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Il Dr Google dice che si è affetti da “Cybercondria”

I ricercatori hanno notato che vi è correlazione tra ansia riguardo la propria salute e l’ipocondria, tale per cui le ricerche online su argomenti relativi al proprio stato di salute possono indurre elevata paura e ansia. Il fenomeno della cybercondria.

 

A seguito della Rivoluzione digitale, la ricerca di informazioni circa la salute fisica e psichica è la terza attività su Internet (Fox, 2013). Anche se Internet e, nello specifico Google come motore di ricerca, risulta una fonte preziosa per ricercare informazioni mediche, il risultato è da un lato l’aumento di ansia, della paura o di comportamenti ossessivo-compulsivi, soprattutto in personalità tendenzialmente fobiche (Aiken, Kirwan, Berry & O’Boyle, 2012; Norr, Albanese, Oglesby, Allan, & Schmidt, 2015). Dall’altro, il rischio di affidarsi al dottor Google è quello dell’autodiagnosi. Numerosi all’interno del cyberspazio sono, infatti, forum medici e psicologici in cui gli stessi utenti, senza competenze, si confrontano su sintomi e casistiche di malattie, dimenticando tutta la dimensione soggettiva.

In particolare, i ricercatori hanno notato che vi è correlazione tra ansia riguardo la propria salute e l’ipocondria, tale per cui, le ricerche online su argomenti relativi al proprio stato di salute possono indurre elevata paura e ansia (Aiken et al., 2012). Questi collegamenti hanno portato ad una concettualizzazione del termine “cybercondria”, con il quale ci si riferisce ad un’escalation di preoccupazioni sulla sintomatologia mentale o fisica dipendente dalla recensione dei risultati della ricerca online (Starcevic & Berle, 2013; White & Horvitz, 2009). A livello terminologico, ‘cybercondria’ deriva dalla contrazione tra ‘cyber’ e ‘ipocondria’.

La ricerca di informazioni sulla propria salute tramite Internet, però, può avere effetti positivi e negativi sulle persone. I forum online possono essere efficaci nella condivisione, ad esempio, incentivando le persone nel fare maggiore esercizio fisico o nell’adottare abitudini alimentari più sane, o nell’aderire alla terapia farmacologica: in questi casi la ricerca di informazioni sullo stato di salute su Google può portare a risultati positivi (Mcelroy & Shevlin, 2014).

Al contrario, tali sforzi nella ricerca di informazioni potrebbero aumentare l’incertezza legata alla diagnosi, oppure le preoccupazioni circa l’accuratezza, la pertinenza e l’affidabilità di informazioni: questi sono gli effetti negativi (Starcevic & Aboujaoude, 2015). Inoltre, Norr et al. (2015) hanno suggerito che la sensibilità all’ansia e l’intolleranza verso situazioni di incertezza sono potenziali fattori di rischio per i cybercondriaci (Norr, Albanese, Oglesby, Allan, & Schmidt, 2015).

La Cybercondria, quindi, è uno stato di allarme elevato concernente il disagio per quanto riguarda il proprio stato di salute a causa di ricerche di informazioni mediche nel contesto virtuale (McElroy & Shevlin, 2014). Dalla teorizzazione di cybercondria, si nota immediatamente come la ricerca di informazioni, da un lato ha una funzione rassicurante, dall’altro, la persona entra in un circolo vizioso, in cui non si accontenta delle informazioni raccolte e quindi intensifica la ricerca, al fine di verificarne anche la veridicità e l’accuratezza.

A tal proposito, è stato costruito uno strumento di valutazione della cybercondria, denominato Cyberchondria Severity Scale (CSS). Il CSS (McElroy & Shevlin, 2014) è composto da 33 item e cinque sottoscale:

  1. Ossessione,
  2. Distress,
  3. Eccesso nella ricerca,
  4. Ricerca di rassicurazione,
  5. Sfiducia nel professionista medico.

Lo strumento risulta avere buone proprietà psicometriche (Selvi et al., 2018). L’attenzione a questa nuova dimensione dell’ipocondria consente di occuparsi non solo della salute fisica, ma anche psichica delle persone, soprattutto in periodi di emergenza sanitaria, come quella vissuta in relazione al Covid19.

 

Le emozioni dei nostri figli: come far emergere le emozioni nascoste e imparare a gestirle insieme (2020) di F. Celi – Recensione del libro

Le emozioni dei nostri figli: come far emergere le emozioni nascoste e imparare a gestirle insieme, questo il titolo dell’ultimo libro di Fabio Celi, docente di Psicologia Clinica all’Università di Pisa e di Psicologia dello sviluppo all’Università di Parma.

 

Il prof. Celi, psicologo e psicoterapeuta esperto del trattamento dei disturbi dell’età evolutiva, è direttore del Master di Psicopatologia dell’Età Evolutiva presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale a Firenze; come allieva ne ammiro l’altissima competenza tecnica quanto il garbo con cui ci avvicina all’intima comprensione dei suoi pazienti più piccoli.

Insegnare significa trasmettere contenuti di valore, ma anche valori affettivi e relazionali. L’attenzione empatica sempre riservata dal prof. Celi all’ascolto dei più piccoli fa sì che la comprensione clinica e tecnica non dimentichi mai la centralità e l’unicità del piccolo paziente. Questo è a mio avviso ciò che ha sempre reso le lezioni del prof. Celi momenti di grande crescita professionale e umana. Ed è questo che è stato capace di trasferire anche in questo in libro.

Il libro da poco pubblicato è ricco di esempi tratti dalla pratica clinica e offre preziosi approfondimenti su temi di rilievo della psicologia dell’età evolutiva, nello specifico sui processi di regolazione emotiva nei bambini.

Il libro si snoda come un viaggio, Celi prende per mano il lettore (sia esso il genitore, l’insegnante o lo psicologo) e lo accompagna alla scoperta nel mondo delle emozioni dei bambini.

Quanto per i piccoli sia difficile riconoscere e esprimere le proprie emozioni e quanto sia complesso il processo che li rende capaci poi di regolarle Celi lo spiega con cura e perizia.

Il libro, che nel titolo si rivolge ai genitori, è anche un utile strumento per gli addetti ai lavori (psicologi, pedagogisti): a loro spesso spetta il compito di descrivere in modo comprensibile e chiaro, a genitori e a insegnanti, cosa accade nella mente dei piccoli pazienti.

Il libro è un esempio di come lo si possa fare in modo chiaro ed efficace.

Questo grazie anche l’inserimento, all’interno delle pagine di testo, di link a cartoni animati presenti in rete (in particolare sul canale You Tube). Si tratta di una soluzione pratica ed efficace per favorire la comprensione dei temi affrontati, rendendoli intuibili attraverso l’uso delle immagini e dei dialoghi fra i personaggi dei cartoni più noti ai bambini.

I link ai video, oltre a rendere al genitore chiaro e comprensibile quanto descritto, forniscono un utile supporto visivo per coinvolgere anche il bambino.

Guardando un cartone animato assieme e parlando di quanto accade nel corso della narrazione risulta più semplice e meno intrusivo per il bambino riflettere e confrontarsi con l’adulto su temi emotivamente coinvolgenti.

La tesi da cui il libro parte è ben descritta dal prof. Celi:

quando cerchiamo di bloccare le emozioni,
quello che blocchiamo in realtà è la loro regolazione

come un oggetto in acqua

un’emozione riceve una spinta dal basso verso l’alto
pari alla forza impiegata per cercare di reprimerla.

Cosa significa questo?

Ascoltare con attenzione le emozioni dei bambini significa favorirne l’espressione: parlare e descrivere le proprie emozioni le rende più comprensibili. Questo vale per gli adulti ma soprattutto per i bambini, che devono imparare prima a riconoscere e poi a regolare le proprie emozioni.

Il libro si divide in due parti, la prima dedicata alle emozioni “nascoste”, la seconda dal titolo a “Convivere con le emozioni”.

Capitolo 1 – In fuga dalle emozioni

Perché è difficile parlare di ciò che fa star male e crea sofferenza? Perché noi esseri umani siamo naturalmente portati ad allontanare il dolore evitando la sofferenza. A maggior ragione quella dei nostri bambini.

Evitare le emozioni non significa cancellarle; evitare di prendere l’aereo perché si ha paura di volare risolve il problema temporaneamente, lo sposta solo in avanti, rimandando a un futuro indefinito il momento in cui provare a fronteggiare la situazione temuta.

Evitare un problema è una soluzione per certi aspetti semplice e immediata ma scrive Celi “chiudere gli occhi e le orecchie per cercare di sopravvivere al dolore” ci impedisce di affrontare gli ostacoli che inevitabilmente incontriamo nel nostro percorso di vita.

È legittimo provare paura in situazioni difficili perché siamo programmati filogeneticamente per attivarci quando ci troviamo di fronte a un pericolo inaspettato. Se però la paura si manifesta anche quando il pericolo non è reale o è solo circoscritto, si possono manifestare nei bambini reazioni e comportamenti apparentemente incomprensibili e disfunzionali. L’intenzione di correggere questi comportamenti può indurre i genitori a mettere in atto azioni correttive che possono diventare punitive.

È possibile vivere le emozioni senza evitarle o senza punire i comportamenti che nascono da queste emozioni?

Capitolo 2 – Quando le emozioni non trovano sfogo

L’esempio della pentola a pressione: la valvola della pentola, quando la pressione è alta, fischia e genera un suono acuto che può essere fastidioso. Se però la valvola non si attivasse e non emettesse alcun sagnale acustico, la pentola sarebbe pericolosa: rischierebbe di esplodere da un momento all’altro.

Partendo da questo pratico esempio il Prof. Celi ci descrive gli intoppi “emotivi” che possono impedire alla valvola di attivarsi correttamente:

  • Fretta: per conoscere e riconoscere le emozioni occorre tempo, soprattutto in una quotidianità in cui gli impegni si accavallano l’un l’altro e la frenesia rischia di togliere spazio alla noia che consente ai bambini di riflettere
  • Senso del dovere: quando il pensiero “non deve assolutamente accadere” prende il posto del pensiero più realista “sarebbe preferibile che non accadesse”, ciò che è molto fastidioso diventa intollerabile;
  • Vedere un bambino triste o arrabbiato può essere penoso per un genitore: il bambino può di conseguenza sentirsi in dovere di celare il proprio malessere, per non vedere il genitore proccupato.
  • Non validare le emozioni vs Validare le emozioni: se ho paura e mi dici “non devi avere paura”, io posso pensare che la mia emozione sia sbagliata, perché è “sbagliato” avere paura.
  • La paura di perdere il controllo ci fa perdere il controllo realmente: non sono le emozioni a creare disagio, ma l’impossibilità ad esprimerle.

Capitolo 3 – Alla ricerca delle emozioni perdute

Possiamo intuire il disagio emotivo di un ragazzo o di un bambino ma spesso comprendere da cosa deriva può essere complicato. Comprenderlo richiede infatti più abilità: posso esprimere ciò che provo solo dopo averlo riconosciuto.

È possibile farlo solo imparando, oltre al linguaggio verbale, anche il linguaggio delle emozioni; è compito degli adulti aiutare i bambini a conoscere le proprie emozioni guidandoli nel processo di alfabetizzazione emotiva.

Da dove partire per insegnare ai bambini a conoscere e riconoscere le proprie emozioni?

  • Il linguaggio del corpo comunica informazioni preziose su come ci sentiamo in un determinato momento e in una particolare situazione; prendere confidenza con i segnali che il corpo ci manda è un primo importante passo.
  • I disegni sono una delle forme più spontanee di espressione dei bambini; è utile imparare ad osservarli senza la pretesa di porre etichette diagnostiche: ogni disegno contiene informazioni preziose che ci parlano delle emozioni di un bambino (la dimensione e il tipo di immagini, i colori, le forme, il temi scelti)
  • I giochi spontanei raccontano molte cose dei bambini perché poche cose sono serie per un bambino come lo è un gioco. E’ nel gioco che il bambino esprime il proprio mondo interno, dando vita alle fantasie e alle paure; nel gioco il bambino può “far dire” a un personaggio ciò che pensa senza temere di essere giudicato per questo.

Dopo avere fatto maggiore chiarezza sulle emozioni, occorre imparare a conviverci, soprattutto con quelle meno piacevoli.

Capitolo 4 – Conosci te stesso

Per aiutare il bambino a familiarizzare con le proprie emozioni, l’adulto deve prima fare altrettanto con le proprie.

Un genitore vive tre tipi di emozioni:

  • Le emozioni positive: esercitarsi a riconoscerle, soffermandosi sul momento attuale e apprezzandole aiuta il bambino a coglierne il valore, senza darle mai per scontate;
  • Le emozioni negative: cercare di riconoscerle aiuta a non esserne travolti. Può essere utile sapere che la nostra mente commette spesso e in modo automatico errori logici nell’interpretazione della realtà. Questi errori ci possono indurre a trarre conclusioni errate e quindi ad agire in modo non solo logico. Esistono diversi tipi di errori automatici:
    Pensieri irrazionali che come i virus informatici impediscono al ragionamento di procedere secondo un criterio logico;
    Pensieri dicotomici che ci mostrano la realtà in bianco e nero. Non esiste il bene o il male, ma una gradazione infinita di sfumature fra questi due estremi, come per i colori in un arcobaleno;
    I giudizi netti rassicurano a volte ma non sono obbiettivi né rappresentativi della realtà;
  • Le emozioni legate a situazioni oggettive che non possiamo cambiare: commettiamo errori di giudizio, ma siamo capaci di valutare una situazione come oggettivamente complessa. Un bambino con un disturbo dell’apprendimento fa più fatica nei compiti scolastici di quanto ci si potrebbe aspettare. A volte negare un evento reale è più doloroso che accettarlo: non significa rassegnarsi alla passiva rinuncia ma diventare consapevoli del fatto che combattere, contro qualcosa che non si può cambiare, disperde le energie e aumenta la sofferenza.

Capitolo 5 – Ascoltare davvero

Giudicare non è ascoltare, e l’ascolto dovrebbe essere per quanto possibile attivo e non distratto.

I passi per tentare di farlo (e magari riuscirci):

Capisco cosa stai dicendo:

  • Ascoltare usando le risposte riflesse
  • Sospendere il giudizio che blocca la comunicazione
  • Accettare attraverso l’empatia

Capisco cosa stai provando:

  • Approfondire il livello di ascolto sintonizzandosi con le emozioni del bambino

Proviamo a vedere le cose in modo diverso:

  • La ristrutturazione cognitiva attraverso il metodo APE
  • Fare buon uso del modellamento: i bambini imparano osservando il comportamento degli adulti, anche nel modo di relazionarsi e gestire le proprie emozioni;

Capitolo 6 – Giochiamo insieme

Per aprire nuovi canali di comunicazione con i bambini le opportunità non mancano e anche situazioni abituali possono diventare un momento di riflessione condivisa sulle emozioni.

Alcune di queste opportunità sono:

  • Disegnare
  • Il teatro dei burattini
  • Le favole
  • I film
  • I videogiochi

Capitolo 7 – Acqua, fuoco e virgole buone

Pensieri, emozioni e comportamenti sono in un rapporto di continua e reciproca influenza. Ma in che modo i pensieri influenzano le emozioni?

Il modo in cui vediamo e interpretiamo gli eventi che ci accadono condiziona le nostre emozioni: è il significato che attribuiamo a una situazione che ci porta ad avere una reazione emotiva di un certo tipo e quindi un comportamento congruo con quella emozione.

Quando i comportamenti dei bambini nonostante i tentativi di riflessione condivisa continuano ad essere inadeguati è giusto intervenire? Se sì come?

Le regole dovrebbero essere poche, chiare, condivise ed espresse in positivo ogni volta che è possibile.

Così scrive Celi, ma quando questo non basta può essere necessario ricorrere alla punizione. Occorre però tenere a mente che esiste la possibilità di punire un comportamento sbagliato, ma preventivamente anche quella di rinforzarne uno corretto ed adeguato.

Capitolo 8 – Cercare una soluzione assieme

I Cavalieri della Tavola Rotonda si riunivano attorno a un tavolo a cercavano assieme una soluzione al problema: questo è quello che ancora oggi propone di fare il metodo del circle time.

Sedersi assieme ed esprimere tutte le idee che vengono in mente senza censura: questa è un’idea per iniziare assieme a trovare soluzioni nuove per un problema.

Il metodo del circle time è il primo passo per insegnare ai bambini ad afforntare le loro piccole e grandi sfide. La tecnica del problem solving insegna loro successivamente ad affrontare e gestire una situazione problematica secondo fasi sequenziali e definite.

  • Riconoscimento del problema
  • Pianificazione del problema
  • La tempesta o brainstorming
  • La decisione
  • Come è andata?

Queste fasi che si succedono, spiega Celi, non sono necessariamente risolutive del problema fin dalla prima loro applicazione. A volte occorre ripartire da capo finché non si è trovata una soluzione adeguata e soddisfacente. Non bisogna mai dimenticare che accettare un insuccesso è importante tanto quanto riuscire, perché anche sbagliando si impara a fare sempre meglio.

 

 

Da mamma a donna andata e ritorno

In questa fase, molte donne lamentano la fatica di conciliare la vita di mamma, lavoratrice con i figli in casa, e casalinga. La donna sta mostrando un’urgenza di esprimersi, di mettere in luce i propri bisogni, di fermarsi e guardare le proprie fragilità.

 

Il tempo ha assunto altre forme e altro significato. Tutto ciò che andava di fretta ha rallentato. La mattina, i caffè sembrano più lenti, le notti hanno uno strano silenzio e le voci delle case piene rimbombano nei cortili….è un tempo sospeso. Le voci, pianti di bambini, grida di ragazzi e normali litigi familiari riempiono le finestre e l’intimità quasi perde i confini. Il linguaggio si disinibisce, e sembra che poco importi se i nostri pensieri confidati a un amico diventino di dominio pubblico o di condivisione al di fuori delle mura domestiche.

Tutto sembra andare più lento. Dalla pandemia, quel tempo riempito con mille impegni all’improvviso si è liberato e ha lasciato spazio a riflessioni e possibili piaceri. E in questa fase vorremmo andare a ricercare quel « guscio » del tempo sospeso, vorremmo riassaporarne le emozioni. E di nuovo ci sembra di non aver approfittato abbastanza e di dover ripartire di nuovo.

La donna, mamma, consacrata ad assumere sempre di più le sembianze di Wonder Woman ha mostrato la sua debolezza e, ancor più nella fase 2, l’ha mostrata spudoratamente ai propri figli.

Da svariati anni la donna ricopre il ruolo di mamma, casalinga, lavoratrice, ruoli che convivono con grande fatica, facendo sì che la qualità del tempo dedicato ad ogni ruolo venga meno. Nel tempo la donna « in carriera » si è fatta supportare da altre figure per assolvere i propri doveri. E’ diventata una mamma multitasking e manager della propria famiglia. Pianifica i tempi e le mansioni di donne delle pulizie, baby sitter, nonni, gestisce sport, compiti, feste degli amichetti, chat delle mamme. La donna lavoratrice ha sempre di più imparato a delegare e organizzare, con l’affanno e la sottile lamentela di non poter dedicare tempo sufficiente ai propri figli a causa del lavoro.

La pandemia ha messo in luce un nuovo aspetto, più inconscio, più segreto, più tabù, ma più reale. La donna non vuole occuparsi solo dei figli, ma vuole anche lavorare e desidera anche fare altro che la distragga dal suo essere solo madre. Dietro a quella parola, lavorare, c’è la libertà della donna, non solo in termini di indipendenza economica, ma anche in termini di spazi vitali, di benessere e di stima personale.

L’essere madre non può e non deve uccidere l’essere donna.

Infiniti post, vademecum, associazioni, ribadiscono come gestire i figli in questo momento. Trascorrere del tempo con loro, approfittare e godere di questo momento, svolgere delle attività insieme. Le prime due settimane sono state un susseguirsi di attività inventate dal genitore che è diventato animatore delle giornate del proprio figlio. Così, per molti, questa fase di entusiasmo è stata spazzata via da una nuova fase, quella della quale nessuno osa parlare, forse per pudore o per vergogna. Tutti hanno avuto modo di riscoprirsi insieme, di scoprirsi nucleo, ma tutti e ancor più la donna, sentono un gran bisogno di sentirsi individuo.

La madre, per istinto naturale funge da contenitore delle angosce del bambino. L’holding (Winnicott) è la capacità della madre di saper intervenire in maniera istintiva dando amore e sapendosi mettere da parte quando il bambino non ha bisogno di lei.

La donna in questo momento non vuole sentirsi pilastro della famiglia, non vuole sentirsi primo punto di riferimento, ha bisogno di essere supportata e sostenuta, fa fatica ad utilizzare la capacità di holding.

…… Accade spesso che i bambini tra i tre e cinque anni perdano le staffe, e riescano ad essere particolarmente riottosi nei confronti delle loro madri. Quando la pazienza della madre è messa a dura prova c’è sempre qualcuno che con calma porta via di peso il bambino da un’altra parte, consentendo così alla madre di continuare a fare quello che stava facendo. La pronta disponibilità di altre persone significa che la madre non può essere tormentata dal figlio, fino al punto di perdere il controllo di sé……. (Montagu, A.)

In questa fase, molte donne lamentano la fatica di conciliare la vita di mamma, lavoratrice con i figli in casa, e casalinga. Sono spesso ricorrenti i sogni di non riuscire a parlare, di sentirsi intrappolate, di non riuscire a camminare o a muoversi. Sono tutti sintomi di un’urgenza di esprimersi, di mettere in luce i propri bisogni, di fermarsi e guardare le proprie fragilità.

La castrazione di ritagliarsi dei luoghi intimi per poter fare quella telefonata all’amica, porta all’asfissia e all’esasperazione, che vengono messe in atto con un linguaggio più schietto e più spudorato anche davanti ai figli.

In questi mesi, le mamme hanno avuto a che fare con le ansie legate al possibile “trauma” che stanno vivendo i figli, hanno rimboccato le coperte, si sono svegliate nel cuore della notte per rassicurare il figlio da un incubo, si sono svegliate prima di tutti per lavorare, hanno accompagnato i propri figli alle porte dei sogni, hanno provato a dare regole e si sono sentite in colpa quando hanno ceduto. Ma in tutto questo fare non hanno trovato spazio per “poter essere”.

Questa realtà è stata camuffata, nascosta. Non c’è stato spazio per uno sfogo che mostrasse la propria fragilità, non c’è stata una comunità che ha accolto questo malessere.

 Abbiamo tutte questo utero che ci rende tutte fragili, tutte accoglienti anche quando a noi della maternità non ce ne frega niente.

Questa frase provocatoria gridata dall’ultimo monologo di Anna Foglietta, non abolisce o denigra il desiderio di maternità, ma ribadisce che le donne sono oltre il solo essere mamme, sono individui e in quanto tali hanno bisogno di spazi, di autonomia per ricaricarsi.

Nei branchi di lupi, la femmina allatta i cuccioli e gli altri lupi le procurano il cibo, la proteggono affinché possa continuare ad allevare la prole. (Radinger, E.)

In questo momento di fragilità sociale, sanitaria ed economica si dovrebbe tutelare maggiormente la figura della donna. Le si dovrebbero fornire strumenti e mezzi affinché possa recuperare forza ed energia e continuare ad essere il grembo del futuro.

La donna deve cercare all’interno di se stessa delle risorse personali, per non lasciarsi affogare. Deve imparare a delegare e non deve sentirsi imperfetta o sbagliata perché ricorre all’aiuto di un professionista. È fondamentale che la donna trovi un’armonia tra l’essere tale ed essere madre. Il bambino ha bisogno tanto della sua presenza quanto della sua assenza.

L’esistenza del desiderio della donna come non tutto assorbito in quello della madre è la condizione essenziale affinché il desiderio della madre possa essere generativo. (Recalcati, M.)

 

 

Che relazione c’è tra l’abuso sessuale e i disturbi alimentari?

Subire un abuso sessuale in infanzia sembra essere un importante fattore di rischio per quel che riguarda lo sviluppo di disturbi alimentari, sembrerebbe infatti che il 30% delle persone con un disturbo alimentare abbia subito abusi sessuali nell’infanzia (Connors & Morse, 1993).

 

L’abuso sessuale subito in tenera età è una potente esperienza traumatica, i suoi effetti possono manifestarsi anche molti anni dopo l’accaduto, quando il soggetto prende consapevolezza di ciò che gli è successo, le reazioni emotive e cognitive che si verificano nella persona abusata solitamente sono: confusione, senso di colpa, vergogna, paura, ansia, auto-punizione e rabbia (Cohen, 2020).

Si tratta di un’esperienza così traumatica che le sensazioni interiori come la fame, l’affaticamento o la sessualità diventano spesso difficili da identificare e si confondono tra loro. Infatti, le persone che sono state abusate sessualmente si rivolgono al cibo per alleviare una vasta gamma di stati di tensione interna che non hanno nulla a che fare con la fame; questo accade perché l’esperienza che hanno vissuto li ha resi disorientati per quel che riguarda le loro percezioni interiori (Cohen, 2020). Per queste persone, fidarsi del cibo è più sicuro che fidarsi delle persone, il cibo non ti abusa mai, non ti ferisce mai e non ti rifiuta mai, inoltre puoi dire quando, dove e quanto, nessun’altra relazione soddisfa le proprie esigenza in una maniera così assoluta (Cohen, 2020).

Una volta raggiunta l’adolescenza o l’età adulta, gli abusati spesso cercano di desessualizzare se stessi, possono diventare molto grassi o molto magri nel tentativo di rendersi poco attraenti, sperano che la loro armatura di grasso o di magrezza li protegga dall’esperienza sessuale, spesso non sono consapevoli di come manipolano il cibo o il corpo nel tentativo di sentirsi più sicuri (Cohen, 2020).

Oltre alla predisposizione a sviluppare disturbi alimentari, i sopravvissuti all’abuso sessuale sono vulnerabili a depressione, abuso di sostanze, disturbo da stress post traumatico e problemi di natura sessuale (Cohen, 2020).

Secondo alcuni autori, dato che le relazioni dolorose sono state la causa dello sviluppo del disturbo alimentare, le relazioni di supporto e amorevoli saranno il mezzo di guarigione: risulta quindi fondamentale entrare in contatto con altre persone che possono convalidare il dolore e accettarlo, cosa possibile principalmente intraprendendo un percorso psicoterapico (Cohen, 2020).

Un altro elemento importante che porta al recupero e all’accettazione del trauma è la capacità di raggiungere l’intimità sessuale con un partner.

Raggiungere l’intimità significa arrendersi, rilassarsi, condividere e lasciarsi andare mentre il mangiare per combattere emozioni negative ha a che fare con il controllo, la rigidità, la paura e l’isolamento (Cohen, 2020).

Di seguito vengono riportati alcuni trascritti di interviste fatte a persone abusate, in cui è possibile notare la relazione tra abuso sessuale e abuso di cibo.

Amber, violentata quando era una bambina da suo cugino adulto: ‘L’eccesso di cibo e i lassativi sono diventati il ​​mio modo di liberarmi dal dolore e dalla confusione. Mi sono resa conto che stavo cercando di evacuare mio cugino dal mio corpo attraverso quei lassativi.‘ (Cohen, 2020).

Donald: ‘Dopo che i miei genitori divorziarono, mia madre si ubriacò e ballò per casa in camicia da notte. Mi spaventai, ma la parte peggiore fu che mi eccitai. Per cercare di riottenere il controllo, ho iniziato a non mangiare più e ho sviluppato l’anoressia. Attraverso la terapia, ora capisco come stavo cercando di far morire di fame i miei sentimenti orribili verso me stesso. E la mia vergogna mi ha anche fatto sentire che non meritavo nemmeno di mangiare’ (Cohen, 2020).

 

 

Quando lo sport si trasforma in dipendenza

Negli ultimi anni si riflette molto sull’incidenza che lo sport ha nella vita di una persona. L’attività fisica è solitamente connessa positivamente con salute e benessere; tuttavia, in alcuni casi lo sport può dar vita a una vera e propria dipendenza

Virgilia Crescenzi – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Lo sport e la psicologia hanno iniziato a collaborare dagli anni ’20, integrando in un’area di ricerca congiunta gli aspetti psicologici dello sport. La psicologia si è interessata principalmente alla comprensione di aree come la motivazione, la dinamica di gruppo e allenamento mentale. Un’altra linea di studi si è incentrata sull’identificazione del talento, al fine di predire il successo di un atleta. Questi studi hanno preso in considerazione i tratti della personalità che sono il motore per praticare uno sport da amatori o diventare un atleta che può arrivare a fare gare di grande prestigio

All’interno del contesto citato, negli ultimi anni, si riflette molto sull’incidenza che lo sport ha nella vita di una persona. Ovviamente, spesso l’attività fisica è connessa positivamente con salute, benessere, bellezza, miglioramenti del tono dell’umore, della sintomatologia ansiosa e anche nelle psicopatologie gravi, si possono riscontrare benefici; tutto sommato una medicina perfetta per la mente ed il corpo, a qualsiasi età (World Healt Organization)..

Nella letteratura scientifica si trovano, tuttavia, anche articoli che mettono in luce come lo sport possa nascondere alcuni aspetti negativi, quasi come fosse un diavolo travestito da angelo, che invece di fare esclusivamente del bene, con alcuni individui, quelli più “vulnerabili”, si trasforma in cattivo seduttore. Questa è una similitudine che mostra cosa può accadere quando lo sport diventa un’ossessione o quando si instaura una dipendenza da esso.

Quindi, sebbene siano tanti i vantaggi del praticare sport in modo sano e costante, non si possono ignorare i risvolti negativi che esso può avere da un punto di vista psicologico. Se da un lato muoversi migliora i parametri vitali, l’aspetto e così via, dall’altro farne troppo può portare a conseguenze come cambiamenti cronici di rilascio ormonale, a un maggior rischio di infortuni e, come anticipato, a importanti risvolti psicologici tra cui l’instaurarsi di una vera e propria dipendenza (con la complicità di un’accettazione sociale) oppure di un disturbo psicologico che nasce principalmente da un problema di autostima e di percezione della propria immagine.

E’ bene fare un’ulteriore distinzione tra chi, praticando sport, instaura una dipendenza che lo porta a superare sempre i propri limiti, ad esserne ossessionato e incapace di controllare il comportamento, vivendo con l’unico obiettivo di fare movimento; da chi invece cela un disagio verso il proprio corpo, un costante disgusto verso se stessi e verso i propri difetti, in questo caso l’attività fisica è mossa sia da una autovalutazione negativa, sia da possibili pressioni sociali ed è il mezzo attraverso cui migliorare sempre di più il proprio aspetto fisico.

E’ necessario dunque dare risalto ai risvolti psicopatologici e prendere in considerazione questa distinzione, utile soprattutto all’inquadramento e al trattamento dei sintomi dei disturbi da dismorfismo corporeo o dei disturbi alimentari. Inoltre è importante capire quali sono i comportamenti negativi che la dipendenza da sport porta e quali aspetti potrebbero nuocere all’atleta. Restano infatti molti punti ancora da chiarire riguardo al modo di valutare lo sport in ambito psicopatologico.

Lo sport, una dipendenza comportamentale

Negli ultimi decenni gli sportivi sono aumentati esponenzialmente. L’obiettivo è principalmente migliorare il benessere psicofisico, ed è necessario che vi sia una certa costanza per mantenere nel tempo i benefici. L’attività fisica è un fattore principalmente positivo nella vita di tutti: è socialmente riconosciuta come un’abitudine positiva e sana, ha benefici anche sugli aspetti relazionali della vita dell’individuo, è utile al miglioramento della propria autostima e in alcuni casi allontana da possibili abitudini nocive.

Tuttavia abbandonarsi in un’attività eccessiva e incontrollabile può portare a effetti negativi ricorrenti, aumentando l’incapacità di gestire contesti di vita diversi, come quello sociale e lavorativo ad esempio, e la suscettibilità a lesioni muscolo-scheletriche; inoltre, il sovrallenamento aumenta il rischio di problemi acuti (ipoglicemia, dolore toracico, aritmia e altri) portando a un malfunzionamento del sistema immunitario.

Questo fenomeno può essere definito come un disturbo da dipendenza da sport, caratterizzata da perdita del controllo del proprio comportamento e del pensiero, sfociando in una compulsione, in cui si manifestano i sintomi di una dipendenza di tipo comportamentale.

Nel DSM-5 è considerato tra i disturbi da dipendenza comportamentale. Non è ufficialmente inserito nella classificazione, ma secondo Griffith (2005) si riconosce nelle stesse caratteristiche di una dipendenza comportamentale: la preminenza (il comportamento assume la maggiore importanza per la persona), l’influenza sul tono dell’umore (disturbi di tipo emotivo correlati sia alla pratica che all’astensione), la tolleranza (intensificarsi del comportamento per indurre effetti sempre più intensi), l’astinenza (sensazioni negative dovute al fare attività fisica), il conflitto (conflitti che si verificano nella vita della persona tra la dipendenza e altri aspetti, su cui comincia ad avere sempre più la meglio), la recidiva (alto drop-out).

In generale, riconoscere una dipendenza da esercizio fisico è difficile per via della grande considerazione positiva, largamente condivisa, attorno a tale pratica: riconoscimento sociale, benessere, accettazione, qualità di vita migliore, l’esercizio è un comportamento socialmente accettato, forse anche se portato agli estremi. Lo sforzo per un corpo snello e in forma è solitamente percepito come un segno di uno stile di vita sano e di un successo personale e la famiglia e gli amici possono accettare e incoraggiare atleti di fitness a mantenere abitudini di esercizio eccessive. In uno studio di Lichtenstein et al. (2017) è stato confermato, attraverso uno studio cross-sessionale, che è difficile riconoscere una dipendenza da sport proprio per via del supporto sociale che gli gravita attorno.

Cause di una dipendenza da training?

In generale, dopo aver svolto una qualsiasi attività fisica, l’individuo avverte sensazioni di euforia, succede perché vi è un rilascio di endorfine, dopamina e serotonina, i quali hanno un ruolo fondamentale nel senso di benessere dell’individuo, tuttavia hanno un ruolo fondamentale anche nell’instaurare una dipendenza da sport. Nelle varie ricerche possono essere riconosciute due tipologie di dipendenza: quella fisiologica e quella psicologica. La prima propone modelli che descrivono le cause di una possibile presenza di dipendenza al rilascio ormonale, al cambiamento dell’organismo, quindi al solo bisogno fisiologico di piacere che spinge l’individuo a sviluppare un comportamento compulsivo; uno dei più accreditati è l’ipotesi di attivazione simpatica: quando l’adattamento dell’organismo si abitua all’esercizio fisico instaura una dipendenza, avviene quando l’individuo si muove, attiva l’organismo e questo arousal migliora i parametri fisiologici. I modelli Psicologici, invece, mostrano che la causa principale della exercise addiction riguarda l’aspetto mentale, di pensiero e di personalità di un individuo, la motivazione, e pattern di comportamento atti a ridurre sintomi stressogeni.

Recentemente, invece, si è puntato su un modello che prendesse in considerazione sia l’aspetto fisiologico che quello psicologico, che lavorano in sinergia per far sì che si instauri un condizionamento positivo del comportamento appreso, infatti vengono considerati come fattori interagenti: valore personale, immagine sociale, stile di vita e modalità di ridurre lo stress, che coinvolgono gli aspetti fisiologici per raggiungere uno stato di benessere (Egorov at al 2013).

Comorbilità e fattori di rischio

Sono stati trovati legami tra dipendenza da esercizio e alimentazione, disturbi riguardo schemi di esercizio ossessivo, controllo del corpo e tratti di personalità perfezionista. (Lichtenstein, Christiansen et al. 2014). L’atteggiamento è quello di mettere in atto un’attività motoria eccessiva come compensazione alle abbuffate di cibo, alternativamente ad altre condotte eliminatorie. La comorbilità è particolarmente osservabile nelle donne con bulimia nervosa o anoressia.

La dismorfia muscolare è una variante di dismorfismo corporeo caratterizzato da credenze sull’insufficienza della muscolosità e coinvolgimento in attività fisiche esagerate di costruzione muscolare come il sollevamento pesi e l’uso di steroidi anabolizzanti, fino ad arrivare alla cosiddetta Vigoressia. Atleti con dismorfismo muscolare spesso cercano di mantenere un basso contenuto di grasso corporeo seguendo diete e abitudini alimentari mirate. La sindrome ha una componente forte di dipendenza dall’attività fisica compulsiva, presenta una concomitanza importante che è causata dall’attenzione estrema al raggiungimento degli obiettivi di fitness e di forma muscolare.

I disturbi alimentari e il disordine dismorfico del corpo sono riconosciuti come disturbi psichiatrici nei manuali diagnostici (American Psychiatric Association, 2013; Organizzazione mondiale della sanità, 1992), la dipendenza da esercizio fisico ancora non lo è. Tuttavia, tali condizioni appaiono spesso contemporaneamente, tanto che Davis e Claridge hanno proposto che nei disordini alimentari venga considerata la comorbilità con l’exercise addiction (Davis & Claridge, 1998). I due studiosi hanno scoperto che i tratti ossessivo-compulsivi erano associati alla preoccupazione per il peso e all’esercizio eccessivo in pazienti con disturbi alimentari.

Altri ricercatori hanno osservato correlazioni tra dipendenza e disturbi dell’umore, ad esempio Linchestein et al (2018), hanno scoperto che depressione e stress conducono ad un alto rischio di dipendenza da esercizio fisico, il quale può essere condotto come strategia di coping per sopperire alla sofferenza psichica. Gli studiosi si sono resi conto che la dipendenza può essere riconosciuta sia attraverso l’osservazione del comportamento compulsivo e confermato da continui infortuni muscoloscheletrichi a cui l’individuo non dà importanza tornando prima del tempo a praticare le varie attività .

In concordanza con questi risultati, il Work Craving Model propone tre dimensioni attraverso le quali si mantiene una dipendenza da esercizio fisico: “edonia”, “compulsione” e “componenti cognitive”. Con il WCM, Wojdylo et al. (2013) delineano un’interazione tra perfezionismo nevrotico (appreso), tratto ossessivo-compulsivo, riduzione di sintomi da astinenza e un’aumento di autostima positiva del comportamento dipendente in questione. Si è visto che sia il perfezionismo che la componente ossessivo-compulsiva sono correlate con l’eccessivo esercizio fisico, in particolare quando concorre insieme a disturbi alimentari, mentre il mantenimento di un comportamento di craving è spesso correlato ai disturbi depressivi e di ansia, a conferma di queste corrispondenze vi è uno studio di Macfarlane (2016).

Bruno et al. (2014), hanno trovato che un alto rischio di sviluppare una dipendenza da sport, è dovuta ad una personalità narcisistica, specialmente per assicurare onnipotenza e fornire una protezione alla perdita di soddisfazione e ammirazione. Non solo, la bassa autostima sembra essere, anch’essa un fattore predittore di Exercise Addiction poiché rende più sicuro l’individuo, incrementando la confidenza verso sé stesso e la sicurezza di piacere all’altro mostrando attitudini sportive.

Non è difficile immaginare, infine, che questa tipologia di dipendenza possa manifestarsi anche in comorbilità con disturbo di ansia sociale, soprattutto se questa riguarda le proprie caratteristiche fisiche.

La Psicoterapia a cosa potrebbe servire?

Nei paesi occidentali, la pratica sportiva è molto diffusa, e per questo ad ogni età si può fare un po’ di sport, nelle palestre, nei circoli, all’aria aperta.

Perciò deve essere considerato un aspetto importante e influente nella vita di una persona esattamente come il lavoro, la cerchia familiare e amicale ecc.

Non è ancora ben chiaro il meccanismo che instaura una dipendenza e se può essere considerata realmente come tale in ogni individuo (anche paragonandola alle più comuni ed attuali come il gioco d’azzardo o la internet addiction), oltre ciò non sono ancora delineati i confini tra attività normale e dipendenza negativa da sport. In effetti, da alcuni studi è scaturito che anche gli atleti non sono immuni dalla dipendenza da esercizio fisico rispetto ai semplici praticanti, la passione verso lo sport gioca un ruolo fondamentale e può essere una spinta motivazionale a farne sempre di più, compulsivamente; inoltre è possibile che si instauri svolgendo qualsiasi tipo di specialità praticata.

In psicoterapia deve essere preso in considerazione il rapporto che la persona ha con lo sport, quanto ne pratica e se per avere maggiori prestazioni si aiuta con integratori, ciò può essere utile in fase iniziale per approfondire altri aspetti che vanno a definire la diagnosi e specificare se lo sport può essere un prodromo di altre comorbilità o diagnosi differenziali con specifici di disturbi. Può essere utile indagare come viene percepito il fare sport, se è vissuto come una compulsione, o se è realmente un momento di svago o di distacco con i problemi, o ancora se è fatto al fine di raggiungere un peso-forma ideale.

In ogni caso specifico, sarà necessario valutare la tecnica psicoterapeutica più adatta al raggiungimento di un equilibrio e adeguate strategie di coping e che affronti i comportamenti disfunzionali rispetto alla pratica sportiva e la problematica psichica che li sostiene.

 

Separazione come disgregazione, conflitto e figli

Nell’epoca contemporanea le separazioni e i divorzi sono considerate esperienze fisiologiche della vita, viene normalizzato dalla frequenza con la quale lo si riscontra nella popolazione, seppur resta un evento critico che le famiglie attraversano.

 

Secondo i dati ISTAT, nel 2014 le separazioni sono state 89.303 e i divorzi 52.335, a fronte della celebrazione di 189.765 matrimoni. In media, leggiamo nelle statistiche, le separazioni avvengono dopo 16 anni di matrimonio, ma si è osservato che i matrimoni più recenti durano sempre meno.

Ciò che si rileva in merito alle separazioni e ai divorzi è la portata sempre maggiore della loro problematicità e della loro complessità.

Infatti, se da una parte possiamo ritenere un evento sempre più “normale” all’interno della nostra società l’evento disgregativo della famiglia, da un punto di vista intimo, soggettivo, resta un evento traumatico. Nel processo che conduce una coppia a dividersi è insito il conflitto, che rappresenta un elemento sano all’interno di una relazione, nel momento in cui aiuta le persone ad esprimere le proprie esigenze e a mediarle con l’altro. In sempre più casi il conflitto diviene territorio di divisione e non di mediazione.

Qualche accenno sintetico alla cornice legislativa all’interno del quale contestualizzare le nostre riflessioni pare doverosa.

La Costituzione della Repubblica Italiana dedica alla famiglia ben 3 articoli, i quali sanciscono il principio di parità tra i coniugi, le responsabilità genitoriali nei confronti dei figli, anche nati fuori il matrimonio e la tutela del minore da parte dello stato qualora i genitori non riescano a provvedervi:

  • L’art. 29 stabilisce che: La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
  • L’art. 30 stabilisce che: È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.
  • L’art. 31, infine, stabilisce che: La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

I coniugi che decidono di sciogliere il vincolo matrimoniale devono rivolgersi all’istituto giuridico della separazione e del divorzio.

La separazione ha carattere transitorio, in quanto i suoi effetti possono essere fatti cessare in qualsiasi momento; perciò è possibile per i coniugi riconciliarsi, senza per questo attuare qualche formalità. Il sistema giuridico italiano prevede due forme di separazione tra i coniugi: la separazione consensuale e quella giudiziale. Alla separazione giudiziale si ricorre quando i coniugi non riescono a trovare un accordo sui termini della separazione. In questi casi, visti i tempi delle cause civili, il Giudice può adottare dei provvedimenti a tutela del coniuge debole e dei figli. Tale tipologia di separazione può essere trasformata in consensuale in qualsiasi momento del procedimento, mentre non può accadere il contrario.

Nella separazione consensuale i coniugi decidono di separarsi in accordo tra di loro e in accordo rispetto ad elementi quali l’assegnazione della casa familiare, l’affidamento e il mantenimento dei figli e le modalità di frequentazione con gli stessi, l’eventuale somma periodica da corrispondere al coniuge più debole e/o ai figli. In quest’ultimo caso il giudice si limita ad effettuare un controllo di conformità tra quanto stabilito di comune accordo dai coniugi e la normativa, con particolare attenzione alle ricadute sui figli.

È sempre possibile, però, per ciascuno dei genitori, richiedere la modifica dei provvedimenti riguardanti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e le disposizioni relative alla misura e alle modalità del contributo.

Il divorzio rispetto alla separazione è un provvedimento definitivo di scioglimento del legame coniugale, dove cessano tutti i legami legali con il coniuge, se non quelli specificati nel decreto divorzile relativo ai figli, al patrimonio, eventuale assegno divorzile e l’assegnazione dell’abitazione familiare. Anche in questo caso si può effettuare un percorso consensuale, oppure, in caso di disaccordo, di rivolgersi al giudice del Tribunale Ordinario per un divorzio giudiziale, può essere presentato anche da un solo coniuge.

In materia di affidamento solo con la lg n.54 8.02.2006 Disposizioni in materia di separazioni dei genitori e affidamento viene attuato il principio di bigenitorialità, sancito nell’art. 9 della Convenzione di New York:

  1. Gli Stati parti vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo. Una decisione in questo senso può essere necessaria in taluni casi particolari, ad esempio quando i genitori maltrattino o trascurino il fanciullo oppure se vivano separati e una decisione debba essere presa riguardo al luogo di residenza del fanciullo.
  2. In tutti i casi previsti al paragrafo 1 del presente Art., tutte le Parti interessate devono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e di far conoscere le loro opinioni.
  3. Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo. […].

Con il principio di bigenitorialità si affidano i figli ad entrambi i genitori, ciò è mosso dall’esigenza di tutelare l’interesse del minore e il suo diritto a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori, i quali devono collaborare attivamente nella gestione dei figli e nelle decisioni che li riguardano. Il legislatore, attaraverso tale norme ha voluto assicurare che la separazione dei genitori non si trasformi nell’allontanamento dei figli da uno di essi, né dalle relative famiglie d’origine; pertanto la relazione genitore-figlio deve essere tutelata e mantenuta al di là della cessazione della convivenza dei genitori. Solo in casi eccezionali, per la tutela del minore, il giudice può decidere di disporre l’affidamento esclusivo del figlio ad uno dei due, a norma dell’art. 155-bis, in cui è specificato che il Giudice è tenuto a motivare tale disposizione.

Viene da sé che l’applicazione di tale norma necessita di un monitoraggio territoriale per l’interesse del minore, infatti non di rado il Giudice incarica i servizi sociali al monitoraggio delle disposizioni piuttosto che sancisce un momentaneo affidamento del minore al servizio stesso al fine di gestire i conflitti genitoriali e/o situazioni pregiudizievoli.

Ad interesse del minore, il Giudice può rivolgersi ad un CTU piuttosto che ai servizi territoriali che lavorano a sostegno delle famiglie e nella tutela dei minori, quali il Consultorio Familiare, il Servizio per l’Età Evolutiva e i Servizi Sociali del Comune,  in tutte quelle situazioni che richiedono un approfondimento, una valutazione e/o un lavoro di sostegno a favore di nuclei familiari caratterizzati da complessità e conflittualità. Quindi sia in fase valutativa delle risorse sociali, familiari e genitoriali, che in fase post giudiziale, per un sostegno alla genitorialità piuttosto che per interventi terapeutici, possono essere coinvolti al fine di assicurare il miglior intervento possibile per l’interesse del minore.

La Famiglia da contenitore a contenuto

La società così come la conoscevamo, così come è stata pensata dalla Costituzione Italiana, una famiglia patriarcale con precisi ruoli e doveri oggi ha subito una profonda e radicale trasformazione, in cui i ruoli e i doveri tendono a non essere rigidi e a coesistere maggiori parificazioni di doveri tra i coniugi: non si può più parlare di famiglia al singolare ma bensì al plurale. Esistono diverse forme di famiglia: dalle convivenze, alle famiglie ricomposte, monogenitoriali, alle coppie senza figli, alle famiglie con genitori dello stesso sesso e così via.

Da un lato la famiglia perde quell’imprescindibile valore del per sempre, che imponeva parametri standard ai quali ogni membro doveva adeguarsi, in cui i sentimenti non avevano spazio se non all’interno del contenitore “famiglia”. Approda ai giorni nostri a famiglia acquisendo un valore per lo più emotivo, in cui ogni singolo membro apporta il proprio contributo, famiglia è tale se considerata tale dal singolo membro di essa. Di contro la famiglia ha luogo ed esiste fino a che soddisfa il desiderio e i bisogni dell’individuo, il quale singolarmente può decidere di mettervi fine.

I legami familiari vengono vissuti come deboli, cosa che non facilita gli individui nella scelta di un investimento su questi, più sono deboli meno investiamo, riprendendo Bauman

la cultura consumistica tipica dell’odierno mondo occidentale ha contagiato anche i legami affettivi e sentimentali.

Vivendo la contraddizione legata al desiderio di vivere un amore autentico e la paura di un legame esclusivo, stabile e perciò da Bauman definito “Amore liquido”, si consuma come qualsiasi altro prodotto, divenendo fragile e incerto.

I motivi che possono portare una coppia alla separazione e al divorzio possono essere molteplici, spesso uno dei due si rende conto che l’altro ha disatteso le sue aspettative e si vuole riparare attraverso lo scioglimento degli accordi presi.

Il processo di separazione, sia per il coniuge che sceglie tale percorso, che per il coniuge che ne subisce la scelta, è un percorso di sofferenza e rimodulazione della propria identità che fino a quel momento era chiara e definita. La separazione da un coniuge è un momento di grande stress emotivo, lo si può definire un vero e proprio evento traumatico, l’adulto può cogliere questo momento di criticità per crescere nuovamente e ri-generarsi oppure come molto spesso vediamo accadere, nella pratica clinica e giuridica, restare sul dolore attivando una condizione di non risoluzione, in quanto si adoperano tutte le energie in una lotta continua senza possibilità di evoluzione. In questi casi i coniugi non riescono a raggiungere il divorzio psichico, ma si impegnano nella guerra in cui uno dei due deve sconfiggere l’altro punendolo, questo tipo di legame lo definiamo disperante. Il legame disperante non può essere un legame vivo in quanto percepito come distruttivo ma non può neppure essere reciso in quanto vissuto in maniera eccessivamente angosciante.

L’obiettivo di distruggere l’altro prende ogni campo della vita: economico, sociale, familiare e soprattutto filiale.

I figli di queste coppie perdono il loro ruolo di centralità, e iniziano ad assolvere a ruoli che di volta in volto “servono” al genitore, a volte sono ostaggi e strumenti di ricatto o di rivalsa economica, attraverso il mantenimento degli stessi. Le esigenze evolutive dei figli iniziano ad essere sempre più invisibili, questo è tra i fattori di rischio evolutivo, secondo fattore di rischio è rappresentato dall’impossibilità del minore, all’interno di un clima ostile e conflittuale, di esprimere le proprie emozioni ai genitori. Messi al centro del conflitto tra gli adulti di riferimento vengono posti in condizione di scegliere un genitore piuttosto che l’altro, catapultandosi nel caos emotivo tra sensi di colpa, senso di perdita, abbandono e rabbia.

Ci troviamo dinanzi a sempre più figli costretti a scegliere un genitore e a subire l’opera denigratoria non solo del genitore reale, ma anche dell’immagine intera che si ha del genitore, minando quindi l’immagine di sé, l’autostima e la propria base sicura. Il coniuge che ostacola la frequentazione tra l’ex coniuge e il figlio, o il genitore che allenta la frequentazione a causa del conflitto, non solo fa vendetta di sé, ma imprime una ferita interna al figlio che difficilmente sarà risanata da adulto.

In questi scenari di grande conflittualità all’interno dei processi di separazione coniugale non di rado si trovano manifestazioni di rivalsa di ogni genere, ma resta privilegiata la rivalsa sui figli minori, spesso si parla del fenomeno di Alienazione Parentale, riconosciuto a livello giuridico meno da un punto di vista psicologico, infatti anche il DSM non ne dà un riconoscimento a pieno titolo se non nell’ultima versione: il DSM-5 parla di disturbo d’ansia da separazione, tra i problemi legati all’educazione genitoriale, se ne parla come patologia relazionale, quindi non di tipo endogeno ma “iurigena”, legata al coinvolgimento del minore nel procedimento giudiziario.

L’alienazione parentale coinvolge la triade madre-figlio-padre, è più frequente trovare la figura paterna come genitore alienato nella pratica forense.

Prendiamo come riferimento i 12 criteri dell’alienazione parentale di Gardner, ognuno di essi ha un grado lieve, moderato e severo:

  1. Campagna di denigrazione;
  2. Razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il biasimo;
  3. Mancanza di ambivalenza;
  4. Fenomeno del pensatore indipendente;
  5. Appoggio automatico al genitore ”amato” e alienante nel conflitto genitoriale;
  6. Assenza di senso di colpa per la crudeltà e/o l’insensibilità verso il genitore alienato;
  7. Presenza di scenari presi a prestito;
  8. Estensione dell’ostilità alla famiglia del genitore odiato;
  9. Difficoltà di transizione al momento delle visite;
  10. Comportamento durante le visite presso il genitore alienato;
  11. Legame con il genitore alienante;
  12. Legame con il genitore alienato (prima che intervenisse il processo di alienazione).

Si tratta di un fenomeno poco studiato per la sua natura privatistica e per la caratteristica soggettiva, in quanto non vi è solo la denigrazione di un genitore sull’altro ma il contributo soggettivo del figlio. Infatti, il minore ascoltato in sede giudiziaria motiverà precisamente il rifiuto di frequentare l’altro genitore, saranno motivazioni solo in apparenza valide, in quanto non auto prodotte ma prese “in prestito” dal genitore alienante. Tale fenomeno crea uno scenario familiare disfunzionale causato dall’instaurazione di un rapporto fusionale tra genitore alienante e figlio, in cui entrambi condizionano l’altro e nessuno sviluppa indipendenza e maturità. Infatti, potremmo affermare che l’efficacia del condizionamento psicologico sui bambini da parte del genitore alienante è inversamente proporzionale alla qualità del rapporto alienato-figli.

Secondo Cavedon (Gulotta, Cavedon e Liberatore, 2008) il genitore alienato presenta questo profilo personologico:

  • essere il responsabile della fine del matrimonio o comunque della relazione;
  • avere un atteggiamento passivo e ambivalente con l’ex partner, oppure aggressivo in questioni relative all’affido, cosi` da poter essere ritenuto la causa di tutti i problemi.

Seguendo le indicazioni di Cavedon e Liberatore (2014), l’alienazione si sviluppa grazie al conflitto di lealtà che il minore mostra nei confronti del genitore alienante, il quale impone al figlio la condivisione del proprio vissuto emotivo nei confronti dell’altro. Il figlio non fa altro che offrire lealtà incondizionata al genitore manipolatore convinto che questi possa prendersi cura di lui e amarlo: più dimostra lealtà nei confronti del genitore alienante, rimuovendo i propri sentimenti nei confronti dell’altro genitore, più aumenta nel bambino la percezione di protezione e tutela.

Il fenomeno dell’alienazione parentale può essere riscontrato, ad oggi, in via esclusivo in sede di CTU, durante l’iter giudiziario relativo all’affidamento dei minori, le indicazioni di intervento vengono quindi normate da una sentenza del tribunale. Nei casi più gravi di alienazione parentale è solito il collocamento del minore in una struttura residenziale protetta dove lo stesso ha l’opportunità di effettuare un proprio percorso evolutivo e psicologico al di fuori di influenze genitoriali, collateralmente permettendo ad entrambi i genitori la possibilità di recuperare le proprie competenze genitoriali da poter sostenere il cambiamento del minore. Questi interventi nell’ottica di un progetto in cui il minore e il suo benessere torna al centro della vita degli adulti.

Ad oggi è ancora poco riconoscibile l’Alienazione Parentale, non consentendo in tempi rapidi un intervento da parte delle autorità Giudiziarie preposte a fare gli intressi del mnore qualora non ne siano in grado i genitori.

 

Corpi borderline. Regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità (2020) di C. Mucci – Recensione del libro

L’autrice in questo saggio propone un modello integrato per il trattamento dei disturbi di personalità ad organizzazione borderline.

 

Clara Mucci, clinica e studiosa di formazione dinamica, pone l’attenzione alla psicopatologia della mente inconscia e alla psicofisiologia dello stress dei corpi borderline. Ciò che ho trovato particolarmente interessante di questo manuale è l’ampia integrazione tra modelli psicoanalitici classici, modelli più recenti e le neuroscienze.Le fonti cliniche di riferimento sono piuttosto variegate a spaziano dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby, agli studi più recenti di Liotti, Fonagy e Ferenczi su trauma e dissociazione, il contributo di Kernberg sulla diffusione dell’identità e in particolare il lavoro di Allan Schore sul trauma relazionale infantile.

La tesi centrale dell’autrice, ben delineata nel primo capitolo, afferma che il corpo sia il tramite essenziale nella relazione tra sé e l’altro e che una fondamentale espressione clinica dei disturbi di personalità risiede nelle difficoltà relazionali, ma anche nelle disregolazioni corporee. Per Mucci il corpo è un deposito di trasmissioni intergenerazionali che sono responsabili di un innesto traumatico derivato dal trauma relazionale infantile e della conseguente disregolazione affettiva. Il modello clinico dell’autrice, in accordo con quello di Schore ritiene che ad esperienze traumatiche interpersonali più precoci corrispondano profili di personalità con gravi traumatizzazioni, in un continuum che va dalle personalità antisociali (le più precoci e intense traumatizzazioni) al disturbo borderline e narcisistico che si sviluppano in seguito a traumi che hanno avuto luogo in un periodo successivo, ascrivibili comunque entro i primi tre anni di vita.

Traumi relazionali precoci alterano i circuiti limbico-autonomici dell’emisfero destro, con scarsa connessione tra corteccia orbitofrontale e amigdala e una prevalenza, sotto stress, di reazioni difensive dissociative, impulsività e disregolazione emotiva. La relazione di attaccamento tra bambino e caregiver incomincia già durante il periodo della gravidanza, con il rilascio di sostanze in grado di regolare o disregolare l’arousal del feto. Le esperienze di sintonizzazione e mancata sintonizzazione danno forma al potenziale genetico del bambino e quindi agiscono come regolatore o disregolatore dei sistemi biologici e psicobiologici. La madre forma la struttura psichica della personalità in evoluzione, così come della mente e del corpo. Anche le caratteristiche dell’ambiente sociale del bambino attorno alla relazione con la madre attivano modificazioni epigenetiche.

Il modello di trattamento proposto dall’autrice prevede che la sintomatologia del sé corporeo, nei disturbi gravi di personalità, sia fondamentale per comprendere e ricostruire le relazioni traumatiche precoci inscritte nel corpo-mente-cervello. La fase iniziale del lavoro si basa sull’alleanza terapeutica necessaria per stabilire un sistema di comunicazione e regolazione degli affetti. Il terapeuta deve essere uno specchio non nel replicare le emozioni e le espressioni del paziente, ma nel fornire una raffinata sintonizzazione e un’appropriata risposta emotiva che il paziente ha cancellato in modo difensivo, permettendo così di entrare in contatto con le parti interne più profonde. Ciò è possibile solo attraverso la relazione con un altro, testimone benevolo, interessato e sintonizzato durante questo viaggio di scoperta interiore.

La lettura è resa scorrevole ed interessante dalla presentazione di vari casi clinici, approfonditamente descritti secondo il modello clinico di riferimento. Per ciascun caso clinico viene presentata una prima parte di valutazione diagnostica per poi percorrere tutte le fasi del trattamento, mostrando in dettaglio sia il lavoro di transfert e controtransfert, sia il lavoro sulla sintomatologia. Si susseguono casi di pazienti con funzionamento borderline e sintomatologia bulimica, autolesionista, per poi approfondire casi di pazienti narcisisti con aspetti di perversione, sintomi psicosomatici e ipocondria. Numerosissimi sono i riferimenti all’attività delle memorie implicite inconsce (ovvero schemi relazionali precoci preverbali), formatesi nei primi anni di vita dal rapporto con il caragiver e  localizzati nell’emifero destro.

Compito del terapeuta in seduta è quello di aiutare il paziente nel fare luce su queste memorie implicite per lo più corporee e non verbali. In tal modo il lavoro terapeutico è in grado di incrementare le connessioni cerebrali del paziente tra il sistema limbico e la corteccia orbitofrontale, in una danza riparatoria di precedenti esperienze relazionali. La forza innovativa del manuale è proprio questa ricca integrazione tra casi clinici, psicologia, biologia e neuroscienze.

 

L’MCT è utile per le psicosi?

Lo studio di Ishikawa e collaboratori (2020) ha valutato l’efficacia di un training metacognitivo (MCT) in 50 pazienti giapponesi con schizofrenia, disturbo schizotipico e disturbi deliranti (ICD-10), proponendo uno studio controllato randomizzato per testare l’efficacia sui sintomi positivi della versione più recente ed estesa dell’MCT.

 

I disturbi legati alla schizofrenia sono una forma comune di psicosi. In episodi acuti, deliri e allucinazioni possono causare disconnessione dalla realtà, oltre a rappresentare un rischio per la durata della vita, di 14,5 anni inferiore rispetto alla media (Hjorthøj et al., 2017).

Per il trattamento di questo spettro di disturbi l’utilizzo dei farmaci antipsicotici è comune, nonostante la loro efficacia sia stata dibattuta, in quanto anche gli antipsicotici di seconda generazione (o atipici) non hanno del tutto soddisfatto le alte aspettative iniziali (Kendall, 2011); per quanto riguarda i sintomi positivi (deliri e allucinazioni), la farmacoterapia antipsicotica atipica appare appena migliore dei placebo, e le ricadute si verificano in circa un quarto di tutti i pazienti (Leucht et al., 2003, 2009).

Diversi approcci psicologici, in particolare di stampo cognitivo-comportamentale (CBT), sono stati sempre più adottati come strategie complementari ai farmaci antipsicotici (Sivec & Montesano, 2012; Wykes et al., 2008).

Uno studio recente (Ishikawa et al., 2020) ha valutato l’efficacia di un training metacognitivo (MCT) di 10 moduli recentemente sviluppato dall’University Medical Center Hamburg-Eppendorf in 50 pazienti giapponesi con schizofrenia, disturbo schizotipico e disturbi deliranti (ICD-10), proponendo uno studio controllato randomizzato per testare l’efficacia sui sintomi positivi della versione più recente ed estesa dell’MCT – che include anche due moduli sull’autostima e sullo stigma, due punti critici di questo disturbo (Sundag et al., 2015; Świtaj et al., 2015). I 50 pazienti sono stati assegnati in modo casuale al trattamento di routine (TAU) (n=26) o al trattamento TAU + MCT (n=24), della durata di dieci settimane.

I pazienti sono stati sottoposti a testistica in quattro diversi momenti: alla baseline, dopo sei settimane dall’inizio del trattamento, immediatamente dopo il trattamento e un mese dopo la fine del trattamento.

La Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS) (Kay et al., 1987) è stata utilizzata per misurare la sintomatologia psicotica positiva; il General Assessment of Functioning (GAF) (American Psychiatric Association, 2000) per la valutazione del funzionamento generale del paziente; il Cognitive Biases Questionnaire for psychosis (CBQp) (Peters et al., 2014) per la valutazione delle distorsioni cognitive; la Beck Cognitive Insight Scale (BCIS) (Beck et al. 2004) per la misurazione dell’insight; il Beck Depression Inventory version 2 (BDI-II) (Beck et al., 1996) per la valutazione dei sintomi depressivi; il 5-Level EQ-5D (EQ-5D-5 L) (van Hout et al., 2012) per la valutazione della qualità di vita.

Dai risultati della ricerca si è visto che i partecipanti al gruppo TAU+MCT hanno mostrato maggior beneficio rispetto a quelli del gruppo TAU per quanto riguarda i sintomi positivi (specialmente i deliri) dopo il trattamento, cosa che si è mantenuta nel follow-up a un mese dopo.

Maggior beneficio è stato riscontrato anche per quanto riguarda il funzionamento generale e, parzialmente, sui bias cognitivi. Nessuna differenza significativa per quanto riguarda i livelli di insight, i sintomi depressivi e la qualità della vita.

Questi risultati sono importanti non solo per la ricerca al servizio della pratica clinica, che non deve mai smettere di cercare soluzioni più efficaci per i problemi psicopatologici, ma anche perché supportano l’ipotesi che un modello (meta)cognitivo occidentale possa essere efficace anche per una cultura non occidentale (Ishikawa et al., 2017).

 

Come percepisco le mie emozioni quando indosso la mascherina: embodied cognition ed implicazioni terapeutiche

Tutti noi, di questi tempi, conosciamo la sensazione di disagio nell’indossare la mascherina, obbligatoria per la protezione dal CoVid-19.

 

Molte riflessioni sono state fatte sulle ricadute che il volto coperto può avere nelle relazioni interpersonali. Sappiamo che si possono capire al meglio le emozioni dell’altro se ne vediamo il viso completo, tramite il sistema dei neuroni specchio, che di fronte ad una persona con la bocca coperta siamo meno abili nel distinguere le sue emozioni, in particolare la gioia ed il disgusto e che il blocco del proprio mimetismo facciale diminuisce l’accuratezza nella comprensione delle emozioni altrui.

Ma cosa accade alle nostre emozioni quando la loro espressione somatica è parzialmente ostacolata dall’utilizzo delle mascherine?

Secondo l’embodied cognition noi conosciamo il mondo attraverso il nostro corpo, con il corpo possiamo agire sulle nostre cognizioni e sugli stati mentali ed i cambiamenti della postura e della mimica facciale incidono sulla nostra percezione. In particolare, secondo la Facial Feedback Hypothesis, il movimento dei muscoli del viso comunica ciò che proviamo non solo agli altri ma anche a noi stessi. Tornando a Charles Darwin: amplificare o inibire l’espressione di un’emozione incide sulla sua intensità percepita della stessa.

Gli studi condotti sull’argomento, in cui ai partecipanti era stata indotta meccanicamente un’inibizione dell’espressione emotiva, per esempio tenendo una penna in bocca o bloccando alcuni muscoli del viso attraverso l’iniezione di una tossina botulinica, hanno dato risultati concordanti con l’ipotesi precedente.

Unendo l’esperienza clinica, gli studi citati e le sensazioni personali, possiamo ragionevolmente supporre che la mascherina sul viso possa essere conside­rata un impedimento fisico alla piena espressione facciale delle emozioni, con tutte le conseguenze che ne derivano. Con il viso parzialmente coperto possiamo trovare maggiori difficoltà a comprendere quali emozioni stiamo provando e possiamo percepirle meno intense.

Se questo fenomeno è facilmente superabile nei soggetti sani, che probabilmente lo compensano in modo spontaneo, maggiori difficoltà possono trovarsi in persone affette da disturbi di personalità, guidate tipicamente da schemi interpersonali disfunzionali, con una forte componente affettiva incarnata spesso poco consapevole. In ogni caso, che sia per il fenomeno dell’embodied cognition, per le difficoltà di comprensione dell’emozione altrui a causa del viso coperto o per i disagi dovuti al senso di “stranezza” nell’indossare una maschera di fronte al proprio terapeuta, è necessario ripensare alle terapia vis à vis in studio tenendo conto della presenza delle mascherine.

Come possiamo aiutare il paziente in terapia a superare questa impasse?

Molti psicoterapeuti hanno optato per la psicoterapia online, per motivi di sicurezza e per ovviare alla restrizione del setting causata dalle mascherine. Quando questo non è possibile e scegliamo di lavorare in studio, occorre compensare con interventi diretti al setting, alla relazione ed alle tecniche corporee. Per chi ancora usa la scrivania può essere il momento di spostarsi sulle poltrone, per avere una visione completa del corpo dell’altro e della sua postura, che compensa in parte la mancanza di informazioni provenienti dalla parte inferiore del viso.

La gestualità tutta italiana nel parlare ci viene in aiuto, enfatizzando la comunicazione di ciò che proviamo e talvolta lasciando poco spazio all’interpretazione!

Gli interventi sulla relazione possono essere ancora più incisivi. Occorre verbalizzare molto ciò che proviamo, chiedere frequenti feedback sulle emozioni del paziente, aiutandolo a spostare l’attenzione dal ragionamento alle emozioni. La terapia dovrebbe essere sempre più calda e vivace.

Utilizzare le tecniche corporee ci aiuta sempre, a maggior ragione in queste circostanze: se induciamo in immaginazione un’emozione, possiamo aiutare il paziente a percepirla, nominarla, individuare le sensazioni somatiche ad essa correlate e memorizzarle per favorirne il riconoscimento anche al di fuori dello studio.

Probabilmente l’uso delle mascherine ci porterà a cambiare abitudini e a spostare la nostra attenzione sulla parte superiore del volto altrui, restituendo agli occhi il valore di “specchio dell’anima”, in attesa di poter rivedere il viso completo dei nostri pazienti e poter mostrare il nostro in completa sicurezza.

 

Musicoterapia, “arte effimera” ed efficace al tempo del coronavirus

Mi sono chiesta: cosa scelgo? Aspettare la fine del lockdown perché non si può fare musicoterapia senza la presenza della persona, senza la risonanza corporea suscitata dal pianoforte a coda, o mi metto in gioco, ricerco modalità nuove?

 

Il segreto della musica risiede tra la vibrazione di chi suona e il battito del cuore di chi ascolta (Gibran)

Effimero…. Dal latino ephemĕrus a sua volta derivato dalle due parole greche sopra e giorno, significa “che dura un solo giorno”.

Niente è più effimero della musica, non si tocca, non si vede… si ascolta, si suona, ma ogni accordo, ogni singolo suono dura anche meno di un istante per lasciare il posto a quello successivo. Eppure nella fusione di tanti singoli attimi sonori nascono musiche capaci di commuoverci, cioè di smuoverci dentro, di farci sorridere, piangere, sognare, sperare, pregare, amare…

L’arte effimera si fonda sul principio che ciò che conta è il percorso di creazione, il tempo, la durata, l’azione stessa di far nascere qualcosa di unico a partire, magari, da pochi elementi.

Torno con il pensiero alla mia infanzia. Adoravo preparare giochi. Disponevo le mie bambole o le mie barbie secondo l’ordine che avevo immaginato; quando ero un po’ più grande, le vestivo e curavo nei particolari. Oppure costruivo casette, allestivo negozi di frutta e verdura, e così via, ma poi quando tutto era pronto, cadeva l’interesse e non giocavo più. Quando sono diventata mamma ho giocato tanto con le mie bambine. Ricordo che anche con loro trasformavamo il divano in una tana, una casetta tutta per loro, oppure costruivamo con i lego abitazioni per i loro pupazzetti. Poi al momento di iniziare il gioco sentivo quella strana noia che avvertivo da bambina. Mi sono chiesta tante volte il perché. Poi ho capito che ciò che mi affascinava era il percorso, era l’azione creativa in sé, prima ancora del risultato e dell’effettiva possibilità di “usare” il materiale preparato.

Nella mia professione di musicoterapeuta sperimento quotidianamente l’arte effimera della musica. Musicoterapia è arte della comunicazione.

Musica, arte, comunicazione, tre termini che si richiamano l’un l’altro nel senso di un agire comune che scaturisce dal suono, dalla musica, perché la musica è dentro l’uomo prima ancora che esserne una sua produzione, per creare un dialogo, un ponte di collegamento, per superare chiusure, per sondare profondità emotive inesplorate, per scoprire o riscoprire la gioia di vivere.

Ma tutto ciò avviene a condizione che la musicoterapeuta sappia creare un dialogo sonoro con l’altro, che sappia leggere e tradurre in suoni non solo la sua corporeità, ma la persona nella sua interezza, e che lo sappia fare in modo bello e autentico. L’improvvisazione comunicativa è pienamente arte effimera. Ciò che conta non è la produzione musicale in sé, ma ciò che scaturisce dal suonare osservando e osservare suonando, come diciamo in gergo stretto. Più la musica rispecchia il bambino come “partitura vivente”, più è bella, perché anche i gesti più scoordinati, la voce più sgraziata, o i silenzi più tenebrosi, possono diventare musica che, attraverso la risonanza corporea (il bambino è seduto o sdraiato sul pianoforte a coda) fa convibrare il suo corpo e suscita in lui emozioni.

In questo tempo di isolamento ho scelto di essere vicina alle famiglie che seguo in musicoterapia proponendo loro una videochiamata settimanale (Fig. 1). Consapevole da subito che senza la presenza concreta, reale, del bambino avrei incontrato tanti limiti direi strutturali, non mi sono fatta abbattere, né da dall’impossibilità di avere il piccolo sul pianoforte, né dall’impossibilità di donargli una musica di qualità (il suono che arriva è talvolta molto metallico).

Musicoterapia cambimento degli interventi durante il periodo di lockdown Imm 1

Fig. 1: Videochiamata tra la musicoterapeuta e le famiglie

Credo che ogni situazione di vita possa insegnarci qualcosa. E ora, dopo qualche settimana di sperimentazione in questo senso, posso dire che sto imparando tanto.

E’ una gioia per me rivedere i volti cari dei bambini di settimana in settimana, e mi sto rendendo conto che è sempre più un momento atteso, non solo da loro, ma anche dalle loro famiglie. La mamma di Andrea (tutti i nomi sono inventati) ha raccontato che il bambino, quando veniva a terapia, esultava di gioia all’ultima curva, prima di parcheggiare l’auto. Quel posto noto, era per lui il segnale che l’ora di musica era finalmente arrivata. Ora accade la stessa cosa con il telefono. Quando la mamma chiama Andrea perché sta squillando il telefono per la videochiamata, lui grida di gioia, proprio come faceva in auto, un attimo prima di scendere.

Le attività proposte ai bambini sono molto varie, come è variegato il mondo famigliare che incontro al di là dello schermo. Ci sono famiglie che si preparano al momento e li trovo seduti al tavolo, papà, bimbo/a, mamma pronti a giocare, cantare, suonare insieme. C’è chi tira fuori dagli armadi piccoli strumenti musicali e chi li costruisce con gusto e fantasia, chi usa oggetti di recupero (pentole che diventano tamburi, pennarelli che fungono da legnetti), chi ha preparato immagini con le filastrocche del nostro repertorio.

Anch’io sto imparando. All’inizio pensavo di fare una chiamata di un paio di minuti. Ho organizzato un orario con una telefonata ogni quarto d’ora. Ben presto mi sono resa conto che quindici minuti sono un soffio. I bambini ascoltano, cantano, suonano, le famiglie sono coinvolte. Scaduto il tempo, davvero effimero, troppo fugace, sono sollevate, ma un poco dispiaciute. Ecco allora che ad alcuni ho proposto di fare telefonate di mezz’ora.

Si è reso necessario pensare e creare materiale da inviare in modo che i bambini, a seconda dell’età e del loro livello possano avere tra le mani spartiti adatti alle loro capacità, filastrocche illustrate, foto degli strumenti musicali che usiamo solitamente per il gioco del riconoscimento dei timbri sonori. Sì, perché forse è difficile crederlo, ma anche questo è possibile fare attraverso e nonostante il telefono.

Ah, dimenticavo, quelli di cui ho parlato sono bambini con autismo, sindromi genetiche, ipovisione, ritardi cognitivi e del linguaggio, paralisi cerebrali infantili….

Qualche volta riesco a dedicare un po’ di tempo anche ai genitori, al termine del nostro incontro virtuale, quando i bimbi ormai sono stanchi e soddisfatti.

Ritorno alla definizione di Musicoterapia come arte della comunicazione. Sto facendo terapia attraverso le videochiamate? Probabilmente no, ma non è questo il mio problema. Sto comunicando? Sicuramente sì, in modo nuovo. Se nel farsi carico della terapia c’è spesso anche la rottura degli schemi del bambino per favorire la sua apertura alla novità che la musica porta in sé e quando diventa dialogo, credo che la prima a rompere i propri schemi, in questo caso sono stata io.

Mi sono chiesta: cosa scelgo? Aspettare la fine di questo lungo periodo perché non si può fare musicoterapia senza la presenza della persona, senza la risonanza corporea suscitata dal pianoforte a coda, o mi metto in gioco, mi apro al nuovo, ricerco modalità nuove e diverse per comunicare con i miei piccoli pazienti e farlo in modo artistico, bello, divertente, per spezzare l’isolamento, per rompere la solitudine, per farmi sentire vicina a tante famiglie?

Ecco allora che una telefonata apparentemente effimera diventa speranza, attesa, rompe la routine, è occasione di confronto, di continuità, di condivisione. Dura pochi minuti, ma ciò che lascia è duraturo ed ha un valore profondo. Certo non mancano le criticità perché vivere l’incontro attraverso lo schermo può essere più frustrante per alcuni bambini e sicuramente più faticoso per i genitori che devono coinvolgersi in prima persona per creare una sorta di cassa di risonanza che favorisca il coinvolgimento del proprio bambino.

Ma purtroppo in questo momento non abbiamo altre possibilità. Dopo qualche settimana di sperimentazione ho chiesto ai genitori come vivono questa nuova modalità di incontro.

Qui di seguito la testimonianza di alcuni di loro.

Scrivono i papà di due bimbi di 7 e 6 anni con autismo: “Questi dieci, quindici minuti diversi della giornata e della settimana servono molto a Nicola (tutti i nomi sono inventati) e gli fanno più che bene perché ti vede [si rivolge a me] e sente la tua voce, oltre che il suono del pianoforte. Questo momento difficile che tutti noi stiamo passando, lo è particolarmente per lui e per i bimbi con difficoltà simili. Il relazionarsi è uno dei problemi principali per loro…qualsiasi relazione intraprendano in questo momento è un toccasana”.

Le terapie musicali con Paola, durante la “clausura”, si sono dimostrate di grande aiuto per Giorgio, gli hanno permesso di spezzare le interminabili giornate in casa. Inoltre l’incontro, anche se breve, ha una sua ritualità: ascoltiamo Paola suonare con la figlia Dolce sentire in una loro registrazione per arpa e violoncello, Giorgio la riconosce e comincia ad aspettare la chiamata. Lui non è sempre attento ma una volta terminato l’incontro virtuale, intona da solo le canzoni della lezione. È una bella esperienza che apprezziamo e ci aiuta molto”.

Anche la mamma di Riccardo risponde alla mia domanda di commentare questo nuovo corso di sedute online.

Dopo tanti anni di musica con Paola, Riccardo ha fatto tanti progressi e iniziato a fare cose impensabili. Poi l’interruzione di tutto e il tutti a casa! […] Durante la prima videochiamata si è emozionato molto, poi ha sentito il suono del pianoforte e le note delle canzoni che conosce…. Per lui non è facile ascoltare, guardare Paola, cantare e seguire lo spartito con le note musicali. Ma si diverte.

In questi mesi sto imparando proprio dal mio bambino che se anche io cerco di mettere in fila tutto per dargli più opportunità e permettergli di fare tutte le esperienze a lui possibili, a volte la realtà può sorprenderci e anche negli imprevisti più impensabili, c’è nascosta una possibilità. In fondo nella mia vita Riccardo è stato ed è, nonostante tutto, un imprevisto meraviglioso!”.

Aggiunge la mamma di Elisa (sindrome di Rett, 14 anni) “In questi anni, con l’aiuto della musicoterapia e di Paola, siamo riusciti ad avere miglioramenti a livello respiratorio, di motricità fine e comunicativo. In questo periodo difficile, quando siamo stati costretti a sospendere tutte le terapie, devo essere sincera, sono entrata in crisi, la paura di vedere Elisa regredire mi spaventava, ma la proposta di fare musicoterapia tramite videochiamate mi ha allettata. Elisa è sembrata da subito entusiasta e felice nel vedere Paola, così abbiamo allungato la durata dell’incontro a mezz’ora. Un altro aspetto molto divertente è la collaborazione della sorella Nadia di 8 anni. Lei dice che è molto contenta di poter interagire con la sorella e di poterla aiutare. In quei trenta minuti la trova più tranquilla e si rende conto che Elisa è felice di suonare e condividere questo momento con lei”.

Scrive la mamma di Lorenzo, 16 anni, con problemi visivi: “Per noi è molto bello mantenere il ritmo delle attività con Lorenzo. In questo periodo faticoso per tutti, stiamo mantenendo un minimo di routine settimanale. Lorenzo ha accolto bene questa modalità di lezione, anche se per lui è faticoso mantenere la concentrazione e fa un po’ di fatica a capire la gestione degli spartiti musicali inviati. Comunque aspetta con ansia l’incontro con Paola… la cosa che notiamo è che dopo l’incontro canticchia le canzoni e rimane coinvolto dalla musica ancora per un’oretta. Lorenzo mi ha detto che gli piace molto la lezione fatta così perché vede Paola e canta le note. Però gli manca il pianoforte!

Molti ancora sono gli scritti giunti a me dalle famiglie, questi sono stati scritti per condividere con il lettore un percorso inventato in questo duro tempo di isolamento per non lasciare sole le famiglie e mantenere il contatto con i bambini.

Concludo con il pensiero della mamma di Roberto, 6 anni con autismo.

Una piccola finestra sulla vita di prima… Le videochiamate aiutano il mio bambino a capire che il mondo di prima non è sparito. Le persone con le quali abbiamo intrecciato relazioni ci sono e le possiamo vedere. Proviamo anche a fare le cose che facevamo prima insieme… la relazione si ricostruisce… la musica fa da ponte tra noi… lontani, ma vicini”.

Con queste parole così profonde e così vere, ritorno con il pensiero alla frase iniziale di Gibran: “Il segreto della musica risiede tra la vibrazione di chi suona e il battito del cuore di chi ascolta”.

Ho ascoltato quel battito, ho sentito il dolore e l’insofferenza di genitori e bambini chiusi nelle loro case e ho reagito, reinventandomi la seduta di musicoterapia, e adattandone modi e contenuti ad ogni singola situazione. E i frutti di questa scelta non mancano!

Così oggi vedo e sento la forza e la bellezza di quel segreto… anche a distanza!

 

La scienza e la vita ordinaria. Dall’emergenza covid all’etica dell’intervento psicologico

La scienza è risultata uno fra i tanti fattori nel gioco di una realtà multidimensionale, accanto a quello politico, sociale, economico.

 

E’ ormai chiaro a tutti: la scienza ha mostrato i suoi confini e la sua natura post-positivista. Eravamo nel ‘post’ già da tanto tempo, ora è apparso evidente ai più. Non si tratta di sterili e inessenziali – alla vita ordinaria – questioni epistemologiche sul concetto di scienza e sui suoi procedimenti, sul rigore logico dei suoi metodi, ma di ricollocare il suo tassello nella casella appropriata, ricordare che essa non è solo materia da laboratorio sperimentale ma fattore fondamentale a governo della nostra vita concreta.

L’esperienza drammatica del covid-19 lo ha imposto brutalmente, ce lo ha messo davanti agli occhi come una allucinazione che non può essere negata, più reale di qualsiasi realtà avremmo potuto ‘allucinare’. Ma nessuno scandalo. Quando si afferma o si sente dire: “Lo dice la scienza”, “Lo dimostra la scienza”, innanzitutto, non si può dimenticare che essa non è un monolite, e, in secondo luogo, che il concetto stesso di scienza è andato evolvendosi continuamente nel corso della storia. Dalla concezione dimostrativa, di tradizione aristotelica a quella descrittiva di Bacone e Newton dell’osservazione empiristica dei fatti, a quella popperiana di autocoreggibilità e via proseguendo. Attraverso un itinerario lungo e tortuoso, oggi la scienza vera sa che non può arrogarsi una pretesa di garanzia assoluta e, quando lo fa, può raggiungere vette grottesche e schernevoli; sa che i passi che fa sono sempre provvisori e smentibili.

Quello che ci ha insegnato la pandemia è che la scienza è una continua ricerca, produzione di fonti, ipotesi da vagliare. E ha mostrato quanto sia faticoso questo percorso. La creatività e l’operosità scientifica rappresentano il volano della ricerca e della tensione a scoprire nuove vie e vincenti soluzioni. Questo suo essere stata catapultata dall’empireo della certezza assoluta alla quotidianità sempre mutevole del dibattito pubblico ha prodotto una certa confusione, non solo di ruoli, ma anche dei limiti del sapere scientifico stesso, della sua apparente inadeguatezza a risposte univoche e immediate, spesso tra interessi in collisione e litigiosi.

La scienza è risultata uno fra i tanti fattori nel gioco di una realtà multidimensionale, accanto a quello politico, sociale, economico. Ovvero, di dimensioni umane. Il centro del dibattito deve ritornare prepotentemente a porre l’accento sull’uomo, cui tutte queste discipline sono funzionali. E’ quello che con termine ‘tecnico’ si usa chiamare etica, il riconoscimento del valore della persona nelle sue caratteristiche intrinseche ed essenziali. Il concetto di ‘etica’ si riferisce al comportamento umano nelle fattispecie concrete degli eventi che accadono e che ‘impongono’ la scelta di una azione deontologica. In questo senso il concetto di scienza si incontra con quello di etica, nella misura in cui il sapere – costruito per tentativi ed errori – può essere messo al servizio del bene comune. La figura dello psicologo, nella sua natura più essenziale, rappresenta colui che si rende umanamente disponibile a mettere al servizio della salute delle persone il proprio sapere, fatto di teorie e strategie tese al sostegno psicologico delle medesime. Diventa sempre più evidente, soprattutto in questa fase successiva alla crisi pandemica, che l’aiuto dello psicologo può risultare fondamentale: ‘può’ non nel senso di una validità probabile del supporto prestato, quanto al riconoscimento della sua efficacia ed accettazione della sua necessità (in situazioni emergenziali come quella che stiamo vivendo) da parte delle persone cui si propone l’aiuto. Questo passaggio dell’accettazione si fonda sulla considerazione mai data per scontata che il lavoro psicologico è un lavoro (percorso) eminentemente personale: la sua validità è oggettiva in sé, ma ha bisogno della consapevolezza della persona circa la sua pertinenza ed utilità alle sue problematiche. E’ il principio della libertà, cui sempre deve essere ricondotta la scelta di iniziare un percorso terapeutico. Iniziarlo è il risultato di una decisione, innanzitutto intima, strettamente connessa alla motivazione personale, fondamentale per il cambiamento. Si tratta del principio cardine di qualsiasi lavoro basato sulla libertà dell’individuo. Troppo spesso il terapeuta si ritrova investito di una responsabilità che appartiene al paziente: sulla durata della terapia, sui suoi costi, sulla sua efficacia, sulla guarigione pretesa. Non si deve invece dimenticare che un percorso psicologico si riferisce ad una conoscenza che non è quella delle scienze matematiche o mediche: prendo un farmaco perché ho mal di testa e il farmaco, senza il mio coinvolgimento, mi fa cessare il dolore (e in verità non sempre); non si riferisce alla misurazione di una funzione tra due variabili.

E’ una conoscenza di un dinamismo dinamico che è la persona, che si riferisce non tanto e non solo ad un aspetto specifico e particolare del mio corpo (anche se spesso l’entry point per un percorso psicologico è il sintomo) ma all’intera mia persona, che soffre e si ammala non solo fisicamente, ma anche nella espressione di una emotività e affettività che provocano uno squilibrio dell’intero organismo.

Una situazione drammatica come quella della pandemia ha mostrato in tutta la sua evidenza quanto ciò che emerge nel mondo reale ci determina, ci ‘costringe’ a certi comportamenti, ci muove inconsciamente in certe direzioni anche nella nostra vita onirica, mostrandoci una angoscia pervasiva, nonostante i nostri sforzi di sedarla. Molte ricerche e studi in questo periodo (quella del King’s College di Londra – sulla correlazione tra eventi stressanti e disturbi del sonno, o quella dell’Università di Harvard – sulla frequenza di incubi e sogni fobici durante la pandemia) hanno messo in evidenza le conseguenze inconsapevoli della percezione di non libertà e di costrizione relative alla nuova situazione di isolamento vissuto durante la fase del lockdown, le cui conseguenze non svaniscono con la semplice riapertura dei confini dei nostri spazi. Anzi, forse proprio tale apertura può far emergere i limiti che noi stessi percepiamo ancora dentro di noi: i confini oggettivi sono eliminati, ma quelli soggettivi rimangono in piedi, forse rafforzati dalle nostre dinamiche antiche.

Allora qual è il lavoro ‘etico’ che necessita in questa situazione? Come porvi rimedio? Certamente non eludendo il problema, non avendo timore di chiedere aiuto, partendo dalla consapevolezza che quello che abbiamo vissuto è un momento unico, non ci saremmo mai immaginati di viverlo, ma soprattutto è un evento comune, siamo tutti coinvolti. Questo rende meno ‘autoreferenziale’ il malessere soggettivo, meno ‘paranoico’ il riferimento delle circostanze come inevitabilità per la mia persona.

Soprattutto ora che vi è l’inizio di un ritorno alla normalità, anche lavorativa, è importante non sottovalutare lo stress legato alle dimensioni connesse alla ripresa delle attività. La psicologia è in grado di dare una risposta adeguata alle nuove angosce legate al vissuto esperito in queste nuove situazioni. Quando si parla della professione dello psicologo/psicoterapeuta ci si riferisce inevitabilmente a due dimensioni: a quella umana, la sensibilità e disponibilità del professionista come persona, e a quella tecnica, ossia l’insieme di strumenti e tecniche messe in campo dal professionista per porre e proporre il suo aiuto a favore dell’intera dimensione del benessere della persona. Non si dimentichi che il concetto stesso di salute è definito dall’OMS come quello stato di benessere psico-fisico e sociale, non esaurendosi semplicisticamente nella assenza di malattia o infermità di sorta. C’è inoltre un aspetto legato alla sensazione di perdere il controllo, da molti vissuto drammaticamente, come sta emergendo spesso dalla pratica clinica. Le certezze messe in discussione durante la pandemia, anche quelle scientifiche circa la natura del virus, possono aver precipitato l’individuo in un deserto di sabbie mobili dove le verità controllate e date per assodate sono state percepite improvvisamente come destabilizzanti il consueto equilibrio.

Ecco perché è importante affrontare un lavoro di consapevolezza, perché anche nelle situazioni meno controllabili si possa imparare quella resilienza tanto citata: il poter riemergere attraverso e grazie alle risorse personali, il cui primo passo è una conoscenza delle proprie dinamiche, dei significati dei propri vissuti e delle angosce correlate.

Tutto questo non può essere un lavoro che la persona fa da sola, almeno non sempre. E’ fondamentale la consapevolezza circa il fatto che, come professionista, lo psicologo può dare supporto attuando strategie pensate appositamente per la singola persona (perché il virus è uno ma il modo di vivere le paure ad esso connesse sono del tutto soggettive) e ricorrendo ad una profilassi adeguata alle situazioni concrete. Le strategie e le tecniche proposte dal professionista sono realmente in grado di contenere l’ansia, di lavorare sui sintomi cercando di svelarne i contenuti di significato che spesso possono affiorare e svelare alla persona stessa i suoi pattern ripetitivi di comportamento disfunzionale. Si possono sfruttare, infine, gli aspetti positivi che sono stati messi in evidenza durante il lockdown, come la possibilità di una diffusione di strumenti di aiuto a distanza, che consentono a tutti di scegliere un professionista anche non fisicamente vicino, creandosi una opportunità (restando nel proprio spazio, conosciuto e confortevole) che forse in tempi normali non avrebbe pensato di sfruttare. Ci possono essere (come dimostra la pratica clinica) dei vantaggi anche nella terapia online, con un setting terapeutico del tutto personalizzato e portato al paziente, che può fare emergere dinamiche diversamente nascoste.

Bodyfulness. La pratica della consapevolezza somatica (2020) di Christine Caldwell – Recensione del libro

Nel volume Bodyfulness – La pratica della consapevolezza somatica, l’autrice Christine Caldwell, manifesta sin dalla creazione di questo nuovo termine, il desiderio di mettere in primo piano un aspetto non realizzato del potenziale umano.

 

La bodyfulness inizia a svilupparsi quando prestate attenzione a ciò che la vostra forma fisica sta facendo o sperimentando, anche se si tratta di azioni familiari.. lavorate osservando semplicemente il vostro corpo in attività respingendo l’impulso a spiegare o a giudicare quello che state facendo o a pensare a qualcos’altro”.

Partendo dall’osservazione del corpo, nella sua forma e funzionamento, la terapeuta propone di lavorare a partire da otto principi quali: oscillazione, equilibrio, cicli di retroazione, conservazione dell’energia, disciplina, cambiamento e sfida, contrasto della novità, associazioni ed emozioni.

Il testo procede con la trattazione delle funzioni corporee che passano attraverso i quattro processi di respiro, percezione, movimento e relazione. E’ dall’esplorazione di tali processi che nelle ricerche teoriche ed esperienziali dell’autrice, diviene possibile aumentare la consapevolezza e la partecipazione dell’azione. Consapevolezza non considerata quale funzione mentale bensì quale processo sensoriale e motorio.

La filosofia, la psicologia e la teoria sociale collegate alla bodyfulness si snodano attraverso i capitoli e allo stesso tempo vi invitano a fermarvi e riflettere o fare esperienza diretta del vostro corpo e dei suoi movimenti, delle sue sensazioni, del suo respiro e delle sue relazioni con gli altri corpi”.

Il volume procede nel considerare i processi corporei esplorati in precedenza, in relazione alla comunità di appartenenza, e come le esperienze vissute o impedite contribuiscano alla costruzione della nostra eredità.

Il volume offre inoltre esercizi autonomi e non strutturati che possono essere integrati liberamente, una volta appresi nella quotidianità, ed altri afferenti ad un capitolo specifico e tratti da tradizioni esistenti, che hanno lo scopo di aiutare a ristabilire una vita somaticamente consapevole.

La sezione finale del libro contiene fonti, dettagli tecnici, curiosità e risorse riguardo tematiche, personaggi e pratiche da cui il libro ha tratto ispirazione teorica e pratica.

 

Covid-19: Acceptance and Commitment Therapy e il dolore per la perdita delle persone care – Report dal webinar della Dr.ssa Oppo

Il ciclo di lezioni proposto da Studi Cognitivi, per approfondire gli aspetti della sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, continua con il webinar del 12 maggio, condotto dalla Dr.ssa Oppo.

 

The risck of love is loss and the price of loss is grief. (Hilary Stanton Zunin)

L’argomento trattato è particolarmente delicato: il lutto e il dolore che ne consegue.

Per quanto la morte sia un aspetto universale della vita degli esseri umani, spiega la docente, questa porta con sé sempre aspetti e sfumature profondamente personali e unici. Il lutto si manifesta come la risposta ad un evento stimolo, una perdita, e comporta reazioni emotive (come tristezza, angoscia), fisiche (per esempio una stretta al petto) e comportamentali in termini di pensieri (comportamenti interni) ed azioni.

Cosa trasforma il lutto in un lutto complicato? Cosa ci aiuta a distinguere una risposta fisiologica da una risposta che necessita un’attenzione dal punto di vista terapeutico?

Una variabile cruciale è il tempo. La Dr.ssa Oppo spiega come il lutto “non passi mai”: continuiamo a sentire il dolore con la stessa intensità, quello che con il tempo cambia è la frequenza e la durata con cui ci troviamo a viverlo. Appena dopo una perdita il dolore è sordo, arriva e permane. Se questo vissuto non si modifica nel tempo per frequenza e durata deve scattare un campanello d’allarme.

In tutte le culture del mondo si nota una ritualità nell’accompagnare il defunto e i suoi cari: esistono diverse manifestazioni con la stessa funzione lenitiva. Ma cosa succede se il processo naturale del lutto s’inceppa?

L’ACT distingue due tipi di dolore:

  • il dolore pulito: parte ineliminabile dell’esperienza dell’essere umano;
  • il dolore sporco: quello che provoca sofferenza.

Alcuni aspetti molto comuni che ci fanno scivolare verso il dolore sporco e che rischiano di inceppare un meccanismo naturale sono i messaggi malevoli che invalidano il nostro vissuto emotivo. Frasi come “pensa positivo”, “prendi uno Xanax”, “concentrati su qualcos’altro” lasciano intendere che ciò che si sta provando non va bene, che non se ne può parlare, e così il dolore diventa un tabù.

  L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è un approccio terapeutico che usa processi di accettazione e mindfulness e processi di impegno e cambiamento comportamentale per produrre maggiore flessibilità psicologica (Hayes). La flessibilità psicologica è un’abilità per affrontare le sfide che la vita ci porta, un repertorio di comportamenti, simile al coping. Può essere appresa e insegnata. È la capacità di essere aperti, presenti alle proprie esperienze interne e sensibili al contesto, mentre ci si impegna a fare cose che per noi hanno importanza ed azioni concrete verso i valori personali.

All’interno del modello della flessibilità psicologica il contesto costituisce un elemento centrale. La docente spiega, infatti, che per capire cosa mi sta accadendo devo dargli un nome, dignità, devo dargli dei confini, deve essere riconoscibile; non per costringerlo all’interno di un’etichetta, ma per conoscerlo.

Figura 1 – Il modello della flessibilità psicologica.

La Dr.ssa Oppo ha mostrato alcuni processi della flessibilità psicologica che possono essere implicati nel lutto complicato:

  1. Disengaged: allontanarsi da cosa ha senso per noi, la sensazione che nulla abbia più significato, la mancanza di azioni impegnate, azioni con un profondo valore personale (come andare a trovare una persona a noi cara anche se si è molto stanchi). È come se l’individuo perdesse la vitalità, come se non riuscisse a vedere altro che la sua sofferenza: non si sente ingaggiato, non è propositivo, non ha uno scopo.
  2. Combattere con le proprie esperienze interne: sentirsi intrappolati nei propri pensieri (fusione), faticare a credere che la persona cara non ci sia più (negazione), attuare un evitamento esperienziale (con strategie covert e overt) per non sentire le proprie esperienze interne.
  3. Mancanza di presenza: la mente è intrappolata nel passato o nel futuro, per cui non si riesce a vivere nel momento presente. In terapia bisogna partire da questo aspetto, perché se il paziente non è nel presente non si accorgerà di quello che gli succede intorno, l’intervento del terapeuta non avrà senso, non verrà colto. Come notare la mancanza di presenza? Per esempio quando il paziente è perso nello story telling  (“da quando mio marito è morto, è morta una parte di me”, “non sono più quello di prima”). È una situazione simile ai sintomi dissociativi.

Il modello Hexaflex (modello della flessibilità psicologica o modello ad esagono) mostra i processi da promuovere.

Figura 2 – I processi da promuovere nel modello Hexaflex

La parte centrale, in grigio, comprende i due processi di AWARE (presenza):

  • Contatto con il momento presente: può essere raggiunto con l’uso di strategie che si servono dei 5 sensi (per esempio la respirazione, la propriocezione).
  • Sé come contesto: spesso di fronte a una perdita si tende a dare delle definizioni assolute di sé, come “prima ero così …”, “sono finito”, “sono vedovo”, “sono orfano”, che non lasciano spazio ad altro ed implicano una funzione evocativa di profonda sofferenza. È importante riportare il paziente a una dimensione in cui esista più di un punto di vista, in cui esistano tante parti di sé con una voce propria. Bisogna attuare un allargamento di prospettiva, riscoprire un sé indipendente da valutazioni, che si osserva nel qui ed ora.

La parte a sinistra, in rosso, mostra i due processi di OPEN (apertura):

  • Accettazione: capita che le persone di fronte a un lutto minimizzino, dicendo frasi del tipo “non è successo niente”, “non sono l’unico che ha perso una persona cara”, mettendo in atto un evitamento esperienziale.
  • Defusione cognitiva: descrive la situazione in cui la persona crede letteralmente ai propri pensieri, “non riesco a credere che non lo vedrò più”, si chiude e si irrigidisce.

La parte a destra, in verde, mostra i due processi di ENGAGE (impegno):

  • Valori.
  • Impegno nell’azione.

Questi ultimi due processi presuppongono la riscoperta della propria vitalità e il coinvolgimento del paziente in attività che abbiano per lui un significato, che rispecchino un valore personale.

La docente spiega come nei colloqui che si effettuano durante le prime fasi del lutto l’unica cosa che si può fare è “stare con quello che c’è”. Tutto è ammesso, tutto vale. Si validano le emozioni, si dà spazio e dignità a quel dolore, che magari non trova spazio altrove. Si iniziano ad applicare tecniche per stimolare specifici processi solamente in un secondo momento, partendo sempre dal lavoro sul contatto con il momento presente.

 

Teoria della perdita di vigilanza e caratteristiche di chi soffre di attacchi di panico notturni

Più della metà di chi soffre di disturbo di panico sperimenta anche attacchi di panico (AP) notturni (Smith, 2019).

 

Il DSM-5 classifica gli attacchi di panico notturni entro la più ampia categoria degli attacchi di panico inaspettati, che cioè si verificano indipendentemente da fattori situazionali scatenanti (APA, 2013). Gli attacchi di panico notturni presentano gli stessi sintomi di quelli diurni, ma avvengono nella fase di passaggio dal sonno più leggero a quello più profondo (Craske & Rowe, 1997). Ciò significa che chi sperimenta attacchi di panico notturni si sveglia nel mezzo di un attacco di panico (Craske & Rowe, 1997).

Soffrire di panico notturno può comportare la tendenza a evitare l’addormentamento, per timore di svegliarsi in uno stato di panico. Pertanto, alcune conseguenze degli attacchi di panico notturni sono l’insonnia e la deprivazione di sonno (Craske & Tsao, 2005). Diverse possibilità sono state esplorate per comprendere cosa differenzi chi ha solo attacchi di panico diurni da chi li prova anche nel sonno. Secondo la teoria della paura di perdita di vigilanza (the fear of loss of vigilance theory; Tsao & Craske, 2003), chi soffre di panico notturno teme le situazioni in cui si riduce l’attenzione prestata agli stimoli circostanti, come negli stati di ipnosi, nei momenti di relax e, appunto, durante il sonno. Infatti, in tali situazioni può essere più difficile proteggersi da eventuali minacce.

Smith, Albanese, Schmidt e Capron (2019) hanno espanso la teoria della paura di perdita di vigilanza, cercando di delineare ulteriormente quali caratteristiche siano specifiche di chi ha attacchi di panico notturni. Gli autori hanno ipotizzato che le persone che soffrono di AP notturni manifestino maggior intolleranza dell’incertezza, cioè facciano più fatica a sostenere situazioni imprevedibili e incerte. Questo perché avrebbero più timore che durante la notte possa accadere un evento imprevisto, come un attacco cardiaco o un disastro naturale, a cui non sarebbero pronte a reagire.

Inoltre, chi soffre di panico notturno potrebbe avere una maggior tendenza a sentirsi responsabile di causare del male, tendenza che può anche essere intesa come incapacità di prevenire un danno. Quindi potrebbe avere maggior timore di non essere in grado di proteggersi da eventuali minacce durante il sonno.

Infine, una maggior sensibilità all’ansia, in particolare rispetto alla tendenza a interpretare sensazioni corporee sgradevoli come più pericolose di quanto siano, potrebbe essere peculiare di chi ha attacchi di panico notturni.

Per verificare queste ipotesi, Smith e colleghi (2019) hanno condotto uno studio su un campione di individui di età compresa tra i 18 e i 79 anni. Il campione è stato diviso in tre gruppi: persone con attacchi di panico sia notturni che diurni, persone con attacchi di panico solo diurni e controlli, cioè persone senza attacchi di panico.

I partecipanti hanno completato dei questionari self-report rispetto alle tre dimensioni prima citate: intolleranza all’incertezza (Intolerance of uncertainty scale, IUS-12; Carleton et al., 2007); responsabilità di causare del male (sottoscala ‘responsabilità di causare del male’ della Dimensional Obsessive Compulsive Scale, DOCS; Abramowitz et al., 2010) e sensibilità all’ansia (Anxiety sensitivity index-3, ASI-3; Taylor et al., 2007).

I risultati indicano che sia chi soffre di attacchi di panico esclusivamente diurni, sia chi soffre di attacchi di panico anche notturni, ha ugualmente timore delle situazioni di incertezza. Tuttavia, in aggiunta a questo, chi soffre di attacchi di panico notturni si sente anche meno capace di agire in situazioni imprevedibili.

Inoltre chi soffre di attacchi di panico notturni teme maggiormente di essere incapace di prevenire eventi dannosi e quindi di proteggersi dalle loro spiacevoli conseguenze. Un’ipotesi che la ricerca futura potrebbe testare è che la preoccupazione di non aver fatto il possibile per proteggersi sia connessa all’ipervigilanza notturna. L’ipervigilanza notturna infatti si traduce in comportamenti come dormire con le luci accese o assicurarsi ripetutamente che porte e finestre siano chiuse prima di andare a letto.

Un dato curioso è che chi soffre di attacchi di panico notturni risulta essere più sensibile all’ansia, ma non rispetto alle sensazioni corporee come ipotizzato, bensì rispetto alla componente sociale. Ossia, chi ha attacchi di panico notturni sembra preoccuparsi di più del giudizio o rifiuto altrui. Ciò potrebbe significare che chi ha attacchi di panico notturni teme che una persona con cui dorme possa notare e giudicare negativamente le proprie difficoltà legate al sonno. Un’altra possibilità, che andrebbe ulteriormente studiata, è che chi sperimenta attacchi di panico notturni abbia anche problematiche di ansia sociale.

Oltre a supportare la teoria della perdita di vigilanza, i risultati di questo studio forniscono un contributo allo sviluppo di trattamenti per intervenire sugli attacchi di panico notturni. Ad esempio, lavorare sul timore di essere incapaci di reagire in situazioni di minaccia inaspettate potrebbe rappresentare un importante aiuto per contrastare l’insorgenza di attacchi di panico notturni.

MSAD: lo studio longitudinale che da 26 anni si occupa del Disturbo Borderline di Personalità

Il MSAD ha permesso nel corso degli anni di osservare e descrivere molti aspetti dei pazienti con BPD. Lo studio ha cercato sia di cogliere le peculiarità della patologia, sia di analizzare i soggetti al di là del loro disturbo, esplorandone le esperienze, lo stile di vita, l’ambiente di riferimento e le caratteristiche personali.

Francesca Frigerio – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) ha ricevuto un’attenzione crescente negli anni a causa dell’aumento della sua diffusione all’interno della popolazione, della menomazione sociale che ne deriva e del grande utilizzo da parte di questi pazienti dei servizi di salute mentale (Zanarini et al. 2005).

Durante il tirocinio post-lauream ho avuto l’occasione di lavorare per 6 mesi all’interno del laboratorio diretto dall’Ed.D. Mary Zanarini, esponente di spicco nel panorama psicologico e professore universitario presso l’Harvard Medical School a Boston. All’interno di questo contesto, ho potuto osservare da vicino il suo lavoro e partecipare al progetto di ricerca MSAD (McLean Study of Adult Development), uno dei primi studi con l’obiettivo di descrivere il decorso e l’outcome del Disturbo Bordeline di Persoalità.

Questo progetto nasce nel 1992 grazie al lavoro dell’Ed.D Mary Zanarini e dei suoi colleghi e collaboratori nella cornice del McLean Hospital a Belmont (Massachusetts, USA), polo ospedaliero di riferimento per la facoltà di medicina dell’Università di Harvard. Si tratta di uno studio longitudinale della durata di 26 anni che ha coinvolto 362 soggetti: 290 che soddisfacevano i criteri per il Disturbo Borderline di Personalità e 72 che soddisfacevano i criteri per un altro Distrurbo di Personalità (OPD). Il campione iniziale è stato selezionato dal bacino di pazienti che sono stati ricoverati nella struttura ospedaliera tra marzo del 1991 e dicembre 1995 (Morey et al. 2000).

Per essere ammessi alla ricerca i soggetti dovevano soddisfare alcuni criteri d’inclusione: avere un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, una diagnosi per un disturbo di Asse II (DSM-III-R), un Q.I. maggiore di 71, parlare fluentemente inglese e non presentare una storia o una sintomatologia riconducibile a un disturbo organico, un disturbo dello spettro della Schizofrenia o un Disturbo Bipolare I (Morey et al. 2000). Nel corso degli anni, la maggior parte dei partecipanti ingaggiati alla baseline si é prestata con cadenza biennale alla raccolta dati. Il tasso di abbandono e le interruzioni causate da morte accidentale o suicidio non sono stati particolarmente elevati (più del 70% dei partecipanti ha completato lo studio) (Temes et a., 2019).

Negli anni i soggetti sono stati testati tramite una batteria composta da questionari autosomministrati ed eterosomministrati, pensata ad hoc per studiarne la vita, le caratteristiche personali e l’andamento della patologia. La batteria, infatti, includeva strumenti che avevano lo scopo di raccogliere dati:

  • anamnestici e demografici – i.e. BIS (Baseline Information Schedule), AHI (Abuse History Interview);
  • riguardanti la psicopatologia – i.e. SCID-I (Structured Clinical Inter- view for DSM-III-R Axis I Disorders), DIB-R (Revised Diagnostic Interview for Borderlines), DIPD-R (Diag- nostic Interview for DSM-III-R Personality Disorders);
  • sanitari e sul funzionamento generale – i.e., MHSUI (Medical History and Services Utilization Interview), GAF (Global Assessment of Functioning);
  • riguardo l’affettività – i.e., PAS (Positive Affect Scale), DAS (Dysphoric Affect Scale) – , il funzionamento cognitivo – i.e., DIB-R, DES (Dissociative Experiences Scale) – e le caratteristiche personali – i.e., NEO-FFI (Five-Factor NEO Inventory of Personality), DSQ (Defense Style Questionnaire) (Zanarini et al. 2005; Frankenburg & Zanarini, 2004).

Gran parte delle analisi effettuate alla baseline avevano l’obiettivo di indagare il ruolo degli eventi di vita avversi nell’eziopatogenesi del BPD. Da queste ricerche è emerso che la gravità delle violenze sessuali subite in età infantile e di altre forme di abuso e di trascuratezza può giocare un importante ruolo nella severità sintomatologica e nella menomazione del funzionamento psicosociale, tipica dei pazienti con BPD (Zanarini et al. 2002). L’abuso sessuale non è né necessario né sufficiente per lo sviluppo del disturbo, ma le esperienze avverse precoci, in particolare la trascuratezza da parte dei caretakers di entrambi i sessi, sembrano rappresentare fattori di rischio significativi (Reich et al. 1997).

All’interno dello studio, una speciale attenzione è stata data alla comorbilità del BPD con altre psicopatologie, sia appartenenti all’Asse I che II del DSM-III-R. In particolare, rispetto alla comorbilita con patologie di Asse I, si é notato che il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) sembra comunemente, ma non universalmente, associato al BPD, in contrasto con l’idea che la patologia Borderline non fosse altro che un PTSD cronico. I Disturbi Alimentari sono risultati piu comuni nelle donne, mentre i Disturbi da Uso di Sostanze negli uomini. I Disturbi d’Ansia e quelli dell’Umore, invece, sembrano equamente presenti all’interno della popolazione di pazienti con BPD (Zanarini et al. 1998).

Per quanto riguarda la comorbilita con i disturbi di Asse II, è emersa una relazione particolarmente stretta tra il BPD e i disturbi del cluster ansioso. Inoltre, sembra essere presente una differenza importante tra i generi: sebbene le frequenze dei Disturbi Evitante e Dipendente di Personalità fossero simili, i Disturbi Paranoide, Passivo-aggressivo, Narcisista e Antisociale di Personalità risultavano essere molto più comuni all’interno della popolazione maschile (Zanarini et al. 2018).

Il grande bacino d’informazioni ottenuto dai 24 anni di follow-up ha anche permesso di analizzare l’evoluzione della patologia e i cambiamenti nelle aree di vita dei soggetti presi in esame. Sono molti, infatti, gli aspetti analizzati nella maggior parte dei follow-up per potere di monitorare l’andamento in modo continuo, come i fattori predittivi dell’ottenimento della guarigione (recovery) dal BPD. Nello studio, per recovery si definisce un periodo di follow-up di almeno 2 anni durante il quale i pazienti non soddisfacevano più i criteri per la diagnosi di DBP e mostravano buon funzionamento psicosociale e professionale. Nel corso di 20 anni, nei quali solo il 39% dei pazienti con BPD ha ottenuto il recovery rispetto al 73% del campione di controllo (OPD), sono state individuate 5 variabili che sembrano essere predittive di un eccellete guarigione: un QI più alto, un’infanzia sufficientemente serena, una buona storia professionale negli adulti, bassi tratti di nevroticismo (neuroticism) ed alti tassi di piacevolezza (agreeableness). I risultati di queste ricerche suggeriscono che la completa guarigione è difficile da raggiungere per i pazienti con BPD, anche nel lungo periodo (Zanarini et al. 2006).

Il MSAD ha anche affrontato alcuni tra i temi più delicati riguardanti questa patologia, come il rischio suicidario e i gesti autolesivi. Dopo 24 anni, il numero di pazienti con BPD deceduti in seguito a un atto suicidario era molto più alto rispetto a quello dei soggetti con OPD (5,9% vs 1,4%). I ricercatori hanno riscontrato, inoltre, che le persone con BPD sono generalmente più a rischio di una morte prematura rispetto alla popolazione di controllo, infatti, anche il numero di morti non suicidarie superava di molto quello dei pazienti con OPD (14,5% vs 5,5%). Il rischio di suicidio e morte non suicida in soggetti con BPD sembra essere sproporzionatamente più elevato nei soggetti che non hanno raggiunto la guarigione (recovery) (Temes et al. 2019).

Per quanto riguarda i gesti autolesivi, invece, il 91% del campione di pazienti con BPD presi in esame ha riportato una storia di automutilazioni, distribuendosi in modo abbastanza lineare rispetto all’età d’esordio di queste pratiche (il 32,8% prima dei 12 anni, il 30,2% tra 13 e 17 anni e il 37% dopo i 18 anni). Analizzando più approfonditamente i dati ottenuti dai soggetti, è emerso come i pazienti con un esordio infantile di atti autolesivi sembrano riportare più episodi, una costanza nel tempo e un numero maggiore di metodi utilizzati per l’automutilazione rispetto ai soggetti che hanno iniziato queste pratiche in adolescenza o in età adulta (Zanarini et al. 2006).

A temi più classici si è alternata l’esplorazione di aspetti più originali e meno trattati del disturbo, come la frequenza di utilizzo di servizi per la salute mentale, le malattie croniche associate o la qualità del sonno. Rispetto a quest’ultimo argomento, dopo aver mostrato la possibile associazione tra l’assenza di disturbi del sonno e lo stato di recovery dei pazienti con BPD (Plante et al. 2013), i ricercatori si sono concentrati sui pensieri e gli atteggiamenti disfunzionali rispetto al dormire. Dall’analisi dei dati raccolti sembra che i pazienti con BPD non recovery presentino un tasso significativamente più alto di cognizioni maladattive legate al sonno rispetto ai soggetti che hanno raggiunto uno stato di guarigione (Plante et al. 2013).

Il MSAD ha permesso nel corso degli anni di osservare e descrivere molti aspetti dei pazienti con BPD, cercando sia di cogliere le peculiarità della patologia, che di analizzare i soggetti al di là del loro disturbo, esplorandone le esperienze, lo stile di vita, il contesto in cui sono inseriti e le caratteristiche personali. Le analisi sull’ampio campione sono state effettuate per 26 anni, generando una sequenza di fotografie che hanno dato la possibilità di monitorare l’andamento di molti aspetti in modo continuo. Inoltre, il MSAD ha offerto molti spunti di riflessione, utili per approfondire le caratteristiche prese in esame o per studiarne di nuove.

 

Dungeons and Dragons tra empatia e assorbimento

Che abilità sono implicate mentre si gioca a Dungeons and Dragons? Come mai e in che misura si è soliti giocare un primo personaggio molto simile a noi stessi? Perché col passare del tempo si diventa più bravi a fare del roleplay? Quanto questa attività è impegnativa dal punto di vista cognitivo?

 

Nell’esperienza degli autori di questo articolo alcuni fenomeni legati alle partite di Dungeons and Dragons sono piuttosto ricorrenti e, dato anche le nostre competenze come dottori in scienze psicologiche, ci è sembrato opportuno affrontare in maniera più scientifica certi aspetti su cui abbiamo avuto modo di confrontarci fra di noi in primo luogo. Ad esempio: come mai e in che misura si è soliti giocare un primo personaggio molto simile a noi stessi? Perché e in che misura col passare del tempo si diventa più bravi a fare del roleplay? Quanto questa attività è impegnativa dal punto di vista cognitivo? Che abilità sono implicate mentre si gioca a D&D? Perché alcune persone sembrano avere più difficoltà ad “entrare nel meccanismo” rispetto ad altre? Che cosa implica un ribaltamento (o anche solo un cambiamento) delle dinamiche fra i giocatori dentro e fuori una partita di D&D?

Questi, e molti altri dubbi ci hanno spinto a condurre una piccola ricerca nella letteratura anche solo per soddisfare la nostra curiosità e guardare al gioco che tanto amiamo con occhio anche critico oltre che benevolo. Tuttavia, prima di addentrarci nel focus di questo articolo, conviene chiarire qualche termine e porsi altre domande…

Ma cos’è questo D&D?

Dungeons & Dragons (D&D) è un Role-Playing Game (RPG), ovvero un gioco cooperativo, di improvvisazione, strutturato e una forma libera di “storie interattive” (Phillips) che hanno luogo nell’immaginazione dei partecipanti, generalmente radunati ad un tavolo mentre usano carta e penna per tenere traccia di eventi e fare annotazioni personali.

I giocatori si trovano dunque in un ambiente immaginario condiviso in cui possono interpretare un personaggio-protagonista che può essere anche molto diverso da loro (un po’ come se diventassero degli attori per certi versi), di questo personaggio scelgono quindi aspirazioni, caratteristiche di personalità, storia pregressa e ne plasmano il destino attraverso le scelte che compiono durante la storia esposta dal Dungeon Master (o game-master).

Il Dungeon-Master (DM) è solitamente una sorta di narratore che descrive l’ambiente che circonda gli altri giocatori, spesso è chiamato a descrivere l’esito delle azioni o degli eventi scatenati dai giocatori così come ad interpretare tutti i Personaggi Non Giocanti (NPC) con cui il gruppo di giocatori ha a che fare.

Ma cosa c’entra tutto ciò con la psicologia?

Negli ultimi 30 anni c’è stata una crescita enorme per quanto riguarda l’industria dei giochi (Global Games Market Report, 2015), sia quelli da tavolo, sia quelli che coinvolgono mezzi tecnologici che permettono la comunicazione a distanza (ovvero internet). Si può dire che essi hanno avuto e continuano ad avere un forte impatto sulle persone ed è quindi interessante interrogarsi su come sia questo “impatto” e se ci sia qualcosa da cui imparare da questo fenomeno.

In merito a D&D e ai giochi RPG (o MMORPG quando si tratta di parlare di quelli che avvengono online, tramite computer o console), la psicologia si è affacciata ad essi con numerose domande sugli effetti che possono avere sui giocatori. Prima di passare al tema principale di questo articolo è opportuno quindi dare una sbirciata ad altri temi importanti che lo riguardano e che toccano molto da vicino la psicologia.

Andando molto a ritroso e parlando di evoluzione, oltre che di etologia, è interessante notare come gli esseri umani non siano gli unici a inscenare certi tipi di comportamenti o a prestarsi a giochi di “finzione” dove ci sono ruoli più o meno definiti (Owens and Steen 2001). Senza scomodare leoni adulti che si fingono abbattuti quando morsi dai loro cuccioli, un esempio più prossimo all’esperienza di tutti i giorni riguarda ad esempio la posizione di gioco assunta dai cani (zampe anteriori poggiate al terreno e posteriori molto alzate, come a mostrare il sedere) che invita l’altro a intraprendere una serie di attività solitamente innocue in cui spesso a turni si rincorre o si viene rincorsi. Questa modalità di gioco in realtà darebbe l’opportunità di sperimentarsi e fare pratica di abilità molto importanti legate alla sopravvivenza, così come di stimolare il cervello anche solo attraverso i famosi neuroni specchio (Rizzolatti et al., 1998) che sono delle cellule cerebrali che si attivano involontariamente quando vediamo un’azione compiuta da altri, piuttosto che quando la intraprendiamo noi stessi. Questi stessi neuroni specchio a loro volta sono coinvolti in apparati che non si differenziano per attività legate agli RPG (o MMORPG), alla recita in un film, o all’immaginare le emozioni di un personaggio di D&D (Lieberoth, 2013). Infatti il cervello recluta questi network neurali evoluti per fare (o per fare esperienza di) queste cose nella vita reale, il che potrebbe essere anche una ragione del perché guardare un film o una fiction potrebbe portare ad un incremento di abilità come l’empatia, la comprensione e la capacità di assumere la prospettiva degli altri (Mar et al., 2009; Kaufman and Libby, 2012).

Prendendo in considerazione quanto detto e inserendolo nel contesto della pratica clinica e di alcuni tipi specifici di terapie (se non di scuole di pensiero in merito alla terapia in generale), può diventare centrale la possibilità di mettere in scena (anche solo attraverso l’immaginazione) quelle che possono essere le situazioni dolorose di una persona o le sue paure, specie quando si è in un luogo sicuro in cui affrontarle.

Un esempio concreto di tipi di terapia legate alla “messa in scena” possono essere infatti ritrovate nello Psicodramma (in cui i partecipanti esplorano emozioni e vissuti personali attraverso la drammatizzazione teatrale) o come tecnica tipica di una terapia della Gestalt (in cui vi è la considerazione della persona come un “tutto” e vi è anche una grande considerazione del non-verbale), dove ad esempio ne “la sedia vuota” si invita il paziente ad immaginare un interlocutore a cui parlare e da cui ricevere anche risposte, o addirittura nella tecnica espressiva dell’”esagerazione e sviluppo”, dove si dà il compito di esagerare e ripetere un certo tipo di gesto, suono o azione compiuti dal paziente.

Senza soffermarci troppo su questi aspetti aggiungiamo solo che l’esplorare i propri problemi, senza subire le conseguenze di fare un “errore”, o il riuscire a fermarsi e il non farsi coinvolgere dalle dinamiche/emozioni/reazioni che portano a conseguenze nefaste, ha un valore indubbiamente ampissimo che certamente merita una descrizione che va ben oltre lo scopo di questo articolo.

In base a quanto riassunto finora, appare chiaro dunque quante potenzialità abbia il mondo di Dungeons & Dragons, dove sin già dalla creazione del personaggio il giocatore ha la possibilità di esplorare nuovi modi di essere e mettere l’accento su alcuni aspetti di sé stesso più che altri, o anche interagire con le persone che lo circondano in maniera diversa rispetto al solito, aprendo le porte quindi a possibilità che difficilmente si permetterebbe di darsi.

La creazione di personaggi che agiscono e pensano in maniera differente rispetto al proprio (fatto che nell’esperienza degli autori di questo articolo si verifica praticamente tutte le volte che si gioca a D&D, anche solo a causa del fatto di essere inseriti in un contesto diverso dalla propria realtà) contemporaneamente necessita e stimola la capacità di comprendere modi di agire, motivazioni, emozioni, credenze, fino anche ad interpretazioni di cosa ci possa essere nella mente di qualcuno diverso da noi, costrutto che in psicologia può essere assumibile e riassunto nei termini di Teoria della mente, definibile come l’abilità di riflettere sugli stati mentali, sulle credenze, sui desideri e le intenzioni, così come la capacità di comprendere gli stati mentali per spiegarsi e predire il comportamento degli altri (Apperly, 2012). E se ciò è vero per i giocatori-protagonisti della storia, lo è ancora di più per il DM che nel corso di una singola sessione di gioco potrebbe ritrovarsi ad interpretare più di un personaggio (a seconda delle interazioni sociali che i protagonisti vogliono intraprendere durante la partita) moltiplicando quindi il livello di concentrazione (e di difficoltà) per tenere a mente stati mentali di individui diversi non solo dal loro “attore”, ma anche fra loro stessi.

D&D vs Empatia e Assorbimento

Andando nel cuore del tema principale di questo articolo, uno studio che tratta direttamente dei livelli di empatia degli individui che si impegnano nei giochi di ruolo è quello di Rivers et al. (2016), nel quale gli autori ipotizzano come il giocare assiduamente un personaggio possa portare all’incremento delle “perspective taking skills” (abilità di assumere prospettive altrui) da parte dei giocatori, in quanto essi devono alterare il proprio punto di vista rispetto alla realtà per meglio interpretare il personaggio che stanno giocando.

Lo strumento da loro utilizzato per l’analisi delle capacità empatiche dei partecipanti è stato il Davis IRI (1983, 1994); tale questionario richiede di rispondere ad ogni domanda tramite una scala likert a 5 punti con i quali si esprime il grado di accordo o disaccordo su quanto la frase sia rappresentativa della propria persona o esperienza. Il questionario è così suddiviso nelle seguenti sottoscale:

  • Fantasy: la quale indica la tendenza a trasporre se stessi nei sentimenti e nelle azioni di personaggi fittizi di libri, film e spettacoli (con domande del tipo: “Quando leggo una storia o un romanzo interessanti immagino come mi sentirei se gli eventi della storia stessero accadendo a me”);
  • Emphatic concern: la quale indica i sentimenti di simpatia e preoccupazione riguardo gli altri (“Mi descriverei come una persona dal cuore tenero”);
  • Perspective taking: la tendenza ad adottare spontaneamente il punto di vista degli altri (“Quando sono arrabbiato con qualcuno, solitamente cerco di mettermi nei suoi panni per un po’ di tempo”);
  • Personal distress: riguardante i sentimenti di ansia e disagio provati in situazioni interpersonali (“Tendo a perdere il controllo durante le emergenze”).

Come accennato precedentemente, gli autori ipotizzano inoltre come l’interpretare un personaggio per lunghi periodi di tempo possa avere effetto anche sulle capacità del giocatore di essere completamente assorbito della propria esperienza di gioco, supportando questa ipotesi col fatto che chi possiede alti livelli di assorbimento sia anche più incline a fare esperienza di particolari tipi di assorbimento empatico o interpersonale con personaggi presenti in libri, film e spettacoli teatrali.

Gli autori riportano come tale caratteristica sia rintracciabile nelle persone che si perdono nelle esperienze dei personaggi con cui si identificano. Tale tipo di assorbimento interpersonale sembra inoltre legato ad un alto grado di apertura alle esperienze.

Il secondo questionario utilizzato nello studio analizzato di Rivers et al. (2016) è quindi il Tellegen Absorption Scale (TAS), che si prefigge di misurare i livelli di assorbimento nei giochi di ruolo con risposte del tipo vero/falso. Il questionario è stato quindi costruito in modo da indagare l’assorbimento concettualizzato come una disposizione ad andare incontro ad episodi di totale attenzione i quali richiedono l’utilizzo totale delle proprie risorse rappresentazionali (rappresentazioni di percezioni, di idee, di azioni etc.).

Conclusioni

Spesso e volentieri si ha una visione del giocatore medio di D&D come di una persona “isolata nel suo mondo”, lontana da aspetti sociali ed emotivi della vita reale, forse senza nemmeno una grande comprensione delle dinamiche fra persone o della realtà che lo circonda.

In realtà in base ai risultati dello studio sopra menzionato si evince una tendenza che favorisce la teoria degli autori, i quali hanno trovato come i partecipati abbiano ottenuto una media superiore a quella della popolazione generale per quanto riguarda le sottoscale riguardanti l’empatia, senza che vi fosse alcuna differenza tra uomini e donne partecipanti allo studio. Inoltre è emerso come la variabile “assorbimento” (analizzata dal questionario TAS) sia in correlazione ed associata a livelli di empatia maggiori.

Quindi, al contrario dello stereotipo del ragazzo con la “testa fra le nuvole” o “chiuso nel suo mondo”, un più alto coinvolgimento da parte dei giocatori potrebbe essere ciò che contribuisce o è necessario per sviluppare quelle stesse abilità empatiche discusse finora.

Vogliamo infine ricordare che D&D e terapia sono cose ben distinte, nonostante abbiano punti in comune e affinità (sotto alcuni punti di vista), il loro scopo è assai dissimile. Mentre la terapia si occupa di malessere psichico o difficoltà riscontrate nella vita quotidiana, D&D si prefigge piuttosto come un mezzo di intrattenimento e (aggiungeremmo) ritrovo sociale. Ad ogni modo il partecipare a sessioni di D&D sembra essere un’attività da incoraggiare in quanto sembra mostrare di avere effetti positivi molteplici, tra cui quello che riguarda i livelli di empatia dei partecipanti.

Gli autori di questo articolo vi invitano dunque ad armarvi di D20 (dado a 20 facce per giocare a D&D), lasciandovi con questa citazione:

The use of this game as an adjunct to therapy can allow patients an opportunity to explore their mental dungeons and slay their psychic dragons

L’uso di questo gioco come un’aggiunta alla terapia può dare ai pazienti un’opportunità di esplorare i loro dungeon mentali e uccidere i loro draghi psichici (Blackmon, 1994).

 

La gestione dello stress nell’Emergenza Covid-19: emozioni ed isolamento – Report dal webinar del Dott. Mazzoni

Il quinto intervento, organizzato da Studi Cognitivi per approfondire alcuni aspetti psicologici relativi all’emergenza Covid-19, ha avuto come protagonista il Dr. Mazzoni.

 

Il webinar, tenutosi l’08 maggio, ha esplorato le modalità di gestione dello stress e di regolazione delle emozioni nel contesto di isolamento. La lezione è stata chiara ed esauriente: sono stati proposti gli argomenti in modo dettagliato, arricchiti da riferimenti tratti dalla letteratura e da molti esempi in merito all’esperienza clinica del docente.

Il Dr. Mazzoni ha iniziato il suo intervento ripercorrendo le fasi della pandemia e dell’emergenza sanitaria. In passato ci siamo già confrontati con avvenimenti critici, legati alla diffusione di un virus (SARS), alla guerra (Vietnam), al terrorismo (11 settembre), o a catastrofi naturali (terremoto di L’Aquila). Questi eventi hanno messo a dura prova intere comunità e, grazie alle relative ricerche e testimonianze, ci possono dare alcuni spunti per comprendere meglio lo stato psicologico attuale e creare nuovi protocolli d’intervento. Il contesto del Covid-19, tuttavia, si sta rivelando per certi aspetti unico, a partire dalle misure preventive messe in atto, una tra tutte la quarantena e il conseguente isolamento.

La psicologia dell’emergenza ci viene in aiuto nello studiare, prevenire e trattare gli aspetti psichici, emotivi e comportamentali legati ad eventi critici; la sua applicazione, infatti, è rivolta a situazioni non ordinarie. Nasce con l’idea di superare l’attenzione esclusiva al corpo per occuparsi anche delle ferite psichiche, altrettanto profonde e gravi.

L’evento critico, da cui scaturisce lo stato di emergenza, si pone al di là della gamma di esperienze ordinarie a cui l’individuo è abituato e per questo sfida le sue capacità di fronteggiamento, mettendo in crisi i suoi meccanismi di coping. Il soggetto, infatti, può percepire un senso di vulnerabilità, una mancanza di controllo e un forte senso di minaccia. Ogni persona reagisce a suo modo, cercando di gestire il disagio con le strategie che usa abitualmente. La notizia del lockdown, nel caso del Covid-19, ha suscitato senso d’impotenza, terrore e in alcuni casi la fuga; ha fatto realizzare a una buona parte della popolazione la gravità della situazione. L’impatto è stato sul singolo, ma anche sulle comunità, dalle più piccole (come la famiglia) alle più grandi (come le regioni).

Le testimonianze arrivate dalla Cina mostrano gli effetti della pandemia, evidenziando un aumento di sintomi psicologici e psicopatologici, come depressione, ansia, disturbi del sonno e disturbo da stress post traumatico. L’Italia sta sperimentando in prima persona l’impatto del Covid-19 e delle risposte allo stress legate alla pandemia. Si possono riscontrare sia effetti fisiologici (per esempio, iperarousal o ipoarousal), sia psicologici (per esempio, sensazione di irrealtà o dissociazione).

Tutte le persone coinvolte in questa situazione straordinaria stanno affrontando a loro modo i cambiamenti e stanno sperimentando una normale gamma di emozioni in risposta all’emergenza, come rabbia, ansia, tristezza, paura e colpa, declinate in varie forme. È importante, spiega il Dr. Mazzoni, individuare tempestivamente i soggetti più a rischio di sviluppare un PTSD o un significativo disagio dovuto a un mancato adattamento. Gli interventi di psicologia dell’emergenza, infatti, hanno uno scopo preventivo e si muovono verso i pazienti, senza aspettare che siano questi ultimi a cercare aiuto dopo aver già sviluppato una sintomatologia. Su questa linea sono stati creati numeri verdi e una rete di sevizi online. Nel processo di intervento si è rivelato fondamentale non solo offrire supporto psicologico, ma anche fornire informazioni, psicoeducazione e strategie di gestione dello stress e delle emozioni. Un esempio sono i chiarimenti forniti rispetto alle misure di prevenzione del contagio, che hanno avuto l’effetto di aumentare il senso di sicurezza.

Cosa si può fare, quindi, per affrontare i cambiamenti e le nuove necessità legate alla pandemia?

Prima di tutto è importante mobilizzarsi:

  • Tornare alla prevedibilità, tramite la creazione di una routine quotidiana in base alle nostre nuove necessità.
  • Mobilitare il corpo, attivarsi.
  • Cercare di regolare i pensieri (lasciando andare quelli negativi e catastrofici), le emozioni (riconoscendole e accettandole) e i comportamenti.
  • Restare connessi con i propri familiari e amici. Il supporto della comunità dopo e durante le guerre e i disastri naturali si è sempre rivelato fondamentale. La situazione di isolamento rende difficile una connessione, ma tramite gli strumenti tecnologici è possibile rimanere in relazione, continuando a “fare parte del gruppo”.
  • Osservare il nostro andamento: emozioni e pensieri.
  • Mantenere, quando è possibile, il contatto fisico.
  • Crearsi uno spazio e dei momenti di privacy.
  • Guardare al futuro, usando questo periodo come un’opportunità esistenziale, senza sprecare il tempo a nostra disposizione: interrompere vecchie abitudini, sviluppare le nostre idee, dare spazio alla creatività e progettare il nostro futuro.

Il docente ha inoltre mostrato un intervento per la gestione dello stress diviso in fasi, ricordando come in casi di PTSD sia invece necessario un trattamento mirato.

  • Fase 1: raccolta delle informazioni legate alla situazione tramite un colloquio. È importante in prima battuta dare più attenzione ai comportamenti e alla prospettiva della persona. Se è necessaria una valutazione più “obiettiva”, possono essere utili strumenti come BDI-II, BAI, SCL-90-R, SCID I, …
  • Fase 2: descrizione del metodo e degli obiettivi di trattamento e psicoeducazione sull’evento critico, sul trauma e sulle emozioni implicate. Bisogna tenere sempre conto di chi si ha davanti e adattare l’intervento a bambini, adolescenti, coppie, …
  • Fase 3: insegnamento di tecniche di gestione emotiva, come quelle di rilassamento, da usare a casa di fronte agli stimoli che mettono paura.
  • Fase 4: riscoperta di strategie funzionali usate in passato o insegnamento di abilità di coping immaginative (per esempio immaginare un luogo piacevole) e di nuove skills comportamentali (per esempio tramite la DBT o il problem solving).
  • Fase 5: insegnamento di tecniche per bloccare i pensieri ricorrenti e disturbanti, per “non coltivare il rumore ma lasciare andare”, come tecniche di mindfulness.
  • Fase 6: ristrutturazione cognitiva, per esempio con lo scopo di aumentare la tolleranza alla frustrazione e diminuire la minaccia percepita.
  • Fase 7: mettere in pratica delle tecniche apprese nelle situazioni quotidiane legate a stati di ansia e paura.

Alla fine del suo intervento, il Dr. Mazzoni ricorda come dall’esperienza del Covid-19 non ci si devono aspettare esclusivamente conseguenze negative. Infatti, si potrebbe trasformare questa situazione, di per sé avversa e dannosa, in un’opportunità di crescita postraumatica, un periodo in cui scoprire risorse, possibilità, capacità, in cui aumentare il proprio senso di resilienza. Ognuno deve trovare il suo significato nella pandemia e negli aspetti ad essa legati. Si possono sviluppate delle dimensioni di crescita individuale, relazionale, gruppale e persino una nuova filosofia di vita.

 

Alzheimer e demenze, malati e caregiver: un progetto di sostegno attraverso dei video online – Comunicato Stampa

Comunicato stampa

Un progetto sociale propone una vasta quantità di video-pillole online che contengono informazioni utili, consigli pratici, supporto e orientamento dedicati non solo alle persone affette da patologie neurovegetative, ma soprattutto a chi si occupa di loro.

 

Firenze, 1 Luglio 2020

La Società Ricreativa L’Affratellamento di Ricorboli, in collaborazione con il Quartiere3 del Comune di Firenze, presenta e promuove un progetto di “Sostegno per malati, famiglie e caregiver di patologie neurovegetative”, attraverso “pillole in video” a cura della dottoressa Anna Finocchietti (psicologa e psicoterapeuta) e Associazione MeMo.

Il programma, presentato su internet in conference call, prevede 2 video a settimana, da Luglio a Settembre 2020, si sviluppa on-line su Internet (e canali social del Teatro Affratellamento – Facebook e YouTube) da martedì 7 Luglio, ereditando le abilità e il metodo in remoto a cui le famiglie e i caregiver di malati di Alzheimer ed altre malattie neurovegetative hanno dovuto far ricorso per necessità durante il recente lockdown. per l’emergenza sanitaria per COVID-19.

Un progetto sociale di servizio realizzato dal teatro Affratellamento, in collaborazione con il Q3, che propone una folta serie di video-pillole con informazioni utili, consigli pratici, supporto e orientamento, dedicati non solo ai malati, saranno messi a disposizione su internet rivolgendosi soprattutto a chi si occupa delle persone che soffrono.

I brevi video sono stati realizzati dalla stessa curatrice dott.ssa Anna Finocchietti, dalla dottoressa Irene Mosele, psicologa e referente dell’aerea cognitiva dell’Associazione MeMo e da Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie e referente dell’aerea motoria della stessa associazione.

Un progetto che dimostra che il Teatro Affratellamento Resiste, pur gravemente colpito economicamente dall’azzeramento della parte finale della Stagione di eventi e iniziative ed è sempre rimasto vivo e attivo, nel segno di “Cultura è Solidarietà” attraverso altre varie iniziative on-line.

Inoltre, nonostante non sia stato in condizione di ripartire pienamente il 15 giugno, rinviando a dopo l’Estate la ripresa dal vivo delle iniziative, l’Affratellamento anche in questo caso invita tutti a seguire, condividerlo e sostenerlo. Grazie.

Per maggiori informazioni >> visita il sito ufficiale dell’iniziativa.

 

Programma / Playlist video:

  • martedì 7 luglio 2020: Essere caregiver, prendersi cura di un malato di demenza – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 10 luglio 2020: Pillole sulle demenze: quali sono, come si manifestano, a chi riferirsi per la diagnosi e l’attivazione della rete di trattamento – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 14 luglio 2020: Il bisogno di sollievo e la richiesta di aiuto – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 17 luglio 2020: I benefici dell’attività motoria nel trattamento delle demenze – a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 21 luglio 2020: Chiedere aiuto: quali ostacoli – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 24 luglio 2020: Tecniche di stimolazione cognitiva nel trattamento delle demenze – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 28 luglio 2020: Le emozioni e il loro ruolo nella relazione di cura – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 31 luglio 2020: Esercizi motori per stimolare le persone con demenza – a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 4 agosto 2020: Comunicare con il malato di demenza – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 7 agosto 2020: 5 suggerimenti pratici per la gestione quotidiana di una persona con demenza – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 25 agosto 2020: Parlare all’IO sano nell’Alzheimer e demenze – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 28 agosto 2020: Suggerimenti per allenare la memoria – attività di prevenzione alle demenze – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 1 settembre 2020: Vita quotidiana – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 4 settembre 2020: Esercizi per mantenere il corpo allenato – attività di prevenzione alle demenze a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 8 settembre 2020: Prendersi cura di sé – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 11 settembre 2020: Il rilassamento muscolare progressivo – a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 15 settembre 2020: Riflessioni conclusive – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.

 

Anna Finocchietti svolge attività libero professionale con orientamento cognitivo-comportamentale presso STUDIO40 nel Q3. Didatta del corso di specializzazione in psicoterapia presso la Scuola Cognitiva di Firenze. Con un gruppo di lavoro di Studi Cognitivi di Milano, impegnati nella clinica, nella ricerca e nella didattica, sta lavorando ad un protocollo per intervento cognitivo-comportamentale con caregiver di malati di Demenze. Membro del Consiglio Direttivo del Circolo Teatro L’Affratellamento dove ha iniziato il progetto di sostegno caregiver attraverso incontri informativi con la collaborazione del Q3. La personale esperienza di caregiver è stata la motivazione per un impegno di aiuto che integri testimonianza e strumenti professionali.

MeMo è un’associazione che svolge attività di prevenzione e promozione del benessere psicofisico durante l’intero arco di vita. Le attività di potenziamento cognitivo e motorio e di socializzazione a cura di Irene Mosele (psicologa) ed Elena Armaroli (dottoressa in scienze motorie) sono rivolte principalmente all’anziano sano e/o con decadimento cognitivo o demenza, al bambino e all’adulto sano o con disabilità. L’associazione è promotrice di diversi progetti di prevenzione del decadimento cognitivo, in collaborazione con il Comune di Firenze, Bagno a Ripoli e Impruneta, e di un programma di stimolazione cognitiva e motoria in gruppo per persone con decadimento cognitivo e Alzheimer che si svolge presso “Il Porto” nel Q3, “Officina della memoria”.

 

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