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Il movimento #metoo ed il potere dei social media

I social media si confermano come nuovo mezzo per dichiarare l’abuso subito; molte donne hanno postato di aver trovato il coraggio di raccontarsi grazie alle testimonianze altrui e al movimento MeToo.

 

L’abuso sessuale è un evento ancora troppo diffuso nella società e colpisce le donne a prescindere dal background e dal paese di provenienza (World Health Organization, 2014). Infatti circa il 25% delle donne afferma di avere avuto un contatto non voluto con un uomo nel corso della propria vita (Black et al., 2011), confermando l’allarmante dato secondo cui le donne corrono un alto rischio di essere vittime di abuso sessuale, soprattutto laddove la loro condizione sia resa più vulnerabile per via di fattori individuali, come la giovane età, la presenza di disabilità, ed il tipo di lavoro e ambienti frequentati (Hoxmeier, 2016).

Nonostante questo tema sia sempre più discusso e oggetto della sensibilità pubblica, molto spesso le testimonianze delle donne non vengono credute, ed il senso di colpa e la paura possono portare a mantenere nascosto quello che è successo, cercando di cancellare l’accaduto, che però continua a persistere nelle vite delle vittime, provocando problematiche individuali, come maggior depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico, dipendenze, oltre che una maggior vulnerabilità per le malattie fisiche (Tjaden & Thoennes, 2006), con ripercussioni anche sulle relazioni interpersonali e sul funzionamento in ambito lavorativo.

Tuttavia, il movimento MeToo, fondato dall’attivista americana Tarana Burke nel 2006 e diventato poi dilagante nel mondo dei social media con l’hashtag #metoo a partire dal 2017, ha dato vita ad un’ondata di testimonianze degli abusi subiti. Infatti, a partire dall’esempio di donne note e conosciute nel mondo dello spettacolo, milioni di persone hanno postato le loro esperienze sui loro social network e ricevuto supporto dalla community, e, volendo approfondire i racconti emersi, il presente studio (Alaggia & Wang, 2020) si propone di indagare 171 post sui social media relativi all’abuso sessuale, subito come episodio singolo o ripetuto, vissuto in età infantile o adulta, da parte delle donne.

I risultati mostrano innanzitutto che i social media si confermano come nuovo mezzo per dichiarare l’abuso subito, in quanto le testimonianze altrui donano la forza necessaria a fare altrettanto, senza paura di essere giudicate o emarginate. Molte sono state le donne che hanno postato di aver trovato il coraggio di raccontarsi grazie al movimento MeToo ‘Sono stata violentata per quasi un anno da un professore mentre ero alla scuola di specializzazione’ (Utente Twitter 81) e di aver seguito l’esempio di persone famose ‘Lady Gaga, mi sento forte abbastanza da raccontare la violenza subita, mi hai aiutato così tanto con le tue parole su questo argomento, grazie a te posso andare avanti ed iniziare a raccontare la mia storia’ (Utente Reddit 23).

Inoltre, è stato messo in luce che molte donne che non sapevano o non ricordavano di essere state violentate, grazie alle informazioni ricevute dalla televisione, dai notiziari e dal movimento MeToo, hanno potuto prendere consapevolezza riguardo agli eventi vissuti e precedentemente normalizzati.

Ancora, si è rilevato che i motivi principali per cui le donne solitamente non parlano dei propri abusi sono la paura di non essere credute ‘Non l’avevo mai detto a nessun altro… perché le vittime di abuso sono costantemente incolpate per quello che è successo e messe a tacere quando provano a parlare’ (Utente di Reddit 12), i sentimenti di vergogna pervasivi ‘Faccio ancora fatica ad affrontarlo, ma non ne parlo mai perché mi vergogno di ammettere di essere una vittima di stupro’ (Utente di Twitter 12), la paura del giudizio degli altri e delle conseguenze delle loro azioni ‘Ero anche ad un punto nella mia vita in cui non potevo sopportare mentalmente di essere stuprata e per di più di perdere un amico. Il mio cervello ha in qualche modo inventato una situazione in cui tutto andava bene e io lo volevo’ (Utente di Reddit 21), oltre alla non sicurezza dell’entità dell’abuso ‘Ho detto a mio marito delle molestie che avevo vissuto prima che ci incontrassimo, e lui è stato piuttosto sorpreso perché non gliel’avevo mai detto. Quando ero giovane le accettavo e basta’ (Utente Twitter 6).

In aggiunta, è stato trovato che queste donne generalmente hanno ricevuto risposte positive e supportive. Tuttavia in alcuni casi non sono state credute e l’entità della gravità della situazione è stata sottovalutata quando sono state considerate responsabili in parte dell’accaduto, per esempio per via del fatto che erano risultate provocanti e potenzialmente disponibili agli occhi dell’aggressore, oppure perché non hanno rifiutato esplicitamente le proposte sessuali ricevute, in quanto sotto l’effetto dell’alcool o di altre sostanze.

Allo stesso modo, risposte contraddittorie sono emerse dai professionisti legali, poiché in alcuni casi le testimonianze non sono state accolte e non sono stati attuati provvedimenti per evitare che altri episodi si potessero ripetere.

In conclusione, la facilità e la libertà con le quali i social media permettono di comunicare, sono risultate di grande aiuto per moltissime donne, che hanno colto l’opportunità di affrontare e superare questo trauma, dimostrando grande forza e determinazione.

Parafilia: la sessualità atipica

Le descrizioni della parafilia possono essere collegate alla pressione sociale e agli ideali presenti nella società. Molte delle definizioni viste, infatti, sono basate su deviazioni rispetto all’idea di normalità che la società ha assegnato al sesso.

Andrea Goldoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Che cos’è la parafilia?

I ricercatori hanno adottato definizioni diverse del termine parafilia (Moser, 2011). Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione – DSM 5 (APA, 2013) la parafilia è definita come un interesse sessuale intenso e persistente verso stimoli che deviano dalla stimolazione genitale o dai preliminari condotti con partner sessualmente maturi e consenzienti.

La World Health Organization (1992) classifica le parafilie come un comportamento sessuale preferenziale abituale e impulsivo, ma non le considera un problema a meno che non sia presente disagio psicologico o effetti deleteri. Kafka (1997, 2003) le ha descritte come un fenomeno caratterizzato da un’alterazione delle preferenze sessuali, da compromissione della propria volontà e da un aumento dei comportamenti legati al desiderio sessuale. Kaplan e Krueger (2010) affermano che sono strettamente legate all’ipersessualità perché gli individui che presentano una parafilia hanno caratteristiche simili a chi presenta dipendenza sessuale, come fantasie sessuali molto frequenti e una particolare intensità del desiderio e dei comportamenti sessuali. Fisher, Kohut, Gioacchino e Fedoroff (2013) le inquadrano come interessi sessuali persistenti, non convenzionali e problematici. Importante è la visione di Arrigo e Purcell (2001), che affermano che la parafilia possa essere inserita in un continuum: da un lato ci sono interessi non convenzionali ma non dannosi per sé e per gli altri, dall’altro forme più gravi che possono comprendere masturbazione compulsiva e ricorso a droghe ed alcool come facilitatori.

Queste definizioni, seppur diverse, descrivono la parafilia come una preferenza sessuale alternativa, caratterizzata da fantasie sessuali frequenti e da un intenso interesse legato a contenuti non tradizionali, che deviano dalla tipica stimolazione genitale o dai preliminari erotici. Esistono numerose parafilie, ma tutte hanno in comune gli elementi descritti.

Il nucleo della parafilia è costituito quindi da interessi sessuali e fantasie non convenzionali o alternativi, che vengono particolarmente enfatizzati dall’individuo (Kaplan, Kruegar, 2010).

Non tutte le definizioni scientifiche considerano la parafilia come un problema, piuttosto lo diventa nel momento in cui è presente un disagio significativo o delle compromissioni nelle diverse aree di vita. Kafka (1997) sostiene che le parafilie possono diventare un problema nel momento in cui la compromissione della volontà che le caratterizza impedisce all’individuo di scegliere come e quando soddisfare il proprio desiderio. Fisher et al. (2013) affermano che le difficoltà sorgono nel momento in cui sono legate a comportamenti come abuso di pornografia e aggressioni sessuali.

Quando la parafilia diventa un disturbo?

Non è ancora stato trovato un accordo su una solida definizione che distingua una parafilia da un disturbo parafilico. Moser (2010) afferma che tale distinzione sia non valida, e che in pratica abbia poco senso. Wakefield (2011) sostiene che la distinzione tra un individuo che ha una parafilia e uno affetto da disturbo parafilico sia in parte collegata a motivazioni legali, in quanto faciliterebbe l’inquadramento dei reati a sfondo sessuale.

Le descrizioni della parafilia possono essere collegate alla pressione sociale e agli ideali presenti nella società. Molte delle definizioni viste, infatti, sono basate su deviazioni rispetto all’idea di normalità che la società ha assegnato al sesso, ma in realtà è difficile inquadrare quale tipo di comportamento sessuale possa essere effettivamente inquadrato come parafilico. (Stewart, 2012). Tale fenomeno ha reso il comportamento sessuale atipico vulnerabile allo stigma sociale, e lo ha precluso dallo studio scientifico. Le persone, infatti, potrebbero temere che le proprie compagne, i propri amici o le altre persone appartenenti al loro gruppo sociale possano scoprire le loro preferenze sessuali, cosa che li porterebbe alla condanna e al rifiuto sociale (Moser, Kleinplatz, 2006).

Allo stesso modo, gli individui che hanno una parafilia potrebbero credere di essere affetti da un disturbo psichiatrico, pensando che le loro condotte non rientrino nella normalità. Ma cos’è la normalità?

Strong e Devault (1988) dividevano la normalità sessuale in quattro categorie: statistica (la normalità è definita dal numero di persone nella popolazione generale che praticano l’attività), biologica (la normalità è definita dalla presenza di comportamenti collegati alla funzione biologica, come la riproduzione), psicologica (la normalità è definita dall’assenza di stati mentali negativi come ansia, colpa e frustrazione) e morale (la normalità è definita dal contesto culturale o storico).

Tale suddivisione comporta non pochi problemi: ad esempio, la categoria biologica afferma che gli atti sessuali normali sono solo quelli che hanno un incentivo biologico, come la riproduzione. Se ci dovessimo basare su essa, qualsiasi comportamento sessuale che devi dalla penetrazione vaginale potrebbe essere considerato come anormale. Allo stesso modo, secondo la categoria statistica, un comportamento potrebbe essere classificato come non normale solo perché è portato avanti da un numero di persone non significativo.

Kite (1990) ha cercato di risolvere questo problema somministrando un questionario composto da 30 item agli studenti universitari, per identificare ciò che consideravano un comportamento sessuale normale. Gli studenti hanno affermato che ciò che è normale è difficile da definire, e ciò che è considerato normale da un individuo potrebbe essere considerato anormale da un altro. In più, gli studenti hanno riferito che normale corrisponde a qualsiasi atto in cui i membri di una coppia si sentano a loro agio. Se una coppia considera un comportamento sessuale come piacevole, allora quel particolare comportamento è normale agli occhi della coppia. Infine, per gli studenti è normale qualunque comportamento che non provochi a un individuo sentimenti di colpa.

Il disturbo parafilico nel DSM-5

Per soddisfare i criteri clinici per uno dei disturbi parafilici presenti nel DSM-5, ci dev’essere stato un periodo di almeno sei mesi durante il quale sono occorse fantasie sessuali intense e ricorrenti. In più, i disturbi parafilici creano un disagio clinicamente significativo o deterioramenti in aree importanti di funzionamento, come quelle sociali o lavorative, attraverso fantasie, desideri o comportamenti. Il DSM-5 identifica i seguenti disturbi parafilici:

  • Disturbo esibizionistico – Gli individui diagnosticati con disturbo esibizionistico sperimentano un’eccitazione sessuale ricorrente e intensa esponendo i propri genitali a una persona che non se lo aspetta, generalmente in un ambiente pubblico.
  • Disturbo feticistico – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante dall’uso di oggetti inanimati o una concentrazione altamente specifica su parti del corpo non genitali. Gli specificatori per il disturbo feticistico includono parti corporee, oggetti inanimati o altro.
  • Disturbo frotteuristico – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante dal toccare o dallo strusciarsi su una persona che non se lo aspetta, generalmente in un contesto pubblico affollato, come una metropolitana.
  • Disturbo pedofilico – Gli individui diagnosticati con disturbo pedofilico presentano fantasie sessuali ricorrenti e intense, bisogni sessuali, e comportamenti legati all’attività sessuale con ragazzi in età prepuberale o con bambini, generalmente sotto i 13 anni di età. Gli specificatori includono l’esclusività, che indica che il soggetto è in grado di sperimentare eccitazione sessuale esclusivamente dai bambini, e la non esclusività, che indica che il soggetto è in grado di sperimentare eccitazione sessuale anche da adulti o da individui della stessa età. Altri specificatori indicano se il soggetto sia attratto dal sesso maschile, femminile o da entrambi.
  • Disturbo da masochismo sessuale – Eccitazione sessuale intensa e ricorrente derivante dall’atto di essere umiliati, picchiati, legati o fatti soffrire in altro modo. In alcuni casi, lo specificatore di asfissiofilia è usato per descrivere gli individui che ottengono eccitazione sessuale dalla limitazione della propria respirazione.
  • Disturbo da sadismo sessuale – Eccitazione sessuale intensa e ricorrente derivante dall’infliggere sofferenza fisica o psicologica a un altro individuo, o dal torturarlo. Generalmente, gli individui con questa diagnosi traggono piacere dall’infliggere dolore agli altri e ottengono piacere ed eccitazione sessuale da questi atti.
  • Disturbo da travestitismo – Gli individui affetti da disturbo da travestitismo sperimentano un’eccitazione sessuale intensa e ricorrente derivante dal cross-dressing, ovvero dall’indossare indumenti che appartengono al sesso opposto. Gli specificatori per questo disturbo indicano se sia presente un feticismo diretto a tessuti, materiali o indumenti o se sia presente autoginefilia, ovvero eccitazione derivante da pensieri o immagini in cui ci si immagina come appartenenti al sesso opposto.
  • Disturbo voyeuristico – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante dall’osservazione di individui nudi, intenti a svestirsi, o intenti in un rapporto sessuale, a loro insaputa.
  • Disturbo parafilico con altra specificazione – Questa diagnosi di disturbo parafilico è riservata a quegli individui che possiedono le caratteristiche sintomatologiche appartenenti al disturbo, che causano un disagio clinicamente significativo ma che non rispondono ai criteri di nessuno dei disturbi sopraelencati. Tale diagnosi è utile al clinico che desidera comunicare la specifica ragione che spinge a non inserire il quadro sintomatologico in uno dei precedenti disturbi.
  • Disturbo parafilico senza specificazione: E’ riservata ai quadri clinici che non ricadono nei disturbi precedentemente elencati, ma offre al clinico la possibilità di non comunicare le ragioni per le quali non possa ricadere nelle diagnosi precedenti.

Una diversa prospettiva

Nel 2010 Blanchard ha proposto una revisione della definizione di parafilia che tenesse conto del comportamento pre-coitale, ovvero dei preliminari sessuali. A differenza della parafilia, il concetto di preliminare sessuale sembra avere una definizione comune. Per preliminare si intende la stimolazione erotica o le azioni sessuali che precedono la penetrazione, come baci, tocchi, carezze. (Palladini, 2012). I preliminari sessuali tuttavia non conducono necessariamente al rapporto sessuale completo, e la loro definizione non li limita ad azioni stereotipiche o convenzionali.

La definizione di preliminare sessuale è molto utile per inserire la parafilia in un continuum che può aiutare a discernere il livello di gravità e di compromissione a cui porta. Lo studioso utilizza quattro esempi per descrivere il concetto:

  • Individuo A: Tende ad utilizzare il proprio feticcio (o focus parafilico) come un preliminare, prima di arrivare alla penetrazione e all’orgasmo.
  • Individuo B: Tende a utilizzare il proprio feticcio (o focus parafilico) sia durante i preliminari che durante la penetrazione e l’orgasmo.
  • Individuo C: Tende a essere sessualmente eccitato e a raggiungere l’orgasmo tramite il suo focus parafilico, invece di utilizzare un rapporto sessuale.
  • Individuo D: E’ incapace di raggiungere l’eccitazione sessuale a meno che non parta dal proprio focus parafilico.

E’ facile osservare come gli individui A e B utilizzino il focus parafilico come una preferenza, che non compromette lo svolgimento di un rapporto sessuale, mentre gli individui C e D potrebbero sperimentare una grave compromissione delle relazioni sentimentali e sessuali a causa delle loro fantasie.

Eziologia della parafilia

La letteratura ha provato a spiegare le origini della parafilia tramite una concettualizzazione psicoanalitica o attraverso il modello comportamentale del condizionamento. Wiederman (2003) riporta che la prospettiva psicoanalitica assume che l’individuo che sperimenta una parafilia potrebbe aver sperimentato un abuso sessuale o un trauma perpetuato dai caregivers durante l’infanzia; tale trauma può compromettere la sua capacità di costruire e mantenere relazioni sane e intime con gli altri. Perciò, per soddisfare le sue pulsioni sessuali, potrebbe rivolgersi ad altri metodi, o traendo piacere da un oggetto inanimato (dando origine al feticismo) o tramite relazioni caratterizzate da uno squilibrio di potere tra i partner (che si tradurrebbe nel masochismo o nel sadismo sessuale). Secondo la prospettiva comportamentale, la persona che ha una parafilia potrebbe essere venuta a contatto con un particolare stimolo nelle prime esperienze sessuali, tipicamente durante la masturbazione, che potrebbe essersi legato in maniera condizionata all’eccitazione e all’orgasmo. (Wiederman, 2003; Durand, Barlow, 2013). Tale stimolo, differente dalla norma culturale sessuale, potrebbe essere stato presente nell’ambiente quotidiano, e perciò l’individuo potrebbe essere stato esposto a esso frequentemente. Le fantasie sessuali non convenzionali potrebbero essere state quindi fissate tramite comportamenti sessuali ripetuti (come la masturbazione), attraverso il rinforzo positivo derivante dalle sensazioni piacevoli legate all’orgasmo.

Tuttavia, questi concetti teorici possono spiegare solamente lo spostamento d’interesse verso stimoli non genitali, che corrisponde al primo criterio del DSM-5. Non spiegano il criterio di disagio clinicamente significativo, non facendo luce sulla motivazione che spinge alcune parafilie a non causare difficoltà personali e problematiche nella relazione con gli altri, rispetto alle forme più gravi. Infatti, anche se gli individui possono trarre piacere elicitando un comportamento sessuale alternativo, la motivazione per tradurlo in un comportamento socialmente deviante, che spesso comporta un rinforzo negativo nella forma di punizioni, non è chiaramente spiegata all’interno del modello comportamentale (Wiederman, 2003). Secondo Joannides (2012), alcuni soggetti potrebbero sentire più eccitazione sessuale nei momenti in cui vi sarebbe l’obbligo di sopprimerla, come un luogo pubblico. La problematica quindi sarebbe relativa al controllo degli impulsi, non all’accettabilità sociale dello stimolo sessuale.
La formazione di una parafilia quindi non conduce necessariamente a comportamenti disfunzionali, ma la sua problematicità dipende dalla presenza o meno di situazioni e atteggiamenti dannosi che derivano da essa.

Perché le persone non scaricano l’app Immuni – Psicologia Digitale

L’app Immuni ci aiuta ad individuare possibili contatti a rischio eppure ci sono ancora molti dubbi e un atteggiamento di scetticismo e preoccupazione e, sebbene garantisca il pieno rispetto dei diritti dei consumatori e l’anonimato, sono ancora pochi gli utenti che l’hanno scaricata: si stima solo 8 su 100.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 11) Perché le persone non scaricano l’app Immuni

 

Quando la paura non è abbastanza

La pandemia ci ha travolti; questi mesi hanno avuto un impatto molto profondo sulla quotidianità e su tutti gli aspetti di vita: lavoro, relazioni, progetti. Ci siamo trovati di fronte a qualcosa di enorme e di incognito, un virus di cui tuttora sappiamo poco. Sappiamo che una cura non esiste e che c’è ancora da stare molto attenti; sappiamo che i sacrifici degli scorsi mesi ci hanno aiutato a rendere meno drammatica la situazione e gli esiti, a limitare i danni; sappiamo che c’è ancora tanto da fare e che sta a noi, tutti noi, proseguire sulla strada giusta, seguire le direttive sanitarie più aggiornate e fare del nostro meglio tutti i giorni per evitare che si creino situazioni a rischio. La paura l’abbiamo toccata con mano, non è passato tanto da quando l’appuntamento fisso era alle 18 per il bollettino della Protezione Civile. Ed ora che siamo qui, dopo tutto questo, attenti ad inforcare mascherina e guanti anche solo per andare a portare fuori il cane, la paura è più controllata ma serpeggia ancora fra noi.

Se fossimo solo degli esseri razionali adotteremmo ogni misura disponibile per preservarci, compreso utilizzare un’app che ci dice se siamo venuti in contatto con persone positive; cosa ci rende invece così poco propensi a scaricare l’app Immuni? Perché non abbiamo la stessa cura e attenzione verso i nostri dati e la nostra privacy quando si tratta di altri siti, app, piattaforme, che hanno ben altri scopi?

I dati, il nuovo petrolio

Nel settore del digital si dice che i dati siano il nuovo petrolio: grazie a strumenti sempre più sofisticati si può arrivare a conoscere davvero molte cose su chi naviga su Internet. E tutti noi siamo online. In realtà però, fatta eccezione per servizi che necessitato di chiedere informazioni personali esplicite (come nome, cognome, mail), di norma a nessuno interessa la reale identità di un utente, i dati devono essere big data quindi grandi numeri aggregati perché siano significativi. Allora ancora una volta, come mai siamo così preoccupati di scaricare Immuni?

Perché siamo così propensi a cedere i nostri dati: il paradosso della privacy

Siamo disposti a cedere a Facebook Inc. (che, ricordiamo, possiede tra le altre cose anche Whatsapp e Instagram, e perfino Giphy) ogni giorno tutti i nostri dati, incluse foto (anche di minori), video, messaggi, audio, spostamenti, interessi. Certamente, in forma anonima e aggregata, ma chi ha letto tutte le condizioni di privacy? Non è un mistero che questi dati siano una ricchezza: è sulla base di questi che viene erogata la pubblicità che noi tutti vediamo. Sembra pervasivo e lo è. Del resto è un servizio gratuito gestito da un’azienda privata per cui una fonte di remunerazione dovrà pur averla. Ma noi siamo disposti a farlo; la domanda è: perché?

Le persone, anche se si dichiarano preoccupate e interessate riguardo la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali, li rivelano in cambio di piccole ricompense, molte delle quali sono intangibili, come riconoscimento e attenzione dei pari come accade nei social network. La dicotomia fra atteggiamento e comportamento viene definita in letteratura ‘privacy paradox’ o meglio ‘information privacy paradox’ quando si riferisce specificatamente a raccolta, archiviazione, elaborazione e diffusione dei dati personali. I primi studi risalgono al 2001 quando Brown individua per la prima volta un paradosso: le persone che intervista esprimono preoccupazione rispetto alla privacy eppure allo stesso tempo effettuano acquisti online cedendo di fatto dati personali in cambio di sconti.

Secondo Acquisti (2004) questo avviene perché siamo soggetti al bias della gratificazione immediata. Le nostre scelte non sono pienamente razionali e ponderate, ma spesso guidate almeno in parte da bias: secondo il suo modello, barattiamo senza pensarci troppo i nostri dati con un vantaggio immediato, che sia materiale o immateriale come lo sconto su un prodotto, il riconoscimento sociale, risparmiare tempo con operazioni online. Non fa differenza quanto siano sensibili i dati condivisi (certo c’è differenza tra il divulgare l’età o l’indirizzo di casa): le persone danno un peso maggiore ai benefici attesi piuttosto che ad eventuali rischi.

Ci sono poi delle azioni che gli utenti fanno e che ritengono più che sufficienti a tutelarsi. Per esempio, utilizzo di pseudonimi o la limitazione dell’accesso ai propri contenuti a una cerchia più ristretta di contatti. Vengono definite Privacy-Protective Responses (IPPRs) (Son and Kim, 2008) tutte quelle misure adottate per aumentare la propria privacy online come per esempio rifiutarsi di dare informazioni; inserire informazioni false; rimuovere alcune informazioni personali; disinstallare o non utilizzare app e servizi; far presente attivamente alle aziende coinvolte le perplessità e insicurezze circa la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali.

Un altro aspetto spesso non considerato è il contesto. Gli individui percepiscono diversamente il cedere la stessa identica informazione se si trovano in un negozio fisico di fronte a un commesso, in uno store online o nello studio di un ricercatore. Ancora, le informazioni personali sono tante, con diversi livelli di ‘sensibilità’ e con diversi usi: c’è differenza tra il dire la propria età o la propria email, il proprio indirizzo o il numero della carta di credito. Le persone lo sanno e attribuiscono valori diversi a informazioni diverse. Dati come posizione, stato di salute, cronologia di navigazione, età e peso sono trattati in modo diverso dalle persone, così come diversi sono i rischi: minacce sociali (come bullismo e stalking) o usi non trasparenti (come la vendita dei dati a terze parti) sono visti in maniera diversa.

Perché non scarichiamo Immuni

L’app Immuni è stata progettata e sviluppata con grande impegno e trasparenza. Sul sito sono disponibili tutte le informazioni necessarie per comprendere il funzionamento e l’utilizzo che si fa dei dati raccolti, che, come leggiamo, in realtà non vengono raccolti: nome, cognome, data di nascita, numero di telefono, indirizzo email, posizione e movimenti non vengono tracciati.

Addirittura, si può accedere al codice e ad altri dettagli molto tecnici. Il funzionamento si basa sull’assegnazione di codici casuali che permettono il match nel caso in cui si venga a contatto con una persona positiva, in modo da prendere le precauzioni e le misure necessarie. Sta ai singoli prima di tutto scaricarla, poi in caso segnalare la propria positività e in caso qualcuno sia venuto in contatto con noi (e abbia scaricato l’app, chiaramente!) riceverà una notifica.

A pensarci, ogni giorno lasciamo online molti più dati e molto più sensibili per fare cose molto meno rilevanti, come svagarsi sui social network. Stiamo vivendo un periodo storico eccezionale in cui la nostra libertà è fortemente limitata, con tutto quello che ne consegue anche a livello economico. Anche se siamo passati a misure molto meno restrittive, rimane il timore che la situazione possa nuovamente degenerare e la presenza di nuovi focolai non è certo rassicurante. E allora come mai Immuni è stata accolta con tanta ritrosia e così poche persone l’hanno scaricata?

Il paradosso della privacy risponde a questa domanda. Le persone non hanno nessun beneficio immediato dallo scaricare l’app, per avere informazioni dettagliate su come funziona bisogna essere molto motivati (e anche tecnici!) e alcuni bias influenzano la decisione. Pensiamo all’euristica dell’affetto. Come tutte le euristiche, si tratta di una scorciatoia di pensiero che consente alle persone di prendere decisioni e risolvere i problemi in modo rapido ed efficiente, ma come funziona? Nell’euristica dell’affetto l’emozione del momento influenza le decisioni e viene utilizzata per valutare rischi e benefici. Se i sentimenti verso un’attività sono positivi, allora le persone hanno maggiori probabilità di giudicare i rischi bassi e i benefici alti. D’altra parte, se i sentimenti verso un’attività sono negativi, è più probabile che percepiscano i rischi come alti e i benefici bassi.

Stiamo parlando di un’app che nasce, serve ed è legata ad un contesto di forti sentimenti negativi: paura, rabbia, tristezza, ansia. Nell’immediato, non offre alcun beneficio. Informazioni tecniche sono difficilmente interpretabili ai più. 
Non stupisce quindi che Immuni sia uno strumento poco utilizzato e visto con diffidenza. La ricerca in psicologia sociale ci ha ampiamente confermato che l’uomo non è ‘uno scienziato’ quando si tratta di fare delle scelte, anche quando deve valutare i rischi; forse però sarebbe il caso di riprendersi un po’ di quella razionalità e fare delle scelte consapevoli.

 


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Dalla prevenzione alla promozione del benessere

L’attuale concetto di salute comporta il superamento della prevenzione in favore di un’ottica che enfatizza la promozione della salute e la valorizzazione della persona: cultura, scuola e persona sono inscindibili (Guido & Verni, 2006).

 

In tutto il mondo occidentale e quindi anche in Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, sono cambiate le condizioni di vita e di benessere; infatti, si è assistito ad un miglioramento del benessere economico, sono aumentate le scoperte della medicina che a livello terapeutico e diagnostico hanno contribuito all’eliminazione di alcune malattie, e c’è stato uno sviluppo di interventi di prevenzione (De Piccoli, 2016).

In pochi anni si è passati da uno stato di salute di tipo arcaico (caratterizzato da un’alta percentuale di malattie infettive e malattie provocate da malnutrizione) ad uno stato di salute di tipo moderno (patologie cardiologiçhe e tumorali, dovute a stili di vita poco sani, tra cui: stress, cattive abitudini alimentari, inquinamento, sedentarietà etc.) (Ibidem).

Il concetto di salute viene definito in due modalità differenti. Secondo la prima definizione, che viene attribuita al modello biomedico, la salute viene considerata un’assenza di malattia, intesa quest’ultima come uno stato di default, che non ammette gradi, oppure essere entro certi limiti di tolleranza.

La seconda definizione, invece, viene attribuita al modello olistico, fa riferimento a concetti positivi, tra cui il concetto di benessere, felicità, raggiungimento dei propri obiettivi, realizzazione del proprio potenziale, non alienazione dal proprio corpo, etc.

In quest’ultimo caso si deve fare riferimento a due visioni diverse, nelle quali il concetto di salute è declinabile in modo positivo.

In primo luogo, il concetto di salute non dev’essere inteso come una mancanza di qualcosa, di solito la malattia, ma deve individuare piuttosto dei requisiti effettivi e operativi della salute.

Ad esempio, essere in salute potrebbe significare essere in grado di compiere svariate attività (lavorare, realizzare i propri scopi vitali, etc).

In secondo luogo ci si può riferire ad una vera e propria concezione positiva, in relazione alla quale la salute rappresenterebbe una situazione di optimum, ovvero un ideale che tiene conto della possibilità di ottimizzare la condizione di un individuo, in relazione non solo alla dimensione biologica, fisiologica, e psicologica, ma anche a fattori eterogenei, quali gli scopi e i valori personali e/o culturali, il ruolo sociale o la prospettiva fenomenologica del soggetto (Morandi Corradini, 2019).

Questa condizione è mutevole, infatti viene rappresentata lungo un continuum che va da uno stato di salute ad uno stato di malattia e il soggetto può avvicinarvisi o allontanarvisi dalle stesse.

Un concetto di salute che è stato ed è oggetto di dibattito è quello espresso nella Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

In questo caso la nozione di salute non solo viene definita facendo riferimento a caratteristiche positive, ma viene anche concepita in un senso ideale: non ci si accontenta di raggiungere un qualche livello minimo o uno stato di default, ma si aspira all’aggettivo completo, al raggiungimento di un buon stato di optimum. Quest’ultima definizione ha portato a diverse critiche, in quanto nessuno potrebbe affermare di essere in salute (Morandi Corradini, 2019).

Anche la psicologia ha dato un contributo per quanto riguarda gli studi sul benessere, in particolare una branca della psicologia: la psicologia positiva. Gli studi si articolano in due diverse prospettive (Ryan & Deci, 2001): la prospettiva edonica e la prospettiva eudaimonica.

La prima analizza il benessere soggettivo (SWB = subjective well-being) e lo riconduce principalmente alla dimensione affettiva (presenza di emozioni positive ed assenza di emozioni negative) e alla soddisfazione di vita (Diener, Kahneman, & Schwarz, 1999).

La seconda prospettiva invece si riferisce al “benessere psicologico” (PWB = psychological well-being) e lo riferisce fondamentalmente all’auto-realizzazione (considerata come attualizzazione delle potenzialità, risorse e predisposizioni individuali), alla costruzione di significati e alla condivisione di obiettivi (Ryff & Keyes, 1995; Keyes & Haidt, 2003).

A partire da questi studi è possibile affermare che la salute non corrisponde al risultato di scelte individuali, separate dal contesto sociale, perché (come affermato in precedenza) la salute non prende in considerazione gli aspetti biomedici, ma raggruppa e coinvolge anche gli aspetti inerenti l’esistenza, richiamando, dunque, le politiche sociali ad intervenire non solo in termini sanitari (De Piccoli, 2016; Sanità, 1986).

Le politiche sociali per intervenire hanno elaborato degli interventi di prevenzione nel contesto sociale (Cristini & Santinello, 2012); per prevenzione si intende l’adozione di una serie di comportamenti per potersi cautelare da un male futuro.

In generale, la prevenzione allude ad ogni attività volta ad impedire pericoli e mali sociali di varia origine (Dionisotti & Bembo, 1966).

Quando si elaborano interventi di prevenzione, da un lato gli interventi sono basati sull’improvvisazione e sulle sensazioni che si sentono in quel momento (senza seguire schemi preordinati); dall’altro, invece, si adotta un atteggiamento di rigido determinismo in cui si pensa che si possa trovare una formula che può essere applicata in diversi contesti, ottenendo gli stessi risultati (Cristini & Santinello, 2012).

Nel primo caso si otterranno interventi che saranno originali e progettati ad hoc, tuttavia si potrebbe correre il rischio di realizzare interventi di scarsa qualità, in termini di efficienza ed efficacia.

Nel secondo caso, tutta l’attenzione sull’utilizzo di un pacchetto di prevenzione preconfezionato e sul rigore metodologico, a prescindere dalle caratteristiche degli attori interessati e del contesto in cui viene realizzato l’intervento; il rischio, in questo caso, è quello di perdere di vista le peculiarità distintive dei soggetti, la realtà di vita e le differenti prospettive e di conseguenza proporre pacchetti di prevenzione che non possono essere realizzati in modo efficace.

Un corretto intervento preventivo dev’essere in grado di mischiare entrambi i due modi di operare: evitare, quindi, l’adozione di metodologie preconfezionate ed utilizzare strategie preventive basate sull’immaginazione ed infine, creare dei programmi ad hoc che si adattino alle necessità locali.

Per creare dei programmi di prevenzione è importante sapere su cosa farla (per esempio, prevenire il consumo di sostanze), le ragioni per cui si intende intervenire e con chi si vuole intervenire (ad esempio con gli insegnanti, i genitori, etc.).

Le ragioni per cui viene intrapreso un progetto di prevenzione sono molteplici: una potrebbe essere dovuta al fatto che spesso i servizi non riescono ad individuare in modo tempestivo ed adeguato i giovani che vivono situazioni di disagio e di malessere (Cristini & Santinello, 2012).

Per avviare gli interventi preventivi, uno dei passi più importanti è quello di individuare i fattori di rischio; ovvero quelle caratteristiche o quelle condizioni che aumentano il rischio di sviluppare un disagio o una problematica.

Tra i fattori di rischio è possibile annoverare:

  • I fattori di rischio ambientali: tutti quegli stimoli ambientali che possono arrecare problematiche;
  • I fattori di rischio individuali o intrapersonali: corrispondono a tutte le caratteristiche di personalità o altre variabili psicologiche che possono aumentare i rischi di mettere in atto comportamenti problematici o far sviluppare dei disagi;
  • I fattori di rischio micro-ambientali: caratteristiche e influenze di contesti in cui l’individuo si trova in contatto indiretto (ad esempio la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari etc.);
  • I fattori di rischio macro-ambientali: caratteristiche della comunità con cui l’individuo è in contatto in modo indiretto, ma che esercita una qualche influenza (ad esempio il quartiere, la città o il Paese, etc.).

Tuttavia la sola prevenzione non è sufficiente per individuare e prevenire i rischi, per cui si è passati al concetto di promozione dei fattori di protezione e delle abilità che sono presenti nell’individuo (Cristini & Santinello, 2012).

L’attuale concetto di salute comporta, infatti, il superamento della prevenzione in favore di un’ottica che enfatizza la promozione della salute e la valorizzazione della persona: cultura, scuola e persona sono inscindibili (Guido & Verni, 2006).

Per promozione si intende un processo attraverso il quale l’individuo è in grado di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla (Sanità, 1986).

Promuovere la cultura della salute significa far prendere coscienza al soggetto delle proprie scelte, aiutarlo a prendere una decisione e a far sì che salute e benessere diventino veri e propri stili di vita (Guido & Verni, 2006).

Tornando alla prima definizione che è stata esposta in precedenza, per fattori di protezione si intendono quelle condizioni o caratteristiche che incrementano le possibilità di adattamento, di mantenere o incrementare uno stato di benessere e di salute e riducono la possibilità di sviluppare un disagio o mettere in atto comportamenti problematici (Cristini & Santinello, 2012).

Tra i fattori di protezione è possibile annoverare:

  • I fattori di protezione ambientali, le persone o le caratteristiche ambientali che possono aiutare l’individuo ad evitare determinati comportamenti;
  • I fattori di protezione individuali, le caratteristiche personologiche o i tratti di personalità che possono aiutare l’individuo ad evitare determinai comportamenti (Cristini & Santinello, 2012).

Prevenzione e promozione sono entrambe utilizzate in ambito psicosociale; tuttavia i due concetti si differenziano. Le principali differenze possono essere ricondotte all’obiettivo che si intende raggiungere con gli interventi, alla definizione di benessere e alla relativa importanza posta ai risultati di sviluppo positivi o negativi.

Gli interventi preventivi intervengono sui fattori di rischio, per ridurre la probabilità che il soggetto sviluppi un disturbo o un comportamento disfunzionale; gli interventi di promozione, invece, aumentano i comportamenti tesi al miglioramento del benessere e non si pongono in modo primario e specifico la prevenzione di un disturbo specifico (Ibidem).

Infine, negli interventi di prevenzione si pone enfasi sui disturbi o problemi che si devono prevenire, ovvero sui cosiddetti risultati di sviluppo negativo. Negli interventi di promozione del benessere e dello sviluppo positivo si pone enfasi sui cosiddetti risultati di sviluppo positivi e sulla condizione di benessere generale (Cristini & Santinello, 2012).

 

Psicoterapia online ai tempi del Coronavirus: cosa rimane dell’esperienza

Può uno spostamento di setting mettere in discussione l’efficacia psicoterapeutica? Non si tratta di stabilire se le terapia via Skype sia giusta o sbagliata, ma se si possa considerare questa modalità percorribile, in funzione del proprio modo di figurare il mondo.

 

…tutte le nostre percezioni attuali sono aperte alla discussione e riconsiderazione (…) persino i più ovvi accadimenti della vita di ogni giorno potrebbero mostrarsi totalmente trasformati se fossimo sufficientemente inventivi da costruirli in maniera diversa. (G.A. Kelly)

 

In tempi di pandemia, alle professioni è richiesto un alto grado di adattabilità: smart working, lezioni on line, psicoterapie via skype. In qualità di psicoterapeuta, formata sulla base della psicologia dei costrutti personali, è stato immediato il ricordo delle prime letture durante gli anni di specializzazione. George Kelly, inventore della PCP, si recò presso le aree rurali del Kansas negli anni ‘30 con la sua Clinica psicologica itinerante, in compagnia di quattro studenti, offrendo colloqui ad adulti e bambini.

Ben altro tipo di spostamento è richiesto a noi terapeuti di oggi: dallo studio alla modalità online. Tale evento ha determinato un cambiamento relativo all’esperienza sia nella vita del cliente che nella vita del terapeuta. Per ragioni relative alle distanze e agli spostamenti, fino ad oggi, le psicoterapie online dipendevano dalle necessità dei clienti. La pandemia, per chi seguiva un percorso in presenza fisica dello psicoterapeuta, ha implicato una scelta: sospendere le sedute, proseguire con gli incontri vis à vis, affacciarsi alla possibilità di una seduta attraverso una videochiamata. Compito dello psicoterapeuta, comprendere il proprio ruolo in questa fase di cambiamento.

Può uno spostamento di setting mettere in discussione l’efficacia psicoterapeutica?

Se intendiamo il setting come un luogo sicuro all’interno del quale si svolga una relazione,

in cui tutto ciò che avviene è confidenziale e distinto dal resto delle normali attività e relazioni interpersonali (Cionini, 2001, p.21),

la psicoterapia via Skype può continuare a garantire un senso di sicurezza e di unicità della relazione. Il terapeuta, laddove scelga di svolgere le sedute all’interno della propria abitazione, ricercherà quel grado di isolamento che gli era consentito dentro lo studio, l’assenza di elementi personali che possano turbare la neutralità del setting. Se intendiamo la relazione terapeutica come un rapporto di partnership fra due persone che si pongono come obiettivo il benessere del cliente, un’alterazione del setting che mantenga lo stesso livello di privacy,  la stessa vivacità della seduta, quel giusto livello di coinvolgimento emotivo, non modifica i fattori principali che rendono possibile la riuscita di una psicoterapia.

Che dire allora di chi ha preferito sospendere le sedute? O di chi abbia scelto gli incontri attraverso la videochiamata pur continuando a prediligere la seduta vis à vis? A quali riflessioni invitano i terapeuti che hanno lamentato una fatica durante questo passaggio?

Le scelte e i vissuti andrebbero guardati non tanto in termini di autocritica, ma all’interno di una possibilità di comprensione. Non si tratta di stabilire se le terapia via Skype sia giusta o sbagliata, ma se si possa considerare questa modalità percorribile, in funzione del proprio modo di figurare il mondo.

Alcuni colleghi potrebbero lamentare il fatto che non solo mancano i corpi – il video, nella postura, nei gesti, nelle espressioni, nei movimenti, li restituisce parzialmente – mancano anche quei passaggi che forse sono propedeutici all’incontro: uscire di casa, viaggiare e pensare alla seduta, vedere i gestori del bar, o i commessi del negozio di fianco prima di suonare il campanello. Qualcuno potrebbe obbiettare che anche se all’interno di una seduta via Skype è possibile stabilire la “giusta distanza” attraverso lo stile registico adottato, è più difficile ricreare quella relazione fra i corpi, fatta di spostamenti, modi di gesticolare, di distanze che assume molti significati nella stanza della terapia. Significati che non permeano necessariamente la mente del terapeuta ad un alto livello di consapevolezza, ma che costituiscono parte importante dell’intero processo terapeutico.

Se è vero che la scelta di mostrare tutto il busto o solo il viso canalizza la comunicazione, quello che emerge forse, è che non mancano i corpi, perché sono riprodotti dal video, manca la relazione tra questi. Le implicazioni della diffusione del virus sull’attività psicoterapeutica sono state numerose. Ciò che ha reso questa esperienza unica infatti è l’improvviso cambiamento di stile di vita di cliente e terapeuta, che al di là delle differenze di età, di genere e di esperienza si sono trovati a vivere una realtà eccezionalmente simile. E hanno vissuto e guardato a quella realtà con occhi uguali e diversi. Se il valore di una psicoterapia si costruisce principalmente su una relazione “ortogonale”, ortogonale perché diversa dalle relazioni precedenti e diversa in un modo specifico che è particolarmente funzionale a quel tipo di persona, allora ciò che risulta fondamentale è mantenere la qualità della relazione indipendentemente dalla scelta effettuata (sospendere gli incontri o continuarli attraverso il video). In un momento storico sociale in cui è minacciato il nostro modo di stare nel mondo e con gli altri è bene che l’alleanza terapeutica non vada incontro a nessun tipo di minaccia. Sarebbe opportuno, invece, che il terapeuta avesse addirittura la possibilità di anticipare la scelta fatta dal cliente sulla base della conoscenza dello stesso, in modo tale da non trovarsi ad essere particolarmente sorpreso.

Sappiamo quanto sia importante per svolgere il mestiere di psicoterapeuti il fatto di avere una vita ricca, in termini di interessi, relazioni significative, curiosità, attività, incontri. Tutto ciò si è reso più difficile durante il lockdown e le persone, terapeuti compresi, si sono impegnate in uno sforzo teso a ricostruire un mondo ricco in tempi rapidi.

Un’altra difficoltà che potrebbe aver accompagnato la vita delle persone è che prima della pandemia molti di noi vivevano affidandosi ad un alternarsi di pensiero logico e pensiero narrativo. L’ansia vissuta, il senso di minaccia, la riduzione del numero di narrazioni (minor numero di contatti, di incontri, di conversazioni, di visioni) potrebbero, nel loro insieme, aver potenziato l’esperienza logica a sfavore di quella narrativa, generando cambiamenti significativi all’interno della vita vissuta: quel giusto avvicendarsi di allentamento e restringimento, di pensiero logico e narrativo colora infatti in modo positivo la qualità dell’esperienza.

Tornando alla relazione terapeutica, non si può non considerare però che le scelte effettuate dai clienti in questa circostanza possono aver dato luce a diverse opportunità: arricchire la conoscenza di sé sulla base della scelta effettuata (perché non mi connetto e quali aspetti di me spiegano questa scelta), sperimentare l’assenza della psicoterapia e restituire un significato alla funzione della stessa nella propria vita, fare invece esperienza di nuovi aspetti di sé nella comunicazione attraverso il video, cogliere nella relazione online caratteristiche interessanti.

Fra le numerose domande: se lo psicoterapeuta fa ricorso all’interpretazione, a un intervento, all’adozione di tecniche, per favorire nel cliente una comprensione di sé che abbia via via un effetto discrepante tale da favorire un movimento, in che modo questo è ancora possibile in assenza dell’intercorporeità? Ci si chiede quindi in che modo sia possibile riprodurre a distanza, chiusi in stanze diverse, quella possibilità di fantasticare il cliente, di visualizzare quelle letture che favoriscono una rinarrazione. Intuizione, coraggio e creatività possono appartenere al terapeuta in un percorso che implica distanza fisica?

In Il costruttivismo in psicologia e in psicoterapia – Il caleidoscopio della conoscenza, Chiari (2016), racconta come dal suo punto di vista il caleidoscopio sia una fra le metafore migliori per rappresentare la complessità della conoscenza. La stessa immagine può rivelarsi utile per spiegare la molteplicità delle strade che la psicoterapia può percorrere in tempi di lockdown, senza perdere i presupposti che la contraddistinguono sul piano teorico e professionale.

 


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Paura del buio – CBT vs ACT

Uno studio recente ha paragonato l’efficacia della Terapia Cognitivo-Comportamentale e dell’Acceptance and Commitment Therapy in un campione di bambini con alti livelli di ansia e paura del buio.

 

Anche se parte del normale sviluppo (Muris et al., 2001), approssimativamente il 20% dei bambini soffre di paure notturne e problemi legati al sonno (Gordon et al., 2007), senza prevalenza a livello di genere (Meltzer et al., 2009). Nei bambini di 8-12 anni a cui è stata diagnosticata una fobia specifica, la paura del buio è il tipo di fobia più diffuso (Simon & Bögels, 2009). Chi soffre questo tipo di fobia sperimenta in genere gravi sintomi di paura e ansia prima di andare a letto e durante tutta la notte (Lewis et al., 2015).

La paura del buio è anche associata a un aumento del rischio di futuri problemi di ansia e depressione (Essau et al., 2000; Pine et al., 2001).

La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è attualmente considerata il trattamento standard per i disturbi legati alle fobie e all’ansia ed è stata efficacemente utilizzata anche con i bambini (Kendall, 1994; Kendall & Hedtke, 2006; Ollendick et al., 2009; Simon et al., 2011). Negli ultimi anni, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è stata proposta come un intervento cognitivo-comportamentale alternativo alla CBT classica per trattare i problemi legati all’ansia (Arch & Craske, 2008; Hayes et al., 2006; Powers et al., 2009). La differenza tra le due è che, mentre la CBT ha come target terapeutico il contenuto delle cognizioni, l’ACT stimola i pazienti ad avere un atteggiamento più favorevole verso i loro pensieri, portandoli ad accettarne il contenuto (Arch & Craske, 2008; Hayes et al., 2006).

Siccome non sono stati fatti ancora paragoni tra le due terapie – a livello esclusivamente cognitivo – su un campione di bambini, uno studio recente (Simon et al., 2020) ha paragonato l’efficacia di queste due terapie in un campione di bambini con alti livelli di ansia, focalizzandosi sugli aspetti cognitivi legati alla paura del buio.

Per fare ciò sono stati reclutati in Belgio 43 bambini con alti livelli di ansia delle scuole elementari. La loro età era compresa tra 8 e 12 anni e sono stati divisi in due gruppi per un training di 30 minuti di ristrutturazione cognitiva CBT (n = 21), oppure di accettazione ACT (n = 22). Il livello legato alla paura del buio è stato misurato – prima e dopo l’intervento – con una Visual Analogue Scale, così come anche sono stati misurati la tolleranza al buio (accertata empiricamente con una prova di permanenza al buio di massimo tre minuti), il livello di comprensione dell’intervento e di divertimento legato a questo.

Dai risultati si è riscontrato che la paura del buio nei bambini – nonostante la durata del training di soli 30 minuti – è diminuita notevolmente sia con l’intervento CBT, sia con quello ACT, sebbene il gruppo CBT abbia riportato una diminuzione maggiore rispetto a quello ACT.

Non ci sono state differenze invece nei livelli di tolleranza al buio e di divertimento percepito durante l’intervento.

Il livello di comprensione dell’intervento è stato significativamente più alto nel gruppo CBT rispetto a quello ACT. Tuttavia, in contrasto con i risultati di alto divertimento, il livello di comprensione è stato abbastanza modesto per i bambini in entrambi i gruppi.

La ristrutturazione cognitiva della CBT sembrerebbe portare a risultati più favorevoli che l’accettazione della ACT per i bambini di questa fascia d’età. Una possibile spiegazione per questo potrebbe anche essere che la CBT si mostra più adatta dell’ACT nei casi di interventi particolarmente brevi. In ogni caso, a livello clinico, i bambini ansiosi di 8-12 anni possono beneficiare di un intervento esclusivamente cognitivo (CBT o ACT), anche quando non sono offerti esercizi comportamentali (come l’esposizione).

 

Ansia esistenziale e personalità nei giovani adulti

Porsi delle domande circa il senso della vita accomuna tutti gli esseri umani. Tuttavia, alcune persone possono essere particolarmente angosciate rispetto a questi temi, che più volte sono stati trattati anche nell’arte e nel cinema.

 

Alcune persone quindi sperimentano quella che viene definita ansia esistenziale. L’ansia esistenziale è l’apprensione che si prova quando si percepisce la vita come vuota e priva di significato. L’ansia esistenziale riguarda anche la preoccupazione che nasce attorno a riflessioni sul fato, sulla morte e sul senso di colpa (Shumaker, Killian, Kole, Hruby e Grimm, 2017).

Shumaker e colleghi (2017) hanno argomentato che i tratti di personalità possono influenzare la tendenza a provare ansia esistenziale. Specificamente, hanno ipotizzato che un alto livello di nevroticismo, uno dei tratti di personalità presenti nel modello dei Big Five (McCrae e Costa, 2007), sia associato a una maggior sperimentazione dell’ansia esistenziale. Un livello elevato di nevroticismo è associato con bassa stabilità emotiva e con la tendenza a sperimentare facilmente emozioni negative, anche di fronte a piccoli stress (Barnhofer e Chittka, 2010).

Inoltre, sebbene tutti tendiamo a confrontarci con il bisogno di dare un senso alla nostra esistenza, questa necessità può essere particolarmente intensa per gli adolescenti e i giovani adulti. Infatti, in questa fascia di età, seppur con delle specificità che distinguono adolescenti e giovani adulti, si è impegnati nella formazione della propria identità, nel cercare di capire chi si è e che obiettivi ci si vuole porre per il futuro (Lancini, 2019). Per questo, i ricercatori hanno utilizzato un campione di studenti universitari di età compresa tra i 18 e i 25 anni.

I partecipanti hanno completato una serie di questionari per misurare l’ansia esistenziale (Existential Anxiety Questionnaire, EAQ; Meaning of Life Questionnaire), i tratti di personalità (Neo – Five-Factor Inventory 3), la presenza di sintomi depressivi (Beck Depression Inventory – II) e di sintomi ansiosi (Beck Anxiety Inventory).

Tutti i partecipanti hanno riportato di avere almeno in minima parte preoccupazioni di natura esistenziale, confermando che l’ansia esistenziale è un fenomeno universale. Tuttavia, i punteggi dell’Existential Anxiety Questionnaire indicano che alcuni giovani adulti la sperimentano in modo particolarmente intenso.

Come ipotizzato, gli studenti con un elevato nevroticismo sono quelli che sperimentano ansia esistenziale in misura maggiore. In particolare, la sottodimensione del nevroticismo più fortemente correlata con l’ansia esistenziale è l’auto-consapevolezza o auto-coscienza, che a sua volta è associata a timidezza e sentimenti di inferiorità e colpa. Gli autori riportano che giovani adulti caratterizzati da questi tratti di personalità spesso si presentano in terapia riportando un’alta motivazione per la propria realizzazione, insieme a sentimenti di disprezzo verso sé stessi, al bisogno di fare le cose sempre in modo corretto e a un rigido codice morale che lascia poco spazio alla compassione verso sé stessi.

I giovani adulti appena descritti possono rappresentare una popolazione a rischio per lo sviluppo di ansia esistenziale e di sintomi depressivi, ansiosi e suicidali. Per questo sarebbe importante integrare i risultati qui presentati con ulteriori dati. Sarebbe utile ad esempio estendere il campione a giovani adulti che non frequentano l’università. Sarebbe inoltre opportuno effettuare uno studio longitudinale, per poter trarre conclusioni di natura causale. Approfondire questi risultati è importante perché, nell’esercizio dell’attività clinica, riconoscere la presenza di tratti di personalità che possono più probabilmente associarsi ad ansia esistenziale permette di agire in termini preventivi.

 

U.S.A.: La rivincita della psicoterapia online?

In tempi di pandemia la parola d’ordine è online: se puoi fare qualcosa a distanza, falla a distanza! Smart working, spesa online, videolezioni, ginnastica, sessioni di laurea, corsi, convegni, eventi… un’infinità di attività ha traslocato sul web. Tra queste anche la psicoterapia.

 

Durante la fase di lockdown le sedute online hanno preso il posto di quelle in presenza fisica (“lontani, ma vicini”), regalando agli addetti ai lavori accesi dibattiti e spunti di riflessione su opportunità, vantaggi, svantaggi, efficacia di tale modalità. Sebbene la psicoterapia online non sia certo una novità, sembra però essere considerata una supplente della psicoterapia in presenza, più che una sua vera e propria alternativa.

A tal proposito è interessante gettare uno sguardo oltreoceano e leggere l’articolo di Olga Khazan pubblicato sul The Atlantic sul perché negli USA la psicoterapia online non abbia mai preso veramente piede. Un sondaggio americano del 2018 ha rilevato infatti che meno della metà dei terapeuti eroga prestazioni psicologiche in teleterapia e di questi la maggior parte predilige il telefono o l’email rispetto alla modalità di videochiamata. Come mai? Principalmente per due motivi.

In primo luogo, non sempre è previsto un rimborso da parte delle assicurazioni per la terapia a distanza oppure, se previsto, il rimborso è minore rispetto a quello per una terapia in presenza; pertanto ai terapeuti che lavorano in convenzione con le assicurazioni spesso la psicoterapia online non è economicamente conveniente.

In secondo luogo, la psicoterapia online implica l’utilizzo di strumenti o piattaforme come Zoom o Skype, vulnerabili dal punto di vista di sicurezza e privacy; il rischio è alto: infrangere l’Health Insurance Portability and Accountability Act (HIPAA), la legge federale che regola e tutela la riservatezza delle informazioni sanitarie.

L’arrivo della pandemia, e il conseguente lockdown, ha però sparigliato le carte in tavola, costringendo non solo i terapeuti, ma soprattutto le istituzioni a confrontarsi con la necessità di un cambiamento rapido, immediato, non più procrastinabile, per non lasciare migliaia di pazienti senza sostegno psicologico. Pertanto il Centers for Medicare & Medicaid Services (CMS), l’agenzia federale che sovrintende i programmi di assistenza sanitaria Medicare e Medicaid finanziati dal governo americano, ha rassicurato che, alla luce dell’emergenza Covid-19, avrebbe considerato e rimborsato le sedute di teleterapia al pari di quelle in presenza; a ruota, importanti compagnie assicurative private ne hanno seguito l’esempio. Inoltre il Governo federale in una nota pubblicata a marzo ha dato il via libera alle prestazioni sanitarie erogate tramite l’utilizzo di strumenti popolari di videoconference gratuiti (es. FaceTime, Zoom, Skype…) anche se non soddisfano pienamente i requisiti previsti dalla HIPAA, senza il rischio di incorrere in sanzioni; resta proibito, comprensibilmente, l’utilizzo di app pubbliche come Facebook Live, Twitch, TikTok e simili.

Sebbene queste misure pare siano temporanee, la speranza è che anche al termine dell’emergenza sanitaria rimangano in essere, così da poter offrire ai pazienti, a parità di efficacia, maggiori opzioni tra cui scegliere la modalità di psicoterapia più adatta alle proprie esigenze ovunque si trovino.

 


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Call for Abstract – European Conference on Digital Psychology

Online il sito della prima Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale , organizzata dalla Sigmund Freud University il 19 e 20 febbraio 2021 presso lo Spazio Eventi Magna Pars a Milano.

Disponibili le informazioni sugli speaker già confermati, sulle aree tematiche trattate e sul programma dei due giorni di conferenza, che per il primo anno avrà come tema “Digital Perspectives in Psychology”.

La call for abstracts sarà aperta fino al 15 settembre 2020. Studenti universitari e post laurea, studenti di Scuole di specializzazioni, clinici, ricercatori e professori possono sottoporre già da ora abstract per presentazioni orali e/o poster dei loro progetti.

Le iscrizioni alla Conferenza apriranno a breve.

È possibile inoltre iscriversi alla newsletter dell’evento per ricevere aggiornamenti e informazioni.

I miei primi 40 giorni da mamma. Tutto quello che c’è da sapere sulle prime settimane dopo il parto. (2019) di Cheryl R. Zauderer – Recensione

La gravidanza è un periodo particolare nella vita di una donna: comporta numerosi cambiamenti e solleva diversi interrogativi. Questo il tema centrale del libro I miei primi 40 giorni da mamma.

 

Nel libro I miei primi 40 giorni da mamma l’autrice Cheryl R. Zauderer, infermiera e ostetrica da più di trent’anni, fornisce spiegazioni, risposte, miti sfatati: illustra i cambiamenti del corpo della donna che si è preparato per mettere al mondo una nuova vita; spiega l’intero processo del parto (naturale e cesareo), dalle prime fasi del travaglio, al primo incontro con il bambino, fino al post-parto; affronta il tema dell’allattamento (artificiale e naturale) offrendo consigli su una corretta alimentazione da seguire in questa fase delicata; analizza le dinamiche individuali e di coppia che si attivano con la gravidanza e con la genitorialità, facendo riflettere su ciò che questa straordinaria esperienza comporta e suggerendo modalità di interazione positiva.

L’autrice accoglie le intense emozioni che in questo periodo travolgono le neomamme proponendo una spiegazione dei disturbi emotivi che la donna può trovarsi ad affrontare; fornisce degli spunti di riflessione per favorire il processo di bonding – attaccamento, raccomandando di immergersi nella maternità ma di non dimenticare la propria individualità, i propri hobby, le proprie doti naturali e il proprio percorso professionale e lavorativo.

Una lettura piacevole e confortante che, attraverso un linguaggio semplice, ma chiaro ed esperto, trasmette le basi teorico-pratiche per svolgere al meglio il nuovo ruolo di Madre, valorizzandone tutto il potenziale e accogliendo con sensibilità le difficoltà che inevitabilmente questo percorso comporta.

Al tempo stesso, offre uno spunto di riflessione ai Papà, affinché possano prendere coscienza del compito particolarmente importante che saranno chiamati a svolgere.

L’inquinamento atmosferico altererebbe la morfologia cerebrale

Mentre l’inquinamento atmosferico è stato a lungo considerato un problema per la salute polmonare e cardiovascolare, solo negli ultimi dieci anni gli scienziati hanno rivolto la loro attenzione ai suoi effetti sul cervello.

 

I ricercatori dell’Università della California hanno trovato un legame tra l’inquinamento atmosferico legato al traffico e un aumento del rischio di cambiamenti nello sviluppo del cervello. Queste modifiche sembrano essere rilevanti per lo sviluppo di disturbi neurologici. Il loro studio, basato su modelli di roditori, conferma precedenti prove epidemiologiche che dimostrano questa associazione (Patten et al., 2020).

Mentre l’inquinamento atmosferico è stato a lungo un problema per la salute polmonare e cardiovascolare, solo negli ultimi dieci anni gli scienziati hanno rivolto la loro attenzione ai suoi effetti sul cervello.

I ricercatori avevano precedentemente documentato collegamenti tra la vicinanza a strade trafficate e disturbi dello sviluppo neurologico come l’autismo, ma i dati preclinici, basati su esposizioni in tempo reale all’inquinamento atmosferico legato al traffico, erano scarsi o inesistenti (Raz et al., 2018).

Per rispondere alle ipotesi avanzate, gli sperimentatori hanno allestito un vivarium vicino a un tunnel del traffico nella California del Nord in modo da poter imitare, l’esperienza degli umani in un modello basato sui roditori (Patten et al., 2020).

È importante sapere se vivere vicino a queste strade comporta un rischio significativo per lo sviluppo del cervello umano, se si riuscisse in questo intento, gli scienziati potrebbero avvertire le persone sensibili, come le donne in gravidanza – in particolare quelle a cui è già stato diagnosticato un bambino con un disturbo dello sviluppo neurologico –  cosi da consentire la presa in carico di precauzioni appropriate per ridurre al minimo i rischi per la salute del bambino (Patten et al., 2020).

I ricercatori hanno confrontato il cervello dei cuccioli di ratto esposti all’inquinamento atmosferico legato al traffico con quelli esposti all’aria filtrata. Entrambe le fonti d’aria sono state prelevate dal tunnel in tempo reale. I risultati mostrano una crescita anormale e un aumento della neuroinfiammazione nel cervello degli animali esposti all’inquinamento atmosferico. Ciò suggerisce che l’esposizione all’inquinamento durante periodi di sviluppo critici potrebbe aumentare il rischio di cambiamenti nel cervello i quali si associano a disturbi dello sviluppo neurologico (Patten et al., 2020).

Le alterazioni cerebrali date dall’inquinamento atmosferico, se associate ad altri fattori di rischio, come per esempio una predisposizione genetica, potrebbe avere degli effetti più pronunciati e conseguentemente delle alterazioni cerebrali più importanti. Le modifiche cerebrali che si verificano, potrebbero essere date da particelle molto fini che non sono attualmente regolamentate (Patten et al., 2020).

Uno studio analogo ha esteso l’esposizione all’inquinamento atmosferico per 14 mesi, con il fine di esaminare l’impatto di questo fattore ambientale a lungo termine; lo studio è ancora in fase di completamento, pertanto i risultati non sono ancora redatti (Patten et al., 2020). Il team che sta conducendo questi studi è anche interessato a quali componenti dell’inquinamento atmosferico legato al traffico alterano lo sviluppo neurologico, l’obbiettivo è quello di comprendere quali sono le sostanze colpevoli di queste alterazioni così da potersi rivolgere ai legislatori per sviluppare regolamenti scientificamente basati per la protezione dello sviluppo cerebrale umano (Patten et al., 2020).

 

Ansia sociale, eventi positivi e benefici momentanei

Alcune ricerche dimostrano che gli individui con un’elevata ansia sociale tendono a sperimentare effetti positivi molto deboli dalle situazioni quotidiane e talvolta a riportare una scarsa frequenza di eventi positivi nel corso della loro vita.

 

Gli individui con elevati livelli di ansia sociale sono soggetti a frequenti ed eccessive paure relative alle situazioni sociali, al punto da evitare le interazioni e ogni situazione che possa comportare l’esposizione a eventuali critiche da parte di altri (Rapee & Heimberg, 1997). Vi sono, inoltre, sempre più prove che gli individui con un’elevata ansia sociale godono di minori effetti positivi post trattamento. Ricerche, condotte con la tecnica del diario e altri metodi retrospettivi, dimostrano che gli individui con un’elevata ansia sociale tendono a sperimentare effetti positivi molto deboli e talvolta a riportare una scarsa frequenza di eventi positivi nel corso della loro vita (Blanco & Joormann, 2017; Farmer & Kashdan, 2012; Geyer et al., 2018). Comprendere come le persone con diversi livelli di ansia sociale rispondono agli eventi positivi quotidiani è importante: un recente studio di Doorley, Goodman, Disabato and Kashdan (2020) ha indagato proprio questo. Le ipotesi sono state le seguenti: (1) gli eventi positivi delle ultime ore, valutati come più intensi dai partecipanti (N=125 giovani adulti), aumenteranno l’umore momentaneo, il senso di appartenenza e la motivazione sociale (Rolls, 2018); (2) l’elevata ansia sociale sarà associata a livelli mediamente più bassi di felicità, di senso di appartenenza, di motivazione all’approccio sociale ed alla percezione degli eventi positivi delle ultime ore come meno intensi.

Come prima cosa, sono stati misurati i sintomi dell’ansia sociale a livello di tratto attraverso la Social Interaction Anxiety Scale (SIAS), i cui item valutano la paura e la tendenza all’evitamento di interazioni sociali per mezzo di una scala Likert a 5 punti (da “non mi caratterizza affatto” a “mi caratterizza estremamente”). Alcuni esempi di items includono “Temo di esprimere me stesso a causa del rischio di apparire imbarazzante” oppure “mi sento teso se sono solo con un’altra persona”. In secondo luogo, è stata utilizzata la valutazione ecologica momentanea (EMA) per esaminare i cambiamenti di umore (felicità e ansia), il senso di appartenenza e la motivazione sociale (approccio VS evitamento) nella vita quotidiana dei partecipanti. Felicità (allegria, felicità, gioia), ansia (ansia, nervosismo, preoccupazione), senso di appartenenza (accettazione, connessione), approccio sociale / motivazione all’evitamento (voler stare con altre persone o voler stare da soli) sono stati valutati su una scala da 1 (per niente) a 5 (molto). I partecipanti, inoltre, dovevano riportare gli eventi più positivi verificatesi nelle ultime ore, e i più comuni sono stati: guardare la TV, allenarsi, camminare, fare la doccia, vedere gli amici, rilassarsi e fare un pisolino. Infine, i partecipanti hanno poi valutato l’intensità del loro evento più positivo nell’ultima ora, utilizzando la stessa scala a 5 punti.

Dai risultati è emerso che fare esperienza di eventi positivi nelle ultime ore, valutati come più intensi, si associa a: cambiamenti adattivi dell’umore momentaneo, con un aumento della felicità e una diminuzione dell’ansia, un incremento del senso di appartenenza e, infine, della motivazione sociale, con un conseguente aumento della propensione all’approccio e una diminuzione dell’evitamento. Inoltre, elevata ansia sociale implicava un peggioramento dell’umore momentaneo, con una diminuzione della felicità e un aumento dell’ansia, un minor senso di appartenenza e una maggiore motivazione ad evitare la società, tuttavia non era associata all’intensità di eventi positivi momentanei; infine, l’ansia sociale amplificava le associazioni tra l’intensità degli eventi positivi dell’ultima ora e l’ansia momentanea, il senso di appartenenza e la motivazione ad evitare la socializzazione. Tuttavia, anche se gli individui con un elevato tratto di ansia sociale avevano livelli mediamente più elevati di ansia momentanea, livelli mediamente più bassi di senso di appartenenza, e, infine, una maggiore motivazione sociale all’evitamento, le analisi hanno mostrato una riduzione significativamente maggiore dell’ansia, un aumento significativo del senso di appartenenza e una riduzione dell’evitamento a seguito di eventi positivi molto intensi. In conclusione, appare evidente che gli eventi positivi hanno un impatto significativo sulla vita emotiva dei giovani adulti. In particolare, i risultati attuali forniscono prove a sostegno che individui con elevata ansia sociale sperimentano maggiori benefici psicologici a seguito di eventi positivi intensi verificatesi nelle ultime ore: diminuzione dell’ansia, aumento del senso di appartenenza, diminuzione delle motivazioni a sostegno dell’evitamento. Grazie a queste osservazioni, è possibile ottenere delle descrizioni dettagliate delle circostanze in cui gli individui con ansia sociale e altri disturbi emotivi, possono migliorare, creando obiettivi potenzialmente importanti per l’intervento.

 

Alle radici mitiche psicologiche e ambientali dell’epidemia

Il virus è ancora un mistero di difficile decifrazione, molto si è appreso dalle ricerche di laboratorio e dalle epidemie del passato, ma molto resta ancora da capire perché l’alieno sfugge a ogni identificazione medico-scientifica razionale e oggettivante, cui questo articolo cerca di ovviare offrendo una chiave di comprensione inedita e illuminante, quella mitica.

 

Anche il più stupido dei virus è più intelligente del più intelligente dei virologi. (Georg Klein)

A partire dagli anni trenta la biologia è pervasa da due grandi rivoluzioni concettuali in correlazione sincronistica tra di loro, che nel giro di poco tempo andranno a costituire i due occhi di un nuovo paradigma di riferimento, un po’ meno oggettivante del precedente, che aveva una visione assolutamente monoculare e che è ancora lontano dall’essere completamente abbandonato. Questa nuova visione nasce sotto il potente influsso del pensiero eco-logico nato qualche decennio prima, dove “eco”, dal greco oikos, sta per casa, dimora, ambiente.

La prima delle due rivoluzioni è costituita dalla Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia (PNEI), che amplia notevolmente l’area semantica del Self, la nostra “casa” identitaria, essendo un sistema di regolazione omeostatico costituito dall’integrazione tra psiche, sistema nervoso, endocrino e immunitario, sensibile alle variazioni esterne, ai ritmi circadiani ed alle stagioni. Mentre la seconda è costituita dall’Epigenetica, etimologicamente “relativa all’eredità familiare”, che si occupa dello studio di tutte quelle modificazioni ereditabili che portano a variazioni del fenotipo senza alterare il genotipo. In termini più semplici, il gene si esprime in salute o in malattia in rapporto a molteplici fattori, che comprendono tutte le interazioni che il nostro organismo ha con l’ambiente interno ed esterno. Prove sempre più schiaccianti mostrano l’importanza dei meccanismi epigenetici sia nello sviluppo e nel funzionamento dell’organismo che nell’origine di molte malattie, comprese quelle sistemiche o eco-sistemiche anche gravi come il cancro e le epidemie.

Ambiente interno e ambiente esterno sono i due fondamentali modi d’essere dell’oikos, in cui lo spazio fisico e umano si organizza simbolicamente intorno a un centro ideale, un fuoco, radicato fortemente nella mātĕr, terra madre, sostanza prima, ceppo, radice, intesa sia come fondamento originario e identitario, come la famiglia, che come sistema sociale e valoriale in cui ci si compiace di sentirsi a casa propria pur nella piazza aperta della polis. Con una differenza fondamentale però tra i due oikos: nel primo il fuoco, come rappresentazione spirituale del centro, è fisso, nel secondo è mobile, variabile, mutabile.

Ora, nel nostro retroterra mitologico c’è una figura divina molto particolare, solitaria, discreta e poco conosciuta ma di grande valore simbolico che incarna perfettamente i valori dell’oikos, si chiama Estia, Vesta per i romani. In luogo del regalo di nozze, il padre Zeus acconsentì alla sua richiesta di restare vergine e le concesse il privilegio di sedere nel centro della casa dove ardeva il fuoco sacro da custodire e da cui non si mosse mai. Rappresenta perciò la continuità, la tradizione, l’abitudine. Immagine archetipica del tratto femminile custode, garanzia di stabilità, sicurezza, ospitalità, integrità, accudimento, mantenimento, raccoglimento, ritorno e rientro in sé. In suo nome ci si ritrova, ci si riunisce, ci si pacifica e si coltiva il sentimento della comunità (“perché senza di te non v’è convito”, Omero). Per questo è comunemente chiamata la “dea del focolare”. La verginità conferma quindi un desiderio di intangibilità, di non contaminazione con l’alieno, di mantenimento dell’originario e della sua purezza.

Questo vale però riguardo il primo oikos, perché nel secondo l’introversa Estia si accompagna necessariamente a un’altra importante figura mitologica che è esattamente il suo opposto archetipico e di cui resta un polo inalienabile di riferimento da cui è molto pericoloso sganciarsi. Parlo di Ermes, Mercurio per i romani, noto come il “messaggero degli dei”, senz’altro la personalità di maggior spicco e successo anche tra i mortali. Veloce, ingegnoso, creativo, furbo, pieno di risorse e di espedienti, è considerato il dio delle strade, degli incroci, degli scambi, della comunicazione, del commercio, dei confini e dell’oltrepassamento dei confini. Siamo noi che facciamo fatica a ricevere i suoi “messaggi” che accadono soprattutto nelle zone di confine, dove per altro viviamo gli incontri immaginali e trasformativi più interessanti. Dato che è sul confine che definiamo il senso e il significato del rapporto con ogni alterità, interna ed esterna. Estia ed Ermes formano pertanto una coppia archetipica singolare che nell’antica architettura templare è stata rappresentata con un interno circolare semichiuso, con la statua di Estia al suo interno, che presenta sulla soglia un’erma, il pilastro fallico di Ermes. In epoca moderna il pittore surrealista Magritte l’ha rappresentata magistralmente in perfetto equilibrio nell’opera “Il terapeuta” del 1937. La coppia Estia-Ermes simboleggia pertanto la dualità interno-esterno, dentro-fuori, “in” e “out”. Qualsiasi problematica umana può essere ascritta al particolare rapporto che noi abbiamo instaurato con queste due figure. Sulla base di quanto detto, risulta evidente che l’evento più nefasto in assoluto cui possiamo assistere è la distruzione del sacro suolo (fuoco) di Estia, la sua violazione, che apre a scenari veramente apocalittici con l’esplosione incontrollata delle contaminazioni e mutazioni ermetiche.

Nel porre le basi immaginali della civiltà occidentale, i mitopoieti greci non potevano mancare di pensare anche a questa tragica eventualità, ma l’hanno appena accennata e per giunta in chiave quasi comica, facendone l’unica storia attribuita a Estia. Evidentemente non se la sono sentita di svilupparla fino alle estreme conseguenze, come farà invece l’Apocalisse di Giovanni. Accadde allora che mentre gli dei dopo un banchetto dormivano beati ed Estia riposava in se stessa presso il focolare, Priapo attraversò la soglia del suo territorio per violentarla, ma lei, svegliata dal raglio di un asino, riuscì con urla e grida a svegliare gli dei e a respingere l’intrusione. Priapo, che era figlio di Afrodite e, secondo alcuni, di Ermes, fu ripudiato dalla madre per la sua mostruosità fallica. Controparte grottesca di suo fratello Eros, finì per rappresentare la sessualità sfrenata, la forza virile, come pure la prodigiosa fertilità della natura, che nella figura dell’asino, respinge ogni forma di assalto proditorio alla sua sacra essenza.

Già adesso siamo in grado di fare collegamenti molto suggestivi, ma la cosa più curiosa in cui mi sono imbattuto in questa ricerca, è stata la molto ben nascosta correlazione etimologica tra “virile” e “virale”. Entrambi infatti presentano un’identica radice indoeuropea in vis, essere attivo, di gran forza, vigore, capacità, operare alacremente, ma anche aggredire, assalire, azione violenta, forza distruttiva di elementi naturali. Lo stupro di Estia porta allora il focolare a diventare focolaio (anche questi due termini presentano la stessa origine etimologica) e il virile a diventare virale. Questo è quello che è successo negli ospedali della Lombardia, che prendo ovviamente a modello emblematico di tutti gli altri ospedali del mondo in cui è successa la stessa cosa.

Mi spiego meglio: l’ospedale, la clinica, qualsiasi istituzione sanitaria (e qualsiasi istituzione in genere che comunque si occupa di beni comuni da proteggere), non potrebbe in alcun modo sostenersi senza alcuna presenza di Estia, il cui fuoco, che deve assolutamente tutelare, è rappresentato dal bene supremo della cura della sofferenza umana. Cura, therapeia, che oltre la competenza tecnica e specialistica, richiede soprattutto la disponibilità a mettere la persona al primo posto sulla scala dei valori e la capacità di interpretare i “sintomi” non solo sulla base dei “segni” offerti dai dati clinici e diagnostici obbiettivi, ma come un ac-cadere doloroso, singolare e collettivo insieme, estremamente significativo, in cui tutti gli attori del dramma della vita, del mondo interno come del mondo esterno, l’anima in primis, sono da considerarsi concausali, al fine di offrire la terapia più adeguata al caso. Sappiamo che le cose non stanno così, perché su tutto domina un altro “dio”, che nega l’anima, ed Estia è costretta a esistere quasi solo nominalmente. Questa è la ragione per cui il suo mitico focolare si trova già in partenza, e in potenza, in modalità focolaio, sicché, quando il “priapico” alieno (priapico perché ricco di protuberanze “falliche”, le spike protein, con cui riesce a penetrare nella cellula) entra di soppiatto nel sistema e dopo diverse segnalazioni di polmoniti e forse anche di morti sospette completamente inascoltate (l’asino che ragliava), viene finalmente “visto”, il gioco è fatto: lo stupro non si può più evitare. Ma soprattutto non si possono più evitare le sue più devastanti conseguenze, che consistono nel violento scatenamento reattivo dei processi di “infinitizzazione emozionale” tipici del marasma (Bion), i quali, agendo da convertitori epigenetici, hanno indotto una mutazione genetica maligna del virus, che ha portato la sua carica virale e la sua velocità di propagazione alle stelle.

Allora si è parlato giustamente di epicentro e di tsunami. L’onda anomala del contagio si allarga così a macchia d’olio all’interno dell’area genomica ed etno-geografica in cui si è attivato il focolaio, abbassando il grado di virulenza man mano che si allontana dall’epicentro (che poi corrisponde al suo processo di adattamento all’interno del genoma ospitante con vantaggio reciproco), a meno che, attenzione, non incontra l’onda di un altro o più altri focolai. Ed entrando, alla fine, anche nelle aree genomiche limitrofe, soprattutto se presentano un profilo simile anche per il grado di violazione di Estia. Benché il ceppo genomico lombardo non sia identificabile geneticamente in modo certo come quello sardo, perché più eterogeneo, il virus è in condizione di intercettare i marcatori genetici più antichi. Ripeto che la carica virale del virus non dipende solo dalla casualistica mutazionale dello stesso, come vorrebbe il riduzionismo monoculare medico-scientifico, ma anche dal grado di distruzione operata dall’uomo del focolare di Estia, come quello di Gaia (nonna di Estia, l’oikos originario), che ha portato il nostro virus allo spillover, salto evolutivo di specie dall’animale all’uomo. E che il contagio non potrebbe in alcun modo avvenire dall’esterno, per via aerea o per contatto, se dall’interno non fosse avvenuto un sincronico contagio nel livello più profondo e oscuro dell’inconscio collettivo, che Jung ha chiamato “psicoide”, che connette la psiche con la natura, che è sia interna che esterna. In questo caso attraverso l’interconnessione col cosiddetto “lato oscuro del genoma” implicato nei processi epigenetici. Il vero incontro-scontro tra oikos interno (psicoimmunitario) ed oikos esterno (psicoambientale), tra self e non self, avviene qui. Nella sua qualità essenzialmente ermetica e volatile è quindi la psiche che mette in relazione le due case estiane di eredità e ambiente, che costituiscono le sue radici e il suo destino. Micro-goccioline, mascherine e quant’altro non sappiamo quanto contino realmente e lo stesso dicasi del “paziente zero” che in genere non viene mai trovato.

Siamo ora giunti all’ultimo atto. I capi dell’esecutivo italiano, terrorizzati dai virologi e dalle visioni orripilanti di ospedali ridotti a lazzaretti con caterve di morti portati via con i camion dell’esercito, hanno pensato bene di mettere l’intero paese in lockdown (confinamento), con l’imposizione, recitata come un mantra in tutti i telegiornali, di restare a casa… Il tragicomico arriva adesso. Domenica 8 marzo il governo comunica che era stata raggiunta l’intesa sulle misure restrittive e che il decreto #iorestoacasa sarebbe entrato in vigore il giorno dopo. Detto fatto, colpo di bacchetta magica e spariscono quasi all’istante quarantamila persone, lavoratori di tutti i tipi e annessi in fuga dalle operose regioni del Nord Italia, Lombardia in primis, verso il Sud Italia, Sicilia in primis. È stato il più grande esodo volontario di massa di tutta la storia repubblicana. Come si spiega? Semplice, perché la loro vera casa, il loro vero focolare, quello della famiglia, stava lì, non là. E lì Estia avrebbe potuto proteggerli, ben oltre il comune senso di maggior sicurezza indotto dall’allontanarsi fisicamente e più velocemente possibile dal luogo della peste. L’Italia però va sotto shock. Sembra che nessuno se l’aspettasse. I virologi si sono messi le mani ai pochi capelli rimasti, Dio mio, hanno detto in coro, siamo rovinati, è una catastrofe! Se infatti anche solo un 30% di loro sono positivi asintomatici contagianti, l’intera popolazione del Sud Italia è a rischio estinzione, visto che le loro strutture sanitarie, com’è noto, non sono certo un’eccellenza come quelle della Lombardia! Passa una settimana, due per maggior sicurezza, neppure un plissé, non è successo niente. Evviva, hanno esclamato sempre in coro i virologi ringiovaniti di colpo, il lockdown ha funzionato! Già, ma come mai, qualcuno timidamente ha chiesto, lo stesso provvedimento non ha funzionato in Lombardia visto oltretutto che era già partito da molto prima? Qui però mi fermo, perché si attende ancora una risposta convincete.

Sulla base di quanto appena detto, non c’è stato nessuno tsunami epidemico nel Sud Italia perché l’area genomica che la identifica (che pure contiene profili genetici non esattamente identici tra le regioni), oltre a essere geograficamente distante e differenziata dall’area genomica del Nord, contiene una più marcata presenza archetipica di Estia. Recentemente è circolata su Facebook una notizia, che però non ha trovato conferma sui giornali online della Lombardia, che tra i clochard milanesi, che sono dell’ordine di qualche migliaio, non si registra alcun caso grave di contagio. Se la notizia fosse vera, la ragione sta nel fatto che questi umani, pur appartenendo al ceppo genomico lombardo, non hanno minimamente risentito dello scempio di Estia perché in loro la veneranda dea della casa non è archetipicamente presente, non hanno alcun focolare presso cui sedere, e vivono sotto la giurisdizione e protezione divina di Ermes, dio delle strade e dei non-luoghi.

Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto

La relazione terapeutica può essere l’unico fattore di cambiamento in psicoterapia? È immaginabile che parlando del più e del meno in una relazione configurabile come caratterizzata da accurate empathy, positive regard, nonpossessive warmth, and congruence or genuineness il paziente superi le sue difficoltà in modo diverso e migliore da quello realizzabile attraverso i comuni eventi di vita?

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di articoli sull’argomento. Il primo contributo ci ha aiutato a comprendere il punto di vista di Rosenzweig sull’efficacia delle procedure psicoterapiche mentre il secondo contributo ha analizzato le modalità di confronto diretto tra psicoterapie

 

Non dipende dai veloci
la corsa,
né dai forti
la guerra,
né dai sapienti
il nutrimento,
né dai più abili
la ricchezza
e neppure dai più sensibili
una grazia. (Qoelet 9,11)

Terzo quadro. Ruggiero ed altri: Perché il Dodo deve morire – Slittamento fatale e finale

Avvertenza: le conclusioni fanno riferimento a ciò che io ritengo sia l’obbiettivo intenzionale, non che ci sia una chiara volontà nel raggiungerlo. E’ possibile che i colleghi non vogliano raggiungere l’obbiettivo che io pavento, ma che le loro posizioni intendono raggiungerlo.

Nel presentare questo terzo quadro mi riferirò ad un intervento interessantissimo e documentato, firmato da Giovani Maria Ruggiero, ma attribuibile a Ruggiero-Caselli-Sassaroli, che riporterò letteralmente per ampie parti, comparso su State of Mind nel 2017.

Le citazioni che seguono sono tutte tratte da quell’articolo.

Nel lavoro citato viene chiarito chi sia la vittima della caccia.

Sentiamo le loro parole.

Il dato empirico a favore dei “fattori comuni” è solido. Nel 1992 Lambert dimostrò, rappresentando il risultato finale in un ormai famoso grafico a torta, che la percentuale di miglioramento dei pazienti in psicoterapia è attribuibile per il 40% alle risorse proprie del paziente, per il 15% a un effetto placebo, per un altro 15% alle “tecniche” specifiche dei vari orientamenti (cognitivo, psicodinamico, sistemico, e così via) e infine per il 30% ai cosiddetti “fattori comuni”, ovvero empatia (empathy), calore (warmth), accettazione (acceptance), incoraggiamento (encouragement), e così via.

Ora, in che senso questo dato è interpretabile come risultato a favore della “relazione”? Come abbiamo intuito, è possibile farlo sovrapponendo – con qualche forzatura – “fattori comuni” a “intervento relazionale” e “tecnica” a “intervento cognitivo” (ma anche metacognitivo). In questo modo “relazione” batte “intervento specifico cognitivo”: 30% contro 15%.

Ora, questa sovrapposizione è discutibile ma può essere in una certa misura scientificamente corretta e perfino stimolante per alcuni motivi, ma in base a questi motivi è talvolta surrettiziamente usata da quei relazionalisti (non tutti) che vogliono vincere facile. Il primo motivo è che nei “fattori comuni” di Lambert è effettivamente possibile intravedere concetti relazionali: empatia, calore, accettazione, incoraggiamento, e così via. In questa forma il dato sul ruolo relativamente maggioritario della relazione è accettabile. Tuttavia c’è un prezzo per questa vittoria perché questo dato non permette il passo successivo, quello che darebbe davvero alla relazione il ruolo di elemento privilegiato e risolutivo in cui agire consapevolmente come terapisti, sul quale investire e scommettere come ricercatori e nel quale addestrarsi intensamente durante il proprio percorso di formazione.

Perché?

Perché il dato di Lambert vale per qualunque psicoterapia. Non è affatto a favore di una terapia primariamente relazionale e interpersonale che accolga in sé esplicitamente soprattutto il lavoro sulla relazione terapeutica. Vale anche per un comportamentista che si limita a fare un’analisi funzionale e a prescrivere esercizi di esposizione. Vale anche per uno psicoanalista freudiano che si limita a interpretare le pulsioni. Vale per un terapista REBT (rational emotive behavior therapy) che si limita a lavorare sulla disputa delle credenze irrazionali e non parla e nemmeno pensa mai alla relazione. Insomma, nel dato di Lambert la relazione funziona anche se il terapista non ne fa il bersaglio consapevole del suo agire e non si è formato specificamente su di essa.

Ho riportato per esteso la riflessione dei colleghi in cui ritrovo il secondo punto di slittamento, cioè l’identità “fattori comuni = relazione” attribuito allo stesso Lambert.

Se così fosse, perché questo risulta inaccettabile?

Ecco la risposta dei nostri amici:

Se i “fattori comuni”, nei quali dovrebbero esserci soprattutto le abilità relazionali, si mettono in azione in automatico in ogni terapista sufficientemente esperto e formato, qualunque sia la sua formazione, tanto è vero che funzionano anche in un modello come la REBT che è famigeratamente disinteressato alla relazione (in realtà limitandosi a non farne il concetto centrale), finiamo per concludere che la relazione è dappertutto e in nessun luogo, e ci si chiede quindi anche in che misura sia controllabile, quanto sia passibile di miglioramenti ottenibili attraverso un suo uso sempre più consapevole e quanto abbia senso una formazione e un modello che privilegino questa abilità che è al tempo stesso sofisticatissima e alla portata di tutti; un po’ come l’esprit de finesse di Pascal: nessuno sa definirlo, ma tutti sanno apprenderlo per mimesi gestuale e sociale, un itinerario complesso ma che non è necessario formalizzare in un percorso di apprendimento scolastico.

Commento

In primis e in limine: ciò che è separato nella figura non lo è nella realtà. La rappresentazione mediante “torte” statistiche è fallace e orienta verso immagini e significati irreali. La “torta” non è una torta, che si può tagliare a fette senza che se ne perda l’identità di dolce, esattamente come l’acqua non è H2O. Infatti, quando separati, “H” e “O”, anche in proporzione 2:1, non dissetano.

Per dissertarti devi bere “acqua”.

Nella torta di Lambert, qualunque sia la proporzione degli ingredienti, questi devono esserci tutti e tutti inseme. Quando gli ingredienti sono insieme mescolati e viene fornita loro “energia” e un idoneo “catalizzatore”, componenti che non si ritrovano nel prodotto finale, ogni ingrediente, in qualche modo, cambia la sua natura e struttura e gli elementi, “tutti insieme”, fanno una cosa nuova: acqua che disseta!

Nella discussione proposta da Ruggiero possiamo assistere allo slittamento finale e fatale: inizialmente che la buona relazione, fattore terapeutico ritenuto essenziale al successo di una psicoterapia, sia “dappertutto e in nessun luogo” e che “le abilità relazionali, si mettono in azione in automatico in ogni terapista sufficientemente esperto e formato, qualunque sia la sua formazione”.

Avevo già definito la relazione come “coestensiva” al processo terapeutico. Cosa volevo intendere con questo? Che qualunque intervento “tecnico” si colloca all’interno della relazione esattamente come il movimento del nuotatore si colloca nell’acqua, che può sostenerlo o ostacolarlo a seconda che il nuotatore sappia utilizzare o meno le proprietà del fluido nel quale si muove. Il nuotatore non può agire come se l’acqua non ci fosse, né può pensare che qualunque movimento sia idoneo o efficace nel mantenerlo a galla o favorirne la progressione. Semplicemente non può farlo.

L’acqua è la relazione, il nuotare è la buona relazione, la coppia terapeuta-paziente è il nuotatore. Ma come si può distinguere il nuotatore dal nuotare? Nuotatore e nuoto sono un’unica, identica cosa. La buona relazione terapeutica sono la coppia terapeuta-paziente che nuota. Dove andranno e come ci arriveranno dipende dal loro nuotare.

Ora leggete bene in cosa consistono i fattori comuni citati da Lambert. La maggior parte di essi sono parte della teoria del cambiamento nelle terapie centrate sul cliente proposta da Roger e da esse considerate necessarie e sufficienti per il cambiamento terapeutico. Queste sono: accurate empathy, positive regard, nonpossessive warmth, and congruence or genuineness.

Tutt’insieme sono classificati come “relazione”, ma potete ben vedere che hanno ancora di più a che fare con il terapeuta e il suo modo di stare in terapia che con la relazione come fatto in sé sussistente.

Questa considerazione è ancora più suggestiva se si considera che quel che più conta nel funzionamento di una relazione terapeutica è “il giudizio” che il paziente dà della qualità della relazione, piuttosto che le valutazioni “oggettive” degli osservatori  (Asay e Lambert, 1999). Insomma, quel che risulta rilevante è “il valore delle capacità relazionali del terapeuta”.

Di cinque fattori relativi al terapeuta, identificati in una ricerca di Lorr (1965) e che erano: comprensione, accettazione, autoritarismo (direttivo), incoraggiamento all’indipendenza e critica ostile, due erano correlati positivamente al miglioramento terapeutico, lascio al lettore indovinare quali.

Per i pigri la risposta è comprensione e accettazione.

Il terapeuta è il bravo ballerino che sa accordare il suo passo e aiutare progressivamente il suo partner a mantenere il tempo comune.

In un mio precedente intervento comparso su State of mind, avevo anche suggerito un’altra metafora, quella dei due buoi aggiogati nel tirare l’aratro, che mi sembra ancora buona (ma quella del nuotatore nell’acqua è migliore). La relazione è il mare in cui si nuota, ma la buona relazione è la capacità di muoversi agevolmente nel mare .

La vittoria è nell’umile saper nuotare insieme al paziente. Nuotando insieme a lui quest’ultimo può raggiungere una diversa condizione che egli stesso saprà descrivere come un miglioramento. Saper nuotare insieme verso un luogo che verrà trovato sapendolo cercare, seguendo gli indizi che il mare offrirà.

Seconda considerazione. La relazione è qualcosa che si fa, non una cosa che è. Saper fare una buona relazione è un’arte (probabilmente), ma ogni arte richiede una tecnica che si impara e si insegna. È infondato perciò l’assunto secondo cui “ogni terapista sufficientemente esperto e formato mette in azione automaticamente”, etc. Non ogni terapista esperto e formato, ma ogni terapista che funziona sa come usare gli strumenti necessari a costruire una relazione buona e non è vero che mettere in atto buone prassi richieda una consapevolezza attuale. Alcune abilità che servono alla nostra sopravvivenza sociale (e non) si fondano su tendenze e caratteristiche generali dell’essere umano e quindi sono a nostra disposizione sia come caratteristiche di specie sia come caratteri acquisiti nel corso dello sviluppo, secondo le leggi che regolano il costituirsi di abilità sociali complesse, come quella del linguaggio. Come il linguaggio, l’abilità di costruire buone relazioni in qualche modo si impara, anche se non nello stesso modo in cui si impara a risolvere un’equazione di secondo grado. Non tutti diventano campioni di nuoto, ma tutti possono imparare a nuotare.

In questo senso è possibile insegnare e migliorare questa essenziale competenza, anche se per farlo si esige una metodologia che somiglia (o è del tutto analoga) allo scaffolding descritto da Bruner, che segue Vygotskji, piuttosto che all’apprendimento operante descritto da Skinner. E’ un’abilità globale che segue processi di apprendimento non hebbiani.

La cosa essenziale da sapere è che non si nuota nello stesso modo in cui si cammina.

Un’ultima domanda è la seguente:

La relazione terapeutica può essere l’unico fattore di cambiamento in psicoterapia? È immaginabile che parlando del più e del meno in una relazione configurabile come caratterizzata da accurate empathy, positive regard, nonpossessive warmth, and congruence or genuineness il paziente superi le sue difficoltà in modo diverso e migliore da quello realizzabile attraverso i comuni eventi di vita?

Difficile affermarlo, ma, mi chiedo, si dà una teoria del trattamento che sia del tutto priva di tecnicalità specifiche?

La domanda è aperta.

Epilogo e penultimo verdetto: se volete uccidere il Cuculo perchè sparare sul Dodo?

La domanda è: perché per uccidere la relazione bisogna sparare sui fattori aspecifici delle psicoterapie e sulla possibilità che siano loro i veri agenti del cambiamento terapeutico? Perchè uccidere la relazione?

TUTTO appare “arruffato” in questo gioco perché, come giocando dietro i paraventi, un quadro sfuma e lascia il posto al fantasma successivo.

Oscuro è il nemico. In apparenza è l’idea che ci possa essere più di un vincitore, anzi che tutti i concorrenti possano vincere. Si viene a sapere però che non è proprio così e che il nemico da abbattere sia l’idea che i vincitori, presunti o reali, siano dotati tutti di una qualità che li fa vincenti e che tale qualità non viene da uno sforzo di applicazione e da un apprendimento curricolare, per così dire, ma da un quid da loro stessi ignorato e che utilizzano del tutto inconsapevolmente.

Questa “vis” esprimerebbe la sua potenza nella relazione, che sarebbe veicolo di cambiamento. Poiché non è possibile abbattere la vis in quanto contenuta in persone, si bombarda la manifestazione di essa, la espressione pubblica di essa, ossia la relazione. La domanda pertinente sarebbe: in che cosa consiste la virtus del terapeuta che fa sì che possa esprimersi in una buona e utile relazione e come si genera o si potenzia?

Che la potenza risieda nel terapeuta e non nella tecnica è il nemico occulto che i nostri cacciatori, io credo, vorrebbero abbattere. Esistono buoni (ottimi) terapeuti che riescono a far funzionare anche cattive tecniche ed esistono cattivi (pessimi) terapeuti che riescono a far fallire anche tecniche elementari e sperimentate. Ora, io considero del tutto ragionevole e stimabile l’esigenza, espressa in molti modi dal nostro ottimo collega, di andare oltre capacità soggettiva di menti dotate, allenate e vigorose e di sostituire all’azione del genio individuale un metodo che possono usare tutti, che consenta di farci evitare errori madornali da un lato e di liberarci dal capriccioso ipse dixit dell’autorità. E non è questo desiderio o aspirazione, che possiamo condividere, che io contesto.

Ecco invece ciò che vedo e di cui mando notizia:

Il nome del nemico è diventato “relazione”, ma è solo il penultimo bersaglio.

L’ultimo nemico è la psicoterapia come aiuto “da persona a persona”.

È la persona che si vuole cancellare per sostituirla con un qualunque “ordegno” tecnico che ne rappresenti un succedaneo seriale ed economicamente vantaggioso. È, infine, l’uomo e la sua soggettività che devono sparire. Salvare l’uomo è, perciò, la nostra penultima missione.

Penultima sentenza

Benché il complesso degli studi effettuati confermi il verdetto del Dodo: “Tutti hanno vinto e tutti hanno diritto a un premio”, molti restano insoddisfatti e si aspettano un altro verdetto e cioè: “Tu, proprio tu, hai vinto”.

Ma chi sarà questo “TU”?

Questa è la penultima sentenza:

La consistenza del terapeuta vince e riceve il premio: Tu chiamala, se vuoi, relazione.

La consistenza è una qualità del terapeuta che permette al paziente di sentirsi riconosciuto come un “Tu”. Consistenza è la condizione per cui il terapeuta può permettersi di muoversi nelle e risalire dalle perturbazioni. È una qualità che, come sostenevo in un lavoro sul setting, viene difesa dal contesto in cui il terapeuta opera, poiché, con tutta evidenza, nessuno è così nella vita, sempre e dovunque. Il terapeuta impara a essere così nello spazio e nel tempo della terapia. Questa qualità non è così sfuggente da non essere riconosciuta, né così ineffabile da non poter essere insegnata (e imparata).

Alcuni la possono chiamare flessibiltà, altri sensibilità, altri ancora capacità di sintonizzazione, altri, infine, preferiscono consapevolezza e, forse, è tutte queste cose insieme. Questa qualità interviene nella relazione e la rende terapeutica attraverso un modo di stare in essa peculiare, perciò terapeutico. In questo modo la gestione terapeutica della relazione diviene un momento tecnico e non un semplice, benevolo, onesto, corretto e civile comportamento sociale.

Questa sentenza appare inaccettabile perchè sottolinea che una terapia tende a funzionare come il bisturi in mano al chirurgo, non come il farmaco somministrato da chicchessia.

Fioccheranno i ricorsi in appello e in cassazione.

Perciò è penultima.

Ringraziamenti

Ringrazio mio figlio Filippo, brillantissimo logico, per avermi suggerito l’articolazione della discussione sull’antefatto.

Ringrazio Mancini per la sua lucidità, che permette anche ai suoi interlocutori di chiarirsi le idee.

Ringrazio il Ruggiero e con lui Sassaroli e Caselli, che offre l’occasione per pensare a ciò che agiamo.

I meriti del mio commento sono di tutti gli autori citati; le banalità, le inesattezze e gli errori tutti miei.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Coping power nella scuola

Il Coping Power Program (CPP) (Lochman e Wells, 2002) è un programma multimodale per il controllo e la gestione della rabbia e dell’impulsività nei bambini e nei ragazzi, sviluppato dal Prof. J. E. Lochman, dell’Università dell’Alabama. Originariamente previsto per essere applicato nel contesto scolastico.

Luisana D’Alessandro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Si tratta di un protocollo evidence-based per la prevenzione e il trattamento dei comportamenti dirompenti in età scolare, pone le sue basi nel contextual social-cognitive model di Lochman e Wells (2002), prevede una componente per i bambini consistente in 32 sessioni di psicoterapia di gruppo ed un percorso parallelo di parent-training, sempre in setting di gruppo. Numerosi studi confermano l’efficacia del programma nel ridurre i comportamenti aggressivi e l’abuso di sostanze nei ragazzi anche a distanza di tre anni (Lochman e Wells, 2004; Muratori et al., 2014).

L’équipe del Servizio “Al di là delle Nuvole” – IRCCS Fondazione Stella Maris, Università di Pisa – traduce e riadatta al contesto clinico la prima versione in Italia del CPP (Muratori et al, 2009) come prevenzione primaria e da qui nasce il Coping Power Scuola.

Il modello elaborato è stato applicato in via sperimentale attraverso uno studio controllato-randomizzato (randomized-controlled trial) su classi di scuola primaria a partire dal 2009, si è dimostrato efficace come modello di prevenzione primaria, essendo in grado di ridurre in modo significativo una serie di problematiche emotive, comportamentali e relazionali, in modo particolare disattenzione e iperattività, ed aumentare le condotte pro-sociali, oltre a migliorare il rendimento scolastico della classe (Bertacchi, Giuli, Muratori, 2012; Bertacchi et al. 2012; Muratori et. al., 2014; Bertacchi et al., 2014). Tali risultati si mantengono anche a due anni di distanza dal termine dell’applicazione del programma.

Il Coping Power Scuola è l’adattamento del Coping Power Program al contesto scolastico italiano per tre ordini di scuola: scuola dell’Infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di 1°grado.

È un percorso di prevenzione primaria, svolto sulla classe dai docenti, finalizzato a sviluppare abilità sociali-emotive-relazionali, in linea con le indicazioni nazionali e le normative vigenti, integrato nella programmazione didattica, ed è costituito da 6 moduli:

  • Traguardi a breve e a lungo termine
  • Consapevolezza delle emozioni e attivazione fisiologica della rabbia
  • Gestire le emozioni con l’autocontrollo
  • Cambiare punto di vista
  • Problem solving
  • Le mie qualità

Tali moduli permettono di sviluppare le seguenti abilità nell’intraprendere obiettivi a breve e a lungo termine, riconoscere e modulare i segnali fisiologici delle emozioni, riconoscere il punto di vista altrui (perspective taking) e risolvere adeguatamente le situazioni conflittuali (problem solving).

Tali moduli sono collegati tra di loro da una storia, specifica per ogni ordine di scuola, ideata per introdurre a bambini e ragazzi le tematiche sopra esposte in modo divertente e coinvolgente.

Sulla storia sono state ideate una serie di attività sia di tipo didattico (analisi, comprensione e produzione del testo, attività metacognitive e generalizzazione interdisciplinare dei contenuti) sia di tipo attivo-esperienziale (role playing, circle time, giochi ed esercitazioni in gruppo), un contratto educativo che prevede il raggiungimento da parte degli alunni di obiettivi a breve e a lungo termine, e una mappa concettuale individuale e di classe.

Tutte le attività vengono svolte attraverso una metodologia che stimola l’apprendimento significativo, l’apprendimento cooperativo, utilizzando un molteplicità di linguaggi e strumenti in un’ottica inclusiva con obiettivi mirati alle diverse fasce di età coinvolte. I docenti possono disporre di una guida che descrive in modo dettagliato le attività dei vari moduli, di una raccolta di schede operative per la didattica predisposte per le varie fasce di età e le storie illustrate per ogni ordine di scuola.

La particolarità del programma è che riesce a potenziare le abilità sociali-emotive-relazionali attraverso attività sia esperienziali che didattiche, che sono integrate nella programmazione didattica della classe e ideate con una metodologia che favorisce l’inclusione, in linea con le indicazioni nazionali e le normative scolastiche vigenti.

I risultati della ricerca nelle scuole italiane evidenziano nel gruppo classe:

  • Minori condotte inadeguate in classe
  • Minore iperattività/disattenzione
  • Maggiori comportamenti pro sociali
  • Migliore rendimento scolastico

Tali risultati si mantengono a distanza di due anni dall’intervento.

Nei report finali, i docenti dichiarano di:

  • Aver acquisito nuovi strumenti e strategie di gestione del gruppo classe
  • Essersi arricchiti professionalmente, aver raggiunto i risultati prefissati
  • Riuscire a gestire più efficacemente le situazioni problematiche in classe

Sono previsti anche degli incontri con i genitori con la finalità di presentare la metodologia proposta sulla classe, condividerne i contenuti e monitorare le generalizzazioni in ambito familiare, nonché confrontarsi e discutere sulle modalità di gestione dei comportamenti problematici a casa.

 

Covid-19 e demenza: l’emergenza sanitaria dentro un’emergenza quotidiana e futura

La recente pandemia legata al Covid-19 ha avuto un particolare impatto sugli anziani con demenza e nelle loro famiglie. Infatti queste persone, da un giorno all’altro, si sono ritrovate totalmente isolate dalla propria rete di supporto sanitario, sociale e psicologico.

 

Nel mondo, si stima siano più di 50 milioni le persone malate di demenza con diversa caratterizzazione diagnostica e che ogni 3 secondi ne venga accertato un nuovo caso (World Alzheimer’s report 2019). Questa patologia, per peculiarità sindromiche e per pervasività dei diversi domini organici e psichici coinvolti, richiede un complesso ed articolato processo di cura, finalizzato ad accogliere e supportare bisogni medici, psicologici e sociali. Avere una patologia neurodegenerativa significa, per chi ne è affetto, per lo più anziani con più di 65 anni, avere una supplementare vulnerabilità alle patologie virali e sistemiche che rende queste persone particolarmente fragili.

Complessivamente, la recente epidemia di COVID-19 ha causato gravi minacce alla salute fisica e alla vita delle persone, ma è stata altresì fortemente impattante anche nella vita degli anziani con demenza e nelle loro famiglie. Da un giorno all’altro, queste persone si sono ritrovate totalmente isolate da tutta quella rete di supporto sanitario, sociale e psicologico che solitamente ricevevano. I caregivers di questi malati si sono trovati a gestire i loro cari malati per tutto il giorno dentro le mura domestiche, quando precedentemente avevano dei momenti di respiro garantiti dall’assistenza domiciliare o dalla frequentazione di centri diurni specialistici. Allo stesso modo, i familiari di anziani con demenza che risiedevano in strutture sanitarie dedicate non hanno più visto di persona i propri parenti per mesi, se non in rapide videochiamate o in scambi d’informazioni veicolati dal personale sanitario. Nell’insieme, questi elementi hanno reso gli anziani affetti da demenza soggetti fortemente vulnerabili alla pandemia Covid-19, sia per gli svantaggi sociali ed assistenziali dovuti alle misure di isolamento e di distanziamento sociale che per l’elevata pericolosità di possibili esiti iatrogeni in caso di contagio virale.

In un recentissimo studio italiano, Bianchetti et al. 2020 hanno analizzato il possibile ruolo della demenza come fattore di rischio di mortalità per gli anziani colpiti dal virus. Gli autori, adottando una metodologia di studio retrospettiva, hanno utilizzato le informazioni cliniche dei registri dei reparti COVID degli Ospedali della provincia di Brescia di 627 anziani ricoverati con polmonite da SARS-CoV-2. Tra i pazienti coinvolti nello studio, 82 avevano una diagnosi di demenza (13.1%).Gli autori hanno utilizzato la Clinical Dementia Rating Scale (CDR) per distinguere i pazienti in relazione alla pervasività del deterioramento cognitivo, individuando: 36 pazienti allo stadio I (43,4%), 15 pazienti allo stadio II (18,3%) e 31 pazienti allo stadio III (37,8%). I risultati di questo studio hanno documentato un tasso di mortalità del 62,2% tra i pazienti con patologia neurodegenerativa rispetto al 26,2% in anziani con funzionamento cognitivo integro. Da un punto di vista psicologico e clinico, è interessante notare come per gli anziani affetti da Covid-19 era presente un pattern sintomatologico caratterizzato da delirio (67%) soprattutto in forma ipoattiva (50%) e da un generale peggioramento dello stato funzionale e delle autonomie di base.  È inoltre significativo riportare come per questo particolare campione di popolazione vi fosse una minor presenza dei sintomi medici solitamente associati al coronavirus. Infatti, solo il 47% dei pazienti aveva febbre, il 44% la dispnea ed il 14% la tosse. Le riflessioni conclusive di questo pioneristico studio, nell’ambito della clinica medica e neuropsicologica per i pazienti con demenza, hanno portato ad argomentare come la diagnosi di demenza, soprattutto nelle fasi più avanzate, rappresenti un importante fattore di rischio per la mortalità e di ulteriore riduzione del funzionamento nei pazienti COVID-19. Inoltre, la configurazione dei sintomi per i pazienti con demenza affetti da coronavirus è risultata essere atipica, riducendo quindi ulteriormente la possibilità di riconoscere precocemente i sintomi in questa complessa popolazione caratterizzata già da importanti difficoltà comportamentali e di comunicazione che ne ritardano già solitamente il ricorso a possibili cure sanitarie.

Oltre a tali aspetti di rischio correnti, quali potrebbero essere le conseguenze future della pandemia per le persone affette da deterioramento cognitivo e per i caregivers?

Nelle nostre società, negli ultimi vent’anni, i sistemi sociali ed economici si sono mobilitati per architettare strutture e servizi che a diverso livello aiutano e supportano le persone con demenza ed i familiari che se ne prendono cura. La diffusione improvvisa e pervasiva della pandemia, dovuta al diffondersi del COVID-19, ha determinato una crisi improvvisa ed una profonda situazione emergenziale in tutto il settore sociale ed assistenziale che si occupa d’invecchiamento ed in particolare nei professionisti, nelle strutture e nei sanitari che si occupano di gestione di anziani con demenza.  Molte delle risorse presenti sul territorio sono state convertite per l’emergenza ed inoltre molte delle cure e delle assistenze domiciliari, di cui i malati di demenza beneficiavano, sono state sospese. Da un punto di vista d’interesse psicologico e di benessere, è importante considerare come le persone con demenza non hanno e non stanno beneficiando di tutti quei interventi non farmacologici che vengono promossi soprattutto per limitare la sintomatologia psichiatrica e comportamentale associata alla demenza (deliri, allucinazioni, depressione, apatia, agitazione, aggressività, vagabondaggio, affaccendamento, ecc), definita con l’acronimo BPSD (Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia). Come sottolineato da Brown et al., 2020 in un recente lavoro, gli interventi proposti solitamente per gestire i BPSD coinvolgono i contatti fisici e sociali, impossibili da esercitare in questi tempi di distanziamento sociale. Gli autori riportano come dagli anziani con demenza, in conseguenza dell’interruzione della rete di stimolazione sociale, ci si dovrà aspettare a breve e a lungo termine un’amplificazione dei BPSD, in particolare dell’apatia e quindi un aumento delle difficoltà da fronteggiare da parte dei caregivers. Un ulteriore rischio secondo Brown et al., 2020 è dato dalla brusca ed improvvisa interruzione della routine quotidiana che questa vulnerabile popolazione ha subito, come tutti, a causa delle misure anti Covid. Gli autori evidenziano come, per i pazienti con demenza, questi rapidi cambiamenti possano portare a modificazioni nei delicati equilibri emotivi, in particolare per l’ansia e per la rabbia, e nei ritmi sonno-veglia. Come riportato da  Richards  et al., 2005 in questi pazienti, le difficoltà del sonno possono essere ulteriormente influenzate dall’ansia e delle limitazioni delle relazioni sociali. Alimentare tali circoli viziosi significa creare ai caregiver una grande difficoltà di gestione del familiare. In tali situazioni, può essere una scelta sbagliata inserire farmaci ipnoidi in quanto quest’ultimi, oltre a creare spesso problemi di metabolizzazione dovuti alla frequente polifarmacoterapia, indeboliscono il labile sistema motivazionale degli anziani con deterioramento cognitivo, ampliando gli stati di apatia e limitando ulteriormente la funzionalità cognitiva. Come riportato da Ford et al., 2016, la combinazione tra apatia e difficoltà nel sonno può portare a sviluppare deliri, contribuendo ulteriormente ad alzare l’indice di morbilità e mortalità degli anziani con demenza.

In conclusione, l’emergenza legata alla pandemia di Covid-19 è stata ed è tutt’ora un’importante sfida mondiale che riguarda ogni fascia di popolazione,a cui bisogna far fronte con le risorse economiche, sociali e sanitarie che ciascuna società possiede. Tuttavia, le ricerche correnti riportano come gli anziani con demenza rappresentino una categoria fortemente a rischio non solo per la vulnerabilità sindromica che li caratterizza e li espone fortemente agli esiti iatrogeni del virus, ma anche per le possibili conseguenze a breve e a lungo termine, legate alla sospensione delle misure di gestione e di supporto non farmacologico e di tipo psicosociale. È importante quindi strutturare una rete di protezione per questa fragile fetta di popolazione e riprendere quanto prima anche in modo alternativo i programmi di stimolazione cognitiva e sociale e di supporto alle famiglie degli anziani con demenza.

Social network e body image: il costo di voler apparire sempre perfetti

Un articolo recentemente pubblicato su Addictive Behaviors Reports indaga il rapporto esistente tra social network, in particolare con l’attività di condividere selfie e foto di se stessi, narcisismo patologico e oggettificazione del proprio corpo (Boursier et al., 2020). 

 

L’uso dei social network è sempre più diffuso al giorno d’oggi, in particolare tra i giovani e giovanissimi. Per questo motivo alcuni ricercatori hanno definito questa “moda” social, non più solo un mero passatempo, bensì un nuovo modo di essere e di mostrarsi agli altri (Kuss & Griffiths, 2017). Tuttavia, i social network possono rivelarsi potenzialmente pericolosi, in particolare per gli adolescenti (Livingston, 2008; Munno et al., 2016); a questo proposito, ricercatori e professionisti di diversi campi hanno mostrato negli ultimi anni un forte interesse verso l’uso problematico dei social media (es. Al-Menayes, 2015; Andreassen et al., 2016), evidenziando la necessità di riconoscere quelle attività che danno dipendenza nel contesto dei social network (Kuss & Griffiths, 2017) e di identificare i processi psicologici sottostanti a questi comportamenti disfunzionali (Kardefelt-Winther et al., 2017).

Senza dubbio, postare foto di se stessi (selfie) è una delle attività più frequenti riguardanti i social (basti pensare ad Instagram, completamente dedicato alle fotografie e alle stories): alcune ricerche hanno evidenziato a questo proposito che la divulgazione della propria immagine al continuo monitoraggio della propria popolarità attraverso i feedback degli altri utenti (like), potrebbe innescare il circuito cerebrale della ricompensa, notoriamente collegato ai comportamenti di dipendenza e abuso (Guedes et al. , 2016).

Secondo Nadkarni e Hofmann (2012), il continuo postare selfie e foto di se stessi soddisfa due esigenze sociali: il bisogno di autopresentazione e la necessità di sentirsi appartenenti a qualcosa. È stato inoltre dimostrato che il lavoro che si effettua sulla propria foto prima di postarla (effetti, correzione dei difetti del volto, ecc.) ha un effetto potenzialmente pericoloso.

A causa della loro tendenza a mostrarsi grandiosi agli occhi degli altri, è stata recentemente analizzata la correlazione tra narcisismo e uso dei social network riscontrando che i narcisisti tendono a essere assidui utilizzatori di questi mezzi (Davenport et al., 2014), in particolare per quanto riguarda la pubblicazione di immagini di sé (Marshall et al., 2015). Allo stesso modo, studi successivi hanno sottolineato che avere una personalità narcisista è un predittore dell’utilizzo di social network (Weiser, 2018).

Con il presente studio (Boursier et al., 2020) gli autori hanno indagato la relazione che esiste tra narcisismo patologico, oggettificazione del corpo e l’utilizzo di social network per pubblicare selfie e foto di se stessi, ipotizzando che un numero elevato di tratti narcisistici sia collegato a un numero maggiore di post.

I 570 giovani adulti selezionati per lo studio hanno risposto a un sondaggio online. I risultati hanno mostrato che un livello elevato nelle scale che valutavano l’auto-oggettivazione corporea e un’aspettativa positiva riguardo ai possibili feedback ai propri selfie (numero elevato di like e commenti) predicevano significativamente il comportamento di postare foto. Inoltre, i risultati dimostrano che le donne tendono a preoccuparsi più degli uomini di come appaiono nelle foto e utilizzano un numero maggiore di strumenti per manipolare la loro immagine (es. effetti).

Questa ricerca ha mostrato come sia necessario a livello clinico considerare il comportamento degli individui sui social network, dal momento che un elevato utilizzo degli stessi e la tendenza all’auto-oggettificazione potrebbero essere indici di una sofferenza psicologica.

 

Psicopatia e suicidio nelle carceri giovanili

Uno studio recente (Heirings et al., 2019) ha sottoposto 723 giovani reclusi presso il Missouri State Division of Youth Services (DYS) a un’indagine sul rapporto tra i tratti personologici di psicopatia e il suicidio.

 

Tra le cause di morte per gli adolescenti statunitensi il suicidio è secondo solo agli incidenti automobilistici (Centers for Disease Control and Prevention, 2011). Se il dato sul rischio suicidario è vero per la popolazione giovanile in generale, questo è ancor più pronunciato all’interno della cerchia della delinquenza giovanile, arrivando a costituire la prima causa di morte tra i giovani in reclusione (Bureau of Justice Statistics, 2017).

Una spiegazione per l’alto tasso di suicidio tra i giovani con tendenze ad attuare condotte criminali risiede nella presenza di psicopatologie, spesso legate anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Tra gli aspetti personologici, il legame che la psicopatia ha con il rischio suicidario è controverso: da una parte, i deficit nella comprensione delle emozioni, l’assenza di reazione a stimoli stressanti/ansiogeni e la limitata empatia sembrerebbero avere un ruolo protettivo nei confronti dell’attitudine suicidaria; dall’altra parte, l’impulsività, la rabbia, il desiderio di manipolazione e sfruttamento dell’altro sembrerebbero costituire viceversa un fattore di rischio (Boduszeket al., 2016; Perez et al., 2016; Shagufta et al., 2015).

Ciononostante, la maggior parte della letteratura scientifica si è soffermata sul tema soprattutto indagando l’aspetto dal punto di vista della popolazione adulta.

Per far luce sul tema tra gli adolescenti, uno studio recente (Heirings et al., 2019) ha sottoposto 723 giovani reclusi presso il Missouri State Division of Youth Services (DYS) a un’indagine sul rapporto tra i tratti personologici psicopatici e il suicidio.

L’ideazione suicidaria è stata misurata utilizzando la sottoscala Traumatic Experience del Massachusetts Youth Screening Inventory (MAYSI-2; Grisso et al., 2001); i tentativi di suicidio – se presenti – sono stati indicati direttamente dai partecipanti attraverso un self-report (il 25,5% di loro aveva effettivamente tentato il suicidio).

Per la misurazione dei tratti psicopatici è stato utilizzato il Psychopathic Personality Inventory – Short Form (PPI-SF; Lilienfeld & Hess, 2001).

Dai risultati si è riscontrato che la psicopatia si è rivelata un fattore di rischio sia per l’ideazione suicidaria, sia per i tentativi di suicidio – seppur quest’ultima associazione si sia rivelata meno robusta quando si sono moderati i risultati includendo la diagnosi di depressione e l’utilizzo di antidepressivi. Inoltre, mentre alcune caratteristiche legate all’affettività – come l’appiattimento emotivo e l’assenza di reazione a stimoli stressanti/ansiogeni sembrerebbero avere un ruolo protettivo nei confronti del suicidio, altre componenti comportamentali e di stile di vita – tra cui l’impulsività, l’audacia, l’anti-conformismo, la colpevolizzazione degli altri – sono state trovate positivamente associate all’ideazione suicidaria.

Questi risultati sono coerenti con quelli evidenziati in letteratura sinora: la psicopatia sembrerebbe in effetti una dimensione personologica determinata dalla presenza di due aspetti psicopatologici distinti dove, a una dimensione più fredda e anaffettiva, ne corrisponde una seconda più impulsiva e distruttiva: mentre quest’ultima componente sarebbe associata a un più alto rischio suicidario, la prima sembrerebbe assicurare un ruolo protettivo (Boduszeket al., 2016; Perez et al., 2016; Shagufta et al., 2015).

I risultati di questa ricerca sono utili non solo per confermare la presenza di una bifattorialità personologica nella psicopatia nei confronti della propensione al suicidio in una popolazione giovane, ma anche per i professionisti che hanno in cura o sorvegliano i giovani nei centri di detenzione e di collocamento residenziale, dove il suicidio rappresenta la principale causa di morte.

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