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La mente dietro la fame (2019) di Stefania Rossi, un libro sul rapporto tra cibo ed emozioni – Recensione

La mente dietro la fame è dedicato principalmente a coloro che soffrono a causa di un negativo rapporto con il cibo. L’autrice esperta nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, esamina i reali bisogni e le necessità che determinano l’insorgere della fame emotiva.

 

La mente dietro la fame è un libro che affronta il tema del rapporto con il cibo a partire dalle emozioni legate alla fame nervosa, proponendo un percorso di cambiamento dello stile di vita e dei modelli di pensiero che portano a comportamenti alimentari di compenso emotivo. Il modello teorico si rifà alla terapia Dialettico-Comportamentale che risulta efficace nel trattamento di bulimia e alimentazione incontrollata o bing eating disorder.

L’autrice, Stefania Rossi, psicologa e psicoterapeuta, docente a contratto presso l’Università degli Studi di Genova, si occupa da diversi anni del trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, in questo saggio ripercorre con il lettore gli step che conducono alla fame emotiva e mostra gli strumenti più efficaci per imparare a vivere serenamente il rapporto con il cibo.

La fame emotiva è una sensazione di urgenza, un bisogno improrogabile di mangiare per stare meglio se si è nervosi, tristi, arrabbiati, annoiati o ansiosi e non per reale necessità di nutrimento. Utilizzare il cibo per regolare le emozioni è indicativo di quanto dietro l’alimentazione ci sia un legame profondo e complesso tra psiche e corpo.

Cerchiamo di comprendere che in gioco non c’è solo la questione alimentare e il peso, ma si tratta di saper controllare e gestire la propria vita in base ai nostri desideri più profondi.

Il manuale pubblicato dalla casa editrice Toscana Book, si suddivide in undici capitoli:

  1. Gestire la fame emotiva:
  2. I fattori in gioco nella fame emotiva;
  3. I fattori in gioco nella fame fisica;
  4. Mindfulness;
  5. Consapevolezza emotiva;
  6. Il diario delle emozioni;
  7. Costruire l’efficacia;
  8. Prendersi un impegno con se stessi;
  9. Stress e ansia;
  10. Elevata sensibilità ed alta emotività;
  11. I disturbi del comportamento alimentare.

A chi si rivolge questo libro?

Accettare è il primo passo verso il cambiamento, non è arrenderci, semplicemente conoscerci per quello che si è. Essere pronti a vederci per come siamo è il presupposto per superare i comportamenti dannosi, che ci fanno sentire inadeguati e lontani da noi stessi, che rappresentano una nevrosi, una dissociazione tra quello che sentiamo e quello che siamo o facciamo.

La mente dietro la fame è dedicato principalmente a coloro che soffrono a causa di un negativo rapporto con il cibo. L’autrice esperta nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, esamina i reali bisogni e necessità che determinano l’insorgere della fame emotiva, con lo scopo di condurre il pubblico ad apprendere gli strumenti che possano permettergli di gestire al meglio la propria vita, promuovendo l’acquisizione di uno stile di vita più sano e fondato su di un reale benessere psico-fisico.

Sono inoltre inclusi nel testo l’illustrazione di esercizi tipici della DBT, come la sessione di mindfulness, l’analisi della catena emotiva, il diario delle emozioni, l’agire con efficacia, il rispetto di sé e molti altri che una volta appresi conducono il lettore ad una ristrutturazione cognitiva.

Perché è utile leggere La mente dietro la fame?

E’ utile perchè per chi ha problemi col cibo, mettersi a dieta non basta, anzi molte volte espone al fallimento e alla perdita di fiducia in se stessi. E’ utile perché si tratta di un manuale capace di coniugare la teoria del funzionamento alimentare patologico, con le esercitazioni pratiche volte a superare l’utilizzo del cibo come sintomo di un vuoto e un disagio emotivo.

Non si limita alle descrizioni delle tecniche, ma favorisce il cambiamento tramite il riconoscimento e l’accettazione delle proprie emozioni e conduce al miglioramento del proprio stile di vita anche attraverso l’introduzione di abitudini nuove e sane. Il tutto illustrato tramite un linguaggio accessibile a qualsiasi lettore.

Risulta ideale per guidare l’operato di psicologi e psicoterapeuti che si trovano a dover gestire pazienti impegnati nella lotta contro un disturbo alimentare offrendosi come supporto professionale, ma la lettura è altrettanto consigliabile anche a coloro che in primis sentono di non avere un rapporto sereno con il cibo.

 

Attivismo politico: un possibile fattore di protezione per la salute mentale di studenti universitari afroamericani e latinoamericani?

Quando uno studente afroamericano o latinoamericano subisce molte microaggressioni razziali, l’attivismo politico può avere effetti sulla sua salute mentale aiutandolo a sentirsi meno stressato, ansioso o depresso? 

 

Le conseguenze del razzismo sono purtroppo tristemente note e sempre maggiore importanza viene data a comprendere quali elementi portano gli individui a manifestare comportamenti razzisti e xenofobi con l’intento di intervenire preventivamente e/o tempestivamente per ridurre gli episodi di discriminazione.

Alcuni studi sul fenomeno razzismo si sono concentrati anche sulla ricerca di quelli che possono essere dei fattori protettivi per le vittime, in grado di aiutarle a ridurre i loro livelli di stress e ansia. Uno dei più recenti lavori a riguardo è quello di Hope, Velez, Offidani-Bertrand, Keels e Durkee (2018) condotto su studenti universitari afro- e latinoamericani

Gli studenti universitari che appartengono alle minoranze etniche e razziali afroamericana e latinoamericana sono più a rischio di sviluppare problematiche di salute mentale, come sintomi depressivi, insoddisfazione personale e isolamento sociale (Ancis, Sedlacek, & Mohr, 2000; Hinderlie & Kenny, 2002).

Le conseguenze delle microaggressioni discriminatorie si ripercuotono sui risultati accademici. Infatti le maggiori difficoltà durante il primo anno di università sono dovute a fattori emotivi più che accademici (Pritchard & Wilson, 2003; Szulecka, Springett, & DePauw, 1987).

Un fattore di protezione per la salute degli studenti universitari appartenenti a minoranze razziali ed etniche può essere l’attivismo politico, cioè l’impegno civico per apportare cambiamenti a situazioni ritenute ingiuste.

A questo proposito, Hope, Velez, Offidani-Bertrand, Keels e Durkee (2018) hanno condotto il loro studio per indagare gli effetti dell’attivismo politico sulla salute mentale di studenti universitari afro- e latinoamericani. L’ipotesi che guida lo studio è che l’attivismo politico possa essere, per questi giovani adulti, un’efficace strategia di coping.

Lo studio si è concentrato su studenti afroamericani e ispanici al loro primo anno di università. Gli autori hanno misurato le variabili di interesse all’inizio del primo semestre, durante le vacanze invernali e al termine del secondo semestre.

I ricercatori hanno raccolto dati circa la salute mentale dei partecipanti, in particolare rispetto allo stress percepito (Perceived Stress Scale; Cohen, Kamarck, & Marmelstein, 1983), all’ansia (Generalized Anxiety Disorder Screener-Symptoms Scale; Carroll & Davidson, 2000) e ai sintomi depressivi (Psychiatry/National Depression Screening Day Scale; Baer et al., 2000).

L’attivismo politico nel corso del primo anno di università è stato misurato usando lo Youth Involvement Inventory (Pancer, Pratt, Hunsberger, & Alisat, 2007). I dati indicano che, sebbene il 31% del campione non abbia partecipato ad alcuna attività politica durante il primo anno di università, il 57% degli studenti ha donato denaro, giocattoli, abiti o altro; il 37% ha donato denaro o fatto volontariato in un gruppo sociale o politico; il 30% si è unito a proteste, marce, incontri o dimostrazioni politiche; infine meno del 15% si è impegnato direttamente in una campagna politica, nel boicottaggio di un prodotto o nel suo opposto, il buycotting, ossia l’acquisto di un prodotto per supportare un’azienda in linea con i propri valori etici o politici.

Inoltre, è stata valutata la presenza di microaggressioni razziali ed etniche, con un focus su quei comportamenti discriminatori che suscitano sentimenti di inferiorità a livello accademico (sottoscala Academic Inferiority della School-Based Racial/ Ethnic Microaggressions Scale; Keels, Durkee, & Hope, 2017).

Altre variabili di controllo considerate sono il genere, l’essere i primi nella propria famiglia a frequentare il college, le problematiche economiche e l’efficacia politica.

Gli studenti hanno riportato di aver subito diverse microaggressioni nel corso dell’anno. Per gli studenti afroamericani, tali microaggressioni risultano associate soprattutto a un aumento dello stress. Per quelli latinoamericani invece comportano maggiore ansia.

Non solo le microaggressioni, ma anche l’attivismo politico ha effetti diversi sugli studenti afroamericani e latinoamericani. Infatti, gli studenti afroamericani più coinvolti nella vita politica mostrano livelli più bassi di stress. Al contrario, l’attivismo politico sembra avere un effetto negativo sugli studenti ispanici: quelli più politicamente attivi infatti manifestano più sintomi depressivi.

L’ipotesi forse più rilevante dello studio, tuttavia, riguarda la possibilità che l’attivismo politico rappresenti un fattore di protezione soprattutto per coloro che studiano in un contesto istituzionale discriminatorio. Ossia, quando uno studente afroamericano o latinoamericano subisce molte microaggressioni razziali, il fatto di essere attivo a livello politico può aiutarlo a sentirsi meno stressato, ansioso o depresso?

Nel caso degli studenti ispanici, sembra sia così: infatti, a parità di discriminazioni subite, gli studenti ispanici più politicamente impegnati manifestano meno sintomi depressivi. Al contrario, gli studenti afroamericani che subiscono molti comportamenti discriminatori e che sono politicamente più attivi riportano livelli più alti di ansia e stress.

Alla luce di queste evidenze, si può argomentare che i risultati di questo studio siano in parte controversi. Infatti, essi mostrano come l’attivismo politico possa essere talvolta una fonte di supporto, e talaltra un’ulteriore fonte di stress, ansia o depressione.
Inoltre, l’attivismo politico spiega solo una piccola parte del benessere o malessere dei partecipanti. Questo significa che altri fattori possono essere più rilevanti nel determinare la salute mentale degli studenti universitari.

Un’ulteriore limitazione di questo studio è che esso considera gli effetti dell’attivismo politico nell’arco di un anno. Uno studio longitudinale più esteso permetterebbe invece di capire gli effetti dell’attivismo politico a più lungo termine.

Se vogliamo comprendere come migliorare la salute mentale degli studenti universitari, tenendo a mente le difficoltà aggiuntive di quelli appartenenti a minoranze etniche, il ruolo dell’attivismo politico e di altri fattori deve essere approfondito.

Invidia e vergogna nella personalità narcisistica

Per quanto possa apparire contraddittorio, il nucleo esistenziale più intimo del narcisismo è connotato da vissuti di invidia e vergogna. L’apparente ipervalutazione del Sé, propria di questi soggetti, è soltanto uno strumento compensativo con cui l’Io cerca di supplire l’autostima fragile e frammentata tipica di questa personalità.

 

Sarebbe, infatti, in ragione di un vissuto affettivo deprivante, sofferto a causa di un mancato riconoscimento empatico da parte del genitore, che il bambino, diventato in seguito adulto, ha appreso a svalutare i legami libidici con l’oggetto primario, conferendo al Sé quell’onnipotenza primaria che gli è stata negata in fase diadica. Khout (1971) imputa il narcisismo patologico ad un deficit, dunque a una mancanza affettiva che il bambino ha dovuto fronteggiare quando avrebbe dovuto ricevere una sicurezza responsiva in grado di nutrire in lui sentimenti di onnipotenza primaria, unita all’idealizzazione del genitore, anziché l’idealizzazione del Sé in via difensiva.

Il soggetto narcisista avverte un vuoto affettivo e relazionale derivante dalla rappresentazione frustrata di aspettative non raggiunte, o mai all’altezza degli standard prospettati. Questo lo porta a ricercare una millantata perfezione in ogni aspetto della vita, soprattutto quello estetico e professionale, ambiti nei quali cerca di eccellere non in una prospettiva di autocompiacimento sano e costruttivo, ma solo per contrastare il senso di inferiorità e inadeguatezza che lo perseguita dall’interno, creando insanabili vissuti di vergogna. La vergogna è un sentimento di riprovazione globale verso l’IO: si prova vergogna per essere o per non essere qualcosa. Al contrario nel senso di colpa, sentimento estraneo al narcisismo, si prova rimorso e senso di riparazione per un’azione commessa, dunque si prova vergogna per ciò che si è fatto.

L’altro indefettibile componente della personalità narcisista, ovvero l’invidia, genera una dimensione relazionale che vede l’altro come un mero oggetto da depredare di tutti gli aspetti buoni che possiede, e di cui il narcisista vuole impossessarsi a sua volta. Tale avidità maligna, tuttavia, non è ispirata da sentimenti velleitari verso gli oggetti: il narcisista non vorrebbe possedere ciò che invidia, vorrebbe piuttosto che fosse l’altro a non possederlo; e dunque anche il desiderio di possesso è giustificato da ragioni distruttive e predatorie. Il narcisista desidera distruggere più ancora che possedere.

Kernberg (1975) non imputa l’origine del narcisismo ad un deficit affettivo infantile, facendolo derivare piuttosto dalla natura costituzionale del soggetto, predisposta in via congenita alla sperimentazione di vissuti di invidia e aggressività verso l’oggetto primario, dal quale nega l’indipendenza e l’appoggio.

Melanie Klein (1957) aveva affermato, a sua volta, la radice biologica dell’invidia, identificabile in quegli atteggiamenti, tipici della fase schizoparanoide, volti a depredare il seno buono (ovvero la madre) di tutti gli oggetti che possiede, per possederli e distruggerli.

Secondo la prospettiva kleiniana l’invidia, l’avidità e le angosce persecutorie sono profondamente collegate tra loro, in un legame che al crescere delle une fa subentrare l’accrescimento delle altre. Questo circolo vizioso allontana il bambino dalla possibilità di superare in funzione adattiva la fase schizoparanoide e, dunque, di abbandonare i vissuti sadici e predatori verso il seno buono e la madre che in esso è identificata. Egli non avvertirà mai la necessità di proteggere l’oggetto materno dai propri impulsi, non riuscirà a provare senso di colpa per le sue velleità distruttrici, e non riuscirà ad accettare l’oggetto materno in una dimensione sincretica e ambivalente, in cui il buono può coesistere con il cattivo senza rischio di distruzione.

L’ambivalenza è quella dimensione che consente di accettare la natura positiva e negativa dell’oggetto materno, che se da una parte frustra e proibisce, dall’altra nutre e accudisce con finalità conservative. Questo mancato raggiungimento dell’ambivalenza, e dunque dell’accettazione della coesistenza degli opposti, spinge il narcisista all’idealizzazione irrealistica di un Sé privo di difetti, del quale nessuno si mostrerà mai all’altezza. Da qui gli standard di perfezionismo, di eccellenza, di devozione relazionale pretesi dal narcisista, che lo spingeranno ad enfatizzare in senso distruttivo ogni minima mancanza commessa da coloro con cui si relaziona, spingendolo alla costruzione di pattern relazionali fondati sulla pretesa, unidirezionali, fortemente utilitaristici, e comunque mai ispirati da velleità donative o di attaccamento.

L’incapacità del narcisista di attaccarsi a qualsiasi oggetto al di là di se stesso si traduce dunque nell’incapacità di costruire stili relazionali volti al riconoscimento dell’altro come oggetto autonomo, degno di esistenza e considerazione affettiva (McWilliams, 1994). L’altro è solo qualcuno da invidiare, in un attacco predatorio grazie al quale il soggetto crederà di confermare la propria percezione esistenziale e di sfuggire alle proprie angosce persecutorie, ma che in realtà servirà soltanto ad accrescere l’intensità delle stesse.

L’invidia impedisce, infine, anche la costruzione una piena gratificazione del Sé. Ed è per questo che, per quanti successi e affermazioni conseguirà, il narcisista non potrà mai sentirsi sicuro e soddisfatto, ma tenderà sempre alla ricerca di un nuovo confronto con soggetti da depredare per colmare il vuoto affettivo – esistenziale che lo devasta. L’invidia diventa così un elemento funzionale alla sopravvivenza del narcisista, il quale, in sua assenza, dubiterebbe dell’esistenza del suo stesso Sé.

L’invidia nel setting terapeutico

Uno degli esiti più negativi della formazione dell’invidia narcisistica è l’impedimento della costruzione della gratitudine, quella capacità che consente al soggetto di riconoscere nell’altro qualcuno da amare e da proteggere e dal quale lasciarsi curare, per riconoscere infine di aver bisogno di lui. Il narcisista al contrario non è capace di prendersi cura del soggetto, né di proteggerlo dai suoi attacchi. La sua valutazione esistenziale è rivolta ad una visione del Sé autoriferita, in cui l’altro non viene mai riconosciuto come un oggetto autonomo, bensì come un oggetto Sé, esistente soltanto nella misura in cui si mostra all’altezza delle idealizzazioni narcisistiche (Klein, 1957). E per quanto bene potrà ricevere da questo oggetto, il narcisista si premurerà di proiettare in lui la propria insoddisfazione esistenziale, facendolo sentire in costante difetto.

La malvagità egosintonica con cui attua questo comportamento è dettata dalla volontà di negare la dipendenza dall’oggetto materno invidiato, che non è mai stata rielaborata in funzione depressiva (Klein, 1957): quindi, anche ove riceverà un favore, il narcisista non potrà mostrarsi grato, o dimostrerebbe di aver avuto necessità dell’oggetto. Allo stesso modo, anche ove avrà bisogno della presenza dell’altro, non potrà mai palesarlo, o finirebbe con l’inficiare l’onnipotenza del Sé (McWilliams, 1994).

Questo aspetto di invidia e negazione di dipendenza dall’oggetto genera difficoltà relazionali in ambito sociale così come in quello terapeutico, nel quale la pulsione distruttiva del narcisista crea una funzione transferale ostativa ad un risultato evolutivo. Anche il terapeuta viene dunque identificato come una fonte da distruggere, più che come uno strumento di conoscenza e contenimento del Sé patologico. L’idea di dipendere da altri risulta intollerabile e l’idea di ammettere di aver ricevuto un beneficio terapeutico viene visto come un affronto al Sé, inammissibile quanto inaccettabile. Anzi, è probabile che il paziente indulga nel negare anche a se stesso, oltre che al terapeuta, ogni possibile miglioramento raggiunto grazie alla terapia, impegnandosi quindi non solo nell’ignorarlo, ma altresì nell’evitarne l’attuazione (McWilliams, 1994)

Ma possiamo dire, del narcisista, che la sua avidità serve solo ad impoverirlo, e dunque è proprio nella negazione della dipendenza che è possibile sperimentare la necessità latente della stessa. Per questo il terapeuta dovrà lavorare sulle resistenze all’attaccamento cercando di aggirarle cautamente, in prospettiva di dotare il paziente di un oggetto buono da interiorizzare e con cui placare le proprie angosce persecutorie (Gabbard, 2015).

Il terapeuta, specie nelle prime fasi della terapia, dovrà tollerare l’inevitabile invidia del paziente che potrà esprimersi attraverso confessioni larvate, fatte sul finire della seduta, quando ormai non possono più essere interpretate né rese oggetto di colloquio. Dovrà tollerare le sue disconferme, le squalifiche sul suo operato, più o meno esplicite, che rappresenteranno in realtà solo il suo timore dell’attaccamento relazionale; dovrà accettare di venir distrutto, annientato dal paziente, che in lui vede una potenziale minaccia alla propria onnipotenza (Horner, 1993).

Freud riteneva che la psicoanalisi non potesse essere attuata con i narcisisti, proprio per l’incapacità degli stessi di costruire un transfert terapeutico (1916). In realtà oggi si tende a credere che, con pazienti di questo tipo, l’apparente assenza di transfert sia essa stessa il transfert (Gabbard, 2015).

La spiegazione è ovvia, se pensiamo che il transfert consiste nella riproduzione terapeutica del rapporto affettivo con gli oggetti primari – dunque con i genitori – e che il disturbo narcisistico ha impedito proprio la costruzione di queste relazioni oggettuali validanti: in base a ciò il paziente non percepisce nel terapeuta la figura riattualizzata del padre o della madre, né la riproduzione del suo rapporto con loro, ma soltanto una mera estensione del Sé, sia quella ipervalutata e idealizzata, sia quella svalutata e oggetto di vergogna (McWilliams, 1994). Il terapeuta deve dunque lasciare che il paziente lo utilizzi come oggetto Sé utile al mantenimento del processo interno dell’autostima, evitando di sentirsi sminuito quando l’invidia narcisistica, per liquidare l’angoscia connessa alla vergogna e all’invidia, verrà diretta su di lui in un’alternanza idealizzata e svalutante: nella consapevolezza che si tratta di proiezioni riferite al Sé del paziente, del quale lui costituisce solo l’oggetto proiettivo (McWilliams, 1994).

Sarà questo il primo passo verso la costruzione di un’autostima autentica e non difensiva, dell’interiorizzazione trasmutante che è risultata deficitaria nell’infanzia (Khout, 1971), ma anche il passaggio indispensabile per svincolare il paziente dai legami libidici maligni e predatori che l’invidia ha generato, potenziato, mantenuto nel tempo.

 

L’esigenza di fornire servizi psicologici online indotta dalla pandemia e la sottostima dei rischi deontologici e legali da parte degli psicologi

I cambiamenti sociali imposti dalla pandemia, insieme ad una generalmente bassa competenza/consapevolezza digitale, hanno indotto molto velocemente a erogare dei servizi psicologici online poco aderenti al codice deontologico e ai requisiti legali richiesti dal GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati.

 

L’emergenza COVID-19 ha modificato drammaticamente molte abitudini quotidiane che avevamo ed accelerato alcuni processi che difficilmente avrebbero registrato una diffusione ed una pervasività così massiccia. Uno di questi processi è stato senza dubbio quello della digitalizzazione online di molte attività che erano già potenzialmente realizzabili anche molto prima della pandemia, ma che la necessità imposta dal distanziamento sociale fisico ha reso rapidamente auspicabili se non addirittura necessarie.

Molte di queste attività hanno registrato un incremento sbalorditivo della loro implementazione e integrazione digitale perché vi è stato un forte cambiamento della percezione relativa a queste modalità alternative alla tradizionale compresenza fisica. La spinta di questa differente percezione nei confronti del digitale è stata promossa da motivazioni economiche e/o dalla necessità di stabilire comunque un’interazione sociale non fisica.

Svolgere queste attività attraverso la tecnologia digitale web è passata molto rapidamente dall’essere generalmente percepite, prima dell’emergenza COVID-19, quali modalità si potenzialmente realizzabili, ma anche possibilmente da evitare per la combinazione di generale sfiducia sull’efficacia attribuita alle nuove tecnologie comunicative e la consapevolezza del bisogno di acquisire specifiche conoscenze e competenze necessarie per gestire tali contesti, ad essere considerate, durante il periodo di pandemia, come unica opzione possibile di interazione e di realizzazione dell’attività stesse.

Questa dinamica che ha visto la drammatica transizione generale del percepito (in meno di un mese) da un misto di scetticismo e preoccupazione ad unica (e quindi improvvisamente prioritaria) modalità di svolgimento dell’attività professionale, ha caratterizzato ad esempio qualsiasi ambito educativo e didattico così come pressoché la totalità dei servizi di supporto psicologico durante la pandemia.

Mi concentrerò ora proprio su questo contesto caratterizzato dai servizi psicologici forniti attraverso tecnologie digitali web (videochiamate, messaggistiche, email, etc.).

Ritengo questo contesto specifico paradigmatico di come i cambiamenti sociali imposti dalla pandemia, insieme ad una generalmente bassa competenza/consapevolezza digitale, abbiano indotto molto velocemente delle nuove pratiche professionali poco aderenti al codice deontologico (in questo caso degli psicologi) e dei requisiti legali richiesti dal GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati.

Collaborando da anni con la dott.ssa Marlene Maheu, psicologa americana pioniera del settore della telepsicologia che dirige il gruppo di lavoro dedicato a questo argomento dell’APA (American Psychological Association), e, facendo con lei un documento che è servito per definire le attuali linee guida sulla telepsicologia americane (Agnoletti & Maheu, 2013), sono fortemente convinto che il recente fenomeno indotto dalla pandemia sulle pratiche professionali degli psicologi dovrebbe richiamare l’attenzione anche delle istituzioni non tanto per punire i comportamenti scorretti, ma per fornire soluzioni più pratiche, agevoli e sicure alla comunità di psicologi professionisti e quindi ai loro clienti/pazienti.

Il particolare fenomeno psicosociale in oggetto consiste nella sottovalutazione dei rischi legali/deontologici percepiti dai professionisti (sia nei confronti dei professionisti stessi che relativamente la loro utenza) per la specifica combinazione di questi fattori:

  • motivazioni economiche;
  • bassa competenza delle dinamiche digitali/tecnologiche;
  • effetto psicosociale di diluizione di responsabilità e conformismo dovuto alla pubblica diffusione soprattutto nel web di pratiche non corrette (talvolta promosse anche dalle istituzioni oltre che dai singoli professionisti).

Individualmente questi specifici fattori possono già rappresentare una condizione sufficiente per innescare il fenomeno di sottovalutazione dei rischi percepiti derivanti da pratiche non conformi il proprio codice deontologico, ma in generale probabilmente tali fattori sono compresenti in varie forme all’interno della popolazione degli psicologi professionisti.

La motivazione economica è il fattore che senza dubbio caratterizza maggiormente gli psicologi liberi professionisti che, con l’introduzione delle misure di contenimento della pandemia, hanno in generale registrato un abbassamento significativo dei loro introiti (già particolarmente bassi rispetto altre categorie professionali) sia per la forte diminuzione di clienti/pazienti disposti a recarsi fisicamente da loro che per l’invito istituzionale di erogare i servizi possibilmente in modalità online per tutelare maggiormente i professionisti stessi oltre che naturalmente i loro utenti.

Il fatto di dover offrire quasi esclusivamente in modalità digitale i propri servizi ha spiazzato la maggior parte di psicologi clinici liberi professionisti che si sono trovati nella spiacevole situazione di dover/poter utilizzare unicamente questa forma tecnologica per provvedere alla sopravvivenza della propria attività economica in assenza però di un’effettiva competenza specifica (come richiesto da tempo dal proprio codice deontologico).

Relativamente il fattore della bassa competenza digitale occorre dire che particolarmente in Italia, rispetto altre nazioni, la telepsicologia ha finora (o meglio fino all’attuale pandemia) registrato una minore attenzione probabilmente per una poco solida cultura generale riguardante la digitalizzazione.

Anche in assenza di dati e riscontri statistici è assai irrealistico pensare che la popolazione di psicologi clinici, abbia acquisito le competenze di telepsicologia in un tempo così ridotto (meno di un mese) nella quasi totale assenza, tra l’altro tutt’ora riscontrabile, di specifici corsi relativi queste particolari tematiche.

A prova di ciò non esistono tuttora corsi di formazione istituzionali su questo argomento (anche quelli privati sono pochissimi) ed in genere la modalità digitale è (o è stata fino all’attuale pandemia) percepita con molto scetticismo e diffidenza dalla comunità degli psicologi clinici malgrado la decennale letteratura scientifica internazionale smentisca questi preconcetti (Commissione atti tipici, osservatorio e tutela della professione, 2017; Hilty et al., 2013; Slone et al. 2012; Turgoose et al., 2018; Varker et al., 2019).

Riguardo all’effetto di diluizione di responsabilità e l’effetto conformismo, il fatto che soprattutto nel web sia molto diffusa l’offerta di servizi psicologici online attraverso, ad esempio, piattaforme di videochiamata già molto popolari, non le rende automaticamente né rispettose del codice deontologico né del regolamento GDPR.

È sufficiente leggere con attenzione i documenti contrattuali che si sottoscrivono con le aziende che forniscono questi servizi informatici per accorgersi che il trattamento dei dati personali presenta perlomeno dubbi relativi la compatibilità sia nei confronti del codice deontologico che del GDPR.

Con molta probabilità il fatto di utilizzare piattaforme o app molto diffuse sia all’interno della popolazione generale che diffuse all’interno della comunità stessa di psicologi (istituzioni comprese) facilita i processi decisionali che tendono a sottostimare i rischi legali e deontologici derivanti dall’utilizzo di queste tecnologie.

Tutt’oggi se si incrociano le parole “videochiamata” o “videoconferenza” e “GDPR” in qualsiasi motore di ricerca compaiono pochissime aziende che offrono chiaramente l’informazione di soddisfare i criteri richiesti dal GDPR.

Va ricordato che, in caso di dubbio nel decidere se utilizzare o meno una piattaforma o app che soddisfi o meno i criteri espressi dal codice deontologico o dal GDPR, la scelta eticamente (e deontologicamente e legalmente) corretta dovrebbe essere sempre quella di non utilizzare quegli strumenti tecnologici di cui non sono chiare le implicazioni e i rischi sia per il professionista che per i clienti/pazienti.

Il principio appena descritto è anche codificato formalmente all’interno del GDPR che da una parte non tollera l’ignoranza in materia dell’uso improprio della tecnologia comunicativa utilizzata (la legge non ammette ignoranza, in latino “ignorantia legis non excusat”) e dall’altra, attraverso il principio di “accountability” (responsabilizzazione), attribuisce al titolare del trattamento dei dati la responsabilità di gestire e documentare attivamente i suoi processi decisionali in merito.

Risulta tra l’altro particolarmente interessante dal punto di vista psicologico che questa dinamica di de-responsabilizzazione sia una competenza molto conosciuta della psicologia sociale (si vedano ad esempio in merito i famosi esperimenti di Ash, di Milgram ed il principio di riprova sociale di Cialdini) quindi patrimonio di tutti gli psicologi.

In estrema sintesi è dunque fortemente auspicabile far crescere la cultura digitale, tecnologica e legale/deontologica all’interno della comunità degli psicologi (sia liberi professionisti che non) al fine di ridurre i rischi legali e risarcitori derivanti dall’uso poco professionale del trattamento dei dati dei loro assistiti.

 

La sindrome da Workaholism ai tempi del lavoro agile

Il periodo di quarantena ha modificato non solo il vissuto personale, ma anche le pratiche lavorative. Le aziende si sono trovate, quasi improvvisamente, a gestire l’emergenza organizzativa, approdando, in tempi rapidi, al lavoro agile o smartworking.

 

Ma questo lavoro agile è davvero così “intelligente” da migliorare il benessere di tutti i lavoratori? In un recente report sul lavoro agile nelle Pubbliche Amministrazioni italiane (Tripi & Mattei, 2020) durante il periodo covid19, gli autori rilevano come il lavoro intelligente tenda a diminuire lo spazio sia fisico sia psicologico tra vita privata e vita lavorativa, in quanto rende il lavoratore iperconnesso. Questo può avere effetti positivi, in termini di mobilità, produttività e multitasking; ma anche negatività legate all’aumento dello stress lavoro-correlato, ma soprattutto di sindromi non facilmente rilevabili, come quella da Workaholism. Si tratta, infatti, di una sindrome camaleontica, che si mimetizza con facilità, in quanto, da parte del lavoratore si instaura una vera dipendenza; per l’azienda il lavoratore workaholic può essere una risorsa umana molto produttiva.

Il termine Workaholic (in italiano letteralmente ‘sindrome da alcolista da lavoro’, più in generale ‘sindrome da dipendenza da lavoro’) è stato coniato da Oates (1971), come contrazione delle parole ‘work’, ovvero ‘lavoro’ e ‘a(lco)holic’, cioè ‘alcolizzato’. Si riferisce a persone la cui necessità di lavoro è diventata così forte che può costituire un pericolo per la loro salute, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale (Oates, 1971).

Sebbene sia stata dedicata una notevole attenzione al costrutto di workaholism negli ultimi anni (Fassel, 1990; Garfield, 1987; Kiechel), sono state intraprese poche ricerche empiriche per approfondire la comprensione di questo fenomeno (Porter, 2001; Robinson & Post, 1995, 1997). Questo, infatti, ha influito sulla mancanza di chiarezza nell’operazionalizzazione del costrutto della sindrome da dipenza lavorativa e, di conseguenza anche sulla sua individuazione e valutazione. Alcuni ricercatori, ad esempio, hanno proposto l’esistenza di diversi tipi di modelli di comportamento workaholic (Scott et al., 1997). Naughton (1987) presenta una tipologia di workaholism basata sulla relazione tra impegno professionale e tendenze ossessivo-compulsive.

Interessante è invece notare come, al di là delle differenze individuali che contribuiscono a definire un identikit di lavoratore workaholic, ci sono anche aspetti culturali. Nella Società della Rete (Simmel, 1991), infatti, che ha costruito la cultura della connessione, il lavoro può seguire la risorsa umana in qualsiasi luogo. La tecnologia, quindi, diventa un mezzo che (col)lega all’ufficio. Negli ultimi decenni, la tecnologia ha reso il workaholism più diffuso che mai. Questo accade anche perché, culturalmente, essere ‘occupati’ è un distintivo di onore.

In conclusione, il lavoro agile e intelligente risulta un’ottima strategia per fronteggiare una crisi di qualsiasi natura (dalla pandemia alla crisi economica) agevolando l’azienda, ma anche il lavoratore. Non bisogna, però, dimenticare di ricostruire, anche nel contesto virtuale, momenti di socializzazione, ma soprattutto di supporto e attenzione alle ‘vulnerabilità’ lavorative.

“Fiore”, l’umanità di un genitore – Recensione del film

Il presente articolo, attraverso l’analisi del rapporto padre – figlia del film Fiore di Claudio Giovannesi (2016), descrive il processo di caduta del mito genitoriale durante l’adolescenza, presentando comunque la situazione disagiata in cui si trovano i protagonisti della storia.

 

Ora che dormi ti voglio parlare
sono tuo padre ma non lo so fare
perché io sono cresciuto soltanto in altezza
un metro e ottanta è la mia insicurezza.

Queste sono alcune delle parole della celebre canzone di Federico Salvatore Ninna nanna gelosa, che potrebbero essere pronunciate dal padre di Daphne, la protagonista di Fiore, film di Claudio Giovannesi del 2016, reperibile in questo momento nel catalogo di RaiPlay.

La cornice di questa storia tratta di un contesto particolarmente complesso e svantaggiato. Daphne è una ragazza costretta a rubare telefoni, puntando un coltello alla gola del malcapitato, per poterseli rivendere e sostentarsi con il ricavato. Dorme dove capita e sembra non appartenere ad alcun nucleo familiare, finché non viene rinchiusa in riformatorio e dopo un periodo lì si presenta al colloquio con lei il padre, interpretato da Valerio Mastandrea. Quest’uomo ha trascorso 7 anni in carcere ed essendo appena uscito non ha un lavoro e non può sostenere la figlia economicamente. Egli stesso vive nell’abitazione della compagna, anche lei in condizioni non abbienti e con un figlio ancora in età scolare.

Uno dei legami messi in luce dal film è proprio quello tra Daphne e suo padre. La protagonista vive l’adolescenza in modo ancor più critico rispetto alla consuetudine, ma anche lei come molte ragazze della sua età non è immune ai limiti del padre, che in questo caso sono di natura economica. Dopo aver trascorso un breve periodo con lui, è arrabbiata nei confronti dell’uomo che non può tenerla a casa con sé e non può provvedere a lei, poiché impossibilitato dalla propria situazione. Grazie a questo passaggio è possibile notare quanto il legame tra Daphne e suo padre sia molto simile a quello di una qualsiasi adolescente e il proprio genitore.

Sin dall’infanzia alcune figure genitoriali assumono nella mente dei bambini una parvenza di onnipotenza e sembra come se non potessero essere soggetti ad alcun limite, talmente tanto che nemmeno la morte portebbe coglierli.

L’adolescente per uscire dalla fase infantile deve venire faccia a faccia con i limiti del genitore e sbattendo contro uno o più di questi muri, si trova ad affrontare il dolore che dà l’impatto. Nel momento in cui il limite diviene visibile, la rappresentazione mentale del genitore scende dalle nubi dell’Olimpo e diviene sempre più umana. Eppure il processo di umanizzazione del genitore interiorizzato è più facile a dirsi che a farsi, poiché nell’onnipotenza vi è la colpevolezza, mentre nell’umanità convergono più fattori difficili da digerire, tra cui l’impotenza e l’impossibilità della persona che abbiamo di fronte di essere come vorremmo che fosse, così anche la consapevolezza che un giorno questa persona non ci sarà più.

Nel caso di Daphne la difficoltà è quella di accettare l’impossibilità del proprio padre nel non poterla tenere con sé. Le risulta più facile arrabbiarsi e colpevolizzarlo per la condizione che li tiene separati e che la costringe a tornare nel riformatorio. Invece, negli occhi dell’uomo che va a riprenderla in un pub dopo che lei fugge, si legge il dolore di trovarsi egli stesso davanti alla propria impotenza, non potendo trascorrere con sua figlia più di quel breve periodo insieme.

Pur se non sempre nella stessa condizione economica, in questo “giuoco delle parti”, come lo definirebbe Pirandello, si evince ogni volta che le credenze infantili iniziano a crollare in quei figli pronti ad imbarcarsi nel delicato periodo dell’adolescenza. La differenza fondamentale è che, mentre nel padre di Daphne il limite è più facilmente visibile, poiché di carattere pratico, spesso i limiti genitoriali non sono così palesi e ci mettono più tempo per emergere ed essere poi accettati. Eppure, a volte, anche le impossibilità maggiormente visibili, come quella del padre della ragazza, sono difficili da digerire, poiché bisognerebbe uscire dalla convinzione che quel genitore all’apparenza tanto forte è così tanto umano che non può salvarci, e forse gli unici che possono salvarci siamo noi stessi.

 

Bisessualità: le differenze tra uomini e donne nei comportamenti sessuali

Un recente studio si è proposto di esplorare quali siano i comportamenti bisessuali che le donne e gli uomini considerano come aver “fatto sesso”, con chi li hanno messi in atto e le differenze negli atteggiamenti sessuali e nelle storie sessuali bisessuali attraverso le coorti generazionali.

 

Negli ultimi tre decenni, la ricerca sul rapporto tra identità e salute di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) è aumentata in modo significativo (Institute of Medicine [IOM], 2011). Sebbene questa ricerca abbia evidenziato una serie di disparità di salute vissute dalle persone LGBT, pochi studi si sono concentrati esplicitamente sulla salute delle persone bisessuali (Human Rights Campaign [HRC], 2015).

Spesso i dati di donne e uomini bisessuali sono stati combinati con quelli di donne e uomini gay lesbiche, concentrandosi principalmente sui comportamenti sessuali (ad esempio, fare sesso con donne e/o uomini), piuttosto che sull’identità e sull’esperienza (Bostwick, 2012; Pathela, Blank, Sell, & Schillinger, 2006; Pathela, Hajat, Schillinger, Sell, & Mostashari, 2006;). Tuttavia, le persone identificate bisessualmente costituiscono un gruppo distinto e separato da donne e uomini lesbiche, gay ed eterosessuali (Bostwick, 2012; Galupo, 2011). Un recente studio si è proposto di esplorare quali sono i comportamenti bisessuali che le donne e gli uomini considerano come avere “fatto sesso” e quali di questi comportamenti hanno assunto solo con donne, solo con uomini, donne e uomini, o con nessuno. Inoltre, questo studio esamina le differenze negli atteggiamenti sessuali e nelle storie sessuali di donne e uomini bisessuali attraverso le coorti generazionali.

I partecipanti sono stati selezionati da una banca dati molto ampia (N = 14.724) che comprendeva uno spettro di orientamenti sessuali. I criteri di inclusione per le analisi includevano l’età minima di 18 anni, il fatto di vivere negli Stati Uniti, l’auto-identificazione come bisessuale e l’identificazione come uomo. Essi hanno compilato un questionario online, ovvero il Had Sex Survey del Kinsey Insitute 2007, che aveva lo scopo di esplorare il genere [ad es., “Quale delle seguenti caratteristiche ti descrive meglio? -Donna (nata femmina), – Uomo (nato maschio), – Transessuale / donna transessuale (MTF), – Transessuale / uomo transessuale (FTM); – Donna intersessuale; – Uomo intersessuale; – Uomo intersessuale; – scelgo di non rispondere”], l’orientamento sessuale, gli atteggiamenti riguardo a quali comportamenti costituiscono l’aver “fatto sesso”, andando a fornire una personale definizione di tale atto (ad es., “Diresti di aver ‘fatto sesso’ con qualcuno se il comportamento più intimo che hai avuto è stato…?” seguito da un elenco di comportamenti a cui si può rispondere “No”, “Sì” e “Scelgo di non rispondere”), modelli di comportamento per tutta la vita [ad es., “Ha mai tenuto uno dei seguenti comportamenti con un uomo (uomini) o una donna (donne)”?] e alcuni dati demografici. Per le donne e gli uomini bisessuali di questo campione non c’è stato un accordo universale su quali comportamenti costituiscono l’atto. Tuttavia, come ci si aspetterebbe, è più probabile che alcuni comportamenti siano etichettati come “sesso” rispetto ad altri.

Dai risultati è emerso che relativamente pochi, ma proporzionalmente più uomini bisessuali rispetto a donne bisessuali, considerano il bacio passionale e la stimolazione manuale o orale del seno come “sesso”. Un numero maggiore di partecipanti ha considerato come “sesso” la stimolazione manuale e orale dei genitali e dell’ano, oltre all’uso di giocattoli sessuali. Il rapporto tra l’età e la probabilità di considerare l’uso di giocattoli sessuali come “aver fatto sesso” è risultato statisticamente significativo per entrambi i sessi, in quanto gli uomini e le donne più anziani sono generalmente più propensi a considerare l’uso di giocattoli sessuali come sesso rispetto ai gruppi più giovani. Indipendentemente dal sesso e dall’età, la maggior parte, ma non tutti i partecipanti (88% – 100%), hanno considerato i rapporti penilo – vaginali (PVI) e penilo – anali (PAI-ricettivi; e per gli uomini PAI-insertivi) come “rapporto sessuale”. Nello specifico, le donne sono risultate significativamente più propense degli uomini a contare PVI e PAI – ricettivo come sesso.

I risultati rivelano anche che per gli uomini bisessuali, i comportamenti sessuali più comunemente segnalati con partner di entrambi i sessi sono stati i comportamenti manuali e orali dei genitali (“80%), il bacio profondo e la stimolazione manuale del seno (70%) e la stimolazione orale del seno (60%). Circa un terzo ha riferito di aver avuto rapporti anali insertivi con uomini e donne e un altro quarto ha riferito di averli avuti solo con partner maschi. L’età è stata associata in modo significativo con l’aver adottato tutti i comportamenti tranne il bacio profondo, anche se la natura precisa della relazione variava. Rispetto alle fasce d’età più anziane, un numero minore di uomini bisessuali nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni si è impegnato in tutti i comportamenti ad eccezione dei baci profondi. In altre parole, le coorti in età più avanzata hanno riferito un maggior numero di esperienze sessuali di vario tipo.

Per le donne bisessuali, i comportamenti sessuali più comunemente segnalati con partner di entrambi i sessi erano il bacio profondo (quasi il 90%), la stimolazione manuale e orale del seno e la stimolazione manuale dei genitali (“80%) e quella orale (“70%). PVI e PAI con soli uomini sono stati segnalati rispettivamente dall’84% e dal 64%. Circa un quarto ha riferito solo con i partner maschi. L’età è stata associata in modo significativo con l’aver adottato tutti i comportamenti tranne il bacio, con le coorti più anziane che hanno avuto più esperienza. Tuttavia, la forza delle associazioni di storie di comportamento con l’età erano generalmente più deboli rispetto a quelle degli uomini. In sintesi, rispetto agli uomini e alle donne bisessuali più anziani, i gruppi di età più giovani (18-29 anni) hanno riportato una minore esperienza sessuale ed erano meno propensi a contare un certo numero di comportamenti come sesso; e le correlazioni con l’età erano più forti per gli uomini che per le donne su un certo numero di item. Tuttavia, questo modello non è limitato a questo campione bisessuale (Sanders et al., 2010).

Tali risultati hanno importanti implicazioni metodologiche per gli studi basati su questionari e stime della popolazione sul comportamento e l’identità sessuale e hanno ramificazioni cliniche per intervistare clienti o pazienti.

 

Il Training Autogeno nella malattia oncologica

A fronte delle numerose evidenze sull’utilizzo del training autogeno in vari contesti, risulta interessante l’applicazione di tale tecnica nel campo oncologico, ovvero nella riduzione del dolore e nel miglioramento generale della qualità di vita percepita.

 

Il Training Autogeno (TA) è una tecnica di rilassamento sviluppata da J.H. Schultz nel 1932 con l’obiettivo di rendere il paziente meno vincolato al terapeuta e conseguentemente di sviluppare una capacità di rilassamento autonoma. È una tecnica mind to muscle, che parte dal presupposto di arrivare ad un rilassamento corporeo attraverso la concentrazione mentale. Il concetto di base è l’ideoplasia, il fenomeno per cui il pensiero riesce a modificare uno stato corporeo, mentre il principio di funzionamento è il condizionamento classico: attraverso la ripetizione di esercizi mentali volti a raggiungere un obiettivo fisiologico, si arriva alla costante associazione tra questi (Mauti, 2012).

Il training autogeno, nella sua forma, presenta sei esercizi base:

  1. Pesantezza
  2. Calore
  3. Cuore
  4. Respiro
  5. Plesso solare
  6. Fronte fresca

Gli esercizi sopra esposti seguono una prima fase di modulazione del respiro, più profondo e lento ed una induzione alla calma e rilassamento.

In letteratura sono stati riportati gli effetti positivi di tale tecnica nel trattamento di numerosi disturbi, in particolare nell’emicrania, asma, eczema, ipertensione, tachicardia, disturbi somatoformi, insonnia, ansia, depressione e dolore cronico (Linden, 1994; Stetter & Kupper, 2002; Varvogli & Darviri, 2011).

A fronte delle numerose evidenze sull’utilizzo del training autogeno in vari contesti, risulta interessante l’applicazione di tale tecnica nel campo oncologico, ovvero nella riduzione del dolore e nel miglioramento generale della qualità di vita percepita; il TA permette infatti al paziente di svolgere tale tecnica in autonomia ed in un contesto domestico e familiare rendendo più facile e accessibile l’utilizzo della tecnica di rilassamento quotidianamente. Generalmente la diagnosi di malattia neoplastica genera nel pazienti sentimenti di incertezza, paura, rabbia, insonnia e stress (Campolmi et al., 2019; Williams et al., 2016) che spesso persistono durante l’iter oncologico, riverberandosi su numerosi aspetti della vita del paziente e del familiare; rendendo necessari e auspicabili interventi complementari che siano volti a supportare il paziente nel suo percorso e garantirgli una qualità di vita soddisfacente.

Uno studio (wright et al., 2002) ha preso in esame l’effetto del Training Autogeno su un gruppo di pazienti oncologici, dopo aver somministrato il questionario HADS (Hospital Anxiety Depression Scale) e POMS (Profile of Mood States) prima e dopo il trattamento, analizzando i dati sia quantitativamente che qualitativamente.

I principali risultati dopo 10 settimane di training hanno sottolineato una riduzione dell’ansia misurata con il questionario HADS e maggiori punteggi di vigore e spirito combattivo (POMS); in aggiunta i resoconti self-report dei pazienti hanno mostrato una minore rabbia e tensione percepita, una maggiore facilità nell’addormentamento, un effetto calmante e distensivo oltre che una maggiore focalizzazione su se stessi e sui propri pensieri ed una migliore espressione degli stessi, favorendo un incremento del benessere percepito. Gli autori commentano tali risultati sottolineando che il senso di confidenza e padronanza conferito dall’acquisizione del training potrebbe placare le paure associate all’anticipazione del futuro, l’utilizzo della tecnica in autonomia permette di avere una maggiore padronanza e di svolgerla nei momenti di maggior bisogno.

Un altro studio (Hidderley, 2004) ha esaminato come l’insegnamento del training autogeno in un gruppo di pazienti oncologici influisca sulla risposta immunitaria e sulle variabili di ansia e depressione (HADS). Suddividendo il campione di 31 soggetti in due sottogruppi, uno sperimentale ed uno di controllo, i risultati hanno mostrato una riduzione dei punteggi di ansia e depressione dei soggetti che avevano partecipato al percorso di training autogeno; inoltre, nel medesimo sottogruppo, è stata osservata una maggiore risposta immunitaria attraverso l’analisi dei linfociti T e B sia rispetto al periodo antecedente il  training sia rispetto al sottogruppo di controllo. Tale dato sembra essere confermato anche da un altro studio (Minowa & Koitabashi, 2014) dove è stato evidenziato un incremento della risposta immunitaria attraverso l’analisi della immunoglobulina A salivare, in un gruppo di pazienti oncologici sottoposti a trattamento con TA rispetto al gruppo di controllo. Gli autori commentano che la stimolazione del sistema parasimpatico indotta dall’utilizzo del training potrebbe indurre una risposta immunitaria maggiore, laddove è ben documentato l’effetto dello stress nella riduzione della stessa (Taylor, 2014).

Generalmente, durante l’iter oncologico, una fase critica è rappresentata dal trattamento medico, sia farmacologico che chirurgico, dove è frequente il riscontro di sentimenti ambivalenti come la speranza per il sollievo dal dolore o dalla progressione della malattia e contemporaneamente paura ed ansia per l’invasività o l’esito del trattamento (Stark & House, 2000)

Minowa e Koitabashi (2013) hanno preso in esame l’effetto della pratica del training autogeno sulle le variabili di ansia e di dolore percepito attraverso rispettivamente il test STAI (Stait-Trait Anxiety Inventory) e VAPS (Visual Analogue Pain Scale), in un campione di 60 pazienti con tumore al seno a seguito dell’intervento chirurgico. Un gruppo di pazienti ha seguito un protocollo di TA per 20 minuti, 3 volte al giorno nei 3 giorni successivi l’intervento, mentre l’altro gruppo ha seguito l’assistenza usuale. I risultati mostrano una significativa riduzione dei parametri dell’ansia nel post-test all’interno del gruppo che aveva partecipato al training rispetto al gruppo di controllo; gli autori commentano questo dato, in linea con quanto affermato da Wright e coll. (2002), che la stimolazione del sistema parasimpatico possa aver indotto uno stato di calma e rilassamento contribuendo ad interrompere il circolo vizioso di ansia, tensione e dolore. Per quanto concerne i punteggi di dolore, vi è stata una riduzione significativa nel gruppo che ha partecipato al TA rispetto al gruppo di controllo, nonostante sia stata seguita la medesima terapia medica. Gli autori specificano che l’effetto di rilassamento del training, nel presente studio, si è mantenuto per circa un giorno, mentre in accordo con la letteratura, sono necessarie circa 8 settimane per padroneggiare efficacemente la tecnica ed avere un effetto più duraturo.

Il training autogeno si è dimostrato inoltre efficace nella prognosi dell’insonnia in pazienti affetti da malattie croniche, dove stress e ansia possono essere sia causa che conseguenza di difficoltà nel sonno.

Pertanto, Robinson e colleghi (2010) hanno preso in esame l’effetto della pratica del TA in un campione di 153 pazienti con problemi cronici di salute ed è emerso un significativo aumento della qualità del sonno percepita: nello specifico sono stati riportati minor risvegli notturni, un sonno percepito come maggiormente ristoratore e una minore latenza nell’addormentamento.

Analoghi risultati sono stati trovati in uno studio di Simeit e collaboratori (2004), dove è stata riscontrata una minor latenza nell’addormentamento, qualità e durata maggiore di ore di sonno in un campione di pazienti oncologici a seguito di un percorso di TA.

I dati hanno dimostrato anche un miglioramento della qualità di vita percepita attraverso la somministrazione del QLC-30, sottolineando un beneficio psicologico generale dell’intervento.

I risultati sopra esposti sono incoraggianti prendendo in considerazione che la prevalenza dei disturbi del sonno è presente nel 23-60% dei pazienti oncologici in rapporto al 9-30% della popolazione generale (Semeit et al., 2004).

In conclusione, sebbene siano numerosi gli studi che prendono in esame i bisogni psicologici ed assistenziali del malato oncologico, sono relativamente poche le ricerche che inseriscono e studiano il Training Autogeno come intervento complementare nella pratica oncologica.

I risultati sopra esposti mettono in luce gli aspetti positivi dell’utilizzo del TA nell’incrementare il benessere percepito, nel ridurre variabili di ansia, stress e problemi legati al sonno; potenzialmente si può evincere che tale tecnica di rilassamento, soprattutto per la possibilità di essere svolta in autonomia e relativa facilità di apprendimento, rappresenti un importante ausilio nell’intervento con il malato oncologico, migliorando molteplici variabili psicologiche e fisiche che, interconnesse, possono incrementare la qualità di vita del paziente. Sarebbe inoltre interessante approfondire la ricerca in questo campo estendendo l’utilizzo del training autogeno ad i familiari dei pazienti con il cancro, essendo quest’ultima una malattia che si riverbera inevitabilmente sul sistema di relazioni della persona che ne è affetta, stravolgendo i ruoli e la quotidianità del contesto familiare di cui fa parte.

 

Covid-19: il trattamento breve gruppale online – Report dal webinar delle Dott.sse Rebecchi, Mazzocco e Ascani

L’ultimo incontro, organizzato da Studi Cognitivi per approfondire alcuni aspetti psicologici relativi all’emergenza Covid-19, ha avuto come protagoniste le Dr.sse Rebecchi, Mazzocco e Ascani. Il webinar del 5 giugno ha esposto un protocollo per il trattamento gruppale online in risposta al disagio scaturito dalla pandemia e dalle sue conseguenze.

 

Le docenti hanno fornito i dati della letteratura scientifica, chiarito le motivazioni che hanno portato alla creazione dell’intervento e hanno illustrato il protocollo sia nei suoi aspetti organizzativi che operativi, proponendo anche esercizi esperienziali.

La Dr.ssa Rebecchi ha spiegato come la psicologia clinica e quella d’emergenza siano le discipline a cui far riferimento nel rispondere alle numerose richieste di aiuto per la gestione dello stress conseguente al contesto pandemico. L’impatto globale del SARS-CoV-2 sulla salute pubblica è senza precedenti e ha messo in discussione tutti i clinici: sono saltati alcuni criteri diagnostici (per esempio, non possiamo più parlare di disturbo acuto da stress per la durata del fenomeno, non è un evento paragonabile a un terremoto) e sono cambiati i setting d’intervento. La letteratura a riguardo è in fase di produzione e non si hanno ancora abbastanza informazioni sul virus, sulle conseguenze e sull’impatto psicologico a breve, medio e lungo termine.

L’idea di un protocollo per il trattamento gruppale cognitivo-comportamentale nasce da Studi Cognitivi. Le motivazioni alla base della sua realizzazione sono:

  1. costruire un protocollo breve per la gestione dello stress e delle reazioni emotive (ansia, umore deflesso e rabbia), nell’ottica di trovare un nuovo adattamento;
  2. individuare un contesto (quello di gruppo) in grado di favorire la conoscenza, comprensione e condivisione di una varietà di eventi stressanti, delle diverse reazioni emotive e comportamentali (positive e negative) e delle possibili risorse di fronteggiamento;
  3. dare attenzione alla peculiarità del fenomeno pandemico Covid-19, che comprende diverse variabili: la paura della malattia o del contagio, le reazioni alle misure di prevenzione, ai dispositivi e al susseguirsi delle fasi, lo smarrimento causato da informazioni contrastanti, l’incertezza per il futuro, …

I gruppi CBT-Covid-19 hanno lo scopo di favorire la gestione dello stress derivante dalla situazione attuale di emergenza e si articolano in 6 incontri a cadenza settimanale da 1 ora e mezza ciascuno. I gruppi sono composti da un massimo di 8 partecipanti e due conduttori. Alla fine del ciclo di incontri sono stati pensati 3 follow-up per monitorare i livelli di stress (a 1 mese, 3 mesi e 6 mesi). I criteri di ingresso al gruppo, necessari per la valutazione di efficacia e per poter estendere il protocollo, sono:

  • la presenza di una sintomatologia reattiva o di un disagio significativo legato ai contenuti di paura del contagio o a reazioni emotive nei confronti dei dispositivi e delle conseguenze;
  • il raggiungimento di punteggi soglia (cut-off): IES > 33 e CORE > 14;
  • l’assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia, depressione e PTSD (criteri rilevati tramite colloquio clinico).

Da non sottovalutare, inoltre, la disponibilità dei partecipanti a lavorare in 1 ora e mezzo ogni settimana online in uno spazio tranquillo e intimo.

L’incontro preliminare e i 3 follow-up prevedono la compilazione di una batteria testale, sulla piattaforma inTherapy, composta da:

  • CORE-OM: utile per la valutazione di esito; permette di analizzare diversi domini: il benessere soggettivo, i sintomi-problemi, il funzionamento e i rischi per sé e per gli altri.
  • GAD-7 (Generalized Anxiety Disorder 7): il self-report maggiormente utilizzato per lo screening dei disturbi d’ansia.
  • PHQ-9 (Patient Health Questionnaire – 9): una scala che misura i sintomi depressivi relativi alle ultime due settimane.
  • IES-R (Impact of Event Scale – Revised): il più diffuso strumento per la valutazione di screening della sintomatologia post-traumatica.

Tutti gli incontri sono stati pensati con un’architettura simile: un riassunto della seduta precedente, la revisione degli homework, un’introduzione riguardante l’obiettivo dell’incontro, un brainstorming sulle sedute precedenti e sull’argomento del giorno, l’informativa, alcuni esercizi esperienziali e gli homework per consolidare gli apprendimenti.

Incontro 1: Quali eventi critici di stress

Il primo incontro si apre con la presentazione dei partecipanti e delle regole del gruppo, necessarie per garantire la condivisione e la privacy. Dopo questo primo momento si prosegue con l’esplorazione, la validazione e la normalizzazione dei vissuti emotivi, dei pensieri e delle reazioni alla pandemia riportate da ogni membro del gruppo. Successivamente vengono spiegate le varie fasi che ogni persona attraversa quando è esposta ad eventi stressanti (informativa) e vengono contestualizzate le reazioni emerse durante l’esplorazione (sintomi cognitivi, emotivi e comportamentali). L’intervento si conclude con l’esercizio del posto al sicuro, che costituirà anche l’homework della settimana per i partecipanti.

Incontro 2: Tecniche di gestione allo stress

Nel corso del secondo incontro viene spiegato cosa sono gli indicatori somatici di disregolazione e la finestra di tolleranza (Siegel, 2003) e vengono introdotte alcune tecniche di gestione dello stress a partire dalle situazioni condivise dai membri del gruppo durante l’intervento precedente. Nell’ottica di rispondere a diverse esigenze ed esperienze, gli esercizi proposti e insegnati vanno in due diverse direzioni:

  • regolare l’iperattivazione del sistema simpatico: calmare l’attivazione con esercizi di ri-orientamento, ridurre la tensione e regolare il respiro;
  • regolare l’ipoattivazione del sistema parasimpatico: aumentare l’attivazione con esercizi di ri-orientamento, aumentare la tensione e regolare il respiro.

Incontri 3, 4 e 5: Le emozioni e la pandemia

Gli incontri 3, 4 e 5 sono dedicati alle emozioni che più spesso hanno accompagnato la popolazione durante la fase di emergenza sanitaria da Covid-19: l’ansia, le sensazioni depressive e la rabbia. Infatti, non sono rari i casi di forti preoccupazioni per un possibile contagio, angosce per un futuro incerto, una profonda tristezza per l’isolamento o per le difficoltà nella gestione dei figli e dirompenti arrabbiature dovute al mancato rispetto delle regole di prevenzione.

Ognuno di questi incontri prevede una fase di sintetica informativa sull’emozione e sulle sue caratteristiche, la costruzione di ABC a partire dagli episodi condivisi dai partecipanti, la disputa dei pensieri disfunzionali e l’individuazione di pensieri alternativi. Durante ogni intervento, inoltre, vengono fornite delle strategie utili per affrontare lo stato interno preso in esame:

  • accettazione Be A.W.AR.E (Beck, A.T., Emery, G. & Greenberg, R.L. 1985), training attentivo (Wells, 2012) e rilassamento progressivo di Jacobson (Goldwurm, G. F., Sacchi, D., & Scarlato, A. 1986) per l’ansia;
  • accettazione della tristezza, identificazione delle risorse e programmazione di attività piacevoli (Leveni, 2018) nel caso delle sensazioni depressive;
  • stop del pensiero (Johnson, 1999) e respirazione lenta (Andrews, 2003) per la rabbia.

Incontro 6: Utilizziamo le risorse

Durante l’ultimo incontro si effettua un riepilogo degli interventi precedenti e si prova ad individuare ed imparare vecchie risorse e nuove tecniche per affrontare in modo più funzionale le situazioni difficili. Inoltre, partendo dalle problematiche emerse nel ciclo di incontri, verrà dedicato uno spazio alla prevenzione delle ricadute, identificano eventuali segnali di stress e le possibili strategie alternative.

 

Come individuare i casi di alienazione genitoriale: il modello a quattro fattori validato da Amy J. L. Baker

Nel corso di separazioni coniugali spesso si osservano dinamiche relazionali caratterizzate da una forte ostilità che possono incidere sul benessere psicologico dei figli. In questo ambito si inserisce un fenomeno, attualmente di forte interesse per ricercatori e professionisti dell’ambito psicologico-clinico e forense, denominato alienazione genitoriale.

Daniela Marchetti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto

 

Nella letteratura recente il termine alienazione genitoriale è utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore (a cui ci si riferisce con la denominazione di preferito o alienante) mette in atto comportamenti (strategie di alienazione) che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (che assume il ruolo di bersaglio o genitore rifiutato). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi presentano specifici segni rivelatori (manifestazioni comportamentali di alienazione genitoriale) e possono essere considerati figli alienati (Baker & Fine, 2014).

I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano la necessità in prima istanza di saper riconoscere dinamiche coniugali complesse, terreno fertile per lo sviluppo dell’alienazione genitoriale, in seconda istanza di individuare interventi che consentano di ridurre gli effetti a lungo termine sui figli.

Il modello a quattro fattori

In letteratura è possibile rintracciare diverse definizioni dell’alienazione genitoriale non necessariamente in disaccordo ma caratterizzate da una enfatizzazione di aspetti diversi del processo di alienazione (Verrocchio & Marchetti, 2017). In questa sede si fa riferimento al modello che individua e sottolinea quattro elementi centrali per la definizione e identificazione della dinamica di alienazione genitoriale. Seguendo questo modello recentemente validato dalla Dott.ssa Amy J. L. Baker (2018), riconosciuta a livello mondiale come una delle maggiori esperte del fenomeno, affinché si possa parlare di alienazione genitoriale è necessario siano presenti contemporaneamente quattro fattori. Se vengono rintracciati solo alcuni di questi non sarà pertanto corretto parlare di alienazione genitoriale.

Il primo elemento da considerare è la presenza di un rifiuto non giustificato di un genitore. Ciò vuol dire che non dovranno configurarsi esperienze di abuso o trascuratezza perpetrate dal genitore bersaglio o rifiutato. In questi casi infatti non è corretto parlare di alienazione genitoriale, ma di rifiuto motivato da parte di un figlio che rientrerebbe tra le dinamiche dell’estrangement (Harman, Bernet, & Harman, 2019; Kelly & Johnston, 2001).

Il secondo elemento è costituito dalla constatazione che il bambino rifiuta un genitore che precedentemente amava e con il quale aveva un buon legame di attaccamento. Per valutare questo fattore risulta fondamentale analizzare in maniera esaustiva la qualità della relazione genitore-figlio antecedente la conflittualità di coppia. Se si rintracciano elementi a sostegno di una relazione normativamente sana, il cambiamento rigido dell’atteggiamento del bambino nei confronti del genitore rifiutato potrà costituire un elemento che contribuirà all’identificazione di un caso di alienazione genitoriale.

Il terzo elemento deriva dall’osservazione di comportamenti tipici da parte del figlio rifiutante. Tra questi comportamenti si possono osservare: la campagna denigratoria del genitore rifiutato; la presenza di motivazioni deboli addotte per il rifiuto ingiustificato del genitore bersaglio; l’assenza di ambivalenza nei confronti del genitore preferito; il fenomeno del pensatore indipendente; il fenomeno degli scenari presi in prestito; la totale assenza di senso di colpa; il sostegno incondizionato del genitore preferito; la diffusione dell’ostilità ad altri componenti del nucleo familiare del genitore rifiutato (nonni, zii, ecc.). Tali comportamenti sono stati identificati e classificati da Gardner (1992) e possono essere rintracciati nella descrizione approfondita proposta da Verrocchio e Marchetti (2017).

Il quarto ed ultimo elemento è costituito dalla presenza di atteggiamenti e comportamenti specifici messi in atto dal genitore preferito. Le strategie di alienazione sono ampiamente descritte nella letteratura internazionale e nazionale (Baker, 2007; Bernet, Baker & Verrocchio, 2015; Verrocchio & Marchetti, 2017). Ci si limiterà pertanto a indicarne solo alcune delle più frequenti per fornire esempi utili. Una strategia spesso utilizzata è il parlar male o denigrare l’altro genitore davanti al figlio. Bisogna precisare che non ci si riferisce a sporadiche critiche o osservazioni fatte nei confronti del coniuge o ex coniuge, ma a continue manifestazioni verbali e non verbali di denigrazione dell’altro genitore davanti al figlio. Un’altra strategia frequentemente riscontrata è costituita dalla messa in atto di comportamenti volti a limitare il contatto e la comunicazione tra il genitore e il figlio (ad esempio, addurre scuse per non rendere disponibile il figlio, limitare o evitare le telefonate, ecc.). Tali strategie possono essere accompagnate da manifestazioni di freddezza emotiva e scarsa responsività se il figlio manifesta la volontà di parlare e/o vedere il genitore bersaglio dimostrando quindi affetto nei suoi confronti. Queste ed altre strategie minano a più livelli la relazione genitore bersaglio-figlio:

  1. creano una relazione simbiotica tra il bambino e il genitore preferito;
  2. creano distanza tra il genitore bersaglio e il bambino, attenuando o interrompendo il loro legame di attaccamento;
  3. portano il genitore bersaglio a provare sofferenza e rabbia nell’interazione con il figlio rifiutante e tali sentimenti contribuiscono ad alimentare il conflitto esistente.

Le conseguenze dell’alienazione genitoriale

L’importanza di identificare correttamente la presenza della dinamica di alienazione deriva da una corposa letteratura che ha individuato effetti negativi in coloro che hanno riferito di essere state vittime di alienazione genitoriale. Tali conseguenze si manifestano attraverso bassa autonomia, sintomatologia ansiosa e depressiva, stile di attaccamento insicuro, distress psicologico e bassa qualità della vita (Baker & Ben-Ami, 2011; Ben-Ami & Baker, 2012; Bernet et al., 2015; Saini et al., 2016Verrocchio & Baker, 2015; Verrocchio, Baker & Bernet, 2016; Verrocchio, Marchetti & Fulcheri, 2015; Verrocchio, Marchetti, Carrozzino, Compare, Fulcheri, 2019). Inoltre l’alienazione genitoriale viene attualmente considerata una forma di maltrattamento psicologico. Diverse ricerche sottolineano in modo stabile che tanto più vengono messe in atto strategie di alienazione da parte del genitore preferito quanto più il figlio si sentirà vittima di maltrattamento (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Questa forma di violenza viene definita in letteratura come una reiterazione di pattern comportamentali o modelli relazionali ritenuti psicologicamente dannosi in quanto creano nel bambino l’idea di essere non amato, non desiderato, non meritevole di amore (Binggeli, Hart, & Brassard, 2001) e comprende atti di commissione (abuso emotivo) e di omissione (trascuratezza emotiva) (Verrocchio, 2014).

Recentemente, partendo dalle caratteristiche definitorie e dalle implicazioni per la salute, la dinamica di alienazione genitoriale è stata proposta come una forma specifica di violenza familiare al fine sia di promuovere un più ampio riconoscimento del fenomeno, sia di fornire una cornice teorica che consenta di condurre ricerche utili ad un ulteriore sviluppo di trattamenti rivolti ai figli alienati e ai genitori bersaglio (Harman et al., 2018; 2019).

 

Momentaneamente silenziosi. Guida per operatori, insegnanti e genitori di bambini e ragazzi con mutismo selettivo (2018), di E. Iacchia, P. Ancarani – Recensione

In Momentaneamente silenziosi non mancano una serie di domande tipiche che il genitore spesso si pone circa il mutismo selettivo manifestato dal proprio figlio. Ogni quesito ha la sua risposta riconducibile ad un determinato paragrafo del testo.

 

Durante la lettura di questo libro ho provato un po’ ad immedesimarmi in quel mutismo che le autrici definiscono ‘situazionale’. Ho ipotizzato una situazione in cui l’ansia potesse raggiungere il culmine, e in effetti mi sono resa conto che verrebbe spontaneo ammutolirsi.

Questo perché il Mutismo Selettivo altro non è che un disturbo caratterizzato da una forte ansia, la quale, mal gestita, blocca la parola in alcuni ambienti o situazioni; talvolta il disagio è circoscritto solo verso alcuni interlocutori.

Si tratta di un mutismo situazionale in quanto in situazioni in cui l’ansia non è elevata i soggetti parlerebbero normalmente.

Per farci meglio capire questo concetto le autrici espongono varie testimonianze e casi di soggetti con mutismo selettivo.

Vengono descritte situazioni in cui il soggetto, di età infantile ma non solo, cade nel proprio silenzio senza la propria volontà, esperendo questa situazione con difficoltà e disagio.

Soprattutto viene esposta una condizione difficilmente gestibile per insegnanti e genitori.

I primi paragrafi del libro sono volti a illustrarci il disturbo secondo i criteri del DSM 5, riconoscerne i campanelli di allarme, le cause e le conseguenze.

Ne viene fuori un’importanza non indifferente riconosciuta alle emozioni. I soggetti con mutismo selettivo sono particolarmente emotivi, e chi sta loro accanto dovrà essere bene in grado di saper affrontare questa emotività.

Le autrici espongono tre pilastri che consentono di uscire da questa condizione di mutismo: innanzitutto insegnanti e genitori dovranno accettare e comprendere la situazione con la consapevolezza che essa sia del tutto risolvibile; in secondo luogo bisogna essere diligenti nell’organizzare in modo abile tutte le informazioni sul disturbo; infine sarà possibile attivarsi rimodulando la gestione dei rapporti nelle case e nelle aule.

Nei capitoli a seguire il libro si trasforma in una vera e propria guida in prima linea per i genitori, a seconda dell’età del proprio figlio, della situazione e dei luoghi in cui il mutismo potrebbe verificarsi.

Una guida molto pratica, che suggerisce le attività manuali che il genitore potrebbe proporre al proprio figlio. Come se il genitore possedesse una bussola di cui ogni punto cardinale ha la sua importante direzione da seguire.

E non mancano una serie di domande tipiche che il genitore spesso si pone circa questo disturbo manifestato dal proprio figlio. Ogni quesito ha la sua risposta riconducibile ad un determinato paragrafo del testo. Ciò rende il libro una guida completa e di facile e immediato utilizzo.

Naturalmente non poteva mancare una parte del testo dedicata al contesto scolastico.

A scuola il mutismo selettivo viene sovente confuso con un’eccessiva timidezza. Eppure la scuola è l’ambiente in cui questo disturbo viene ad esperirsi con maggiore frequenza.

Conta per cui far sì che l’insegnante sia in qualche modo strategico. Naturalmente ciò sarà possibile solo costruendo una giusta rete scuola – famiglia.

Il ragazzo dovrà sentirsi inserito, accettato e rilassato. Non è infatti un caso che l’alunno affetto da mutismo selettivo possa divenire una vittima di bullismo.

Anche per gli insegnanti le autrici del libro mettono a disposizione una serie di domande e risposte al fine di fornire le corrette linee guida per la gestione del disturbo esperito a scuola.

E non bisogna sorvolare sul fatto che il mutismo selettivo non è solo una condizione caratterizzante l’infanzia, bensì è facilmente riscontrabile anche in età adolescenziale.

In un’età in cui le emozioni raggiungono l’apice dell’intensità potrebbe sembrare non semplice gestire questa condizione, ma anche in tal caso è risolvibile. Bisogna seguire i tre pilastri suggeriti dalle autrici: comprendere la situazione, pianificare dal punto di vista teorico un intervento adeguato, e infine attivarsi sulla gestione dei rapporti esperiti dal ragazzo.

In fondo le strutture scolastiche ed educative sono ben attrezzate per la gestione di tali situazioni, e laddove necessario non sarà difficile mettere a punto un Piano Didattico Personalizzato per il soggetto in questione.

Il libro è dunque una guida ben completa sul mutismo selettivo, che si limita non solo a descriverci il disturbo con le sue possibili cause e conseguenze, ma intende aiutare gli adulti di riferimento nella gestione dei rapporti con i propri figli o alunni.

E soprattutto pone l’accento su una questione di non scarso rilievo: talvolta anche riuscire a pronunciare una parola potrebbe definirsi un’impresa… non impossibile.

 

Violenza domestica: confronto tra due programmi di intervento per gli aggressori

Il tema della violenza domestica è stato molto discusso recentemente, anche in seguito all’aumento dei casi di violenza domestica avvenuto durante il periodo di quarantena legato alla pandemia di covid-19.

 

Infatti, secondo quanto riportato dall’Istat, le telefonate al numero verde 1522 antiviolenza e stalking sono aumentate del 73% tra il primo marzo e il 16 aprile 2020. Nel 93,4% dei casi la violenza riportata avveniva in casa, ossia veniva perpetrata da parte di persone vicine alla vittima.

Che cosa si può fare per proteggere efficacemente le vittime di violenza domestica?

Negli Stati Uniti, accanto ai provvedimenti della polizia e delle autorità giudiziarie, vengono proposti diversi programmi di intervento per gli aggressori (batterer intervention programs, BIP; Zarling, Bannon e Berta, 2019). Tradizionalmente, questi programmi seguono un protocollo definito Duluth Model. Il Duluth Model si sviluppa da una prospettiva teorica secondo cui la violenza domestica è conseguenza di una visione patriarcale. Pertanto, l’obiettivo generale del trattamento è modificare le convinzioni sessiste degli aggressori, da cui deriverebbero i loro comportamenti violenti. Il protocollo è caratterizzato dall’uso di tecniche psicoeducative, che hanno lo scopo di far comprendere la gravità degli abusi commessi. Il Duluth Model può essere somministrato da solo o in combinazione con un trattamento cognitivo comportamentale (CBT), per modificare credenze problematiche e comportamenti disfunzionali.

Tuttavia i programmi basati sul Duluth Model, sulla CBT o su una combinazione dei due hanno un’efficacia poco soddisfacente, in quanto non riducono adeguatamente i tassi di recidiva (Eckhardt et al., 2013).

Per questo, Zarling e colleghi (2019) hanno studiato l’efficacia di un programma alternativo, definito Achieving Change Through Values-Based Behavior (ACTV), ossia “raggiungere il cambiamento attraverso comportamenti basati sui valori”. L’ACTV trae le proprie radici dall’ACT (Acceptance and Committment Therapy), una forma di psicoterapia che dà importanza al raggiungimento di ciò che ha valore per ciascuno. Secondo l’ACT, la violenza domestica potrebbe essere ricondotta al tentativo di evitare esperienze interiori spiacevoli, ad esempio pensieri o emozioni negativi.

L’ACTV cerca di promuovere il cambiamento concentrandosi non tanto sul modificare il contenuto di pensieri ed emozioni, come nel Duluth Model e nella CBT, quanto sul modificare il modo in cui si reagisce a questi pensieri ed emozioni. Ad esempio, di fronte al pensiero “La mia partner non dovrebbe trattarmi in questo modo”, il Duluth Model e la CBT cercherebbero di sostituire questo pensiero con uno più razionale; l’ACTV invece cercherebbe di insegnare a rispettare comunque l’altra persona, anche se si ritiene che non ci stia trattando come vorremmo. Inoltre nell’ACTV si utilizzano i valori importanti per l’individuo come motivazioni per perseguire il cambiamento.

L’ACTV prevede cinque moduli: nel primo l’obiettivo è individuare i valori importanti per ciascuno e imparare a riconoscere quali comportamenti sono efficaci nel raggiungerli e quali no. Il secondo, il terzo e il quarto modulo si focalizzano rispettivamente sull’insegnamento di abilità di regolazione emotiva, abilità cognitive e abilità comportamentali, ad esempio di comunicazione, assertività e risoluzione dei conflitti. Il modulo finale si concentra sull’identificazione di possibili ostacoli al cambiamento e su come agire per risolvere queste eventuali difficoltà.

Zarling e colleghi (2019) hanno confrontato l’efficacia dei due programmi di intervento sopra descritti in un campione di oltre tremila uomini condannati per violenza domestica. L’efficacia è stata definita come effettività nella prevenzione di recidive, cioè nuove denunce per reati a carico dai partecipanti durante i dodici mesi successivi al trattamento.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti che avevano svolto parzialmente o completamente l’ACTV avevano meno denunce per reati in generale e per reati violenti nei 12 mesi successivi al trattamento, rispetto a coloro che avevano seguito il Duluth Model abbinato alla CBT. Tuttavia non c’erano differenze tra i due gruppi rispetto al numero di denunce ricevute per violenza domestica.

Questo significa che l’ACTV è risultato più efficace nel prevenire la perpetrazione di reati in generale, anche di natura violenta, ma non è risultato più effettivo nel prevenire la violenza domestica, che era invece proprio il suo scopo principale.

Zarling e colleghi (2019) sostengono che ciò possa dipendere dall’ampiezza di abilità insegnate tramite il programma ACTV, che possono essere estese a varie situazioni oltre al contesto relazionale. Ciò è senz’altro utile, tuttavia non mira in modo specifico l’obiettivo di proteggere le vittime di violenza domestica aiutando gli aggressori a cambiare il proprio comportamento.

È comunque possibile che l’ACTV sia efficace nel ridurre anche la violenza domestica per specifici campioni. Per scoprirlo, sarebbero necessari ulteriori studi. La ricerca in futuro dovrebbe anche cercare di spiegare perché, ossia attraverso quali specifici meccanismi, l’ACTV sia efficace.

In conclusione, l’aspetto più socialmente e praticamente rilevante di questo studio è che, sebbene i dati circa l’efficacia dell’ACTV debbano essere approfonditi, esso dimostra l’importanza di adottare pratiche evidence-based nella rieducazione di autori di reato. Infatti, solo attraverso un approccio scientifico è possibile monitorare l’efficacia di un intervento, evitando il rischio di affidare al senso comune gli sforzi per eliminare la violenza domestica.

 

Disturbi dell’umore in menopausa

La menopausa costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Se la produzione degli estrogeni cala, diminuiscono anche le quantità di serotonina, endorfine e dopamina e di conseguenza si verifica un notevole cambio dell’umore.

Francesca Carbonella – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La menopausa è una tappa fisiologica della vita di ogni donna. Essa si verifica mediamente intorno ai 50 anni di età, a seguito della cessazione dei cicli mestruali conseguente alla perdita della funzione follicolare ovarica. In questa delicata fase del ciclo di vita femminile, si verifica inoltre un’interruzione della produzione di estrogeni e progesterone. La menopausa costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Secondo lo stereotipo classico la maternità e la crisi adolescenziale hanno un significato evolutivo e creativo mentre la menopausa è più un’esperienza di lutto dovuto alla perdita della fertilità.

Durante la menopausa il corpo produce meno estrogeni. Nello specifico, durante il climaterio (periodo premenopausa) le ovaie, produttrici di estrogeni e progesterone, rispondono sempre meno agli stimoli degli ormoni FSH e LH prodotti dall’ipofisi, ghiandola che si trova alla base della testa. Questi sbalzi ormonali mandano in tilt l’ipotalamo, quella parte del cervello che gestisce anche la reazione alle emozioni. Gli estrogeni, infatti, oltre alla regolazione del ciclo mestruale, stimolano anche la produzione di:

  • serotonina, il cosiddetto “ormone della felicità”;
  • endorfine, sostanze prodotte dal cervello che potremmo soprannominare “molecole della gioia”;
  • dopamina, la “molecola del piacere”.

Se la produzione degli estrogeni cala, diminuiscono anche le quantità di serotonina, endorfine e dopamina, di conseguenza si verifica un notevole cambio dell’umore.

Il passaggio verso la menopausa è comunque un processo graduale: le fluttuazioni ormonali iniziano diversi anni prima della scomparsa del ciclo e danno luogo a irregolarità mestruali, cambiamenti dell’intensità del flusso, così come a sintomi di varia natura e soprattutto a una progressiva riduzione della fertilità.

Questa fase ha una durata molto variabile, può protrarsi anche per dieci anni; è la fase generalmente più sintomatica e prende il nome di perimenopausa.

La sintomatologia della menopausa è alquanto variegata, in quanto tale fase è caratterizzata da un vissuto fortemente soggettivo e spesso difficoltoso.

Gli effetti della menopausa sono infatti molto variabili e dipendono da predisposizione genetica, storia personale, stile di vita, fattori psicosociali e ambiente socioculturale.

Spesso la menopausa è vissuta in maniera drammatica dalle donne perché viene identificata con l’inizio dell’invecchiamento.

Alcune donne, per la possibilità di vivere una sessualità più libera, svincolata dal timore di una gravidanza, o per la scomparsa di sintomi mestruali magari gravosi e invalidanti, accolgono questo periodo positivamente. Queste donne mostrano un’attitudine positiva verso la menopausa, ritenendola non solo una transizione fisiologica, ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi.

Altre donne attribuiscono, invece, all’insorgere della menopausa un significato di perdita e impoverimento, aggravato dalla presenza di sintomi e manifestazioni che interferiscono con la qualità della vita.

A tutto ciò si aggiungono i fattori sociali e culturali, in particolare il significato attribuito alla fase della menopausa. In alcune culture, infatti, la cessazione della fertilità corrisponde a un momento di crescita sociale e pone la donna in una posizione privilegiata, in cui gode di maggior considerazione e rispetto, nella società occidentale, al contrario la menopausa è spesso sinonimo di perdita di femminilità e invecchiamento.

Da un punto di vista prettamente ormonale, gli estrogeni condizionano la qualità di vita, in quanto la loro carenza incide sul desiderio sessuale e favorisce la comparsa di sintomi vasomotori, genitourinari, osteoarticolari e a carico della sfera psicoemotiva.

Uno dei fenomeni più fastidioso, indice di carenza di estrogeni, è rappresentato dalla comparsa delle vampate di calore. Molto spesso esse compaiono di notte, causando importanti sudorazioni che interferiscono con la qualità del sonno e si ripercuotono poi sul benessere generale, anche durante il giorno.

Il calo ormonale ha effetti anche sull’apparato riproduttivo, con la comparsa di secchezza e atrofia vaginale, le quali possono rendere il rapporto sessuale doloroso e difficile. Quando il livello di estrogeni diminuisce, inoltre, si riduce anche la produzione di collagene ed elastina: la pelle può diventare più sottile, secca e perdere elasticità.

In aggiunta a questi effetti di carattere prettamente fisico, in prossimità della menopausa possono manifestarsi anche stanchezza, cefalea, difficoltà di concentrazione e memoria. Sono inoltre frequenti insonnia e disturbi del sonno e del tono dell’umore, con ansia, irritabilità e depressione.

Gli estrogeni, come anche gli ormoni androgeni, hanno certamente l’effetto di un “fertilizzante” cerebrale; tuttavia non esistono prove certe a favore di un legame diretto tra la loro riduzione e la comparsa di depressione e disturbi dell’umore.

Per spiegare questa relazione sono state formulate varie ipotesi. Per esempio, la carenza estrogenica, causando vampate e sudorazioni notturne che interferiscono con il sonno, che a sua volta è legato al cambiamento di umore, sarebbe indirettamente responsabile dei sintomi a carico della sfera psicoemotiva.

Secondo la teoria psicosociale, la spiegazione sarebbe da ricercare invece in fattori esterni e nei cambiamenti biologici. I sintomi depressivi sarebbero quindi correlati a diversi fattori di stress: possibili problemi di salute, la cura dei figli, della casa, dei genitori anziani o di richieste di lavoro sempre più crescenti, difficoltà di coppia o nella relazione con il partner, problemi con i figli.

Tutti questi fattori stressanti, il basso livello di sostegno sociale e i problemi fisici possono essere strettamente correlati all’insorgenza della depressione in questo periodo.

Da un punto di vista epidemiologico, generalmente, le donne sono più esposte alla depressione rispetto agli uomini: il sesso femminile è colpito in percentuale più che doppia.

In aggiunta a ciò, da recenti studi è emerso che oltre il 7% delle donne tra i 55 e i 75 anni di età sviluppa un disturbo depressivo.

La prevalenza nel lifetime per il disturbo depressivo maggiore è del 10,2% nelle donne contro il 5,2% degli uomini; per la distimia del 5,4% contro il 2,6% e ancora più marcata risulta la preponderanza femminile per la depressione atipica e per i disturbi depressivi stagionali (Kessler, McGonagle, Swartz et al., 1993; World Health Organization Kobe Center, 2005; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

Differenti ipotesi spiegano la maggior prevalenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini:

  • fattori neuroendocrini: differenze nella struttura cerebrale e nell’impatto sul cervello dei diversi ormoni sessuali;
  • fattori psicosociali: differenze nelle strategie di coping, nella vulnerabilità personale, nella frequenza di esposizione e nella qualità degli eventi stressanti. In particolare: eventi di separazione o di perdita traumatica, abusi e violenze;
  • fattori legati alla storia dello sviluppo: relazioni di attaccamento nell’infanzia e in età prepuberale;
  • storia famigliare di disturbi psichiatrici;
  • tratti temperamentali;
  • variazioni ormonali in determinate fasi del life span.

Secondo alcuni studi si riscontrano diversità di genere anche nella sintomatologia depressiva. In effetti emerge come le donne manifestino con maggior prevalenza statistica il quadro della depressione atipica. Il genere femminile inoltre, presenta maggiori comorbilità psichiatriche per i disturbi d’ansia, i disturbi somatoformi e la bulimia; differentemente nell’uomo si riscontra un’associazione maggiore con l’abuso di alcol e sostanze e il disturbo ossessivo compulsivo (Khan, Broadhead, Schwartz, Koltz, Brown, 2005).

In maniera più dettagliata, alcuni studi epidemiologici hanno mostrato come i fattori di stress psicosociale siano associati ad un aumentato rischio per sviluppo di sintomi depressivi subclinici ed un esordio depressivo maggiore durante la transizione menopausale e il loro impatto sia maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé (Lanza di Scalea, Niolu, Siracusano, 2010).

È ormai risaputo da diversi anni che le donne hanno un rischio maggiore di sviluppare un disturbo depressivo durante il postpartum a causa del cambiamento ormonale, tuttavia si hanno ancora poche conoscenze in merito al rischio depressivo associato al periodo di transazione verso la menopausa.

Sinora, anche dal punto di vista clinico, le raccomandazioni circa la diagnosi e la terapia di questo tipo di depressione sono state alquanto carenti.

A proposito dell’associazione tra i sintomi della perimenopausa e il disturbo depressivo, secondo la letteratura scientifica, sintomi quali vampate di calore e disturbi del sonno iniziano in questo momento e possono coesistere e sovrapporsi ai sintomi della depressione. In particolar modo quando le vampate di calore avvengono durante la notte, la così detta “sudorazione notturna”, il sonno può essere interrotto; i persistenti disturbi del sonno causati da questo sintomo possono contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi depressivi.

Il processo diagnostico tuttavia è particolarmente ostico perché le cause scatenanti la depressione possono essere difficili da identificare, inoltre molte volte i sintomi esperiti non soddisfano i criteri per una diagnosi piena di depressione. Anche i sintomi depressivi lievi però possono abbassare la qualità di vita, ciò che appare veramente importante quindi è un’analisi dettagliata dei sintomi per giungere ad una diagnosi e identificare la miglior cura possibile.

A tal riguardo, recentemente un team di esperti convocato dalla North American Menopause Society e dal Network on Depression Centers Women and Mood Disorders Task Group e approvato dalla International Menopause Society ha redatto le prime linee guida, pubblicate sul Journal of Women’s Health per la valutazione e il trattamento della depressione durante la perimenopausa.

Le conclusioni a cui sono giunti gli esperti per la stesura delle linee guida permettono di affermare che:

  • la perimenopausa è un periodo di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi depressivi lievi con la possibilità di comparsa di un disturbo depressivo maggiore;
  • il rischio di sviluppare sintomi depressivi è elevato anche nelle donne senza precedenti episodi;
  • diversi sintomi della perimenopausa si sovrappongono alla presenza della depressione complicandone l’individuazione;
  • i fattori stressanti della vita possono influenzare negativamente l’umore, aumentando il rischio di depressione in questo particolare periodo;
  • i trattamenti terapeutici per la depressione (terapia farmacologia antidepressiva e interventi di psicoterapia) dovrebbero rimanere i gold standard in casi di depressione associata a perimenopausa.

In conclusione, ansia e depressione sono dunque comuni nelle donne in menopausa, ma non ci sono prove chiare che la fase biologica in sé aumenti il rischio di disordini dell’umore clinicamente significativi, se non in donne con fattori di rischio predisponenti, come per esempio:

  • un precedente episodio di depressione, anche legato alla sindrome premestruale e/o alla fase post partum;
  • stress psicosociale;
  • un lungo periodo perimenopausale caratterizzato da sintomi vasomotori gravi e prolungati.

 

La rabbia e la voglia di non pensarci…aspetti processuali nel trattamento della disregolazione emotiva – Report dal webinar

Il 5 giugno si è svolto in diretta streaming il seminario dal titolo La rabbia e la voglia di non pensarci… aspetti processuali nel trattamento della disregolazione emotiva dove sono intervenuti per approfondire il tema dei disturbi della personalità la Dr.ssa Sandra Sassaroli, il Dr. Giovanni Maria Ruggero e il Dr. Gabriele Caselli.

 

Con il termine personalità si intende uno stile persistente che governa il modo in cui la persona pensa, sente, percepisce e agisce, pertanto un disturbo di personalità (DP) rappresenta un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative culturali, è pervasivo e inflessibile, esordisce in adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio significativo.

Essendo difficile delineare il confine tra personalità sana e disturbata esistono alcuni indicatori che permettono di individuare un disturbo di personalità: spesso i DP sono caratterizzati da egosintonia, ovvero le persone sono poco o per niente consapevoli del problema, e da difficoltà di regolazione, con espressioni rigide, inflessibili e indipendenti dal contesto. Uno dei DP più diffusi e invalidanti è il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), caratterizzato da instabilità emotiva, identitaria e nelle relazioni interpersonali, difficoltà di controllo della rabbia, comportamenti impulsivi, sentimenti cronici di vuoto e comportamenti autolesivi.

In un’ottica terapeutica, una volta identificate tali caratteristiche risulta utile comprendere cosa le produce e sostiene: secondo la terapia dialettico comportamentale (DBT) le difficoltà insorgono dall’interazione tra una predisposizione biologica e un’ambiente invalidante, la quale predispone a una disregolazione emotiva che si definisce su tre assi (alta sensibilità agli stimoli emotigeni, esperienza di emozioni molto intense, lento ritorno alla baseline). Tale disregolazione porterebbe alla messa in atto di comportamenti impulsivi che distolgono l’attenzione da stati emotivi spiacevoli, pertanto da una disregolazione emotiva dipenderebbe una disregolazione comportamentale.

Ciò che permette alla disregolazione emotiva di influenzare quella comportamentale è la modalità in cui ci si abitua a reagire ai propri stati interni, chiamata regolazione cognitiva e definita come la capacità di agire sulle operazioni mentali, ad esempio scegliendo di non pensare a qualcosa o concentrandosi su determinati stimoli. Nel DBP uno dei processi di regolazione cognitiva più utilizzato è la ruminazione che consiste nell’analisi continua del proprio malessere, delle sue cause e conseguenze nel tentativo di rispondere alla domanda “perché?”. Si tratta dunque di un processo analitico di autocritica e di ragionamento controfattuale (analisi di episodi passati concentrandosi su come la persona avrebbe potuto comportarsi diversamente). Molteplici studi scientifici hanno dimostrato che la ruminazione prolunga e intensifica l’umore depresso, avendo pertanto un effetto sulla disregolazione emotiva.

La ruminazione rabbiosa, invece, si concentra sull’analisi e rievocazione di eventi riguardanti principalmente rifiuto, offese subite, ingiustizie o provocazioni sociali e ha come effetto il consolidamento della memoria e la generazione di emozioni molto simili a quelle sperimentate in quel determinato episodio (just yesterday experience). Conseguentemente la ruminazione prolunga e intensifica l’esperienza di rabbia, aumenta la probabilità di mettere in atto risposte aggressive e consuma le risorse adibite all’autocontrollo, infatti se inizialmente la persona cerca di controllarsi per non trasformare la rabbia in un comportamento aggressivo, nell’episodio successivo tenderà a esplodere per un evento anche lieve; questo rappresenta il passaggio che spiega il collegamento tra disregolazione emotiva e disregolazione comportamentale.

In sintesi, l’ambiente invalidante e la predisposizione biologica favoriscono lo sviluppo di una sensibilità emotiva che può diventare disregolata quando si attiva il circolo vizioso con la ruminazione. In questi casi il comportamento disregolato può sia servire per interrompere il circolo riducendo l’emozionalità sia rappresentare l’esito di un processo che riduce le risorse necessarie per l’autocontrollo.

Compreso questo circolo, è necessario indagare le motivazioni che spingono una persona a ruminare, consistenti nelle credenze metacognitive, vale a dire conoscenze implicite o esplicite coinvolte nell’attivazione, monitoraggio, correzione e interruzione dell’elaborazione cognitiva. Tali credenze possono essere positive, se si considera la ruminazione come una soluzione e non un problema, o negative, se si considerano i propri stati interni come pericolosi, la propria mente come difettosa e la ruminazione come un processo fuori dal proprio controllo. Il principio su cui si basa la terapia metacognitiva, pertanto, è che agendo sulle credenze metacognitive si è in grado di ridurre la ruminazione e conseguentemente anche la disregolazione, favorendo la messa in atto di alternative comportamentali più funzionali.

Durante il seminario viene approfondito il modello Libet (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) che non rappresenta un modello di terapia, ma un’indagine sulle modalità di funzionamento dei pazienti, nato dalla necessità logica di un modello di formulazione del caso. Serve per condividere con il paziente le ipotesi del suo funzionamento e permette di monitorare l’andamento della terapia. Alcuni pazienti, infatti, tendono a considerare normale il proprio funzionamento anche quando li danneggia, probabilmente perchè tale funzionamento si è sviluppato in circostanze in cui appariva utile. La disfunzionalità è insita nella sua rigidità poichè al mutare delle circostanze la persona non è in grado di distanziarsene, rendendolo dannoso.

La Libet parte dagli aspetti evolutivi, nel tentativo di rispondere alla domanda “dove hai imparato a comportarti così?” prende in considerazione l’ostilità dell’ambiente familiare e/o sociale e il mancato soddisfacimento dei bisogni personali che spinge l’individuo ad apprendere strategie disfunzionali con lo scopo di proteggersi da un ambiente considerato pericoloso. Tuttavia, utilizzate in maniera continuativa tali strategie diventano piani di vita automatizzati che impediscono al paziente di discriminare tra contesti e di imparare che le emozioni non sono stati terrifici da cui è necessario proteggersi.

I concetti cardine della Libet sono i temi, ovvero iperfocalizzazioni attentive sulla minaccia appresa in età evolutiva, le credenze di meta-controllo, consistenti nel sistema di idee rigide sull’intollerabilità e pericolosità dei temi, e i piani, vale a dire l’insieme di strategie di protezione messe in atto per evitare l’emergere del tema.

Nella concettualizzaizone Libet si individuano tre temi: il tema dell’insicurezza personale (nato da un’esperienza di minaccia al senso di sicurezza che porta il bambino a considerarsi fragile e debole), il tema del disamore e dell’inadeguatezza (genitori inadeguati che non forniscono al bambino strategie per affrontare il mondo rendendolo inefficace e ansioso oppure genitori freddi e distanti che non mostrano interesse o rifiutano apertamente il bambino, facendogli provare sentimenti di vuoto, inutilità e tristezza) e il tema dell’indegnità (genitori presenti ma fortemente critici ed esigenti dal punto di vista prestazionale o morale che portano il bambino a ritenersi inferiore, incapace e sbagliato).

Nel tentativo di non entrare in contatto con i propri temi dolorosi gli individui possono utilizzare tre tipologie di piano: prudenziale (basato sul monitoraggio della minaccia e il ritiro da situazioni potenzialmente pericolose tramite evitamenti), prescrittivo (basato sul rimuginio e controllo del tema per prevenire e prevedere la minaccia tramite perfezionismo e rigidità comportamentale) e immunizzante/anestetizzante (basato sull’ignoranza della minaccia tramite comportamenti aggressivi o autogratificanti, i quali permettono l’insorgenza di emozioni intense che vanno a ipercompensare gli stati spiacevoli).

Nel momento in cui si assiste alla rottura di un piano di protezione rigido emergono i sintomi reattivi di sofferenza psichica che potrebbero spingere il paziente a cercare aiuto. Difatti, i piani possono rompersi per esaurimento, determinato dalla fatica e dai costi di mantenimento del piano, o per invalidazione a causa di eventi di vita come il fallimento o l’abbandono. In particolare, il piano prudenziale si invalida quando la realtà pone delle imposizioni che impediscono di fatto il ritiro o la fuga; il piano prescrittivo viene invalidato quando il progetto ideale (as esempio di controllo assoluto o approvazione totale) fallisce; il piano immunizzante, invece, si invalida nel momento in cui l’individuo acquisisce consapevolezza sul proprio funzionamento. In un’ottica di trattamento, si può lavorare per ridurre i sintomi, modificare i piani, rendere maggiormente accettabili i temi o combinare questi diversi obiettivi.

Secondo il modello cognitivo classico i disturbi di personalità dipendono da esperienze dolorose precoci, problematiche relazionali e difficoltà a fidarsi degli altri. Tali esperienze unite a una predisposizione genetica si cristallizzano in credenze centrali, ovvero definizioni di sé che descrivono il proprio modo di stare al mondo e di relazionarsi agli altri. Anche se negative (ad esempio indifeso, non amato, senza valore), le credenze centrali danno un sollievo emotivo momentaneo, ma a lungo termine diventano un ostacolo per la crescita e lo sviluppo personale. Ciò che media la relazione tra credenze centrali e comportamenti sono le credenze intermedie basate su regole e condizioni quali “dovrei..” o “se..allora..”; i comportamenti conseguenti, invece, corrispondono a strategie di fronteggiamento e comportamenti di sicurezza che l’individuo utilizza per gestire, anche se in maniera disfunzionale, le proprie credenze.

La terapia cognitiva-comportamentale (CBT), basata sull’individuazione e modifica delle credenze centrali, è risultata come il trattamento più efficace tra le psicoterapie per i disturbi d’ansia, tuttavia molteplici studi scientifici hanno evidenziato che sia efficace anche per i disturbi di personalità, anche se non più efficace delle altre psicoterapie poichè le credenze centrali disfunzionali non sono più solamente definizioni di sé, ma si riferiscono anche agli altri e alle relazioni.

Dopo la terapia cognitiva classica, si manifesta la svolta processuale che sposta il focus dal contenuto dei pensieri disfunzionali all’atteggimento verso tali pensieri. Un atteggiamento sano verso i propri pensieri, infatti, è quello di non dare loro troppa attenzione perchè la loro funzione è quella di ragionevole allerta, non di giudizio catastrofico su di sé. Un atteggiamento disfunzionale, invece, è rappresentato dal pensiero rimuginativo in cui si dà molta importanza ai pensieri negativi e li si usa per giudicare se stessi e gli altri. Difatti il modello S-REF (Self Regulatory Executive Function) di Wells spiega la psicopatologia in termini di stati rimuginativi retti da credenze positive e negative sul rimuginio.

Lo scopo della Libet pertanto è quello di condividere con il paziente un’ipotesi sulla sua sofferenza prestando attenzione ai temi per lui intollerabili (riformulazione delle credenze centrali) e ai piani necessari e incontrollabili che utilizza (riformulazione delle strategie di fronteggiamento). Perciò il tema non è solo un errore di valutazione di se stessi, ma una sensibilità dolorosa appresa in infanzia, mentre il piano non è solo un errore di comportamento, ma una valutazione di condotta che privilegia il sollievo emotivo a breve termine a danno del contatto con la realtà.

Applicando il modello S-REF e Libet ai disturbi di personalità è emerso che il rimuginio è principalmente di tipo rabbioso e l’emozione di rabbia viene percepita non solo come egosintonica, ma anche come “giusta”. Tali caratteristiche possono comportare delle difficoltà di alleanza terapeutica poichè, mentre le credenze del paziente ansioso sono egodistoniche (ossia gli causano stress e disagio), quelle del paziente con disturbo di personalità vengono considerate giuste e coerenti con la propria immagine. Inoltre, relativamente ai piani è possibile distinguere la tipologia di credenze sottostanti che, nel caso dei piani prescrittivi e prudenziali sono credenze di incontrollabilità (negative) mentre nel caso dei piani immunizzanti sono credenze di utilità e necessità (positive). Queste credenze di utilità rendono ulteriormente dolorosa la condivisione del tema con i pazienti con disturbo della personalità dato che nel piano immunizzante utilizzano le emozioni intense, come la rabbia, per anestetizzare il tema doloroso.

 

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Il rischio di burnout negli operatori presso i servizi per minori in condizione di disagio

Secondo numerosi autori, il burnout è una sindrome multi-dimensionale in cui coesistono tre elementi, individuati a partire dal lavoro della Maslach: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e mancata realizzazione personale.

 

Numerosi studi hanno dimostrato come il burnout coinvolga maggiormente le professioni d’aiuto, dove le eccessive richieste emotive dell’utenza possono portare ad un’esorbitante fatica mentale del lavoratore, un trattamento meccanicistico dell’utente e una percezione di diminuzione della capacità di riuscire nel lavoro.

Maslach (1992) definisce il burnout come una forma di stress interpersonale che comporta il distacco dall’utente, causato dalla continua tensione emotiva dovuta al contatto con persone che presentano una richiesta di aiuto. Il burnout si configura come una sindrome multi-dimensionale (Maslach et Leiter, 2002), le cui tre componenti sintomatiche sono: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale. La prima componente è rappresentata dalla sensazione di essere emotivamente inaridito e di sentirsi esaurito dal proprio lavoro. Il contatto continuo con emozioni stressanti finisce per logorare il soggetto, renderlo vuoto, con minori energie. La seconda componente, la depersonalizzazione, è intesa come distacco e indifferenza nei confronti sia del lavoro che dell’utente a cui viene rivolto il proprio servizio. Tale atteggiamento consente al soggetto di proteggersi al fine di evitare i coinvolgimenti emotivi imposti dalla situazione professionale. Nella terza dimensione, la ridotta realizzazione personale è descritta come una sensazione di inadeguatezza nello stabilire un rapporto di aiuto efficace con gli utenti, nonché da insoddisfazione lavorativa e sfiducia nelle proprie competenze (Maslach et Leiter, 2002).

La sindrome di Burnout: gli studi

Tale sindrome è particolarmente diffusa nelle professioni socio-sanitarie, la cui caratteristica peculiare è proprio quella di essere continuamente sottoposti a richieste di aiuto sentite come necessarie, urgenti, che impongono risposte immediate e puntuali ai bisogni dell’utenza (Baiocco et al.,2004).

In letteratura, sono state identificati due principali fattori di incidenza sul burnout: variabili personali e variabili relative al contesto lavorativo (Schaufeli etBuunk, 2015). In primo luogo, l’insorgenza e gli effetti del burnout possono essere, infatti, modulati dalle modalità individuali di reagire a situazioni stressanti e di gestire gli eventi. Le strategie di coping, ad esempio, che comprendono sia le decisioni e le azioni adottate da un individuo di fronte a un evento stressante, sia le emozioni a esse connesse, sembrano essere particolarmente implicate nello sviluppo del burnout (Carmona et al.2006). Il senso di autoefficacia, inoltre, è in grado di influenzare la risposta ad eventi negativi (Bandura, 1993). Diversi studi sullo stress lavorativo, hanno mostrato che un basso senso di autoefficacia (inteso come la convinzione di poter svolgere adeguatamente il proprio compito) è associato a maggiore disagio psicologico e a minore realizzazione personale (Borgogniet al, 2013). Alta autoefficacia percepita è stata riportata in letteratura come fattore di protezione del burnout e predittore di maggiore impegno lavorativo (Shoji et al, 2016). In secondo luogo, i fattori ambientali e le problematiche connesse all’organizzazione del lavoro svolgono un ruolo cruciale nel determinare l’insorgenza del burnout (Cherniss, 1986). Infatti, l’operatore è costretto a misurarsi, ogni giorno, non solo con i problemi degli utenti, ma anche con una serie di difficoltà che possono nascere all’interno dello stesso ambiente di lavoro (Maslach,Schaufeli etLeiter,2001). In questo ambito, l’attenzione degli studi si è rivolta soprattutto alla distribuzione dei compiti, al sovraccarico lavorativo, al clima relazionale dell’organizzazione, alla retribuzione economica e dalla carriera (Maslach, Schaufeli et Leiter,2001).

Premesse dello studio

Lo studio ha analizzato le relazioni esistenti tra burnout, strategie di coping, senso di autoefficacia e contesto lavorativo, all’interno delle strutture che si occupano dell’assistenza a minori in condizione di disagio. Tali strutture sono molto eterogenee e coinvolgono diverse tipologie di professionisti (come assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio-sanitari), impegnati nel comprendere le specifiche necessità dei minori e realizzare un percorso educativo fuori dal contesto familiare, al fine di ripristinare equilibri e abilità, superare disagi psico-fisici e socio-relazionali. Da un lato, è fondamentale che il lavoratore partecipi emotivamente alla relazione di aiuto instaurata con l’utente; dall’altro, deve riuscire a operare una differenziazione tra il proprio vissuto e quello altrui (Sӧderfeldt et al, 1995).

Verrà indagata l’incidenza delle diverse strategie di coping e del senso di autoefficacia sulle sotto-componenti del burnout individuate nel modello della Maslach (Maslach e Leiter, 2002), ovvero depersonalizzazione, esaurimento emotivo e realizzazione personale. Inoltre, dato il gran peso attribuito dalla letteratura ai fattori dell’ambiente organizzativo (Maslach, Schaufeli e Leiter, 2001; Maslach e Leiter, 2002), verrà indagato il ruolo che le difficoltà oggettive (orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro, carenza formazione personale, carenza risorse) e le difficoltà soggettive (presenza di conflitti, sovraccarico lavorativo, rapporti tra colleghi e dinamiche all’interno dell’equipe, disattenzione alle motivazioni del personale, carenza coinvolgimento del personale) riscontrate sul lavoro possono esercitare sull’insorgenza del burnout.

Metodo

Per la misurazione del burnout è stato utilizzato il Maslach Burnout Inventory (MBI) ideato da Maslach e Jackson. Il questionario è costituito da 22 item, in base ai quali il soggetto deve valutare la frequenza e l’intensità con cui sperimenta sintomi, affetti e stati emotivi connessi con il suo lavoro. Il test mira a valutare i tre profili che definiscono la sindrome: esaurimento emotivo, depersonalizzazione, realizzazione personale. A ciascuna domanda l’intervistato assegna un valore secondo la scala Likert da 0 a 6, che va da “qualche volta l’anno” sperimento queste reazioni a “tutti i giorni”.

Per la rilevazione degli stili di coping è stato utilizzato Il Coping Orientations to ProblemE xperienced – Nuova Versione Italiana (COPE-NVI) (Sica e al, 2008).

Il questionario è costituito da 60 item e valuta con quale frequenza il soggetto mette in atto, nelle situazioni difficili o stressanti, un particolare processo di coping. Le possibilità di risposta sono quattro, da «di solito non lo faccio» a «lo faccio quasi sempre». I 15 diversi meccanismi di coping presi in considerazione dal questionario sono raggruppati e relativi ai seguenti domini specifici: sostegno sociale, attitudine positiva, orientamento al problema, orientamento trascendente.

Per la misurazione dell’autoefficacia personale è stata usata la Scala di autoefficacia percepita nella gestione di problemi complessi (Farnese et al. 2007).

Il questionario è costituito da 24 item e valuta il senso di autoefficacia dei soggetti nella gestione di esperienze di vita problematiche, al quale è stato chiesto di rispondere in riferimento al contesto professionale indagato. La modalità di risposta è su scala Likert a 5 punti (da 1 = “per nulla capace” a 5 “del tutto capace”). La scala si compone di quattro sotto-dimensioni (maturità emotiva, finalizzazione dell’azione, fluidità relazionale, analisi del contesto) sintetizzabili in un unico costrutto definito come “autoefficacia percepita”.

Per la misurazione dei fattori che caratterizzano il contesto lavorativo, è stato creato un questionario ad-hoc che consiste in 13 item suddivisi in fattori oggettivi e soggettivi.

I fattori oggettivi comprendono: orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro e sovraccarico lavorativo (eccesso di energie, sacrifici richiesti al personale), carenza formazione o aggiornamento del personale, carenza risorse o attrezzature per lo svolgimento dei compiti, carenza coinvolgimento del personale. I fattori soggettivi comprendono: presenza di conflitti tra i colleghi, rapporti con superiori/dirigenti, complessità di lavoro, mancanza chiarezza nei compiti da svolgere, disattenzione alle motivazioni del personale. Il questionario consente di valutare ciascun fattore su una scala Likert a 4 punti, con modalità di risposta che vanno da “per nulla” a “molto”. Le prime due domande riguardano prettamente la soddisfazione lavorativa del singolo operatore.

Campione

Hanno partecipato allo studio 60 professionisti operanti all’interno di strutture familiari ed educative per minori. Le caratteristiche descrittive del campione sono riportate in Tabella 1.

Il 60% del campione lavora in comunità alloggio e il 40% in centri diurni polifunzionali, tutti collocati sul territorio della provincia di Salerno. Le comunità alloggio consistono in comunità familiari per un servizio residenziale e offrono forme di accoglienza continuativa (diurna e notturna) a soggetti prevalentemente non autosufficienti. In tali strutture vengono accolti un massimo di 8 minori, di età pari o superiore agli 11 anni, preferibilmente omogenei per sesso. I centri diurni polifunzionali, sono servizi semiresidenziali che forniscono forme di accoglienza di tipo diurno, quindi un’assistenza di tipo temporanea e parziale. Possono essere accolti contemporaneamente non più di 50 minori di età superiore ai 5 anni, prioritariamente residenti nel quartiere o nel Comune.

Procedura

I partecipanti sono stati informati dell’obiettivo dello studio, della durata del compito e della possibilità di non dare il proprio consenso a partecipare alla ricerca. Dopo aver letto e firmato il consenso informato per la partecipazione allo studio, hanno compilato i questionari nel giorno stabilito in accordo con i responsabili delle strutture. A ciascun partecipante è stato garantito l’anonimato. Il progetto di ricerca è stato approvato dal Comitato etico del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi Luigi Vanvitelli. Il tempo di compilazione è stato di circa 15 minuti.

Analisi statistiche

Allo scopo di valutare l’impatto delle variabili personali sul burnout, in un primo gruppo di analisi sono stati utilizzati tre diversi modelli di regressione lineare (con metodo forward) utilizzando ciascuna sottoscala del burnout come variabile dipendente. In tutti i modelli, sono state inserite come variabili indipendenti i punteggi ottenuti sui diversi stili di coping, l’autoefficacia percepita ed il genere.

Allo scopo di valutare l’impatto delle variabili legate al contesto lavorativo sul burnout, in secondo gruppo di analisi sono stati utilizzati tre diversi modelli di regressione lineare, uno per ciascuna sottoscala del burnout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo e realizzazione personale) utilizzate come variabile dipendente, inserendo le variabili oggettive e soggettive relative al contesto lavorativo come variabili indipendenti. Le analisi sono state svolte mediante il software SPSS (IBM SPSS Statistics, Version 21, Armonk, NY:IBM Corp.).

Risultati

Dato il duplice scopo del lavoro, nel valutare il ruolo delle variabili personali e lavorative, il primo gruppo di analisi che segue, risponde alla domanda sulle variabili personali mentre il secondo risponde alla domanda sulle variabili lavorative.

Variabili personali: ruolo delle strategie di coping e del senso di autoefficacia sul burnout

Come mostrato in Tabella 1, dai risultati sull’esaurimento emotivo, il modello estratto indica un effetto significativo (F(2,57) = 7.99; p=.001; R2= .219) dell’orientamento al problema e del sostegno sociale. In particolare, l’orientamento al problema presenta una relazione negativa con l’esaurimento emotivo, tale che ad un aumento di questa strategia di coping corrisponde una diminuzione dell’esaurimento emotivo (Fig 1-A). Il sostegno sociale, invece, presenta una relazione positiva, tale che al suo aumentare, aumenta anche l’esaurimento emotivo (Fig 1-B). Tutte le altre variabili non hanno mostrato un effetto significativo (p>.05).

Come mostrato nella Tabella 2, dai risultati sulla realizzazione personale, il modello estratto indica un effetto significativo (F(2, 57)= 5.279; p=.008; R2=.156) dell’autoefficacia percepita e dell’orientamento trascendentale. In particolare, l’autoefficacia percepita mostra una relazione positiva con la realizzazione personale (Fig 1-C), mentre l’orientamento trascendentale mostra una relazione negativa con la realizzazione personale (Fig 1-D). Tutte le altre variabili non hanno mostrato un effetto significativo (p>.05).

Dai risultati sulla depersonalizzazione, nessuna variabile considerata nel modello statistico riporta un’influenza significativa (p>.05).

Contesto lavorativo: ruolo delle difficoltà oggettive e soggettive dell’ambiente di lavoro sul burnout

I risultati su tutte le sottodimensioni del burnout (esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale) hanno indipendentemente mostrato un’incidenza significativa delle variabili oggettive e nessuna incidenza delle variabili soggettive. Nella Tabella 3 è mostrato l’effetto significativo, dove sia per l’esaurimento emotivo (F(2, 57)= 7, 286 ; p=.002; R2=.204), che per la depersonalizzazione (F(2, 57)=8.235; p=.001; R2=.224) si evidenzia una relazione positiva tra le due variabili, tale per cui all’aumentare delle difficoltà oggettive corrisponde un aumento delle due sottodimensioni del burnout (Fig. 2-A e 2-B). La realizzazione personale (F(2, 57)= 2.675; p=.078; R2=.086 ) mostra invece una relazione negativa, ad indicare che all’aumentare delle difficoltà oggettive essa si riduce (Fig. 2-c).

Le relazioni tra le dimensioni del burnout e le strategie di coping rivelano che l’utilizzo di strategie di orientamento al problema è associato a minore esaurimento emotivo (Fig 1-A). L’uso di tale strategia può infatti essere utile ad elaborare ed intraprendere attività mirate al superamento del problema e alla gestione dello stress, inibendo ogni altra azione interferente (Sica e al, 2008). Nel caso del presente studio, in cui gli operatori hanno la possibilità, seppur limitata, di controllo delle condizioni lavorative complesse e stressanti, l’uso di tali strategie probabilmente consente di aiutare a raggiungere un maggiore adattamento e benessere psicologico.

I risultati del presente studio riportano che la strategia di coping che mira al sostegno sociale è associata positivamente con l’esaurimento emotivo (Fig 1-B). Affidarsi esclusivamente al sostegno sociale potrebbe, infatti, rinforzare una certa passività da parte dell’individuo. Questa ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che sia il sostegno sociale che l’orientamento trascendentale sono visti come modalità passive di gestione dell’ansia e delle preoccupazioni (per una rassegna, si veda Chiri et Sica, 2007), che può risultare poco efficace nel lungo termine. Se nelle strategie di coping funzionali, come l’orientamento al problema, vi è una tendenza a gestire attivamente gli eventi critici o stressanti, la definizione del sostegno sociale è inquadrata come strategia emozionale, volta alla ricerca di comprensione, sostegno morale, rassicurazioni, sfogo emotivo dei propri sentimenti.

Si è evidenziata una relazione positiva tra l’autoefficacia percepita e la realizzazione personale (Fig 1-C). In generale, elevati livelli di controllo personale del lavoro, risorse interne e senso di competenza comportano un maggiore livello di benessere. L’alto senso di efficacia nel lavoro sociale (Golia etPedrazza, 2014) è legato al benessere personale e al conseguente riscontro di alte prestazioni e di soddisfazione lavorativa. Le relazioni con gli utenti, soprattutto nei servizi per i minori, possono essere spesso soddisfacenti e gratificanti per le sfide complesse che si ritrovano ad affrontare, e possono apportare un senso di realizzazione personale (Papadaki et Papadaki, 2006).

Per strategia di coping volta all’orientamento trascendentale si intende il cercare aiuto o conforto nella religione. La relazione negativa emersa tra l’orientamento trascendentale e la realizzazione personale (Fig 1-D) si può considerare in linea con le ricerche sulle modalità passive di gestione dello stress riportate in precedenza (Chiri et Sica, 2007). Tale strategia, infatti, non è sufficiente da sola a garantire una condizione di benessere personale (Sica et al, 2008). Le strategie di coping funzionali per la risoluzione dei problemi, piuttosto che l’affidarsi al controllo esterno (ad esempio, al fato o alla religione), sono cruciali per la capacità di gestire lo stress e consentire al soggetto di sentirsi capace e realizzato nella propria vita lavorativa.

I risultati sulle difficoltà oggettive legate al contesto lavorativo hanno evidenziato un impatto su tutte le sotto-componenti del burnout prese in esame nel presente studio. I fattori oggettivi analizzati comprendevano item relativi agli orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro e sovraccarico lavorativo, ecc. In particolare, come mostrato nella Figura 2, all’aumentare delle difficoltà oggettive, aumentano l’esaurimento emotivo e la depersonalizzazione, e diminuisce il senso di realizzazione personale. Studi precedenti (Maslach et Leiter, 2008), hanno dimostrato la relazione tra l’intensità dello stress sul lavoro e il rischio di burnout professionale. Gli operatori che svolgono la professione in contesti complessi, quali le strutture familiari, non si limitano all’erogazione di un servizio ma spesso ne vengono coinvolti globalmente. Qualora l’organizzazione trascura l’investimento emotivo ed umano del servizio, l’operatore ne resta deluso nelle aspettative, sperimentando senso di demotivazione che influisce notevolmente sul suo entusiasmo iniziale. A conferma di ciò, nel loro studio Lin et al (2016) hanno sottolineato che alcune caratteristiche del lavoro (quali domanda di lavoro elevata, basso controllo, cattiva cultura organizzativa e mancanza di comunicazione, collaborazione e risorse) risultano essere fattori predittivi di burnout. Nell’ambito delle professioni sociosanitarie, in particolare, l’aumento della depersonalizzazione e dell’esaurimento emotivo correla negativamente con la soddisfazione degli utenti nel ricevere cure e supporto (Vahey et al., 2004). Lo squilibrio nel carico del lavoro, con conseguente sovraccarico ed eccessivo dispendio di energia, sacrificio spesso ritenuto necessario per rientrare nei tempi previsti dalle organizzazioni, si è visto essere associato con un progressivo logoramento e sviluppo di burnout (Maslach e Leiter, 2002).

 

Eroi dietro le mascherine: i medici volontari nei reparti Covid, tra paure e coraggio – Intervista al Dott. Enrico Russolillo

Spesso sono stati descritti come eroi, semi-dei la cui forza e il cui coraggio salvano uomini, personaggi centrali di una storia che diventa memoria collettiva di un popolo. Non stiamo parlando di Eracle o Enea, e neanche di Spiderman, stiamo parlando dei medici volontari che hanno scelto di aiutare il sistema sanitario al limite del collasso durante il periodo più critico dell’emergenza Covid-19.

 

Descritti spesso in questi termini, si è rischiato di mettere in ombra quel lato squisitamente umano che accompagna una scelta così importante, come quella di salvare vite. Quel lato umano fatto di sofferenza, rinunce e dubbi, ma che allo stesso tempo è la forza propulsiva dell’aiuto dato ai pazienti affetti da coronavirus. La filosofia greca ci aiuta a capire. Platone scriveva: “Non esiste uomo tanto codardo che l’amore non renda coraggioso e trasformi in un eroe.”

E a capire può aiutarci anche l’intervista al Dottor Enrico Russolillo, medico cardiologo dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, partito come volontario per la Protezione Civile per dare il suo supporto al reparto di Medicina Covid dell’Ospedale di Rivoli, in Piemonte.

Intervistatrice (I): Dottor Russolillo, cosa l’ha spinto a proporsi come medico volontario per tre settimane durante l’emergenza Covid?

Dottor Enrico Russolillo (ER): L’idea, ribadita dal bando, di essere utile in un momento difficile, e la voglia di essere “dove le cose accadono veramente”.

I: Molte persone considerano voi medici alle prese con questa emergenza come degli eroi. Lei si rappresenta in questo modo, in termini di coraggio e forza?

ER: Non esagererei, non parlerei di “eroe”, posso però dire che essere considerato una sicurezza per gli altri, una persona su cui si può fare affidamento, mi inorgoglisce molto.

I: Una volta iniziato il suo operato di medico nell’Ospedale di Rivoli, ha riscontrato delle differenze tra le sue aspettative e la realtà che si è trovato ad affrontare?

ER: Giunto a Rivoli, pensavo di essere assegnato al Pronto Soccorso, invece mi hanno affidato una Medicina Covid. Mi aspettavo quindi di fare diagnosi ma mi sono ritrovato a dover gestire (curare è una parola grossa) i pazienti ricoverati, con diagnosi già fatta. Credevo anche di trovare molto meno personale medico, e in un primo momento ero stupito che avessero chiesto rinforzi: poi ho visto che molti colleghi non riposavano da quasi un mese, e che hanno iniziato a farlo dopo il nostro arrivo. Mi è dunque stato molto chiaro quanto ci fosse bisogno della nostra presenza. Inoltre stiamo parlando di un reparto messo su ad hoc per questa emergenza, quindi molti colleghi erano specializzati in settori diversi e si davano il cambio a rotazione.

I: Ci sono stati aspetti organizzativi del vostro team che hanno reso più difficile il lavoro?

ER: Come dicevo, il fatto che il team fosse raccogliticcio e incostante è stato un problema per i primi giorni. Una volta però imparate le procedure dell’ospedale, noi volontari siamo stati fondamentali per la gestione del reparto. Questo ovviamente ha creato anche qualche difficoltà con alcuni colleghi del posto, con i quali è stato meno facile la collaborazione.

I: Come è stato lavorare con colleghi con cui non aveva mai collaborato prima?

ER: Non particolarmente difficile. Avevamo tutti lo stesso scopo, e parlavamo una lingua comune; è anche vero che, come dicevo sopra, alcuni colleghi (per fortuna molto pochi), non li ho trovati molto cooperativi. Nonostante questi aspetti di gruppo siamo riusciti nella gestione ottimale del reparto.

I: Quali sono state le rinunce più pesanti che ha dovuto fare in questo periodo di volontariato?

ER: Io vivo solo con i miei gatti, non lasciavo la famiglia né rischiavo di infettarla, quindi non è stato terribile. Mi è sicuramente pesato lasciare il reparto dove lavoro a Napoli, che però non era coinvolto in un lavoro di emergenza Covid. Sapevo che sarei stato più utile per le strutture sanitarie più colpite (e mi è stato anche fatto un po’ pesare da parte di alcuni colleghi).

I: Come descriverebbe il rapporto con i pazienti che ha assistito?

ER: Come sempre, se si vuole si riesce a trasmettere fiducia e calore ai pazienti ricoverati. Con maschere, tute ed occhialoni bisogna volerlo tanto, perché è una condizione di lavoro che rischia di aumentare le distanze tra medico e paziente. Nonostante la maggiore formalità nei rapporti che ho percepito con le persone che vivono al nord, lo sforzo comunicativo mio e dei miei colleghi è stato utile in questa situazione, soprattutto se si pensa al fatto che sono pazienti soli e che non possono ricevere visite dai familiari: alcuni pazienti si sono decisamente affezionati.

I: Ci sono stati momenti in cui ha dubitato di quello che stava facendo?

ER: Ancora dubito delle terapie che abbiamo utilizzato, che mi sono apparse inadeguate sul momento dato il numero elevato di morti, e che per la maggior parte si sono dimostrate inefficaci dopo studi rigorosi. Dopo qualche giorno di permanenza, con tanti pazienti che perdevamo nonostante i nostri sforzi, ho vissuto momenti di profonda impotenza e di sconforto, questo credo sia valso anche per i miei colleghi.

I: Ha avuto paura?

ER: Ho avuto momenti in cui sono stato preso dalla paura di infettarmi, sensazione aggravata dal pensiero che “me l’ero andata a cercare”.

I: Che impatto hanno avuto le morti a cui ha dovuto assistere, e a quali risorse ha dovuto attingere per gestire il carico emotivo che ne è derivato?

ER:  Mi sentivo un monatto, non un medico, è stato terribile, le terapie funzionavano nella metà dei casi (o i pazienti guarivano da soli, più probabilmente). Il fatto di dividere l’alloggio con uno dei colleghi volontari mi ha permesso di parlarne insieme, e di farci forza a vicenda, anche nella rassegnazione derivante dalla percezione dei nostri limiti. Inoltre, le telefonate serali con mio figlio hanno contribuito molto al mio equilibrio…non a caso è uno psicologo

I: Ci sono stati dei ricordi del suo passato, professionale e non, che le sono stati di aiuto nel suo lavoro?

ER: Sì, quando per la prima volta dovetti rianimare un paziente che stava morendo, e invece di scoppiare in lacrime ed abbandonarmi mi feci forza e divenni oggettivo, razionale, ed efficace. Da allora (avevo 22 anni appena) questo meccanismo scatta sempre nelle situazioni difficili.

I: In queste settimane ha mai sentito il bisogno di essere lei stesso aiutato?

ER: Sì, più di una volta. Come dicevo c’era mio figlio Luigi Alessandro ad aiutarmi. Non sono abituato a chiedere aiuto, e in quei giorni mi facevo forza da solo, poi Luigi Alessandro ha capito che ero in difficoltà ed è stato più presente. Mi ha fatto molto bene parlare con lui.

I: Che importanza ha ricoperto il supporto sociale, come ad esempio quello di amici e parenti, nei momenti di difficoltà?

ER: E’ importante, molto, sentire esplicitamente che chi ami, o chi condivide le tue stesse competenze, ti è vicino. Purtroppo alcuni colleghi li ho sentiti emotivamente distanti, e questo mi ha ferito molto, ma la famiglia, molti pazienti, e il personale non medico dell’ospedale mi sono stati molto vicini, ho ricevuto manifestazioni di stima ed apprezzamento anche da persone sconosciute. Molte pazienti anziane si preoccupavano della mia incolumità: credo di essere stato incluso in rosari, preghiere e novene!

I: È da poco terminato il suo mandato e ha fatto ritorno a casa, che emozioni ha provato e quali pensieri ha fatto al suo rientro?

ER: È stato molto strano, la città era vuota ma io mi sentivo ancora in guerra, soprattutto i primi giorni dal mio rientro. Volevo tornare a lavorare nel mio ospedale, spinto soprattutto dal desiderio di continuare a dare il mio contributo e dal pensiero di aver lasciato soli i miei colleghi. Purtroppo mi sono stati imposti 14 giorni di quarantena e sono stato costretto a rientrare in ospedale solo successivamente. Questa pausa “imposta”, però, mi ha fatto bene in realtà: ho avuto modo di ripensare con calma a questa esperienza ed ho smesso, piano piano, di pensare alle persone morte come una ferita personale.

I: Un episodio per lei molto positivo di queste tre settimane trascorse in ospedale?

ER: Quando le pazienti A. e D., vedendomi, mostravano molta contentezza. Quando sono risultate guarite ci siamo fatti svariati selfie.

I: Qual è la cosa che le ha dato più soddisfazione?

ER: In Covid c’è poca soddisfazione medica, ma dimettere il piccolo C. (83 anni per 1,55 m di altezza), sulla cui guarigione non avrei scommesso un euro, è stata una gioia, ma non mi sono sentito artefice della sua ripresa. Ho però imparato tecniche e terapie nuove, e sono riuscito ad intrecciare nuovi rapporti con colleghi sconosciuti in un ambiente nuovo.

I: Cosa vorrebbe consigliare ad un medico o ad un infermiere che sta per entrare in un reparto d’urgenza?

ER: In un reparto di malattie infettive, a non sentirsi mai abbastanza protetto, ed essere maniacale nell’indossare le protezioni e nel rispettare le regole di sicurezza. Fatto ciò, bisogna smettere di aver timore e cercare di pensare positivamente, cioè credere che il proprio intervento sia utile: l’ho spesso ripetuto anche a me stesso.

I: C’è qualcosa che sente che questa esperienza le ha insegnato?

ER: Per prima cosa, non pensare che tutti i sentimenti patriottici, così come quelli ippocratici, siano automaticamente condivisi. Ho poi avuto modo di toccare con mano quanto sia fondamentale difendere e aiutare la sanità pubblica e, infine, ho capito che è necessario per noi operatori sanitari restare aperti emotivamente: durante questa mia esperienza nel reparto Covid ho offerto ancor prima che la medicina, moltissima empatia.

 

L’importanza del riconoscimento delle emozioni degli altri nelle interazioni interpersonali

Un recente studio (Israelashvili, Oosterwijk, Sauter, & Fischer, 2019) si propone di esplorare l’associazione tra capacità di differenziare le proprie emozioni ed abilità di riconoscere le emozioni negli altri, attraverso due indagini collegate.

 

Il riconoscimento delle emozioni altrui è un elemento fondamentale nelle interazioni sociali, in quanto permette all’individuo di rispondere in modo adeguato alle esigenze e richieste altrui in base allo stato emotivo di chi abbiamo di fronte. La capacità di differenziazione emotiva, anche detta granularità emotiva, si riferisce all’abilità di usare un linguaggio emotivo appropriato e di differenziarlo in base alla situazione specifica (Smidt & Suvak, 2015), per cui si è in grado di nominare l’emozione che si sta provando in modo corretto, oltre a saper riconoscere le emozioni altrui.

La ricerca ha suggerito diversi fattori in grado di spiegare la formazione dell’abilità del riconoscimento emotivo ed ha preso in considerazione innanzitutto il ruolo dell’empatia, sostenendo che più è grande la preoccupazione per gli stati emotivi degli altri, maggiore è l’attenzione ai segnali sociali da essi inviati, e più elevata è l’accuratezza del riconoscimento emotivo (Lauren & Hodges, 2009). Un altro aspetto esaminato è stato la mimica, intesa come simulazione delle emozioni viste nell’altro (Oberman, Winkielman, & Ramachandran, 2007), la quale tuttavia non è risultata avere associazioni significative con il riconoscimento emotivo (Hess, & Fischer, 2013). Infine, sono stati valutati gli aspetti cognitivi collegati all’empatia, intesi come conoscenza delle emozioni e più nello specifico del vocabolario in grado di dare forma alle emozioni altrui (Barrett, 2012), e Izard e i suoi colleghi (2011), sono arrivati alla conclusione che il linguaggio gioca un ruolo cruciale nella regolazione emotiva e nell’abilità di riconoscere le emozioni.

A partire da queste premesse, e considerando che molto spesso la consapevolezza delle proprie emozioni è stata messa in relazione all’adeguatezza del riconoscimento delle emozioni altrui, il presente studio (Israelashvili, Oosterwijk, Sauter, & Fischer, 2019) si propone di esplorare l’associazione tra capacità di differenziare le proprie emozioni ed abilità di riconoscere le emozioni negli altri, attraverso due indagini collegate.

Nel primo studio, a 399 studenti universitari di psicologia, attraverso l’Emotion Differentiation (ED; Erbas et al., 2014) è stato chiesto di dare un nome alle loro reazioni emotive in seguito all’esposizione ad una serie di stimoli presentati e, successivamente, attraverso l’Amsterdam Emotion Recognition Test (AERT; Wingebenbach, Ashwin, & Brosnan, 2016), è stato chiesto di valutare 24 foto di intensità emotiva crescente, rilevando un’associazione positiva tra le variabili esaminate.

Nel secondo studio sono state replicate le analisi condotte precedentemente, ma all’interno di un campione più rappresentativo, formato da numerose nazionalità, fasce d’età, e background culturali. Inoltre i 245 partecipanti, contattati attraverso una piattaforma di ricerca online, sono stati sottoposti a stimoli emotivi più differenziati rispetto a quelli del campione precedente, e i risultati ottenuti hanno confermato quelli del primo studio.

In conclusione, possiamo dire che i dati confermano le ricerche precedenti secondo cui è presente un’associazione significativa tra le variabili indagate, ma la novità rispetto agli studi passati, è aver riconosciuto che gli individui sono in grado di riconoscere le emozioni non solo dei propri partner (Erbas et al, 2016), ma di tutti coloro che incontrano, e l’aver considerato questa abilità come base del funzionamento interpersonale, e non solo come fattore protettivo dallo stress, dalla sperimentazione delle emozioni negative e dallo sviluppare una psicopatologia (Barrett, 2004).

 

Disturbo d’Ansia Sociale: un caso clinico concettualizzato secondo il modello LIBET

Da un punto di vista nosografico Andrea soffre di Ansia Sociale; adesso che si trova da solo in una città nuova questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta diventando un problema per lui e ha deciso di intraprendere un percorso di terapia.

 

Andrea (nome di fantasia) ha 20 anni, ha sempre vissuto in campagna, ma si è appena trasferito in città per iscriversi all’università. Contrariamente alle aspettative, la sua classe è composta ‘solo’ da una ventina di studenti. ‘Ed è quello il problema!‘ Sospira. ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece è tutto diverso! Siamo pochi, tutti parlano tra loro…Ci sono continuamente quei lavori di gruppo in cui bisogna per forza parlare, chiedere, dire la propria opinione…e io non so che dire, sto zitto, oppure balbetto…! E’ un incubo, ho ansia continuamente!’

Andrea si descrive come un ragazzo molto timido. Non è preoccupato per la sua preparazione, è un ragazzo studioso, vuole fare bene e se si impegna di solito riesce ad ottenere degli ottimi risultati. Il dramma arriva quando è costretto a prendere la parola di fronte agli altri. In quei momenti Andrea si sente malissimo: arrossisce, suda, le sue mani tremano e sente la bocca secca. Tempo fa è toccato a lui fare una presentazione davanti a tutti ed è stato terribile. Aveva studiato tantissimo ed era molto preparato, ma quando si è alzato in piedi per parlare …’Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare il tono…che vergogna! Mi tremava la voce e mi sono impappinato…Ho fatto la figura dell’idiota totale, quando sono tornato a casa ero veramente triste, schifato da me stesso, sono stato triste per una settimana‘.

Andrea è in ansia anche nei momenti informali, quando le persone chiacchierano tra di loro. ‘Vorrei fare amicizia, ma sono troppo in ansia, loro si conoscono già tutti e io ho paura di sembrare stupido e imbranato‘. Quando è costretto a interagire con qualche compagno, per evitare di impappinarsi spesso cerca di decidere prima che cosa dire e se lo ripete nella mente ‘per essere preparato‘, ma finisce che perde tantissimo tempo a pensare cosa dire, rischia di distrarsi e non riesce mai a sentirsi tranquillo. Quando qualcuno a lezione gli rivolge la parola, si sente molto a disagio, perché non sa che dire e teme ‘di dire stupidaggini‘. Per evitare che accada, cerca di non incrociare lo sguardo con nessuno e rimane sempre in disparte. Il problema è che poi si sente molto solo. In città non ha amici. ‘Non parlo mai con nessuno durante la settimana…è dura‘. Mentre ne parla, sembra molto triste.

Anche da bambino si è sempre sentito impacciato e nervoso nelle situazioni di gruppo, quando c’erano persone che non conosceva bene. Aveva avuto qualche problema di inserimento scolastico alle elementari, ma grazie ad una maestra molto dolce era riuscito ad ambientarsi nella classe, in cui comunque c’era anche suo cugino, con cui era cresciuto insieme. Non ha molti amici al suo paese, ma quei pochi con cui ha stretto un legame sono davvero buoni amici e con loro Andrea riesce ad essere se stesso. Inoltre è molto legato ai suoi cugini e a suo fratello minore, e ‘prima questo bastava! Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione!‘.

Adesso che si trova da solo in una città nuova, però, questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta davvero diventando un problema. Quando sa di avere una presentazione o un lavoro di gruppo, Andrea inizia a stare male una settimana prima. Non riesce a fare a meno di pensare che farà una figuraccia terribile come l’ultima volta; sente lo stomaco chiuso e la sera non riesce ad addormentarsi. E se il professore gli facesse qualche domanda davanti a tutti e lui non sapesse cosa rispondere? Andrea cerca di essere sempre perfettamente preparato, studiando fino a tardi e prendendo pagine di appunti. Il problema è che a volte non riesce a concentrarsi con tutti questi pensieri…anzi, ultimamente fa molta fatica a studiare, solo guardare i libri gli mette ansia. E se non riesce a studiare bene il pomeriggio, come può andare a lezione rischiando di essere interrogato? Gli altri sembrano sempre così preparati e sicuri di sé… L’ultima volta non ce l’ha fatta, non si è presentato il giorno del laboratorio di gruppo, fingendo di essere malato..

Da quel momento è andata sempre peggio. Ha cominciato ad evitare tutti i luoghi dove potrebbe incontrare i compagni dell’università o i professori. Andare a mensa, ad esempio, è molto difficile, soprattutto perché bisogna passare davanti ad un sacco di persone per andare a sedersi. Finisce per stare tutto il tempo chiuso in camera a studiare, ma si sente molto solo e triste, teme di non riuscire a finire l’università, di dover tornare in campagna con questo fallimento marchiato a fuoco sulla fronte.

Da un punto di vista nosogafico, Andrea soffre di Disturbo d’Ansia Sociale, conosciuto anche come Fobia Sociale, riportato nel DSM 5 (APA, 2013) nel capitolo dei Disturbi d’Ansia. I sintomi chiave per cui è possibile fare diagnosi sono i seguenti:

  • A. Paura o ansia marcata nei confronti di una o più situazioni sociali, in cui la persona è esposta al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme che agirà in un modo imbarazzante e umiliante o che i suoi sintomi d’ansia verranno giudicati negativamente
  • B. L’esposizione alla situazione temuta provoca quasi sempre ansia o paura
  • C. La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla minaccia reale data dalla situazione sociale e relativamente al contesto socio-culturale
  • D. Le situazioni temute vengono evitate oppure vengono sopportate con intensa ansia e paura
  • E. La paura, l’ansia o l’evitamento causano un distress clinicamente significativo o una riduzione del funzionamento nell’area sociale, occupazionale o in altre aree importanti di funzionamento
  • F. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e in genere durano 6 o più mesi.
  • G. La paura, l’ansia o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad es. droghe, farmaci) o a una condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale.

Alla SCID II (First, Williams, Karg, & Spitzer, 2017) l’intervista sui disturbi di personalità secondo il DSM 5, Andrea sembra avere dei tratti evitanti, ma non un vero e proprio disturbo. Infatti tende a sentirsi inadeguato e a temere il rifiuto da parte degli altri, però è stato in grado, nel corso della vita, di stringere legami profondi in cui non si sente escluso, ma appartenente.

Seguendo il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment), sviluppato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (Sassaroli, Caselli, Ruggero, 2016), è possibile ragionare sul caso clinico in termini di temi dolorosi e piani semi-adattivi.

Il tema doloroso rappresenta la vulnerabilità emotiva di ciascun individuo, formatasi nel corso della vita e data dalla focalizzazione attentiva su alcuni stati mentali negativi associati a esperienze evolutive percepite come dolorose e intollerabili. Più lo stato mentale associato al tema doloroso viene considerato come intollerabile, più l’individuo cerca di stare lontano da esso tramite strategie semi-adattive, dette piani, che comprendono l’evitamento, il controllo e l’iper-compensazione o modifica forzata del proprio stato mentale.

Il tema doloroso si può indagare partendo da un episodio recente che la persona riporta come significativo. L’episodio scelto è il momento in cui Andrea si è bloccato di fronte alla classe durante la sua esposizione. L’abbiamo indagato più o meno come segue:

A. Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare la voce..
T. Che emozione hai provato in quel momento?
A. Una grandissima vergogna
T. Cosa hai pensato di te?
A. Che stavo facendo la figura dell’idiota totale, dell’incapace sfigato
T. Com’è un incapace sfigato?
A. Uno scemo, un debole…uno che non sa stare al mondo
T. E se gli altri pensano questo, che succede di negativo?
A. Che nessuno mi considererà alla pari, mi scanseranno tutti. Nessuno vuole avere a che fare con uno sfigato così, nemmeno io vorrei
T. Qual è per te la cosa peggiore dell’essere sfigato?
A. Che non sarò mai alla pari degli altri, verrò sempre scansato dai professori..dai compagni…verrò sempre considerato inferiore
T. Come ti senti se pensi queste cose?
A. Molto triste e mi vergogno

Abbiamo ragionato a lungo se si trattasse di un tema di indegnità piuttosto che di inadegutezza/disamore. Nel primo caso si tratta di una sensazione profonda di inferiorità e disprezzo verso il sé, nel secondo caso la persona si sente rifiutabile, potenzialmente non amata e non riconosciuta nonostante i propri sforzi, priva di valore. L’emozione più spesso associata al tema dell’indegnità è la vergogna, mentre l’inadeguatezza/disamore può avere più a che fare con la tristezza. Inoltre il tema inadeguatezza/disamore, secondo il modello LIBET, può derivare da una storia evolutiva caratterizzata da genitori freddi e distanzianti, che non sono stati in grado di esprimere affetto e apprezzamento, oppure essi stessi insicuri e iperprotettivi, che non hanno permesso un’adeguata esplorazione del mondo e delle proprie capacità. Invece il tema dell’indegnità è in genere associato a genitori apertamente critici e sprezzanti, normativi e invalidanti.

E’ possibile esplorare la storia evolutiva del paziente partendo dall’episodio emotivamente saliente sopra riportato e andare indietro nel tempo, aiutando il paziente a ricordare se ci siano stati momenti in cui si è sentito in quel modo o ha pensato le stesse cose di sè nella sua adolescenza e infanzia.

T. Ti ricordi se ti sei già sentito in questo modo prima? Ad esempio, quando eri un adolescente?
A. Alle medie ci fu un episodio molto brutto. Dovevamo andare in gita, ma il mio migliore amico si era rotto un braccio e non poteva venire..Panico! Io con chi sarei stato in camera? O seduto accanto nel bus? Nessun altro mi avrebbe voluto con sé, si erano già organizzati tutti. Mi sentii proprio triste e umiliato. Non sarei voluto andare, ma mio padre mi obbligò. Anche se poi il professore decise con chi sarei stato, fu molto brutto, perchè sapevo che i miei compagni avrebbero preferito che io non fossi in camera con loro. Oppure anche nell’ora di ginnastica, ad esempio, che eravamo più classi insieme…io non la volevo mai fare e spesso mi facevo fare la giustificazione da mia madre. Il fatto è che ero scelto sempre per ultimo, perché negli sport sono imbranato. Mi sentivo l’ultimo degli ultimi.

Andando ancora indietro nel tempo, ci soffermiamo sui ricordi delle elementari.

A. I primi giorni sono stati un disastro, me lo ricordo ancora. Ero terrorizzato all’idea della scuola, degli altri bambini. Io giocavo solo coi miei cugini e mio fratello, non ero abituato. Stavamo in campagna, non avevo mai visto tutti quei bambini sconosciuti tutti insieme. Mia madre era molto preoccupata per me. Anche lei è molto timida, ha sempre vissuto in campagna, sta sempre con le stesse persone e non le piace quando deve parlare con estranei. Il primo giorno di scuola era molto spaventata, temeva di non trovare la strada, di arrivare tardi, si vergognava perchè le altre mamme erano cittadine, noi invece eravamo contadini, venivamo da un paesino di campagna…Continuava a dire che era difficile guidare per quella strada, di comportarmi bene, di parlare con la maestra e fare bella figura…

Dai racconti emerge dunque la figura di una madre a sua volta molto ansiosa e preoccupata, impacciata ed inibita nei rapporti sociali, non in grado di gestire le emozioni del figlio.

Il padre invece viene descritto come un uomo autoritario, di poche parole, molto dedito al lavoro in campagna e poco presente a casa, spesso apertamente svalutante nei confronti del figlio.

A. Era stato lui a decidere di mandarmi alla scuola in città. Diceva che dovevo diventare bravo per avere un buon lavoro. Non mi ha mai fatto un complimento, quando riportavo i voti buoni annuiva, una volta che ho preso un’insufficienza, alle superiori, mi disse scuotendo la testa che era molto deluso e che forse era stato un errore farmi fare il liceo, che era una scuola troppo difficile per me. Sentivo che aveva molte aspettative su di me, lui avrebbe tanto voluto studiare ma non aveva potuto, avevo sempre paura di deluderlo. Anche con le ragazze. Ogni tanto mi chiedeva perchè non avessi una fidanzata. – Alla tua età è normale avere una fidanzata, tutti ce l’hanno – si vedeva che era proprio preoccupato per me… deluso, proprio deluso sembrava. Sembrava triste per me. Una volta che non volevo andare ad una festa, lo sentii dire a mia madre: -Tuo figlio è un codardo -, aveva proprio una voce triste.
T. E tu come si sei sentito?
A. Mi sono vergonato, ho pensato che avesse proprio ragione.

Abbiamo deciso di condividere con il paziente la descrizione del tema dell’indegnità, che ci sembrava calzante a causa di un forte senso di inferiorità quasi senza scampo (se non forse essere ‘bravo’ all’università) e di quella profonda vergogna che non permette nemmeno di intravedere la speranza di un giudizio più benevolo da parte degli altri. Il paziente ha accolto questa ipotesi con sorpresa e diffidenza iniziale, poi con sollievo e commozione, come talvolta accade quando si scopre che un nostro dolore non è solo nostro, ma condivisibile e universale.

Secondo il modello LIBET, è utile ragionare anche in termini di piani, ovvero strategie abituali e egosintoniche che il paziente ha imparato ad usare nel corso della vita per stare lontano dal proprio tema doloroso. I piani sono più o meno rigidi, generalizzati e pervasivi, e sebbene durante il corso della vita abbiano avuto una funzionalità adattiva, ad un certo punto sono diventati disfunzionali proprio perchè utilizzati in maniera automatizzata e pervasiva anche in condizioni di bassa minaccia.

Nel corso dei colloqui, emerge che Andrea sembra utilizzare due piani: quello prudenziale, ovvero fondato sull’evitamento, e quello prescrittivo, ovvero fondato sul controllo.

Il piano più antico di Andrea sembra essere quello prudenziale, appreso dalla madre e portato avanti nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza senza, in fondo, troppi problemi. A scuola aveva suo cugino, a casa suo fratello e altri cugini e ‘questo bastava‘: ‘Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione‘.

Le prime rotture del piano prudenziale avvengono a causa di interventi esterni: l’obbligo da parte del padre ad andare in gita scolastica, ad esempio, o le volte in cui era costretto a partecipare all’ora di ginnastica. Poi arriva l’università, fonte di tante speranze, e qui c’è davvero la rottura del piano: non è più possibile evitare, come Andrea sperava! ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece…‘. Ma per Andrea è importante non fallire all’università. Che fare?

Quando non è possibile evitare, Andrea sembra perseguire il piano prescrittivo. Ad esempio, quando Andrea ci racconta che cerca di prepararsi ed imparare a memoria cosa dire durante un incontro o se interpellato, sta cercando di ‘controllare’ che l’evento temuto, ovvero l’umiliazione, la ‘figuraccia’ e la conseguente esclusione sociale non si verifichino. Lo fa nel modo che conosce: con l’impegno e la programmazione, proprio come fa quando studia per gli esami! Infatti Andrea è sempre stato un ottimo studente! In ambito scolastico la strategia prescrittiva ha sempre funzionato; nell’ambito sociale invece non sempre è una buona idea. Infatti Andrea non si tranquillizza, non riesce a ricordarsi bene cosa voleva dire e rimane costantemente preoccupato di essere ‘preso alla sprovvista’. E alla fine, nonostante la sua impeccabile e forsennata preparazione, la presentazione davanti alla classe va male.

Poiché in questo caso il piano prescrittivo non ha funzionato, Andrea torna, di nuovo, ad evitare: le situazioni, le persone, i luoghi, i lavori di gruppo. Evita la mensa, così come evitava le lezioni di ginnastica al liceo; evita gli sguardi, se ne rimane in disparte. Questa strategia, sebbene gli risparmi l’ansia e la vergogna, adesso lo rende triste, perché lo fa sentire escluso e inadeguato e rischia di mandare all’aria la sua carriera universitaria, su cui si fonda l’unica possibilità di ‘riscatto’ possibile: essere bravo, emergere, far felice il padre che non aveva potuto studiare. I costi del piano prudenziale sono diventati troppo elevati.

Data questa concettualizzazione, sarà possibile nel corso della terapia lavorare su temi e piani da un punto di vista non solo di contenuto, ma anche di processo. Dal punto di vista del tema, sarà possibile lavorare sulla polarizzazione attenzionale che rende il tema doloroso assolutamente condizionante e centrale nella vita dell’individuo, e sulla sua intollerabilità, ovvero su quanto il paziente valuti intollerabile il dolore associato al tema.

Dal punto di vista dei piani, invece, potremo lavorare in termini di necessità/utilità e di incontrollabilità, rendendo piano piano le strategie di Andrea più flessibili da un punto di vista metacognitivo e di conseguenza comportamentale.

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