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Il rischio di burnout negli operatori presso i servizi per minori in condizione di disagio

Secondo numerosi autori, il burnout è una sindrome multi-dimensionale in cui coesistono tre elementi, individuati a partire dal lavoro della Maslach: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e mancata realizzazione personale.

 

Numerosi studi hanno dimostrato come il burnout coinvolga maggiormente le professioni d’aiuto, dove le eccessive richieste emotive dell’utenza possono portare ad un’esorbitante fatica mentale del lavoratore, un trattamento meccanicistico dell’utente e una percezione di diminuzione della capacità di riuscire nel lavoro.

Maslach (1992) definisce il burnout come una forma di stress interpersonale che comporta il distacco dall’utente, causato dalla continua tensione emotiva dovuta al contatto con persone che presentano una richiesta di aiuto. Il burnout si configura come una sindrome multi-dimensionale (Maslach et Leiter, 2002), le cui tre componenti sintomatiche sono: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale. La prima componente è rappresentata dalla sensazione di essere emotivamente inaridito e di sentirsi esaurito dal proprio lavoro. Il contatto continuo con emozioni stressanti finisce per logorare il soggetto, renderlo vuoto, con minori energie. La seconda componente, la depersonalizzazione, è intesa come distacco e indifferenza nei confronti sia del lavoro che dell’utente a cui viene rivolto il proprio servizio. Tale atteggiamento consente al soggetto di proteggersi al fine di evitare i coinvolgimenti emotivi imposti dalla situazione professionale. Nella terza dimensione, la ridotta realizzazione personale è descritta come una sensazione di inadeguatezza nello stabilire un rapporto di aiuto efficace con gli utenti, nonché da insoddisfazione lavorativa e sfiducia nelle proprie competenze (Maslach et Leiter, 2002).

La sindrome di Burnout: gli studi

Tale sindrome è particolarmente diffusa nelle professioni socio-sanitarie, la cui caratteristica peculiare è proprio quella di essere continuamente sottoposti a richieste di aiuto sentite come necessarie, urgenti, che impongono risposte immediate e puntuali ai bisogni dell’utenza (Baiocco et al.,2004).

In letteratura, sono state identificati due principali fattori di incidenza sul burnout: variabili personali e variabili relative al contesto lavorativo (Schaufeli etBuunk, 2015). In primo luogo, l’insorgenza e gli effetti del burnout possono essere, infatti, modulati dalle modalità individuali di reagire a situazioni stressanti e di gestire gli eventi. Le strategie di coping, ad esempio, che comprendono sia le decisioni e le azioni adottate da un individuo di fronte a un evento stressante, sia le emozioni a esse connesse, sembrano essere particolarmente implicate nello sviluppo del burnout (Carmona et al.2006). Il senso di autoefficacia, inoltre, è in grado di influenzare la risposta ad eventi negativi (Bandura, 1993). Diversi studi sullo stress lavorativo, hanno mostrato che un basso senso di autoefficacia (inteso come la convinzione di poter svolgere adeguatamente il proprio compito) è associato a maggiore disagio psicologico e a minore realizzazione personale (Borgogniet al, 2013). Alta autoefficacia percepita è stata riportata in letteratura come fattore di protezione del burnout e predittore di maggiore impegno lavorativo (Shoji et al, 2016). In secondo luogo, i fattori ambientali e le problematiche connesse all’organizzazione del lavoro svolgono un ruolo cruciale nel determinare l’insorgenza del burnout (Cherniss, 1986). Infatti, l’operatore è costretto a misurarsi, ogni giorno, non solo con i problemi degli utenti, ma anche con una serie di difficoltà che possono nascere all’interno dello stesso ambiente di lavoro (Maslach,Schaufeli etLeiter,2001). In questo ambito, l’attenzione degli studi si è rivolta soprattutto alla distribuzione dei compiti, al sovraccarico lavorativo, al clima relazionale dell’organizzazione, alla retribuzione economica e dalla carriera (Maslach, Schaufeli et Leiter,2001).

Premesse dello studio

Lo studio ha analizzato le relazioni esistenti tra burnout, strategie di coping, senso di autoefficacia e contesto lavorativo, all’interno delle strutture che si occupano dell’assistenza a minori in condizione di disagio. Tali strutture sono molto eterogenee e coinvolgono diverse tipologie di professionisti (come assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio-sanitari), impegnati nel comprendere le specifiche necessità dei minori e realizzare un percorso educativo fuori dal contesto familiare, al fine di ripristinare equilibri e abilità, superare disagi psico-fisici e socio-relazionali. Da un lato, è fondamentale che il lavoratore partecipi emotivamente alla relazione di aiuto instaurata con l’utente; dall’altro, deve riuscire a operare una differenziazione tra il proprio vissuto e quello altrui (Sӧderfeldt et al, 1995).

Verrà indagata l’incidenza delle diverse strategie di coping e del senso di autoefficacia sulle sotto-componenti del burnout individuate nel modello della Maslach (Maslach e Leiter, 2002), ovvero depersonalizzazione, esaurimento emotivo e realizzazione personale. Inoltre, dato il gran peso attribuito dalla letteratura ai fattori dell’ambiente organizzativo (Maslach, Schaufeli e Leiter, 2001; Maslach e Leiter, 2002), verrà indagato il ruolo che le difficoltà oggettive (orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro, carenza formazione personale, carenza risorse) e le difficoltà soggettive (presenza di conflitti, sovraccarico lavorativo, rapporti tra colleghi e dinamiche all’interno dell’equipe, disattenzione alle motivazioni del personale, carenza coinvolgimento del personale) riscontrate sul lavoro possono esercitare sull’insorgenza del burnout.

Metodo

Per la misurazione del burnout è stato utilizzato il Maslach Burnout Inventory (MBI) ideato da Maslach e Jackson. Il questionario è costituito da 22 item, in base ai quali il soggetto deve valutare la frequenza e l’intensità con cui sperimenta sintomi, affetti e stati emotivi connessi con il suo lavoro. Il test mira a valutare i tre profili che definiscono la sindrome: esaurimento emotivo, depersonalizzazione, realizzazione personale. A ciascuna domanda l’intervistato assegna un valore secondo la scala Likert da 0 a 6, che va da “qualche volta l’anno” sperimento queste reazioni a “tutti i giorni”.

Per la rilevazione degli stili di coping è stato utilizzato Il Coping Orientations to ProblemE xperienced – Nuova Versione Italiana (COPE-NVI) (Sica e al, 2008).

Il questionario è costituito da 60 item e valuta con quale frequenza il soggetto mette in atto, nelle situazioni difficili o stressanti, un particolare processo di coping. Le possibilità di risposta sono quattro, da «di solito non lo faccio» a «lo faccio quasi sempre». I 15 diversi meccanismi di coping presi in considerazione dal questionario sono raggruppati e relativi ai seguenti domini specifici: sostegno sociale, attitudine positiva, orientamento al problema, orientamento trascendente.

Per la misurazione dell’autoefficacia personale è stata usata la Scala di autoefficacia percepita nella gestione di problemi complessi (Farnese et al. 2007).

Il questionario è costituito da 24 item e valuta il senso di autoefficacia dei soggetti nella gestione di esperienze di vita problematiche, al quale è stato chiesto di rispondere in riferimento al contesto professionale indagato. La modalità di risposta è su scala Likert a 5 punti (da 1 = “per nulla capace” a 5 “del tutto capace”). La scala si compone di quattro sotto-dimensioni (maturità emotiva, finalizzazione dell’azione, fluidità relazionale, analisi del contesto) sintetizzabili in un unico costrutto definito come “autoefficacia percepita”.

Per la misurazione dei fattori che caratterizzano il contesto lavorativo, è stato creato un questionario ad-hoc che consiste in 13 item suddivisi in fattori oggettivi e soggettivi.

I fattori oggettivi comprendono: orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro e sovraccarico lavorativo (eccesso di energie, sacrifici richiesti al personale), carenza formazione o aggiornamento del personale, carenza risorse o attrezzature per lo svolgimento dei compiti, carenza coinvolgimento del personale. I fattori soggettivi comprendono: presenza di conflitti tra i colleghi, rapporti con superiori/dirigenti, complessità di lavoro, mancanza chiarezza nei compiti da svolgere, disattenzione alle motivazioni del personale. Il questionario consente di valutare ciascun fattore su una scala Likert a 4 punti, con modalità di risposta che vanno da “per nulla” a “molto”. Le prime due domande riguardano prettamente la soddisfazione lavorativa del singolo operatore.

Campione

Hanno partecipato allo studio 60 professionisti operanti all’interno di strutture familiari ed educative per minori. Le caratteristiche descrittive del campione sono riportate in Tabella 1.

Il 60% del campione lavora in comunità alloggio e il 40% in centri diurni polifunzionali, tutti collocati sul territorio della provincia di Salerno. Le comunità alloggio consistono in comunità familiari per un servizio residenziale e offrono forme di accoglienza continuativa (diurna e notturna) a soggetti prevalentemente non autosufficienti. In tali strutture vengono accolti un massimo di 8 minori, di età pari o superiore agli 11 anni, preferibilmente omogenei per sesso. I centri diurni polifunzionali, sono servizi semiresidenziali che forniscono forme di accoglienza di tipo diurno, quindi un’assistenza di tipo temporanea e parziale. Possono essere accolti contemporaneamente non più di 50 minori di età superiore ai 5 anni, prioritariamente residenti nel quartiere o nel Comune.

Procedura

I partecipanti sono stati informati dell’obiettivo dello studio, della durata del compito e della possibilità di non dare il proprio consenso a partecipare alla ricerca. Dopo aver letto e firmato il consenso informato per la partecipazione allo studio, hanno compilato i questionari nel giorno stabilito in accordo con i responsabili delle strutture. A ciascun partecipante è stato garantito l’anonimato. Il progetto di ricerca è stato approvato dal Comitato etico del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi Luigi Vanvitelli. Il tempo di compilazione è stato di circa 15 minuti.

Analisi statistiche

Allo scopo di valutare l’impatto delle variabili personali sul burnout, in un primo gruppo di analisi sono stati utilizzati tre diversi modelli di regressione lineare (con metodo forward) utilizzando ciascuna sottoscala del burnout come variabile dipendente. In tutti i modelli, sono state inserite come variabili indipendenti i punteggi ottenuti sui diversi stili di coping, l’autoefficacia percepita ed il genere.

Allo scopo di valutare l’impatto delle variabili legate al contesto lavorativo sul burnout, in secondo gruppo di analisi sono stati utilizzati tre diversi modelli di regressione lineare, uno per ciascuna sottoscala del burnout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo e realizzazione personale) utilizzate come variabile dipendente, inserendo le variabili oggettive e soggettive relative al contesto lavorativo come variabili indipendenti. Le analisi sono state svolte mediante il software SPSS (IBM SPSS Statistics, Version 21, Armonk, NY:IBM Corp.).

Risultati

Dato il duplice scopo del lavoro, nel valutare il ruolo delle variabili personali e lavorative, il primo gruppo di analisi che segue, risponde alla domanda sulle variabili personali mentre il secondo risponde alla domanda sulle variabili lavorative.

Variabili personali: ruolo delle strategie di coping e del senso di autoefficacia sul burnout

Come mostrato in Tabella 1, dai risultati sull’esaurimento emotivo, il modello estratto indica un effetto significativo (F(2,57) = 7.99; p=.001; R2= .219) dell’orientamento al problema e del sostegno sociale. In particolare, l’orientamento al problema presenta una relazione negativa con l’esaurimento emotivo, tale che ad un aumento di questa strategia di coping corrisponde una diminuzione dell’esaurimento emotivo (Fig 1-A). Il sostegno sociale, invece, presenta una relazione positiva, tale che al suo aumentare, aumenta anche l’esaurimento emotivo (Fig 1-B). Tutte le altre variabili non hanno mostrato un effetto significativo (p>.05).

Come mostrato nella Tabella 2, dai risultati sulla realizzazione personale, il modello estratto indica un effetto significativo (F(2, 57)= 5.279; p=.008; R2=.156) dell’autoefficacia percepita e dell’orientamento trascendentale. In particolare, l’autoefficacia percepita mostra una relazione positiva con la realizzazione personale (Fig 1-C), mentre l’orientamento trascendentale mostra una relazione negativa con la realizzazione personale (Fig 1-D). Tutte le altre variabili non hanno mostrato un effetto significativo (p>.05).

Dai risultati sulla depersonalizzazione, nessuna variabile considerata nel modello statistico riporta un’influenza significativa (p>.05).

Contesto lavorativo: ruolo delle difficoltà oggettive e soggettive dell’ambiente di lavoro sul burnout

I risultati su tutte le sottodimensioni del burnout (esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale) hanno indipendentemente mostrato un’incidenza significativa delle variabili oggettive e nessuna incidenza delle variabili soggettive. Nella Tabella 3 è mostrato l’effetto significativo, dove sia per l’esaurimento emotivo (F(2, 57)= 7, 286 ; p=.002; R2=.204), che per la depersonalizzazione (F(2, 57)=8.235; p=.001; R2=.224) si evidenzia una relazione positiva tra le due variabili, tale per cui all’aumentare delle difficoltà oggettive corrisponde un aumento delle due sottodimensioni del burnout (Fig. 2-A e 2-B). La realizzazione personale (F(2, 57)= 2.675; p=.078; R2=.086 ) mostra invece una relazione negativa, ad indicare che all’aumentare delle difficoltà oggettive essa si riduce (Fig. 2-c).

Le relazioni tra le dimensioni del burnout e le strategie di coping rivelano che l’utilizzo di strategie di orientamento al problema è associato a minore esaurimento emotivo (Fig 1-A). L’uso di tale strategia può infatti essere utile ad elaborare ed intraprendere attività mirate al superamento del problema e alla gestione dello stress, inibendo ogni altra azione interferente (Sica e al, 2008). Nel caso del presente studio, in cui gli operatori hanno la possibilità, seppur limitata, di controllo delle condizioni lavorative complesse e stressanti, l’uso di tali strategie probabilmente consente di aiutare a raggiungere un maggiore adattamento e benessere psicologico.

I risultati del presente studio riportano che la strategia di coping che mira al sostegno sociale è associata positivamente con l’esaurimento emotivo (Fig 1-B). Affidarsi esclusivamente al sostegno sociale potrebbe, infatti, rinforzare una certa passività da parte dell’individuo. Questa ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che sia il sostegno sociale che l’orientamento trascendentale sono visti come modalità passive di gestione dell’ansia e delle preoccupazioni (per una rassegna, si veda Chiri et Sica, 2007), che può risultare poco efficace nel lungo termine. Se nelle strategie di coping funzionali, come l’orientamento al problema, vi è una tendenza a gestire attivamente gli eventi critici o stressanti, la definizione del sostegno sociale è inquadrata come strategia emozionale, volta alla ricerca di comprensione, sostegno morale, rassicurazioni, sfogo emotivo dei propri sentimenti.

Si è evidenziata una relazione positiva tra l’autoefficacia percepita e la realizzazione personale (Fig 1-C). In generale, elevati livelli di controllo personale del lavoro, risorse interne e senso di competenza comportano un maggiore livello di benessere. L’alto senso di efficacia nel lavoro sociale (Golia etPedrazza, 2014) è legato al benessere personale e al conseguente riscontro di alte prestazioni e di soddisfazione lavorativa. Le relazioni con gli utenti, soprattutto nei servizi per i minori, possono essere spesso soddisfacenti e gratificanti per le sfide complesse che si ritrovano ad affrontare, e possono apportare un senso di realizzazione personale (Papadaki et Papadaki, 2006).

Per strategia di coping volta all’orientamento trascendentale si intende il cercare aiuto o conforto nella religione. La relazione negativa emersa tra l’orientamento trascendentale e la realizzazione personale (Fig 1-D) si può considerare in linea con le ricerche sulle modalità passive di gestione dello stress riportate in precedenza (Chiri et Sica, 2007). Tale strategia, infatti, non è sufficiente da sola a garantire una condizione di benessere personale (Sica et al, 2008). Le strategie di coping funzionali per la risoluzione dei problemi, piuttosto che l’affidarsi al controllo esterno (ad esempio, al fato o alla religione), sono cruciali per la capacità di gestire lo stress e consentire al soggetto di sentirsi capace e realizzato nella propria vita lavorativa.

I risultati sulle difficoltà oggettive legate al contesto lavorativo hanno evidenziato un impatto su tutte le sotto-componenti del burnout prese in esame nel presente studio. I fattori oggettivi analizzati comprendevano item relativi agli orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro e sovraccarico lavorativo, ecc. In particolare, come mostrato nella Figura 2, all’aumentare delle difficoltà oggettive, aumentano l’esaurimento emotivo e la depersonalizzazione, e diminuisce il senso di realizzazione personale. Studi precedenti (Maslach et Leiter, 2008), hanno dimostrato la relazione tra l’intensità dello stress sul lavoro e il rischio di burnout professionale. Gli operatori che svolgono la professione in contesti complessi, quali le strutture familiari, non si limitano all’erogazione di un servizio ma spesso ne vengono coinvolti globalmente. Qualora l’organizzazione trascura l’investimento emotivo ed umano del servizio, l’operatore ne resta deluso nelle aspettative, sperimentando senso di demotivazione che influisce notevolmente sul suo entusiasmo iniziale. A conferma di ciò, nel loro studio Lin et al (2016) hanno sottolineato che alcune caratteristiche del lavoro (quali domanda di lavoro elevata, basso controllo, cattiva cultura organizzativa e mancanza di comunicazione, collaborazione e risorse) risultano essere fattori predittivi di burnout. Nell’ambito delle professioni sociosanitarie, in particolare, l’aumento della depersonalizzazione e dell’esaurimento emotivo correla negativamente con la soddisfazione degli utenti nel ricevere cure e supporto (Vahey et al., 2004). Lo squilibrio nel carico del lavoro, con conseguente sovraccarico ed eccessivo dispendio di energia, sacrificio spesso ritenuto necessario per rientrare nei tempi previsti dalle organizzazioni, si è visto essere associato con un progressivo logoramento e sviluppo di burnout (Maslach e Leiter, 2002).

 

Eroi dietro le mascherine: i medici volontari nei reparti Covid, tra paure e coraggio – Intervista al Dott. Enrico Russolillo

Spesso sono stati descritti come eroi, semi-dei la cui forza e il cui coraggio salvano uomini, personaggi centrali di una storia che diventa memoria collettiva di un popolo. Non stiamo parlando di Eracle o Enea, e neanche di Spiderman, stiamo parlando dei medici volontari che hanno scelto di aiutare il sistema sanitario al limite del collasso durante il periodo più critico dell’emergenza Covid-19.

 

Descritti spesso in questi termini, si è rischiato di mettere in ombra quel lato squisitamente umano che accompagna una scelta così importante, come quella di salvare vite. Quel lato umano fatto di sofferenza, rinunce e dubbi, ma che allo stesso tempo è la forza propulsiva dell’aiuto dato ai pazienti affetti da coronavirus. La filosofia greca ci aiuta a capire. Platone scriveva: “Non esiste uomo tanto codardo che l’amore non renda coraggioso e trasformi in un eroe.”

E a capire può aiutarci anche l’intervista al Dottor Enrico Russolillo, medico cardiologo dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, partito come volontario per la Protezione Civile per dare il suo supporto al reparto di Medicina Covid dell’Ospedale di Rivoli, in Piemonte.

Intervistatrice (I): Dottor Russolillo, cosa l’ha spinto a proporsi come medico volontario per tre settimane durante l’emergenza Covid?

Dottor Enrico Russolillo (ER): L’idea, ribadita dal bando, di essere utile in un momento difficile, e la voglia di essere “dove le cose accadono veramente”.

I: Molte persone considerano voi medici alle prese con questa emergenza come degli eroi. Lei si rappresenta in questo modo, in termini di coraggio e forza?

ER: Non esagererei, non parlerei di “eroe”, posso però dire che essere considerato una sicurezza per gli altri, una persona su cui si può fare affidamento, mi inorgoglisce molto.

I: Una volta iniziato il suo operato di medico nell’Ospedale di Rivoli, ha riscontrato delle differenze tra le sue aspettative e la realtà che si è trovato ad affrontare?

ER: Giunto a Rivoli, pensavo di essere assegnato al Pronto Soccorso, invece mi hanno affidato una Medicina Covid. Mi aspettavo quindi di fare diagnosi ma mi sono ritrovato a dover gestire (curare è una parola grossa) i pazienti ricoverati, con diagnosi già fatta. Credevo anche di trovare molto meno personale medico, e in un primo momento ero stupito che avessero chiesto rinforzi: poi ho visto che molti colleghi non riposavano da quasi un mese, e che hanno iniziato a farlo dopo il nostro arrivo. Mi è dunque stato molto chiaro quanto ci fosse bisogno della nostra presenza. Inoltre stiamo parlando di un reparto messo su ad hoc per questa emergenza, quindi molti colleghi erano specializzati in settori diversi e si davano il cambio a rotazione.

I: Ci sono stati aspetti organizzativi del vostro team che hanno reso più difficile il lavoro?

ER: Come dicevo, il fatto che il team fosse raccogliticcio e incostante è stato un problema per i primi giorni. Una volta però imparate le procedure dell’ospedale, noi volontari siamo stati fondamentali per la gestione del reparto. Questo ovviamente ha creato anche qualche difficoltà con alcuni colleghi del posto, con i quali è stato meno facile la collaborazione.

I: Come è stato lavorare con colleghi con cui non aveva mai collaborato prima?

ER: Non particolarmente difficile. Avevamo tutti lo stesso scopo, e parlavamo una lingua comune; è anche vero che, come dicevo sopra, alcuni colleghi (per fortuna molto pochi), non li ho trovati molto cooperativi. Nonostante questi aspetti di gruppo siamo riusciti nella gestione ottimale del reparto.

I: Quali sono state le rinunce più pesanti che ha dovuto fare in questo periodo di volontariato?

ER: Io vivo solo con i miei gatti, non lasciavo la famiglia né rischiavo di infettarla, quindi non è stato terribile. Mi è sicuramente pesato lasciare il reparto dove lavoro a Napoli, che però non era coinvolto in un lavoro di emergenza Covid. Sapevo che sarei stato più utile per le strutture sanitarie più colpite (e mi è stato anche fatto un po’ pesare da parte di alcuni colleghi).

I: Come descriverebbe il rapporto con i pazienti che ha assistito?

ER: Come sempre, se si vuole si riesce a trasmettere fiducia e calore ai pazienti ricoverati. Con maschere, tute ed occhialoni bisogna volerlo tanto, perché è una condizione di lavoro che rischia di aumentare le distanze tra medico e paziente. Nonostante la maggiore formalità nei rapporti che ho percepito con le persone che vivono al nord, lo sforzo comunicativo mio e dei miei colleghi è stato utile in questa situazione, soprattutto se si pensa al fatto che sono pazienti soli e che non possono ricevere visite dai familiari: alcuni pazienti si sono decisamente affezionati.

I: Ci sono stati momenti in cui ha dubitato di quello che stava facendo?

ER: Ancora dubito delle terapie che abbiamo utilizzato, che mi sono apparse inadeguate sul momento dato il numero elevato di morti, e che per la maggior parte si sono dimostrate inefficaci dopo studi rigorosi. Dopo qualche giorno di permanenza, con tanti pazienti che perdevamo nonostante i nostri sforzi, ho vissuto momenti di profonda impotenza e di sconforto, questo credo sia valso anche per i miei colleghi.

I: Ha avuto paura?

ER: Ho avuto momenti in cui sono stato preso dalla paura di infettarmi, sensazione aggravata dal pensiero che “me l’ero andata a cercare”.

I: Che impatto hanno avuto le morti a cui ha dovuto assistere, e a quali risorse ha dovuto attingere per gestire il carico emotivo che ne è derivato?

ER:  Mi sentivo un monatto, non un medico, è stato terribile, le terapie funzionavano nella metà dei casi (o i pazienti guarivano da soli, più probabilmente). Il fatto di dividere l’alloggio con uno dei colleghi volontari mi ha permesso di parlarne insieme, e di farci forza a vicenda, anche nella rassegnazione derivante dalla percezione dei nostri limiti. Inoltre, le telefonate serali con mio figlio hanno contribuito molto al mio equilibrio…non a caso è uno psicologo

I: Ci sono stati dei ricordi del suo passato, professionale e non, che le sono stati di aiuto nel suo lavoro?

ER: Sì, quando per la prima volta dovetti rianimare un paziente che stava morendo, e invece di scoppiare in lacrime ed abbandonarmi mi feci forza e divenni oggettivo, razionale, ed efficace. Da allora (avevo 22 anni appena) questo meccanismo scatta sempre nelle situazioni difficili.

I: In queste settimane ha mai sentito il bisogno di essere lei stesso aiutato?

ER: Sì, più di una volta. Come dicevo c’era mio figlio Luigi Alessandro ad aiutarmi. Non sono abituato a chiedere aiuto, e in quei giorni mi facevo forza da solo, poi Luigi Alessandro ha capito che ero in difficoltà ed è stato più presente. Mi ha fatto molto bene parlare con lui.

I: Che importanza ha ricoperto il supporto sociale, come ad esempio quello di amici e parenti, nei momenti di difficoltà?

ER: E’ importante, molto, sentire esplicitamente che chi ami, o chi condivide le tue stesse competenze, ti è vicino. Purtroppo alcuni colleghi li ho sentiti emotivamente distanti, e questo mi ha ferito molto, ma la famiglia, molti pazienti, e il personale non medico dell’ospedale mi sono stati molto vicini, ho ricevuto manifestazioni di stima ed apprezzamento anche da persone sconosciute. Molte pazienti anziane si preoccupavano della mia incolumità: credo di essere stato incluso in rosari, preghiere e novene!

I: È da poco terminato il suo mandato e ha fatto ritorno a casa, che emozioni ha provato e quali pensieri ha fatto al suo rientro?

ER: È stato molto strano, la città era vuota ma io mi sentivo ancora in guerra, soprattutto i primi giorni dal mio rientro. Volevo tornare a lavorare nel mio ospedale, spinto soprattutto dal desiderio di continuare a dare il mio contributo e dal pensiero di aver lasciato soli i miei colleghi. Purtroppo mi sono stati imposti 14 giorni di quarantena e sono stato costretto a rientrare in ospedale solo successivamente. Questa pausa “imposta”, però, mi ha fatto bene in realtà: ho avuto modo di ripensare con calma a questa esperienza ed ho smesso, piano piano, di pensare alle persone morte come una ferita personale.

I: Un episodio per lei molto positivo di queste tre settimane trascorse in ospedale?

ER: Quando le pazienti A. e D., vedendomi, mostravano molta contentezza. Quando sono risultate guarite ci siamo fatti svariati selfie.

I: Qual è la cosa che le ha dato più soddisfazione?

ER: In Covid c’è poca soddisfazione medica, ma dimettere il piccolo C. (83 anni per 1,55 m di altezza), sulla cui guarigione non avrei scommesso un euro, è stata una gioia, ma non mi sono sentito artefice della sua ripresa. Ho però imparato tecniche e terapie nuove, e sono riuscito ad intrecciare nuovi rapporti con colleghi sconosciuti in un ambiente nuovo.

I: Cosa vorrebbe consigliare ad un medico o ad un infermiere che sta per entrare in un reparto d’urgenza?

ER: In un reparto di malattie infettive, a non sentirsi mai abbastanza protetto, ed essere maniacale nell’indossare le protezioni e nel rispettare le regole di sicurezza. Fatto ciò, bisogna smettere di aver timore e cercare di pensare positivamente, cioè credere che il proprio intervento sia utile: l’ho spesso ripetuto anche a me stesso.

I: C’è qualcosa che sente che questa esperienza le ha insegnato?

ER: Per prima cosa, non pensare che tutti i sentimenti patriottici, così come quelli ippocratici, siano automaticamente condivisi. Ho poi avuto modo di toccare con mano quanto sia fondamentale difendere e aiutare la sanità pubblica e, infine, ho capito che è necessario per noi operatori sanitari restare aperti emotivamente: durante questa mia esperienza nel reparto Covid ho offerto ancor prima che la medicina, moltissima empatia.

 

L’importanza del riconoscimento delle emozioni degli altri nelle interazioni interpersonali

Un recente studio (Israelashvili, Oosterwijk, Sauter, & Fischer, 2019) si propone di esplorare l’associazione tra capacità di differenziare le proprie emozioni ed abilità di riconoscere le emozioni negli altri, attraverso due indagini collegate.

 

Il riconoscimento delle emozioni altrui è un elemento fondamentale nelle interazioni sociali, in quanto permette all’individuo di rispondere in modo adeguato alle esigenze e richieste altrui in base allo stato emotivo di chi abbiamo di fronte. La capacità di differenziazione emotiva, anche detta granularità emotiva, si riferisce all’abilità di usare un linguaggio emotivo appropriato e di differenziarlo in base alla situazione specifica (Smidt & Suvak, 2015), per cui si è in grado di nominare l’emozione che si sta provando in modo corretto, oltre a saper riconoscere le emozioni altrui.

La ricerca ha suggerito diversi fattori in grado di spiegare la formazione dell’abilità del riconoscimento emotivo ed ha preso in considerazione innanzitutto il ruolo dell’empatia, sostenendo che più è grande la preoccupazione per gli stati emotivi degli altri, maggiore è l’attenzione ai segnali sociali da essi inviati, e più elevata è l’accuratezza del riconoscimento emotivo (Lauren & Hodges, 2009). Un altro aspetto esaminato è stato la mimica, intesa come simulazione delle emozioni viste nell’altro (Oberman, Winkielman, & Ramachandran, 2007), la quale tuttavia non è risultata avere associazioni significative con il riconoscimento emotivo (Hess, & Fischer, 2013). Infine, sono stati valutati gli aspetti cognitivi collegati all’empatia, intesi come conoscenza delle emozioni e più nello specifico del vocabolario in grado di dare forma alle emozioni altrui (Barrett, 2012), e Izard e i suoi colleghi (2011), sono arrivati alla conclusione che il linguaggio gioca un ruolo cruciale nella regolazione emotiva e nell’abilità di riconoscere le emozioni.

A partire da queste premesse, e considerando che molto spesso la consapevolezza delle proprie emozioni è stata messa in relazione all’adeguatezza del riconoscimento delle emozioni altrui, il presente studio (Israelashvili, Oosterwijk, Sauter, & Fischer, 2019) si propone di esplorare l’associazione tra capacità di differenziare le proprie emozioni ed abilità di riconoscere le emozioni negli altri, attraverso due indagini collegate.

Nel primo studio, a 399 studenti universitari di psicologia, attraverso l’Emotion Differentiation (ED; Erbas et al., 2014) è stato chiesto di dare un nome alle loro reazioni emotive in seguito all’esposizione ad una serie di stimoli presentati e, successivamente, attraverso l’Amsterdam Emotion Recognition Test (AERT; Wingebenbach, Ashwin, & Brosnan, 2016), è stato chiesto di valutare 24 foto di intensità emotiva crescente, rilevando un’associazione positiva tra le variabili esaminate.

Nel secondo studio sono state replicate le analisi condotte precedentemente, ma all’interno di un campione più rappresentativo, formato da numerose nazionalità, fasce d’età, e background culturali. Inoltre i 245 partecipanti, contattati attraverso una piattaforma di ricerca online, sono stati sottoposti a stimoli emotivi più differenziati rispetto a quelli del campione precedente, e i risultati ottenuti hanno confermato quelli del primo studio.

In conclusione, possiamo dire che i dati confermano le ricerche precedenti secondo cui è presente un’associazione significativa tra le variabili indagate, ma la novità rispetto agli studi passati, è aver riconosciuto che gli individui sono in grado di riconoscere le emozioni non solo dei propri partner (Erbas et al, 2016), ma di tutti coloro che incontrano, e l’aver considerato questa abilità come base del funzionamento interpersonale, e non solo come fattore protettivo dallo stress, dalla sperimentazione delle emozioni negative e dallo sviluppare una psicopatologia (Barrett, 2004).

 

Disturbo d’Ansia Sociale: un caso clinico concettualizzato secondo il modello LIBET

Da un punto di vista nosografico Andrea soffre di Ansia Sociale; adesso che si trova da solo in una città nuova questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta diventando un problema per lui e ha deciso di intraprendere un percorso di terapia.

 

Andrea (nome di fantasia) ha 20 anni, ha sempre vissuto in campagna, ma si è appena trasferito in città per iscriversi all’università. Contrariamente alle aspettative, la sua classe è composta ‘solo’ da una ventina di studenti. ‘Ed è quello il problema!‘ Sospira. ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece è tutto diverso! Siamo pochi, tutti parlano tra loro…Ci sono continuamente quei lavori di gruppo in cui bisogna per forza parlare, chiedere, dire la propria opinione…e io non so che dire, sto zitto, oppure balbetto…! E’ un incubo, ho ansia continuamente!’

Andrea si descrive come un ragazzo molto timido. Non è preoccupato per la sua preparazione, è un ragazzo studioso, vuole fare bene e se si impegna di solito riesce ad ottenere degli ottimi risultati. Il dramma arriva quando è costretto a prendere la parola di fronte agli altri. In quei momenti Andrea si sente malissimo: arrossisce, suda, le sue mani tremano e sente la bocca secca. Tempo fa è toccato a lui fare una presentazione davanti a tutti ed è stato terribile. Aveva studiato tantissimo ed era molto preparato, ma quando si è alzato in piedi per parlare …’Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare il tono…che vergogna! Mi tremava la voce e mi sono impappinato…Ho fatto la figura dell’idiota totale, quando sono tornato a casa ero veramente triste, schifato da me stesso, sono stato triste per una settimana‘.

Andrea è in ansia anche nei momenti informali, quando le persone chiacchierano tra di loro. ‘Vorrei fare amicizia, ma sono troppo in ansia, loro si conoscono già tutti e io ho paura di sembrare stupido e imbranato‘. Quando è costretto a interagire con qualche compagno, per evitare di impappinarsi spesso cerca di decidere prima che cosa dire e se lo ripete nella mente ‘per essere preparato‘, ma finisce che perde tantissimo tempo a pensare cosa dire, rischia di distrarsi e non riesce mai a sentirsi tranquillo. Quando qualcuno a lezione gli rivolge la parola, si sente molto a disagio, perché non sa che dire e teme ‘di dire stupidaggini‘. Per evitare che accada, cerca di non incrociare lo sguardo con nessuno e rimane sempre in disparte. Il problema è che poi si sente molto solo. In città non ha amici. ‘Non parlo mai con nessuno durante la settimana…è dura‘. Mentre ne parla, sembra molto triste.

Anche da bambino si è sempre sentito impacciato e nervoso nelle situazioni di gruppo, quando c’erano persone che non conosceva bene. Aveva avuto qualche problema di inserimento scolastico alle elementari, ma grazie ad una maestra molto dolce era riuscito ad ambientarsi nella classe, in cui comunque c’era anche suo cugino, con cui era cresciuto insieme. Non ha molti amici al suo paese, ma quei pochi con cui ha stretto un legame sono davvero buoni amici e con loro Andrea riesce ad essere se stesso. Inoltre è molto legato ai suoi cugini e a suo fratello minore, e ‘prima questo bastava! Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione!‘.

Adesso che si trova da solo in una città nuova, però, questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta davvero diventando un problema. Quando sa di avere una presentazione o un lavoro di gruppo, Andrea inizia a stare male una settimana prima. Non riesce a fare a meno di pensare che farà una figuraccia terribile come l’ultima volta; sente lo stomaco chiuso e la sera non riesce ad addormentarsi. E se il professore gli facesse qualche domanda davanti a tutti e lui non sapesse cosa rispondere? Andrea cerca di essere sempre perfettamente preparato, studiando fino a tardi e prendendo pagine di appunti. Il problema è che a volte non riesce a concentrarsi con tutti questi pensieri…anzi, ultimamente fa molta fatica a studiare, solo guardare i libri gli mette ansia. E se non riesce a studiare bene il pomeriggio, come può andare a lezione rischiando di essere interrogato? Gli altri sembrano sempre così preparati e sicuri di sé… L’ultima volta non ce l’ha fatta, non si è presentato il giorno del laboratorio di gruppo, fingendo di essere malato..

Da quel momento è andata sempre peggio. Ha cominciato ad evitare tutti i luoghi dove potrebbe incontrare i compagni dell’università o i professori. Andare a mensa, ad esempio, è molto difficile, soprattutto perché bisogna passare davanti ad un sacco di persone per andare a sedersi. Finisce per stare tutto il tempo chiuso in camera a studiare, ma si sente molto solo e triste, teme di non riuscire a finire l’università, di dover tornare in campagna con questo fallimento marchiato a fuoco sulla fronte.

Da un punto di vista nosogafico, Andrea soffre di Disturbo d’Ansia Sociale, conosciuto anche come Fobia Sociale, riportato nel DSM 5 (APA, 2013) nel capitolo dei Disturbi d’Ansia. I sintomi chiave per cui è possibile fare diagnosi sono i seguenti:

  • A. Paura o ansia marcata nei confronti di una o più situazioni sociali, in cui la persona è esposta al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme che agirà in un modo imbarazzante e umiliante o che i suoi sintomi d’ansia verranno giudicati negativamente
  • B. L’esposizione alla situazione temuta provoca quasi sempre ansia o paura
  • C. La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla minaccia reale data dalla situazione sociale e relativamente al contesto socio-culturale
  • D. Le situazioni temute vengono evitate oppure vengono sopportate con intensa ansia e paura
  • E. La paura, l’ansia o l’evitamento causano un distress clinicamente significativo o una riduzione del funzionamento nell’area sociale, occupazionale o in altre aree importanti di funzionamento
  • F. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e in genere durano 6 o più mesi.
  • G. La paura, l’ansia o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad es. droghe, farmaci) o a una condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale.

Alla SCID II (First, Williams, Karg, & Spitzer, 2017) l’intervista sui disturbi di personalità secondo il DSM 5, Andrea sembra avere dei tratti evitanti, ma non un vero e proprio disturbo. Infatti tende a sentirsi inadeguato e a temere il rifiuto da parte degli altri, però è stato in grado, nel corso della vita, di stringere legami profondi in cui non si sente escluso, ma appartenente.

Seguendo il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment), sviluppato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (Sassaroli, Caselli, Ruggero, 2016), è possibile ragionare sul caso clinico in termini di temi dolorosi e piani semi-adattivi.

Il tema doloroso rappresenta la vulnerabilità emotiva di ciascun individuo, formatasi nel corso della vita e data dalla focalizzazione attentiva su alcuni stati mentali negativi associati a esperienze evolutive percepite come dolorose e intollerabili. Più lo stato mentale associato al tema doloroso viene considerato come intollerabile, più l’individuo cerca di stare lontano da esso tramite strategie semi-adattive, dette piani, che comprendono l’evitamento, il controllo e l’iper-compensazione o modifica forzata del proprio stato mentale.

Il tema doloroso si può indagare partendo da un episodio recente che la persona riporta come significativo. L’episodio scelto è il momento in cui Andrea si è bloccato di fronte alla classe durante la sua esposizione. L’abbiamo indagato più o meno come segue:

A. Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare la voce..
T. Che emozione hai provato in quel momento?
A. Una grandissima vergogna
T. Cosa hai pensato di te?
A. Che stavo facendo la figura dell’idiota totale, dell’incapace sfigato
T. Com’è un incapace sfigato?
A. Uno scemo, un debole…uno che non sa stare al mondo
T. E se gli altri pensano questo, che succede di negativo?
A. Che nessuno mi considererà alla pari, mi scanseranno tutti. Nessuno vuole avere a che fare con uno sfigato così, nemmeno io vorrei
T. Qual è per te la cosa peggiore dell’essere sfigato?
A. Che non sarò mai alla pari degli altri, verrò sempre scansato dai professori..dai compagni…verrò sempre considerato inferiore
T. Come ti senti se pensi queste cose?
A. Molto triste e mi vergogno

Abbiamo ragionato a lungo se si trattasse di un tema di indegnità piuttosto che di inadegutezza/disamore. Nel primo caso si tratta di una sensazione profonda di inferiorità e disprezzo verso il sé, nel secondo caso la persona si sente rifiutabile, potenzialmente non amata e non riconosciuta nonostante i propri sforzi, priva di valore. L’emozione più spesso associata al tema dell’indegnità è la vergogna, mentre l’inadeguatezza/disamore può avere più a che fare con la tristezza. Inoltre il tema inadeguatezza/disamore, secondo il modello LIBET, può derivare da una storia evolutiva caratterizzata da genitori freddi e distanzianti, che non sono stati in grado di esprimere affetto e apprezzamento, oppure essi stessi insicuri e iperprotettivi, che non hanno permesso un’adeguata esplorazione del mondo e delle proprie capacità. Invece il tema dell’indegnità è in genere associato a genitori apertamente critici e sprezzanti, normativi e invalidanti.

E’ possibile esplorare la storia evolutiva del paziente partendo dall’episodio emotivamente saliente sopra riportato e andare indietro nel tempo, aiutando il paziente a ricordare se ci siano stati momenti in cui si è sentito in quel modo o ha pensato le stesse cose di sè nella sua adolescenza e infanzia.

T. Ti ricordi se ti sei già sentito in questo modo prima? Ad esempio, quando eri un adolescente?
A. Alle medie ci fu un episodio molto brutto. Dovevamo andare in gita, ma il mio migliore amico si era rotto un braccio e non poteva venire..Panico! Io con chi sarei stato in camera? O seduto accanto nel bus? Nessun altro mi avrebbe voluto con sé, si erano già organizzati tutti. Mi sentii proprio triste e umiliato. Non sarei voluto andare, ma mio padre mi obbligò. Anche se poi il professore decise con chi sarei stato, fu molto brutto, perchè sapevo che i miei compagni avrebbero preferito che io non fossi in camera con loro. Oppure anche nell’ora di ginnastica, ad esempio, che eravamo più classi insieme…io non la volevo mai fare e spesso mi facevo fare la giustificazione da mia madre. Il fatto è che ero scelto sempre per ultimo, perché negli sport sono imbranato. Mi sentivo l’ultimo degli ultimi.

Andando ancora indietro nel tempo, ci soffermiamo sui ricordi delle elementari.

A. I primi giorni sono stati un disastro, me lo ricordo ancora. Ero terrorizzato all’idea della scuola, degli altri bambini. Io giocavo solo coi miei cugini e mio fratello, non ero abituato. Stavamo in campagna, non avevo mai visto tutti quei bambini sconosciuti tutti insieme. Mia madre era molto preoccupata per me. Anche lei è molto timida, ha sempre vissuto in campagna, sta sempre con le stesse persone e non le piace quando deve parlare con estranei. Il primo giorno di scuola era molto spaventata, temeva di non trovare la strada, di arrivare tardi, si vergognava perchè le altre mamme erano cittadine, noi invece eravamo contadini, venivamo da un paesino di campagna…Continuava a dire che era difficile guidare per quella strada, di comportarmi bene, di parlare con la maestra e fare bella figura…

Dai racconti emerge dunque la figura di una madre a sua volta molto ansiosa e preoccupata, impacciata ed inibita nei rapporti sociali, non in grado di gestire le emozioni del figlio.

Il padre invece viene descritto come un uomo autoritario, di poche parole, molto dedito al lavoro in campagna e poco presente a casa, spesso apertamente svalutante nei confronti del figlio.

A. Era stato lui a decidere di mandarmi alla scuola in città. Diceva che dovevo diventare bravo per avere un buon lavoro. Non mi ha mai fatto un complimento, quando riportavo i voti buoni annuiva, una volta che ho preso un’insufficienza, alle superiori, mi disse scuotendo la testa che era molto deluso e che forse era stato un errore farmi fare il liceo, che era una scuola troppo difficile per me. Sentivo che aveva molte aspettative su di me, lui avrebbe tanto voluto studiare ma non aveva potuto, avevo sempre paura di deluderlo. Anche con le ragazze. Ogni tanto mi chiedeva perchè non avessi una fidanzata. – Alla tua età è normale avere una fidanzata, tutti ce l’hanno – si vedeva che era proprio preoccupato per me… deluso, proprio deluso sembrava. Sembrava triste per me. Una volta che non volevo andare ad una festa, lo sentii dire a mia madre: -Tuo figlio è un codardo -, aveva proprio una voce triste.
T. E tu come si sei sentito?
A. Mi sono vergonato, ho pensato che avesse proprio ragione.

Abbiamo deciso di condividere con il paziente la descrizione del tema dell’indegnità, che ci sembrava calzante a causa di un forte senso di inferiorità quasi senza scampo (se non forse essere ‘bravo’ all’università) e di quella profonda vergogna che non permette nemmeno di intravedere la speranza di un giudizio più benevolo da parte degli altri. Il paziente ha accolto questa ipotesi con sorpresa e diffidenza iniziale, poi con sollievo e commozione, come talvolta accade quando si scopre che un nostro dolore non è solo nostro, ma condivisibile e universale.

Secondo il modello LIBET, è utile ragionare anche in termini di piani, ovvero strategie abituali e egosintoniche che il paziente ha imparato ad usare nel corso della vita per stare lontano dal proprio tema doloroso. I piani sono più o meno rigidi, generalizzati e pervasivi, e sebbene durante il corso della vita abbiano avuto una funzionalità adattiva, ad un certo punto sono diventati disfunzionali proprio perchè utilizzati in maniera automatizzata e pervasiva anche in condizioni di bassa minaccia.

Nel corso dei colloqui, emerge che Andrea sembra utilizzare due piani: quello prudenziale, ovvero fondato sull’evitamento, e quello prescrittivo, ovvero fondato sul controllo.

Il piano più antico di Andrea sembra essere quello prudenziale, appreso dalla madre e portato avanti nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza senza, in fondo, troppi problemi. A scuola aveva suo cugino, a casa suo fratello e altri cugini e ‘questo bastava‘: ‘Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione‘.

Le prime rotture del piano prudenziale avvengono a causa di interventi esterni: l’obbligo da parte del padre ad andare in gita scolastica, ad esempio, o le volte in cui era costretto a partecipare all’ora di ginnastica. Poi arriva l’università, fonte di tante speranze, e qui c’è davvero la rottura del piano: non è più possibile evitare, come Andrea sperava! ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece…‘. Ma per Andrea è importante non fallire all’università. Che fare?

Quando non è possibile evitare, Andrea sembra perseguire il piano prescrittivo. Ad esempio, quando Andrea ci racconta che cerca di prepararsi ed imparare a memoria cosa dire durante un incontro o se interpellato, sta cercando di ‘controllare’ che l’evento temuto, ovvero l’umiliazione, la ‘figuraccia’ e la conseguente esclusione sociale non si verifichino. Lo fa nel modo che conosce: con l’impegno e la programmazione, proprio come fa quando studia per gli esami! Infatti Andrea è sempre stato un ottimo studente! In ambito scolastico la strategia prescrittiva ha sempre funzionato; nell’ambito sociale invece non sempre è una buona idea. Infatti Andrea non si tranquillizza, non riesce a ricordarsi bene cosa voleva dire e rimane costantemente preoccupato di essere ‘preso alla sprovvista’. E alla fine, nonostante la sua impeccabile e forsennata preparazione, la presentazione davanti alla classe va male.

Poiché in questo caso il piano prescrittivo non ha funzionato, Andrea torna, di nuovo, ad evitare: le situazioni, le persone, i luoghi, i lavori di gruppo. Evita la mensa, così come evitava le lezioni di ginnastica al liceo; evita gli sguardi, se ne rimane in disparte. Questa strategia, sebbene gli risparmi l’ansia e la vergogna, adesso lo rende triste, perché lo fa sentire escluso e inadeguato e rischia di mandare all’aria la sua carriera universitaria, su cui si fonda l’unica possibilità di ‘riscatto’ possibile: essere bravo, emergere, far felice il padre che non aveva potuto studiare. I costi del piano prudenziale sono diventati troppo elevati.

Data questa concettualizzazione, sarà possibile nel corso della terapia lavorare su temi e piani da un punto di vista non solo di contenuto, ma anche di processo. Dal punto di vista del tema, sarà possibile lavorare sulla polarizzazione attenzionale che rende il tema doloroso assolutamente condizionante e centrale nella vita dell’individuo, e sulla sua intollerabilità, ovvero su quanto il paziente valuti intollerabile il dolore associato al tema.

Dal punto di vista dei piani, invece, potremo lavorare in termini di necessità/utilità e di incontrollabilità, rendendo piano piano le strategie di Andrea più flessibili da un punto di vista metacognitivo e di conseguenza comportamentale.

Darwinismo neuronale. L’impatto paradossale delle neuroscienze nella ricerca e nella pratica psicologica

Lo sviluppo delle neuroscienze ha subito un’enorme accelerazione negli ultimi dieci anni. Sono molte le applicazioni pratiche che hanno beneficiato di queste nuove scoperte scientifiche.

 

Queste implicazioni hanno avuto l’ulteriore merito di suggerire nuove ipotesi di lavoro, nella riflessione teorica ed epistemologica da una parte e nello sviluppo di nuove tecniche di intervento in medicina e psicologia, dall’altra.

In questo articolo vorrei riassumere l’intuizione geniale di Gerald Edelman, premio Nobel per la medicina nel 1972 per le sue ricerche sugli anticorpi, conosciuta come Teoria della selezione dei gruppi neuronali, e le implicazioni teoriche ed euristiche di questa teoria nell’ambito della ricerca in psicologia. Il primo elemento da analizzare è, senza dubbio, l’approccio che Edelman ha utilizzato nell’affrontare il tema della formazione e del funzionamento dell’attività cerebrale, dall’embrione fino all’età adulta, approccio che lo stesso ha mutuato dalle ricerche nel campo dell’immunologia che gli valsero il premio Nobel per la medicina, come già accennato. In sintesi, egli si oppose all’idea prevalente nel mondo scientifico secondo la quale gli anticorpi del sistema immunitario dei vertebrati si formano come conseguenza e adattamento alle caratteristiche dell’antigene al quale devono rispondere; significherebbe, cioè, assumere che l’antigene contenga le informazioni necessarie alla formazione di un anticorpo corrispondente che si modellerà sulla base proprio delle informazioni contenute nell’antigene stesso. Questo modo di interpretare il meccanismo cellulare della risposta del sistema immunitario viene definito istruzionismo, interpretazione alla quale Edelman oppone l’idea di selezione o selezionismo. Questo secondo modo di vedere consiste proprio in un principio popolazionistico darwiniano, per il quale nello smisurato numero di anticorpi già presenti nell’organismo, alla comparsa di un antigene di qualunque genere e tipo, l’organismo risponde selezionando gli anticorpi più adatti ed efficaci perché vicini alle caratteristiche chimiche della molecola da combattere, come detto anticorpi già presenti nel corpo, i quali prolifereranno e si rafforzeranno proprio in seguito a questo meccanismo di selezione somatica.

L’intuizione di Edelman fu che questo principio potesse valere per ogni sistema biologico, compreso lo sviluppo cerebrale e sinaptico; dunque anche il cervello è un sistema di riconoscimento selettivo? Secondo la Teoria della selezione dei gruppi neuronali certamente sì. Infatti, con buona pace dei positivisti più irriducibili, la selezione somatica, già di natura epigenetica quindi, inizia nella fase embrionale, attraverso la formazione di gruppi neuronali che, scaricando simultaneamente, si cablano insieme costituendo una mappa individuale (repertorio primario), sempre diversa da individuo a individuo, perfino nel caso di gemelli omozigoti. A questo punto è facile comprendere come l’esperienza e l’interazione con l’ambiente produrranno nel neonato configurazioni sinaptiche individuali non riconducibili al dettato genetico, attraverso un lavoro selettivo di rafforzamento o indebolimento dei gruppi neurali funzionali ad una migliore risposta adattiva, rappresentata da modelli operativi interni sani o dissociati a seconda dell’adeguatezza delle cure primarie disponibili (repertorio secondario). Ma vediamo, allora, più da vicino qual è il meccanismo all’opera nella selezione somatica; il concetto ed il termine che riassume questa complessa competenza delle cellule nervose cerebrali utilizzato da Edelman è rientro. Significa qualcosa di diverso e di più rispetto al semplice concetto di retroazione o feedback; si tratta di un meccanismo complesso e sofisticato che più che un mero scambio di segnali che dall’esterno modificano l’interno, consiste nella formazione di circuiti cosiddetti rientranti che rappresentano il modo costruttivo di cui dispone il nostro cervello per comunicare soprattutto con sé stesso. Gli stimoli esterni, quindi, producono una successiva elaborazione a livello neurale, come una sorta di auto-organizzazione (individuale) del cervello stesso, che rafforzerà quegli scambi incessanti di connessioni sinaptiche (cicliche, ad anello piuttosto che lineari) che si affermeranno, attraverso una scarica simultanea, come quelle più adeguate a rispondere all’esigenza di adattamento, selettivamente orientata.

In questo senso il rientro assomiglia ad una proprietà emergente che scaturisce dalle intrinseche qualità auto organizzative del cervello stesso. I nuclei dinamici che si formano dall’attività dei circuiti rientranti, poi, dimostrano come sia la funzionalità in uscita ad orientare l’intero meccanismo e non l’anatomia, poiché le mappe rientranti globali che formano appunto i nuclei dinamici, sempre variabili, connettono neuroni distanti tra loro oltre che differenti per funzione specifica.

Neuroscienze il darwinismo neuronale tra ricerca e pratica psicologica Fig 1

Fig .1 (da Edelman G., Più grande del cielo, Torino, Einaudi, 2004, p.38). Tre campi o mappe separati le cui connessioni producono in tempi differenti una risposta in uscita (output) funzionalmente uguale. 

Quello che conta maggiormente rispetto a questo traffico di connessioni rientranti che si rafforzano e si indeboliscono a seconda delle necessità adattive che ne condizionano lo scambio reciproco è la conseguenza finale del processo, cioè il fatto che in particolari circuiti ed in particolari configurazioni di mappe, anche lontane anatomicamente tra loro, i neuroni scaricano simultaneamente, sono sincronizzati indipendentemente dalla regione anatomica della loro collocazione.

Il chiasmo consiste quindi nel fatto che cellule diverse (aggregati neurali) possono svolgere ed assolvere la medesima funzione così come un medesimo nucleo dinamico può svolgere funzioni differenti in momenti diversi.

Neuroscienze il darwinismo neuronale tra ricerca e pratica psicologica Fig 2

Fig. 2 (da Edelman G., Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Cortina, 2007, p. 25). Sono evidenziate le reciproche connessioni tra le regioni talamo-corticali e tra varie regioni della corteccia. Le reciproche connessioni integrano e sincronizzano le attività di diverse specifiche mappe neurali.

Il cervello dimostra di essere un generatore di diversità; il nostro autore ha coniato a proposito un curioso acrostico, appunto God (generator of diversity), per evidenziare la caratteristica strutturale fondamentale alla base della teoria della selezione dei gruppi neuronali.

L’incontro con i segnali che provengono da un mondo sconosciuto, non ancora categorizzato e dunque ambiguo, produce e facilita l’amplificazione differenziale di quelle particolari configurazioni che meglio si adattano a rispondere alla sfida dell’adattamento, a tutti i livelli ed in ogni fase dello sviluppo, per tutta la vita dell’individuo.

Molto interessante in questa descrizione delle proprietà delle mappe rientranti è la constatazione che non esisterebbe alcun centro regolatore superiore che coordini le attività neurali responsabili di una particolare funzione; piuttosto è proprio l’attività stessa di sincronizzazione di gruppi di neuroni di diverse aree e regioni cerebrali che aprono vie e configurazioni determinate sotto la spinta delle connessioni rientranti che produce la conseguente risposta adattiva e funzionale che corrisponderà agli infiniti possibili stati di coscienza e vissuti soggettivi, coscienti appunto, ma anche inconsci, secondo uno schema francamente inesauribile relativamente a qualsiasi criterio normativo quantitativo e tassonomicamente controllabile.

Allora cosa si evince e quali sono le conseguenze di queste nuove conoscenze scientifiche per quanto riguarda la ricerca in psicologia? Se dal versante di una delle scienze considerate dure, hot (rispetto alle scienze umane, soft) arrivano considerazioni di tipo olistico e non causale-riduttivo, secondo quindi una epistemologia non deterministica, cosa dovremmo pensare rispetto alle scienze psicologiche? La ricerca di uno statuto scientifico dignitoso nasce con la psicologia stessa, se pensiamo che la prima cattedra di psicologia in una facoltà scientifica risale all’università di Ginevra nel 1891 con Theodore Flournoy, come ricostruito dal fondamentale lavoro di Sonu Shamdasani nella sua storia sulla nascita della psicologia moderna (in Italia per il primo corso di laurea in psicologia dovremo aspettare il 1978). Un’ambizione legittima e comprensibile che, tuttavia, paradossalmente, insieme alla ricerca (a volte tristemente spasmodica) di validazione oggettiva ed inoppugnabile scientificità, conduce verso l’inevitabile collocazione delle teorie e delle pratiche psicologiche nell’ordine delle scienze umane, lungo quella linea che rappresenta un continuum ininterrotto al cui termine ci sono le scienze naturali. In questo senso l’affondo finale, che chiude la partita definitivamente, arriva proprio dalla scienza più oggettiva e matematicamente coerente possibile, la fisica. Sappiamo come la fisica delle particelle contemporanea, se da una parte produce delle previsioni e delle applicazioni pratiche e tecnologiche mai così precise ed accurate nella storia della conoscenza umana, dall’altra si sottilinea come l’impianto teorico e concettuale della meccanica quantistica è di tipo probabilistico, olistico, non deterministico. Il paradosso è impegnativo dal punto di vista della filosofia della scienza ma, nello stesso tempo, illumina rispetto a quale predisposizione dobbiamo assumere noi psicologi di fronte sia al lavoro di ricerca e di indagine, sia di fronte all’interpretazione ed alla cura dei pazienti. La virata, nell’ultimo decennio, verso una sempre maggiore attenzione agli aspetti relazionali della terapia rispetto alle storiche precedenti guerre di religione tra i vari approcci teorici, nelle psicoanalisi, nelle psichiatrie, nelle psicologie tout court, mi sembra rappresenti un aspetto molto incoraggiante ed euristicamente costruttivo di procedere sulla strada della conoscenza in una materia e disciplina così particolare poiché occupa, unica tra tutte, un posto, al tempo stesso, privilegiato e problematico, nel quale il soggetto e l’oggetto della ricerca, coincidono.

Concludo la riflessione epistemologica, citando le ricerche svolte presso la University College of London (Karmiloff-Smith, Johnson), ricerche che si collocano in quell’area di studi di psicologia evoluzionista che hanno avuto inizio intorno agli anni 90 del secolo scorso e che rappresentano una integrazione e superamento della dicotomia storica tra innatismo e comportamentismo, o, ancora meglio, tra una concezione della mente del neonato come tabula rasa (l’empirismo inglese di John Locke) che attribuisce all’ambiente ed all’esperienza l’intera responsabilità ed incidenza sullo sviluppo del bambino e, viceversa, una concezione della mente del bambino dotata di strutture innate e programmate a svolgere determinati compiti, una volta che l’ambiente e l’esperienza le avessero attivate. Proseguendo gli studi sugli stadi evolutivi di Piaget, la psicologia ad orientamento evoluzionista postula, secondo gli autori, che il contenuto innato della mente infantile consista principalmente in inclinazioni iniziali e predisposizioni attentive, in grado di attivare l’apprendimento.

In questo senso il codice genetico (molto ridotto come numero rispetto alle aspettative iniziali, 30mila geni contro i 100mila attesi) non può contenere l’informazione necessaria a spiegare l’enorme complessità dello sviluppo cognitivo umano, né l’infinita variabilità del comportamento; qualunque predisposizione derivata dal codice genetico non solo necessita dell’interazione con l’ambiente per prendere forma ma, soprattutto, va considerata come la predisposizione a formare rappresentazioni interagendo sia con il mondo esterno che con il mondo interno, e certamente non come l’esistenza di rappresentazioni innate già presenti nel cervello stesso.

Le rappresentazioni allora non sono già presenti nel codice genetico, piuttosto i geni si dimostrano essere dei catalizzatori garanti di un processo più che detentori di un contenuto preesistente, questa è la differenza. Gli psicologi evoluzionisti sottolineano come la componente innata sia limitata al meccanismo di focalizzazione dell’attenzione in un certo modo, sarebbe solo questo il vincolo, un algoritmo privo di contenuto che vincola e direziona semplicemente in che modo emergerà l’attenzione e la percezione a livello precoce e primitivo. Morton e Johnson hanno condotto in questo senso degli esperimenti sui neonati dimostrando come la capacità di riconoscimento del volto umano rispetto ad altri stimoli da parte dei neonati sia innata; hanno denominato questo meccanismo non acquisito Conspec, per sottolineare la caratteristica attribuibile all’intera specie umana che, tuttavia, si limita alla tendenza a prestare attenzione genericamente a volti umani senza riconoscerne peculiarità e differenze; infatti la capacità di discernere e distinguere per esempio il volto della madre da quello del padre dipende dall’apprendimento ed emerge qualche settimana più tardi e dipende dal Conspec solo nella misura in cui rappresenta un ampliamento di ciò che esso assicura, cioè che il bambino presti attenzione ai volti umani.

Non esiste quindi una particolare immagine predeterminata nella mente del neonato ma, come abbiamo visto, la tendenza innata a girarsi ed essere attratto da qualsiasi volto umano rispetto ad altre immagini che si presentino nel campo visivo. Si tratta di un riflesso sensomotorio privo di intenzionalità e di comprensione di significato, il cui substrato biologico risiederebbe nelle strutture sottocorticali che semplicemente vincolerebbero la risposta percettiva e attentiva nel modo che abbiamo visto. A livello corticale, invece, gli autori indicano come le rappresentazioni non siano prespecificate e predeterminate, poiché hanno bisogno ed emergono dalle interazioni complesse tra cervello e ambiente e dal rapporto reciproco tra aree cerebrali interne.

In questo senso i principi di auto organizzazione e di emergenza prevalgono nell’interpretazione dello sviluppo mentale rispetto a concezioni deterministiche e innatiste in senso forte.

 

I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi

Gli studi hanno mostrato come, anche in assenza di gravi forme di privazione materiale, le cure istituzionali precoci siano associate ad un più alto rischio di problemi esternalizzanti e dell’attenzione rispetto ai bambini non-istituzionalizzati cresciuti in famiglia.

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di tre articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata effettuata una disamina generale della situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Nel secondo articolo sono state invece presentate le principali ricerche sull’argomento, i cui risultati verranno oggi illustrati nell’articolo che segue.

 

Gli studi che hanno utilizzato la scala di valutazione CBCL hanno riscontrato evidenze simili: i minori deistituzionalizzati hanno mostrato più alti livelli di problemi comportamentali, in particolare disturbi esternalizzanti (comportamento aggressivo e trasgressione di regole) e disturbi dell’ attenzione, rispetto ai minori non adottati.

Una forte correlazione positiva è stata riscontrata anche tra l’età al momento dell’adozione ed i problemi comportamentali, manifestati in particolare dal gruppo degli adolescenti (12-18 anni).

Gli studi hanno quindi mostrato come, anche in assenza di gravi forme di privazione materiale, le cure istituzionali precoci siano associate ad un più alto rischio di problemi esternalizzanti e dell’attenzione rispetto ai bambini non-istituzionalizzati cresciuti in famiglia e che il tasso di problemi comportamentali aumenta significativamente con l’età al momento dell’adozione, in particolare per i bambini esposti a deprivazione istituzionale per più di 18 mesi a partire dalla nascita.

I bambini “late adopted” tendono a mostrare più difficoltà internalizzanti/esternalizzanti, disturbi del pensiero, dell’attenzione e del comportamento sociale rispetto ai coetanei “early adopted”.

Raaska e colleghi, dopo aver dimostrato la più alta incidenza di difficoltà di apprendimento nei minori adottati (33, 2% rispetto al 10% della popolazione generale), hanno individuato le variabili che spesso risultano associate a tali deficit.

Oltre all’età al momento dell’adozione, il genere e il paese d’origine, essi hanno trovato un ultimo fattore compromissivo, rappresentato dal numero di istituti cambiati: sotto l’aspetto scolastico, infatti, i bambini che sono stati trasferiti da un istituto all’altro, risultano svantaggiati rispetto a chi era rimasto in un unica struttura per l’intera durata dell’istituzionalizzazione.

I piu compromessi nelle abilità scolastiche sono risultati i minori provenienti dagli istituti dell’Est Europa e dall’Africa e i soggetti di sesso maschile. Al contrario, le femmine e i minori provenienti da istituti asiatici hanno mostrato più alti livelli di adattamento e performances scolastiche significativamente superiori.

L’obiettivo ultimo dello studio era quello di valutare in quale misura le difficoltà scolastiche fossero ricollegabili a disturbi dell’attaccamento quali RAD (Reactive Attachment Disorder) e DSED (Disinhibited Social Engagement Disorder): l’associazione è risultata fortemente significativa. Considerando che i disturbi dell’attaccamento compaiono in età prescolare, lo studio permette di focalizzare l’attenzione sui bambini a rischio ancora prima dell’ingresso scolastico.

Anche lo studio di Wiik, coerentemente con la letteratura precedente (Beverly et al.2008, Gunnar et al. 2007, Kreppner et al 2001), ha mostrato che il 23% dei bambini post istituzionalizzati presenta sintomi di ADHD e che soprattutto i bambini con storie istituzionali prolungate, valutati dagli otto agli undici anni, sono a rischio di sviluppare il disturbo.

Negli anni, diversi altri studi sul tema dell’istituzionalizzazione hanno confermato tale relazione ed hanno riscontrato la presenza di un disturbo più specifico, identificabile come inattention/ overactivity (tradotto dagli autori con il termine inattenzione-iperattività I/O), che si genera proprio da questa precoce esperienza di vita (Goldfarb, 1945; Taylor, 1994; Ames, 1997; Fisher et al., 1997; Rutter e ERA Study Team, 1998, 2001; Kreppner, O’Connor e Rutter, 2001; Roy, Rutter e Pickles, 2000, 2004).

È stata anche posta l’attenzione sulla difficile reversibilità del disturbo in adolescenza, a fronte delle precoci alterazioni neurobiologiche evidenziate da tali soggetti (Stevens et al., 2007). Rutter e colleghi (1998) hanno sottolineato, però, che se l’adozione è stata precoce e la qualità delle cure offerte della famiglia adottiva è stata buona, è possibile diminuire l’entità del disturbo.

Lo studio di Wiik ha anche mostrato che il rischio di ADHD dipende più dalle esperienze precoci dei bambini che dal loro paese d’origine: la persistenza di problemi di attenzione anni dopo l’adozione fornisce supporto per l’ipotesi che disattenzione e impulsività possano essere parte della sindrome post-istituzionale (Kreppner et al., 2001).

Una delle scoperte piu importanti sul tema dell’istituzionalizzazione è probabilmente rappresentata dall’importanza rivestita dalle interazioni con i cargivers. Nel 2007, Smyke e colleghi hanno infatti messo in luce una forte correlazione tra la quantità e la qualità delle interazioni e lo sviluppo cognitivo e le competenze dei bambini. Tuttavia, per la natura dei dati, non e possibile determinare se i bambini più compromessi abbiano richiesto meno attenzioni o se le scarse cure abbiano portato a tali ritardi.

Entrambe le direzioni possono plausibilmente essersi verificate nel tempo: i bambini che ricevono una migliore qualità assistenziale possono utilizzare le loro interazioni con i caregivers per guadagnare una più complessa conoscenza dell’ambiente e del proprio ruolo al suo interno, raggiungendo maggiori competenze.

I risultati possono comunque essere ritenuti affidabili poiché sono stati esclusi dal campione sperimentale i soggetti con gravi handicap (sindrome alcolica fetale o grave paralisi cerebrale). L’osservazione delle videoregistrazioni ha mostrato che spesso i bambini in istituto non avevano a disposizione un caregiver che soddisfacesse i loro bisogni e che non erano coinvolti in interazioni, conversazioni con i pari o giochi creativi.

In questo studio la qualità dell’interazione e delle cure da parte del caregiver è risultata altamente correlata con tre delle sfere evolutive considerate: quoziente di sviluppo (developmental quotient, DQ), comportamenti adattivi e competenze, mentre la percentuale di tempo in istituto soltanto alla sfera dei comportamenti problema. Ciò dimostra che il semplice fatto del risiedere in un istituto è meno potente del micro-ambiente costituito da ogni bambino con il proprio caregiver di riferimento.

Non sorprende che i bambini più grandi, in questo studio come nei precedenti, abbiano mostrato un più alto livello di deterioramento cognitivo rispetto ai più piccoli: questo è compatibile con l’idea, ampiamente provata, che la capacità cognitiva si deteriori con il progredire dell’assistenza istituzionale.

E’ importante sottolineare che questi risultati confermano quanto e già stato riscontrato nei precedenti 50 anni in vari studi riguardanti le caratteristiche dello sviluppo di minori cresciuti in istituto.

Considerazioni conclusive

Il radicale cambiamento di ambiente che avviene quando la profonda deprivazione istituzionale precede l’adozione crea un “esperimento naturale” che puo essere utilizzato per testare le ipotesi sugli effetti della deprivazione precoce.

Questo articolo ha posto l’attenzione su alcuni studi che hanno osservato comportamento e apprendimento dei bambini adottivi, mettendo in luce come alcuni fattori possano influenzarne lo sviluppo cognitivo e comportamentale.

I fattori analizzati, correlati con diversi gradi di adattamento nel periodo successivo all’adozione, sono:

  • l’istituzionalizzazione (Hoksbergen et al. 2004; Smyke et al.2007; Merz e McCall, 2010; Raaska et al.2011; Wiik et al.2011);
  • l’età al momento dell’adozione (Hoksbergen et al. 2004; Smyke et al. 2007; Merz e McCall, 2010; Raaska et al.2011; Wiik et al. 2011);
  • il numero di istituti cambiati nel periodo precedente all’adozione (Raaska et al. 2011);
  • la quantità/qualità di interazioni con i caregivers (Smyke et al.2007);
  • il genere ed il paese d’origine (Raaska et al.2011);

I risultati delle ricerche analizzate forniscono un forte supporto all’idea che l’esposizione alle cure istitutive, specialmente se per un periodo di tempo superiore ai 18 mesi, sia profondamente incisiva sullo sviluppo dei bambini. Gli studi presi in considerazione hanno mostrato una più alta incidenza per i bambini post-istituzionalizzati di disturbi:

  • esternalizzanti (Audet et al. 2006, Hoksbergen et al. 2004; Merz e McCall, 2010);
  • dell’attenzione (Hoksbergen et al. 2004; Merz e McCall, 2010; Wiik et al. 2011);
  • dell’apprendimento (Silver, 1969; Raaska et al.2011);
  • dell’attaccamento (RAD e DSED) (Raaska et al.2011);
  • del comportamento sociale (Smyke et al.2007);

Queste alterazioni sembrano essere dovute all’inadeguata qualità delle cure, intesa come: disequilibrio nel rapporto numerico tra bambini ed educatori, eccessivo turnover del personale, scarse stimolazioni tattili, visive e uditive, rari e mal diretti momenti d’interazione sociale tra adulti e bambini, impossibilità di sperimentare momenti di calore, rare opportunità di gioco libero tra coetanei e di scoperta libera o guidata dell’ambiente.

Viene confermato quanto già sostenuto da una prospettiva interdisciplinare evolutiva: è all’interno di una relazione stabile, calorosa ed empatica che il bambino acquisisce le abilità indispensabili per un sano sviluppo psico-fisico (Monti et al.2010). A tale proposito, gli interventi improntati al miglioramento delle istituzioni dovrebbero costituire il fine ultimo delle ricerche, in quanto tali istituzioni non sembrano destinate a scomparire molto presto (Smyke et al. 2007).

Per migliorare la condizione di vita all’interno degli istituti, è possibile prendere in considerazione alcuni interventi. A livello del microsistema, ovvero delle relazioni a due (bambino-adulto), si potrebbe diminuire il rapporto numerico tra bambini ed operatori e disincentivare il turnover del personale, rendendo più facile l’instaurarsi di una relazione preferenziale. Sarebbe auspicabile, inoltre, formare gli operatori delle strutture sull’importante ruolo che essi stessi rivestono nella crescita dei bambini e su come svolgere le proprie mansioni mettendo al centro il minore. Infine, sarebbe opportuno permettere ai minori di prendere parte ad attività sportive o di altro genere, che possano aumentare il loro senso di autoefficacia, stimolando la socializzazione tra pari (Cyrulnik e Malaguti, 1999).

In ultimo, per implementare le risorse a livello del macro-sistema, sarebbe opportuno lavorare al fine di costruire una comunità resiliente grazie anche all’informazione e alla divulgazione degli effetti negativi sullo sviluppo infantile di tali contesti, per poter arrivare a delle vere e proprie modificazioni delle politiche sociali (Emiliani, 2004).

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

 

 

Nomofobia – Psicopatologia e stile di vita

Nell’ultimo decennio l’utilizzo quotidiano dello smartphone è cresciuto in maniera esponenziale: secondo il Pew Research Center (2019), la maggioranza degli americani (81%) e il 96% dei giovani adulti (18-29) sono possessori di almeno uno smartphone.

 

Nonostante i vantaggi e le comodità che gli smartphone assicurano, quando il loro utilizzo diventa eccessivo questi possono impattare negativamente sullo stile di vita delle persone, portando a una dipendenza che può avere effetti fisici, psicologici, comportamentali, sociali e affettivi (Gezgin & Çakir, 2016).

Nel particolare, l’uso eccessivo dello smartphone può causare nomofobia (“no phone phobia”): ossia l’ansia, il disagio e lo stress causati alla persona quando non ha il proprio smartphone a disposizione (King, 2013).

Essendo un campo emergente, la letteratura esistente (Kriswanto et al., 2018; Nath, 2018; Shen et al., 2020) – che pur indica una correlazione positiva tra nomofobia e problemi di salute – è ancora limitata. In uno studio recente (Gonçalves et al., 2020) si è deciso di indagare la relazione tra nomofobia, stile di vita e sintomi psichici. Per fare ciò sono stati reclutati 495 studenti dell’Università di Braga (Portogallo), dell’età compresa tra 18 e 14 anni, con il solo criterio di inclusione di possedere uno smartphone.

I partecipanti alla ricerca sono stati sottoposti alla seguente testistica: il Nomophobia Questionnaire (NMP-Q; Yildirim & Correia, 2015) per la determinazione del livello di nomofobia; il Brief Symptom Inventory (BSI; Derogatis & Melisaratos, 1983) per la valutazione self-report della sintomatologia psichica; il FANTASTIC Lifestyle questionnaire (Wilson et al., 1984) per la valutazione delle abitudini individuali.

Dai risultati dello studio si è riscontrata una correlazione positiva tra la nomofobia e la sintomatologia psicopatologica: nello specifico, la nomofobia è risultata associata a sintomi da somatizzazione, sintomi ossessivo-compulsivi, sensibilità interpersonale, sintomi ansiosi, sintomi depressivi, ostilità, ideazione paranoide e psicoticismo. Inoltre, sensibilità interpersonale e sintomi ossessivo-compulsivi – così come il numero di ore di utilizzo al giorno dello smartphone – sono stati identificati come forti predittori della nomofobia, come già confermato in letteratura per quanto riguarda la sintomatologia ossessivo-compulsiva (Lee et al., 2018).

La nomofobia si è dimostrata indipendente rispetto al genere o all’età delle persone e, sorprendentemente, anche rispetto allo stile di vita, suggerendo la pervasività del ruolo che lo smartphone ha oramai occupato nella vita dei giovani – perlomeno in Portogallo.

Fattori protettivi sono stati riscontrati in livelli superiori di educazione e migliori relazioni con famiglia e amici, oltre alla maggiore attività fisica.

Ulteriore ricerca sarà necessaria in futuro per meglio indagare un fenomeno che è ancora agli inizi, così come sarà necessario investire nell’educazione per un utilizzo salutare degli smartphone.

 

I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi

Poiché anche l’adozione internazionale, pur senza il periodo di ricovero in istituto, può essere considerata un evento traumatico, dividere i bambini adottati e quelli adottati post-istituzionalizzati permette di verificare con maggiore chiarezza gli effetti delle cure istitutive precoci indipendentemente dall’adozione.

Il presente contributo è il secondo di una serie di tre articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata effettuata una disamina generale della situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Presenteremo oggi le principali ricerche sull’argomento, i cui risultati verranno poi illustrati nel terzo e ultimo articolo.

 

I principali studi su questo tema fanno riferimento all’adozione internazionale, cioe l’adozione di un minore il cui stato di abbandono e di adottabilità sia stato dichiarato dalle autorità competenti di un Paese estero. I bambini sono stati valutati sotto diversi aspetti. Nel caso della valutazione dei comportamenti problematici (disturbi esternalizzanti ed internalizzanti), i questionari utilizzati più frequentemente sono quelli della Child Behavior Checklist. Queste schede valutative fanno parte del Sistema di valutazione su base empirica di T. Achenbach e possono essere considerate ottimi strumenti per una prima valutazione globale del comportamento.

Uno degli importanti lavori di ricerca che hanno utilizzato la Child Behavior Checklist è quello di Merz e McCall (2010). Questi ricercatori hanno osservato i problemi comportamentali di 342 bambini e ragazzi dai 6 ai 18 anni, adottati da istituti russi di San Pietroburgo. Tali istituti fornivano adeguate risorse fisiche, ma scarse cure ed attenzioni da parte dei caregivers. I bambini in queste istituzioni potevano, infatti, fruire di sostegno medico, nutrimento, sicurezza, igiene, giocattoli e attrezzature, ma sono stati esposti ad un alto turnover di caregivers, scarse interazioni e bassi livelli di stimolazione psicosociale (Kossover, 2004). L’obiettivo dello studio di Merz e McCall era quello di dimostrare che, anche in assenza di grave deprivazione materiale, l’istituzionalizzazione precoce fosse associata ad un maggiore rischio di problemi comportamentali, in particolare in caso di esposizione prolungata alle cure istitutive (superiore ai 18 mesi a partire dalla nascita). I bambini del gruppo PSD (psycho-socially deprived), adottati in età compresa dai 5 ai 60 mesi, avevano dai 6 ai 18 anni al momento della valutazione. I loro risultati sono poi stati confrontati con quelli di bambini non adottati, nati nel paese adottivo (Stati Uniti) e cresciuti con la famiglia biologica.

Sono diverse le ricerche che hanno utilizzato lo stesso questionario: è possibile confrontare gli stessi parametri in studi simili a quello di Merz e McCall (Audet et al. 2006; Hoksbergen et al. 2004), condotti in istituzioni rumene. Anche in queste ricerche, l’obiettivo principale era quello di verificare gli effetti della deprivazione istituzionale; per questa ragione il gruppo di confronto non deprivato (ND) era composto da gruppi rappresentativi di bambini nati nei paesi adottivi (Paesi Bassi e Canada). La principale variabile associata agli scarsi risultati nella compilazione del questionario è risultata essere l’età al momento dell’adozione, un dato generalmente correlato con la durata dell’istituzionalizzazione. Poiché molti genitori non ottengono informazioni precise riguardo al tempo speso in istituto dal proprio figlio, l’età al momento dell’adozione è un dato che puo essere riportato in maniera più accurata (Hawk età al. 2010).

Gli studi già presentati di Merz e McCall (2010) e Hoksbergen (2004), insieme a quello condotto da Gunnar (2007), sono stati particolarmente attenti a questa variabile, ed hanno confrontato bambini adottati precocemente con bambini adottati più tardi. L’importanza di queste ricerche è data dall’esclusione della variabile adozione: l’attenzione viene posta esclusivamente sulla durata del ricovero in istituto. Mentre il confronto precedente prendeva in considerazione bambini adottati e coetanei non adottati, queste ricerche hanno posto l’attenzione soltanto su bambini adottivi, dividendo i campioni in “early adopted” e “late adopted” per verificare con piu chiarezza l’esistenza di una correlazione tra la durata e gli effetti dell’istituzionalizzazione. Il limite tra “early” e “late” varia a seconda dei diversi autori: Hoksbergen (2004) definisce “late adopted” i bambini adottati dopo i sei mesi, Merz e McCall (2010) hanno posto il limite a diciotto mesi, mentre Gunnar (2007) a ventiquattro mesi. I bambini cresciuti in contesti istituzionalizzati hanno, di norma, fatto esperienza di un elevato numero di caregivers diversi, le cui attenzioni sono state spesso scarse e mal dirette (Monti et al.2010). Una volta allontanati dagli istituti e affidati ad una famiglia, essi sono sovrarappresentati nei servizi di salute mentale e di educazione speciale del loro nuovo paese (Juffer & van Ijzendoor 2005; Miller et al. 2009). Diversi studi hanno dimostrato che le loro performances scolastiche rimangono inferiori rispetto a quelle dei compagni, con un rinvio ai sevizi di educazione speciale doppio rispetto ai pari non adottati (12,8% vs 5,5%) (van Ijzendoorn & Juffer 2006).

I mediatori psicologici che potrebbero ricollegare queste difficoltà accademiche alla deprivazione precoce sono rappresentati dai disturbi dell’attaccamento: RAD (Reactive Attachment Disorder) e DSED (Disinhibited Social Engagement Disorder), caratterizzati da modelli di comportamento presentati sia da bambini cresciuti in istituto che da bambini maltrattati. Il DSM IV (APA, 2000) presentava due sottotipi del disturbo RAD: quello inibito e quello disinibito, caratterizzati nel primo caso da mancanza di interazione sociale e assenza di rapporti di attaccamento, e nel secondo caso da rapporti di attaccamento superficiali e diretti non selettivamente anche ad estranei.

Una recente modifica apportata nel DSM 5 (APA, 2013) parla di RAD per definire il sottotipo inibito e di DSED (Disinhibited Social Engagement Disorder) per descrivere il sottotipo disinibito: in entrambi i casi si tratta di comportamenti sociali inappropriati. I soggetti con DSED, in particolare, presentano risposte comportamentali indifferenziate con i diversi adulti, si allontanano facilmente con sconosciuti e non si appoggiano ai genitori neanche nei momenti di difficoltà (Rutter et al. 2007). Uno studio condotto in Inghilterra su bambini adottati provenienti dalla Romania ha mostrato una netta correlazione tra questo sottotipo indiscriminato e l’utilizzo di servizi di educazione speciale o deficit cognitivi (ibidem).

Una ricerca di grande importanza, specialmente per l’ampiezza del campione di soggetti studiati (395 bambini adottivi), è stata svolta in Finlandia nel 2011 (Raaska et al. 2011). Questi ricercatori hanno voluto osservare se le difficoltà di apprendimento riscontrate nell’ampio campione di bambini adottati fossero associabili a sintomi di RAD o DSED. Essi hanno utilizzato un altro questionario per la valutazione delle difficoltà di apprendimento: il Five to Fifteen (FTF) (Kadesjo et al. 2004; Trillingsgaard et al. 2004), indirizzato in parte ai genitori e in parte ai bambini stessi. Tale scheda valutativa comprende 181 affermazioni connesse a problemi comportamentali e dello sviluppo, raggruppate in otto categorie: memoria, apprendimento, linguaggio, funzioni esecutive, abilità motorie, percezione, abilità sociali e problemi emozionali/del comportamento. In una validazione precedente, la categoria dell’apprendimento nel FTF era correlata con il quoziente intellettivo generale ottenuto con la scala WISC III (Wechsler Intelligent Scale For Children) (Kadesjo , Trillingsgaard et al. 2004). Per la valutazione della sfera affettiva, non essendo ancora disponibile un questionario validato, è stato chiesto ai genitori di rispondere ad affermazioni come “si allontana spesso con sconosciuti”, “si ritira dal contatto”, “e troppo attaccato ad uno dei genitori”, “non cerca conforto in situazioni stressanti”. I genitori adottivi, in Finlandia, ricevono moltissime informazioni ed un’ampia formazione prima di ottenere la possibilità di adottare e tendono a riportare accuratamente i comportamenti dei loro bambini adottivi: per questa ragione, i dati possono essere considerati affidabili (Raaska età al. 2011).

Lo studio è particolarmente significativo perché, oltre alla percentuale di tempo in istituto, considera altri fattori: il genere, il numero di istituti cambiati e il continente d’origine dei soggetti (Asia, Africa, Sud America ed Est Europa). Dallo studio emergono, quindi, le caratteristiche peculiari del bambino che può, con più probabilità, necessitare di servizi di educazione speciale: i risultati sono particolarmente utili se si pensa all’importanza degli interventi precoci in ambito educativo. Un ulteriore esito negativo, frequente nei bambini deistituzionalizzati ed associato a numerose altre problematiche, è il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD).

Wiik e colleghi (2011) ne hanno studiato l’incidenza in un campione di bambini adottivi provenienti da diversi paesi del mondo (Russia, Ucraina, Slovacchia, Cina, India e Filippine) mettendo in luce la possibile associazione tra l’insorgenza di questo deficit e le precoci esperienze di caregivers multipli (Hodges e Tizard, 1989; Haddad e Garralda, 1992). Lo studio di Wiik è rilevante in particolare per la gestione del campione: in questo caso, per isolare le variabili e verificare il ruolo delle cure istitutive, i bambini sono stati divisi in tre gruppi: (1) non adottati, (2) adottati non istituzionalizzati (provenienti da situazioni di affido temporaneo) e (3) deistituzionalizzati.

Poiché anche l’adozione internazionale, pur senza il periodo di ricovero in istituto, può essere considerata un evento traumatico, dividere i bambini adottati e quelli adottati post- istituzionalizzati permette di verificare con maggiore chiarezza gli effetti delle cure istitutive precoci indipendentemente dall’adozione.

Lo studio di Smyke e colleghi (2007) aveva infine l’obiettivo di dimostrare l’importanza del ruolo dei caregivers durante il periodo di ricovero istitutivo. Essi rappresentano gli adulti di riferimento e si puo plausibilmente ritenere che, per la maggior parte dei bambini in istituto, rappresentino le persone più importanti, in particolare nel primo periodo di vita. Tuttavia, i turni di lavoro stressanti, l’elevato numero di orfani e l’alto tasso di turnover fanno in modo che non sempre riesca ad instaurarsi un rapporto affettivo tra adulto e bambino. Smyke ed il suo gruppo di collaboratori, osservando serie di videoregistrazioni dei caregivers sul posto di lavoro, hanno studiato la quantità e la qualità delle interazioni con i bambini a loro affidati, per verificare se coloro che ricevevano piu attenzioni ed erano coinvolti in più interazioni presentassero un migliore stato di sviluppo cognitivo (scala di valutazione Bayley, 1993) ed affettivo (Infant Toddler Social Emotional Assessment, Carter et al. 2003). In particolare, sono state prese in considerazione cinque aree di sviluppo: crescita fisica, sviluppo cognitivo, espressione emotiva, competenze e comportamenti. I soggetti esaminati, 208 neonati e bambini in età compresa tra 5 e 31 mesi al tempo della valutazione, provenivano da tutte le sei istituzioni di Bucarest: lo studio può quindi essere considerato rappresentativo dell’assistenza istituzionale in Romania.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

 

L’espressione delle emozioni nella depressione e schizofrenia

Berembaum e Oltmanns (1992) hanno preso in esame un campione di pazienti con diagnosi di schizofrenia e depressione ed hanno esaminato le espressioni facciali in risposta alla visione di filmati.

 

L’uomo utilizza due forme di comunicazione: logica ed analogica. Il linguaggio verbale rientra nella prima categoria, quindi si serve della parola per comunicare ed è solitamente una forma comunicativa di cui abbiamo consapevolezza e che frequentemente adattiamo in base al contesto in cui ci troviamo. La comunicazione analogica si riferisce invece a quel tipo di linguaggio che riguarda i movimenti del corpo e la mimica del volto (cinesica), la posizione del corpo nello spazio (prossemica), le variazioni della voce (paralinguistica) ed il contatto fisico (aptica). Circa il 70% delle informazioni che emergono in un dialogo sono indizi non verbali; gli indici a cui porgiamo più frequentemente attenzione, durante una conversazione, sono inerenti alla mimica facciale.

Uno strumento descrittivo di nota fama ed utilizzo nello studio delle espressioni facciali è il Facial Action Coding System sviluppato da Ekman e Friesen nel 1978. Il FACS è ritenuto il più importante manuale di codifica di movimenti del volto, prendendo in esame i movimenti muscolari che portano a modifiche espressive facciali chiamate Action Unit (AU). Le AU classificate nella seconda edizione (2002) sono 41, è doveroso specificare che non vi è una relazione biunivoca tra queste ed i muscoli facciali poiché lo stesso muscolo può contribuire alla formazione di più AU e la stessa può essere costituita da muscoli diversi. Nel manuale vengono descritte le intensità delle unità di azione in funzione di 5 lettere (A,B,C,D,E) che indicano una intensità crescente; le AU vengono inoltre classificate anche per asimmetria, descritta con la lettera L (sinistra) e R (destra), in base al lato del volto dove l’emozione viene espressa; alcune delle AU più frequenti sono esposte in TAB 1.

Depressione e schizofrenia studi sull espressione delle emozioni Tab 1

TAB. 1: Facial Action Coding System 

In campo clinico e sperimentale sono stati numerosi gli studi che hanno preso in esame la gestualità e la modulazione espressiva delle emozioni in disturbi psicopatologici, inoltre l’attenzione al comportamento non verbale rappresenta un importante fattore all’interno della relazione terapeutica, permettendo di focalizzarsi e prendere in considerazione particolari aspetti che emergono durante il dialogo. In letteratura particolare interesse è stato rivolto all’analisi di tali aspetti in soggetti con depressione e schizofrenia.

In uno studio (Steimer-Krause, 1990) è stata presa in esame l’espressività emotiva in pazienti schizofrenici durante un dialogo con un interlocutore e, tramite FACS, è stata osservata una diminuzione del repertorio e della frequenza di espressioni facciali; nello specifico è stata evidenziata una significativa riduzione delle AU 1,2,4,6,7 che si manifestano nella parte superiore del volto, mentre la parte inferiore non subiva modifiche. Le AU sopra evidenziate sono caratteristiche di espressioni quali la sorpresa e paura, ma anche parte fondamentale dell’accompagnamento al discorso, per enfatizzare frasi e mantenere l’attenzione dell’interlocutore attraverso i cosiddetti gesti illustratori (gesti non verbali che accompagnano e scandiscono il discorso). La mancanza o riduzione di questi durante un dialogo contribuisce ad una sensazione di minor interesse nella discussione e maggior distacco emotivo da quanto viene espresso verbalmente. Lo studio ha dimostrato che la riduzione degli illustratori si riverberava indirettamente sulla gestualità degli interlocutori, portandone una diminuzione anche in quest’ultimi.

Una riduzione dell’espressività nella parte superiore del volto analoga a pazienti schizofrenici è stata riscontrata anche in uno studio (Heller, 1994) che ha preso in esame soggetti depressi, dividendo il campione in pazienti che avevano tentato il suicidio e non. Durante il colloquio, nel parlare di intenzioni suicidarie con i pazienti del primo gruppo, è emersa una riduzione delle AU 1,2,4 che, come sottolineato prima, servono a sostenere l’esposizione; inoltre i pazienti tendevano ad evitare il contatto visivo con il clinico mentre parlavano delle loro esperienze.

Per quanto concerne invece le differenze inter-diagnostiche, Berembaum e Oltmanns (1992) hanno preso in esame un campione di pazienti con diagnosi di schizofrenia e depressione ed hanno esaminato le espressioni facciali in risposta alla visione di filmati. Lo studio ha evidenziato una maggiore riduzione dell’espressività facciale nei pazienti schizofrenici rispetto ad i pazienti con depressione, nonostante i resoconti self report sulle emozioni provate fossero simili; gli autori commentano questo dato spiegando che la riduzione dell’espressività potrebbe essere legata a caratteristiche mimiche di questi pazienti piuttosto che ad una reale diminuzione dell’esperienza emotiva.

Gaebel (2004) ha evidenziato inoltre che l’ipo-mimia nei soggetti depressi e schizofrenici sarebbe imputabile alla minore intensità e frequenza dei segnali illustratori AU 1,2,4 (quindi alzare ed aggrottare le sopracciglia) rispetto ai controlli sani. Non sono state trovate invece differenze tra pazienti depressi, schizofrenici e controlli nella modalità di espressione di AU 14 (sorriso asimmetrico), AU 17 (corrugamento del mento) e AU 20 (stiramento delle labbra verso il basso) che solitamente rimandano ad emozioni negative, sebbene i soggetti sani tendano ad esibirle in frequenza minore.

Sempre in riferimento al confronto tra le precedenti categorie diagnostiche, Trémeau e colleghi (2005) non hanno evidenziato particolari differenze nelle emozioni facciali tra gruppi di pazienti depressi e schizofrenici, dove i primi sembrano essere leggermente più espressivi, tranne che nelle emozioni positive, in linea con Berembaum e Oltmanns (1992). In letteratura tale dato sembra essere confermato da un altro studio (Ekman & Rosenmberg, 2005), dove in risposta a filmati divertenti i pazienti depressi esprimevano meno gioia e più rabbia e disprezzo in risposta a stimoli negativi.

In conclusione, dalla letteratura emerge come entrambe le categorie diagnostiche, seppure con modalità diverse, esibiscano una riduzione del repertorio facciale, inerente maggiormente la parte superiore del viso; emerge anche una tendenza generale ad esprimere in forma minore espressioni di felicità alla presenza di stimoli positivi ed a presentare in frequenza maggiore emozioni negative, quali disgusto e disprezzo (Bergman, 2012).

All’interno della stessa categoria diagnostica è emersa anche un’alterazione dell’espressività direttamente proporzionale alla gravità del disturbo, quindi una maggiore frequenza di emozioni quali tristezza e disgusto nei soggetti con depressione maggiore rispetto ai soggetti con depressione minore (Ekman, Matsumoto & Friesen, 2005) ed una ipo-mimia più marcata, oltre che una maggiore frequenza di emozioni negative espresse, in pazienti schizofrenici ospedalizzati rispetto ad ambulatoriali (Steimer-Krause, 1990).

 

Essere un carattere – Recensione del libro di Christopher Bollas

Essere un carattere è un testo complesso, a tratti spigoloso da leggere per i forti richiami psicoanalitici soprattutto nella terminologia, ma che certamente offre uno spaccato interessante di diverso orientamento e spunti di riflessione che non possono che arricchire il lettore. 

 

Il filo conduttore è l’esperienza di sé e di come ognuno di noi investa di un proprio significato nel corso della propria vita diversi oggetti in maniera inconsapevole, ma che vanno man mano a comporre il proprio senso di sé, la propria ‘storia psichica’. Questi oggetti tornano anche nella terapia, dove paziente e terapeuta usano tali elementi, portandoli man mano a consapevolezza per creare nuove trame di sé, nuovi significati per allargare la propria esperienza personale.

La prima parte del libro si sofferma sull’esperienza del Sé e illustra come ciascuno di noi, nel corso della vita e nelle diverse esperienze che può sperimentare, attribuisca ad oggetti diversi differenti significati personali che vanno man mano a comporre il proprio mondo interno e i propri modelli interni che delineeranno il proprio ‘carattere’. L’autore riprende e mantiene per tutto il testo il riferimento al lavoro onirico freudiano come modello appunto di tutto il lavoro inconscio di attribuzione di significato verso i più disparati oggetti, così come nel sogno, riprendendo la lettura freudiana, vengono travestite situazioni paradossali di significati nascosti. E tali oggetti e i loro significati contribuiscono alla formazione del ‘carattere’, unico per ognuno e gonfio di complessità: ‘Troviamo sempre oggetti che disperdono il Sé oggettivante in soggettività elaborate […]’ (p. 8) e questi oggetti diventano ‘un vocabolario dell’esperienza del Sé‘ (p. 18); ciascun oggetto scelto diventa rappresentativo e indicativo di differenti ‘tipi psicologicamente distinti di esperienza di sé‘ (p. 21) e parlano di noi e diventano espressione del nostro essere e della nostra storia che si compone man mano dei nostri oggetti interiorizzati.

Ed è proprio di tale complessità che il terapeuta (o analista, per rimanere fedeli all’orientamento dell’autore) si occupa con il paziente in terapia, nel sottile lavoro di portare man mano su un piano di sempre maggiore consapevolezza il mondo interno del paziente. ‘Un’analisi’ dice l’autore, ‘è un processo creativo svolto da due soggettività che lavorano a compiti che si sovrappongono […]’ (p. 70).

Un concetto viene ben delineato, torna nel testo e val la pena di essere sottolineato, ed è quello del ‘Sé semplice’ e del ‘Sé complesso’: la semplicità dell’esperire, dello stare, dell’esserci nell’esperienza così com’è; e la complessità della meta riflessione su quanto esperito, sul pensare l’esperienza, la traduzione dall’esperienza vissuta a quella pensata, il passaggio dall’immediato al sedimentato, dal vissuto all’integrazione che man mano aggiunge strati di complessità attorno al nostro senso di noi, alla nostra soggettività.

La seconda parte è una sezione tematica, dove l’autore riprende alcuni dei principi esposti e illustra diverse ed estreme esperienze di sé. Si parla di esperienze estreme, come l’autolesionismo, dove viene descritto il tagliarsi come atto di sollievo da contenuti persecutori; l’età innocente, che può anche rivelarsi violenta e a volte finisce per essere negata; o ancora le dinamiche relazionali edipiche, dove l’autore ripercorrendo la tragedia di Sofocle ne ripercorre il senso e la complessità. L’autore poi allarga e si sposta su temi di natura sociale quali la mentalità autoritaria, nel suo estremo agito del genocidio nelle sue diverse forme; o il concetto di coscienza generazionale e di cultura collettiva, che si sceglie i propri significati; qualsiasi sia la generazione di appartenenza, in essa ciascuno si riconosce, anche e soprattutto attraverso gli oggetti scelti come sigle della coscienza generazionale di quel dato periodo; questi oggetti ‘inconsciamente interpretano la visione che queste persone hanno della loro esperienza di luogo e di tempo‘ (p. 213) e ogni persona trova un proprio equilibrio rispetto ad un movimento identitario collettivo che crea uno spazio potenziale per allargare l’esperienza di Sé. ‘Ogni nuova generazione‘ dirà l’autore, ‘è un periodo di intensa vita soggettiva, un periodo in cui il Sé semplice si sente parte di un processo collettivo che lo trasporta con sé‘ (p. 211).

Questi ultimi sono tutti capitoli che rappresentano spunti nuovi, chiavi di lettura diverse, lenti psicoanalitiche che aprono riflessioni nuove e prospettive che si allontanano dalla propria, riportando nuove conoscenze.

Essere un carattere ci fa tornare sulla soggettività, su quell’unicità che ciascuno di noi ha, crea e difende. Quella preziosità che la terapia ravviva e aiuta a far scoprire al paziente, se ancora opaco a se stesso.

I 7 pilastri della mindfulness – Report dell’evento online del 10 giugno 2020

In vista dell’uscita del nuovo libro I 7 pilastri della mindfulness, la casa editrice Vallardi ha organizzato una sessione di mindful eating via Zoom.

 

Mindfulness: accettare se stessi così come si è‘. Così l’autrice Maria Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta, ha iniziato il suo intervento, raccontando i benefici che lei stessa ha sperimentato seguendo regolarmente questa pratica.

Ma che cos’è la mindfulness?

Il fondatore di questo metodo è Jon Kabat-Zinn, un biologo statunitense di origine indiana. Traendo ispirazione dai testi del buddhismo antico e dalla tradizione yogica indiana, Kabat-Zinn propone un modo semplice di meditare, attraverso brevi esercizi e momenti di autoconsapevolezza. Questi esercizi, che durano da pochi minuti a sessioni di un’ora circa, sono finalizzati a indirizzare l’attenzione direttamente su ciò che stiamo vivendo, piuttosto che vagare tra pensieri e aspettative.

Questa modalità di procedere – spiega l’autrice del libro – produce presenza mentale‘, un atteggiamento di consapevolezza che emerge quando si presta attenzione, in maniera non giudicante, al momento presente.

Dai primi anni Duemila a oggi, la mindfulness è stata validata come protocollo scientifico, e un gran numero di pubblicazioni, studi e ricerche, ne hanno documentato gli effetti anche in diverse situazioni patologiche. ‘È particolarmente efficace nel trattamento della depressione, dei disturbi alimentari e delle dipendenze patologiche‘, così risponde la dott.ssa Toro alla mia domanda su quali pazienti ne traggono particolare giovamento, ‘ma negli ultimi anni si sta sviluppando un interessante campo di applicazione, mi riferisco al trattamento del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) in età evolutiva‘.

Passiamo così al momento esperienziale. Dal momento che la maggior parte dei protocolli mindfulness ha inizio con la riproposizione di un gesto quotidiano, in cui vengono usati i cinque sensi, l’autrice ha proposto ai partecipanti dell’evento zoom ‘la pratica dell’uvetta’ (presente all’interno del testo, con file audio della versione standard scaricabile dal sito).

Per la pratica sono servite due piccole porzioni di cibo da mangiare a nostro gradimento (biscotti, cioccolatini o fragole) e un ambiente tranquillo.

L’autrice ci ha invitato a osservare la prima porzione di cibo, focalizzandoci sulle sue qualità visive, esplorandone ogni parte come se lo vedessimo per la prima volta. Passandolo poi tra le dita ci è stato chiesto di avvicinarlo al naso e inspirare il suo odore, per poi portarlo accanto a un orecchio, stringerlo e ascoltare che tipo di suono producesse. Portandolo poi verso la bocca e appoggiandolo sulle labbra abbiamo focalizzato la nostra attenzione su come reagisse il nostro corpo, se si attivassero o meno le ghiandole salivari. Un esercizio di consapevolezza, quindi, sulle sensazioni tattili, visive, olfattive e uditive legate all’esperienza del cibo, per poi passare infine al gusto, masticando lentamente e cogliendo a pieno il gusto prima di deglutire.

Ora ripeti l’esperienza con l’altro pezzetto di cibo‘ continua l’autrice ‘come è diversa! Concludi congratulandoti con te stesso per aver dedicato questo tempo al benessere!‘.

 

Siamo vicini a trovare nuove terapie per rallentare il decorso dell’Alzheimer?

L’obbiettivo di un recente studio è quello di comprendere quali cellule siano colpite nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, così da sviluppare in seguito terapie che ne rallentino il decorso. 

 

I neuroscienziati specializzati in cellule staminali dell’Università di Lund in Svezia hanno sviluppato un modello di ricerca che consente di studiare i neuroni dell’ippocampo umano, le cellule cerebrali colpite principalmente dalla malattia di Alzheimer. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Stem Cell Reports (Pomeshchik et al., 2020).

Nella malattia di Alzheimer l’ippocampo, una struttura del cervello che regola la motivazione, l’emozione, l’apprendimento e la memoria, è gravemente colpito. Tuttavia, a causa dell’impossibilità di analizzare il tessuto ippocampale, a meno che non sia post mortem, non è possibile per i ricercatori comprendere quali siano gli eventi primordiali che portano alla disfunzione cellulare e al conseguente danno neuronale nel paziente. L’obbiettivo per i ricercatori in questione è quello di comprendere quali cellule siano colpite nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, così da sviluppare in seguito terapie che ne rallentino il decorso. I ricercatori di Lund sono riusciti a generare strutture 3D simili ai tessuti ippocampali, partendo da cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), chiamate sferoidi ippocampali (HS). Gli sferoidi sono presenti nei cosiddetti neuroni granulari (Pomeshchik et al., 2020).

Nella maggior parte delle specie vertebrate, compresi gli esseri umani, i nuovi neuroni granulari vengono generati nel corso della vita attraverso un processo chiamato neurogenesi e si ritiene che contribuiscano alla formazione della memoria. Il nuovo metodo sviluppato dagli scienziati consentirà di aumentare la produzione di neuroni dell’ippocampo per studiare la neurogenesi umana e, soprattutto, esaminare come le cellule dell’ippocampo, inclusi i neuroni granulari e la glia di supporto, vengono alterate nelle fasi iniziali della malattia. Infatti, tramite questa metodologia sono in grado di generare giovani cellule cerebrali ed esaminare i primi cambiamenti patogeni così da ottenere preziose informazioni sullo sviluppo e la progressione delle malattie cerebrali (Pomeshchik et al., 2020).

I ricercatori hanno anche usato l’HS per esaminare la disfunzione cellulare nella malattia di Alzheimer e, più precisamente, in che modo la patogenesi cellulare differiva tra gli individui. Hanno generato HS da pazienti con estrema sintomatologia – un tipico paziente Alzheimer portatore di una mutazione nel gene della proteina precursore dell’amiloide e un individuo atipico con una rara mutazione nel gene della presenilina 1 e in seguito hanno esaminato la patologia cellulare.

È interessante notare che, nonostante esibissero alcune importanti caratteristiche comuni, le HS dei due geni mutati differivano in molte altre caratteristiche, il che rifletteva in qualche modo la gravità dei loro sintomi (Pomeshchik et al., 2020).

Gli HS possono essere usati per capire come le cellule dell’ippocampo si generano e maturano nel tempo. Possono anche essere usate per esaminare se la neurogenesi è influenzata negli HS generati da pazienti con lesioni dell’ippocampo rispetto ai soggetti di controllo. L’analisi degli HS può rivelare quali disfunzioni cellulari si verificano precocemente nella malattia e se sono identici o diversi tra i pazienti portatori di forme familiari o idiopatiche, inoltre possono essere sfruttati per sviluppare trattamenti su misura per sottogruppi di pazienti e per capire perché alcuni trattamenti potrebbero essere utili o meno (Pomeshchik et al., 2020).

Recentemente sono stati utilizzati gli sferoidi ippocampali per esaminare l’effetto di un gene chiamato NeuroD1, l’espressione virale mediata del NeuroD1 è stata sufficiente per aumentare il livello di geni sinaptici, i cui livelli sono influenzati dalla malattia di Alzheimer, i ricercatori affermano che migliorare la trasmissione sinaptica sarà la chiave per risolvere la cognizione compromessa nella malattia di Alzheimer (Pomeshchik et al., 2020).

 

I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale

Gli orfanotrofi, anche quando sono dotati di risorse ed opportunità, non possono essere reputati luoghi idonei alla crescita dei minori (Monti et al. 2010), in quanto sono da considerare a pieno titolo delle istituzioni totali (Goffman, 1968).

Il presente contributo è il primo di una serie di tre articoli sull’argomento. In questa prima parte presentiamo una panoramica generale sulla situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Negli articoli che pubblicheremo nei prossimi giorni invece verranno illustrate le recenti ricerche sull’argomento e i relativi risultati.

 

In Italia è stato stabilito dalla legge n.149 del 2001 la totale chiusura delgi orfanotrofi; a tutt’oggi, però, ciò non e ancora completamente avvenuto (Istituto degli innocenti, 2007). In Europa, tra le situazioni di maggiore degrado compaiono quelle degli istituti di Russia e Romania, dove non è ancora prevista un’adeguata legislazione in merito.

Anche se le istituzioni presentano caratteristiche differenti a seconda dei paesi e anche all’interno degli stessi, un tema comune a tutte è la mancanza di interazione socio-emotiva con i caregivers: ciò è strettamente connesso con tipici ritardi nello sviluppo osservati nei minori post-istituzionalizzati ed i loro successivi problemi comportamentali (Merz & McCall, 2010).

In istituti come quelli russi e rumeni, i minori difficilmente riescono a godere di una relazione individualizzata con un adulto di riferimento, in quanto il rapporto numerico tra adulti e bambini è di circa 1 a 30/50 (Rutter et al., 2007). A ciò va aggiunto che tali minori sono esposti ad un eccessivo turnover del personale, arrivando a relazionarsi, nei loro primi due anni di vita, da un minimo di 50 a circa 100 diversi caregivers (Groark & Muhamedrahimov, 2005). La vita nella gran parte degli istituti si caratterizza per la scarsa o totale assenza di stimolazioni percettive, motorie e linguistiche, e le interazioni sono spesso brevi e mal dirette (Monti et al. 2010).

Poichè per circa l’85% dei minori adottati, dopo la separazione dalla famiglia biologica, la vita comincia in un istituto, gli studi sulla loro crescita fisica ed il loro sviluppo cognitivo ed affettivo proseguono da più di cinquant’anni (Smyke et al. 2007).

Ovviamente, anche i motivi per cui i bambini giungono agli istituti possono contribuire ad esiti diversi e differenti livelli di resilienza. In Romania, ad esempio, la ragione principale dell’abbandono di minori è la povertà (Zeanah et al., 2003), associata a scarse cure prenatali, malnutrizione materna ed esposizione prenatale ad alcol e altre sostanze. Anche in Russia la situazione dell’infanzia è molto difficile: in molte aree del Paese le famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà e il disagio sociale, aggravato spesso da fenomeni come tossicodipendenza ed alcolismo, spesso induce all’abbandono dei figli. La grande maggioranza dei bambini ricoverati, infatti, ha ancora almeno uno dei genitori in vita: essi sono definiti orfani sociali.

Nonostante in molti casi le situazioni istitutive dovrebbero avere breve durata, si calcola che soltanto il 9% dei minori ritorni alle proprie famiglie dopo l’ingresso in un istituto (Smyke et al. 2007). L’adozione può quindi essere considerata una soluzione; tuttavia, l’importanza che riveste tale avvenimento, suggerisce un’analisi più accurata dei fattori protettivi e di rischio che la caratterizzano.

Si presume che un accumulo di fattori di rischio (come la prematura incuria e l’abuso) conduca ad uno sviluppo del bambino meno buono, mentre i fattori protettivi (come una relazione di attaccamento sicuro) possano attenuare gli effetti negativi dei rischi, incrementando la resilienza (Chistolini, 2009).

Le ricerche hanno mostrato come la mancata costruzione di legami preferenziali e l’impossibilità di vivere in un contesto amorevole e prevedibile portino a difficoltà in varie aree dello sviluppo biologico e psico-sociale, che tendono ad aumentare in relazione all’intensità e alla durata della deprivazione. Già all’inizio degli anni Novanta, diversi autori riscontrarono nei primi bambini de-istituzionalizzati alterazioni nel comportamento e nelle relazioni sociali molto simili a quelle dei bambini autistici. A partire da ciò e stato possibile, nel tempo, identificare quella che è stata nominata da Federici (1998) «sindrome autistica post-istituzionale» o anche, da altri autori, «pattern quasi-autistico» (Rutter et al., 1999).

Ciò che permette di differenziare il «pattern quasi-autistico» dei soggetti deprivati dall’autismo riscontrabile nella popolazione normativa è che il primo sembra avere come causa il contesto di profonda deprivazione e non i fattori genetici; perciò, modificando tale contesto disfunzionale per la crescita, sono possibili margini di miglioramento (Hoksbergen et al., 2005).

Le ricerche pubblicate negli ultimi 15 anni hanno riscontrato la presenza di disturbi soprattutto in bambini cresciuti in istituzioni rumene (ritardi cognitivi, gravi disturbi del comportamento sociale e anomalie nel livello di cortisolo, fattore compatibile con elevati livelli di stress) (Smyke et al. 2002; Zeanah, et al. 2005). Nonostante questi risultati, Rutter e colleghi (1999) hanno notato una sorprendente variabilità individuale nel grado in cui lo sviluppo dei bambini sia compromesso dall’esperienza istituzionale ed hanno osservato significativi, se non completi, recuperi nei minori adottati dalla Romania (Rutter, 2007). Secondo quanto riportato da alcuni autori, all’incirca un quarto dei minori istituzionalizzati riesce ad avere un funzionamento normale, anche a seguito di ben due anni d’istituzionalizzazione (Emiliani, 2008).

Molti ricercatori, tra cui Juffer e van Ijzendoorn (2006), hanno sottolineato la significatività di un confronto fra minori abbandonati rimasti in istituto e quelli, invece, accolti in famiglia, affinché si possa verificare l’effettivo grado di efficacia dell’adozione internazionale come alternativa all’istituzionalizzazione.

Bowlby (1982) concluse un capitolo del suo libro con una frase piena di speranza:

Si puo supporre che l’adozione, se avviene in un contesto qualificato, possa offrire al bambino all’incirca le stesse possibilità di avere una vita familiare felice, quasi come se fosse cresciuto nella sua famiglia d’origine.

I Paesi con un’adeguata conoscenza delle cure precoci istituzionali e delle conseguenze che comportano possono promuovere interventi educativi in modo più mirato e consapevole, favorendo un migliore adattamento dei minori alle nuove situazioni di vita.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

La famiglia ai tempi del Coronavirus – Report dal webinar con la Dott.ssa Della Morte

Il settimo contributo pensato da Studi Cognitivi per approfondire gli aspetti relativi alla sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, è stato tenuto dalla Dr.ssa Della Morte il 15 maggio ed ha riguardato i disagi riscontrati dalle famiglie durante la pandemia.

 

La docente ha proposto un intervento diviso per fasce d’età, in modo da comprendere le specifiche difficoltà che ha dovuto affrontare ogni membro del nucleo familiare.

La famiglia

Con la messa in atto delle misure di prevenzione per evitare il contagio, sono venuti a mancare i supporti abituali, come la scuola, i nonni e le attività extrascolastiche, e i genitori hanno dovuto combinare le esigenze lavorative con quelle familiari. Si sono quindi ritrovati a dover guidare i figli nel processo di adattamento all’emergenza sanitaria.

Comprendere in che fase evolutiva si trova la propria famiglia (ad es. neosposi, neogenitori, etc) è necessario per individuare i bisogni e le sfide che si dovranno affrontare e per mettere in campo le risorse necessarie. Le risorse, spiega la docente, ci sono quasi sempre: con un po’ di fatica e tanta pazienza un equilibrio si può ripristinare. La resilienza (intesa come la capacità di “migliorare di fronte alle avversità”) in questo contesto diventa fondamentale. Non esistono genitori perfetti, né famiglie ideali; l’adattamento è difficile e ci si avvicina attraverso continui errori e riparazioni.

Le risorse che una famiglia può mettere in campo sono:

  • delle buone strategie di soluzione dei problemi;
  • un atteggiamento solidale e coordinato da parte dei genitori;
  • una comunicazione efficace;
  • il coinvolgimento emotivo;
  • l’opportunità di conoscersi meglio.

La messa in atto di queste risorse ha l’effetto di aumentare il senso di autoefficacia del genitore e di fornire ai figli solidi punti di riferimento per sentirsi al sicuro.

0-6 anni

In un contesto straordinario come quello del Covid-19 i più piccoli possono reagire in vari modi: posso mostrarsi ipereattivi agli stimoli, iporeattivi agli stimoli o impulsivi. Molte famiglie hanno chiesto e stanno chiedendo supporto ai terapeuti basandosi sull’osservazione del comportamento dei bambini; vorrebbero degli strumenti perché spesso la situazione in casa è di difficile gestione.

La parola chiave diventa routine: questa permette al bambino di avere la giornata scandita da tempi e attività e di sperimentare una sensazione di stabilità nel vivere una realtà nuova e stressante. Le attività da proporre sono molte, diverse a seconda dell’età e dello stadio di sviluppo. Alcuni esempi di letture sono le Favole al telefono di Rodari o L’isola degli smemorati di Pitzorno. I dispositivi tecnologici vanno limitati, il loro uso deve essere pensato e strutturato. Via libera, invece, a video collegamenti con amici e familiari.

Quello che ci possiamo aspettare dai bambini di questa età, in risposta alla pandemia e alle sue conseguenze, è una disregolazione emotiva e lo sviluppo di fobie. Bisogna andare incontro a un graduale riadattamento alle situazioni sociali, non portando avanti comportamenti di evitamento e distanziamento non necessari.

Le spiegazioni da fornire ai bambini rappresentano un aspetto davvero importante: bisogna chiarire cosa è successo, a cosa stiamo andando incontro e cosa succederà. Mostrare come i sacrifici di questo periodo siano per un bene comune e che anche i bambini possono fare la loro parte permette ai più piccoli di sentirsi coinvolti, responsabili e parte di un tutto. Esistono degli strumenti creati ad hoc per questo scopo come la Guida galattica al coronavirus o la Storia di coronavirus.

7-11 anni

A quest’età i bambini hanno idea di quali siano i sentimenti dei genitori, si accorgono dei cambiamenti e delle difficoltà. Sono molto attenti a ciò che li circonda e in grado di esprimere le proprie emozioni.

I cambiamenti legati all’avvento del Covid-19 per questa fascia d’età potrebbero essere:

  • legami affettivi più forti che vengono meno;
  • insofferenza;
  • paura;
  • mancato rispetto delle regole;
  • difficoltà a mantenere le abitudini.

I genitori hanno il compito di fornire chiarimenti, evitando però di creare eccessivo allarme. Dovrebbero spiegare che le difficoltà esistono ma che possono essere gestite, ricordare che la famiglia rappresenta una risorsa e invitare il bambino a manifestare le sue preoccupazioni. È utile fare esempi positivi di situazioni difficili già sperimentate e superate con successo.

Anche in questo caso creare una routine con ritmi regolari aiuta molto; lo si può fare per la didattica a distanza, i pasti e il sonno. Importanti sono le attività e i giochi condivisi. Si dovrebbero mantenere i contatti tramite gli strumenti di comunicazione a distanza, non delegando però la gestione dei dispositivi elettronici esclusivamente ai minori.

A livello scolastico ci sono stati degli enormi cambiamenti: i genitori si sono trovati a integrare il lavoro degli insegnanti, mettendo in campo sorprendenti risorse. Molte volte ci sono state reazioni positive dovute al diverso canale d’insegnamento e di verifica degli apprendimenti. Per esempio, i bambini con forte ansia sono stati aiutati dalla modalità online, migliorando il proprio rendimento e sperimentando un nuovo senso di autoefficacia. Lo stesso discorso vale per i ragazzi con difficoltà di apprendimento che non si sono più sentiti deficitari rispetto agli altri, ma pari e con gli stessi strumenti.

Adolescenti

Il mondo degli adolescenti è quello che più ha risentito delle misure di contenimento. A questa età i ragazzi stanno cercando la propria autonomia: prendono le distanze dai genitori, ma allo stesso tempo necessitano e dipendono ancora dai punti di riferimento familiari. La quarantena ha interrotto la sperimentazione, limitato molto le autonomie.

I genitori spesso si sono ritrovati a dover far fronte ad atteggiamenti sfidanti e alle difficoltà legate alla gestione di comportamenti e stati emotivi. Mostrarsi pazienti e accoglienti anche nei confronti degli atteggiamenti di sfida, ascoltare attivamente il figlio nei momenti di fragilità, creare uno spazio privato ed enfatizzare la possibilità di reinvestire quello che si è messo in pausa in un futuro sono tutti elementi che possono rivelarsi molto utili. Con i ragazzi di questa età un intervento efficace lascia degli spazi di autonomia e di scoperta della propria identità, pone l’accento sul monitoraggio e l’osservazione delle emozioni, stabilisce del tempo vuoto per organizzarsi mentalmente, emotivamente e relazionalmente e incoraggia la possibilità di condividere vissuti e pensieri.

Le raccomandazioni

Il Ministero della Salute ha pensato e realizzato delle vignette contenenti alcune raccomandazioni che ci permettono di capire a cosa dobbiamo fare attenzione:

  • colmare le distanze, rimanere in contatto, inseriti in un gruppo e in relazione;
  • creare una routine e alimentarsi in modo sano, mantenendo il giusto apporto calorico;
  • rimanere attivi: fare comunque del moto.

La docente ha inoltre mostrato come anche altre organizzazioni, ad esempio l’OMS e l’UNICEF, hanno fornito delle utili indicazioni su come affrontare il periodo della pandemia e come aiutare i bambini a gestire lo stress. Questo permette di usare delle linee guida comuni e chiare, stabilite da enti internazionali.

 

Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Dalla formulazione del caso alla ricerca sull’efficacia (2020) di A. Scarinci, R. Lorenzini e C. Mezzaluna – Recensione del libro

Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale si sviluppa a partire da un’attenta analisi delle radici storiche e del progresso della psicoterapia cognitivo-comportamentale in Italia, fino ad affrontare le tematiche della ricerca e della farmacologia.

 

Chiunque abbia affrontato un percorso di formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale si è spesso trovato davanti a numerosi testi, con l’obiettivo di poter approfondire le complesse e numerose tematiche presenti nella letteratura italiana ed internazionale sull’argomento. Tale varietà, se da una parte ha permesso alle nuove generazioni di psicoterapeuti di avere un quadro ampio degli aspetti clinici e di ricerca, dall’altro è spesso risultato essere un puzzle di nozioni difficili da assemblare.

Il libro Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale riesce a raggiungere lo scopo di integrare le principali questioni dibattute nell’ambito della psicoterapia non solo d’impronta cognitivo-comportamentale, con l’obiettivo di rappresentare una guida per gli specializzandi in formazione ed anche per giovani e più esperti psicoterapeuti.

Gli autori rappresentano una garanzia in tal senso: A. Scarinci, R. Lorenzini e C. Mezzaluna sono psicoterapeuti, ricercatori e formatori del panorama nazionale, con alle spalle numerose pubblicazioni ed anni di esperienza, sia a livello clinico che a livello didattico, coadiuvati da giovani clinici ed importanti autori del cognitivismo italiano che hanno partecipato alla stesura dei singoli capitoli (M. Cavalletti, M. Di Egidio, G.M. Ruggiero, G. Caselli, S. Sassaroli, S. Piccioni, C. Formiconi, V. Castellucci, L. Candria, M.C. Barnabei, V. Valenti, E. Favaretto, F. Bedani, M. Ferri, S. Tripaldi). La prefazione è invece stata curata A. Semerari.

Il volume si sviluppa a partire da un’attenta analisi delle radici storiche e del progresso della psicoterapia cognitivo-comportamentale in Italia, fino ad affrontare con attenzione le tematiche della ricerca e della farmacologia, offrendo indicazioni chiare e semplici e avvalendosi di ampie reviews della letteratura.

I primi capitoli del testo propongono interessanti approfondimenti sull’importanza della concettualizzazione del caso per la progettazione dell’intervento terapeutico ed il ruolo della relazione e dell’alleanza terapeutica nel trattamento, con particolare attenzione al razionale dell’utilizzo delle vecchie e nuove tecniche di intervento.

Viene poi dato ampio spazio all’importanza della formazione e della supervisione nei vari stadi di sviluppo dell’expertise del terapeuta, con riferimento sia alle competenze richieste a chi insegna, sia agli indispensabili percorsi di formazione continua di chi opera nel settore della salute mentale.

L’ultima parte del volume è dedicata al controverso tema della possibile convivenza tra approcci di prima, seconda e terza ondata del cognitivismo, passando da aspetti concernenti la diagnosi categoriale o dimensionale e all’intervento centrato su processi o contenuti, fino alle problematiche sempre attuali di integrazione tra le terapie manualizzate supportate empiricamente ed il ragionamento clinico sul singolo paziente.

Il viaggio nell’intricato mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale proposto dagli autori risulta essere davvero interessante e ben articolato, arricchito da nozioni chiare, spunti di riflessione e strumenti spendibili nella pratica clinica non solo per chi è in formazione, ma anche per chi da anni svolge questa difficile professione.

Il volume si candida quindi a diventare un riferimento importante che sinteticamente analizza i percorsi storici, i contenuti ed i processi su cui si basano gli interventi, ma anche le difficoltà e le criticità di una disciplina che ha comunque assunto, grazie all’Evidence Based Medicine, un importante valore scientifico che va sostenuto e divulgato correttamente.

 

Emozioni relative al corpo, motivazione e attività fisica: quale relazione?

La maggior parte degli studi sull’immagine corporea e sulle emozioni ad essa correlate si è concentrata solo sulle donne, il che alimenta l’idea che il problema sia più per queste ultime più che per gli uomini.

 

Il disturbo legato all’immagine corporea è stato tradizionalmente visto come una prerogativa delle donne, alimentata da una cospicua letteratura secondo cui le donne provano emozioni negative e insoddisfazione per il corpo in misura maggiore rispetto agli uomini (Frederick, Jafary, Gruys, & Daniels, 2012). Pertanto, la maggior parte degli studi si è concentrata solo sulle donne, il che alimenta l’idea che il problema riguardi queste ultime più che gli uomini. Uno sguardo completo sulle emozioni legate al corpo negli uomini può essere utile per comprendere gli atteggiamenti, le credenze e i comportamenti legati alla salute. Il presente studio ha lo scopo di esaminare le associazioni tra le emozioni della vergogna legate al corpo, senso di colpa e orgoglio e la motivazione all’attività fisica e il comportamento tra i maschi adulti. Nello specifico, sono stati esaminati i meccanismi di motivazione (estrinseca, introiettata, identificata, intrinseca) come possibili mediatori tra ciascuna delle emozioni legate al corpo e il comportamento di attività fisica.

Le emozioni autocoscienti sono fondamentali nel motivare e regolare la maggior parte delle cognizioni, dei sentimenti e delle azioni delle persone (Fischer & Tangney, 1995): motivano le persone a comportarsi moralmente e in modo socialmente responsabile (Leith & Baumeister, 1998), promuovono la perseveranza nei compiti e nei risultati (Stipek, 1995). La vergogna, il senso di colpa e l’orgoglio sono le emozioni studiate nel contesto delle emozioni autocoscienti e delle teorie sull’immagine del corpo (Tracy & Robins, 2004) e sono probabilmente associate a processi rilevanti per la salute come il comportamento di attività fisica (Castonguay, Gilchrist, Mack, & Sabiston, 2013). La vergogna legata al corpo è un’emozione estremamente dolorosa che gli individui provano quando non riescono a soddisfare gli standard sociali interiorizzati in relazione al corpo con un focus sulle cause radicate nel sé (ad es., “Sono una persona grassa”; Sabiston et al., 2010;). Il senso di colpa legato al corpo nasce in risposta a una trasgressione comportamentale e comporta rimpianto per il fallimento (ad es., “Sono ingrassato perché non faccio sport da tre mesi”; Sabiston & Castonguay, 2014). L’orgoglio deriva da comportamenti socialmente apprezzati (ad es., l’esercizio fisico) o che presentano caratteristiche positive (ad es., essere fisicamente in forma e attraente; Tracy & Robins, 2007). L’orgoglio si declina in autentico e arrogante: il primo emerge in risposta a comportamenti specifici (“ho finito la maratona per cui mi sono allenato”), si collega alla motivazione a impegnarsi in comportamenti diretti all’obiettivo, tra cui l’attività fisica (Castonguay et al., 2013); l’orgoglio arrogante nasce invece da aspetti globali del sé (“sono una persona in forma”) che coinvolge sentimenti di grandiosità personale e di superiorità verso gli altri (Castonguay et al., 2013). Esso è associato all’autocompiacimento narcisistico (Castonguay et al., 2013).

Deci & Ryan (2002) hanno individuato diverse tipologie di motivazione: amotivazione (mancanza di intenzione di impegnarsi in un comportamento), estrinseca (partecipare per soddisfare le richieste esterne), introiettata (partecipare per evitare di sentirsi colpevoli o per proteggere la propria autostima), identificata (partecipare per l’importanza personale attribuita al risultato dell’attività) e intrinseca (cioè partecipare per il godimento intrinseco o l’interesse per l’attività). Le motivazioni identificate e intrinseche sono anche dette “motivazioni autodeterminate” in quanto l’impegno verso un comportamento è il risultato di un senso di volontà e di scelta.

Si tratta di uno studio condotto con uomini adulti (N=152), i quali hanno compilato un questionario online. Nello specifico, è stata somministrata la Weight-and BodyRelated Shame and Guilt scale (WEB-SG; Conradt et al., 2007), composta da 12 items che misurano la vergogna per il corpo, l’immagine e il peso (6 item del tipo “Mi vergogno di me stesso quando gli altri sanno quanto peso realmente”) e il senso di colpa per le abitudini alimentari, l’esercizio fisico e il controllo del peso (6 items del tipo “Quando non riesco ad allenarmi fisicamente mi sento colpevole”). Le risposte agli item variavano da 0 (mai) a 4 (sempre). L’orgoglio autentico e arrogante legati al corpo sono stati valutate utilizzando la Body-Related Pride Scale (Sabiston et al., 2010). I partecipanti hanno valutato il loro livello di accordo attraverso aggettivi descrittivi di orgoglio autentico (N items = 7; realizzato, di successo, soddisfatto, sicuro di sé, produttivo, pieno di autostima) e di orgoglio arrogante (N items = 7; egoista, arrogante, snob, presuntuoso, compiaciuto). Le risposte sono state valutate utilizzando una scala Likert a 5 punti da 1 (per niente) a 5 (estremamente).

La Behavioral Regulation in Exercise Questionnaire (BREQ; Mullen, Markland, & Ingledew, 1997) è stata utilizzata per valutare la motivazione all’attività fisica: composta da 15 item, di cui 4 valutano la regolazione estrinseca (“Faccio esercizio perché gli altri dicono che dovrei”), 3 valutano l’introiezione (“Mi sento un fallimento quando non mi alleno da un po’ di tempo”), 4 valutano la motivazione identificata (“Valuto i benefici dell’esercizio”) e 4 item valutano la motivazione intrinseca (“Faccio esercizio perché è divertente”). I partecipanti hanno risposto riferendosi ad una scala a 5 punti che va da 0 (non è vero per me) a 4 (molto vero per me).

La Leisure Time Exercise Questionnaire (LTEQ; Godin & Shephard, 1985) è stata utilizzata per esplorare il comportamento relativo all’attività fisica: consiste in tre domande a risposta aperta che valutano la frequenza media di attività fisiche lievi, moderate e intense svolte settimanalmente per almeno 15 minuti durante il tempo libero.

I risultati hanno confermato le ipotesi principali, in quanto è emerso che ogni emozione autocosciente legata al corpo si associa con la motivazione all’attività fisica e al comportamento: vergogna e senso di colpa legati al corpo correlano positivamente con i meccanismi di motivazione meno autodeterminati (estrinseca e introiettato) e si associa negativamente ai meccanismi più autodeterminati e a comportamenti di attività fisica. L’orgoglio arrogante non correla con i meccanismi di motivazione, ma correla positivamente con l’attività fisica, suggerendo che questa emozione può essere una valida strategia per iniziare gli individui all’attività fisica. La motivazione estrinseca è un mediatore significativo di tutte le emozioni autocoscienti legate al corpo, tranne che per il legame tra l’orgoglio arrogante e l’attività fisica. La vergogna e il senso di colpa erano positivamente, mentre l’orgoglio autentico era negativamente, associati alla motivazione estrinseca. Inoltre, quest’ultima si associa negativamente all’attività fisica. La motivazione intrinseca e identificata hanno anche mediato le associazioni tra senso di colpa e attività fisica: il senso di colpa è associato positivamente ad esse, che a loro volta sono positivamente associate all’attività fisica. Inoltre, la vergogna correlata al corpo si associa positivamente alla motivazione introiettata e negativamente correlata a quella intrinseca. L’orgoglio autentico correla positivamente sia con la motivazione identificata che con quella intrinseca e direttamente associato al comportamento dell’attività fisica.

 

Test grafici in ambito clinico e forense. Criticità, validità e problematiche – Intervista a Leonardo Abazia

Leonardo Abazia, psicologo giuridico e psicoterapeuta presso l’UOPC di Napoli, Direttore dei Master in Perizia psicologica presso l’ICPG di Napoli, pubblica un nuovo testo, Test grafici in ambito clinico e forense. Criticità, validità e problematiche, che si pone come compendio critico e introduttivo ai test grafici.

 

Il testo è utilizzabile sia da un pubblico di neolaureati in psicologia, che iniziano a interfacciarsi con tali strumenti, sia da giovani colleghi psicologi, che già se ne avvalgono in ambito peritale e che potrebbero trarne giovamento soprattutto per quel che attiene le indicazioni di somministrazione e l’esplorazione degli aspetti critici.

 

Nella tecnica del disegno più che in altri metodi proiettivi, la teoria seguì il successo pratico, la validazione empirica precedette la costruzione di un sistema teorico.

Le parole di Karen Machover aprono il nuovo libro di Leonardo Abazia che, anche questa volta, si avvale della preziosa collaborazione di altri professionisti, in un lavoro corale e complesso.

Intervistatore (I): Da dove nasce l’esigenza di scrivere un ulteriore libro sui Test Grafici?

Leonardo Abazia (L.A.): Il testo nasce dalla volontà di rispondere alle tante domande poste dai discenti durante i corsi di psicodiagnostica svolti presso l’Istituto Campano di Psicologia Giuridica (ICPG) di Napoli, interrogativi che, dettati soprattutto dall’incertezza e da quell’alone di  problematicità che avvolge strumenti come i test grafici in ambito scientifico e psicologico, l’équipe afferente all’ICPG ha cercato di analizzare, in maniera sintetica e approfondita, in un testo unico. Per fare questo, sono stati analizzati i pareri pro veritate, le Consulenze Tecniche di Parte (CTP) e le Consulenze Tecniche d’Ufficio (CTU) che negli ultimi anni sono stati effettuati presso l’Istituto. Inoltre, si sono ricercati, in una bibliografia aggiornata, quegli elementi volti a confermare e/o disconfermare l’utilizzo così massiccio di questi test, troppo spesso spacciati per strumenti “oggettivi” sui quali  vengono costruite ipotesi diagnostiche. Il rischio, in questi casi, è che le suddette ipotesi vengano assunte come prove dalla magistratura o come validi elementi tecnici dagli avvocati a sostegno delle loro decisioni. L’utilizzo del sapere psicologico e, in particolare, gli strumenti scientifici utilizzati e ritenuti erroneamente oggettivi, devono sempre essere accompagnati da una definizione chiara ed esaustiva, dal loro valore euristico, da una loro validazione nel contesto in cui vengono utilizzati, dalla loro appartenenza a un’epistemologia e a una precisa teoria psicologica. Essi, infatti, acquistano significato e pregnanza solo se contestualizzati nella teoria di riferimento dalla quale nascono, traggono spunto e linfa vitale per esistere. Infine, l’attenzione è stata posta su alcune criticità che in ambito forense diventano veri e propri problemi, come l’attendibilità e la validità degli strumenti, le indicazioni per i quali sono stati costruiti e le procedure standardizzate di somministrazione.

La nostra categoria professionale è sicuramente quella che, più di ogni altra, possiede gli strumenti e le competenze, per approfondire gli aspetti legati alla psicodiagnosi, nonostante le criticità intrinseche ai test stessi. Purtroppo, fino ad oggi queste valutazioni psicodiagnostiche, in ambito giuridico, sono state effettuate e/o gestite da altre figure professionali come Medici Legali, Neuropsichiatri infantili e Psichiatri Forensi. Dunque, ho sentito la necessità di comunicare agli altri colleghi, l’importanza di svolgere con sempre maggiore autonomia un lavoro, come quello psicodiagnostico, i cui ambiti di intervento sono, per legge, ascrivibili al ruolo dello Psicologo.

Nel libro vengono esposti elementi, metodologie, ricerche, validazioni, per quanto attiene a cinque test grafici ripresi da vari libri specifici per ogni test e da un testo riconosciuto come fondante della letteratura nazionale, ossia Metodi e tecniche nella diagnosi della personalità. I test proiettivi di D. Passi Tognazzo (1999). Un lungo capitolo è stato dedicato ad otto casi di separazione nei quali sono stati somministrati, esposti e discussi il test congiunto della famiglia. Mentre nella seconda parte sono riportati ben 16 casi, sia clinici che forensi, nei quali sono stati utilizzati tutti e cinque i test.

I: Quali sono le difficoltà più grandi con cui si impatta in ambito forense e che il suo libro aiuta ad affrontare?

L.A.: La difficoltà più grande, con cui lo psicologo deve fare i conti è innanzitutto effettuare una corretta psicodiagnosi. Il complesso processo psicodiagnostico passa attraverso varie fasi e momenti come un buon colloquio clinico, un’attenta osservazione, una valorizzazione delle evidenze cliniche, ma anche un utilizzo corretto e critico dei test psicologici. Occorre procedere con un approccio metodologico molto rigoroso, seguendo dei criteri precisi, che abbiano una validità scientifica, ma che purtroppo non sempre sono disponibili. A oggi, risulta chiaro che le problematiche più roventi si sviluppino intorno a concetti come la validità, l’attendibilità, la costanza e la sensibilità dello strumento. Esiste, di fatto, un’evidente discrepanza tra l’ambito della ricerca e quello della pratica clinica: se, da una parte, le proprietà psicometriche indicano che tali strumenti non hanno, a volte, una buona validità, dall’altra, il loro utilizzo massiccio in ambito clinico potrebbe spingere il professionista a credere ciecamente nello strumento. Tuttavia, oltre alle criticità suddette, le tecniche proiettive vantano di fornire dati di qualità diversa rispetto a qualsiasi altro metodo, tra questi, il vantaggio di essere connotate da una direttività minore rispetto ad altri tipi di test e, dunque, la capacità, solitamente, di superare le difese consce del soggetto, permettendo un accesso privilegiato a informazioni psicologiche importanti, non altrimenti esplorabili e di cui il soggetto stesso non è consapevole.

I: Ancora una volta sceglie di collaborare con altri professionisti nella stesura del suo lavoro, in che modo avvengono tali collaborazioni e che valore aggiunto hanno portato al suo lavoro?

L.A.: La collaborazione con altri professionisti è sempre stata e rimane un elemento costante del mio lavoro. Chi come me opera in un ambito complesso come quello della Psicologia Giuridica, non può esimersi dal confrontarsi e dal collaborare con gli altri  esperti del settore. Ritengo, infatti, che il confronto sia l’unico modo, non solo per crescere, ma soprattutto per fronteggiare con passione e competenza le sfide che questo ambito di intervento richiede. In questo libro in particolare hanno collaborato giovani professionisti che, nel corso di questi anni, hanno lavorato con me nell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica. In verità, trovo sempre molto stimolante il confronto con i giovani professionisti, poiché riescono, con la loro passione, con le loro idee, con la loro curiosità e in particolare con il loro pensiero critico, a stimolare un dibattito fecondo su argomenti, e a mettere in dubbio credenze a volte impropriamente consolidate.

I: Quale consiglio si sente di dare ai futuri professionisti che leggeranno questo suo libro?

L.A.: Voglio dire loro che è essenziale un atteggiamento critico e di disincanto nei confronti di tutti gli strumenti che si troveranno a utilizzare nel corso del loro lavoro. Ma questa fase deve necessariamente essere preceduta da un approfondimento dello studio degli strumenti che verranno impiegati. Fondamentale risulta la formazione: è importante che l’operatore si formi in maniera adeguata alla somministrazione e all’interpretazione dei test grafici, che impari a conoscere la reale utilità degli strumenti che andrà ad applicare, le potenzialità e i limiti insiti nelle prove stesse, con la consapevolezza che le conoscenze, soprattutto nell’ambito delle scienze umane, sono spesso relative e che nessun test è uno strumento infallibile.

Il buon utilizzo dei test in generale e dei metodi proiettivi in particolare dipende, soprattutto, dalla preparazione dell’esaminatore e dalla sua esperienza in ambito psicodiagnostico. È solo in presenza di tali elementi, infatti, che si possono ottenere risultati utili ai fini di una esatta valutazione o di un corretto inquadramento psicodiagnostico.

 

L’autoregolazione emotiva nella sindrome dello spettro autistico

La disregolazione delle emozioni non è un criterio formale per la diagnosi del disturbo dello spettro autistico (ASD), tuttavia, i genitori e i clinici hanno da tempo notato l’importanza dei problemi emotivi nei soggetti con ASD.

Alice Covolan – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

In passato, su persone con disturbo dello spettro autistico, non vi sono stati molti studi che abbiano esaminato la regolazione delle emozioni, ma solo recentemente l’attenzione si è spostata verso questi orizzonti, riportando prove sufficienti che suggeriscono alti livelli di disturbo in questo dominio. La maggior parte degli studi tuttavia si sono concentrati sulla capacità delle persone con ASD di riconoscere emozioni negli altri, piuttosto che sull’esperienza e gestione delle proprie emozioni (Mazefsky et al., 2012). Altri studi hanno ampiamente effettuato osservazioni comportamentali e rapporti di indagine (Mazefsky et al., 2012) sul comportamento emotivo.

In diversi studi si sono frequentemente osservati comportamenti emotivi problematici inclusa irritabilità, scoppi d’ira, aggressività e / o comportamenti auto aggressivi. Lecavalier et al. (2006) ha recentemente suggerito che più del 60% dei giovani con ASD esibisce tali comportamenti. Inoltre, le persone con ASD hanno esperienza di alti livelli di ansia e aumento delle emozioni negative, che possono contribuire ad intensificare sentimenti di angoscia. Queste emozioni a livello elevato possono avere un impatto negativo sul funzionamento quotidiano e sulla qualità della vita. In particolare, gli studi hanno suggerito che gli individui con l’ASD usano strategie di regolazione delle emozioni adattive, come comportamenti diretti all’obiettivo o ricerca di supporto sociale, con meno efficacia rispetto al un gruppo di controllo con sviluppo tipico (Jahromi et al., 2012). Inoltre, le persone con ASD si affidano a strategie poco adattive o idiosincratiche, come l’evitamento e la ventilazione (Jahromi et al.,2012) o difesa e pianto (Konstantareas & Stewart, 2006). L’astensione dal contatto visivo in individui ASD è inteso come un meccanismo di coping usato per evitare una maggiore risposta emotiva associata al contatto oculare (Dalton et al., 2005). Questo è coerente con uno studio recente di Samson, Huber e Gross (2012) che suggerisce come gli adulti con ASD usino meno frequentemente la rivalutazione cognitiva rispetto alle persone con sviluppo tipico e usino di più la soppressione espressiva, che è considerata disadattativa a lungo termine se è l’unica strategia disponibile.

L’autoregolazione cognitiva – emotiva

Quando gli individui regolano le loro emozioni influenzano il modo in cui vivono e / o esprimono le emozioni (Gross, 1998; Gross & Thompson, 2007). Le abilità di regolazione delle emozioni sono fondamentali perché ci permettono un ottimale funzionamento e adattamento, ci consentono risposte appropriate nelle interazioni sociali e facilitano la capacità di affrontare nuovi cambiamenti e situazioni (Gross, 1998, 2007; Seta, Steinberg, & Morris, 2003). Nell’ultimo decennio, i ricercatori hanno evidenziato un certo numero di strategie di regolazione delle emozioni, le quali si differenziano notevolmente le une dalle altre; ad esempio, alcune influenzano la risposta emotiva in corso agendo su ciò che avviene prima (l’azione è focalizzata sull’antecedente), altre influenzano l’azione a posteriori (l’azione è focalizzata sulla risposta).

La rivalutazione cognitiva è una strategia di regolazione focalizzata sull’antecedente ed è stata identificata come particolarmente importante per il funzionamento emotivo adattivo, coinvolgendo il pensiero su un evento che può suscitare l’impatto emotivo. Precedenti studi suggeriscono che la rivalutazione cognitiva è una strategia altamente efficace nell’autoregolazione delle emozioni negative nei soggetti a sviluppo tipico e predice risultati positivi a lungo termine (Bower et al., 2005; Gross, 2002).

Arousal psicologico e strategie di regolazione emotiva in bambini di 3-6 anni con spettro autistico

Una recente ricerca di Zantinge et al. (2017) ha studiato l’arousal (attivazione emotiva) e le strategie di regolazione in 29 bambini con ASD (ASD con QI e competenze linguistiche ridotte) e 45 bambini con sviluppo tipico, di età compresa fra 41 e 81 mesi. Poiché si è notato un comportamento emotivo problematico con scoppi d’ira, irritabilità, aggressività, autolesionismo, ansia e impulsività riportato dai genitori di bambini con autismo, è stata valutata l’attivazione emotiva in bambini con ASD in risposta alla frustrazione, e come loro affrontino queste emozioni in termini di strategie di regolazione.

Il nucleo dello studio era la rilevazione fisiologica (misure della frequenza cardiaca) in parallelo alle osservazioni comportamentali che indicano in che modo i bambini superano il momento di frustrazione e quali strategie di regolazione applicano per tornare ad uno stato di equilibrio emotivo.

La misurazione dell’arousal emotivo ha rivelato che il modello di risposta emotiva nei bambini con ASD era simile a quello dei bambini con sviluppo tipico. Non c’era differenza nella risposta di attivazione emotiva tra i gruppi. Per entrambi i gruppi c’è stato un aumento di arousal in risposta alla frustrazione, la frequenza cardiaca diminuiva durante il recupero e la diminuzione della frustrazione si è manifestata in modo simile. Se la risposta emotiva alla frustrazione non differiva fra bambini con ASD e bambini con sviluppo tipico, al contrario, le osservazioni sulle strategie comportamentali di regolamentazione delle emozioni, hanno evidenziato che i bambini con ASD sviluppano diverse strategie disadattive, in particolare vi è un uso maggiore di ventilazione ed evitamento rispetto ai bambini con sviluppo tipico. I bambini con ASD hanno mostrato inoltre meno strategie costruttive (es. goal directed) rispetto ai bambini dallo sviluppo tipico.

In questo studio, i bambini con ASD hanno anche mostrato più problemi di autocontrollo nella vita quotidiana scolastica, come riportato dagli insegnanti. L’autocontrollo gioca un ruolo importante nella regolazione delle emozioni. Altri studi paralleli spiegherebbero tali risultati a causa di una capacità linguistica ridotta e sosterrebbero l’utilità di interventi mirati al linguaggio con l’obiettivo di insegnare un modello comunicativo appropriato, in particolare per poter esprimere il proprio stato d’animo quando un bambino mostra eccessivi scoppi d’ira. Gli autori di questo studio hanno ipotizzato anche che le capacità di inibizione e flessibilità cognitiva non sono state utilizzate da bambini con ASD perché probabilmente non ancora sviluppate come strategie di coping nel regolare l’emozione e, se le strategie di regolamentazione dipendessero dalle capacità di inibizione e flessibilità cognitiva, sarebbe interessante proseguire gli studi futuri su queste scoperte.

La Rivalutazione Cognitiva come strategia di regolazione emotiva in bambini e adolescenti con spettro autistico

Lo studio di Samson et al. (2014) ha puntato sulla valutazione della regolazione emotiva in bambini e adolescenti considerando la strategia della rivalutazione cognitiva, partendo da una maggiore comprensione della situazione. Mentre i risultati di uno studio precedente avevano fornito prove che suggerivano che gli adulti con ASD utilizzassero la rivalutazione cognitiva meno frequentemente e con meno efficacia rispetto agli adulti con sviluppo tipico (Samson et al., 2012), si sa poco sull’uso e sull’efficacia della rivalutazione cognitiva nei bambini e negli adolescenti con ASD. La tarda infanzia e l’adolescenza sono entrambe fasi critiche per lo sviluppo della regolazione delle emozioni. Durante queste fasi, gli individui acquisiscono un ampio repertorio di strategie di regolazione delle emozioni, tra cui strategie adattive come problem solving e rivalutazione cognitiva. 
Gli autori di questo studio hanno utilizzato i compiti di ‘Reactivity and Regulation Situation’: in poche parole bambini e ragazzi con ASD e sviluppo tipico sono stati invitati in una prima fase a valutare la situazione ricreata anche dal vivo che provocava un certo grado di frustrazione, rispondendo ad alcune domande che indagavano emozioni e pensieri. Successivamente sono stati istruiti alla rivalutazione cognitiva attraverso suggerimenti come ‘prova a pensare in modo diverso’, ‘puoi pensare a questa situazione in un modo diverso in modo che appaia meno preoccupante / paurosa?’. I partecipanti hanno valutato la loro negatività seguendo le loro rivisitazioni cognitive e non la loro iniziale reazione alla situazione. Dallo studio si è visto come, nonostante vi sia un utilizzo meno efficace della strategia di rivalutazione cognitiva da parte delle persone con ASD, un training sia utile per loro per riconoscere una situazione frustrante, le loro conseguenti attivazioni emotive e come l’uso della rivalutazione cognitiva li porti ad avere un pensiero più adattivo.

Autoregolamentazione emotiva di individui con ASD: uno Smartwatch per il monitoraggio e l’interazione

Torrado e colleghi (2017), hanno analizzato i bisogni delle persone con disturbi dello spettro autistico (ASD) per raggiungere una forma di assistenza pervasiva, fattibile e non stigmatizzante della loro autoregolamentazione emotiva, al fine di alleviare alcuni problemi comportamentali che minano la loro salute mentale per tutta la loro vita. Il gruppo di ricerca avrebbe ideato un sistema di smartwatch (orologio regolare) che supporta la rilevazione dello stato interno dell’utente attraverso modelli di sfogo da segnali fisiologici (come il battito cardiaco) e di movimento, e implementa una vasta gamma di strategie di autoregolazione, insieme a uno strumento di authoring per smartphone che deve essere utilizzato dai caregiver o dai membri della famiglia per creare e modificare queste strategie, in un modo adattivo. Torrado e colleghi (2017) hanno condotto un esperimento intensivo durato 9 giorni, con due persone con ASD che hanno mostrato varie risposte comportamentali rappresentative della loro disregolazione emotiva. Entrambi gli utenti sono stati in grado di utilizzare strategie di autoregolazione emotiva efficaci e personalizzate tramite mezzi del sistema, riuscendo a gestire la maggior parte degli episodi di stress e gli scoppi d’ira sperimentati nella loro classe.

Le emozioni sono il risultato della valutazione cognitiva delle circostanze esterne, perciò i modi per affrontare le questioni relative alle emozioni, sopratutto quando si tratta di persone con disabilità cognitiva, sono veramente vari. A causa di questo è ancora più problematico definire un intervento, perché le strategie di regolazione delle emozioni devono essere adattate a ciascun utente, praticamente caso per caso. Per progettare il modello di dati dietro il sistema, hanno seguito i consigli del Dr. Quintero-Lumbreras, esperto dell’Istituto di Psicogestione, che suggerisce attuali strategie di regolazione delle emozioni usate con i bambini. Hanno poi progettato il modello con le strategie di regolazione più utilizzate e le hanno in seguito implementate nel sistema. I risultati di questo studio hanno evidenziato che l’uso dello smartwatch evita l’utilizzo di immagini stampate per il supporto della regolazione emotiva e permette un risparmio di tempo, la sua creazione di contenuti è diretta e visivamente attraente, personalizzabile e pervasiva (l’utente riceve l’intervento ovunque e in qualsiasi momento se indossa lo smartwatch). Gli autori hanno osservato inoltre che fra i due partecipanti e i loro compagni di classe non ci sono differenze per il fatto di indossare smartwatch come supporto (cioè, nessuna stigmatizzazione), e il sistema li ha aiutati a controllare la maggior parte dei loro episodi di stress in pochi minuti. Essere in grado di gestire un gran numero di scoppi d’ira è altamente positivo per le persone con ASD e l’accumulo di episodi di esposizione spiacevoli e autolesionisti nel lungo termine aumenta i problemi di regolazione emotiva futura. Questo è il motivo per cui questo sistema potrebbe garantire un importante miglioramento della qualità della vita delle persone con ASD e problemi di disregolazione emotiva, poiché l’intervento applicato alla vita quotidiana può prevenire i problemi comportamentali e garantire una corretta autoregolazione emotiva.

 

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