sé come contesto, in modo che sia un luogo neutro e sicuro dal quale osservare e accogliere tutta la propria esperienza.

Nel settimo capitolo, con il contributo di Anna Bianca Prevedini, si introduce l’azione impegnata ovvero tutto quello che possiamo concretamente fare in linea con i nostri valori, per andare verso la persona che vorremmo essere. Si approfondisce come promuovere questo processo e come preparare il paziente ai possibili, anzi probabili, ostacoli che incontrerà nella messa in pratica delle azioni guidate dai suoi valori.

L’ultima parte è una preziosa serie di domande riguardanti specifiche applicazioni, strumenti pratici, da dove cominciare e alcuni possibili problemi in terapia.

Le domande finiscono qui, ma il libro no! 
Oltre la doverosa bibliografia, troviamo un glossario a cui si rimanda durante tutto il corso del volume per le parole chiave principali. 
Per finire, gli autori ci regalano sette questionari validati in italiano per l’assessment clinico. Nello specifico, ci consentono di indagare i processi principali dell’ACT, Mindfulness inclusa (anche nei bambini e adolescenti).

Conclusioni

Ho incontrato questo testo dopo aver letto una trentina di libri internazionali in ambito ACT e quindi non mi aspettavo che questo volume potesse stupirmi e offrirmi qualcosa in più rispetto agli altri. In particolare, quando me lo sono ritrovato in mano, ho subito notato che era molto più piccolo e leggero della maggior parte dei manuali ACT che riempiono la mia libreria e quindi mi è balenato per la mente il pensiero che questo non potesse contenere qualcosa di più di quello che avevo già ricevuto dagli altri. E invece, appena iniziata la lettura, mi sono accorta di quanto la mia prima valutazione fosse errata! ‘Nella botte piccola c’è il vino buono’ e per questo mi sono gustata questa preziosa opera tutta in un sorso!

Fra quello che ho letto finora riguardo all’Acceptance and Commitment Therapy, ritengo che questo testo presenti la miglior combinazione fra completezza, chiarezza e sintesi e l’ho trovato quindi fra i manuali più efficaci nel far conoscere e comprendere l’ACT. 
Pertanto, credo che meriti una lettura da parte di tutti i terapeuti italiani interessati all’ACT (indipendentemente dal livello di conoscenza della materia) e mi auguro che venga presto tradotto in inglese perché dovrebbe far parte della libreria di ogni terapeuta ACT (e azzarderei anche di ogni terapeuta cognitivo-comportamentale) non solo in Italia.

 

Da fidanzati ad amici

La presente ricerca ha cercato di valutare e prevedere la qualità delle relazioni post-rottura e quali siano le caratteristiche maggiormente associate allo sviluppo di un’amicizia.

 

Le relazioni romantiche sono un aspetto centrale della vita umana ed hanno il potenziale per soddisfare i bisogni fondamentali di appartenenza, propri degli individui (Baumeister & Leary, 1995). Sfortunatamente, il mantenimento di un rapporto è una vera e propria sfida, al punto da potersi concludere con una dissoluzione. Tuttavia, ci sono poche ricerche sulla natura delle relazioni tra gli individui a seguito della cessazione di una relazione romantica non coniugale: non si sa fino a che punto gli ex partner romantici rimangano vicini dopo la rottura. Le storie d’amore non sempre finiscono una volta per tutte, al contrario spesso i partner si lasciano per poi ricongiungersi. Inoltre, proprio a causa del bisogno fondamentale di appartenenza, gli individui potrebbero passare a forme di relazione meno interdipendenti (ad es. amicizia) al fine di evitare o attenuare l’impatto di esiti negativi derivanti dalla rottura romantica. L’amicizia post – rottura è più probabile se i membri della coppia che si sono lasciati erano amici prima della storia d’amore (Metts, Cupach, & Bejlovec, 1989), se l’amicizia è sostenuta socialmente (Busboom, Collins, Givertz, & Levin, 2002), se la rottura è stata reciproca (Hill, Rubin, & Peplau, 1976), e se il rapporto aveva un elevato livello di soddisfazione romantica pre-rottura (Bullock, Hackathorn, Clark, & Mattingly, 2011).

La presente ricerca ha cercato di valutare e prevedere la qualità delle relazioni post-rottura: utilizzando il Modello di Investimento dei Processi di Impegno come quadro teorico (Rusbult, Agnew, & Arriaga, 2012), gli autori hanno esaminato la natura generale di tali relazioni, nonché come le caratteristiche della relazione romantica prima di una rottura possano servire a prevedere la relativa vicinanza delle relazioni dopo la rottura. Nello specifico, questo modello focalizza la sua attenzione sulla costruzione dell’impegno psicologico dei partner nei confronti della relazione, il quale implica l’intento di rimanere in una relazione e l’attaccamento psicologico al partner. Esso è influenzato dal grado di soddisfazione vissuto, dalla qualità delle alternative disponibili alla relazione attuale e dall’ammontare dell’investimento nella relazione: la soddisfazione è il risultato di una comparazione tra la realtà della relazione e le proprie aspettative relativamente a ciò che è accettabile; le alternative alla relazione attuale possono includere altri potenziali partner, altre persone in generale (ad es. gli amici) o semplicemente non aver alcuna relazione; gli investimenti, invece, possono essere sia tangibili (ad es. beni materiai, denaro e amici) che intangibili (ad es. tempo, identità e piani futuri) (Goodfriend & Agnew, 2008). Un maggiore impegno in una relazione è il risultato di una maggiore soddisfazione, di un minor numero di alternative e di maggiori investimenti nella relazione (Rusbult et al., 1998).

Gli autori hanno misurato in un primo momento la qualità del rapporto romantico (a T1): i partecipanti (N=143 giovani adulti) dovevano completare The Investment Model Scale (IMS; Rusbult et al., 1998), un questionario volto ad indagare la qualità del coinvolgimento romantico prima della rottura. Nello specifico, IMS si compone di quattro scale che misurano il grado di soddisfazione (5 items del tipo ‘Mi sento soddisfatto del nostro rapporto’), le alternative alla relazione attuale (5 items del tipo ‘Le mie alternative sono attraenti, ad es. uscire con un altro, passare il tempo da solo’), l’investimento (5 items del tipo ‘Mi sento molto coinvolto nella mia relazione’) e l’impegno (7 items del tipo ‘Mi impegno a mantenere il rapporto con il mio partner’) verso la propria storia d’amore. Le opzioni di risposta erano collocate su una scala Likert a 9 punti, da 0=fortemente in disaccordo a 8=fortemente d’accordo.  In un secondo momento (a T2) gli autori hanno valutato la vicinanza post-rapporto romantico utilizzando quattro variabili: (1) il livello di contatto della relazione di post-rottura, che è stato misurato con una sola domanda ‘Attualmente come descriveresti lo stato della tua relazione con questa persona?’ (opzioni di risposta: nessuna relazione, conoscenti, amici, amici intimi, migliori amici); (2) la frequenza di contatto della post – rottura, che è stata misurata con la domanda ‘Attualmente hai qualche contatto con questa persona?’ (opzioni di risposta: nessun contatto, meno di una volta al mese, una volta al mese, una volta a settimana, una volta al giorno, più volte al giorno); (3) l’emozione positiva post-rottura, che è stata misurata con la domanda ‘Fino a che punto provi emozioni positive quando pensi a questa persona ora?’ (da 0 per niente a 8 totalmente); (4) l’emozione negativa post-rottura, che è stata valutata con la domanda ‘Fino a che punto provi emozioni negative quando pensi a questa persona ora?’ (da 0 per niente a 8 totalmente). Inoltre, a T2 i partecipanti dovevano rispondere a due ulteriori domande relative alla probabilità percepita (ad es. ‘Qual è la probabilità di ricongiungersi in maniera romantica con questa persona in futuro?’; modalità di risposta: fornire una percentuale di probabilità compresa tra 0 e 100) e al desiderio di riunificazione romantica (ad es. ‘Su una scala da 0 a 10 quanto vorresti riunirti con questa persona in futuro?’).

I risultati hanno rivelato che gli individui con un livello di soddisfazione più elevato, alternative scarse e maggior investimento nella relazione romantica hanno riferito un maggior impegno romantico nei confronti del loro partner a T1 (pre-rottura). L’impegno romantico media gli effetti di queste premesse sulla successiva vicinanza: l’impegno a T1 prevedeva livelli significativamente più elevati di vicinanza tra i due a T2 (post-rottura). E’ emerso, inoltre, che l’associazione positiva tra l’impegno romantico pre-rottura e vicinanza post-rottura è indipendente sia dalla probabilità percepita e dal desiderio di ricongiungersi con gli ex partner, sia dal fatto di aver scelto o subito la rottura.

In conclusione, questi risultati suggeriscono che le variabili del IMS valutate durante un coinvolgimento romantico in corso possono prevedere il passaggio a una relazione post-rottura con un certo livello di vicinanza. Pertanto, alla domanda ‘Perché alcune ex relazioni romantiche continuano con un certo grado di interdipendenza mentre altre si concludono definitivamente?’ il presente studio supporta l’idea che un maggiore impegno nella relazione romantica può essere ridefinito in una relazione più stretta dopo la rottura. Esso media gli effetti della soddisfazione romantica, degli investimenti e delle alternative sulla vicinanza post-rottura. Nella misura in cui gli ex partner sono in grado di fornire risorse preziose che soddisfano i bisogni, è probabile che la relazione venga mantenuta con un certo grado di vicinanza (Le & Agnew, 2001). Questo suggerisce che le persone che hanno investito molto nelle loro storie d’amore siano particolarmente inclini a cercare di mantenere una relazione con il loro ex partner, poiché continuano ad essere percepite come una preziosa fonte di risorse. Presi insieme, anche se la soddisfazione e gli investimenti possono essere visti come barriere alla fine di una relazione romantica, nel caso di una rottura, tale perdita può essere evitata o minimizzata mantenendo una relazione caratterizzata da un’interdipendenza relativamente minore invece di una completa cessazione del contatto. Nonostante questi risultati, sarebbe utile, in una ricerca futura, delineare i fattori che portano le persone a rimanere amici dopo la rottura contro il riaccendere la loro relazione romantica con i loro ex partner.

 

La Focalizzazione Sensoriale nella Terapia Mansionale Integrata

La Terapia Mansionale Integrata (TMI), attraverso l’applicazione da parte dei pazienti delle mansioni prescritte dal terapeuta, permette di affrontare i problemi, le resistenze e le credenze che possono dare origine alle differenti disfunzioni del comportamento sessuale e offre la possibilità di discutere e valutare i miglioramenti ed i traguardi raggiunti.

Arianna Ferretti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Le mansioni sessuali nella Terapia Mansionale Integrata

Con il termine “mansioni sessuali” si fa riferimento a tecniche specifiche relative alla Terapia Mansionale Integrata (TMI). Si tratta, in linea di massima, di prescrizioni di comportamento sessuale che rappresentano uno dei punti fondamentali nella terapia sessuale e che sono assimilabili a dei veri e propri homework. Infatti attraverso l’applicazione, da parte dei pazienti, delle mansioni prescritte dal terapeuta è possibile comprendere e avere la possibilità di affrontare i problemi, le resistenze e le credenze che possono dare origine alle differenti disfunzioni del comportamento sessuale ed offre, inoltre, la possibilità di discutere e valutare i miglioramenti ed i traguardi raggiunti. Non si tratta, quindi, di atti spontanei della coppia, poiché può risultare veramente difficile rendere spontaneo e naturale un comportamento richiesto e prescritto.

Una mansione sessuale è composta da micro-obiettivi concordati con il paziente, viene proposta e costruita con i pazienti stessi a seconda della problematica riportata e degli obiettivi terapeutici stipulati. Lo scopo non è quello di provocare piacere sessuale, anche se può succedere, ma è quello di favorire il processo terapeutico (Fenelli e Lorenzini, 2014) e di creare le condizioni per guidare la coppia verso l’esplorazione della sessualità.

La prescrizione, dunque, viene fatta a fine seduta ed è necessario che sia chiara e che venga spiegata, in modo spontaneo e dettagliato, alla coppia. È necessario pertanto, che il terapeuta non abbia timore o pregiudizi né conti in sospeso con la propria sessualità (Kaplan, 1976). Una volta spiegata, si chiede alla coppia se ci sono domande o aspetti non chiari, se ne verifica la reale fattibilità e si analizzano le possibili difficoltà. Può essere una prescrizione più o meno flessibile. Per Masters e Johnson (1970) era usuale applicare le mansioni sessuali in modo rigido e protocollare, mentre Kaplan (1976) iniziò a flessibilizzare e rendere maggiormente dinamici i vari step delle terapie mansionali a seconda delle caratteristiche dei pazienti, della fase della terapia e degli obiettivi concordati.

Le quattro fasi della terapia

Ogni terapia sessuale è caratterizzata dalla presenza di quattro fasi fondamentali, che fungono da “bussola” anche all’interno delle tecniche mansionali prescritte dal terapeuta:

  1. La conoscenza di sé;
  2. La conoscenza dell’altro e di sé tramite l’altro;
  3. La conoscenza del proprio piacere e delle proprie emozioni;
  4. La conoscenza del piacere di coppia e dell’intimità e condivisione delle emozioni.

Ognuna di queste fasi tiene di conto della componente comportamentale, cognitiva e relazionale:

Tabella 1. Le quattro fasi della terapia sessuale in ambito comportamentale, cognitivo e relazionale

Quindi è essenziale lavorare, in prima battuta, sui disagi e sulle risorse del singolo individuo per poi concentrarci, gradualmente, sulla coppia. Spesso i pazienti mostrano la tendenza a voler accelerare tale processo dando per scontati aspetti che, in seduta, risultano necessari di un approfondimento e che mirano ad un accrescimento della consapevolezza del paziente.

La Focalizzazione Sensoriale

Tra le teorie mansionali più note ed utilizzate in terapia vi è la Focalizzazione Sensoriale (Sensate Focus) inventata da Master and Johnson nel 1970 in occasione dei loro numerosi e preziosi studi sulla sessualità e sulla terapia sessuale. Alcuni terapeuti prediligono il termine “legame di piacere” (pleasuring) che è stato utilizzato, inoltre, dagli stessi Masters and Johnson nella letteratura scientifica sull’argomento. Nella focalizzazione sensoriale, la coppia decide di rinunciare all’avere il rapporto sessuale, e di conseguenza l’orgasmo, per giorni e settimane. Questa mansione sessuale viene prescritta dal terapeuta dopo un’accurata anamnesi, la definizione del problema in ambito sessuologico e la stipulazione degli obiettivi terapeutici. Viene fatta questa prescrizione solo quando è specificatamente indicato nel trattamento delle disfunzioni sessuali riscontrate. È una tecnica particolarmente indicata ed efficace nel disturbo dell’eccitamento maschile e femminile e per le inibizioni dell’orgasmo maschile e femminile (Seal & Meston, 2018). Il meccanismo di azione della focalizzazione sensoriale si basa sulla riduzione di tensione che si verifica nel corso dei rapporti sessuali. In definitiva i partner si liberano da credenze e doverizzazioni che possono compromettere la qualità del sesso. Un esempio tipico di pensiero che non aiuta l’uomo con problemi di mantenimento dell’erezione può essere “Stavolta devo riuscirci”, mentre un pensiero tipico della donna può essere “Devo impegnarmi a riuscire a fargli mantenere l’erezione”. Attraverso la focalizzazione sensoriale, nessuno dei due ha l’obbligo o il dovere di mantenere e/o provocare l’erezione e non c’è alcun tipo di pressione o ansia. Se prendiamo in considerazione la teoria dell’apprendimento, è comprensibile come questo presupposto possa creare le radici per l’estinzione di emozioni, come l’ansia, che sfavoriscono il rapporto sessuale. Con questa tecnica mansionale si favorisce nell’uomo e nella donna un senso di rilassamento e scioltezza che vanno a diminuire, progressivamente, e dissipare l’ansia anticipatoria che funge spesso come premonitore di un possibile insuccesso. Di conseguenza, le sensazioni ed emozioni positive suscitate dai vari step che caratterizzano la focalizzazione sensoriale, vanno a fungere da veri e propri rinforzi e ad impattare sul benessere sessuale. Esistono due tipi di focalizzazione sensoriale: I e II.

Focalizzazione sensoriale I

In questa fase il terapeuta, con prescrizioni chiare e precise, chiede alla coppia di non avere alcun tipo di rapporto sessuale e si accerta del punto di vista dei pazienti prima di chiudere la seduta. Chiede, quindi, alla coppia di cercare un momento e uno spazio adatto e, dopo aver provato a lasciare andare ogni tipo di preoccupazione diversa dalla questione sessuale, dà loro l’indicazione di farsi una doccia e di andare a dormire senza vestiti addosso. Chiede, inoltre, che si accarezzino l’un l’altro, definendo in seduta chi inizierà per primo, e specificando che è essenziale che non vengano toccate e/o accarezzate le zone erogene e/o genitali. Le carezze è importante che siano il più gentili e tenere possibile e che vadano ad esplorare reciprocamente tutte le zone del corpo del partner: si parte dalla nuca, per passare dalla schiena fino ai piedi. Il partner che riceve le carezze ha il compito di porre consapevolezza unicamente sulle proprie sensazioni. È importante che non si preoccupi, ad esempio, che la moglie possa stancarsi o annoiarsi e che si “perda” sulle proprie sensazioni corporee. È essenziale che i partner comunichino eventuali fastidi o punti di eccitazione scoperti durante la mansione, così che possano capire che cosa piace all’altro in modo da poterlo replicare nelle sessioni successive e al di fuori della terapia. La focalizzazione sensoriale I termina quando i partner si sentono totalmente soddisfatti.

Focalizzazione sensoriale II

La focalizzazione sensoriale II è di norma successiva alla focalizzazione sensoriale I, anche se in alcuni casi il trattamento può iniziare assegnando già questo compito. Il terapeuta in questa fase dà istruzioni precise e dettagliate in merito al legame di piacere genitale e specifica che l’obiettivo non è quello di arrivare all’orgasmo, ma di produrre eccitamento. In definitiva la prescrizione è quella di accarezzare un po’ dappertutto il corpo del partner con l’intento specifico di portarlo all’eccitazione. Si chiede alla coppia di osservare l’interazione tra i due e si forniscono tutte le medesime indicazioni della focalizzazione sensoriale I (consapevolezza sulle sensazioni corporee e non sulla performance). Ad esempio, nel caso specifico di un deficit di erezione, nella focalizzazione sensoriale II è previsto che il terapeuta rassicuri la coppia sul fatto che l’obiettivo della mansione è quello di provare eccitazione e non di ottenere e mantenere un’erezione.

Al termine della focalizzazione I e II, il terapeuta chiederà ai pazienti il dettaglio di ogni aspetto riscontrato durante la mansione. Questo aspetto è cruciale poiché racchiude sia gli aspetti positivi, i quali possono fungere da rinforzo positivo per le sessioni successive, che quelli negativi che, di conseguenza, possono permettere di apportare le necessarie modifiche da applicare nel corso della terapia.

 

La relazione di attaccamento e la funzione riflessiva all’interno dei contesti di gioco

La teoria dell’attaccamento ha concettualizzato la funzione riflessiva come la capacità di essere consapevoli degli stati mentali propri ed altrui, oltre che dell’essere in grado di separare gli stati mentali propri da quelli degli altri (Fonagy & Target, 1998).

 

Ciò può essere considerato importante in tutte le interazioni che caratterizzano il rapporto tra mamma e figlio, incluse quelle che riguardano i momenti di gioco della diade (Borelli et al., 2017). Infatti la madre è coinvolta in misura considerevole nelle attività ludiche del figlio durante il periodo dell’infanzia, e la capacità di rispondere in modo adeguato alle sue richieste, svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo delle capacità riflessive di quest’ultimo (Fonagy & Target, 1998), che diventa in grado di comprendere i propri stati emotivi, esprimere le proprie emozioni ed avere una buona regolazione emotiva (Howard et al, 2017), ma anche di tollerare i fallimenti, accettare le frustrazioni, rispettare le regole e migliorare le proprie capacità di interazione con i pari.

A partire da queste premesse, il presente studio (Waldman-Levi, Finzi-Dottan, & Cope, 2019) intende indagare se le capacità di caregiving e la funzione riflessiva della madre siano in grado di predire il supporto offerto dalla madre al figlio nei momenti di gioco, oltre a fornire un approfondimento dell’esperienza di gioco della diade.

Dopo aver selezionato le famiglie, lo studio si è svolto nell’ambiente familiare, in cui le madri, in seguito alla compilazione di un questionario, sono state invitate a giocare con i propri figli nel modo in cui erano solite fare e l’interazione, durata 15 minuti, è stata videoregistrata, in modo che potesse essere successivamente analizzata.

Inizialmente sono stati somministrati dei questionari che comprendono la Caregiving System Function Scale (CSF; Shaver et al., 2010), che misura le disposizioni del caregiver nelle attività e nelle attitudini mostrate, il Rumination-Reflection Questionnaire (RRQ; Trapnell & Campbell, 1999), che misura le tendenze ruminative e la capacità riflessiva ed il Parent’s/Caregiver Support of Children’s Playfulness (PCSCP; Waldman-Levi & Bundy, 2016), che valuta il gioco della diade; successivamente, sono stati esaminati il linguaggio verbale e non verbale della madre, oltre che le sue capacità riflessive, attraverso le videoregistrazioni.

I risultati rilevano che una predisposizione al caregiving materno sicuro è in grado di predire la funzione riflessiva, che a sua volta è in grado di predire il supporto offerto dalla madre nelle occasioni di gioco. Infatti le madri che hanno mostrato di avere un attaccamento sicuro, sono risultate anche caratterizzate da una forte attenzione agli stati emotivi ed ai bisogni cognitivi del figlio, reciprocità e adeguatezza degli scambi verbali e non verbali. È stata rilevata la presenza di lodi, commenti positivi e vicinanza emotiva, in grado di incoraggiare la formazione della competenza e dell’autostima, anche nei casi in cui i bambini dovevano tollerare una frustrazione, oltre a capacità di insegnare e far apprendere le regole del gioco, aiutando il bambino nel processo di scaffolding delle proprie abilità. D’altro canto, le madri con attaccamento ansioso sono risultate caratterizzate da forti tendenze ruminative e focalizzazione sulle proprie ansie piuttosto che sui bisogni del figlio all’interno del contesto di gioco, mentre le madri con attaccamento evitante si sono rivelate distaccate emotivamente dal rapporto diadico e dai bisogni presentati dal figlio nel contesto di gioco. Si è visto come le madri in questi casi non siano riuscite a fornire supporto ai figli, ma hanno mostrato o ansia all’interno degli scambi verbali e non verbali o una forte competizione nei confronti del bambino.

In conclusione, è possibile confermare l’ipotesi iniziale secondo cui la presenza di funzioni riflessive predice la qualità del rapporto madre-figlio, influenzando la formazione delle capacità riflessive dell’individuo, ed in ultima analisi le abilità sociali e relazionali future.

Psicoterapia in Pandemia: come cambia la dimensione relazionale?

Introdotta per la prima volta nel 1127, la quarantena è la principale misura di contrasto adottata durante tutte le pandemie di malattie infettive e contagiose. Già in passato, la letteratura ha posto l’accento sui disagi psicologici correlati alle pandemie come l’aumento dei livelli di ansia, di panico e di distress nella popolazione o la modificazione della percezione del rischio e delle modalità di trasmissione. 

 

Introduzione

Il Corona Virus Diseases 19 (COVID-19) è una malattia respiratoria causata dal virus SARS CoV-2. Emersa in Cina nel dicembre 2019, si è diffusa rapidamente in tutti i continenti, inducendo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) a dichiarare, inizialmente, lo stato di emergenza di sanità pubblica internazionale e, a marzo 2020, lo stato di pandemia. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di un nuovo virus con un’accertata trasmissione interumana, da una suscettibilità universale, ovvero assenza di anticorpi negli organismi, da un impatto sanitario grave e da una diffusione a livello mondiale con rischio significativo di restrizioni al commercio e al traffico internazionale. La modalità di trasmissione è per via respiratoria o per contatto relativamente ravvicinato. Al momento, sono assenti vaccini e protocolli terapeutici consolidati.

Le malattie contagiose sono parte integrante della storia dell’umanità, da quando gli uomini hanno iniziato ad organizzarsi in società, creando nuclei di persone che si relazionano e convivono nello stesso spazio (Panè, 2020). Dalla Peste Nera del 1300 ad oggi, sono state registrate numerose pandemie, quelle più rilevanti dell’ultimo secolo sono l’influenza Spagnola nel 1918, l’influenza asiatica H2N2 nel 1957 e l’influenza suina A/H1N1 nel 2010.

Introdotta per la prima volta nel 1127, durante l’epidemia di peste a Venezia, la quarantena è la principale misura di contrasto adottata durante tutte le pandemie di malattie infettive e contagiose (Brooks, 2020). Nonostante il progredire medico scientifico, il distanziamento sociale, caratterizzato dal confinamento e dalla limitazione dei rapporti sociali, è ancora oggi la principale risposta in presenza di nuove epidemie (es. SARS nel 2003, Ebola nel 2014).

Già in passato, la letteratura ha posto l’accento sui disagi psicologici correlati alle pandemie come l’aumento dei livelli di ansia, di panico e di distress nella popolazione (Wong, 2010) o la modificazione della percezione del rischio e delle modalità di trasmissione. Inoltre, ulteriori effetti psicologici negativi, registrati nelle misure restrittive delle passate quarantene, sono stati: aumento dei suicidi (Barbisch, 2015), aumento di manifestazioni di rabbia o di cause legali, presenza nella popolazione di sintomi depressivi e sintomi da disturbo da stress post-traumatico acuto (Brooks, 2020), comportamenti da evitamento (verso persone con sintomi o luoghi pubblici) e/o comportamenti iperprotettivi. Tali cambiamenti si sono mantenuti per molto tempo anche a pandemia terminata (Lau, 2010), più lungo è stato il periodo di quarantena, maggiori sono stati gli effetti psicologici negativi (Brooks, 2020).

L’attuale situazione pandemica, caratterizzata da un costante percepito pericolo di vita, l’incertezza di poter essere curato in ospedale, la paura dell’altro potenzialmente infetto, la riduzione della libertà di movimento, la privazione del processo di lutto, la separazione fisica dai propri cari, lo svuotamento dei magazzini e la difficoltà di reperire dispositivi medici di sicurezza, l’improvvisa crisi economica, l’incertezza con cui le istituzioni e le nazioni si muovono, può produrre effetti drammatici sulla salute e si configura come una situazione peri-traumatica che può avere un forte impatto sul sistema nervoso centrale.

Impatto del distanziamento sociale sul sistema neurobiologico

Porges definisce la neurocezione come

il modo in cui i circuiti neurali distinguono fra una situazione o una persona sicura ed una pericolosa o che rappresenta una minaccia per la vita. (Porges, 2004)

La percezione del pericolo tende ad attivare reazioni di difesa più antiche, come la mobilizzazione o l’immobilizzazione, riconducibili al cervello “rettiliano”, o più evolute, come la tendenza all’ingaggio sociale, collegate al cervello “limbico”, fino allo sviluppo di una socialità e moralità condivisa (Churchland, 2012 ).

Durante una pandemia ci si ritrova in una condizione di minaccia per la vita che è condivisa dalla comunità, ma è vissuta dagli individui o dai nuclei familiari in sostanziale isolamento sociale, come una condizione che porta a una inevitabile limitazione della co-regolazione. In un contesto di distanziamento sociale, l’attivazione del reaching out (strategia di ricerca dell’altro relativa alla difesa “mammifera” del pianto di attaccamento), ci spinge a mantenere almeno le connessioni virtuali con i nostri simili, l’utilizzo di una video chiamata ci permette infatti di percepire la voce e l’espressione facciale dell’interlocutore.

Tuttavia tale attivazione può non rivelarsi sufficiente alla co-regolazione e può far inoltre saltare il “patto sociale”, ovvero le norme, le regole e le aspettative alla base del nostro quotidiano vivere e del nostro senso di sicurezza.

Ciò potrebbe avere un impatto sul sistema nervoso in allarme che, non avendo la possibilità concreta di attivare il coinvolgimento sociale, tenderebbe a presentare un’iperattivazione dei sistemi di difesa animale più antichi.

Nei nostri pazienti, ma anche in tutti noi, infatti, possiamo notare tendenze comportamentali alla fuga (es. uscite fuori dalle regole) o all’attacco (rabbia intensa verso le istituzioni o verso i conspecifici che si avvicinano) o anche fenomeni di immobilizzazione riconducibili a difese animali come il congelamento (paralisi, insonnia, attacchi di panico) o il collasso (ipersonnia, ipoattivazione, stanchezza, mancanza di motivazione all’azione). Naturalmente ogni persona reagirà in base alla propria storia di vita e al proprio modello operativo interno (Bowlby,1973).

Il tentativo, come psicoterapeuti, è quello di regolare i sistemi nervosi dei nostri pazienti, in modo da trasformare la situazione peritraumatica in un’occasione di espansione sia della consapevolezza sia della capacità di gestire i propri stati interni e il senso di impotenza esperito.

L’intervento psicologico in ambito emergenziale possiede, infatti, caratteristiche peculiari che lo differenziano da quello ordinario, per cui l’applicazione delle competenze psicologiche e psicoterapeutiche, proprie del setting clinico, necessita di essere adattata ed integrata con le conoscenze delle prassi emergenziali e delle prestazioni online (CNOP, 2020).

In presenza di una pandemia, con l’emergente bisogno psicologico da un lato e le limitazioni nel poter esercitare la professione con le modalità tradizionali dall’altro, quali sono gli aspetti che contraddistinguono l’intervento psicologico e la relazione terapeutica?

Psicoterapia online ai tempi del Covid-19

Setting e self-disclosure

Il diffondersi del Covid-19 ha inevitabilmente indotto un cambiamento del setting terapeutico, l’introduzione di software per videochiamate, attraverso cui svolgere colloqui clinici, ha infatti trasformato la seduta in presenza in un’esperienza di e-therapy. Questo fenomeno, per alcuni psicoterapeuti, non è stato del tutto nuovo, alla luce di una già precedente diffusione di mezzi informatici, sincroni (videochiamate) e non sincroni (messaggi e e-mail).

Tale rapido cambiamento operativo è stato motivato dalla situazione di potenziale pericolo, dalla necessità di tutela e protezione reciproca ed è stato volto, in prevalenza, alla prosecuzione dei lavori terapeutici già impostati precedentemente (CNOP, 2013), con particolari cautele rispetto ai soggetti con difficoltà nell’esame di realtà, ideazioni suicidarie o gravi stati dissociativi.

Questa importante rivoluzione nel setting terapeutico, porta a numerose riflessioni cliniche.

In primo luogo, la pandemia pone, forse per la prima volta nella storia della psicoterapia, paziente e terapeuta nella medesima situazione peritraumatica, condizione questa che genera un senso di impotenza e vulnerabilità condivisi e favorisce allo stesso tempo empatia e compassione. Attraverso la psicoterapia online, emerge l’opportunità di condividere, nel qui ed ora, la propria esperienza umana. Le nostre case si aprono reciprocamente, facendoci accedere, attraverso lo schermo, ai luoghi quotidiani dell’altro. Gli spazi d’intimità visibili favoriscono, paradossalmente, maggior vicinanza rispetto alla presenza fisica nel setting abituale. In tale contesto clinico, risultano ancora più importanti la consapevolezza e l’attenzione del terapeuta alla propria self-disclosure e la responsabilità verso il proprio benessere. Il terapeuta tende ad assumere atteggiamenti di cura del sé, di resilienza, di compassione e gentilezza verso le proprie fragilità, orientato alla co-regolazione emotiva con il paziente, alla normalizzazione dei vissuti, all’acquisizione di consapevolezza dei processi cognitivi e relazionali e alla ricerca di risorse.

La psicoterapia online richiede inoltre al terapeuta una maggiore attenzione alla comunicazione non verbale, che avviene prevalentemente attraverso il proprio volto e quello del paziente, da monitorare costantemente, in un processo parallelo, con continui aggiustamenti (luce, distanza dallo schermo, direzione degli sguardi, ecc.).

Una reciproca comunicazione efficace e l’orientamento dell’attenzione del paziente ai propri segnali corporei promuovono il rinforzo del Sé adulto e l’integrazione mente-corpo.

La perdita di parte della prossemica rimane un’esperienza incarnata di impoverimento nel processo relazionale; tuttavia la possibilità di osservare il proprio volto in interazione con l’altro attiva i neuroni specchio e facilita una riflessione sui propri stati emotivi e mentali, aprendo interessanti punti di contatto con la Self Mirroring Therapy (Vergatillo, 2020).

Un ulteriore elemento da tenere in considerazione nel contesto online è l’eventuale instabilità della connessione Internet: il verificarsi di rotture e riparazioni della sintonizzazione comunicativa, che avviene attraverso la rete, può essere considerata come “l’oggettivazione” di ciò che accade quotidianamente all’interno della comunicazione umana e nella relazione di attaccamento. L’autentico impegno reciproco e l’esperienza di ripetute riparazioni alla perdita di sincronizzazione comunicativa favoriscono la capacità di regolazione emotiva e regalano un interessante parallelismo con un’esperienza di attaccamento sicuro: madri che alla rottura fanno seguire una riparazione efficace, hanno bambini più capaci di regolarsi (Tronick, 2008).

Possiamo inoltre considerare l’“effetto di disinibizione online” (Suler, 2004), che evidenzia la tendenza degli individui ad esprimersi e agire con maggior impulsività ed intensità emotiva sul web, piuttosto che di persona. Lo schermo tra l’individuo e il mondo online crea una barriera che può essere vissuta come una protezione.

In tal caso, la psicoterapia via web potrebbe anche facilitare l’espressione emotiva del paziente, promuovendo l’accesso ad emozioni più intense nella relazione terapeutica. Si rileva infatti una maggiore disponibilità e apertura dei pazienti all’identificazione e condivisione, nel dialogo terapeutico, dei propri nuclei di sofferenza più profondi.

Ipotizziamo quindi, considerando la clinica dell’attaccamento disorganizzato, che l’attivazione del sistema di attaccamento possa essere vissuta come meno “pericolosa”, data la distanza fisica e il potenziale maggior controllo da parte del paziente nella relazione con il terapeuta (es. la persona potrebbe facilmente scegliere di interrompere la comunicazione), e quindi favorire la regolazione della fobia dell’attaccamento. Allo stesso tempo, la possibilità di mantenere la relazione attraverso il web, nonostante la situazione comune di pandemia, potrebbe invece favorire la regolazione della fobia della perdita dell’attaccamento. La relazione terapeutica diventa infatti lo spazio di cura che si può conservare, ma ad una distanza fisica potenzialmente meno “minacciosa”. Tale ipotesi potrebbe arricchire la lettura clinica rispetto al lavoro con le parti del Sé, che su molteplici aspetti, appare facilitato e più efficace nella psicoterapia online. La danza diadica (Schore, 2008) della coppia terapeutica rispetto alla relazione di attaccamento, sembra essere a tratti più fluida, facilitando così anche il rapporto del paziente adulto con la propria esperienza interna. Questo conferma come la psicoterapia possa essere considerata una “esperienza relazionale correttiva”.

Le fobie delle parti del sé

Quando in clinica si lavora con i sistemi interni, seguendo le linee guida della Terapia degli Stati dell’Io (Shapiro, 2017) e/o della Teoria e dell’intervento con la Dissociazione Strutturale (Van der Hart et. al., 2006), si procede all’identificazione delle “parti del sé”, che possono essere più o meno dissociate, in modo da aumentarne la consapevolezza e quindi anche la regolazione e la gestione nella vita quotidiana.

In ottica clinica, tali “parti” possono essere riconducibili a circuiti neurali che conservano esperienze di vita, ricordi, memorie e sono portatrici di emozioni, sensazioni intense, e pensieri ricorsivi. Il sistema nervoso tende a proteggersi da tale intensità, sviluppando “difese” che mantengono la separazione e la frammentazione interna. Tali difese possono essere definite “fobie”, termine che può includere un senso di rifiuto, di paura, di spinta ad escludere e/o eliminare tali aspetti del sé dalla propria esperienza quotidiana.

Il meccanismo di sopravvivenza, che salva il cervello nelle situazioni acute, si mantiene attivo anche dopo che il pericolo è passato, continuando ad escludere dalla coscienza (emotiva, somatica e/o cognitiva) alcune parti del sé, che intensificano ulteriormente la loro esperienza implicita, entrando a forza nel vissuto del paziente, che è costretto a ri-sperimentare tali ricordi, benché sia impegnato ad escluderli dalla coscienza (Baita, 2018).

In psicoterapia abbiamo appreso a lavorare con le fobie, in altre parole le difese psichiche che proteggono il funzionamento quotidiano del paziente, attraverso l’approccio progressivo con l’EMDR (Gonzalez e Mosquera, 2016), includendo anche le preziose indicazioni cliniche di Janina Fisher (2017) e di Robin Shapiro (2017). Le strategie più efficaci possono essere riassunte nel promuovere la dis-identificazione della persona da ciò che sente, proponendo di considerare tale esperienza intensa come una parte di sé. Questo si fa provando a rappresentarla con un oggetto, un disegno o un’immagine mentale, per poi poter lavorare sulla relazione della persona adulta con tale parte del proprio sistema interno. L’obiettivo sarà promuovere il riconoscimento, la curiosità, la consapevolezza, la comprensione, l’empatia, la compassione verso quell’aspetto del sé, in modo da favorirne la regolazione e l’inclusione nell’esperienza cosciente, in vista di un processo integrativo.

Notiamo come la modalità online non solo mantenga l’efficacia di questi strumenti terapeutici, ma tenda ad incrementarne l’effetto. Ipotizziamo infatti che la distanza fisica, ed in particolare l’esclusione di alcuni sensi, come il tatto e l’olfatto, possa far sperimentare alle persone un senso di safety maggiore anche rispetto al terapeuta in quanto altro “mammifero” potenzialmente pericoloso, soprattutto per chi ha attraversato storie di traumi complessi. Sembra che questo possa facilitare la regolazione adulta (associata clinicamente all’attivazione della corteccia prefrontale) e in qualche modo ridurre l’intensità delle fobie verso gli stati interni, cosa che permette un lavoro più immediato, rapido ed efficace.

Inoltre, il ricorso all’immagine del paziente stesso, che si ha a disposizione sui vari strumenti di videochiamata, può anche essere utilizzato come risorsa per il recupero del Sé Adulto e la presentificazione delle parti del sé, proponendo al paziente di guardarsi e di riconoscersi nella propria immagine presente.

L’utilizzo di oggetti appartenenti alla casa dei pazienti, e quindi più familiari a loro, sembra favorire la connessione empatica con l’esperienza interna; la possibilità di proporre una sperimentazione rispetto alla distanza da quell’oggetto sembra promuovere una gestione attiva e autonoma dell’oggetto stesso, che potrebbe dar luce ad un senso più profondo di empowerment nella gestione quotidiana delle sensazioni e emozioni intense o dei pensieri ricorrenti. Sembra che i pazienti si trovino a fare più lavoro per mantenersi adulti, pur portando il terapeuta nelle loro case e quindi più vicino, ma in una condizione di completo controllo del mezzo di comunicazione, come già evidenziato.

Inoltre, la possibilità di sperimentare la psicoterapia direttamente negli spazi della quotidianità del paziente, potrebbe facilitargli il consolidamento delle esperienze relazionali terapeutiche funzionali (es. adeguatezza, padronanza, protezione, regolazione), che non restano così confinate ad uno spazio “altro” rispetto alla vita di tutti i giorni, come può essere lo studio del terapeuta.

Non sappiamo esattamente quali siano i fattori in gioco, che sicuramente variano da situazione a situazione, ma in generale notiamo come questo tipo di lavoro di distinzione e collegamento dia spesso risultati di regolazione emotiva e somatica più efficaci rispetto al lavoro abituale delle sedute in vivo. Le persone riportano frequentemente di sentirsi più integrate, di gestire meglio la loro vita quotidiana, e di accedere con meno difficoltà a nuclei centrali di sofferenza. Come terapeuti abbiamo più facilmente una visione d’insieme del sistema interno dei nostri pazienti. Naturalmente questo non vale per tutte le situazioni cliniche, ma in generale possiamo spingerci ad ipotizzare che il lavoro di psicoterapia online con gli stati dell’io e le parti del sé abbia vantaggi imprevisti, da approfondire, continuare ad esplorare, mantenere ed eventualmente integrare al lavoro di psicoterapia tradizionale.

La mindfullness

La pandemia, esponendoci alla mancanza di sicurezza fisica ed economica, all’isolamento forzato e all’allontanamento sociale, alla paura e allo stress legati all’incertezza del futuro sollecita, come già evidenziato, in continuazione il nostro sistema di allarme e, in alcuni casi, tale situazione può riattivare e far riaprire vecchi dolori, aumentando il rischio di disorganizzazione emotiva.

Risulta dunque importante contrastare il senso di impotenza che si riscontra negli stati di peritraumatizzazione, la sensazione di essere trascinati dentro una situazione, coinvolti in uno stato che stimola la messa in atto di automatismi difensivi per avere la possibilità di sperimentare un senso di padronanza derivante dal sentire che stiamo partecipando in maniera attiva a una grande esperienza condivisa (Van der Kolk, 2020).

Estremamente utili le parole di Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare che ha contribuito  al diffondersi della mindfulness nella cultura occidentale, per orientarci in questo momento storico, quando definisce il dolore come

La realtà di ciò che sta succedendo, un gradiente naturale delle esperienze della vita

mentre la sofferenza come

Uno stato mentale ed emotivo determinato dal rapporto con quella realtà

e quindi una delle possibili risposte al dolore fisico ed emotivo (Kabat Zinn, 1990).

La mindfulness è una pratica di auto-osservazione che conduce ad una graduale maggiore consapevolezza di sé e della realtà in cui viviamo; è un modo di stare in interconnessione, relazione con sé stessi, con gli altri e con il mondo, con atteggiamento di curiosità, amicizia, accoglienza, apertura, lasciando risuonare quello che c’è, in modo non giudicante. Tale pratica si sviluppa partendo da una costante cura dedicata a qualità umane universali, innate intenzioni transpersonali quali la gentilezza verso sé stessi e gli altri, la compassione, la capacità di gioire con e per gli altri e l’equanimità, cioè la disponibilità e capacità di andare incontro a tutti i momenti della vita con eguale rispetto e sensibilità.

La coltivazione della mindfulness sia formale sia informale, individuale e di gruppo o inserita all’interno di un percorso terapeutico, si è rivelata, anche durante la pandemia, una pratica preziosa, un importante strumento di elaborazione della sofferenza. Essa favorisce infatti il processo di integrazione alla base del benessere psicofisico, a diversi livelli: intrapsichico, interpersonale, sociale e di connessione con il mondo.

Le pratiche meditative possono aiutare a:

  • sperimentare una sensazione di radicamento al tempo presente che dà stabilità e permette di volgere lo sguardo al futuro in termini progettuali e non ansiosi;
  • avere consapevolezza del corpo e del corpo in movimento per sentire di poter incanalare quella normale attivazione fisiologica presente in occasione di eventi stressanti;
  • calmare il corpo e trovare uno spazio interiore di tranquillità dal quale è possibile ascoltare e regolare le emozioni, i pensieri e i comportamenti;
  • favorire il decentramento e la disidentificazione con pensieri ed emozioni, migliorare la regolazione attentiva ed emotiva, riducendo ruminazione depressiva (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991) e ruminazione ansiosa (Roemer & Borkovec, 1993);
  • contrastare l’ottundimento emotivo, ovvero una risposta fisiologica normale in situazioni di emergenza che porta a distaccarsi dalla realtà al fine di evitare le emozioni che creano sofferenza. Entrare in contatto con le emozioni e i pensieri, osservandoli attraversare la nostra esperienza senza farsi travolgere da essi, permette di coglierne la natura transitoria e di scegliere di agire in modo non reattivo ma intenzionale;
  • proteggerci dal ricorrere all’utilizzo di strategie di autoregolazione disfunzionali (alcool, cibo, sostanze);
  • favorire lo sviluppo di un’embodied mind: la sollecitazione della corteccia prefrontale mediale sinistra, attivata dalla mindfulness, è alla base di un sistema mente-corpo integrato;
  • coltivare l’empatia e la compassione, assumere un atteggiamento di apertura, accoglienza e accettazione nei confronti delle proprie e altrui fragilità e di quelle parti più soggette al giudizio, migliorando la resilienza alla situazione;
  • mantenere attiva la naturale tendenza dell’essere umano alla connessione, sia con sé stessi sia con gli altri, anche se a grossa distanza, e indirizzare l’azione al mantenimento di questa connessione con i mezzi elettronici disponibili;
  • sentire un senso di appartenenza ad un gruppo con il quale condividere dei momenti di pratica a distanza; la crescita della consapevolezza, intesa come fenomeno che avviene attraverso la connessione tra sé, gli altri e il mondo, insieme alla compassione si sono rivelate un potente regolatore della facoltà morale che ci ha permesso di co-evolvere come specie.

Anche in tempo di pandemia partire da quello che è il nostro presente, ancorati ad un senso di sicurezza interno, è importante per mantenere la possibilità di scegliere e di agire in direzione del futuro.

Conclusioni

Questo articolo nasce dal confronto fra psicoterapeuti che hanno vissuto, per la prima volta nella storia umana, l’esperienza del proprio lavoro in un contesto di pandemia.

A fronte di un impoverimento dato dall’impossibilità di una relazione in presenza, la nostra flessibilità e capacità di adattamento come esseri umani hanno permesso alla relazione terapeutica di andare oltre il distanziamento sociale.

La condivisione di riflessioni cliniche ha fatto emergere vantaggi inaspettati e sorprendenti, ci ha spinto a conformare e co-costruire nuove modalità e strumenti terapeutici, ma richiede ulteriori approfondimenti e sviluppi di ricerca sull’efficacia a medio e lungo termine.

 

Soddisfazione sessuale e body image: differenze a seconda dell’orientamento sessuale

Un articolo di Frontiers in Psychology, pubblicato di recente, si è focalizzato sull’indagine delle differenze che intercorrono tra eterosessuali, bisessuali e omosessuali nella soddisfazione sessuale legata all’immagine corporea (Moreno-Domìniguez et al.,2019).

 

In letteratura sono presenti numerosi studi che dimostrano quanto le donne soffrano la pressione di avere un corpo perfetto che rientri negli standard imposti dalla società (es. Wade and DiMaria, 2003); questo ha naturalmente delle ripercussioni sull’autostima e sulla scarsa soddisfazione che, attualmente, è stata principalmente indagata in donne eterosessuali (Rodin et al., 1984). Tuttavia, la mole di studi relativi alle differenze tra donne eterosessuali e donne omosessuali non è ancora sufficiente a sottolineare le differenze nel body image tra i due gruppi: infatti, alcuni studi dimostrano che non vi siano differenze significative (es. Yean et al., 2013), mentre altri affermano che le donne omosessuali soffrano meno il peso del giudizio sociale riguardo al proprio corpo (es Leavy et al., 2012).

Questa contraddizione potrebbe essere dovuta al fatto che le donne omosessuali sono state sempre considerate come un gruppo omogeneo ed erroneamente non siano state adeguatamente analizzate le differenze esistenti tra i singoli individui: le donne omosessuali che mostravano più tratti ‘tipicamente femminili’, come suggerisce una ricerca di Henrichs-Beck e Szumanski (2017) avevano più possibilità di soffrire per un’immagine corporea negativa rispetto a quelle con tratti più ‘mascolini’.

Una spiegazione per la quale le donne eterosessuali potrebbero subire più pressioni sociali rispetto alla forma del proprio corpo è la frequente oggettificazione sessuale di cui sono vittime, solitamente più spesso delle donne omosessuali (Fredrickson & Roberts, 1997).

I risultati della letteratura suggeriscono inoltre che più una donna è insoddisfatta del proprio corpo, più è probabile che lo sia a livello sessuale. Anche in questo caso però, gli studiosi si sono concentrati principalmente su campioni eterosessuali e i pochi studi sulle donne appartenenti a minoranze sessuali hanno escluso le donne bisessuali (Henderson et al., 2009).

Il presente studio (Moreno-Domìniguez et al., 2019) si poneva l’obiettivo di indagare quanto l’immagine corporea fosse correlata all’insoddisfazione sessuale vissuta da donne bisessuali, omosessuali ed eterosessuali: lo scopo era quello di determinare se l’insoddisfazione corporea fosse in grado di predire l’insoddisfazione sessuale e se esistessero differenze per orientamento sessuale. L’ipotesi degli autori era che le donne bisessuali soffrissero meno l’insoddisfazione per i loro corpi rispetto alle donne eterosessuali e omosessuali in seconda battuta.

Tramite un questionario online, sono state reclutate 354 donne, 156 eterosessuali, 79 bisessuali e 78 omosessuali. Sono state prese in considerazione variabili demografiche, la frequenza media dei rapporti sessuali, il peso corporeo e domande riguardo la soddisfazione del proprio corpo.

I risultati hanno mostrato che non vi erano differenze statisticamente significative riguardo la soddisfazione sessuale nei tre gruppi né nella soddisfazione riguardo al proprio corpo. Tuttavia, le preoccupazioni riguardo alla forma del corpo avevano una maggior influenza sulla soddisfazione sessuale per le donne eterosessuali e bisessuali rispetto a quelle omosessuali.

La terapia online durante e dopo l’emergenza CoVid-19: una survey per indagare l’operare dei terapeuti ** PARTECIPA ALLA RICERCA **

La psicoterapia online durante e dopo l’emergenza sanitaria: una survey per indagare l’operare dei terapeuti.

 

Fino a qualche mese fa la psicoterapia online era poco diffusa. Negli USA un sondaggio del 2018 ha rilevato che meno della metà dei terapeuti eroga prestazioni psicologiche in teleterapia e di questi la maggior parte predilige il telefono o l’email rispetto alla modalità di videochiamata. In Europa si stima che solo il 30% ne faccia utilizzo.

Con lo scoppio della pandemia e le conseguenti misure di contenimento adottate dal Governo, i terapisti hanno dovuto trovare un’alternativa per non lasciare i propri pazienti senza supporto. Pertanto molti hanno deciso di proseguire l’attività clinica online grazie all’utilizzo di strumenti di videochiamata.

Questo cambio di modalità ha avuto delle ripercussioni sul modo di organizzare e condurre le sedute? E se sì, quali?

Per rispondere a queste domande, Studi Cognitivi, network di Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, ha deciso di effettuare un sondaggio anonimo tra i terapeuti per indagare come abbiano gestito il passaggio dalla terapia in studio alla modalità online e i cambiamenti che questo ha comportato. (Sei un paziente? Partecipa al sondaggio anonimo che indaga l’esperienza vissuta dai pazienti)

Infatti in un percorso psicoterapeutico giocano un ruolo importante fattori quali il setting, gli aspetti tecnici e la relazione terapeutica. La modalità con cui viene svolta la psicoterapia, dal vivo oppure online, può influenzare questi fattori e di conseguenza il modo di operare del terapeuta.

Il breve questionario richiede al terapeuta di soffermarsi su diversi aspetti cardine della sua attività, come per esempio l’organizzazione del setting, la scelta delle tecniche da utilizzare, la gestione del tempo in seduta, la relazione con il proprio paziente, la capacità di concentrarsi, l’efficacia degli interventi e gli eventuali progressi percepiti.

Partecipare al sondaggio significa dare un contributo importante alla ricerca scientifica in ambito clinico poiché i dati raccolti forniranno indicazioni preziose che permetteranno di migliorare il lavoro dello psicoterapeuta e l’efficacia complessiva della psicoterapia stessa.

 

SE SEI UN TERAPAEUTA E NEL CORSO DELL’EMERGENZA SANITARIA HAI EFFETTUATO PERCORSI PSICOTERAPICI ONLINE CON I TUOI PAZIENTI, PARTECIPA ALLA RICERCA:


Sei un paziente? Partecipa al sondaggio anonimo che indaga l’esperienza vissuta dai pazienti

Il disturbo ossessivo compulsivo: le ricerche genetiche, neurobiologiche ed immunologiche

Il disturbo ossessivo-compulsivo è un disturbo a genesi complessa. Sono numerose le ricerche sugli aspetti genetici, neurobiologici ed immunologici del DOC. Questi aspetti, uniti alla considerazione dei fattori psicologici e al contributo dell’epigenetica, hanno chiarito la multifattorialità nell’eziologia di questo disturbo.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo o DOC è caratterizzato da pensieri (ossessioni) e comportamenti (compulsioni) ripetitivi, vissuti come intrusivi e spiacevoli da parte del soggetto che ne soffre.

Il DOC ha un’incidenza del 2%-2,5% nella popolazione generale e dopo la depressione, l’ansia e le dipendenze, rappresenta uno dei disturbi psichici più diffusi al mondo. Colpisce gli uomini in percentuale leggermente superiore alle donne. Nel 50% dei casi i primi sintomi si osservano già in età infantile, se questi persistono oltre la pubertà è piuttosto difficile assistere ad una guarigione spontanea.

Attualmente si ritiene che tale disturbo abbia un’eziologia multifattoriale. Vi sono fattori genetici, neurobiologici e psicologici, quali l’educazione rigida, le situazioni di forte impatto emotivo e la difficoltà nel gestire lo stress, che determinano la comparsa e la persistenza di questa patologia.

Numerosi sono gli studi scientifici che riguardano gli aspetti genetici, neurobiologici ed immunologici del DOC.

Le prime ricerche a favore di un’ipotesi genetica risalgono agli anni ’30 del secolo scorso e si basano sullo studio dei familiari dei pazienti. Le ricerche sulla familiarità sono state condotte nel tempo, esaminando campioni eterogenei per consistenza e composizione, la maggior parte degli studi concorda nel ritenere che il tasso di rischio per DOC nei parenti di primo grado oscilli tra il 10% ed il 20%.

Gli studi sui gemelli si basano sulla distinzione tra gemelli monozigoti, che hanno lo stesso patrimonio genetico, e gemelli eterozigoti che condividono solo il 50% del patrimonio genetico. In ogni caso si presume che in entrambi i tipi di gemelli, l’ambiente e le relazioni parenterali siano identiche. Il primo importante studio sui gemelli risale al 1965 quando fu condotta l’analisi di una serie di casi singoli con il dato di una più alta concordanza per il disturbo ossessivo fra i gemelli monozigoti, rispetto ai dizigoti, dato che è stato confermato dagli studi successivi.

E’ interessante l’associazione esistente tra sindrome di Tourette, disturbo caratterizzato dalla presenza di tic motori e fonatori incostanti, e DOC. Questa comorbidità ha portato a ritenere che i due disturbi possano rappresentare l’espressione di un’alterazione di uno stesso gruppo di geni. Circa il 50% dei soggetti con sindrome di Tourette presenta un DOC e oltre la metà dei bambini e degli adolescenti con DOC, in un momento della vita, sviluppa tic più o meno gravi.

Uno studio condotto da Elinor K. Karlsson e Kerstin Lindblad-Toh del Broad Institute di Cambridge, negli Stati Uniti, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature Communications (2017), ha individuato quattro geni che con altissima probabilità hanno un ruolo causale nella genesi del DOC. In particolare si tratta di alcune varianti dei geni NRXN1 e HTR2A, del gene CTTNBP2  e del gene REEP3 che regola il comportamento delle vescicole cellulari in cui si accumulano i neurotrasmettitori da rilasciare nelle sinapsi.

Gli studi neuroscientifici in ambito psichiatrico hanno permesso di individuare i circuiti neuronali coinvolti nella fisiopatologia del DOC. Gli strumenti utilizzati in quest’ambito sono stati soprattutto quelli di neuroimaging. Il principale circuito evidenziato è quello fronto-striatale-talamico. Le evidenze indicano un’iperattivazione della corteccia orbito-ventro-mediale che è responsabile del perdurare delle rappresentazioni emozionali e provoca un affaticamento a livello dei nuclei caudati, questi sembrano essere in grado di inibire l’ideazione ossessiva ed il comportamento compulsivo. Inoltre sono state evidenziate, nei soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo, anomalie a livello dell’ippocampo e dell’amigdala. Il circuito amigdalo-corticale ha un ruolo specifico nell’espressione e regolazione della paura. In conclusione ossessioni e compulsioni sono legate ad una disfunzione del circuito fronto-striatale-talamico e del circuito amigdalo-corticale.

Uno dei principali neurotrasmettitori utilizzati nella comunicazione tra corteccia celebrale e strutture sottocorticali quali i nuclei caudati, l’ippocampo e l’amigdala è la serotonina. L’utilizzo di farmaci attivi nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo risale agli anni ’80 del secolo scorso, il primo farmaco ad essere utilizzato fu la cloripramina. Alla luce delle attuali evidenze la terapia con inibitori del re-uptake della serotonina, sia selettivi che non, rappresenta la prima scelta farmacologica nel trattamento del DOC.

Esistono, infine, vari studi che valutano il legame tra le infezioni streptococciche e lo sviluppo dei sintomi del DOC e dei tic. E’ stato ipotizzato che l’infezione da streptococco sia in grado di provocare, in soggetti predisposti, una produzione anomala di autoanticorpi capaci di legarsi alle cellule neuronali, provocando alterazioni a carico dei gangli della base. Il termine PANDAS, indica un gruppo di pazienti in cui si verifica l’insorgenza o l’esacerbazione brusca dei sintomi del DOC o di tic, o entrambi a seguito di infezioni da streptococco. Gli studi di neuroimaging hanno mostrato nei PANDAS aumenti di volume in corrispondenza dei nuclei della base. Il coinvolgimento del sistema immunitario è indicato anche dalla presenza di alterazioni quantitative di TNF-alfa, IL-6 e IL-1, molecole implicate nei processi infiammatori, nel siero dei pazienti con DOC e sindrome di Tourette.

Ad aprile 2020 sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Brain Behaviour and Immunity i dati di un lavoro di un team di ricercatori coordinati dall’Università di Roehampton e dalla Queen Mary University, a cui hanno partecipato anche studiosi delle Università di Teramo e Milano. Questa ricerca ha evidenziato un’alta presenza di Imood nei linfociti dei pazienti con DOC. Si tratta di una proteina che si trova nelle cellule immunitarie e che rappresenta, secondo lo studio, un tratto distintivo di chi soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo.

Sono molte e varie le evidenze riguardo gli aspetti eziologici del DOC. Il gran numero di dati, che si riferiscono ad aspetti differenti, rafforza il convincimento che questo sia un disturbo a genesi multifattoriale.

Sono ormai noti i legami tra espressione genica ed esperienze ambientali e psichiche, indagati dall’epigenetica. Secondo la visione classica il genoma è un codice fisso nel quale si possono verificare delle mutazioni. In realtà i nostri geni possono, a seconda delle condizioni, essere espressi oppure rimanere silenti. Tutto ciò può determinare la comparsa di uno stato patologico o al contrario contribuire al mantenimento dello stato di salute. Gli stimoli ambientali, psicologici e culturali funzionano da attivatori o disattivatori dell’epigenoma, questo meccanismo appartiene alla genesi del DOC e di numerose altre patologie.

 

Il Dr Google dice che si è affetti da “Cybercondria”

I ricercatori hanno notato che vi è correlazione tra ansia riguardo la propria salute e l’ipocondria, tale per cui le ricerche online su argomenti relativi al proprio stato di salute possono indurre elevata paura e ansia. Il fenomeno della cybercondria.

 

A seguito della Rivoluzione digitale, la ricerca di informazioni circa la salute fisica e psichica è la terza attività su Internet (Fox, 2013). Anche se Internet e, nello specifico Google come motore di ricerca, risulta una fonte preziosa per ricercare informazioni mediche, il risultato è da un lato l’aumento di ansia, della paura o di comportamenti ossessivo-compulsivi, soprattutto in personalità tendenzialmente fobiche (Aiken, Kirwan, Berry & O’Boyle, 2012; Norr, Albanese, Oglesby, Allan, & Schmidt, 2015). Dall’altro, il rischio di affidarsi al dottor Google è quello dell’autodiagnosi. Numerosi all’interno del cyberspazio sono, infatti, forum medici e psicologici in cui gli stessi utenti, senza competenze, si confrontano su sintomi e casistiche di malattie, dimenticando tutta la dimensione soggettiva.

In particolare, i ricercatori hanno notato che vi è correlazione tra ansia riguardo la propria salute e l’ipocondria, tale per cui, le ricerche online su argomenti relativi al proprio stato di salute possono indurre elevata paura e ansia (Aiken et al., 2012). Questi collegamenti hanno portato ad una concettualizzazione del termine “cybercondria”, con il quale ci si riferisce ad un’escalation di preoccupazioni sulla sintomatologia mentale o fisica dipendente dalla recensione dei risultati della ricerca online (Starcevic & Berle, 2013; White & Horvitz, 2009). A livello terminologico, ‘cybercondria’ deriva dalla contrazione tra ‘cyber’ e ‘ipocondria’.

La ricerca di informazioni sulla propria salute tramite Internet, però, può avere effetti positivi e negativi sulle persone. I forum online possono essere efficaci nella condivisione, ad esempio, incentivando le persone nel fare maggiore esercizio fisico o nell’adottare abitudini alimentari più sane, o nell’aderire alla terapia farmacologica: in questi casi la ricerca di informazioni sullo stato di salute su Google può portare a risultati positivi (Mcelroy & Shevlin, 2014).

Al contrario, tali sforzi nella ricerca di informazioni potrebbero aumentare l’incertezza legata alla diagnosi, oppure le preoccupazioni circa l’accuratezza, la pertinenza e l’affidabilità di informazioni: questi sono gli effetti negativi (Starcevic & Aboujaoude, 2015). Inoltre, Norr et al. (2015) hanno suggerito che la sensibilità all’ansia e l’intolleranza verso situazioni di incertezza sono potenziali fattori di rischio per i cybercondriaci (Norr, Albanese, Oglesby, Allan, & Schmidt, 2015).

La Cybercondria, quindi, è uno stato di allarme elevato concernente il disagio per quanto riguarda il proprio stato di salute a causa di ricerche di informazioni mediche nel contesto virtuale (McElroy & Shevlin, 2014). Dalla teorizzazione di cybercondria, si nota immediatamente come la ricerca di informazioni, da un lato ha una funzione rassicurante, dall’altro, la persona entra in un circolo vizioso, in cui non si accontenta delle informazioni raccolte e quindi intensifica la ricerca, al fine di verificarne anche la veridicità e l’accuratezza.

A tal proposito, è stato costruito uno strumento di valutazione della cybercondria, denominato Cyberchondria Severity Scale (CSS). Il CSS (McElroy & Shevlin, 2014) è composto da 33 item e cinque sottoscale:

  1. Ossessione,
  2. Distress,
  3. Eccesso nella ricerca,
  4. Ricerca di rassicurazione,
  5. Sfiducia nel professionista medico.

Lo strumento risulta avere buone proprietà psicometriche (Selvi et al., 2018). L’attenzione a questa nuova dimensione dell’ipocondria consente di occuparsi non solo della salute fisica, ma anche psichica delle persone, soprattutto in periodi di emergenza sanitaria, come quella vissuta in relazione al Covid19.

 

Le emozioni dei nostri figli: come far emergere le emozioni nascoste e imparare a gestirle insieme (2020) di F. Celi – Recensione del libro

Le emozioni dei nostri figli: come far emergere le emozioni nascoste e imparare a gestirle insieme, questo il titolo dell’ultimo libro di Fabio Celi, docente di Psicologia Clinica all’Università di Pisa e di Psicologia dello sviluppo all’Università di Parma.

 

Il prof. Celi, psicologo e psicoterapeuta esperto del trattamento dei disturbi dell’età evolutiva, è direttore del Master di Psicopatologia dell’Età Evolutiva presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale a Firenze; come allieva ne ammiro l’altissima competenza tecnica quanto il garbo con cui ci avvicina all’intima comprensione dei suoi pazienti più piccoli.

Insegnare significa trasmettere contenuti di valore, ma anche valori affettivi e relazionali. L’attenzione empatica sempre riservata dal prof. Celi all’ascolto dei più piccoli fa sì che la comprensione clinica e tecnica non dimentichi mai la centralità e l’unicità del piccolo paziente. Questo è a mio avviso ciò che ha sempre reso le lezioni del prof. Celi momenti di grande crescita professionale e umana. Ed è questo che è stato capace di trasferire anche in questo in libro.

Il libro da poco pubblicato è ricco di esempi tratti dalla pratica clinica e offre preziosi approfondimenti su temi di rilievo della psicologia dell’età evolutiva, nello specifico sui processi di regolazione emotiva nei bambini.

Il libro si snoda come un viaggio, Celi prende per mano il lettore (sia esso il genitore, l’insegnante o lo psicologo) e lo accompagna alla scoperta nel mondo delle emozioni dei bambini.

Quanto per i piccoli sia difficile riconoscere e esprimere le proprie emozioni e quanto sia complesso il processo che li rende capaci poi di regolarle Celi lo spiega con cura e perizia.

Il libro, che nel titolo si rivolge ai genitori, è anche un utile strumento per gli addetti ai lavori (psicologi, pedagogisti): a loro spesso spetta il compito di descrivere in modo comprensibile e chiaro, a genitori e a insegnanti, cosa accade nella mente dei piccoli pazienti.

Il libro è un esempio di come lo si possa fare in modo chiaro ed efficace.

Questo grazie anche l’inserimento, all’interno delle pagine di testo, di link a cartoni animati presenti in rete (in particolare sul canale You Tube). Si tratta di una soluzione pratica ed efficace per favorire la comprensione dei temi affrontati, rendendoli intuibili attraverso l’uso delle immagini e dei dialoghi fra i personaggi dei cartoni più noti ai bambini.

I link ai video, oltre a rendere al genitore chiaro e comprensibile quanto descritto, forniscono un utile supporto visivo per coinvolgere anche il bambino.

Guardando un cartone animato assieme e parlando di quanto accade nel corso della narrazione risulta più semplice e meno intrusivo per il bambino riflettere e confrontarsi con l’adulto su temi emotivamente coinvolgenti.

La tesi da cui il libro parte è ben descritta dal prof. Celi:

quando cerchiamo di bloccare le emozioni,
quello che blocchiamo in realtà è la loro regolazione

come un oggetto in acqua

un’emozione riceve una spinta dal basso verso l’alto
pari alla forza impiegata per cercare di reprimerla.

Cosa significa questo?

Ascoltare con attenzione le emozioni dei bambini significa favorirne l’espressione: parlare e descrivere le proprie emozioni le rende più comprensibili. Questo vale per gli adulti ma soprattutto per i bambini, che devono imparare prima a riconoscere e poi a regolare le proprie emozioni.

Il libro si divide in due parti, la prima dedicata alle emozioni “nascoste”, la seconda dal titolo a “Convivere con le emozioni”.

Capitolo 1 – In fuga dalle emozioni

Perché è difficile parlare di ciò che fa star male e crea sofferenza? Perché noi esseri umani siamo naturalmente portati ad allontanare il dolore evitando la sofferenza. A maggior ragione quella dei nostri bambini.

Evitare le emozioni non significa cancellarle; evitare di prendere l’aereo perché si ha paura di volare risolve il problema temporaneamente, lo sposta solo in avanti, rimandando a un futuro indefinito il momento in cui provare a fronteggiare la situazione temuta.

Evitare un problema è una soluzione per certi aspetti semplice e immediata ma scrive Celi “chiudere gli occhi e le orecchie per cercare di sopravvivere al dolore” ci impedisce di affrontare gli ostacoli che inevitabilmente incontriamo nel nostro percorso di vita.

È legittimo provare paura in situazioni difficili perché siamo programmati filogeneticamente per attivarci quando ci troviamo di fronte a un pericolo inaspettato. Se però la paura si manifesta anche quando il pericolo non è reale o è solo circoscritto, si possono manifestare nei bambini reazioni e comportamenti apparentemente incomprensibili e disfunzionali. L’intenzione di correggere questi comportamenti può indurre i genitori a mettere in atto azioni correttive che possono diventare punitive.

È possibile vivere le emozioni senza evitarle o senza punire i comportamenti che nascono da queste emozioni?

Capitolo 2 – Quando le emozioni non trovano sfogo

L’esempio della pentola a pressione: la valvola della pentola, quando la pressione è alta, fischia e genera un suono acuto che può essere fastidioso. Se però la valvola non si attivasse e non emettesse alcun sagnale acustico, la pentola sarebbe pericolosa: rischierebbe di esplodere da un momento all’altro.

Partendo da questo pratico esempio il Prof. Celi ci descrive gli intoppi “emotivi” che possono impedire alla valvola di attivarsi correttamente:

  • Fretta: per conoscere e riconoscere le emozioni occorre tempo, soprattutto in una quotidianità in cui gli impegni si accavallano l’un l’altro e la frenesia rischia di togliere spazio alla noia che consente ai bambini di riflettere
  • Senso del dovere: quando il pensiero “non deve assolutamente accadere” prende il posto del pensiero più realista “sarebbe preferibile che non accadesse”, ciò che è molto fastidioso diventa intollerabile;
  • Vedere un bambino triste o arrabbiato può essere penoso per un genitore: il bambino può di conseguenza sentirsi in dovere di celare il proprio malessere, per non vedere il genitore proccupato.
  • Non validare le emozioni vs Validare le emozioni: se ho paura e mi dici “non devi avere paura”, io posso pensare che la mia emozione sia sbagliata, perché è “sbagliato” avere paura.
  • La paura di perdere il controllo ci fa perdere il controllo realmente: non sono le emozioni a creare disagio, ma l’impossibilità ad esprimerle.

Capitolo 3 – Alla ricerca delle emozioni perdute

Possiamo intuire il disagio emotivo di un ragazzo o di un bambino ma spesso comprendere da cosa deriva può essere complicato. Comprenderlo richiede infatti più abilità: posso esprimere ciò che provo solo dopo averlo riconosciuto.

È possibile farlo solo imparando, oltre al linguaggio verbale, anche il linguaggio delle emozioni; è compito degli adulti aiutare i bambini a conoscere le proprie emozioni guidandoli nel processo di alfabetizzazione emotiva.

Da dove partire per insegnare ai bambini a conoscere e riconoscere le proprie emozioni?

  • Il linguaggio del corpo comunica informazioni preziose su come ci sentiamo in un determinato momento e in una particolare situazione; prendere confidenza con i segnali che il corpo ci manda è un primo importante passo.
  • I disegni sono una delle forme più spontanee di espressione dei bambini; è utile imparare ad osservarli senza la pretesa di porre etichette diagnostiche: ogni disegno contiene informazioni preziose che ci parlano delle emozioni di un bambino (la dimensione e il tipo di immagini, i colori, le forme, il temi scelti)
  • I giochi spontanei raccontano molte cose dei bambini perché poche cose sono serie per un bambino come lo è un gioco. E’ nel gioco che il bambino esprime il proprio mondo interno, dando vita alle fantasie e alle paure; nel gioco il bambino può “far dire” a un personaggio ciò che pensa senza temere di essere giudicato per questo.

Dopo avere fatto maggiore chiarezza sulle emozioni, occorre imparare a conviverci, soprattutto con quelle meno piacevoli.

Capitolo 4 – Conosci te stesso

Per aiutare il bambino a familiarizzare con le proprie emozioni, l’adulto deve prima fare altrettanto con le proprie.

Un genitore vive tre tipi di emozioni:

  • Le emozioni positive: esercitarsi a riconoscerle, soffermandosi sul momento attuale e apprezzandole aiuta il bambino a coglierne il valore, senza darle mai per scontate;
  • Le emozioni negative: cercare di riconoscerle aiuta a non esserne travolti. Può essere utile sapere che la nostra mente commette spesso e in modo automatico errori logici nell’interpretazione della realtà. Questi errori ci possono indurre a trarre conclusioni errate e quindi ad agire in modo non solo logico. Esistono diversi tipi di errori automatici:
    Pensieri irrazionali che come i virus informatici impediscono al ragionamento di procedere secondo un criterio logico;
    Pensieri dicotomici che ci mostrano la realtà in bianco e nero. Non esiste il bene o il male, ma una gradazione infinita di sfumature fra questi due estremi, come per i colori in un arcobaleno;
    I giudizi netti rassicurano a volte ma non sono obbiettivi né rappresentativi della realtà;
  • Le emozioni legate a situazioni oggettive che non possiamo cambiare: commettiamo errori di giudizio, ma siamo capaci di valutare una situazione come oggettivamente complessa. Un bambino con un disturbo dell’apprendimento fa più fatica nei compiti scolastici di quanto ci si potrebbe aspettare. A volte negare un evento reale è più doloroso che accettarlo: non significa rassegnarsi alla passiva rinuncia ma diventare consapevoli del fatto che combattere, contro qualcosa che non si può cambiare, disperde le energie e aumenta la sofferenza.

Capitolo 5 – Ascoltare davvero

Giudicare non è ascoltare, e l’ascolto dovrebbe essere per quanto possibile attivo e non distratto.

I passi per tentare di farlo (e magari riuscirci):

Capisco cosa stai dicendo:

  • Ascoltare usando le risposte riflesse
  • Sospendere il giudizio che blocca la comunicazione
  • Accettare attraverso l’empatia

Capisco cosa stai provando:

  • Approfondire il livello di ascolto sintonizzandosi con le emozioni del bambino

Proviamo a vedere le cose in modo diverso:

  • La ristrutturazione cognitiva attraverso il metodo APE
  • Fare buon uso del modellamento: i bambini imparano osservando il comportamento degli adulti, anche nel modo di relazionarsi e gestire le proprie emozioni;

Capitolo 6 – Giochiamo insieme

Per aprire nuovi canali di comunicazione con i bambini le opportunità non mancano e anche situazioni abituali possono diventare un momento di riflessione condivisa sulle emozioni.

Alcune di queste opportunità sono:

  • Disegnare
  • Il teatro dei burattini
  • Le favole
  • I film
  • I videogiochi

Capitolo 7 – Acqua, fuoco e virgole buone

Pensieri, emozioni e comportamenti sono in un rapporto di continua e reciproca influenza. Ma in che modo i pensieri influenzano le emozioni?

Il modo in cui vediamo e interpretiamo gli eventi che ci accadono condiziona le nostre emozioni: è il significato che attribuiamo a una situazione che ci porta ad avere una reazione emotiva di un certo tipo e quindi un comportamento congruo con quella emozione.

Quando i comportamenti dei bambini nonostante i tentativi di riflessione condivisa continuano ad essere inadeguati è giusto intervenire? Se sì come?

Le regole dovrebbero essere poche, chiare, condivise ed espresse in positivo ogni volta che è possibile.

Così scrive Celi, ma quando questo non basta può essere necessario ricorrere alla punizione. Occorre però tenere a mente che esiste la possibilità di punire un comportamento sbagliato, ma preventivamente anche quella di rinforzarne uno corretto ed adeguato.

Capitolo 8 – Cercare una soluzione assieme

I Cavalieri della Tavola Rotonda si riunivano attorno a un tavolo a cercavano assieme una soluzione al problema: questo è quello che ancora oggi propone di fare il metodo del circle time.

Sedersi assieme ed esprimere tutte le idee che vengono in mente senza censura: questa è un’idea per iniziare assieme a trovare soluzioni nuove per un problema.

Il metodo del circle time è il primo passo per insegnare ai bambini ad afforntare le loro piccole e grandi sfide. La tecnica del problem solving insegna loro successivamente ad affrontare e gestire una situazione problematica secondo fasi sequenziali e definite.

  • Riconoscimento del problema
  • Pianificazione del problema
  • La tempesta o brainstorming
  • La decisione
  • Come è andata?

Queste fasi che si succedono, spiega Celi, non sono necessariamente risolutive del problema fin dalla prima loro applicazione. A volte occorre ripartire da capo finché non si è trovata una soluzione adeguata e soddisfacente. Non bisogna mai dimenticare che accettare un insuccesso è importante tanto quanto riuscire, perché anche sbagliando si impara a fare sempre meglio.

 

 

Da mamma a donna andata e ritorno

In questa fase, molte donne lamentano la fatica di conciliare la vita di mamma, lavoratrice con i figli in casa, e casalinga. La donna sta mostrando un’urgenza di esprimersi, di mettere in luce i propri bisogni, di fermarsi e guardare le proprie fragilità.

 

Il tempo ha assunto altre forme e altro significato. Tutto ciò che andava di fretta ha rallentato. La mattina, i caffè sembrano più lenti, le notti hanno uno strano silenzio e le voci delle case piene rimbombano nei cortili….è un tempo sospeso. Le voci, pianti di bambini, grida di ragazzi e normali litigi familiari riempiono le finestre e l’intimità quasi perde i confini. Il linguaggio si disinibisce, e sembra che poco importi se i nostri pensieri confidati a un amico diventino di dominio pubblico o di condivisione al di fuori delle mura domestiche.

Tutto sembra andare più lento. Dalla pandemia, quel tempo riempito con mille impegni all’improvviso si è liberato e ha lasciato spazio a riflessioni e possibili piaceri. E in questa fase vorremmo andare a ricercare quel « guscio » del tempo sospeso, vorremmo riassaporarne le emozioni. E di nuovo ci sembra di non aver approfittato abbastanza e di dover ripartire di nuovo.

La donna, mamma, consacrata ad assumere sempre di più le sembianze di Wonder Woman ha mostrato la sua debolezza e, ancor più nella fase 2, l’ha mostrata spudoratamente ai propri figli.

Da svariati anni la donna ricopre il ruolo di mamma, casalinga, lavoratrice, ruoli che convivono con grande fatica, facendo sì che la qualità del tempo dedicato ad ogni ruolo venga meno. Nel tempo la donna « in carriera » si è fatta supportare da altre figure per assolvere i propri doveri. E’ diventata una mamma multitasking e manager della propria famiglia. Pianifica i tempi e le mansioni di donne delle pulizie, baby sitter, nonni, gestisce sport, compiti, feste degli amichetti, chat delle mamme. La donna lavoratrice ha sempre di più imparato a delegare e organizzare, con l’affanno e la sottile lamentela di non poter dedicare tempo sufficiente ai propri figli a causa del lavoro.

La pandemia ha messo in luce un nuovo aspetto, più inconscio, più segreto, più tabù, ma più reale. La donna non vuole occuparsi solo dei figli, ma vuole anche lavorare e desidera anche fare altro che la distragga dal suo essere solo madre. Dietro a quella parola, lavorare, c’è la libertà della donna, non solo in termini di indipendenza economica, ma anche in termini di spazi vitali, di benessere e di stima personale.

L’essere madre non può e non deve uccidere l’essere donna.

Infiniti post, vademecum, associazioni, ribadiscono come gestire i figli in questo momento. Trascorrere del tempo con loro, approfittare e godere di questo momento, svolgere delle attività insieme. Le prime due settimane sono state un susseguirsi di attività inventate dal genitore che è diventato animatore delle giornate del proprio figlio. Così, per molti, questa fase di entusiasmo è stata spazzata via da una nuova fase, quella della quale nessuno osa parlare, forse per pudore o per vergogna. Tutti hanno avuto modo di riscoprirsi insieme, di scoprirsi nucleo, ma tutti e ancor più la donna, sentono un gran bisogno di sentirsi individuo.

La madre, per istinto naturale funge da contenitore delle angosce del bambino. L’holding (Winnicott) è la capacità della madre di saper intervenire in maniera istintiva dando amore e sapendosi mettere da parte quando il bambino non ha bisogno di lei.

La donna in questo momento non vuole sentirsi pilastro della famiglia, non vuole sentirsi primo punto di riferimento, ha bisogno di essere supportata e sostenuta, fa fatica ad utilizzare la capacità di holding.

…… Accade spesso che i bambini tra i tre e cinque anni perdano le staffe, e riescano ad essere particolarmente riottosi nei confronti delle loro madri. Quando la pazienza della madre è messa a dura prova c’è sempre qualcuno che con calma porta via di peso il bambino da un’altra parte, consentendo così alla madre di continuare a fare quello che stava facendo. La pronta disponibilità di altre persone significa che la madre non può essere tormentata dal figlio, fino al punto di perdere il controllo di sé……. (Montagu, A.)

In questa fase, molte donne lamentano la fatica di conciliare la vita di mamma, lavoratrice con i figli in casa, e casalinga. Sono spesso ricorrenti i sogni di non riuscire a parlare, di sentirsi intrappolate, di non riuscire a camminare o a muoversi. Sono tutti sintomi di un’urgenza di esprimersi, di mettere in luce i propri bisogni, di fermarsi e guardare le proprie fragilità.

La castrazione di ritagliarsi dei luoghi intimi per poter fare quella telefonata all’amica, porta all’asfissia e all’esasperazione, che vengono messe in atto con un linguaggio più schietto e più spudorato anche davanti ai figli.

In questi mesi, le mamme hanno avuto a che fare con le ansie legate al possibile “trauma” che stanno vivendo i figli, hanno rimboccato le coperte, si sono svegliate nel cuore della notte per rassicurare il figlio da un incubo, si sono svegliate prima di tutti per lavorare, hanno accompagnato i propri figli alle porte dei sogni, hanno provato a dare regole e si sono sentite in colpa quando hanno ceduto. Ma in tutto questo fare non hanno trovato spazio per “poter essere”.

Questa realtà è stata camuffata, nascosta. Non c’è stato spazio per uno sfogo che mostrasse la propria fragilità, non c’è stata una comunità che ha accolto questo malessere.

 Abbiamo tutte questo utero che ci rende tutte fragili, tutte accoglienti anche quando a noi della maternità non ce ne frega niente.

Questa frase provocatoria gridata dall’ultimo monologo di Anna Foglietta, non abolisce o denigra il desiderio di maternità, ma ribadisce che le donne sono oltre il solo essere mamme, sono individui e in quanto tali hanno bisogno di spazi, di autonomia per ricaricarsi.

Nei branchi di lupi, la femmina allatta i cuccioli e gli altri lupi le procurano il cibo, la proteggono affinché possa continuare ad allevare la prole. (Radinger, E.)

In questo momento di fragilità sociale, sanitaria ed economica si dovrebbe tutelare maggiormente la figura della donna. Le si dovrebbero fornire strumenti e mezzi affinché possa recuperare forza ed energia e continuare ad essere il grembo del futuro.

La donna deve cercare all’interno di se stessa delle risorse personali, per non lasciarsi affogare. Deve imparare a delegare e non deve sentirsi imperfetta o sbagliata perché ricorre all’aiuto di un professionista. È fondamentale che la donna trovi un’armonia tra l’essere tale ed essere madre. Il bambino ha bisogno tanto della sua presenza quanto della sua assenza.

L’esistenza del desiderio della donna come non tutto assorbito in quello della madre è la condizione essenziale affinché il desiderio della madre possa essere generativo. (Recalcati, M.)

 

 

Che relazione c’è tra l’abuso sessuale e i disturbi alimentari?

Subire un abuso sessuale in infanzia sembra essere un importante fattore di rischio per quel che riguarda lo sviluppo di disturbi alimentari, sembrerebbe infatti che il 30% delle persone con un disturbo alimentare abbia subito abusi sessuali nell’infanzia (Connors & Morse, 1993).

 

L’abuso sessuale subito in tenera età è una potente esperienza traumatica, i suoi effetti possono manifestarsi anche molti anni dopo l’accaduto, quando il soggetto prende consapevolezza di ciò che gli è successo, le reazioni emotive e cognitive che si verificano nella persona abusata solitamente sono: confusione, senso di colpa, vergogna, paura, ansia, auto-punizione e rabbia (Cohen, 2020).

Si tratta di un’esperienza così traumatica che le sensazioni interiori come la fame, l’affaticamento o la sessualità diventano spesso difficili da identificare e si confondono tra loro. Infatti, le persone che sono state abusate sessualmente si rivolgono al cibo per alleviare una vasta gamma di stati di tensione interna che non hanno nulla a che fare con la fame; questo accade perché l’esperienza che hanno vissuto li ha resi disorientati per quel che riguarda le loro percezioni interiori (Cohen, 2020). Per queste persone, fidarsi del cibo è più sicuro che fidarsi delle persone, il cibo non ti abusa mai, non ti ferisce mai e non ti rifiuta mai, inoltre puoi dire quando, dove e quanto, nessun’altra relazione soddisfa le proprie esigenza in una maniera così assoluta (Cohen, 2020).

Una volta raggiunta l’adolescenza o l’età adulta, gli abusati spesso cercano di desessualizzare se stessi, possono diventare molto grassi o molto magri nel tentativo di rendersi poco attraenti, sperano che la loro armatura di grasso o di magrezza li protegga dall’esperienza sessuale, spesso non sono consapevoli di come manipolano il cibo o il corpo nel tentativo di sentirsi più sicuri (Cohen, 2020).

Oltre alla predisposizione a sviluppare disturbi alimentari, i sopravvissuti all’abuso sessuale sono vulnerabili a depressione, abuso di sostanze, disturbo da stress post traumatico e problemi di natura sessuale (Cohen, 2020).

Secondo alcuni autori, dato che le relazioni dolorose sono state la causa dello sviluppo del disturbo alimentare, le relazioni di supporto e amorevoli saranno il mezzo di guarigione: risulta quindi fondamentale entrare in contatto con altre persone che possono convalidare il dolore e accettarlo, cosa possibile principalmente intraprendendo un percorso psicoterapico (Cohen, 2020).

Un altro elemento importante che porta al recupero e all’accettazione del trauma è la capacità di raggiungere l’intimità sessuale con un partner.

Raggiungere l’intimità significa arrendersi, rilassarsi, condividere e lasciarsi andare mentre il mangiare per combattere emozioni negative ha a che fare con il controllo, la rigidità, la paura e l’isolamento (Cohen, 2020).

Di seguito vengono riportati alcuni trascritti di interviste fatte a persone abusate, in cui è possibile notare la relazione tra abuso sessuale e abuso di cibo.

Amber, violentata quando era una bambina da suo cugino adulto: ‘L’eccesso di cibo e i lassativi sono diventati il ​​mio modo di liberarmi dal dolore e dalla confusione. Mi sono resa conto che stavo cercando di evacuare mio cugino dal mio corpo attraverso quei lassativi.‘ (Cohen, 2020).

Donald: ‘Dopo che i miei genitori divorziarono, mia madre si ubriacò e ballò per casa in camicia da notte. Mi spaventai, ma la parte peggiore fu che mi eccitai. Per cercare di riottenere il controllo, ho iniziato a non mangiare più e ho sviluppato l’anoressia. Attraverso la terapia, ora capisco come stavo cercando di far morire di fame i miei sentimenti orribili verso me stesso. E la mia vergogna mi ha anche fatto sentire che non meritavo nemmeno di mangiare’ (Cohen, 2020).

 

 

Quando lo sport si trasforma in dipendenza

Negli ultimi anni si riflette molto sull’incidenza che lo sport ha nella vita di una persona. L’attività fisica è solitamente connessa positivamente con salute e benessere; tuttavia, in alcuni casi lo sport può dar vita a una vera e propria dipendenza

Virgilia Crescenzi – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Lo sport e la psicologia hanno iniziato a collaborare dagli anni ’20, integrando in un’area di ricerca congiunta gli aspetti psicologici dello sport. La psicologia si è interessata principalmente alla comprensione di aree come la motivazione, la dinamica di gruppo e allenamento mentale. Un’altra linea di studi si è incentrata sull’identificazione del talento, al fine di predire il successo di un atleta. Questi studi hanno preso in considerazione i tratti della personalità che sono il motore per praticare uno sport da amatori o diventare un atleta che può arrivare a fare gare di grande prestigio

All’interno del contesto citato, negli ultimi anni, si riflette molto sull’incidenza che lo sport ha nella vita di una persona. Ovviamente, spesso l’attività fisica è connessa positivamente con salute, benessere, bellezza, miglioramenti del tono dell’umore, della sintomatologia ansiosa e anche nelle psicopatologie gravi, si possono riscontrare benefici; tutto sommato una medicina perfetta per la mente ed il corpo, a qualsiasi età (World Healt Organization)..

Nella letteratura scientifica si trovano, tuttavia, anche articoli che mettono in luce come lo sport possa nascondere alcuni aspetti negativi, quasi come fosse un diavolo travestito da angelo, che invece di fare esclusivamente del bene, con alcuni individui, quelli più “vulnerabili”, si trasforma in cattivo seduttore. Questa è una similitudine che mostra cosa può accadere quando lo sport diventa un’ossessione o quando si instaura una dipendenza da esso.

Quindi, sebbene siano tanti i vantaggi del praticare sport in modo sano e costante, non si possono ignorare i risvolti negativi che esso può avere da un punto di vista psicologico. Se da un lato muoversi migliora i parametri vitali, l’aspetto e così via, dall’altro farne troppo può portare a conseguenze come cambiamenti cronici di rilascio ormonale, a un maggior rischio di infortuni e, come anticipato, a importanti risvolti psicologici tra cui l’instaurarsi di una vera e propria dipendenza (con la complicità di un’accettazione sociale) oppure di un disturbo psicologico che nasce principalmente da un problema di autostima e di percezione della propria immagine.

E’ bene fare un’ulteriore distinzione tra chi, praticando sport, instaura una dipendenza che lo porta a superare sempre i propri limiti, ad esserne ossessionato e incapace di controllare il comportamento, vivendo con l’unico obiettivo di fare movimento; da chi invece cela un disagio verso il proprio corpo, un costante disgusto verso se stessi e verso i propri difetti, in questo caso l’attività fisica è mossa sia da una autovalutazione negativa, sia da possibili pressioni sociali ed è il mezzo attraverso cui migliorare sempre di più il proprio aspetto fisico.

E’ necessario dunque dare risalto ai risvolti psicopatologici e prendere in considerazione questa distinzione, utile soprattutto all’inquadramento e al trattamento dei sintomi dei disturbi da dismorfismo corporeo o dei disturbi alimentari. Inoltre è importante capire quali sono i comportamenti negativi che la dipendenza da sport porta e quali aspetti potrebbero nuocere all’atleta. Restano infatti molti punti ancora da chiarire riguardo al modo di valutare lo sport in ambito psicopatologico.

Lo sport, una dipendenza comportamentale

Negli ultimi decenni gli sportivi sono aumentati esponenzialmente. L’obiettivo è principalmente migliorare il benessere psicofisico, ed è necessario che vi sia una certa costanza per mantenere nel tempo i benefici. L’attività fisica è un fattore principalmente positivo nella vita di tutti: è socialmente riconosciuta come un’abitudine positiva e sana, ha benefici anche sugli aspetti relazionali della vita dell’individuo, è utile al miglioramento della propria autostima e in alcuni casi allontana da possibili abitudini nocive.

Tuttavia abbandonarsi in un’attività eccessiva e incontrollabile può portare a effetti negativi ricorrenti, aumentando l’incapacità di gestire contesti di vita diversi, come quello sociale e lavorativo ad esempio, e la suscettibilità a lesioni muscolo-scheletriche; inoltre, il sovrallenamento aumenta il rischio di problemi acuti (ipoglicemia, dolore toracico, aritmia e altri) portando a un malfunzionamento del sistema immunitario.

Questo fenomeno può essere definito come un disturbo da dipendenza da sport, caratterizzata da perdita del controllo del proprio comportamento e del pensiero, sfociando in una compulsione, in cui si manifestano i sintomi di una dipendenza di tipo comportamentale.

Nel DSM-5 è considerato tra i disturbi da dipendenza comportamentale. Non è ufficialmente inserito nella classificazione, ma secondo Griffith (2005) si riconosce nelle stesse caratteristiche di una dipendenza comportamentale: la preminenza (il comportamento assume la maggiore importanza per la persona), l’influenza sul tono dell’umore (disturbi di tipo emotivo correlati sia alla pratica che all’astensione), la tolleranza (intensificarsi del comportamento per indurre effetti sempre più intensi), l’astinenza (sensazioni negative dovute al fare attività fisica), il conflitto (conflitti che si verificano nella vita della persona tra la dipendenza e altri aspetti, su cui comincia ad avere sempre più la meglio), la recidiva (alto drop-out).

In generale, riconoscere una dipendenza da esercizio fisico è difficile per via della grande considerazione positiva, largamente condivisa, attorno a tale pratica: riconoscimento sociale, benessere, accettazione, qualità di vita migliore, l’esercizio è un comportamento socialmente accettato, forse anche se portato agli estremi. Lo sforzo per un corpo snello e in forma è solitamente percepito come un segno di uno stile di vita sano e di un successo personale e la famiglia e gli amici possono accettare e incoraggiare atleti di fitness a mantenere abitudini di esercizio eccessive. In uno studio di Lichtenstein et al. (2017) è stato confermato, attraverso uno studio cross-sessionale, che è difficile riconoscere una dipendenza da sport proprio per via del supporto sociale che gli gravita attorno.

Cause di una dipendenza da training?

In generale, dopo aver svolto una qualsiasi attività fisica, l’individuo avverte sensazioni di euforia, succede perché vi è un rilascio di endorfine, dopamina e serotonina, i quali hanno un ruolo fondamentale nel senso di benessere dell’individuo, tuttavia hanno un ruolo fondamentale anche nell’instaurare una dipendenza da sport. Nelle varie ricerche possono essere riconosciute due tipologie di dipendenza: quella fisiologica e quella psicologica. La prima propone modelli che descrivono le cause di una possibile presenza di dipendenza al rilascio ormonale, al cambiamento dell’organismo, quindi al solo bisogno fisiologico di piacere che spinge l’individuo a sviluppare un comportamento compulsivo; uno dei più accreditati è l’ipotesi di attivazione simpatica: quando l’adattamento dell’organismo si abitua all’esercizio fisico instaura una dipendenza, avviene quando l’individuo si muove, attiva l’organismo e questo arousal migliora i parametri fisiologici. I modelli Psicologici, invece, mostrano che la causa principale della exercise addiction riguarda l’aspetto mentale, di pensiero e di personalità di un individuo, la motivazione, e pattern di comportamento atti a ridurre sintomi stressogeni.

Recentemente, invece, si è puntato su un modello che prendesse in considerazione sia l’aspetto fisiologico che quello psicologico, che lavorano in sinergia per far sì che si instauri un condizionamento positivo del comportamento appreso, infatti vengono considerati come fattori interagenti: valore personale, immagine sociale, stile di vita e modalità di ridurre lo stress, che coinvolgono gli aspetti fisiologici per raggiungere uno stato di benessere (Egorov at al 2013).

Comorbilità e fattori di rischio

Sono stati trovati legami tra dipendenza da esercizio e alimentazione, disturbi riguardo schemi di esercizio ossessivo, controllo del corpo e tratti di personalità perfezionista. (Lichtenstein, Christiansen et al. 2014). L’atteggiamento è quello di mettere in atto un’attività motoria eccessiva come compensazione alle abbuffate di cibo, alternativamente ad altre condotte eliminatorie. La comorbilità è particolarmente osservabile nelle donne con bulimia nervosa o anoressia.

La dismorfia muscolare è una variante di dismorfismo corporeo caratterizzato da credenze sull’insufficienza della muscolosità e coinvolgimento in attività fisiche esagerate di costruzione muscolare come il sollevamento pesi e l’uso di steroidi anabolizzanti, fino ad arrivare alla cosiddetta Vigoressia. Atleti con dismorfismo muscolare spesso cercano di mantenere un basso contenuto di grasso corporeo seguendo diete e abitudini alimentari mirate. La sindrome ha una componente forte di dipendenza dall’attività fisica compulsiva, presenta una concomitanza importante che è causata dall’attenzione estrema al raggiungimento degli obiettivi di fitness e di forma muscolare.

I disturbi alimentari e il disordine dismorfico del corpo sono riconosciuti come disturbi psichiatrici nei manuali diagnostici (American Psychiatric Association, 2013; Organizzazione mondiale della sanità, 1992), la dipendenza da esercizio fisico ancora non lo è. Tuttavia, tali condizioni appaiono spesso contemporaneamente, tanto che Davis e Claridge hanno proposto che nei disordini alimentari venga considerata la comorbilità con l’exercise addiction (Davis & Claridge, 1998). I due studiosi hanno scoperto che i tratti ossessivo-compulsivi erano associati alla preoccupazione per il peso e all’esercizio eccessivo in pazienti con disturbi alimentari.

Altri ricercatori hanno osservato correlazioni tra dipendenza e disturbi dell’umore, ad esempio Linchestein et al (2018), hanno scoperto che depressione e stress conducono ad un alto rischio di dipendenza da esercizio fisico, il quale può essere condotto come strategia di coping per sopperire alla sofferenza psichica. Gli studiosi si sono resi conto che la dipendenza può essere riconosciuta sia attraverso l’osservazione del comportamento compulsivo e confermato da continui infortuni muscoloscheletrichi a cui l’individuo non dà importanza tornando prima del tempo a praticare le varie attività .

In concordanza con questi risultati, il Work Craving Model propone tre dimensioni attraverso le quali si mantiene una dipendenza da esercizio fisico: “edonia”, “compulsione” e “componenti cognitive”. Con il WCM, Wojdylo et al. (2013) delineano un’interazione tra perfezionismo nevrotico (appreso), tratto ossessivo-compulsivo, riduzione di sintomi da astinenza e un’aumento di autostima positiva del comportamento dipendente in questione. Si è visto che sia il perfezionismo che la componente ossessivo-compulsiva sono correlate con l’eccessivo esercizio fisico, in particolare quando concorre insieme a disturbi alimentari, mentre il mantenimento di un comportamento di craving è spesso correlato ai disturbi depressivi e di ansia, a conferma di queste corrispondenze vi è uno studio di Macfarlane (2016).

Bruno et al. (2014), hanno trovato che un alto rischio di sviluppare una dipendenza da sport, è dovuta ad una personalità narcisistica, specialmente per assicurare onnipotenza e fornire una protezione alla perdita di soddisfazione e ammirazione. Non solo, la bassa autostima sembra essere, anch’essa un fattore predittore di Exercise Addiction poiché rende più sicuro l’individuo, incrementando la confidenza verso sé stesso e la sicurezza di piacere all’altro mostrando attitudini sportive.

Non è difficile immaginare, infine, che questa tipologia di dipendenza possa manifestarsi anche in comorbilità con disturbo di ansia sociale, soprattutto se questa riguarda le proprie caratteristiche fisiche.

La Psicoterapia a cosa potrebbe servire?

Nei paesi occidentali, la pratica sportiva è molto diffusa, e per questo ad ogni età si può fare un po’ di sport, nelle palestre, nei circoli, all’aria aperta.

Perciò deve essere considerato un aspetto importante e influente nella vita di una persona esattamente come il lavoro, la cerchia familiare e amicale ecc.

Non è ancora ben chiaro il meccanismo che instaura una dipendenza e se può essere considerata realmente come tale in ogni individuo (anche paragonandola alle più comuni ed attuali come il gioco d’azzardo o la internet addiction), oltre ciò non sono ancora delineati i confini tra attività normale e dipendenza negativa da sport. In effetti, da alcuni studi è scaturito che anche gli atleti non sono immuni dalla dipendenza da esercizio fisico rispetto ai semplici praticanti, la passione verso lo sport gioca un ruolo fondamentale e può essere una spinta motivazionale a farne sempre di più, compulsivamente; inoltre è possibile che si instauri svolgendo qualsiasi tipo di specialità praticata.

In psicoterapia deve essere preso in considerazione il rapporto che la persona ha con lo sport, quanto ne pratica e se per avere maggiori prestazioni si aiuta con integratori, ciò può essere utile in fase iniziale per approfondire altri aspetti che vanno a definire la diagnosi e specificare se lo sport può essere un prodromo di altre comorbilità o diagnosi differenziali con specifici di disturbi. Può essere utile indagare come viene percepito il fare sport, se è vissuto come una compulsione, o se è realmente un momento di svago o di distacco con i problemi, o ancora se è fatto al fine di raggiungere un peso-forma ideale.

In ogni caso specifico, sarà necessario valutare la tecnica psicoterapeutica più adatta al raggiungimento di un equilibrio e adeguate strategie di coping e che affronti i comportamenti disfunzionali rispetto alla pratica sportiva e la problematica psichica che li sostiene.

 

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