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Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep- 4/5 La paura di abbandonare il rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

Il podcast è distribuito su:

 


QUARTA PUNTATA DEL PODCAST:
LA PAURA DI ABBANDONARE IL RIMUGINIO

 

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep. 3/5 L’incontrollabilità del rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

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TERZA PUNTATA DEL PODCAST:
L’INCONTROLLABILITA’ DEL RIMUGINIO

 

 

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep. 2/5 Le forme del rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

 

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Tirocini impossibili e specializzazioni congelate: la Lettera aperta al Ministro Manfredi

Salve, siamo gli studenti delle seguenti scuole di psicoterapia italiane:

Istituto di Analisi Immaginativa, Slop Scuola Lombarda di Psicoterapia, Studi Cognitivi, Studi Cognitivi e Ricerca Ptcr di Mestre, C.I.S.S.P.A.T, SICC, SSPC IFREP (sede Mestre), IACP Milano, Sfpid Roma, Scuola Italiana di Cognitivismo Clinico SICC, Istituto Gabriele Buccola, scuola di psicoterapia cognitiva di Palermo, FormaMentis, Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Psicoterapia Training School, Istituto Walden Roma, Analisi transazionale, CRP Centro Ricerche in Psicoterapia, SICC SRL, IGB Istituto Gabriele Buccola Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Scuola di neuropsicologia La Sapienza, Scuola di specializzazione in Psicoterapia Psicosomatica del Cristo Re, Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) e Associazione di Psicologia Cognitiva Comportamentale (APC) di Verona, Ancona, Grosseto, Lecce, Roma, Reggio Calabria, Grosseto, Napoli, Bari, Iefcos, Scuola Adleriana di Psicoterapia, C.R.P. Centro per la Ricerca in Psicoterapia, SPIC di Busto Arsizio (Varese), IGB Scuola di Psicoterapia Cognitiva

È nostro interesse e necessità testimoniare e chiedere supporto per il difficile periodo dal punto di vista formativo inerente la conclusione dei nostri studi e l’adempimento delle ore annuali di tirocinio obbligatorio. Tale difficoltà è dettata dall’emergenza sanitaria in atto che ha avuto un notevole impatto anche nel nostro percorso formativo come psicoterapeuti.

Infatti, nonostante le molteplici richieste inoltrate ai vari responsabili delle strutture ospitanti dove noi psicoterapeuti in formazione svolgiamo il nostro tirocinio (aziende ospedaliere e strutture private convenzionate con il SSN) ancora oggi per alcuni di noi non è possibile svolgere e/o dare continuità al percorso di tirocinio obbligatorio per la specializzazione. Ciò è dovuto alle misure che tali strutture hanno adottato a seguito dell’emergenza sanitaria in corso tra cui, appunto, la sospensione dei tirocini medesimi. Altri colleghi ancora, pur avendo già un tirocinio attivo, non stanno ricevendo l’autorizzazione a rientrare in servizio per terminare le ore. Infine, diverse strutture non stanno permettendo nemmeno l’espletamento del tirocinio in modalità online (il MIUR oltretutto si è espresso sentenziando che il massimo delle ore espletabili da remoto può essere soltanto il 30% delle totali).

Secondo le ultime direttive ministeriali, gli studenti dei quarti anni qualora non riuscissero ad effettuare il tirocinio entro il 2020, saranno obbligati a spostare la data di specializzazione all’anno successivo finché le ore non siano state completate, con il rischio di dilatare le tempistiche, spendendo il doppio del tempo e delle energie.
Per tali ragioni terminare le ore di tirocinio, come da obbligo formativo, si sta rivelando un’impresa impossibile. La conseguenza è che ciò mette seriamente a rischio la nostra specializzazione.

Abbiamo quindi deciso di unirci nello scrivere la seguente lettera al Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, in cui spieghiamo la complessità della nostra condizione e chiediamo a lui supporto.

 

Gentile Ministro Manfredi,

Siamo degli studenti delle scuole di specializzazione in psicoterapia italiane.
Le scriviamo questa lettera facendoci portavoce di una situazione che ci mette in grande difficoltà e non ci permette di portare avanti il percorso di studi da noi scelto.

Nelle scorse settimane abbiamo segnalato alla direzione delle nostre scuole la complicatissima situazione che ci stiamo trovando a vivere riguardante l’espletamento del tirocinio curricolare: molte delle Aziende ospedaliere interpellate, così come le strutture private convenzionate con il SSN, non attiveranno nuovi tirocini nel 2020. Pertanto, nonostante ci siano tutor disponibili ad accoglierci, la domanda viene respinta dagli uffici preposti. Oltretutto le suddette comunicazioni vengono fornite telefonicamente dopo ripetuti tentativi di mettersi in contatto con le strutture; in molti casi non otteniamo neanche risposta alle mail di richiesta tirocinio inviate.

Per coloro che avevano già attivato il tirocinio nel mese di gennaio e febbraio 2020, la situazione non è migliore: molte strutture ospitanti infatti non permettono di rientrare in sede per completare le ore, fino a data da destinarsi. Facciamo presente che il lockdown è stato posto in essere a inizio Marzo, pertanto molti di noi hanno avuto modo di svolgere solo una piccola percentuale delle ore previste. Ricordiamo, infine, che non tutte le strutture acconsentono ad attivare un tirocinio online e che comunque le normative Ministeriali a tal proposito parlano chiaro: si possono espletare da remoto al massimo il 30% delle ore totali previste.

Secondo le ultime direttive, gli studenti dei quarti anni, qualora non riuscissero ad effettuare il tirocinio entro il 2020, saranno obbligati a spostare la data di specializzazione all’anno successivo finché le ore non siano state completate, con il rischio di dilatare le tempistiche, spendendo il doppio del tempo e delle energie.

Dai direttivi delle nostre scuole ci è stato risposto di seguire le disposizioni Ministeriali, che purtroppo risultano totalmente scollate da quello che è il contesto reale e attuale delle strutture ospitanti.
La situazione attuale non dipende da volontà personali di non svolgere il tirocinio ma da una condizione eccezionale causata da una pandemia globale.

Il nostro interesse è di segnalare la complessa situazione e chiedere un’attenzione e una tutela da parte del MIUR.

Porgiamo cordiali saluti,

Gli allievi delle scuole di psicoterapia italiane

 

La presente lettera è stata firmata dai seguenti studenti specializzandi in psicoterapia, raggiungendo 257 adesioni:

Adriano Trono Federica Lodi Rizzini Marta Barcaccia
Alessandra Colombo Federica Murabito Marta de Luca
Alessandra De Martino Federica Paganelli Marta Santonastaso
Alessandra Inglese Federica Pulito Martina Bellucci
Alessandra Perugini Festo Terenzio Martina Maffei
Alessandra Sgaramella Flavia Pizzicannella Martina Nicolis
Alessia Pappalardo Francesca Barbieri Martina Zaccaria
Alessia Spotti Francesca Cannone Matteo Cupellini
Alessia Stelitano Francesca Evangelista Melania Raccichini
Alice Tellini Francesca Girelli Melania Severo
Alice Zanini Francesca Grilli Michela Greco
Ambra Contardo Francesca Rascio Michela Marazzi
Andrea De Salvo Francesca Rizzuto Michele Antonelli
Andrea Galentino Francesca Rossini Michele Martino
Andrea Lusuardi Francesca Rubino Michele Storti
Andrea Panato Francesca Siino Monica David
Angela Manghisi Francesco Maria Carissimo Nadia Palamin
Anna Brentegani Francesco Pompei Nancy Drago
Anna De Luca Francesco Rizzo Nicoletta Agostinelli
Anna Maggio Fretti Marika Noemi Alagia
Anna Maria Carratelli Gianluca Cruciani Noemi Botticelli
Anna Maria Cutrupi Gilda Picchio Noemi Solarino
Anna Maria Mastrola Giordan Signoretto Nunzia Losito
Anna Paola Montagnoli Giorgia Caprara Ornella Bellomia
Anna Sardella Giorgia Petrova Pamela Gualdani
Annalina Pacifico Giorgio Carducci Pamela Saccoccio
Annalisa De Lucia Giovambattista Lo Russo Paola Montani
Antonella Bonifacio Giovanbattista Andreoli Paolo Spina
Antonella Calvio Giulia Armani Piera Stano
Antonella Calvio Giulia Baldini Rachele Dileo
Antonella de Fazio Giulia De Angelis Ramona Fimiani
Arianna Lucia Giulia Giuriato Ramona Salvati
Arianna Ventrelli Giulia Gozzi Reana Di Girolamo
Barbara Parlagreco Giulia Natarelli Riccardo De Cesaris
Barbara Trimarco Giulia Ongaro Riccardo Valli
Basei Arianna Giulia Perusi Roberta Cortese
Beatrice Salvetti Giulia Rossetti Roberta Lucia novello
Carla Perisano Giulia Salvi Roberta Romano
Carolina Papa Giulia Sorge Roberta Schifano
Cecilia Delaini Giulio Perelli Rosanna De Angelis
Cecilia Franchini Giuseppe De Santis Rosanna Turrone
Chiara Bagattini Grazia Basile Rossana Otera
Chiara Bolcato Greta Pasqualini Sabrina Consumati
Chiara Carnovale Greta Pozzetti Sabrina Dominello
Chiara Giannini Guyonne Rogier Sanfilippo Pietro
Chiara Maria de leone Ilaria Bernardon Sara Parlati
Chiara Miceli Ilaria Rizzo Sara Sirianni
Cinzia Calluso Ilenia Vallinoto Sara Terranova
Cinzia Governatori Irene Aganetto Serena Pericone
Cinzia Marcuzzo Irene Centomo Silvia Di Vara
Claudia Giartosio Irene Nisi Silvia Giorgione
Claudia Lucarini Irina Corrado Silvia Loppa
Claudio Contrada Isabella Federico Silvia Pucci
Cristina Fonte Jessica Brescia Silvia Ritacco
Cristina Parente Jessica Bruno Silvia Scrimieri
Dalila Cantale Jessica Di Tommaso Silvia Tulla Nesto
Damun Miri Lavasani Jessica Socci Simona Bartiromo
D. Di Sciascio Katarina Faggionato Simona Elia
David Maddalon Laura Blasi Sofia Bonamassa
De Lorenzis Laura De Zorzi Sofia Sambo
De Vita Maria Rosaria Laura Magro Solaria Favale
Delia Trapani Letizia Fidani Stefania Chines
Denise Grezzo Letizia Salvalaio Stefania Garzia
Elena Chiffi Luana Augusta Stefania Greco
Elena Facci Luana Roccatani Susanna Simeoni
Elena Gambella Luca Burigana Tania Fanelli
Elena Guidotti Luciano Consalvi Tanja Valentic
Elena La Gattuta Lucrezia Meduri Teresa Olivieri
Elena Martorella Ludovica Foglia Tranquilli Sara
Elena Puttini Luisa Casagrande Valentina De Santis
Elena Tonolli Majka De Tommaso Valentina Spagnoli
Eleonora Poli Marco Giugliano Valentina Varalta
Eliana Sbardella Marco Gussoni Valentina Verzari
Elisa Caputo Margherita Montolli Valeria Centello
Elisa Evangelista Maria Chiara Pipolo Valeria Vaccaro
Elisabetta Giuranno Maria Cristina Tata Valerio Pellegrini
Elisabetta Raniti Maria Grazia Nuzzo Vanessa Cianchi
Emma Lerro Maria Pia Pietropaolo Vanessa Ventre
Erica Esposito Maria Sole Lerza Veronica Ferrari De Stefano
Erika Maniscalco Maria Valentina Scaltrito Virginia Brunetti
Ermelinda Orsini Mariachiara Orlacchio Vita Picilli
Ester Fanton Mariagloria Favotto Vittoria Zaccari
Eugenia Corallo Marianna Caroprese Ylenia Scorrano
Fabiana Megna Marianna Liotti  
Fabrizia Tudisco Marika Iaia  
Federica Aloia Marilisa Ciorra  
Federica Lavilla Marina Carconi  

Curare i Disturbi dell’Alimentazione nel post-lockdown. Intervista agli esperti: Dr. Dalle Grave, Dott.ssa Calugi, Dott.ssa Bertelli, Dott.ssa Ramponi

Lo scorso primo luglio la Dott.ssa Rosaria Nocita, del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano, ha intervistato quattro professionisti che si occupano di pazienti affetti da Disturbi Alimentari.

 

Il rientro alla quotidianità ha portato le persone con problematiche alimentari a confrontarsi nuovamente con situazioni di disagio: esposizione del proprio corpo, ripresa di contatti sociali, ripristino della routine con conseguenti modifiche al regime alimentare, riattivazione di metodi compensativi.

Le crititicità di questo periodo consistono sia nell’affrontare i disagi propri del Disturbo dell’Alimentazione, antecedenti alla pandemia, sia nel fronteggiare le conseguenze del lockdown.

Ma cosa emerge nel quadro clinico di pazienti con Disturbi dell’Alimentazione dalla fine del lockdown? Quali sono le ‘sfide’ da affrontare in questo particolare momento? Quali conseguenze si osservano attualmente in seguito alla convivenza prolungata tra genitori e figli?

Gli esperti intervistati hanno condiviso preziose osservazioni su questi temi e hanno esposto riflessioni cliniche di grande valore, secondo le diverse aree di competenza e l’esperienza in contesti di cura differenti di ciascuno.

 

DISTURBI ALIMENTARI E LOCKDOWN – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AGLI ESPERTI:

 

Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano >> Clicca qui per saperne di più

 


CONTATTI

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Psicologia in cucina – La sparizione della farina spiegata dalla psicologia

Cucinare è un modo per dimostrare affetto e attenzione a chi ci è vicino e condividerà con noi quelle pietanze. Ma è anche un modo per prenderci cura di noi stessi ed esprimere il nostro umore.

 

Avrete sicuramente notato come nel periodo di quarantena dovuta al Covid-19 si sia riscontrato un fenomeno curioso: nei supermercati è sparita la farina! Esiste uno stretto legame tra psicologia e arte del cucinare. Non solo per un’indiscutibile necessità di cibo per la nostra sopravvivenza ma anche per il significato evidente che assume sia in campo sociale che come pratica per favorire uno stato di benessere personale. Una sorta di ‘mindfulness’, un percorso interiore per conoscerci meglio e, perché no, per farci conoscere meglio da chi ci sta intorno. Perché il nostro rapporto con la cucina dice molto anche di noi.

Perché è sparita la farina?

Indubbiamente le circostanze hanno avuto il loro peso. Trovandosi a passare molto più tempo a casa, numerose persone, molte più di quelle che lo fanno abitualmente, hanno deciso di utilizzare il loro tempo cucinando. Dolci, pizze, pane, pasta fatta in casa. Anche persone che normalmente non si erano mai dedicate alla cucina non solo per mancanza di tempo ma anche perché non si erano mai sentite particolarmente in sintonia con i fornelli.

Sicuramente cucinare ha un grande valore di condivisione, è un’attività che spesso presuppone un successivo momento in cui un gruppo, che in questo periodo possiamo restringere ad una famiglia, si ritrova intorno ad un tavolo e si guarda negli occhi. Passa del tempo insieme, lasciando da parte almeno per un po’ altre distrazioni, comunica, si confronta. Il poter sottolineare questo momento condividendo qualcosa che gratifichi i sensi, come il gusto, diventa un’occasione in più per far sì che l’umore e la disposizione d’animo dei partecipanti siano quanto di meglio si possa desiderare.

Cucinare ha appunto una forte valenza sociale, come ci spiega il Dott. Antonio Ceresa, neuroscienziato, nel suo libro La Cooking Therapy: Come trasformare la cucina in una palestra per la mente. Applicazioni per pazienti neurologici. La Cooking Therapy, ci spiega nel suo libro, sta diventando un vero e proprio trattamento medico per ridurre la disabilità in varie patologie neurologiche (ictus, demenze, trauma cranico) e psichiatriche (dipendenze da sostanze, schizofrenia, anoressia nervosa).

Cucinare ha infatti il potere di astrarci da quello che circonda, allontana altri pensieri e fa sì che ci concentriamo su quello che stiamo facendo in quel preciso momento. Ci concede una tregua da quello che normalmente occupa la nostra mente, funzione particolarmente utile soprattutto quando questo qualcosa è rappresentato da preoccupazioni e pensieri negativi. Allenta lo stress (manipolare gli ingredienti, come ad esempio impastare la farina, ha la medesima funzione rilassante delle note palline antistress), insegna a gestire il tempo senza ansie, inoltre ci fa sentire padroni della situazione, in grado di controllarla e prevederla, con effetti calmanti e rassicuranti.

Cucinare come forma di espressione

Il modo in cui cuciniamo dice anche molto di noi, ad esempio ci fa capire quanto siamo creativi, quanto siamo in grado di fronteggiare un imprevisto (vi è mai capitato di essere alle prese con una ricetta e nel bel mezzo della sua realizzazione accorgervi che vi manca un ingrediente essenziale?), quanto sappiamo essere pazienti nel differire una gratificazione e quanto siamo capaci di affrontare una delusione, qualora la nostra ricetta risultasse al di sotto delle aspettative o il forno decidesse di giocarci qualche brutto scherzo.

Cucinare è un modo per dimostrare affetto e attenzione a chi ci è vicino e condividerà con noi quelle pietanze. Ma è anche un modo per prenderci cura di noi stessi ed esprimere il nostro umore: oggi cucino questo perché è in sintonia con il modo in cui mi sento. Se cuciniamo solo per noi stessi abbiamo l’occasione di metterci in gioco senza sentirci giudicati, liberi di lasciarci andare ed essere noi stessi, e liberi di valutare i risultati che avremo raggiunto senza paura di essere criticati. Inoltre è risaputo che prendersi cura di sé stessi ha il potere di rendere più felici.

Da soli o in compagnia

A seconda che ci si dedichi all’arte culinaria da soli o in compagnia, obiettivi, effetti e benefici variano.

Cucinare da soli ci permette di ritagliarci del tempo esclusivamente per noi stessi, organizzarci, gestirci, prendere l’iniziativa, decidere come comportarci, ad esempio se seguire un piano prestabilito o mettere in gioco la nostra creatività. E il risultato (se tutto sarà andato bene) sarà una gratificazione alle nostre abilità.

Se cuciniamo in gruppo, condividiamo un’esperienza, ci confrontiamo con gli altri, collaboriamo per il raggiungimento di un obiettivo comune, dividiamo i ruoli e gli spazi, cementiamo l’intesa e otteniamo una gratificazione che riguarda il lavoro di squadra e la capacità di interagire più che le singole abilità.

Addirittura alcune aziende si affidano alla cucina per la loro strategia di team building, ossia quelle pratiche messe in atto nell’ambito delle risorse umane per formare un gruppo coeso e in grado di esprimere al meglio le potenzialità di ciascuno. Colleghi che hanno condiviso un’esperienza ai fornelli ne hanno ottenuto notevoli benefici sia dal punto di una maggiore capacità di collaborare che di una maggiore creatività.

A volte cucinare diventa anche un pretesto per mantenere vivi i contatti con gli amici, persone che magari non sono con noi in questo momento ma con le quali scambiamo ricette, esperienze e consigli. Consolida il nostro ruolo all’interno di un gruppo e allontana la paura di sentirci soli.

Una nuova concezione

Anche la concezione stessa della cucina, intesa come spazio dove sperimentare la nostra abilità ai fornelli, è cambiata radicalmente negli ultimi anni. Se una volta le cucine erano locali a sé dove gli ospiti esterni non avevano accesso, oggi cucinare è sempre più un atto di condivisione. Le cucine sono più aperte, a volte sono un tutt’uno con il salotto, e vedere la padrona di casa intenta a cucinare mentre si aspetta di pranzare, magari collaborando agli ultimi ritocchi, è visto come qualcosa di sempre più normale e piacevole.

Dunque, da soli o in compagnia, cucinare ci aiuta a confrontarci con noi stessi, con le nostre abilità e i nostri limiti, facilita il confronto con gli altri e la capacità di collaborare. E se vi sentite negati per la cucina, è il momento di sfatare questa convinzione: è infatti dimostrato che uscire dalla propria comfort zone e affrontare una situazione che fa sentire a disagio accresce l’autostima e la fiducia in noi stessi! Provare per credere.

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Introduzione: cosa si intende per rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

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Pensieri, linguaggi e spazi della rete: come e perché influenzano la mente degli adolescenti

Tendiamo un po’ tutti a sminuire l’importanza dei pensieri e, in particolare, a minimizzare il ruolo che essi rivestono nella determinazione dei comportamenti.

 

La nostra mente è bombardata e invasa quotidianamente da una serie infinita di concetti, idee e immagini che incidono sulle dinamiche di funzionamento del nostro cervello, generando continui processi di adattamento e cambiamento. Allorquando si tratti di suggestioni negative siamo indotti a ritenere, erroneamente, che transitare o indugiare per qualche attimo in pensieri di questo tipo non possa recare alcun danno.

In realtà, a causa della sua plasticità, il cervello si trasforma a seconda della natura degli impulsi e degli stimoli che riceve o di cui è oggetto, orientando conseguentemente le scelte e lo stile di vita che adottiamo. Ciò significa che, pur non avendone coscienza, siamo al centro di una violenta ‘competizione’ tra contenuti mentali diversi che cercano, rispettivamente, di avere la meglio. Ciascuno di essi, infatti, cerca di prevalere sull’altro con il proposito di accaparrarsi il controllo delle azioni e dei comportamenti. E’ evidente che, in questa lotta senza confini tra pensieri, siamo sensibilmente influenzati e condizionati dall’uso del linguaggio in quanto ‘soggetti parlanti’ (Dennett, 2000).

Nel medesimo istante in cui prestiamo il consenso, iniziando a colloquiare con le suggestioni che provengono dall’esterno, consentiamo alle stesse di insinuarsi nella nostra mente. Le evidenze scientifiche comprovano, peraltro, che la forza dei pensieri è tale da influenzare anche il corpo e la salute fisica, oltre che quella psichica. Invero, in alcuni casi gli stati d’animo indotti dai pensieri si spingono ogni oltre limite, originando anche malattie fisiche e sofferenze psicologiche.

I meccanismi mentali alla base della formazione dei pensieri hanno suscitato l’interesse della comunità scientifica e, in particolare, delle neuroscienze, le quali, analizzando il contributo di fattori genetici e ambientali alle differenze cognitive individuali, hanno prodotto nel tempo indicazioni assai utili.

Se si volge lo sguardo al mondo del web il processo di formazione dei pensieri diventa ancor più complesso e delicato. Alla luce dei profondi mutamenti intervenuti negli ultimi decenni, la rete, infatti, non è più da intendersi come mero strumento, avendo ormai ‘inglobato’ la mente e il linguaggio dell’individuo. Secondo l’ipotesi della ‘mente estesa’ (Clark – Chalmers) i confini della mente variano a seconda dei legami causali che il cervello intrattiene con porzioni di mondo fuori da sé. In questo quadro l’ambiente esterno non si limita a giocare un ruolo di input per i processi cognitivi e mentali che hanno luogo nella testa, ma viene inglobato nei processi stessi in qualità di veicolo esteso dei pensieri (Clark & Chalmers, 1988). Si è osservato, al riguardo, che l’ambiente tecnologico in cui siamo immersi, con cui abbiamo stabilito una simbiosi biotecnologica, diventa ogni giorno più personalizzato, tagliato su misura dei bisogni di ciascun utente, più trasparente, integrato nelle nostre vite e disegnato per aiutarci a portare a termine i nostri progetti tanto da diventare invisibile. Più questo mondo intelligente risponde alle intime esigenze dell’individuo, più è difficile stabilire dove finisca la persona e inizi l’ambiente tecnologico con cui essa co-evolve (Piredda & Gola, 2016).

Gli effetti che l’abuso tecnologico e la navigazione in rete generano nella mente degli adolescenti sono palesi. E’ stato rilevato, peraltro, che l’isolamento dei giovani nel mondo virtuale, oltre a sottrarli alle relazioni con l’ambiente, può condurre a diverse forme di psicopatologia (hikikomori, ludopatia, internet addiction, etc). In alcuni casi a causare il disagio o l’isolamento sociale può essere anche il cyberbullismo (Pirelli, 2018). Si aggiungano le tipologie di devianza correlate all’utilizzo della rete che, a seconda dei casi, vedono i giovani come autori o vittime di reato: sexting (invio di testi o immagini sessualmente esplicite tramite internet); grooming (adescamento online di minori a fini sessuali con tecniche di manipolazione psicologica); revenge porn (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, anche a scopo di estorsione, senza il consenso dell’interessato); happy slapping (aggressione con schiaffi di sconosciuti per strada ripresa e pubblicata sul web). Capita spesso che a farla da padrone sia la cultura del branco, la logica di gruppo pseudo-criminale di fronte alla quale le individualità dei singoli arretrano o, addirittura, scompaiono. Esistono poi i cosiddetti ‘giochi di morte’ indotti e veicolati dalla rete, ripresi e postati sui vari siti: blue whale (mettere in atto 50 azioni autolesionistiche, di preparazione alla morte, che culminano nel suicidio); balconing (gettarsi in piscina dai balconi delle camere d’albergo); ghost riding (abbandonare lo sterzo dell’auto a folle velocità, ballando sul cofano o sul tetto); car surfing (cavalcare una macchina in corsa come se fosse una tavola da surf); daredevil selfie (effettuare autoscatti in condizioni o situazioni estreme). Si tratta di esperienze emozionali molto forti in cui non esiste alcun senso del limite. A completare il quadro c’è il web sommerso (deep web), cioè l’insieme delle risorse informative non indicizzate dai normali motori di ricerca cui si accede mediante un linguaggio telematico sofisticato ovvero tramite app e siti istituzionali apparentemente normali. Nel deep web accade un po’ di tutto: cessione di armi o droga, prostituzione, pedopornografia, vendita di video violenti o macabri che ritraggono episodi di bullismo, stupri, suicidi.

A proposito della replicazione automatica dei pensieri assumono rilievo gli studi della memetica, i quali mostrano in che modo il cervello viene influenzato da alcuni meccanismi. La nascita della memetica si deve al biologo evoluzionista Richard Dawkins che nel libro Il gene egoista utilizzò per la prima volta il termine ‘meme’, un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione (simile al gene), appresa e custodita nella memoria individuale, che si trasferisce da individuo a individuo tramite replicazione.

I memi sono modi di fare qualcosa o di costruire qualcosa (non istinti), si trasmettono per via percettiva (non genetica) e hanno una propria fitness riproduttiva, proprio come i virus. I memi mutualistici sono diventati ormai la cassetta degli attrezzi, il vocabolario di ciascuna persona, e ciò perché ‘il linguaggio si è evoluto per adattarsi al cervello prima che il cervello si evolvesse per adattarsi meglio al linguaggio’ (Dennett,2018). Gli studi recenti confermano che la struttura del linguaggio non è determinata dalla funzione comunicativa, ma è l’esito di un progetto biologico che ha dotato gli esseri umani di un sistema di ricombinazione di simboli (Chomsky et al., 2019).

L’esplosione dell’uso dei media digitali e l’avvento dei social media hanno determinato il proliferare di ricerche scientifiche basate sull’analisi dell’impatto di determinati contenuti mediali. È il caso degli internet memes (file di testo, link, immagini, brani o video diffusi online), di cui si studiano le linee di discendenza e le modificazioni. E’ stato evidenziato, in proposito, che i meme mutano e si evolvono lasciando una traccia di dati che può essere studiata con un rigore metodologico senza precedenti (come nel caso di una delle prime ricerche sulla diffusione di informazioni via facebook o dei numerosi studi sul tipo di reazione emotiva suscitata da un contenuto su twitter). Oggi analisti e scienziati sarebbero in grado di tracciare la diffusione di idee e comportamenti in tempo reale con opportuni algoritmi (Liva, 2019).

C’è chi mette in guardia circa la complessità delle reti e la diffusione virale di idee e comportamenti, ponendo interrogativi su come emergono, si assestano, scompaiono o si propagano le idee e i comportamenti sociali. Fu Susan Balckmore a coniare qualche anno fa il termine tecnomemi i quali, a differenza dei memi, si riproducono senza bisogno di essere ospitati in cervelli umani; possono riprodursi ed evolvere saltando da una macchina all’altra mediante reti tecnologiche indipendenti. Si ipotizza addirittura che avremmo costruito, sia pure non intenzionalmente, una rete globale intrecciata che ha le caratteristiche di un ‘sistema complesso’ da cui in futuro potrebbero emergere proprietà imprevedibili. Tale approccio scientifico propone un interrogativo inquietante: ‘se mai davvero nascesse una mente o un pensiero autonomo o una coscienza di ordine superiore alla nostra da questa struttura fisica e informatica che abbiamo costruito, ce ne accorgeremmo?’ (Eletti, online).

Quanto ai nuovi linguaggi della rete e ai pericoli che incombono sugli adolescenti, l’influsso del mondo digitale è tale da poter oltrepassare qualsiasi confine, residuando pochi margini di manovra a tutela del singolo individuo. Ciò significa che, lungo questo percorso tortuoso, i più giovani corrono inevitabilmente il rischio di elaborare false immagini di sé, non riuscendo a trovare l’equilibrio tra identità personale, identità sociale e identità virtuale. Invero, l’identità e la struttura del sé, specie nella fase dell’adolescenza, rischiano di essere del tutto deformate o alterate dai meccanismi psicologici della rete (in particolare dei social).

Una delle caratteristiche dello sviluppo in adolescenza è trasformare le identità frammentate in un sé ‘integrato’. Considerato che questo processo si avvale delle continue sperimentazioni su internet e delle strategie di presentazione del sé finalizzate alla compensazione e alla facilitazione sociale (superare la timidezza, agevolare le relazioni), il risultato può essere di due tipi. 1) L’esplorazione in rete di nuove identità offre ulteriori opportunità, oltre alla famiglia e alla scuola, di scoprire sé stessi e accettarsi, favorendo lo sviluppo dell’unità del concetto di sé. 2) Gli esperimenti di identità in rete si rivelano dannosi in quanto la sovraesposizione a diverse relazioni e idee aumenta i dubbi circa il vero sé (Minelli, 2018).

In che modo allora tutelare gli adolescenti (e non solo) dal meccanismo perverso che li rende prigionieri e schiavi della raffica di contenuti mentali provenienti dal mondo digitale?

Ebbene, non è tanto o solo agli oggetti dei pensieri che occorre prestare attenzione, ma soprattutto alle loro ‘rappresentazioni’, non sottovalutando il fatto che una delle attività più frequenti è parlare a se stessi e che tramite la memoria e l’immaginazione i pensieri continuano a sopravvivere anche quando gli oggetti che li hanno prodotti non ci sono più.

Su un piano analogo e sovrapponibile alcuni suggerimenti utili derivano dalla prossemica, la disciplina che analizza la gestione del corpo e delle distanze durante la comunicazione. Un recente studio ha messo in luce che nella comunicazione internet 2.0, a dispetto della lontananza reciproca e dell’isolamento fisico, siamo in realtà tutti schiacciati e intrappolati in uno stesso ‘spazio ridotto’ (per quanto multidimensionale e definito dal proprio particolare punto d’accesso) e inesorabilmente esposti allo sguardo e all’azione altrui. I pericoli, pertanto, non diminuiscono affatto ma, paradossalmente, aumentano (Fadda, 2018).

Si può comprendere, a questo punto, quanto le ‘abitudini del pensiero’ siano vincolanti e in che modo esse riescano a condizionare lo stato emotivo, modificando la percezione della realtà. Non a caso si evocano di sovente i nuovi malesseri degli adolescenti (Muglia 2019). Da questo punto di vista sarà essenziale in futuro analizzare il rapporto tra mente, linguaggio e comportamento, approfondendo il nesso tra mondo digitale e plasticità del cervello nell’età adolescenziale. Ai fini di una compiuta e più efficace conoscenza del fenomeno non v’è dubbio che l’interazione sinergica tra linguistica, discipline umanistiche e neuroscienze cognitive risulterà di fondamentale importanza.

 

Storia del gusto. A tavola con i filosofi (2018) di Felice Bonalumi – Recensione

La agile e didattica ricognizione di Bonalumi nel suo libro Storia del gusto. A tavola con i filosofi, conferma che la filosofia non ha certo amato il senso del gusto né la funzione alimentare, ma già osservava Brillat-Savarin (1825), il cibo è un piacere sociale per eccellenza.

 

Non vi è molta differenza tra l’iconografia di Iside e quelle di Maria. Ad esempio, l’Isis Lactans del Museo Pio Clementino (Fig. 1) presenta analogie straordinarie con innumerevoli Madonne del Latte del nostro Medioevo e Rinascimento. Queste ultime immagini, tuttavia, contengono sempre un elemento di drammaticità, qualche sottile allusione simbolica alla passione e morte del Cristo, proprio nel momento dell’allattamento, proprio nella condizione della più piena beatitudine.

Del resto, nel modello kleiniano la suzione è il paradigma di tutte le relazioni oggettuali – libidiche ma anche persecutorie – del bambino e dell’adulto. La madre, che generosamente mette a disposizione il nettare bianco, è in questa prospettiva l’oggetto di desideri e di godimenti insuperabili, rispetto a cui le gratificazioni genitali non saranno che una pallida immagine.

L’onda lunga del ‘68 e una liberazione sessuale pervasiva e sistematica hanno dato un sapore insipido ai pruriti libidici che tormentarono i nostri nonni, con buona pace degli psicoanalisti ancora ancorati ad un rigido modello Freudiano. Se la genitalità è una fonte di godimento sempre più stanca e scontata nella società contemporanea, cresce invece in maniera inarrestabile l’interesse per l’alimentazione. Proliferano le diete, basate sui principi più disparati e bizzarri, che garantiscono bellezza, salute e giovinezza. Ma soprattutto si è affermato socialmente un interesse quasi coatto per la componente pulsionale dell’alimentazione, per i sapori.

Storia del gusto A tavola con i filosofi 2018 di F Bonalumi Recensione Fig 1

Fig. 1: Isis Lactans, Museo Pio Clementino, Roma

Storia del gusto A tavola con i filosofi 2018 di F Bonalumi Recensione FIg 2

 Fig. 2: Borgognone, Madonna del Latte, Accademia Carrara, Bergamo

Si moltiplicano le trasmissioni di cucina e le edizioni di repertori culinari. Vengono riscoperte e riproposte ricette romane, medioevali, rinascimentali. I cuochi più in voga si schierano ora per la novelle cuisine, ora per la cucina molecolare, ora per la cucina pop. Ovunque sorgono ristoranti etnici ove gli avventori inseguono il mito di sapori tradizionali od addirittura primordiali. In piena emergenza coronavirus il governo non ha potuto esimersi da una progressiva riapertura dei ristoranti, luoghi del tutto incompatibili con l’uso delle rituali mascherine protettive ma ormai essenziali al benessere sociale.

Non vi è dubbio: il senso del gusto svolge un ruolo centrale nella nostra società. Con il suo Storia del gusto: A tavola con i filosofi, Felice Bonalumi ha affrontato questo senso speciale sotto un profilo strettamente filosofico. In questo specifico ambito il gusto è stato oggetto da sempre di una decisa svalutazione. Senso troppo legato alla visceralità, alla corporeità, il gusto ha imbarazzato i cultori di una filosofia che in occidente manifesta una precisa opzione preferenziale per i processi intellettuali ed astratti. I numerosi capitoli che Bonalumi dedica alla filosofia antica non sono che elenchi forse un po’ sterili di classificazioni e prospettive filosofiche che hanno giudicato il gusto un senso insignificante o addirittura pericoloso per la riflessione filosofica.

Ad esempio, nella filosofia romana, il gusto rischia di compromettere l’ideale, etico ed estetico insieme, della moderazione. Per Cicerone, osserva Bonalumi, ‘il cibo è solo qualcosa di necessario per il corpo e per la vita e, riallacciandosi alle antiche virtù, la parola d’ordine è morigeratezza. La frase, cibi condimentum esse famem / il condimento del cibo è la fame, all’interno della polemica contro gli epicurei è diventata famosa’ (Bonalumi, p. 15). Addirittura, per Seneca l’ingordigia ha compresso l’austera etica della romanità primitiva fino al punto da incidere sulla salute del corpo: “Le malattie erano semplici e originate da cause semplici: la molteplicità delle portate ha provocato la molteplicità delle malattie. […] Perciò le nostre malattie sono nuove, come nuovo è il nostro genere di vita.” (ibidem, p. 17)

Nel cristianesimo tardo-antico e medioevale il conflitto tra digiuno e abbuffata, tra magro e grasso, tra carnevale e quaresima è un asse fondamentale, attorno a cui si organizza tutto il ciclo dell’anno e delle stagioni. Nel De digiuno Agostino rileva: ‘È un’osservanza questa, una virtù dell’animo, un vantaggio dello spirito a spese della carne, e non può essere oggetto di offerta a Dio da parte degli angeli‘. Non vi può essere vera festività senza una preparazione dell’anima e del corpo. E il digiuno ne è componente irrinunciabile.

Kant era convinto che la natura umana potesse contare su doti intrinseche che rendevano possibile un percorso conoscitivo ed etico inaccessibile agli animali inferiori. Questa specifica potenzialità dell’umano poteva per lui riscattare anche la più viscerale delle funzioni. Dal suo punto di vista – osserva Bonalumi – ‘la voracità distingue l’uomo che ‘non è schiavo di quella’ dalla bestia che ‘si getta sulla preda’ e istituisce ‘un rapporto morale e razionale dell’uomo col suo stomaco’ tanto che ‘lascia a un uomo il suo cervello, ma dagli lo stomaco di un leone o di un cavallo: ed egli certamente cesserà di essere un uomo’.’ (Bonalumi, p. 48).

Più ambigua è invece la posizione del materialismo ottocentesco. Feuerbach si rese famoso dichiarando che ‘L’uomo è ciò che mangia‘ ma non è chiaro se intendesse cogliere il valore dell’alimentazione nell’educazione e nello sviluppo morale dell’uomo, o semplicemente negare qualsiasi significato alle esperienze emotive e sociali.

Insomma, la agile e didattica ricognizione di Bonalumi conferma che la filosofia non ha certo amato il senso del gusto né la funzione alimentare. Ma attenzione, può essere facile svalutare questo senso speciale ed identificare il complesso sistema di fantasie libidiche e forze motivazionali associate ai piaceri del gusto con un livello di funzionamento psichico concreto ed autistico: una forza orientata alla dissoluzione del legame sociale.

Non è così: le immagini con cui abbiamo aperto il nostro breve intervento già suggeriscono una prospettiva diversa. Inoltre, come già osservava Brillat-Savarin (1825), il primo filosofo della Gourmandise, il cibo è un piacere sociale per eccellenza. Con la parziale eccezione della cultura nordamericana contemporanea, il pasto è sempre luogo e momento d’incontro. Dal simposio greco ai sissizi spartani, dai banchetti medioevali fino alle eleganti cene borghesi, la condivisione delle vivande è fondamento specifico della socialità.

Nella dimensione privata e familiare, poi, il pasto comune è il momento della condivisione e della comunicazione. Del resto tavole imbandite radunano ancora oggi intere famiglie allargate per le ritualità festive dal Natale e della Pasqua o in occasione della celebrazione dei matrimoni.

Le iconografie isidiche e mariane che abbiamo ricordato all’inizio di questa recensione richiamano la nostra attenzione sullo straordinario valore emotivo del pasto rituale. Il pasto, ogni pasto rimanda a questa situazione primaria, all’incontro simbolico con il materno.

Del resto nelle culture antiche non vi era pasto, vegetale o carneo che non fosse preceduto da un sacrificio alle divinità. Solo il cibo consacrato era consumabile. Offrendo se stesso sulla Croce il Cristo rinnova definitivamente il sacrificio, ma anche in questa nuova forma più astratta non vi è sacrificio senza un processo nutrizionale, almeno simbolico.

Il materialismo ci inganna. Insoddisfatti per la minestra quotidiana affolliamo esotici o gourmet, trascurando che ogni alimento rimanda alla beatitudine dell’allattamento, ed è nostalgia di una funzione sempre più evanescente nella società contemporanea.
Mentre il potere ed il controllo crescono nella cultura come nella politica, nell’igiene come nell’economia, nelle famiglie la capacità di nutrire, di generare e di alimentare appaiono sempre più retaggio di un passato ormai inattingibile: l’inarrestabile declino demografico che affligge l’occidente non riflette solo problemi sociali o pressioni ideologiche e culturali.

Nel ‘600 le grandi potenze si affrontavano negli oceani per il controllo delle spezie, fonte di inestimabile ricchezza e potere. Oggi inseguiamo miti culinari più economici. Ma non potremo mai riappropriarci di ciò che il tempo ci ha tolto per sempre. Non gusteremo più il latte materno.

 

Sogni lucidi: gli effetti sull’umore

I sogni lucidi sono definiti come sogni in cui l’individuo diventa consapevole di sognare: i sognatori lucidi sono immersi in uno stato di coscienza ibrido, che presenta elementi di veglia e sogno (Voss et al., 2009).

 

Di conseguenza, i sognatori a volte possono cambiare la scena o la situazione del sogno e manipolare gli eventi del sogno come desiderano. Poiché il mondo dei sogni non è vincolato dalle leggi o dai parametri della fisica, gli individui sono in grado di compiere atti – impossibili nel mondo reale – come volare, fare magie o respirare sott’acqua (Stumbrys & Erlacher, 2016).

Uno dei metodi per capire se si sta sognando è noto come test di realtà (per esempio nei sogni non si può spegnere la luce o si continua a respirare se ci si tappa il naso) (LaBerge & Rheingold, 1991). Più l’individuo si abituerà a testare la realtà durante il giorno più aumenterà la probabilità che il sognatore metterà alla prova il suo ambiente quando sogna, riuscendo a discriminare lo stato di veglia da quello di sonno.

Altri due metodi, l’Induzione Mnemonica dei Sogni Lucidi (MILD; LaBerge, 1980) e il Wake-Back-To-Bed (WBTB; LaBerge et al., 1994), sono usati in congiunzione tra loro, in quanto un individuo è svegliato dal sonno dopo un periodo di tempo specifico per aumentare la prontezza mentale (WBTB) e istruito a provare cognitivamente una frase, come ad esempio ‘mi ricorderò che sto sognando’ (MILD), quando si ricoricherà per dormire.

Pur esistendo un filone di ricerca che indica che l’addestramento ai sogni lucidi può essere utilizzato per ridurre gli incubi sia in intensità sia in frequenza (Spoormaker & Van Den Bout, 2006; Zadra & Pihl, 1997; Macedo et al., 2019), poco si sa sugli effetti che il sogno lucido ha sull’umore dell’individuo durante la veglia.

Uno studio recente (Stocks et al., 2020) ha voluto indagare se l’esperienza della lucidità nel sogno migliora l’umore nella veglia e se la lucidità è associata al contenuto emotivo del sogno e alla qualità soggettiva del sonno.

20 partecipanti sono stati invitati a completare tecniche di induzione del sogno lucido per una settimana, durante la quale sono stati invitati a completare circa 10 test di realtà al giorno insieme alla tecnica MILD/WBTB di notte e a riportare gli effetti in un diario di sogno online, per una valutazione sui sogni lucidi e valutazioni soggettive della qualità del sonno, del contenuto emozionale del sogno e dell’umore durante la veglia.

Un questionario a 19 item – composto da item del Dream Lucidity Questionnaire (DLQ; (Stumbrys et al., 2013) e del Lucid Skills Questionnaire (LUSK; (Schredl et al., 2018) – è stato utilizzato per la valutazione sui sogni lucidi. La Positive and Negative Affect Schedule (PANAS; Watson et al., 1988) è stata utilizzata per la valutazione dell’umore dei partecipanti durante la veglia.

Dai risultati si è riscontrato che chi aveva avuto più sogni lucidi aveva la mattina un umore migliore e un maggiore contenuto positivo del sogno rispetto a chi aveva avuto meno sogni lucidi. Una correlazione positiva è stata trovata anche tra sogni lucidi e vividezza sensoriale, senza inoltre pregiudicare la qualità del sonno. Sorprendentemente, non è stato riscontrato alcun rapporto tra il numero di test di realtà e di tecniche MILD/WBTB e la frequenza di sogni lucidi, risultato che va in contrasto con quello di altre ricerche (Aspy et al., 2017).

Alla luce di questi risultati i sogni lucidi confermano il loro potenziale di supporto per il benessere dell’individuo e per il trattamento degli incubi, sebbene si incoraggino in futuro ricerche su numeri più ampi ed effetti nel lungo periodo.

 

European Conference on Digital Psychology: iscrizioni aperte

Iscrizioni aperte alla prima Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale , organizzata dalla Sigmund Freud University Milano il 19 e 20 febbraio 2021 presso lo Spazio Eventi Magna Pars a Milano.

ISCRiVITI ORA! 9998
  • Early registration: 15 ottobre 2020
  • Late registration: 15 dicembre 2020

 

European Conference on Digital Psychology – CALL FOR ABSTRACTS

Call for abstracts aperta fino al 15 settembre 2020: studenti universitari e post Laurea, studenti di Scuole di specializzazioni, clinici, ricercatori e Professori possono sottoporre già da ora abstract per presentazioni orali e/o poster dei loro progetti.

Info: [email protected]

Lo psicologo delle cure primarie può fare la differenza per il benessere della collettività

L’attenzione alla componente psicologica della salute è fondamentale. Al senato arriva la proposta di legge per l’istituzione dello psicologo delle cure primarie. Requisiti sui quali si basa il servizio: costi contenuti e rapida presa in carico della persona.

 

Il disegno di legge intitolato ‘Istituzione dello psicologo di cure primarie’ è stato illustrato in Senato il giorno 16 luglio 2020 dalla prima firmataria, la senatrice Paola Boldrini, capogruppo del Pd nella Commissione Sanità.

Alla conferenza stampa erano presenti anche David Lazzari, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Mario Falconi, presidente del Tribunale dei diritti e doveri del medico e Antonio Panti, della Commissione deontologica della Fnomceo, i quali si sono espressi a sostegno del DDL, essendo solidali e credendo nei principi sui quali si fonda.

Il DDL, in quanto iniziativa legislativa, rappresenta il primo passo verso la realizzazione concreta del servizio. Seguirà l’iter canonico: verrà annunciato all’Assemblea e assegnato alla Commissione competente per essere approvato alla Camera.

Introduzione

L’OMS calcola che nel mondo ci siano 450 milioni di persone che soffrono di disturbi mentali, neurologici o del comportamento, e che la gran parte di questi disturbi non siano né diagnosticati né trattati (OMS 2001).

Ed il numero continua a crescere con un conseguente impatto sulla salute e sui principali aspetti sociali, umani ed economici in tutti i Paesi del mondo. (Epicentro, ISS, 11 ottobre 2020).

Sono oltre 50mila le telefonate arrivate, con un vero e proprio picco di chiamate giornaliere durante il lockdown, al numero verde di supporto psicologico, attivato nel mese di aprile 2020 dal ministero della Salute e dalla Protezione Civile per l’emergenza Covid-19. Il servizio ha registrato un alto grado di soddisfazione degli utenti nel periodo di attività; a chiamare molti anziani ma anche studenti; l’età media registrata è di 49 anni. Le motivazioni di chi utilizza il servizio sono legate a stati di ansia (14%), depressione (13%) o più frequenti stati di preoccupazione generalizzata e altre problematiche pregresse emerse a causa dell’emergenza (oltre il 40%). Merita attenzione il dato di persone con problemi di irritabilità (2%), con disturbi del ciclo sonno-veglia (2%), con problemi di relazione (1,2%), e quelle che hanno richiesto aiuto nell’elaborazione di un lutto (3,2%) non necessariamente legato al Covid-19 (Comunicato n. 189, 11 giugno 2020, Ministero della Salute).

In Italia solo il 60% di chi riferisce sintomi depressivi ricorre all’aiuto di qualcuno, rivolgendosi soprattutto a medici e operatori sanitari (Sorveglianza PASSI, Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia, periodo 2015-2018).

Nel 2018 il portale AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha rappresentato un dato allarmante: rispetto all’anno precedente, infatti, è aumentato dell’8% il numero di italiani a cui è stato somministrato un farmaco per combattere ansia, nevrosi, attacchi di panico e insonnia. (Rapporto OsMed 2018)

Nel 2017 circa 3,7 milioni di italiani hanno assunto psicofarmaci, mentre il consumo di benzodiazepine è stato 50 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti. Dati allarmanti a cui va aggiunto il sommerso, nonché il numero di persone che, pur avendo bisogno, per vergogna, decidono di non farsi aiutare (AIFA).

La riflessione sull’organizzazione dell’assistenza psicologica si colloca all’interno di uno scenario che comprende sia la crescita progressiva della domanda psicologica da parte dei cittadini, sia il cambiamento degli scenari dei percorsi di cura che richiamano sempre con maggiore insistenza alla qualità della cura, includendo necessariamente l’aspetto psicologico e relazionale, aspetto, inoltre, presente nei nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).

L’obiettivo della psicologia di cure primarie è quello di garantire benessere psicologico di qualità nella medicina di base, sul territorio, vicino alla realtà di vita dei pazienti, alle loro famiglie e alla comunità.

Commento al DDL

Il disegno di legge, cioè una proposta legislativa, avanzata dalla senatrice Boldrini ed i suoi collaboratori, potrà tradursi in legge una volta approvata, in forma identica, da entrambe le Camere.

Il testo di legge si presenta diviso in 3 articoli:

ART 1: istituzione del servizio di cure psicologiche

  • In riferimento all’articolo 1, comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, e dell’articolo 12 della legge 25 giugno 2019, n.60, in ogni azienda sanitaria locale viene instituito il servizio di psicologia di cure primarie, strutturato a livello di distretto sanitario. Lo scopo è quello di garantire un primo livello di servizi di cure psicologiche nella medicina di base, che sia di qualità, accessibile e caratterizzato da una rapida presa in carico della persona, efficace, economicamente efficiente ed integrato con gli altri servizi sanitari e socio-sanitari. Proprio in relazione a questo ultimo punto, viene sottolineata la necessità di sviluppare una rete di collaborazione con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta, nonché con gli altri professionisti sanitari e socio-sanitari (ostetriche, fisioterapisti, infermieri) presenti sul territorio. Con la consapevolezza che nella medicina moderna il concetto di salute ha assunto un significato ampio e dinamico. La salute è definita come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non mera assenza di malattia (OMS, 1946).
  • Il sevizio di psicologia di cure primarie garantisce un primo livello di intervento sulla popolazione per rispondere alla domanda di cura dei disturbi mentali ad uno stadio iniziale. Il fine è quello di intervenire precocemente per limitare o eliminare il disagio psicologico dell’individuo ed i conseguenti costi sociali ed economici in caso di assenza di intervento primario. Il servizio organizza e gestisce l’assistenza psicologica di base promuovendo e realizzando l’integrazione funzionale con i servizi specialistici di secondo livello, costituendo un filtro sia per l’accesso ai livelli secondari di cure sia per il pronto soccorso.

Art. 2: aree di intervento, percorsi operativi e finalità del servizio di cure psicologiche

  • Le aree di intervento su cui lo psicologo di cure primarie è chiamato ad intervenire, delineate nei nuovi LEA, sono:
    • disagi legati all’adattamento quali lutti, perdita del lavoro, separazioni e malattie croniche;
    • problemi legati a fasi del ciclo di vita;
    • disagi emotivi transitori ed eventi stressanti;
    • sostegno psicologico alle diagnosi infauste e alla cronicità o recidività delle malattie;
    • scarsa aderenza alla cura;
    • richiesta impropria di prestazioni sanitarie;
    • supporto all’equipe dei professionisti sanitari.
  • L’attività dello psicologo di cure primarie, che affianca il medico nella cura del paziente, è finalizzata nella prevenzione primaria, per identificare precocemente e intervenire tempestivamente in problematiche psico-sociali. È finalizzata, inoltre, nella prevenzione secondaria per attuare un intervento di primo livello nei casi di sofferenza psicologica già in atto ed inviare appropriatamente la persona a servizi socio-sanitari, anche specialistici e territoriali secondo necessità.
    Lo scopo delle cure psicologiche in questo senso è quello di aiutare la popolazione a gestire problematiche psicologiche di varia natura, problemi legati all’adattamento, quali perdita del lavoro, separazioni, malattie croniche, ma anche problemi legati al ciclo di vita dell’individuo e a disagi emotivi transitori ed eventi stressanti.
    L’interesse deve essere sempre quello di contribuire a progetti di prevenzione della malattia e di promozione ed educazione alla salute.
  • Il servizio di psicologia di cure primarie sviluppa un rapporto strategico con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta per intervenire sui sintomi psichici di lieve o media entità o sintomi fisici i quali non risultano ascrivibili a patologie organiche producendo somatizzazione di ansia e stati depressivi.
  • Gli aspetti funzionali di integrazione e collaborazione tra medici e psicologi nelle cure primarie sono ricompresi in 3 processi operativi:
  • Invio da parte del medico allo psicologo, cui segue la presa in carico integrata
  • Trattamento congiunto, in cui il medico e lo psicologo valutano contestualmente il paziente
  • Consulenze specifiche: situazioni in cui il medico chiede allo psicologo di individuare e condividere strategie di intervento; di analizzare le dinamiche che limitano il mantenimento dello stile di vita e lo stato di salute della persona in famiglia; di avere un confronto su problematiche relazionali con la persona o un supporto nella presa in carico della persona ad alta intensità emotiva.

ART. 3: organizzazione del personale per il servizio di cure psicologiche

  • Afferiscono al servizio di psicologia di cure primarie gli psicologi dirigenti dipendenti, gli psicologi con rapporto convenzionale della specialistica ambulatoriale e gli psicologi assunti con formazione post-laurea specifica in cure primarie. Il rapporto di riferimento è di uno psicologo ogni cinque medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, anche con rapporto di lavoro flessibile in attesa che venga stipulato uno specifico accordo nazionale unico della psicologia delle cure primarie ai sensi dell’articolo 48 della legge 23 dicembre 1978, n.78.
  • Le aziende sanitarie locali ed ospedaliere istituiscono il Dipartimento aziendale di psicologia, all’interno del quale è ricondotto anche il servizio di psicologia di cure primarie, la cui direzione è affidata ad un dirigente psicologo.

Conclusioni

L’accesso volontario e diretto ad uno psicologo, in grado di dare risposta ad un disagio di origine non biologica è oggi estremamente difficile. La difficoltà è data sia da un pregiudizio sociale ancora molto diffuso, sia dalla assenza di tale professionalità nell’ambito dell’assistenza primaria. Questo si traduce in un contatto con l’utente, da parte del professionista di cure psicologiche, laddove il medico di assistenza primaria ne riscontri l’utilità, estremamente tardivo. Con il rischio che sintomi e disturbi si cronicizzino, con perdite significative di quote di efficacia ed efficienza.

L’istituzione dello psicologo di cure primarie potrebbe da una parte normalizzare la figura professionale e dall’altra intervenire prontamente sui disagi psichici, nelle fasi iniziali, laddove l’intervento è risolutivo nella maggior parte dei casi.

Se si vuole un sistema di cure primarie utile ed efficace, l’attenzione alla componente psicologica della salute è fondamentale, e non si tratta solo di offrire cure al disturbo psicologico o di trattare il problema individuale. Si tratta di occuparsi del benessere e della salute psicofisica dei cittadini di un territorio, dei membri di una comunità, in modo equo e accessibile, per fornire a tutti, indistintamente, cura e terapia, ma anche per promuovere consapevolezza, promozione di salute e adozione di comportamenti positivi.

L’auspicio è che, nel clima di nuova valorizzazione che lo Stato Italiano sta dando alla sanità pubblica in questo momento, vi sia da parte del Parlamento la volontà di portare avanti questa svolta epocale per la salute psicologica dei cittadini.

 

La maggioranza silenziosa: la popolazione anziana in Italia e in Europa ai tempi del Covid-19

Il numero di anziani in Europa è in crescita progressiva. La transizione alla vita anziana è anzitutto una transizione familiare; indipendentemente dalla coabitazione, tutti i membri che sono in relazione con l’anziano si trovano a ricoprire nuovi ruoli ed assumere nuove responsabilità.

Premessa

Ho scelto questo titolo La maggioranza silenziosa ricordando il titolo di un testo La maggioranza deviante di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, pubblicato per la prima volta nel 1971. Gli autori analizzano la tipologia della devianza e il suo inserimento all’interno del contesto sociale ed economico del periodo, quando in Italia la cultura psichiatrica era chiusa in una “ideologia della diversità” che sanciva l’inferiorità dell’altro. Il grosso problema che Basaglia mette in luce è costituito dall’organizzazione sociale custodialistica e punitiva.

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entri questo riferimento con la popolazione anziana oggi in Italia ed in Europa. Come cittadina e professionista psicologa ho dovuto rilevare che il mondo occidentale si è accorto della numerosità degli anziani solo in occasione della numerosità dei decessi che il virus ha determinato prevalentemente in pazienti di fasce d’età compresa tra i 70 anni ed oltre.

E in quali contesti si è diffuso il contagio del virus? In RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) strutture con un’utenza esclusivamente anziana, la cui organizzazione non ha nulla da invidiare alle Istituzioni Totali spersonalizzanti e custodialistiche degli anni ’70. Tutti avremo osservato come le informazioni che i media fornivano quotidianamente, come “bollettini di guerra” sui morti, risultavano svalorizzanti e superficiali quando si soffermavano sulle percentuali che riguardavano gli anziani. Come ha detto recentemente il prof. Alessandro Vespignani da Boston, intervistato da Lucia Annunziata, “…in fondo, come se rappresentassero un peso”. Questa tragica esperienza servirà a ripensare e riprogettare l’organizzazione sociale e socio sanitaria destinata a questa numerosità imponente di cittadini e alle loro famiglie?

Qualche dato in Italia

Da oggi la popolazione italiana può considerarsi più giovane: si è ufficialmente “anziani” dai 75 anni in su. La svolta è arrivata dal Congresso nazionale della Società italiana di gerontologia e geriatria (SIGG) che si è tenuto a Roma nel novembre 2019:

Un 65enne di oggi ha la forma fisica e cognitiva di un 40-45enne di 30 anni fa. E un 75enne quella di un individuo che aveva 55 anni nel 1980. (prof. Niccolò Marchionni)

I geriatri lanciano l’adozione di una definizione dinamica del concetto di “anzianità” che si adatti

alle mutate condizioni demografiche ed epidemiologiche. Bisogna tener conto che scientificamente si è anziani quando si ha un’aspettativa media di vita di dieci anni.

Immagine 1 – Dati Istat sulla popolazione anziana

Immagine 2 – Dati Istat sulla popolazione anziana

Qualche dato in Europa

Il numero di anziani in Europa è in crescita progressiva, secondo i dati Eurostat. Il rapporto Ageing Europe 2019 restituisce un quadro già noto, da alcuni anni, in merito ad età, condizioni di salute e di vita degli over 65.

È l’intera popolazione europea a mostrare una curva anagrafica verso l’alto: gli anziani sono più numerosi, la loro aspettativa di vita è più lunga e al tempo stesso nascono meno bambini. Eurostat scrive che l’età media della popolazione, nei 28 paesi UE, al 1° gennaio 2018 è di 43,1 anni. Tradotto: metà dei cittadini europei hanno superato i 43 anni. In Italia, questo rapporto è di poco più alto, cioè metà della popolazione ha già compiuto 46,3 anni.

Inoltre, si stima che in Europa la popolazione degli anziani di età pari o superiore a 65 anni salirà dai 101 milioni all’inizio del 2018 a 149 milioni entro il 2050.

La famiglia e gli anziani

Nonostante gli studi della sociologia relazionale evidenzino l’indebolimento e la crisi della famiglia, è opportuno occuparsi del fenomeno dell’invecchiamento in relazione a questa cellula della società insostituibile, espressione di un bisogno naturale di incontro e scambio tra generazioni.

Se ci riferiamo al ciclo vitale della famiglia, l’entrata nella fase anziana rappresenta oggi una nuova sfida della vita, ammesso di riuscire a vivere la transizione in maniera positiva. Infatti, la transizione alla vita anziana è anzitutto una transizione familiare, indipendentemente dalla coabitazione, che non riguarda solo il soggetto anziano, bensì tutti i membri che sono in relazione a lui e che si trovano in quel momento a ricoprire nuovi ruoli ed assumere nuove responsabilità.

In questo senso, è di fondamentale importanza per il benessere dell’anziano la concordanza tra vari fattori:

  • l’atteggiamento che la società nel suo complesso ha nei confronti dell’invecchiamento;
  • le condizioni psicofisiche dell’anziano;
  • le aspettative dell’anziano;
  • le aspettative delle persone per lui significative che fanno parte della rete familiare ed amicale.

L’età cronologica non è più l’elemento primario dell’esperienza personale dell’invecchiamento; esiste uno iato tra la società delle immagini che si concentra sull’età cronologica e sulle modificazioni corporee, e la percezione personale di ciascuno.

L’approccio sistemico, purtroppo, non si è occupato di questa fase del ciclo di vita familiare, nonostante la particolare lente con la quale guarda alle dinamiche relazionali potrebbe offrire un grande contributo nel trattare la complessità e l’eterogeneità delle famiglie con generazioni anziane. La transizione all’età anziana va analizzata in una prospettiva relazionale, individuando rischi e risorse proprio nel contesto familiare considerato quale luogo di incontro e scambio tra le generazioni.

Cosa significa essere nonni oggi?

Attias-Donfut, in qualità di pioniera e studiosa di questa tematica, afferma che i nonni hanno un ruolo fondamentale nella vita dei propri nipoti, poiché contribuiscono alla costruzione della loro identità personale, costituendo per loro quella che viene chiamata pillar identity, cioè la colonna portante della loro identità. E’ cruciale per un bambino o un giovane, vivere il rapporto con i nonni, con i quali si instaura un rapporto altro, rispetto a quello impostato con e dai genitori, un legame dove è possibile sperimentare nuove e altre parti di sé, dove le regole possono cambiare e la fantasia può prendere varie forme. (Bramante, 2020)

Il fenomeno dei nonni come risorsa nella scena familiare è presente in tutti i paesi europei, in particolare delle nonne, come figura di supporto nella cura dei figli e sostengo ai genitori impegnati nel difficile compito di conciliazione tra famiglia e lavoro; ruolo che diviene particolarmente cruciale per tutti i genitori single o separati.

La cura dei nipoti gioca anche un ruolo nel bilancio tra dare e ricevere tra le generazioni e introduce una maggior probabilità che, da adulti, i nipoti siano poi disponibili a ricambiare, offrendo assistenza ai loro nonni.

La famiglia italiana contemporanea ha ereditato dalle generazioni precedenti la cura a domicilio dei propri anziani: dagli anni ’80 in poi è diminuito in modo significativo il ricorso all’istituzionalizzazione dell’anziano autosufficiente, ed anche parzialmente autosufficiente. Questo è avvenuto grazie al fatto che le famiglie si sono organizzate autonomamente nella cura a domicilio, pur tra mille difficoltà, attraverso un ruolo di care giving svolto in genere dalle donne con l’aiuto di badanti.

Il primo rapporto sull’innovazione e il cambiamento nel settore della (LCT) Long Term Care (a cura di CERGAS SDA BOCCONI, 2018), ha fotografato l’esistenza di un esercito silenzioso di 8 milioni di caregiver familiari che si auto-organizzano per far fronte ai bisogni di assistenza dei propri cari, anche non più autonomi, a cui si affiancano quasi un milione di badanti tra regolari e non regolari.

Oggi è la generazione di mezzo, generazione sandwich, che ha subito un progressivo invecchiamento, portando ad assistere al fenomeno per cui “giovani anziani” si trovano a prestare sostegno ed aiuto ai “grandi anziani”. Proseguendo in questa direzione c’è il forte rischio che il carico eccessivo di cura a domicilio possa portare al burn out del caregiver familiare con conseguente urgente ricorso al ricovero in strutture RSA, vissuto come sconfitta e con sensi di colpa che complessificano il delicato passaggio dal domicilio all’Istituzione.

Va inoltre considerato che l’inserimento in RSA – Istituzione Totale – da un lato priva della sua specifica singolarità il nuovo ospite e dall’altro tende rapidamente a far sentire il sistema familiare “esautorato” dal prendersi cura del proprio congiunto. Questa esperienza viene descritta dai familiari come estremamente dolorosa e accompagnata da una sensazione di spaesamento.

Ho avuto l’opportunità di occuparmi, come formatrice di operatori di differenti professionalità, delle metodologie di accoglimento del nuovo ospite e della sua famiglia in numerose RSA. Da tutti gli operatori sono state descritte maggiori criticità quando il ricorso alla struttura residenziale è assimilato con l’arrivo ad un Pronto soccorso piuttosto che ad una preparazione e cura dell’accoglimento. In ogni caso, è stata sempre rilevata l’assenza, o la scarsa percentuale di presenza sul territorio, di servizi di Cura e di Assistenza intermedi, che possano quindi ritardare, ove effettivamente necessario in caso di pluripatologie e di complessificazione delle cure, il passaggio dal domicilio alla struttura residenziale.

Nel secondo rapporto sul futuro del settore LCT e delle prospettive dei servizi (a cura di CERGAS SDA BOCCONI, 2019), i gestori pubblici, privati e dalle policy regionali, hanno sottolineato il ruolo fondamentale del counseling destinato alle famiglie, necessario per orientarle su nuovi servizi, quali:

  • nuove soluzioni a domicilio;
  • nuove soluzioni per l’abitare e l’housing sociale;
  • nuove forme di residenzialità assistenziale;
  • nuove forme di Centri Diurni;
  • nuove modalità di presa in carico personalizzata dell’anziano.

Il rapporto si conclude con delle domande aperte sulle direzioni che prenderà l’innovazione:

[…] rimane da dirimere se il regolatore pubblico vorrà essere regista delle trasformazioni necessarie, indicando una strada realistica e percorribile o se per l’ennesima volta vorrà nascondersi dietro la facciata di un universalismo formale, lasciando che solo le determinanti epidemiologiche, sociali, e di mercato costruiscano il settore così come è già accaduto negli ultimi 20 anni con il fenomeno delle badanti.

Così termina il rapporto pubblicato nel settembre 2019; ora, a maggio 2020, potremmo aggiungere: “come la diffusione del Covid-19 nelle RSA per anziani ha rivelato”.

 

L’uomo nelle relazioni

Percepiamo chiaramente che le relazioni, nel bene e nel male, influenzano le nostre emozioni. Oggi sappiamo che, mediante le emozioni, le relazioni influenzano anche la nostra fisiologia determinando benessere o sintomi vaghi. 

 

La natura umana è inscindibilmente relazionale, vale a dire che l’uomo trova la propria ragion d’essere solo nel giusto rapporto con le altre persone. In quest’ottica il successo e, più in fondo, la propria realizzazione altro non sono che una comunicazione riuscita con chi ci sta intorno.

È atteggiamento nevrotico l’usare il proprio potenziale per manipolare gli altri anziché crescere personalmente: il nevrotico prende il controllo e usa gli altri in compiti che non riesce a fare da solo.

Invece la persona in sintonia con l’ambiente non dirige ma integra le proprie capacità tra le persone con le quali condivide affetti o esperienze professionali.

In ciò la lingua di una comunità svolge un grande fattore di integrazione sociale. Attraverso la stessa lingua è possibile far passare la comunanza delle persone. Per questo in una occupazione di un paese straniero gli occupanti lo dotano della loro lingua.

Una stessa lingua non è mai uguale a sé stessa. Ci sono differenze diatopiche (dialetti regionali), diastratiche (tra classi sociali), diafasiche (dei registri, pensiamo che quello di uso quotidiano è diverso da quello ufficiale), diamesiche (dei mezzi di comunicazione). Ma ogni lingua costituisce un unicum, un sistema originale con cui il singolo popolo si dota di senso in vista dell’esperienza. Ogni lingua ha delle particolarità. Nella grammatica ebraica il termine ‘vocale’ significa letteralmente ‘movimento’ per indicare che, in questa lingua (e anche in aramaico), le vocali cambiano spesso nella formazione delle parole. In aramaico biblico i femminili che escono in –U servono a formare gli astratti. In sanscrito la E indoeuropea è resa A. L’Italiano deriva dal toscano. Sono tutti segni di una organizzazione interna che promana da ciò che si chiama lo spirito specifico di un popolo.

Il nostro psichismo deve procedere in armonia con il mondo esterno. La ragione ci spinge a scegliere quelle azioni con le quali interagiamo con gli altri. L’emotività ci fa sentire che quelle sono scelte giuste. Un padre avverte emotivamente che lavorare coscientemente e impiegare il proprio tempo per la famiglia è qualcosa di giusto.

Parte razionale e parte emotiva devono quindi andare di pari passo. Nel caso in cui non ci vadano, la psicoanalisi parla di ‘personalità come se’: colui che fa una cosa, è all’apparenza impeccabile buon padre di famiglia, buon impiegato, ma dentro avverte che tutto questo lo soffoca e non esprime adeguatamente la propria interiorità. Certamente la società nasce sempre per una certa repressione delle pulsioni, tuttavia tale repressione non deve essere parossistica, altrimenti l’individuo diviene macroscopicamente malato, cioè terribilmente insoddisfatto, senza un senso.

Nel fr. 46 di Eraclito vi è una frase, che in greco suona così: tēn de oiēsin ierēn nouson. Di solito si traduce: ‘L’opinione individuale è malattia sacra’ (epilessia). Ma la resa di oiēsin come ‘opinione individuale’ risponde a un significato tardivo del sostantivo greco. Probabilmente Eraclito voleva dire che quando l’emotività prende il sopravvento sulla ragione abbiamo una malattia sacra.

Nella realtà quotidiana ciò che sentiamo è la bussola di ciò che facciamo. Se la logica inconscia, basata sulla emotività, prende il sopravvento sulla ragione, abbiamo un delirio. Quando la ragione soffoca la sensazione più vera che i cuori avvertono, siamo schizoidi.

A questo punto il successo di una azione equivale a imporre il nostro potenziale contro le varie interferenze che accadono. Abbiamo la formula: P = p – (le + li). Vale a dire che la nostra performance (P) equivale al nostro potenziale totale (p) meno le interferenze interne (li) e le interferenze esterne (le). Le interferenze interne sono i pensieri che ci demotivano (non ce la farò mai). Le interferenze esterne sono gli ostacoli lungo la via. Il potenziale totale sono le capacità che abbiamo per compiere una azione. Mettiamo che dobbiamo andare in città: l’automobile è il potenziale totale, l’interferenza interna è la voglia di non farcela a guidare fino in città, l’interferenza esterna sono le buche lungo il percorso.

Ora, il nostro potenziale totale non è mai solo un fattore individuale: noi abbiamo capacità se intessiamo relazioni soddisfacenti. Se vogliamo diventare medici, il nostro potenziale è costituito non solo dal tempo che abbiamo impiegato a studiare, ma anche da quel professore che ha insegnato bene una materia e ci ha predisposti a imparare con successo. La interferenza interna potrebbe essere costituita dalla discrasia tra pensiero e emozione: vogliamo diventare medici per un progetto razionale di guadagnare denaro, ma non ne abbiamo una convalida emozionale, per cui non ci impegniamo abbastanza perché non sentiamo quella strada veramente nostra.

La maggior parte delle situazioni problematiche che ci capitano non sono reali, ma stanno unicamente nella nostra mente. La mente subisce queste interferenze:

  • Parte razionale: errata valutazione del reale, mediante inferenze non esatte: per esempio, se il partner non sta abbastanza con noi, tendiamo a inferire che non ci voglia più bene, ma il suo atteggiamento potrebbe dipendere anche da altre cause, come il fatto che stia male;
  • Parte subconscia: risente delle pressioni relazionali e culturali: per esempio, in base a tali pressioni le donne sono indotte a concedersi il meno possibile, invece gli uomini il più possibile, ma questo crea difficoltà nei rapporti di coppia;
  • Parte inconscia: istinti e pulsioni aggressiva e libidica sono tutti elementi che non rispondo all’ideale dell’io come ce lo immaginiamo, e questo crea innumerevoli problemi in noi e nel rapporto con gli altri.

Il nostro comportamento è lo specchio di ciò che siamo. È possibile conoscere una persona analizzando ciò che fa, anche senza introspezione. Per questo l’individuo in sé equilibrato ha un comportamento che lo fa stare in relazione ottimale con gli altri. Ma dall’altra parte la relazione squilibrata fa ammalare il singolo.

La qualità delle nostre relazioni influisce sulla qualità della nostra vita. Ma quando stiamo male con qualcuno ne viene inficiata anche la nostra salute fisica. Le relazioni costituiscono uno degli ambiti di ciò che ci crea stress, ma non l’unico. Oggi sappiamo per certo che molti problemi di salute hanno a che fare con lo stress: sono i cosiddetti sintomi vaghi (colon irritabile, stanchezza cronica, acidità, dolori di stomaco, disturbi digestivi, alterazioni del ritmo cardiaco, dolori cronici, difficoltà a dormire, ansia, e così via). Si stima che più della metà degli accessi ai medici sono causati da questi malesseri. Uno stress prolungato altera gli equilibri del nostro organismo fino all’insorgenza di questi sintomi.

Lo stress è la pressione a cui siamo sottoposti dall’ambiente. Il nostro organismo ha un sistema deputato a far fronte alle richieste più o meno impegnative che ci provengono dall’ambiente: è lo Stress System. Attraverso di esso ci adattiamo volta per volta all’ambiente. È costituito dal sistema nervoso autonomo, formato dal sistema simpatico (attivo soprattutto di giorno, che ci predispone all’azione) e dal sistema parasimpatico (attivo soprattutto di notte, che ci predispone al recupero e alla riparazione).
Quando le richieste dell’ambiente sono eccessive, lo stress si trasforma in sovra-stress, fino allo stress cronico quando il fattore stressante è prolungato nel tempo. Alcuni hanno identificato in questo stress eccessivo la causa di tutte le malattie. È come se ci fosse un logorio continuo che non fa attivare il simpatico la mattina quando serve e non permette il recupero la notte con l’attivazione del parasimpatico.

Il sistema nervoso autonomo è molto complesso: agisce in connessione con molti altri centri nervosi. Risponde a tutto ciò che accade nell’ambiente integrando gli input esterni con quelli interni. Il suo scopo è di coordinare tutti questi input per una finalità precisa: l’adattamento.

Il ricercatore che meglio ha chiarito questo aspetto è Porges. Nel nervo vago (che corrisponde al sistema parasimpatico) ci sono due unità: quella dorsale e quella ventrale. Pertanto, in base alle conclusioni cui è giunto Porges, il sistema dello stress è composto da tre sottosistemi: simpatico, parasimpatico dorsale, parasimpatico ventrale. il simpatico si attiva in tutte quelle situazioni che richiedono una mobilitazione dell’energia (impegni quotidiani, pericolo). Il dorsale si attiva quando dobbiamo bloccarci (minaccia e paralisi conseguente). Il ventrale si attiva quando possiamo rilassarci e ricaricarci. Sono tre risposte diverse di adattamento globale all’ambiente.

Questi sistemi si attivano sulla base della percezione che abbiamo dell’ambiente: è la neurocezione, la capacità inconscia che ogni organismo ha di captare i segnali che giungono dall’ambiente. Tutto questo è mediato dalle emozioni, che sono in grado di attivare i vari sistemi. Le emozioni sono espedienti che noi abbiamo per valutare l’ambiente. Allora se l’imperativo del sistema dello stress è di adattarci per garantire la nostra sicurezza, questo deve rispondere alla valutazione che noi facciamo della realtà (emozione) sulla base della percezione esterna e interna.

Quando percepiamo l’ambiente sicuro, si attiva il sistema ventrale (stiamo a riposo). Quando percepiamo un ambiente potenzialmente pericoloso, si attiva il simpatico (ci prepariamo all’azione: attacco o fuga). Quando percepiamo un ambiente minaccioso, si attiva il dorsale (è il freezing: ci blocchiamo dalla paura).

Questi tre sistemi si sono sviluppati nella storia dell’evoluzione progressivamente, in tempi differenti. Il più antico è il dorsale: ancora oggi gli animali inferiori si bloccano davanti a una minaccia, la lumaca si ritira, altri fingono di essere morti. In seguito sorse una risposta più evoluta: l’attacco o la fuga, quindi si sviluppò il sistema simpatico. Per ultimo venne il ventrale, quello dei mammiferi, che è una modalità di adattamento e difesa che coinvolge anche i propri simili: l’organismo cerca il senso di sicurezza stando insieme ai membri della propria specie.

Anche le relazioni sono fonte di pericolo e di minaccia (un capo nocivo o una famiglia irosa), pertanto, possono allertare i relativi sistemi. In questo modo scatta lo stress e i sintomi vaghi. Percepiamo chiaramente che le relazioni, nel bene e nel male, influenzano le nostre emozioni. Oggi sappiamo che, mediante le emozioni, le relazioni influenzano anche la nostra fisiologia determinando benessere o sintomi vaghi.

Il cervello che abbiamo nell’intestino è un insieme di neuroni che ha una sua autonomia. Il cervello cranico tramite il nervo vago influenza il secondo, e viceversa. Il microbioma è l’insieme di batteri che stanno nell’intestino e che manda segnali al cervello cranico. Si parla di 2 kg di microbioma intestinale e in tutto il corpo. Alterazioni del microbioma intestinale creano problemi nell’asse dello stress e nel comportamento. Esso:

  • Regola l’attività metabolica;
  • Produce molecole;
  • Regola l’epigenetica (espressione genica).

Prende le fibre insolubili, come la cellulosa, che non riusciamo a digerire, per produrre altre sostanze. Le sostanze così prodotte sono usate per regolare l’epigenetica delle nostre cellule in senso anti-infiammatorio. Per questo la fibra è utile al nostro organismo.

Il microbioma produce vitamina K, vitamine del gruppo B, acido folico, acido butirrico. L’acido butirrico è prodotto dalla fermentazione delle fibre e favorisce la termogenesi (produzione di calore) e l’ossidazione degli acidi grassi che mangiamo, cioè la loro degradazione. Questo acido migliora anche la sensibilità all’insulina.

Il microbioma intestinale produce i neurotrasmettitori, che fanno funzionare il cervello cranico. Per esempio, l’acetilcolina, che produce molti altri neurotrasmettitori e ormoni. Il glutammato, che è eccitatorio. Il GABA, che è inibitorio. Il cervello funziona bene se c’è la giusta connessione tra attivazione e inibizione. Non solo, ma le relazioni tra persone sono neurologicamente una attività nella quale sono coinvolti GABA e glutammato.

I tipi privi di microbioma intestinale hanno mostrato un aumento dell’attività motoria legata all’ansia.

Il microbioma viene distrutto da:

  • Antibiotici (è necessario un lasso di tempo di 2 anni per recuperare il microbioma completo dopo aver assunto antibiotici);
  • Sterilizzazione disfunzionale (quando la pulizia del corpo è eccessiva);
  • Eccesso di carboidrati (che favorisce i batteri patogeni);
  • Infiammazione cronica.

 

Più selfie condividi su instagram più sei felice?

Un recente studio ha scoperto che le persone che condividono attivamente selfie (foto di se stessi) su Instagram mostrano una maggior soddisfazione per la propria vita rispetto a coloro che non lo fanno.

 

I risultati, pubblicati su Human Behaviour and technology, mostrano una correlazione tra la felicità delle persone e la ricezione di premi sociali come i mi piace e i commenti positivi.

L’autore dello studio Julie Maclean sostiene che i social media sono diventati un fattore importante per quel che riguarda gli aspetti psicologici ed emotivi dell’individuo; ricerche passate hanno rivelato risultati contrastanti relativi alla relazione tra l’uso di social network e il benessere percepito.

Lo studio in questione ha pubblicizzato un sondaggio su diverse piattaforme di social media, ponendo domande atte ad indagare fattori quali: condivisione di foto, mi piace, commenti e soddisfazione per la propria vita. Complessivamente, sono state raccolte 373 risposte da utenti che condividono attivamente foto su Instagram; il 22,6% delle risposte proveniva da uomini e il 77,1% da donne. Una persona ha rifiutato di fornire informazioni di genere. Circa il 73% degli intervistati aveva meno di 25 anni; secondo gli autori il campione è in linea con i dati demografici degli utenti di Instagram.

I risultati hanno mostrato una correlazione positiva tra il numero di selfie condivisi online e il benessere percepito.

Una maggiore soddisfazione per la propria vita è stata riscontrata anche nelle persone che hanno ricevuto ricompense sociali positive come mi piace e commenti positivi sui loro selfie.

Inoltre, il benessere percepito, non diminuisce quando la foto di una persona riceve commenti negativi e / o pochi mi piace. Sulla base dei risultati, gli autori concludono che le ricompense sociali positive e negative influenzano il benessere di una persona in modo diverso.

Gli autori hanno riconosciuto diversi limiti dello studio. Le risposte sono state raccolte solo dagli utenti che hanno condiviso attivamente le foto. Ciò ha escluso gli utenti che condividono video o gli utenti che pubblicano foto passivamente. Inoltre, la cronologia di condivisione delle foto è stata auto-segnalata, il che avrebbe potuto indurre alcuni utenti a ricordare erroneamente le informazioni. Non è inoltre da escludere che, coloro che sono molto attivi sui social postando foto e commentando, lo fanno perché si sentono già soddisfatti per la propria vita, e che quindi la loro felicità non dipenda dai mi piace di una foto ma da fattori esterni ed estranei al social network.

Nonostante i limiti, gli autori suggeriscono che i dati potrebbero aiutare a migliorare gli sviluppi futuri per le piattaforme di social media.

I ricercatori concludono dicendo che, in futuro, i social network dovrebbero sfruttare il concetto di premi sociali per consentire un aumento dei livelli di interazioni online con un focus particolare sulla condivisione delle foto, dato che sembra essere il fattore che più agisce da premio sociale.

Se guarissero tutti sarebbe la fine

E anche nella società attuale non servono forse meticolosi e scrupolosi ossessivi per fare i bancari, i commercialisti e i controllori di volo o i neurochirurghi? E istrionici per animare il mondo dello spettacolo?

 

Queste riflessioni partono da un confronto con un collega in sede di supervisione su quanto dovesse essere ‘profondo’ o, potremmo dire, per non usare una terminologia più caratteristica della psicoanalisi, vasto ed esaustivo il suo intervento. Partivamo dalla sensazione che lui aveva che, nonostante la remissione dei sintomi motivo della richiesta, ci fosse ancora molto da fare, ovvero che ci fossero ancora dei problemi irrisolti seppure non avvertiti dal paziente e che un intervento davvero risolutivo avrebbe dovuto disvelare e risolvere prima di lasciare la libera uscita al paziente. Avvertivo che il dichiararsi soddisfatto e guarito del paziente lasciava il mio collega con l’amaro in bocca del capolavoro incompiuto, della perfezione mancata di poco. Avrebbe avuto voglia di dire al bravuomo contento e soddisfatto nella sua inconsapevolezza ‘lasciami lavorare, decido io quando sarai davvero a posto, che ne vuoi sapere tu!!!‘, in ciò ricordandomi l’ultima scena degli Aristogatti quando alla comparsa della scritta ‘fine’ il bracco Napoleone ribadisce che è lui il capo e lo dice lui quando è la fine per poi dire subito dopo appunto ‘Fine’.

Contemporaneamente per una sorta di specchio ricorsivo ho pensato che il lavoro di supervisione con il collega ed ex allievo di cui lui si dichiarava soddisfatto e in via di conclusione, aveva ancora molta strada da fare. Proprio perché lui pensava di non aver concluso il suo lavoro con il paziente io ero certo di non aver concluso il mio con lui.

Attenzione, non si tratta di quisquiglie e pinzillacchere, l’argomento è serissimo e riguarda il ruolo dello psicoterapeuta e più in generale quello della psichiatria nella società. Riguarda il concetto di salute e malattia e quello di guarigione che li congiunge. Arriva a toccare il rapporto esistente tra il singolo individuo e la società e a lambire quello tra esso e la specie nel gioco dell’evoluzione. Insomma mica ‘pizza e fichi’.

Ma andiamo con ordine partendo col ricordare l’insegnamento del mio maestro Cesare De Silvestri che diceva che il terapeuta è un umile strumento nelle mani del paziente e che del suo modo di funzionare e di stare al mondo bisogna cambiare solo il minimo indispensabile a eliminare stabilmente il sintomo per cui ha richiesto l’intervento e che qualsiasi allargamento non richiesto oltre questi confini è irrispettoso dell’unicità del paziente e assomiglia ad un sopruso che si pone nella stessa linea dei tentativi di rendere destri i mancini o curare l’omosessualità. Strada che prosegue fino alla normalizzazione di tutte le devianze e porta a rinchiudere i dissidenti nei gulag se si ha il buon gusto di non sterminarli proprio perché non inquinino i ‘sani’. Che sia per razza, per fede o per orientamento sessuale poco conta. L’idea sottostante è che ci sia solo un modo sano e giusto di essere uomini e che ad esso tutti debbano, con le buone o con le cattive, adeguarsi in primis per il loro bene e per salvare l’anima e poi per il bene di tutti evitando il terribile contagio delle ‘mele marce’. Così facendo, e senza rendersene neppure troppo conto, si finisce per voler modificare tutti quei comportamenti e modi di stare al mondo che non coincidono con la nicchia culturale del terapeuta che oggi si identifica grosso modo con la cultura della classe medio borghese dei paesi occidentali capitalistici cui si riferiscono praticamente tutte le ricerche psicologiche additando come normalità i valori e il modo di stare al mondo di una ristrettissima fascia dell’umanità caratterizzata da essere: ‘di razza bianca, occidentale, economicamente garantita, di cultura media, eterosessuale e con legami affettivo-sessuali stabili’. Per nostra fortuna il mondo non si esaurisce in questo campione ed è estremamente più vario e tale enorme varietà di valori e stili di vita mentre un tempo era geograficamente separata tra oriente e occidente e tra nord e sud del mondo, oggi grazie alla facilità degli spostamenti delle persone e a quello ancor più veloce se non istantaneo delle idee sul web, è presente in ogni comunità.

L’eliminazione delle devianze dalla media non è solo moralmente deprecabile (anche la morale che la giudica tale è relativa ad una certa cultura) il fatto è che proprio dalla deviazione dalla norma e persino dagli errori genetici (le mutazioni) si genera quella variabilità che è prerequisito per l’evoluzione della specie e la sua adattabilità agli ambienti più diversi. Non è improbabile che i vari disturbi di personalità e forse anche altre patologie siano rimaste come potenzialità nel patrimonio genetico umano perché in qualche ambiente del passato si sono dimostrate utili, un po’ come la microcitemia nelle zone malariche. Andrebbero forse protette come la tanto decantata biodiversità? E anche nella società attuale non servono forse meticolosi e scrupolosi ossessivi per fare i bancari, i commercialisti e i controllori di volo o i neurochirurghi? E istrionici per animare il mondo dello spettacolo? Ma ancora più seriamente una società in cui tutti fossero soddisfatti di se stessi, fermi nell’autodeterminarsi e orientati al perseguimento dei propri scopi, sarebbe priva di eroi e santi e molto probabilmente non funzionerebbe. Non dobbiamo dimenticare infatti che l’evoluzione è attenta alle specie e non ai singoli individui per cui spesso ciò che risulta essere un vantaggio per la specie in termini di maggiore prolificità e diffusione non è affatto un miglioramento della qualità della vita e della soddisfazione del singolo individuo. L’esempio più eclatante è la stessa morte che piuttosto avversata dal singolo libera risorse per gli individui più giovani eliminando quelli non più in grado di riprodursi.

 

Se è amore non ferisce: psicodinamica dello stalking

Spesso ci si chiede per quale motivo un soggetto non riesca ad accettare la fine di un rapporto di coppia. “Lasciami libera di lasciarti”, si è sentito dire in riferimento a quei rapporti sentimentali in cui uno dei due partner non è capace di accondiscendere alla rottura del legame e insiste a perpetrarlo pur contro la volontà dell’altro.

 

Non vorremmo doverci porre questo problema, o almeno non con la frequenza impostaci dalla realtà quotidiana. Invece, esistono persone cui sembra negato il diritto di separarsi dal proprio compagno, per un motivo che sfugge alla logica, all’etica, al senso di giustizia. Ma perché un soggetto, specie maschile, non riesce rassegnarsi alla perdita della partner?

Una possibile spiegazione potrebbe essere trovata risalendo alla concezione psichica che Freud attribuisce all’innamoramento, considerato un investimento ben più duraturo rispetto alla pulsione sessuale, che può essere provata nei confronti di qualsiasi persona, è effimera e meramente rivolta alla soddisfazione di una libido fisiologica. Al contrario l’innamoramento si distingue dalla pulsione sessuale per la sua durata e la sua direzionalità verso un oggetto insostituibile, non surrogabile e stabile nel tempo (Freud, 1921).

Freud ne parla come di pulsione “inibita nella meta” proprio in riferimento ad un bisogno che non si scarica soltanto con l’appagamento, in quanto la sua origine non è identificabile in una pulsione fisica, bensì in una necessità affettiva ( Freud, 1921).

In questo senso l’oggetto d’amore viene ad essere un investimento affettivo di vitale importanza: amando qualcuno l’Io si impoverisce, sacrifica se stesso per il bene dell’oggetto amato, si spoglia di parti di sé per approssimarsi all’oggetto fino a lasciarsene possedere interamente. In questa fase dell’innamoramento si riscontra anche una forte connotazione idealizzante, in ragione della quale l’oggetto amato incarna l’Ideale dell’Io, ovvero tutto ciò che si desidera, tutto ciò che si vorrebbe essere.

Ma investendo se stessi nell’oggetto d’amore si ribadisce anche una forma di identità che Freud definisce sociale, definendola non come alternativa a quella individuale, bensì complementare, in un certo senso necessaria. Legarsi ad un altro è anche un mezzo per affermare se stessi, per costruire un’identità stabile e sicura. Non si può esistere senza l’altro, e la relazione amorosa ne è una conferma. Questo testimonia come innamorandosi il soggetto riesce ad affermare la propria identità relazionale (Freud, 1921).

Dunque l’innamoramento non rappresenta solo una fase di investimento libidico nei riguardi di un altro diverso dal Sé, ma anche un’affermazione della propria identità, che nell’altro si riconosce e si struttura.

Ma quando l’amore finisce?

Quando una storia d’amore giunge al termine, il soggetto deve rimpossessarsi delle parti del Sé che aveva investito nell’altro, deve cessare di considerarlo come un oggetto libidico e constatare il distacco da lui. Il suo compito è quello di separarsi dal partner, di de-idealizzarlo, di rinunciare a vederlo come la meta del proprio investimento pulsionale affettivo.

Per quanto la separazione possa rappresentare un evento emotivamente destabilizzante, dopo un iniziale squilibrio dell’omeostasi affettiva il soggetto riesce a ricostruire una propria identità individuale e si rassegna alla rottura del legame in attesa di reinvestire su un nuovo oggetto d’amore. Sono queste le fasi della separazione funzionale.

In taluni casi, tuttavia, questo processo di differenziazione non avviene, ed è come se l’innamoramento non avesse mai fine. Questo può verificarsi nei soggetti che hanno sofferto una deprivazione affettiva durante l’infanzia e nei quali l’innamoramento, più che un senso di esistenza funzionale con l’altro, si identifica in una sorta di compensazione per la deprivazione subita. Per questi individui il partner, più che un oggetto esistente in se stesso, svolge una funzione meramente depositaria dei propri investimenti narcisistici. Di rimando l’abbandono viene a costituire una disconferma del Sé idealizzato che nell’altro si identifica, un vulnus alle parti che questi ha investito narcisisticamente nel partner, ma che non ha cessato di avvertire come proprie.

La personalità dello stalker, il persecutore

Ecco dunque la radice del problema: lo stalker, come viene chiamato il persecutore affettivo, non vede l’altro come un soggetto autonomo e indipendente, ma come un mero prolungamento del Sé. E si vede legittimato a possederlo pur contro la sua volontà, perché nell’altro abita il Sé: l’altro, in un certo senso, è il Sé. È come se l’oggetto d’amore gli appartenesse perché porta dentro una parte di se stesso. Il disinvestimento del legame è impossibile. L’altro è il Sé e riconoscere la fine del legame amoroso equivarrebbe a decretare la morte psichica di un soggetto che nell’altro ha investito tutto il Sé, in una sorta di rivalsa affettiva. I rispettivi limiti individuali assumono dimensioni confusive, e nel momento in cui al partner non viene riconosciuta la propria autonomia esistenziale, l’amore si trasforma in un possesso compulsivo e persecutorio.

Una visione psicodinamica dello stalking

In questo caso si evidenzia un mancato superamento della fase infantile che la Mahlher (1975) chiama simbiotica, nella quale il bambino si considera unito alla madre in un nucleo indistinto, e non riesce a percepire come esistente il confine fisico tra se stesso e lei. Le immagini del Sé e della madre sono condensate, unite, indistinte. La natura della relazione con l’oggetto materno è totalmente parassitaria, ovvero il bambino acquista benefici unilaterali dal rapporto diadico e reagisce con aggressività alla frustrazione empatica. Dunque la madre è il Sé, e il Sé è la madre, e in questa visione sincretica della realtà intrapsichica si riflette una visione della realtà esterna in egual modo globalizzante, nella quale i legami affettivi sono simbiotici e comportano la fusione totale delle individualità. Da qui nasce la coazione a ripetere del legame simbiotico, anche in età adulta, in base alla quale lo stalker crederà che la propria compagna rappresenti la figura della madre cui si sente ancora irrimediabilmente legato (Infrasca, 2010).

Fino a che questa condizione di unione fagocitante perdura, il soggetto non si sente minacciato da un’angoscia abbandonica, ma con l’avvento della separazione si presenta l’evento critico: di colpo il soggetto realizza l’impossibilità di attuare il proprio progetto di invasione, di possesso dell’identità dell’altro. Questa frustrazione della libido simbiotica, oltre a riattivare arcaici vissuti abbandonici subiti nell’infanzia, vede l’amore verso l’oggetto amato tramutarsi in un agito rabbioso finalizzato al ripristino della simbiosi interrotta, che si esplicita a mezzo di comportamenti compulsivi persecutori volti al recupero dell’altro (Infrasca, 1990).

Il narcisista reagisce con aggressività all’abbandono, perché la sua considerazione dell’altro è meramente ricondotta ad una dimensione strumentale. L’altro, in questo caso il partner, è un soggetto cui viene negata l’alterità, la libertà, l’autonomia: egli esiste solo per compiacere le sue fantasie simbiotiche, alle quali non può opporsi.

Da qui l’origine del pensiero psicotico in base al quale lo stalker si sente legittimato alla persecuzione dell’oggetto d’amore per riprendersi ciò di cui si sente ingiustamente deprivato e che crede gli appartenga. Da qui la sua certezza di poter esprimere comportamenti persecutori ispirati dalla brama di possesso verso l’altro che considera come un mero prolungamento del Sé, e la pretesa che anche lui debba mostrarsi connivente con questa sua delirante pulsione simbiotica compulsiva.

Sembra proprio questa la discriminante tra innamoramento funzionale e persecutorio.

Colui che sa porre fine ad un legame amoroso è anche un soggetto che ha raggiunto una capacità di differenziazione dall’oggetto materno, di regolazione delle pulsioni, di maturazione del Sé relazionale e di un adeguato esame della realtà inter ed intrapsichica. Questo gli consente di disporre di un Sé funzionale che sa esistere anche senza l’altro nel quale si è amorosamente riconosciuto; al contrario, colui che non accetta il termine di un rapporto amoroso è un soggetto che non sa esistere senza l’altro nel quale ha identificato un Sé fragile e inconsistente, capace solo di vivere in maniera simbiotica, e che nella libertà dell’altro vede una minaccia alla propria stabilità.

Il lutto mai rielaborato dello stalker

L’oggetto materno perseguitato dallo stalker è la madre-donna che egli identifica nell’oggetto d’amore; la stessa dalla quale si è sentito abbandonato e che, tramite la separazione, riattualizza la dolorosa separazione mai rielaborata. Il lutto dovuto a questa perdita è dunque di natura circolare, perché continuo, reiterato, che si presenta con andamento compulsivo in ogni tipo di relazione affettiva (Infrasca, 1990).

Nel momento in cui il partner (che a sua insaputa riflette l’immagine allucinatoria dell’oggetto materno) afferma la propria alterità attraverso la fine del rapporto, egli perpetra inconsapevolmente un nuovo tradimento che lo stalker non può accettare: il suo progetto di simbiosi con la madre abbandonica è di nuovo infranto, e l’oggetto d’amore, dapprima approcciato con meccanismi di idealizzazione e ipervalutazione, viene perseguitato con rabbia predatoria, perché divenuto un “crudele traditore”.

Conclusioni

L’innamoramento dello stalker consiste nel depositare nell’altro la prospettiva di un amore totalizzante e totalitario, in cui il Sé possiede per vivere, e se non possiede distrugge. Ma che nello stesso atto di possedere, distrugge.

Il suo non è amore, bensì una crociata volta all’invasione e all’annullamento dell’alterità del partner, attuata con una pretesa collusiva e autoriferita. Lo stalker è in realtà vittima di un legame simbiotico intrapsichico che in qualità di carnefice impone all’altro. Ed è proprio questo il punto da cui iniziare il trattamento terapeutico: dissolvere il legame simbiotico con l’oggetto materno interiorizzato, creare consapevolezza del Sé e dell’altro, capacità di mentalizzazione, contenimento degli agiti aggressivi, stabilimento di confini esistenziali autonomi. Perché lo stalker riesca finalmente a superare la fase simbiotica infantile.

I bambini vengono abbandonati. Gli adulti vengono lasciati. E forse è proprio questa la differenza. Lo stalker non ha mai smesso di sentirsi il bambino vittima di un crudele abbandono materno.

 

Melatonina, questa sconosciuta

Melatonina, melatonina ovunque: dai farmaci da banco agli integratori alimentari. Viene presentato come un prodotto che ci aiuta a dormire bene, a favorire l’addormentamento, a risolvere i problemi di insonnia.

 

Ma cosa si nasconde dietro la melatonina? È tutta una operazione di marketing o risulta essere veramente di aiuto a chi ha problemi del sonno? Vediamo un po’ più nel dettaglio..

La melatonina viene chiamata anche “l’ormone dell’oscurità” o “l’ormone vampiro”. Nomi sicuramente di grande impatto per la nostra memoria, che fanno pensare a qualcosa di sinistro e misterioso. In realtà, questo appellativo è relativo alla sua produzione durante le ore notturne da parte di una particolare zona del cervello, chiamata nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo. Questa piccolissima zona cerebrale, collocata nelle parti più profonde del nostro cervello, rappresenta una parte del nostro sistema nervoso che comunica direttamente con il nostro cervello lanciandogli dei segnali su quando è giorno e quando è notte. Normalmente, questi segnali seguono l’andamento della luce solare, ed è appunto a questo che è collegata la melatonina.

Quindi, durante il crepuscolo, il nostro cervello inizia a produrre melatonina per lanciare al nostro corpo un chiaro segnale: “è diventato buio, quindi è ora di prepararsi per andare a dormire”. In questo modo, è come se “venisse schiacciato un bottone” che aziona tutta una serie di azioni per preparare il nostro organismo al sonno.

Durante il sonno, poi, la concentrazione di melatonina diminuisce lentamente nel corso della notte. Con l’alba, e con la percezione da parte del cervello della luce solare (anche se si hanno gli occhi chiusi), il nostro cervello smette di produrre melatonina. L’assenza di melatonina nel nostro flusso sanguigno fa così che il cervello sia informato che “non è più buio” e il corpo si prepara al risveglio. In questo senso, si può dire che noi esseri umani siamo “solar powered” (Walker, 2017), e cioè alimentati a luce solare.

Molto spesso, quindi, gli effetti della melatonina sono principalmente legati all’effetto placebo, che non deve essere comunque sottostimato: si tratta, dopotutto, dell’effetto più attendibile di tutta la farmacologia. È comunque importante notare come la melatonina non sia registrata dalla Food and Drug Administration (FDA), ovvero l’ente governativo che si occupa della regolamentazione dei prodotti cibari e farmaceutici. Una ricerca che ha studiato le concentrazioni di melatonina in alcuni farmaci da banco ha rilevato che il contenuto di melatonina varia da -83% a +478% del contenuto dichiarato nell’etichetta. Inoltre, la variabile da lotto a lotto all’interno di un determinato prodotto variava fino al 465%. (Erland & Saxena, 2017).

La melatonina ci aiuta quindi a regolare il tempo del sonno, comunicando al nostro organismo il momento in cui inizia a fare buio. Proprio per questo, quindi, ha una piccola influenza nella diretta generazione del sonno di per sé, per lo meno se si considerano individui in salute e senza la sindrome del jet-lag (per cui in un primo momento la melatonina può aiutare a riassestare i propri ritmi del sonno).

 

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