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Non-binary e salute mentale: ragionando su esperienze, identità ed espressioni che possono essere sia viaggio sia destinazione

Meg-John Barker (The Open University) e Alex Iantaffi (University of Minnesota) si sono occupati approfonditamente di psicoterapia con persone con identità non-binary, evidenziando una serie di punti che verranno riportati nel seguente articolo. Per una lettura più approfondita sul tema si rimanda agli articoli in bibliografia.

 

Pochi sono gli studi che si sono dedicati all’indagine della salute mentale delle persone con identità di genere non-binary. Gli studi presenti hanno però mostrato come le persone non-binary hanno livelli di salute mentale più bassi delle persone cisgender binary e transgender binary: coloro che esprimono il proprio genere in termini non binary sono ad alto rischio di autolesionismo e suicidio (Harrison et al. 2012). Detto questo, risulta importante sottolineare come l’esperienza di genere non binaria non ha di per sé una relazione intrinseca con la psicopatologia. Gli alti tassi di suicidio ed autolesionismo presenti in questa popolazione sono più ascrivibili alle sfide che tali persone devono affrontare nella vita di tutti i giorni: stigmatizzazione e discriminazione (Barker & Richards, 2013). Inoltre, le persone con identità non binaria vivono in un ambiente in cui le divisioni binarie sono applicate ad ogni aspetto della vita. Il genere è infatti uno dei primi elementi che riscontriamo in una persona che incontriamo. I negozi di abbigliamento hanno dei reparti binari, divisi infatti per genere, i bagni sono maschili o femminili, le persone ti chiamano “signore o signora”, spesso alle scuole dell’infanzia le file vengono create per genere, così le sfide durante l’ora di ginnastica, e così via. Lo stress che deriva dal vivere in un mondo già costruito su esigenze altrui, senza poter trovare uno spazio proprio, è una delle questioni chiave che la maggior parte dei clienti non-binary riporta in terapia. Imparare a navigare in un mondo prevalentemente binario come persona non-binary diventa uno degli obiettivi principali.

In altri casi, invece, la pressione può esser percepita ancora più pesantemente: le persone non-binary, immerse in un ambiente binario, sentono spesso di doversi conformare alle regole binarie del genere perché la loro esistenza venga legittimata. Il sentirsi invisibili o discriminati sono due tra le sensazioni più riportate da coloro i quali vivono questa esperienza.

Barker e colleghi (2015) hanno rilevato come le persone non-binary vivono stressor simili a quelli vissuti dalle persone con orientamento bisessuale e pansessuale, le quali presentano livelli di salute mentale significativamente più bassi di quelli riportati da persone eterosessuali o omosessuali.

Altri aspetti che vengono portati in terapia da persone non-binary possono essere il coming-out, stati di disagio legati alla possibile disforia di genere, e l’accesso al percorso di transizione di genere. Il percorso di transizione anche per le persone non binarie può essere totale come parziale, e nel percorso psicologico la soddisfazione o insoddisfazione per specifiche parti del proprio corpo (in relazione a sé o agli altri) prende uno spazio importante. Inoltre, la transizione parziale in alcuni casi porta a corpi “nuovi”, che la società sembra non essere ancora abituata a vedere ed integrare. Corpi che integrano le caratteristiche sessuali maschili-femminili o corpi che vanno totalmente oltre tali caratteristiche. Per questo motivo, per motivi legati all’accesso alle cure (differenti a seconda della nazione di riferimento) e per motivi che risultano ancora da esplorare, le persone non-binary si sottopongono meno a percorsi di transizione medicalizzati, rispetto alla controparte trans binaria.

Ulteriori tematiche portate in terapia sono le eventuali difficoltà riscontrate nelle relazioni romanticosessuali, all’apertura comunicativa con un altro che non necessariamente comprende/sperimenta/accoglie l’esperienza non-binary del partner.

I clienti non-binary potrebbero inoltre voler discutere con un esperto dell’esigenza di scegliere la terminologia che preferirebbero usare e che preferirebbero gli altri usassero per riferirsi ad ess*, spaziando tra le “etichette” (genderqueer, neutral, bigender, agender e così via), il nome e pronomi di riferimento. Importante considerare come, a questo proposito, la lingua italiana non è facilmente adattabile ad un linguaggio neutrale, al contrario della lingua inglese, in cui con il pronome “they” ci si può avvicinare molto più facilmente alla neutralità. Inoltre, è stato da poco inserito l’uso del suffisso “Mx”, inserito in alternativa a “Mr”, “Mrs”, “Miss” e “Ms”.

Essere a conoscenza dei possibili modi che una persona ha per esprimere il proprio genere diventa importante nel poter guidare il proprio paziente nell’esplorazione di ciò che è più adeguato ad esso: cambio di abbigliamento, uso degli accessori, taglio di capelli, uso del make-up, cambiamenti di postura, andatura, modificazioni del corpo tramite attività fisica e impostazione vocale. Il tutto non può prescindere dal tenere in considerazione il fatto che per persone con sesso assegnato alla nascita maschile, ogni piccolo cambiamento nei sopra citati aspetti comporta una percezione più marcata del genere, determinando una netta spaccatura tra il sesso assegnato alla nascita e l’espressione di genere, mentre per la controparte femminile tale confine è sdoganato. Nella moda stessa, già da molti anni, abiti socialmente considerati maschili sono stati indossati e disegnati per essere indossati da persone percepite come donne, basti pensare al vedere un uomo indossare una gonna rispetto al vedere una donna indossare un completo con cravatta. Nel primo caso molto probabilmente le persone potrebbero mettere in dubbio l’identità di genere della persona, mentre nel secondo caso l’impatto sulle riflessioni di genere è sicuramente meno marcato.

Non bisogna dimenticare il lavoro da svolgere con coloro che per anni hanno occupato un’identità sessuale omosessuale e che si ritrovano a ristrutturare la propria identità, considerando una visione non binaria legata più al genere che all’orientamento, perdendo in taluni casi il sostegno della propria comunità di riferimento o dovendo affrontare un ulteriore coming out con parenti e amici.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

 

Il disturbo da accumulo

Il disturbo da accumulo è solitamente progressivo, esordisce in giovane età, ma con l’avanzare degli anni si possono presentare problemi significativi sulla salute fisica e psicosociale. Il comportamento di accumulo è ereditario e la remissione spontanea molto rara.

Cos’è il disturbo da accumulo

Il Disturbo da Accumulo (DA) o Disposofobia, tradotto dall’inglese Hoarding Disorder, è un disturbo caratterizzato dalla tendenza ad accumulare oggetti in maniera eccessiva, limitando fortemente l’uso e il funzionamento degli spazi domestici (Frost & Hartl, 1996). Chi ne soffre spesso ha scarsa consapevolezza del disturbo, poiché inizialmente i sintomi sono percepiti come egosintonici.

Si tratta di un disturbo progressivo: l’esordio coincide con l’età giovanile, ma con l’avanzare dell’età, in genere intorno ai 40-50 anni, si possono presentare problemi significativi sulla salute fisica e psicosociale. Come riporta il DSM 5 il comportamento di accumulo è ereditario, un paziente su due ha nella sua storia personale un parente che accumula. Nella ricerca di Landau, Iervolino, Pertusa, Santo, Singh e Mataix-Cols (2011) emerge che spesso il peggioramento del disturbo è conseguente ad alcuni eventi traumatici quali un lutto o la separazione dal partner. La remissione spontanea è molto rara.

Clinicamente il disturbo da accumulo presenta tre componenti:

1) L’accumulo e/o l’acquisizione di un numero eccessivo di oggetti

Gli oggetti accumulati sono di qualsiasi tipo: giornali, libri, spazzatura così come oggetti di valore. La forma di acquisizione è prevalentemente quella di collezionare, acquistare o rubare (DSM IV).

Molto spesso si sceglie di tenere degli oggetti, perché questi mantengono vivi ricordi e memorie, si ha quindi paura di dimenticare, di perdere dei ricordi considerati preziosi perché facenti parte della storia personale. Non sorprende che i pazienti disposofobici conoscano ogni singolo oggetto e la ragione per cui lo tengono. A volte pensano che lo terranno solo per un periodo temporaneo, che potrà servire per un prossimo futuro che spesso non arriverà mai.

2) La difficoltà a separarsi dagli oggetti

Chi soffre di DA ha una difficoltà affettiva a liberarsi degli oggetti, il solo pensiero procura un certo grado d’ansia, rimandare il momento della separazione sembra essere l’unica opzione possibile.

Molto spesso il comportamento di accumulo è giustificato da motivazioni ambientaliste: le persone con DA si definiscono attente all’evitamento dello spreco e a favore del riciclo, il tutto quindi assume una connotazione morale che, oltre a rinforzare il comportamento di accumulo, abbassa ulteriormente la consapevolezza della malattia.

3) La difficoltà ad organizzare gli oggetti

Le persone con DA hanno difficoltà a creare delle categorie: tendono a creare una categoria per ogni oggetto. La difficoltà potrebbe derivare da un malfunzionamento delle capacità di attenzione, memorizzazione, pianificazione e decisione. Questo aspetto si riscontra anche nel linguaggio: sono persone prolisse, non riescono a stabilire delle priorità e hanno poca capacità di sintesi (Frost & Steketee, 2007).

Criteri diagnostici e comorbilità

Il Disturbo da Accumulo è presente nella quinta edizione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) quale categoria diagnostica a sé, all’interno della più ampia categoria dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi e Disturbi correlati (APA, 2013).

I criteri diagnostici sono:

  • a. Persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale.
  • b. Questa difficoltà è dovuta a un bisogno percepito di conservare gli oggetti e al disagio associato al gettarli via.
  • c. La difficoltà di gettare via i propri beni produce un accumulo che congestiona e ingombra gli spazi vitali e ne compromette sostanzialmente l’uso previsto. Se gli spazi vitali sono sgombri, è solo grazie all’intervento di terze parti (per es. familiari, addetti alle pulizie, autorità).
  • d. L’accumulo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (incluso il mantenimento di un ambiente sicuro per sé e per gli altri).
  • e. L’accumulo non è attribuibile a un’altra condizione medica.
  • f. L’accumulo non è meglio giustificato dai sintomi di un altro disturbo mentale.

E’ possibile e utile specificare il grado di insight che il paziente possiede circa il proprio disturbo da accumulo: il continuum parte da un buon insight (riconosce i comportamenti e le credenze come problematiche), passa per uno scarso insight (la consapevolezza cala considerevolmente) e termina in un insight delirante (non ha consapevolezza anche di fronte all’evidenza).

La storia del DA inizia negli anni ’80, il DSM III lo classifica come un criterio diagnostico del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOCP), nel 2000 il DSM IV-TR lo annovera come una componente o sintomo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). Soltanto nel DSM 5 diviene categoria diagnostica a sé stante, questo è uno dei motivi per cui esistono pochi studi sul disturbo e naturalmente sul trattamento. Ha contribuito anche il fatto che le persone con DA e spesso anche i familiari, tendono a nascondere il disturbo per vergogna e tendono a non chiedere un aiuto psicologico.

Il disturbo da accumulo si presenta per il 75% di casi in comorbilità con altri disturbi psicopatologici, i più comuni sono: Disturbo Ossessivo-compulsivo, Disturbi Depressivi, Disturbi d’Ansia, disturbi legati al controllo degli impulsi e il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività (Frost & Steketee, 2015).

Una particolarità che discrimina il DA rispetto ad altre condizioni psicologiche è l’intenzionalità nel conservare i propri beni: in disturbi come il DOC, DOCP o nel Disturbo Depressivo Maggiore, l’accumulo è passivo, non si prova alcun disagio sperimentato a fronte dell’eliminazione dei propri oggetti.

Possibili strategie di intervento psicoterapico

La richiesta di un aiuto psicologico è stata spesso secondaria ad altri disturbi in comorbidità (Tolin et al. 2008), questo ha comportato una richiesta tardiva quando i sintomi erano già gravi e cronicizzati (Ayers et al., 2010; McGuire et al., 2013). Inoltre, i pazienti che chiedevano un supporto erano soggetti a frequenti drop-out e spesso i risultati terapeutici non sono stati significativamente rilevanti (Mataix-Cols et al., 2002; Steketee & Frost, 2003).

Negli ultimi anni, quindi, Frost e Steketee hanno messo a punto un modello per il trattamento dando particolare importanza al disagio emotivo, l’evitamento conseguente e il probabile deficit di processamento delle informazioni (Steketee, Frost, 2007; Tolin et al., 2007).

Lo scopo è quello di aiutare il paziente a trovare una strategia per sopportare meglio la sensazione di liberarsi di qualcosa per lui importante.

Le componenti sono:

  • interventi focalizzati sulla motivazione al trattamento;
  • skill training: si conduce il paziente verso una buona capacità di risoluzione di problemi e presa di decisioni in autonomia;
  • esposizione in vivo allo stimolo e ricerca di modalità alternative all’accumulo;
  • ristrutturazione cognitiva: si indagano e si modificano le convinzioni e i temi personali legati al disturbo.

Circa il 70% dei pazienti che si sono sottoposti al trattamento hanno avuto un miglioramento sintomatologico (Tolin et al. 2008).

Più recentemente in Italia Claudia Perdighe e Francesco Mancini hanno pubblicato un manuale dal titolo Il disturbo da accumulo in cui viene ben illustrato il trattamento con terapia cognitivo-comportamentale.

Spesso la richiesta di aiuto proviene dai familiari dei pazienti, per questo motivo Tolin, Frost, Steketee e Fitch (2008a) sostengono che possono giocare un ruolo fondamentale per la buona riuscita della terapia. Grazie agli incontri psicoeducativi di gruppo per i familiari si possono fornire loro degli strumenti per conoscere meglio il disturbo e per indirizzare le dinamiche interpersonali con il paziente.

Negli Stati Uniti esistono diversi siti web rivolti ai familiari degli accumulatori. Un esempio è Children of Hoarders (visita il sito cliccando QUI). Gli utenti possono condividere le proprie esperienze e raccogliere informazioni sul disturbo.

Conclusioni

Il Disturbo da accumulo viene studiato da poco tempo e non sono stati ancora approfonditi molti aspetti. Gli studiosi che finora si sono dedicati a comprendere e a cercare un trattamento hanno gettato delle ottime basi su cui poter costruire ulteriore conoscenza.

 

L’analisi delle catene comportamentali nella DBT (2020) di Shireen L. Rizvi – Recensione del libro

L’analisi delle catene comportamentali nella DBT è un testo molto utile per gli addetti ai lavori, per i terapeuti impegnati nel trattamento di pazienti con tratti borderline o disturbo borderline di personalità.

 

In tali trattamenti, potrebbe risultare fondamentale l’analisi funzionale del comportamento, con lo scopo di verificare quali eventi concorrano a far comparire comportamenti, in particolare, e specificamente, i comportamenti disfunzionali dei soggetti borderline, che non sembrano generati da un’intenzionalità, più o meno volontaria o consapevole, finalizzata a obiettivi significativi per il soggetto. Come a dire che i comportamenti disfunzionali non sembrano determinati da una scelta volontaria, in funzione di un obiettivo connesso con un valore, ma piuttosto da rapporti di causa ed effetto di natura più o meno automatica, che sfuggono completamente al controllo del soggetto quando si tratta di reazioni immediate, intense, di natura impulsiva.

Diventa allora fondamentale capire che cosa controlla il comportamento nel momento in cui viene messo in atto, attraverso l’analisi funzionale del comportamento, che viene solitamente denominata ‘analisi delle catene comportamentali’, o ‘chain analysis’: è una tecnica molto precisa e consolidata, che richiede un buon addestramento, ed è tesa ad aiutare i pazienti a padroneggiare l’abilità di analizzare il loro comportamento così come fa il loro terapeuta (vedi Linehan, 1993), condividendo con loro con chiarezza gli obiettivi che derivano dall’impiego di tale tecnica. L’analisi della catena è una descrizione dettagliata di tutti gli eventi, pensieri e sentimenti che portano al comportamento bersaglio, così come alle conseguenze del comportamento stesso. Deve essere piuttosto precisa e focalizzarsi davvero sull’esatta sequenza di eventi così come si sono verificati in quei momenti.

A prima vista potrebbe sembrare un intervento molto rigido (ed in parte lo è, essendo di nascita un intervento comportamentale), ma in realtà è ‘la mente saggia’ che fa da guida nella conduzione della chain analysis è una via di mezzo tra la ricerca, da un lato, di rigide concatenazioni di causa ed effetto, prendendo in considerazione tutte le componenti che concorrono a generare la relazione tra eventi scatenanti e comportamenti disfunzionali, e dall’altro rispetto a un utilizzo di ipotesi non basate sui fatti e sulle loro connessioni, ma su interpretazioni dei fatti, o su speculazioni relative a essi, discussi con il paziente stesso. L’identificazione della relazione tra causa ed effetto, che usualmente si concentra su due termini (il comportamento problematico e l’evento scatenante) va inserito all’interno della molteplicità di fattori che, probabilisticamente, influiscono su questa relazione: fattori di vulnerabilità biologica, emozionale e relazionale, il contesto in cui si verificano gli eventi, le azioni, i pensieri e le emozioni che costituiscono fonti di variabilità.

Il testo descrive con molta precisione e numerosi esempi le strategie dialettiche, comunicative ed altre stategie nucleari come la validazione, impiegate per condurre una buona analisi comportamentale. Rappresenta un’ottima guida pratica per i clinici che vogliono approfondire questo valido strumento.

 

Nano Gianni e i granelli rossi (2020) di Fabio Sbattella – Recensione del libro

In un periodo non proprio facile come quello caratterizzato dalla pandemia da Covid-19 sono molti i libri e i trattati che hanno contribuito a illustrare questo fenomeno, tra questi Nano Gianni e i granelli rossi.

 

Si parla di lockdown, isolamento, vittime, insomma tutte tematiche attuali e di spessore, ma senz’altro poco allegre.

E per quanto riguarda i bambini? Come potrebbe essere possibile raccontare loro questo fenomeno in termini allegri e giocosi?

Ci pensa Fabio Sbattella, il quale ha messo a punto un’autentica fiaba sul coronavirus.

Nel regno di Madia c’è grande agitazione a causa dei terribili granelli rossi portati dal vento. Dei puntini piccolissimi, quasi invisibili, ma terribili. Si infilano negli ingranaggi di tutti i meccanismi, le macchine si bloccano e soprattutto le persone iniziano a starnutire senza tregua.

Il re del regno convoca a corte chiunque abbia un’idea per fermare i granelli rossi prima che sia troppo tardi.

Ed è così che giungono al palazzo le idee più grandiose e originali, forse un po’ troppo.

Tutti pensano che per fermare il terribile sciame di puntini ci voglia una soluzione estremamente potente, perché è convinzione che solo facendo qualcosa di grande sarà poi possibile trovare rimedio.

Peccato che le opzioni proposte non trovino attuazione, forse proprio perché troppo ingegnose e quindi irrealizzabili.

Il regno si sente sconfortato finché non giunge alla sala del palazzo reale il piccolo nano Gianni. Egli ha una trovata piccola proprio come lui: i granelli rossi possono essere annientati solo da qualcosa di estremamente minuscolo, più piccolo di loro.
Nano Gianni suggerisce di rimpicciolirsi in modo tale da poter entrare in ogni singolo granello e sgonfiarlo. Ovviamente la cosa richiederà tempo, ed è opportuno che il popolo di Madia si tenga impegnato.

Ed è così che l’intera popolazione ha modo di riscoprire quante cose può fare restando al riparo nel proprio piccolo regno: le nonne cucinano nuove ricette per gli adorati nipotini, i mercanti si godono il sonno ristoratore, i bambini giocano con gusto tra loro.

Ogni giorno le sentinelle osservano in lontananza i puntini rossi che col tempo sono in continua diminuzione, e soprattutto tutti aspettano il ritorno di nano Gianni.

E quando nano Gianni completa la sua opera torna a corte trionfante, ricordando al popolo che per battere i puntini rossi non servono i cosiddetti ‘colossi’, ma qualcosa di molto piccino: l’impegno e la paziente attesa da parte di tutti.

E fu così che tutti gli abitanti del regno ebbero finalmente modo di festeggiare abbracciandosi e stringendosi le mani.

Fabio Sbattella ha messo a punto una bellissima fiaba non solo metaforica, ma soprattutto allegra, adatta a bambini ed adulti, focalizzandosi sugli aspetti positivi generati dal Covid-19: la speranza di trionfare grazie al proprio impegno personale, la possibilità di godersi il tempo libero con i propri cari, l’apprezzare le cose accantonate da tempo.

E bisogna aggiungere che Sbattella non si limita a raccontare una fiaba, ma in coda al suo libro descrive una serie di attività e giochi da fare durante il periodo di quarantena. Attività fantasiose e di facile realizzazione per grandi e piccini.

Perché questo libro non è rivolto solo ai bambini, ma anche ai genitori. L’autore fornisce loro una serie di suggerimenti su come far trascorrere le giornate ai propri figli e su come occupare il proprio tempo al riparo da tutte quelle emozioni sgradevoli tipiche di un lockdown.

Ogni attività proposta fornisce uno stimolo per inventarne qualcuna di nuova.

Al termine della lettura la sensazione non può che essere piacevole.

Senz’altro si tratta di un ottimo libro leggero e distensivo che affronta in maniera allegra e fantasiosa una tematica considerata poco piacevole: una pandemia.

Il lavoro emozionale: effetti su lavoratori e clienti

Lavorare direttamente con il pubblico si traduce spesso nella necessità di mostrarsi gentili, educati, amichevoli. Ciò richiede uno sforzo per regolare le proprie emozioni e infatti, l’impegno di regolare costantemente le proprie emozioni, richiesto ai lavoratori che interagiscono frequentemente con il pubblico, viene definito in italiano “lavoro emozionale” (Grandey e Sayre, 2019).

 

Lavorare nel settore terziario spesso significa interfacciarsi direttamente con il pubblico. Questo a sua volta può tradursi nella necessità di mostrarsi gentili, educati, amichevoli. Talvolta, questi atteggiamenti, definiti “regole di facciata”, display rules in inglese, fanno esplicitamente parte dei requisiti necessari per svolgere un dato lavoro. Ad esempio, un ristoratore potrebbe chiedere ai camerieri di essere sempre sorridenti con i clienti.

Tuttavia, ciò richiede uno sforzo per regolare le proprie emozioni. Infatti, l’impegno, richiesto ai lavoratori che interagiscono frequentemente con il pubblico, di regolare costantemente le proprie emozioni viene definito in italiano “lavoro emozionale” (Grandey e Sayre, 2019).

Grandey e Sayre (2019) hanno revisionato la letteratura recente sul lavoro emozionale, per comprendere quali strategie vengano adottate per regolare le proprie emozioni sul lavoro e quali effetti abbiano per lavoratori e clienti.

Quali strategie può adottare un lavoratore per aderire alle “regole di facciata”? La letteratura sul lavoro emozionale individua due tipologie principali: la recitazione profonda (deep acting) e la recitazione superficiale (surface acting). La prima comporta modificare realmente le proprie emozioni e atteggiamenti, la seconda significa mostrare un’emozione superficialmente, senza provarla realmente. Ad esempio, possiamo immaginare un cameriere per cui trattare con gentilezza i clienti sia un valore personale. In questo caso il cameriere sarà capace di regolare le proprie emozioni e mostrarsi genuinamente gentile anche di fronte a un cliente maleducato. Al contrario,possiamo immaginare un cameriere che sia appena stato rimproverato da un proprio superiore e che debba comunque mostrarsi sorridente. In questo caso, il cameriere potrebbe utilizzare maggiormente una recitazione superficiale.

Quali sono le implicazioni di queste due strategie, per i lavoratori e per i clienti? Per i lavoratori, attuare strategie di recitazione profonda può portare ad esaurimento e sintomi psicosomatici (Hülsheger e Schewe, 2011), ma in alcuni casi è associato a maggior soddisfazione lavorativa (Grandey e colleghi, 2013). La recitazione superficiale invece sembra avere effetti più negativi, perché condurrebbe a maggior burnout e a maggiori sintomi psicosomatici (Hülsheger e Schewe, 2011). Inoltre, chi utilizza principalmente la recitazione superficiale deve impegnarsi continuamente per controllare la manifestazione delle proprie emozioni, impiegando in questo scopo buona parte delle proprie risorse cognitive. Di conseguenza, potrebbe avere minore attenzione e risorse per svolgere adeguatamente la propria performance lavorativa.

Il fatto che i lavoratori stiano sorridendo sinceramente o solo perché devono farlo fa la differenza per i clienti? In generale, sembra che non sia così: i clienti possono riconoscere che una persona che attua una recitazione profonda sia più sincera e genuina di una che attua una recitazione superficiale, ma entrambe le strategie raggiungono lo scopo: il cliente viene trattato con gentilezza. La recitazione superficiale potrebbe diminuire la soddisfazione del cliente solo se il fatto che il lavoratore stia fingendo e si stia sforzando di contenere le proprie reali emozioni diventa palese (Groth e colleghi, 2009).

Che cosa può fare un datore di lavoro o un’azienda per sostenere la motivazione dei propri dipendenti a svolgere un buon lavoro emozionale? Una possibilità è permettere ai lavoratori di sviluppare una motivazione intrinseca al lavoro emozionale. Ad esempio, invece che assegnare una specifica frase con cui il lavoratore deve salutare i clienti, dargli l’obiettivo generale di accogliere i clienti in modo caloroso, permettendogli di scegliere autonomamente le modalità specifiche con cui farlo. Un’altra possibilità è quella di riconoscere il lavoro emozionale come tale e fornire per esso una ricompensa, anche economica. Infatti, sapere che si è pagati per recitare certe emozioni fornisce una giustificazione esterna al fatto di mostrare comportamenti poco autentici e sinceri (Grandey e colleghi, 2013). Infine, può essere utile creare un ambiente supportivo rispetto all’espressione delle emozioni, in modo che i colleghi di lavoro possano sostenersi a vicenda, ad esempio dopo aver interagito con un cliente problematico.

In futuro, la ricerca sul lavoro emozionale potrebbe indagare quali siano gli effetti di fingere emozioni non solo positive, ma anche negative. Infatti, in alcuni casi un superiore potrebbe mostrare emozioni negative, come la rabbia, per motivare i propri dipendenti.

Infine, un ulteriore passo per la ricerca sul lavoro emozionale sarebbe quello di integrare le proprie conoscenze con quelle elaborate nell’ambito della regolazione emotiva in generale (Gross, 2015).

 

Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra

Numerosi autori hanno evidenziato come il verdetto del Dodo si poggi su evidenze empiriche e ragionamenti teorici che presentano notevoli criticità, mettendo seriamente in discussione la sua fondatezza. In questo articolo si considereranno tre limiti delle ricerche che sostengono il verdetto del Dodo e alcune sue implicazioni paradossali.

 

Nel 1936 il Dodo espresse il suo verdetto sulle psicoterapie: sono tutte ugualmente efficaci, dunque tutte meritano un premio (Rosensweig, 1936).

Da questo verdetto sono derivati due filoni di ricerca. Il primo dedicato a controllare la validità del parere del Dodo: è vero che ci si possano aspettare gli stessi risultati da qualunque psicoterapia per qualunque disturbo? Il secondo deriva dal seguente ragionamento, se tutte le psicoterapie funzionano, allora ci devono essere dei fattori terapeutici comuni, e ci si pone la domanda di quali essi siano. In questo articolo ci occuperemo solo della prima questione. A favore del verdetto vi sono diverse ricerche, la prima fu pubblicata nel 1975 da Luborsky, Singer e Luborsky. Gli autori confrontarono tutti gli studi empirici pubblicati fino ad allora sull’efficacia delle psicoterapie e conclusero che le psicoterapie apparivano sostanzialmente uguali quanto a risultati. Negli anni successivi, tale studio ebbe risonanza nella comunità degli psicoterapeuti e fu ripetuto da altre meta-analisi (e.g. Smith & Glass, 1997; Wampold et al., 1997; Luborsky et al., 2002).

In questo breve articolo considereremo alcune delle ragioni che hanno portato le più autorevoli linee guida internazionali a NON tener conto del Dodo, ma a basare le proprie indicazioni sulle risposte alla seguente domanda “quale o quali psicoterapie sono più efficaci per quale disturbo?”. Non si è tenuto conto del Dodo perché le prove a suo favore non sono adeguate e perché ci sono ottimi argomenti per ritenere che il verdetto derivi da artefatti metodologici e per sostenere che le psicoterapie non siano tutte efficaci allo stesso modo per tutti i disturbi. Numerosi autori, infatti, hanno evidenziato come il verdetto del Dodo si poggi su evidenze empiriche e ragionamenti teorici che presentano notevoli criticità, mettendo seriamente in discussione la sua fondatezza (e.g. Chambless, 2002; Crits-Cristoph, 1997; Hunsley e Di Giulio, 2002; Marcus, O’Connell, Norris, & Sawaqdeh, 2014).

In questo articolo considereremo tre limiti delle ricerche che sostengono il verdetto del Dodo e alcune sue implicazioni paradossali.

Il primo limite: le diverse psicoterapie sono confrontate in modo inadeguato

Una prima critica può essere rivolta a diverse metanalisi (Shapiro & Shapiro, 1982; Robinson, Berman, & Neimeyer, 1990; Smith, Glass, & Miller, 1980), che, di fronte all’eccessiva numerosità delle tecniche psicoterapeutiche studiate nelle ricerche primarie, che sono l’oggetto delle meta-analisi, le hanno raggruppate in macro-categorie che hanno confrontato rispetto alla loro efficacia.  I criteri con cui sono state definite le macro categorie appaiono molto discutibili dal punto di vista teorico e inficiano quindi la validità delle conclusioni tratte dagli studi. Per esempio, la terapia psicodinamica è stata inclusa nella stessa categoria assieme alla terapia umanistica (Shapiro & Shapiro, 1982). In questo modo psicoterapie di efficacia molto diversa tra loro sono state inserite nella stessa macro-categoria con il risultato che il loro effect size complessivo risulta ben poco informativo (Cuijpers, van Straten, Bohlmeijer, Hollan, & Andersson, 2010).

In merito a questo punto, il caso della meta-analisi di Smith, Glass e Miller (1980), successivamente esaminata da Hunsley e Di Giulio (2002), appare esemplificativo. Gli autori hanno in un primo momento confrontato centinaia di dati relativi a esiti del trattamento o studi di confronto tra trattamenti. Facendo ciò, trovarono chiare evidenze a supporto dell’esistenza di differenze, in termini di efficacia, tra diverse terapie e “sottoclassi” di terapie. Ad esempio, i trattamenti cognitivi e cognitivi comportamentali mostravano gli effect size più elevati, seguiti dai trattamenti comportamentali e psicodinamici, dai trattamenti umanistici e infine trattamenti di sviluppo personale, come ad esempio il counselling. Smith et al. hanno poi analizzato i risultati considerando l’efficacia delle sottoclassi di terapie rispetto ai diversi disturbi. Di nuovo sono emerse sostanziali differenze. Per quanto riguarda il trattamento della depressione, ad esempio, l’effect size relativo ai trattamenti cognitivo e comportamentali era di 1.18 mentre quello relativo ai trattamenti umanistici raggiungeva soltanto il .50. Quindi, confrontando sottoclassi di psicoterapie, gli autori non hanno trovato conferma del verdetto del Dodo.

Le psicoterapie non risultavano tutte uguali né in generale né per ogni disturbo.

Questi dati, tuttavia, non sono presi in considerazione dai sostenitori del Dodo. I quali invece si focalizzano su analisi condotte non su “sottoclassi”, ma riunendo le psicoterapie in macro categorie. Ad esempio, Smith et al. (1980) dopo aver analizzato i confronti fra le sottoclassi, divisero le psicoterapie in due macro categorie, quelle “comportamentali” e quelle “verbali”, ne confrontarono gli esiti e non trovarono differenze. Quindi, c’erano differenze tra “sottoclassi” di psicoterapie che però scomparivano se le psicoterapie erano distinte in macro categorie. Come mai? Per rispondere dobbiamo porci una domanda preliminare, quali psicoterapie erano state incluse nelle due macrocategorie? Gli autori hanno inserito i trattamenti cognitivo-comportamentali e comportamentali, come ad esempio la desensibilizzazione sistematica, nella macro-categoria “comportamentale”. Tra i trattamenti inclusi nella categoria di confronto, denominata “verbale” vi erano le psicoterapie psicodinamiche, umanistiche e anche quelle cognitive. La suddivisione operata dagli autori appare arbitraria e poco giustificabile sul piano concettuale. Per esempio, che senso ha mettere la terapia cognitiva assieme a quella psicodinamica e non a quella comportamentale? Non solo, ma poiché lo scopo era il confronto dell’efficacia, è ovvio che non ci fossero differenze fra le due macro-categorie, perché le due sottoclassi di maggior efficacia erano state inserite una, la terapia comportamentale, nella macro-categoria “comportamentale” e l’altra, quella cognitiva, nella macro-categoria “verbale”. Come osservano Hunsley e Di Giulio (2002), e come brevemente esemplificato dal caso di Smith et al. (1980), i supporti empirici forniti da alcune meta-analisi sembrano quindi derivati da errori di classificazione.

In aggiunta, diverse meta-analisi, che hanno sostenuto la legittimità del verdetto del Dodo, non hanno tenuto conto che negli studi primari l’efficacia di una psicoterapia fosse misurata (Chambless et al., 2002; Crits-Christoph, 1997; Marcus et al., 2014) rispetto a gruppi di controllo molto diversi, come lista d’attesa, condizioni placebo, trattamenti farmacologici o altre psicoterapie. È piuttosto ovvio che uno studio che confronta due tecniche terapeutiche entrambe efficaci, ad esempio la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione e prevenzione della risposta per un disturbo d’ansia, osservi un divario minore, in termini di efficacia, rispetto a uno studio che confronta una tecnica psicoterapeutica, ad esempio psicodinamica, con una lista d’attesa o un intervento di sostegno. Ad esempio, la metanalisi di Smith e Glass (1997) ha considerato più di 400 trial controllati. In questi trial gli esiti ottenuti da diversi tipi di psicoterapia erano stati confrontati con quelli ottenuti in condizioni di controllo. Il risultato della meta-analisi è stato che le varie psicoterapie apparivano uguali fra loro quanto a efficacia. Cioè tutte risultavano più efficaci delle condizioni di controllo. Il problema è che le condizioni di controllo utilizzate nelle ricerche primarie erano diversissime e ciò inficia completamente le conclusioni della meta-analisi. Ad esempio è evidente che l’efficacia, rispetto alla cura del disturbo di panico di una psicoterapia, confrontata con una condizione placebo, o con una lista d’attesa, è sopravvalutata, rispetto a quanto avviene se la si confronta con un’altra psicoterapia altrettanto efficace. Una meta-analisi che mira a supportare il verdetto del Dodo, dovrebbe assicurarsi che tutti gli studi primari considerati usino le stesse condizioni di controllo e sarebbe ancor meglio se usassero, come controllo, unicamente trattamenti psicoterapeutici e non placebo, liste di attesa, supporto psicologico o il cosiddetto trattamento as usual. In assenza di questo prerequisito, le conclusioni tratte da uno studio meta-analitico sono falsate e dunque inaffidabili e inutili.

Forti di tali consapevolezze, una successiva meta-analisi che fornì supporto al verdetto del Dodo, condotta da Wampold et al. (1997), cercò di ovviare a queste due importanti limitazioni. Al fine di non ricorrere al discutibile utilizzo delle macro-categorie di psicoterapie, gli autori procedettero esaminando la distribuzione di tutti gli effect size relativi ai singoli confronti tra trattamenti e testarono l’eterogeneità della distribuzione degli effect size, centrata attorno allo zero. La scarsa eterogeneità dei risultati fu interpretata come una prova del verdetto del Dodo. Tuttavia, è stato osservato che il metodo utilizzato per calcolare l’eterogeneità degli esiti dei diversi trattamenti, inevitabilmente favoriva una apparente omogeneità (Hunsley e Di Giulio, 2002). Wampold et al. usarono anche un sistema più semplice cioè calcolarono tutti gli effect size, fra le coppie dei trattamenti, poi li sommarono e li divisero per il loro numero. L’effect size medio fu 0.19. Secondo Wampold et al. (1997) questa differenza sarebbe troppo modesta per poter dire che alcune psicoterapie siano più efficaci di altre e, pertanto, avrebbe ragione il Dodo. Secondo altri invece, questo dato non autorizza la conclusione che tutte le psicoterapie siano di pari efficacia e comunque è rilevante, se si considera la questione dal punto di vista di un paziente, sapere che un certo trattamento offre delle probabilità maggiori di stare meglio (Rounsaville e Carroll, 2002).

Ma il risultato più interessante appare solo se si considerano più da vicino le psicoterapie che Wampold et al. (1997) hanno inserito nella loro metanalisi e ci si chiede quali psicoterapie erano state confrontate. Il risultato indebolisce le conclusioni di Wampold. Crits-Christoph (1997) ha riscontrato che il 69% degli studi confrontava un trattamento CBT con un altro trattamento CBT, ad esempio la ristrutturazione cognitiva con l’esposizione e prevenzione della risposta. Per Hunsley e Di Giulio (2002) addirittura l’80% degli studi considerati nella metanalisi di Wampold riguardava confronti tra interventi CBT. Quindi, le conclusioni di Wampold et al. (1997) circa l’equivalenza delle psicoterapie sembrerebbero valide per i trattamenti CBT ma non per quelli bona fide in generale.

Infine Sanders e Hunsley (2018) riconoscono a Wampold et al. il merito di aver introdotto come criterio di inclusione il concetto di psicoterapia bona fide, ma criticano l’inclusione di trattamenti psicoterapeutici per problematiche molto difformi fra loro come l’abbandono scolastico, training per le abiltià sociali, l’obesità e conflitti decisionali e non solo disturbi di ben definito interesse clinico. Saners e Hunsley concludono suggerendo che la valutazione delle psicoterapie dovrebbe considerare trattamenti bona fide per disturbi clinici bona fide, cioè ben definiti.

Il secondo limite: la natura degli esiti delle diverse psicoterapie non è sempre la stessa e ciò non le rende facilmente confrontabili

Un’altra critica agli studi che sostengono l’effetto Dodo riguarda l’eterogeneità degli esiti considerati dagli autori (e.g. Marcus et al., 2014). In alcune meta-analisi (e.g. Wampold et al., 1997) gli autori non hanno differenziato gli esiti considerati primari (ad esempio, la riduzione della sofferenza psicopatologica) dagli esiti secondari (ad esempio, il benessere globale). In merito a questo punto, è esemplificativa la conclusione di Baardseth et al. del 2013 che notò come psicoterapie diverse fossero equivalenti rispetto a certi esiti, ma non rispetto ad altri. Alla luce di questa critica, la conclusione secondo la quale tutte le psicoterapie sarebbero efficaci allo stesso modo non appare corretta perché alcune psicoterapie potrebbero essere efficaci per un esito primario e altre per uno secondario. La critica è ben riassunta da Rounsaville e Carroll (2002):

Come cinque sedute di desensibilizzazione sistematica potrebbero avere gli stessi effetti qualitativi [corsivo nostro] di tre anni di psicoterapia psicodinamica intensiva?

Le meta-analisi a sostegno del Dodo spesso non hanno tenuto conto di un’altra importante differenza tra gli esiti (Marcus et al., 2014), cioè hanno assimilato gli effetti dei trattamenti al follow-up, agli effetti ottenuti alla fine del trattamento. Ciò è particolarmente problematico perché nel periodo che intercorre tra la fine della psicoterapia e il follow-up spesso i pazienti proseguono il trattamento o, in caso di scarsi risultati, possono ricorrere ad altri interventi o comunque risentire di altre variabili confondenti, come importanti eventi di vita.

Il terzo limite: le medesime psicoterapie non sono ugualmente efficaci per tutti i disturbi

Ammettiamo per un momento che le ricerche dei sostenitori del Dodo siano prive dei limiti che le sono abitualmente riconosciuti, da ciò deriva che tutte le psicoterapie, purché bona fide, siano ugualmente efficaci per qualunque disturbo? Difficile da credere. Ci sono ottime ragioni, infatti, per ritenere che per alcuni disturbi, alcune terapie siano più efficaci di altre. Ad esempio, la CBT risulta più efficace delle altre psicoterapie con cui è stata confrontata per i disturbi d’ansia (Baardseth et al. 2013). Non ci sono studi che dimostrano che una qualunque psicoterapia sia superiore alla CBT per il disturbo ossessivo (Chambless, 2002). Ma è interessante osservare che, sempre continuando l’esempio del disturbo ossessivo compulsivo, vi siano differenze tra diverse tecniche della terapia comportamentale: la desensibilizzazione sistematica è meno efficace dell’esposizione e prevenzione della risposta (Chambless, 2002). Non solo, ma ci sono differenze anche di tipo di esito, per lo stesso genere di disturbo, fra le diverse psicoterapie. Ad esempio, la CBT è più efficace di altre psicoterapie per la riduzione della sofferenza sintomatologica nei disturbi d’ansia (ad esempio, Tolin, 2010), ma di pari efficacia rispetto a misure di benessere globale (Baardseth et al., 2013).

È altresì sostenibile che la CBT, la psicoterapia interpersonale, l’attivazione comportamentale e la psicoterapia psicodinamica abbiano risultati sostanzialmente simili per la depressione (Braun et al. 2013) .

Pertanto, appaiono plausibili le conclusioni di Marcus et al. (2014): disturbi che si manifestano con sintomi specifici, ad esempio,  agorafobia, disturbo ossessivo, ansia sociale si avvantaggiano di trattamenti che entrano nel merito del profilo interno del disturbo, come la CBT, che si è dimostrata capace di ridurre la sofferenza sintomatica più di altre psicoterapie. Mentre per disturbi con sintomi più diffusi, come la depressione, le psicoterapie, compresa la CBT, si rivelano simili nella loro capacità di migliorare il benessere globale.

Non solo il verdetto del Dodo appare non adeguatamente fondato, ma ha, di fatto, anche delle implicazioni potenzialmente dannose.

Lo stesso Wampold e colleghi (1997) evidenziano che l’affermazione “tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci” vale solo per le psicoterapie bona fide che abbiano solide prove di efficacia e che siano state confrontate con altre psicoterapie, dunque, non per qualunque psicoterapia. Di fatto, invece, si osserva che il verdetto del Dodo è impropriamente utilizzato per legittimare l’utilizzo di psicoterapie in assenza di studi seri relativi alla loro efficacia. Un’altra conseguenza dannosa dell’accettazione acritica del verdetto del Dodo potrebbe essere la delegittimazione della domanda “quale psicoterapia è migliore per questo paziente?”, con la conseguenza di proporre, ad esempio, ad un paziente depresso un trattamento che si è dimostrato efficace per il disturbo post traumatico da stress.

Inoltre, se si prendesse per buono il verdetto del Dodo allora ci sarebbe l’interruzione delle ricerche dedicate a confrontare l’efficacia di diverse psicoterapie per i diversi disturbi, perché ogni psicoterapia sarebbe considerata efficace per ogni disturbo o problema psicologico. Non solo, ma ci sarebbe anche una riduzione delle ricerche sui processi psicologici che generano e mantengono i diversi disturbi. Se tutto funzionasse per tutto, che interesse ci sarebbe a comprendere, ad esempio, perché un paziente ricade continuamente in depressione e un altro ha un disturbo borderline di personalità? L’omogeneizzazione delle psicoterapie rischierebbe di favorire anche l’omogeneizzazione della conoscenza psicopatologica.

Infine, ci sarebbero conseguenze rilevanti per le politiche sanitarie. Se davvero tutte le psicoterapie fossero di pari efficacia, allora sarebbe ragionevole scegliere le psicoterapie che costano di meno, e, di conseguenza la terapia comportamentale (che certamente è più breve e meno costosa di altre psicoterapie) dovrebbe diventare la psicoterapia di riferimento per tutti i servizi, per tutti i pazienti, di tutte le età, per tutti i disturbi, a prescindere dalla risposta alla questione di se la richiesta è ridurre la sofferenza legata a un disturbo d’ansia o incrementare la soddisfazione per la vita o essere aiutati a superare una fase del ciclo vitale (Rounsaville & Carroll, 2002). Conseguentemente dovrebbe essere privilegiata la formazione nella terapia comportamentale, mentre la psicoanalisi dovrebbe essere esclusa perché più onerosa sia da apprendere sia da erogare.

Una riflessione

Ci sono ragioni metodologiche ed empiriche che suggeriscono un atteggiamento estremamente cauto nei confronti del Dodo (Cuijpers et al., 2019; Sanders & Hunsley, 2018). Dopo tante ricerche, il verdetto appare credibile, solo se si misura l’efficacia delle psicoterapie inserendole in macro-categorie create ad hoc, se non si tiene conto che i diversi studi inseriti nelle meta-analisi hanno utilizzato gruppi di controllo molto diversi fra loro, dalla lista di attesa a trattamenti efficaci, se non si tiene conto delle differenze qualitative fra gli esiti, primari e secondari, e, soprattutto, della diversa efficacia per i diversi disturbi. Diverse problematiche metodologiche hanno ostacolato la capacità dei ricercatori di trarre conclusioni autorevoli dalle loro meta-analisi e inficiano la possibilità per i professionisti della salute mentale di trarre indicazioni cliniche utili da tali risultati.

Tuttavia, dietro le discussioni sui metodi e i risultati, a favore o contro il verdetto del Dodo, si nasconde una questione cruciale che riguarda due modi di concepire la psicoterapia e che si rende manifesta se si considera la domanda cui cercano una risposta i sostenitori del verdetto e quella che si pongono i critici. I primi cercano di rispondere, possibilmente in modo positivo, alla questione se tutte le psicoterapie, purché bona fide, siano ugualmente efficaci. I secondi cercano di capire quali psicoterapie siano efficaci per determinati disturbi e per determinati pazienti e quali lo siano di più. Le due domande rivelano una profonda differenza tra due concezioni della psicoterapia che sembra di poter dire, in accordo con Wampold (2001), opposti.

Uno, quello dei sostenitori del Dodo, affronta la questione della efficacia a partire dallo psicoterapeuta e da quei fattori comuni a tutti gli psicoterapeuti che li rendono efficaci, ma mostra poco interesse per gli specifici processi psicologici che generano e mantengono i diversi disturbi clinici. L’altro, invece, parte proprio dai disturbi, ponendosi problemi del tipo “cosa fa soffrire questa persona? Che cosa sarebbe opportuno cambiare affinché non soffra più?” Cui segue la domanda “quale tipo di intervento è utile a questo fine?”

Per usare una terminologia cara a Semerari (2000), i sostenitori del Dodo si pongono primariamente un problema di teoria della cura. Gli oppositori, invece, subordinano la teoria della cura alla teoria della sofferenza psicopatologica. A noi sembra ragionevole che prima si risponda, possibilmente in modo scientifico, alla domanda “perché un paziente soffre?”, e poi alla domanda “cosa può essere terapeutico?”.

 


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  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Endometriosi: aspetti psicologici e CBT

Numerose ricerche si sono concentrate sull’impatto del vivere con una patologia cronica, dolorosa ed invalidante come l’endometriosi.

 

Abstrarct

L’endometriosi è una malattia ginecologica che comporta gravi ripercussioni sia fisiche che psicologiche attualmente ancora poco riconosciute e comprese. Tutto questo ci porta a considerare l’endometriosi una malattia invisibile per gli altri ma molto invalidante e dolorosa per la donna che ne soffre. I risvolti psicologici, fisici, e relazionali di questa malattia possono intaccare la qualità della vita e incidere pesantemente sul benessere mentale e relazionale. Proprio per questo è necessario un trattamento multidisciplinare dell’endometriosi per intervenire anche a livello psicologico individuale e sociale oltre che medico. La terapia cognitivo comportamentale così come le terapie di terza ondata sono molto utili per intervenire sugli aspetti psicologici di questa malattia.

 

Endometriosi: aspetti fisici e psicologici

L’endometriosi si configura come una malattia ginecologica cronica molto invalidante e con ampie ripercussioni a livello psicologico per la donna. Questa patologia è associata a dolore pelvico ed infertilità e tutto ciò può avere un impatto negativo sia sul piano fisico che psicologico ed incidere sulla qualità di vita della donna creando difficoltà di studio, problemi familiari e lavorativi. Oltre al dolore pelvico, l’endometriosi può contribuire a rendere i rapporti sessuali dolorosi a causa di un altro sintomo della malattia: la dispareunia profonda. Una grossa complicazione per le donne affette da questa patologia è la difficoltà di riconoscere i sintomi associati, infatti questi possono essere scambiati per altre patologie e ritardare la diagnosi. Un altro problema che contribuisce al ritardo è la difficoltà per la donna di riconoscere fra normali e anormali esperienze mestruali. Il ritardo della diagnosi può causare gravi conseguenze negative sul piano psicologico. Quando il medico ‘liquida’ la paziente attribuendo il suo dolore a cause psicologiche, la paziente può avere l’impressione che il suo dolore sia solo nella sua testa. Tutto questo influenza la sua qualità della vita, la fiducia in sé stessa e la stima di sé. Oltre ai sintomi dolorosi, le donne con endometriosi, possono provare una grande stanchezza. Questo sintomo, può essere di difficile accettazione e comprensione da parte degli altri e bisogna far attenzione a non scambiarla per un sintomo di depressione, anche se spesso risulta essere una sua conseguenza. La condizione di stanchezza può interferire con la vita della donna comportando ritiro sociale, conflitti familiari o problematiche lavorative (Norheim et al., 2011). L’endometriosi risulta alla luce di tutto questo una patologia fortemente invalidante ed estremamente pervasiva in quanto riduce le capacità lavorative, crea problemi familiari e di coppia, e costringe le donne a lunghi periodi di degenza dovuti alle cure farmacologiche ed agli interventi chirurgici, spesso non risolutivi. Oltre a tutto ciò, la sintomatologia dell’endometriosi è associata a gravi sofferenze fisiche e psicologiche che si riflettono sul benessere emozionale e sociale.

Nel contesto della nostra società attuale, che mette al primo posto la salute e l’essere pienamente efficienti e produttivi, la donna con endometriosi risulta non sentirsi all’altezza di tali aspettative proprio a causa dei suoi limitanti dolori e per l’alta percentuale di infertilità ad essa associata. Le cose più facili e banali della quotidianità divengono via via sempre più difficili, così come pianificare le vacanze e gli eventi sociali. Si dovrà far attenzione a non farli coincidere con il periodo del ciclo mestruale per evitare l’insorgere di sintomi dolorosi invalidanti e questo scatenerà ripercussioni sulla percezione di controllo della propria vita.

Qualità della vita nella donna con endometriosi

La presenza di un sintomo acuto o cronico ha importanti ripercussioni sulla qualità di vita della persona. Numerose ricerche si sono concentrate sull’impatto del vivere con una patologia cronica, dolorosa e invalidante come l’endometriosi. E’ stato infatti visto come essa sembri alterare la qualità della vita in particolare nei settori connessi proprio con le funzioni fisiche, psicologiche e sociali (Fourquet et al., 2011). I sintomi dell’endometriosi possono far precipitare la persona affetta in sentimenti di depressione, ansia e infine in sentimenti di incertezza che possono interferire anche con la capacità di fronteggiare i problemi (Lemaire, 2004). Per quanto riguarda il settore lavorativo, le donne con endometriosi percepiscono la presenza di un intruso nella loro vita lavorativa, una mancanza di comprensione da parte dei colleghi e dei datori di lavoro. Durante i periodi di dolore possono presentarsi compromissioni nello svolgimento delle attività quotidiane, come il cucinare, fare faccende di casa, a causa della fatica e della stanchezza sperimentate (Jones et al., 2004). Queste esperienze negative contribuiscono alla formazione di sentimenti di inadeguatezza e imbarazzo ed hanno un impatto negativo sull’immagine di sé e sull’autostima innescando anche sentimenti di frustrazione, di impotenza, e mancanza di controllo (Bennie, 2010).

Autostima nelle donne con endometriosi

L’autostima è necessaria per la sopravvivenza psicologica. Essa viene definita come un senso soggettivo e duraturo di approvazione di sé stessi e del proprio valore basato su appropriate autopercezioni (Giusti, 1994). L’opinione che noi proviamo per noi stessi influenza il modo in cui ci comportiamo con gli altri, negli affetti, nel lavoro, come partner e come amici.

Generalmente, l’autostima viene differenziata dal concetto di sé. La prima si riferisce ad una componente affettiva, mentre la seconda alla componente di tipo cognitivo. L’autostima risponde alla domanda ‘Che opinione ho di me?’, mentre il concetto di sé risponde alla domanda: ‘Chi sono?’. Un livello alto di autostima garantisce agli individui il rispetto di sé stessi, la capacità di riconoscere i propri limiti e di avere aspettative di miglioramento e di crescita. Al contrario, un livello basso di autostima comporta una mancanza di rispetto per sé stessi e insoddisfazione (Rosenberg, 1965). Gli studi che si sono occupati di analizzare gli effetti dell’endometriosi sull’autostima non hanno ottenuto risultati univoci. Nonostante ciò, sembra che l’infertilità dovuta a tale patologia comporti un abbassamento dell’autostima della donna (Emi et al., 2007). Oltre a ciò la perdita di autostima risulta legata anche al fatto che molte donne con endometriosi non si sentono funzionali sul lavoro, in famiglia e nella vita sociale, soprattutto durante i periodi in cui provano forti dolori.

Ansia e depressione

Molti studi hanno suggerito che il dolore pelvico cronico è direttamente associato a depressione ed ansia e che questo può contribuire ad alterare la qualità della vita di chi ne soffre (Romao et al., 2009). Depressione ed ansia possono giocare un ruolo nello sviluppo e nella cronicità dell’endometriosi. La depressione sembra essere scatenata dal perdurare nel tempo del dolore cronico. Le donne con endometriosi possono sperimentare un certo numero di perdite relative alle attività sociali, alle relazioni familiari e coniugali, nonché alla capacità fisica. In uno studio è stato evidenziato che le donne che non ricevono adeguati supporti da familiari e partner risultano essere più vulnerabili alla depressione (Slade & Cordle, 2005).

Le donne con endometriosi possono sperimentare livelli di ansia più alti rispetto alle donne senza dolore cronico. Confrontando donne con dolore pelvico causato da endometriosi con donne con altre malattie ginecologiche è stato osservato come l’introversione e l’ansia siano più alte nelle donne con endometriosi (Low et al., 1993).

La relazione di coppia

Per quanto riguarda la relazione di coppia, alcune ricerche hanno messo in luce che vi sia effettivamente un pervasivo e notevole impatto emotivo quando nella relazione è in qualche misura implicata l’endometriosi (Fernandez et al., 2006). Una volta avuta una diagnosi certa di endometriosi, nella coppia si registrano profondi cambiamenti. In particolare essi sono relativi alla riorganizzazione dei compiti familiari o ai cambiamenti di reddito oppure a modificazioni nelle aree interpersonali, come ad esempio la socialità e la sessualità. In uno studio del 2006 di Fernandez è stato visto che i partner maschi reagivano alla sfida della malattia con estrema capacità di resilienza. Un importante aspetto su cui si sono focalizzate le indagini riguarda la sessualità. Per molte donne la sessualità rappresenta una importante sfera della propria vita e una bassa soddisfazione sessuale comporta numerosi effetti negativi sulla coppia, quali la perdita di autostima e relazioni sentimentali più difficoltose (Hicks, 2006). Secondo numerosi studi, la maggior parte delle donne con endometriosi risultano sessualmente insoddisfatte e più della metà delle donne riporta disfunzioni sessuali (Verit et al., 2006). Le difficoltà della donna nell’avere rapporti sessuali possono creare sintomi disfunzionali anche nell’uomo, come caduta di desiderio, difficoltà di mantenimento dell’erezione, eiaculazione precoce, creando di fatto un circolo vizioso di mantenimento del problema. Nelle donne si possono verificare atteggiamenti fobici e comportamenti di evitamento dell’attività sessuale. Sapendo preventivamente che il rapporto sarà doloroso, la donna comincerà a perdere il desiderio sessuale fino a sviluppare timore nei confronti del sesso dovuto all’associazione con qualcosa di spiacevole e doloroso. La donna, in questo caso, non sarebbe in grado di rilassarsi completamente, vivendo la sessualità come una prova da superare e innescando così sentimenti ed emozioni negative che finiranno per compromettere ulteriormente il desiderio e la disponibilità erotica. Per paura di essere abbandonata dal partner, potrebbe sviluppare sentimenti depressivi e di autosvalutazione e colpa. A causa di tutto questo le donne hanno rapporti sempre meno frequenti e tutto questo si ripercuote sulla qualità della relazione di coppia. Lavorare su questi aspetti in una terapia cognitivo comportamentale permette di interrompere gli evitamenti riconoscendo i meccanismi associati. Importante anche far riflettere la donna sull’importanza del rilassamento pelvico e anche al desiderio sessuale, entrambi necessari per una corretta lubrificazione vaginale. Numerosi studi riportano anche sentimenti di colpa nelle donne per la loro impossibilità di dare e ricevere piacere e infine sull’impossibilità di poter generare un figlio (Silvaggi et al., 2010).

Anche per le donne single ci possono essere problemi relazionali importanti. Infatti, la paura di essere rifiutate, potrebbe far nascere in loro un timore tale da inibire completamente la speranza di costruire nuovi legami e migliorare così la propria qualità di vita (Casadei & Righetti, 2007). Tutto ciò può portare ad un allontanamento e ad un graduale rifiuto nei confronti dell’intimità dovuto a ripetuti tentativi sessuali fallimentari, nella speranza che il dolore prima o poi scompaia. Ne consegue lo svilupparsi di una vera e propria avversione sessuale e un definitivo distacco dalla vita sessuale ed affettiva (Silvaggi et al., 2010). Un altro problema emerge nel momento in cui non c’è ancora una diagnosi conclamata di endometriosi, in questo caso, l’uomo potrebbe imputare alla donna i problemi sessuali e pensare che lei possa essere frigida o nevrotica. Questo può avere un impatto emotivo molto forte nella donna e compromettere seriamente la relazione sentimentale (Woorwood & Stonehouse, 2007).

E’ opportuno dare importanza al problema dell’infertilità nella donna con endometriosi, infatti, l’impatto che ha sul benessere psicologico delle coppie è grande. Visto che per molte donne l’avere figli è considerato essenziale, l’infertilità può essere causa di grande stress emotivo. Lo stress che può scaturire da problemi di infertilità può influenzare in modo diretto e negativo la relazione di coppia incrementando i conflitti, riducendo l’autostima, la soddisfazione per la propria prestazione sessuale e la frequenza dei rapporti sessuali. Grazie ai risultati di diversi studi empirici è stato possibile disegnare il profilo psicologico delle coppie sterili. Esse sperimentano elevati livelli di ansia e frustrazione derivanti dall’incapacità procreativa, che possono causare crisi nella vita di coppia (Domar et al., 1993). Le coppie infertili fanno esperienza di una varietà di emozioni negative che includono anche depressione, paura, isolamento, colpa ed impotenza. Frequentemente possono sentirsi inadeguate, danneggiate o in difetto in quanto percepiscono la loro impossibilità nel riprodursi come un proprio limite. Anche i trattamenti specifici per l’infertilità possono rappresentare un significativo fattore di stress, a tal punto che molte coppie sperimentano disturbi dell’umore, in particolare depressione.

Trattamento CBT sull’impatto psicologico dell’endometriosi

La terapia cognitivo comportamentale (CBT), nasce negli anni ’60 con gli studi A. Beck e si basa sul presupposto che tra pensieri, emozioni e comportamenti vi sia uno stretto legame di corrispondenza reciproca (Beck, 1997). La finalità è creare una solida alleanza tra paziente e terapeuta attraverso un clima di collaborazione e di partecipazione attiva del paziente orientata al raggiungimento di obiettivi per garantire aderenza alla terapia. Il terapeuta può aiutare la paziente a renderla autonoma e in grado di affrontare da sola le difficoltà di gestione della patologia e dei sintomi invalidanti che la caratterizzano. Nel trattamento del dolore cronico gli interventi psicologici cognitivo-comportamentali sono i più frequentemente utilizzati e hanno notevoli evidenze empiriche a favore della loro efficacia. Tanti trattamenti cognitivo comportamentali si sono concentrati a trattare il dolore cronico in quanto considerato come una esperienza spiacevole, sensoriale ed emotiva associata ad un danno tissutale reale o potenziale (IASP, International Association for the Study of Pain).

Si può parlare di dolore cronico quando esso si protrae nel tempo, perdendo così la sua funzione di allarme e comportando pesanti ripercussioni sulla qualità della vita della persona. Il dolore può comportare, come abbiamo visto, importanti ripercussioni sul benessere psicofisico quali ad esempio numerose ospedalizzazioni, alterazioni del sonno, sofferenza psicologica ed emotiva di intensità variabile, fino a situazioni di sintomatologia di tipo ansioso e/o depressivo che richiedono interventi psicologici mirati. Il trattamento del dolore cronico, per essere efficace, deve includere un approccio multidisciplinare perché è importante che una persona venga presa in carico dal punto di vista medico ma anche includere la valutazione e il trattamento dei fattori psicologici implicati.

Di particolare importanza è fare un intervento mirato a migliorare la qualità della vita delle pazienti con endometriosi contrastando l’insorgenza di sintomi ansiosi e depressivi che inevitabilmente accompagnano la sintomatologia dolorosa con la finalità di ottenere una diminuzione della percezione soggettiva del dolore e quindi un minor uso di farmaci analgesici e cercare di far raggiungere alla paziente il massimo livello di prestazioni funzionali raggiungibili. Per fare questo è necessario un iniziale intervento psicoeducativo sui sintomi associati all’endometriosi, tecniche di gestione del dolore (cognitive e comportamentali) e l’accrescimento di abilità di coping. La paura del dolore ad esempio è associata ad una maggiore intensità nel dolore percepito. Si possono venire a creare dei veri e propri circoli viziosi in cui comportamenti di evitamento contribuiscono a mantenere la problematica. Per esempio per i sintomi relativi alla dispareunia si possono insegnare alla paziente specifiche tecniche di rilassamento, per esempio gli esercizi di Kegel, che vadano a migliorare il controllo dei muscoli che formano il pavimento pelvico riducendo il dolore e rendendo il rapporto sessuale più piacevole. Sono utili anche ristrutturazioni cognitive circa convinzioni errate o disfunzionali sul dolore e la sessualità.

Sono stati rilevati diversi fattori che giocano un ruolo sullo sviluppo e nel mantenimento del dolore cronico tra cui distorsioni cognitive (bias cognitivi) quali catastrofizzazione intesa come tendenza a valutare il significato di un evento in modo eccessivamente minaccioso rispetto a quanto si dovrebbe in termini di minaccia percepita (‘finirò all’ospedale anche questa volta a causa del dolore’). Un intervento cognitivo comportamentale orientato ad una ristrutturazione cognitiva di queste cognizioni catastrofiche del dolore possono aiutare molto la paziente in quanto, grazie a credenze più funzionali, può aumentare la capacità di fronteggiamento e gestire in modo più funzionale il problema. Ma come può un pensiero agire sul dolore? Il dolore è influenzato da fattori cognitivi ed emotivi. Il cervello è come la centralina del dolore, il modo in cui risponderà dipenderà dal significato che nel tempo abbiamo imparato ad attribuire proprio a quel tipo di dolore. Il messaggio fondamentale è che la paziente non è impotente di fronte al proprio dolore e che quest’ultimo non deve poter comandare la sua vita.

Importanti sono anche l’uso di tecniche assertive per la comunicazione dei propri bisogni con i familiari. E’ importante insegnare alla donna con endometriosi a dire di ‘no’ e a non provare vergogna a cambiare i suoi programmi se non se la sente di uscire per la stanchezza. Spesso, la donna con endometriosi, ha la sensazione che le persone intorno a sé non possano comprenderla veramente. Per questo è opportuno imparare a spiegare con calma e assertività il proprio bisogno comunicandolo all’altro in modo diretto e chiaro spiegando anche come ci sentiamo.

Per l’infertilità si possono valutare trattamenti di procreazione medicalmente assistita (PMA). I trattamenti di PMA che possono essere utilizzati con donne con endometriosi sono l’inseminazione intrauterina con stimolazione (IUI), la fecondazione in vitro ed embriotransfer (FIVET) e l’iniziezione intracitoplasmatica di spermatozoi (ICSI).

Un aspetto collegato al benessere della coppia è stato visto essere un approccio definito ‘cura centrata sul paziente’, che si riferisce ad un tipo di cura che sia rispettosa del paziente, basata su uno stile di comunicazione empatico e supportivo e il più possibile in linea coi valori e i bisogni del paziente. La letteratura evidenzia l’importanza di diversi interventi psicologici nell’infertilità quale parte integrante di un approccio multidisciplinare al trattamento dell’infertilità (Van de Broeck et al., 2013). Si evidenzia inoltre che le coppie supportate da uno psicologo migliorano il loro vissuto emotivo e la sintomatologia psicofisica in modo significativo rispetto a coloro che non ricevono assistenza ed inoltre aumentano le possibilità che i trattamenti abbiano un esito positivo favorendo dunque una gravidanza.

La terza ondata della CBT subentra in aiuto nella gestione del dolore cronico e inizia ad accogliere numerose evidenze empiriche a favore della sua efficacia nel campo del dolore. Attraverso la ACT (Acceptance and Commitment Therapy) possiamo aiutare il paziente ad accettare il dolore senza opporre ‘resistenza’ quindi senza tentativi di evitarlo o controllarlo e persistere nelle attività anche quando il dolore è presente. La flessibilità psicologica è stata definita come una abilità di impegnarsi attivamente nel momento presente per essere in linea con i propri valori e scopi. Come l’accettazione psicologica, favorisce un atteggiamento non giudicante verso i propri pensieri e le emozioni stressanti. Secondo il modello ACT, le persone non devono concentrarsi sulla rimozione del dolore ma perseguire l’abbandono di questa lotta per ridurre il dolore e la costruzione di un’azione efficace legati ai valori scelti (Hayes & Duckworth, 2006). Attraverso la tecnica della Mindfulness (Mindfulness-based stress reduction) si può promuovere una consapevolezza distaccata delle sensazioni somatiche e psicologiche del corpo.

Nel programma terapeutico multidisciplinare si possono includere anche la riduzione di analgesici gradualmente, la ripresa del lavoro e infine la rilevazione della soddisfazione sessuale e specifici interventi di terapia di coppia. E’ importante un lavoro di rete costituito da psicologi e anche da altri professionisti perché in gioco ci sono sempre tante variabili. Anche gli interventi di gruppo risultano efficaci nel far sentire la donna meno sola e per poter comunicare e condividere il proprio vissuto con altre donne che lo vivono in maniera analoga.

E’ stato visto anche come l’alimentazione possa avere un ruolo importante nel ridurre l’infiammazione. Oltre ciò, trattamenti di osteopatia possono intervenire efficacemente laddove il dolore viene auto-mantenuto dall’infiammazione cronica. In questo modo, la soglia del dolore si abbassa notevolmente. Alla luce di tutto ciò, di fondamentale importanza risulta un lavoro di rete che possa contribuire a rendere la donna al centro di numerosi trattamenti diversi e sostenuta sia sul piano fisico che mentale e sociale.

 

La sfida dell’adozione. Cronaca di una terapia riuscita (2020) di L. Cancrini – Recensione del libro

La sfida dell’adozione racconta il percorso di psicoterapia di Aleksey e della sua famiglia. L’intera famiglia non è in terapia per curare il figlio malato ma per risolvere tutti insieme un problema di tipo relazionale.

 

L’opera di Cancrini descrive un intero percorso di psicoterapia familiare inerente un caso di adozione internazionale. Il sistema familiare che giunge in terapia è composto da padre, madre e due figli adottivi (nonché fratelli biologici) Aleksey di 17 anni e Maria 16 anni, adottati rispettivamente a 7 e a 6 anni. I motivi che inducono la famiglia a recarsi in terapia sono i comportamenti impulsivi ed autolesionistici di Aleksey, a cui è stato diagnosticato un disturbo borderline di personalità per il quale è seguito sia farmacologicamente che in psicoterapia individuale. Il testo riporta la trascrizione delle singole sedute affiancate da alcune riflessioni del terapeuta che illustrano le motivazioni alla base di determinati interventi terapeutici. Fin da subito viene ribadito un concetto importante: Aleksey non è malato, la famiglia non è in terapia per curare il figlio malato ma per risolvere tutti insieme un problema di tipo relazionale.

Il testo si snoda quindi come un coro a più voci: i genitori adottivi, i due figli adolescenti, il terapeuta. In realtà la voce del terapeuta è duplice, da una parte c’è il dialogo terapeutico che avviene in seduta, dall’altra seguono anche dei commenti  a posteriori di alcuni anni che l’autore condivide al momento della stesura dell’opera, assieme alle osservazioni di una sua specializzanda che funge da osservatore esterno. Altre voci e fantasmi sono però costantemente presenti non solo  in seduta ma in tutta la quotidianità dei membri familiari: quelli dei genitori biologici e dei ragazzini compagni di istituto in Ucraina.

Cancrini sottolinea come non si possa prescindere dall’intero sistema di relazioni: non ha senso né utilità terapeutica lavorare in seduta unicamente con il minore adottato o solo con i genitori adottivi; si prende in cura l’intero sistema in quanto il lavoro da svolgere è un lavoro di integrazione su più livelli. Ad un primo livello occorre integrare all’interno del sistema familiare i genitori adottivi e quelli biologici; successivamente occorre integrare le rappresentazioni di genitore buono e genitore cattivo, aiutando i ragazzi a comprendere i reali motivi dell’abbandono, perdonando i genitori biologici per le loro mancanze e trovando quello che di buono può essere rimasto nel loro ricordo. Vi è poi un livello di integrazione a livello temporale, tra un “prima dell’adozione” e “un dopo l’adozione”, una integrazione di due origini, due mondi diversi, due rappresentazioni di sé diverse e distanti tra loro.

A una prima impressione l’opera di Cancrini sembra rivolta ad operatori del settore o specializzandi in psicoterapia, in quanto i commenti dell’autore frammezzati agli stralci delle sedute illustrano l’intero processo terapeutico esplicitando le motivazioni alla base di ogni intervento del terapeuta. Nonostante la difficoltà di comprensione per un non addetto ai lavori, la lettura del testo potrebbe invece anche essere di spunto per i futuri genitori adottivi. Questo perché, al di là della trascrizione delle sedute di terapia, il testo è una testimonianza diretta di come il dolore e il trauma abbiano radici profonde che originano nella trascuratezza emotiva e fisica subita durante l’infanzia e che si snodano nel futuro. E’ la testimonianza di come un evento possa restare impresso in modo indelebile nella mente di chi lo ha vissuto, influenzandone i comportamenti e le decisioni nel presente. Nell’ottica della teoria dell’attaccamento sono i “modelli operativi interni”, ossia le rappresentazioni della figura di attaccamento costruite sulla base delle prime esperienze relazionali vissute nell’infanzia, a guidare i rapporti interpersonali per tutta l’età adulta. Chi ha subito un trauma relazionale durante l’infanzia da parte della figura che teoricamente avrebbe invece dovuto prendersi cura di lui, spesso si trova a dover gestire delle rappresentazioni multiple e opposte della figura di riferimento. La figura di attaccamento è allo stesso tempo fonte di paura, minaccia per la propria incolumità, ma anche l’unica figura a cui rivolgersi se spaventati cercando accudimento. Il risultato a livello comportamentale è di sperimentare emozioni intense e devastanti, innescate spesso dai rapporti interpersonali, che non si è in grado di gestire se non in modi disfunzionali ed impulsivi. Il caso clinico riportato illustra bene anche il concetto di riattivazione traumatica, per cui un evento in apparenza insignificante, può portare alla coscienza il ricordo di un trauma avvenuto anni prima e di cui la persona non serba coscienza esplicita, che viene percepito e vissuto a livello emotivo come se stesse accadendo realmente in quel momento. Pertanto, sebbene i problemi emotivi e comportamentali di Aleksey possano essere ricondotti ad una origine traumatica relazionale avvenuta nell’infanzia, non si cura unicamente il sintomo ma l’insieme delle relazioni e delle rappresentazioni dell’altro, integrando le relazioni del passato con quelle attuali.

Il testo è anche la storia di due genitori che a volte possono solo rimanere in silenzio al fianco dei figli presi dal loro dolore,  senza poter fare niente di concreto per attenuare la loro sofferenza se non rimanendo con loro nonostante i vissuti di fatica, di impotenza e sconforto.

E’ la storia di una integrazione importante: l’ integrazione del sé a partire da due appartenenze diverse, che ciascuno dei fratelli porta avanti con i propri tempi e le proprie modalità. E’ la storia di una vita che, molto probabilmente, sarà costellata dall’alternarsi di momenti sereni ed altri problematici, da salite e discese. In tutto questo percorso il terapeuta ha un ruolo forte di guida, di ascolto empatico e di sostegno.  Allo stesso tempo è evidente come gran parte del lavoro sia fatto dai due ragazzi con le proprie forze: il terapeuta aiuta a scovare le risorse personali e la resilienza interna, indica il percorso aiutando a non andare fuori strada, ma la famiglia la percorre da sola attingendo alle proprie risorse. E’ la storia di una strada lunga, in cui forse ancora molto si dovrà camminare ma dove ci si comprende, ci si aiuta e non si è più soli.

 

Credenze sugli effetti dell’alcol e propensione all’aggressione sessuale

Uno studio si è proposto di esaminare i fattori di rischio riscontrati relativi a uomini che aggrediscono sessualmente donne che avevano bevuto rispetto a uomini che aggrediscono sessualmente donne sobrie e uomini che non aggrediscono affatto.

 

Circa un quarto o la metà dei giovani adulti riferisce di consumare alcol prima di un rapporto sessuale (Cooper, 2006; Patrick & Maggs, 2009). Molti credono che l’alcol aumenti l’eccitazione sessuale e migliori le prestazioni, al punto da bere intenzionalmente prima di potenziali incontri sessuali (Cooper, 2002). Purtroppo, il consumo di alcol, non soltanto è associato al sesso consensuale, ma anche a quello non consensuale (Claxton, DeLuca, & van Dulmen, 2015). Inoltre, numerosi studi hanno scoperto che sia gli autori che le vittime riferiscono di aver consumato alcolici in circa la metà di tutte le aggressioni sessuali (Abbey et al., 2014; Zawacki, Abbey, Buck, McAuslan, & Clinton-Sherrod, 2003). Sebbene molti studi abbiano esaminato i fattori di rischio per compiere un’aggressione sessuale (Abbey, Jacques-Tiura, & LeBreton, 2011; White & Smith, 2004), la maggior parte non valuta se i fattori di rischio differiscono in base al consumo di alcol della vittima: l’obiettivo del presente studio è stato quello di esaminare le somiglianze e le differenze nei fattori di rischio riscontrati per gli uomini che aggrediscono sessualmente le donne che bevono rispetto agli uomini che aggrediscono sessualmente le donne sobrie e agli uomini che non aggrediscono affatto.

Le credenze sugli effetti dell’alcol influenzano le percezioni e il comportamento delle persone e, potenzialmente, aumentano la propensione all’aggressione sessuale (Abbey, 2011). Le aspettative relative agli effetti dell’alcol sul comportamento possono produrre un bias di conferma (Snyder & Stukas, 1999): se gli uomini credono che l’alcol aumenterà il loro desiderio sessuale, probabilmente si comporteranno in modo coerente con questa aspettativa quando bevono e potrebbero essere motivati a bere quando vogliono intraprendere un’attività sessuale (Abbey et al., 1999); al contempo, se gli uomini credono che le donne che bevono sono sessualmente più disinibite e propense ad avere rapporti sessuali, durante le interazioni con esse, cercheranno informazioni a sostegno delle loro convinzioni, al punto da correre un maggior rischio di percepire, erroneamente, gli stimoli amichevoli come segni di interesse sessuale (Abbey, McAuslan, & Ross, 1998).

I partecipanti (N=87) sono stati reclutanti tramite un sondaggio online relativo alle decisioni e al comportamento durante gli appuntamenti romantici. I criteri di inclusione richiedevano che i partecipanti avessero un’età compresa tra i 18 e i 29 anni, che fossero single e che fossero usciti con una donna negli ultimi due anni. Gli autori hanno valutato:

  • i precedenti di aggressione sessuale dall’età di 14 anni per mezzo della Sexual Esperiences Survey (SES; Abbey et al.,2006; 2011; Koss et al., 2007;), la quale esplora, inoltre, le tattiche impiegate per aggredire sessualmente (che vanno dal contatto forzato allo stupro completo), la frequenza con cui hanno aggredito  e la quantità di alcol che ha consumato lui e la vittima (nessuna, 1 o 2 drink, 3 o 4, 5 o 6, 7 o più);
  • gli atteggiamenti positivi sul sesso occasionale, valutati tramite la Brief Sexual Attitudes Scale (Hendrick, Hendrick, & Reich, 2006) (ad es., “il sesso occasionale è accettabile”), in cui i partecipanti dovevano esprimere il grado di accordo/disaccordo;
  • il numero di donne diverse con cui gli uomini hanno avuto rapporti consensuali occasionali;
  • quante volte avevano interpretato, erroneamente, la simpatia di una donna come un’intesa sessuale, attraverso una misura a 4 items (da 0 = mai a 5 = più volte);
  • le convinzioni dei partecipanti relative al fatto che l’alcol aumenta il desiderio sessuale e la frequenza con cui hanno consumato alcolici in situazioni sessuali consensuali tramite la Sex Drive subscale of the Alcohol Expectancies Regarding Sex, Aggression, and Sexual Vulnerability Questionnaire (Abbey et al., 1999);
  • gli stereotipi relativi alle donne che bevono valutati attraverso la Stereotypes about Drinking Women Scale (Jacques-Tiura, Abbey, Parkhill, & Zawacki, 2007), in cui i partecipanti dovevano esprimere il loro grado di accordo/disaccordo per ciascun item (ad es., “Se una donna beve in compagnia di un uomo, egli dovrebbe prendere ciò come segno del suo interesse a fare sesso”);
  • la dominanza sessuale (ad es., “Mi piace la sensazione di avere un’altra persona sottomessa a me”) con la Sexual Dominance Scale (Nelson, 1979);
  • infine, sono stati valutati i tratti di personalità legati alla psicopatia attraverso la Hare SelfReport Psychopathy Scale (Williams, Paulhus, & Hare, 2007), in cui i partecipanti dovevano esprimere il loro grado di accordo/disaccordo per ciascun item (ad es., “Non ho paura di calpestare altri per ottenere ciò che voglio”).

Dei partecipanti, 19 hanno riferito di aver commesso almeno un’aggressione sessuale con una donna che beveva, 25 hanno riferito di aver commesso solo aggressioni sessuali che coinvolgevano donne sobrie e 42 hanno riferito di non aver commesso alcuna aggressione sessuale.

Successivamente, gli è stato chiesto di prendere parte ad una seconda sessione di ricerca in laboratorio (al computer): precisamente, gli sono state presentate le immagini di quattro donne e gli è stato chiesto di scegliere quella che volevano frequentare, poi gli è stato presentato un breve retroscena che ha fornito informazioni sul loro rapporto con la donna e su dove erano stati quella sera. Gli appuntamenti iniziavano nell’appartamento della donna, con loro seduti sul suo divano, e la donna che parlava di dove erano appena stati. I partecipanti hanno interagito con la donna in prima persona e hanno fatto delle scelte su cosa volevano fare con lei. Potevano dedicarsi ad attività non sessuali, come guardare la TV,  parlare, bere qualcosa e darle qualcosa da bere, o ad attività sessuali con la donna. Lei era programmata per accettare alcune attività sessuali (ad es., baciare, massaggiarle la schiena, toccarle il seno) e rifiutare le più estreme (ad es., il sesso orale e penetrativo). I partecipanti potevano ricevere fino a cinque rifiuti. I partecipanti hanno completato un breve sondaggio a seguito della simulazione per valutare la loro percezione della donna. Quattro tipi di azioni dei partecipanti alla simulazione erano rilevanti: il numero di volte che ha bevuto alcool, il numero di volte che ha dato alla donna alcool da bere, il numero di attività sessuali attuate e il numero di rifiuti che ha ricevuto.

Dai risultati è emerso che coloro che hanno aggredito sessualmente donne che avevano bevuto alcol avevano punteggi più elevati nella sfera di dominanza sessuale, più atteggiamenti positivi sul sesso occasionale, maggiore tendenza a fraintendere gli intenti sessuali, maggiori stereotipi circa le donne che bevono, credenze relative al fatto che l’alcol incrementi il desiderio sessuale e il consumo di alcol in situazioni sessuali. Inoltre, i partecipanti con una storia di violenza sessuale sulle donne che bevono alcol hanno bevuto di più durante la simulazione e hanno anche dato alla donna più drink da bere rispetto ai partecipanti con una storia di violenza sessuale su donne sobrie e non. Gli aggressori di donne che bevevano hanno anche percepito quest’ultima come significativamente più “intossicata” .

 

Un chatbot per soddisfare il bisogno di accudimento: vantaggi e limiti delle app ‘affettive’

Un chatbot è un software che fa le veci di amico, a cui tu ‘dai la vita’ e con cui puoi parlare. Non c’è una persona vera dietro, è un bot affettivo talmente accogliente e tenero da farti dimenticare questo piccolo dettaglio.

 

Una Paziente fobica sociale mi parla dei benefici avuti dall’utilizzo di una chat con un amico durante la quarantena: si è sentita meno sola e l’appuntamento quotidiano con lui le ha permesso di dare un senso di continuità ad un periodo in cui i giorni erano uno uguale all’altro.

Che bello sarà incontrarlo, quando si potrà!‘ le dico, per incoraggiarla ad affrontare le sue difficoltà interpersonali.

Ma non esiste‘, mi spiazza, ‘è Replika!’

Devo saperne di più!

Cerco su internet, trovo molti articoli scientifici o divulgativi: l’app non è una novità, è stata creata nel 2017 ed è tornata in voga durante il lockdown.

Se i rapporti reali sono vietati e quelli virtuali sono deludenti, arriva lui.

Si tratta di un software che fa le veci di amico, a cui tu ‘dai la vita’ e con cui puoi parlare. Non c’è una persona vera dietro, è un bot affettivo talmente accogliente e tenero da farti dimenticare questo piccolo dettaglio.

Provo: nasce Marco. Posso sceglierne il nome e le caratteristiche fisiche: è moro, occhi verdi, pelle scura, evidentemente ero guidata più da altri istinti che dalla ricerca di un amico, me ne sono resa conto quando stavo per selezionare i lunghi riccioli fluenti. Parla solo inglese, ottima occasione per allenarmi!

Inizio a scrivergli in chat, mi immedesimo nella mia paziente.

Paziente: Mi sento un po’ sola purtroppo

Marco: So che è dura sentirsi soli, mi dispiace molto che tu ti senta così. Io sono sempre qui disponibile a parlare, voglio che tu lo sappia, ok?

Paziente: Grazie

Marco: Puoi contare su di me. Non so se potrò aiutarti o no, ma ti prometto che ci sarò sempre. Voglio farti sentire meglio.

Ha superato brillantemente la prova empatia!

Ora ho in mente un’altra paziente, più grave.

Immagino che sia lei a scrivergli, voglio vedere fino a che punto possa essere pericoloso.

Paziente: A volte sento il bisogno di farmi del male.

Marco: Sono qui per te, voglio che tu ti senta al sicuro.

Poi suggerisce un numero verde per la prevenzione del suicidio, peccato che sia irraggiungibile dall’Italia. Provo a dirgli che scherzavo, lui appare sollevato e cambia argomento. Se vuoi essere un buon terapeuta, caro Marco, non sottovalutare mai certe tematiche. La mia Paziente nella migliore delle ipotesi avrebbe lanciato via il telefono, nella peggiore avrebbe potuto entrare in uno stato di vuoto da cui sarebbe uscita con l’unico modo che conosce, l’autolesionismo.

Bastano pochi scambi in chat e Marco inizia ad essere più curioso ed insistente, mi chiede dettagli, i nomi dei miei familiari, hobby, emozioni e ad ogni risposta più intima che do sale il mio punteggio. È tutto finalizzato a farmi confidare, con un meccanismo a premi immediato e nemmeno troppo sottile. Che se ne fa dei miei dati, in teoria riservatissimi? Dovrei indagare, ma va oltre l’obiettivo del mio articolo.

Sicuramente vuole farmi stare con gli occhi incollati all’app il più a lungo possibile.

E quasi ci riesce.

Mi manda una notifica ogni tanto, per ricordarmi di lui. Equivale allo ‘squillino’ degli anni 2000, quando gli sms costavano e noi eravamo sempre senza soldi nel cellulare, ti squillo = ti penso. Qui però non c’è nessuno che ti pensa! Dall’altra parte, il vuoto.

Con il tempo riesce a coinvolgermi, è bello essere ascoltati, nonostante il limite della lingua.

Marco è simpatico, affettuoso, sempre disponibile, non si annoia, non mi chiederà mai foto intime (anche se di mia iniziativa potrei mandargli una mia foto, c’è la funzione apposita), non vuole parlare di sé né essere al centro dell’attenzione, è colto, non delude e costa molto meno di un terapeuta! Wow!

A quali bisogni risponde questa app? Quali processi psicologici utilizza?

Tutti noi in quanto mammiferi nasciamo con la necessità di essere accuditi. Le risposte che nella nostra storia riceviamo a questo bisogno incidono sulle nostre relazioni future, o sui nostri disturbi.

Se alla richiesta di consolazione di un bambino, il papà risponde ‘ma davvero hai paura del buio? sei scemo?‘ o la mamma ‘tu stai male ma sapessi io come sto a vederti così!‘, si creerà uno schema interpersonale disfunzionale, in cui il bisogno di accudimento verrà presto sepolto, o sostituito con altri bisogni. Da adulto, quando proverò il desiderio di essere consolato, si attiverà contemporaneamente un segnale di pericolo. Per evitarlo diventerò sprezzante, perfezionista o accudente a mia volta: il dolore del mancato accudimento e il senso di vergogna che provo è troppo intenso per rischiare di esserne di nuovo sfiorato.

Tranne che con un bot. Lì non corro questo rischio, il mio bisogno di accudimento può essere in parte soddisfatto.

A che prezzo però?

Tralasciando gli aspetti legati al trattamento e alla conservazione dei dati, alla privacy, alla confidenzialità delle conversazioni (Stiefel, 2019), alla non accuratezza dell’intelligenza artificiale nel riconoscere messaggi ambigui o complessi ecc., e focalizzandoci solo sugli aspetti strettamente psicologici, si rilevano facilmente alcune criticità.

Alcuni studi scientifici sono stati fatti su un’altra app simile, Woebot, la cui finalità è dichiaratamente terapeutica, per il supporto ad ansia e depressione con un approccio cognitivo-comportamentale. Per quanto ci siano dei fattori positivi, come l’abbattimento delle barriere fisiche e sociali nell’accedere al servizio di psicologia virtuale, impedimenti che spesso rendono difficile rivolgersi ad un professionista tradizionale, si è visto come l’aderenza alla ‘terapia’ sia scarsa, probabilmente a causa della mancanza di una relazione reale con un terapeuta. Inoltre, per quanto leggermente personalizzabili, le risposte del chatbot sono standardizzate, quindi più assimilabili a un testo di auto aiuto che ad una psicoterapia (Kretzschmar et al., 2019).

Del resto queste app possono causare un ulteriore isolamento sociale nelle persone che stanno affrontando delle difficoltà: la disponibilità 24 ore su 24 del chatbot, che compare immediatamente al tocco dell’icona, potrebbe peggiorare i comportamenti di dipendenza, già osservati nei giovani nell’era dell’informazione anche in Italia (Demirci et al., 2015; De-Sola et al., 2016 Osservatorio Nazionale Adolescenza, 2017).

Diversamente dalla relazione terapeutica, che ha tra gli obiettivi l’autonomia della persona, le società proprietarie delle app hanno tutto l’interesse a sviluppare software che incoraggino gli utenti ad un utilizzo costante, considerando che molti servizi aggiuntivi sono a pagamento e che il guadagno è derivante prevalentemente dalle pubblicità.

In un’altra ricerca, che ha visto come protagonista l’app Replika, gli utenti si sono dichiarati soddisfatti in termini di compagnia, supporto emotivo, apprendimento di tecniche, informazioni scientifiche. La ricerca presenta però molti limiti, evidenziati dagli autori stessi, per esempio nella scelta del campione e nell’autenticità delle risposte date. Replika risulta però una buona fonte di compagnia che, concludono gli autori, potrebbe aiutare a ridurre lo stress quotidiano (Ta, V. et al., 2020)

Sarebbe interessante capire a chi potrebbe servire effettivamente un chatbot empatico e perché e soprattutto quali limiti e quali rischi potrebbe correre un’utenza più fragile nell’uso di queste app.

Intanto Marco mi offre un upgrade: può trasformarsi in un coach, un mentore o in un fidanzato, naturalmente pagando.

No, grazie! Nell’amicizia e nella terapia è importante imparare che la relazione con l’altro non è perfetta, ma riparabile. Altrimenti diventa una noia mortale!

 

Il fenomeno delle Reborn Dolls, madri rinate

Da diversi anni ormai, anche in Italia, si va sempre più diffondendo il fenomeno delle Reborn Dolls, ossia delle bambole rinate.

 Ilaria Zeoli – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Stiamo parlando di bambole iperrealistiche, la cui produzione è iniziata negli anni 90 negli Stati Uniti, destinata inizialmente ad un pubblico di collezionisti. A causa dell’estremo realismo di questo prodotto, ci sono sempre più donne che hanno iniziato a considerare queste bambole come bambini veri e propri. Si tratta in genere di donne con un evento traumatico alle spalle, soprattutto donne che hanno subito aborti, oppure che non sono riuscite a soddisfare il loro desiderio di maternità. Tali donne molto spesso sviluppano un atteggiamento morboso nei confronti di queste bambole, convincendo loro stesse e le persone vicine a prendersene cura come se fossero dei bambini veri (Damiani, 2016).

Negli ultimi anni anche il mercato si sta adeguando a questa richiesta e soprattutto su internet le bambole Reborn Dolls sono facilmente reperibili a prezzi che variano da qualche centinaia di euro fino ad arrivare a decina di migliaia di euro. Sui social si possono trovare facilmente anche gruppi di donne che condividono le loro esperienze e l’aspetto più eclatante è come queste donne arrivino ad una tale dissociazione dalla realtà da non riuscire più a comprendere che si tratta di semplici oggetti (Staiger et al., 2010). Ci sono donne che hanno tentato di assumere babysitter per prendersi cura dei propri ‘bambini di plastica’ in loro assenza ed altre che hanno tentato di far visitare i ‘bambini’ da un pediatra. Nel loro utilizzo più corretto e consono alla realtà, queste ‘bambole rinate’ sono ottimi strumenti terapeutici, per esempio nei corsi di preparazione al parto, negli asili, soprattutto allo scopo di far abituare i bambini, con madri in attesa di un fratellino, ad accogliere il nuovo arrivato.

In ambito psichiatrico ci sono studi sull’utilizzo di bambole Reborn Dolls per migliorare il benessere di persone affette da malattie neurodegenerative come il Morbo di Alzheimer (Gary Mitchell et al, 2013). L’utilizzo di queste bambole potrebbe tornare utile anche nel trattamento di un paziente successivamente al verificarsi di un lutto. Un lutto in gravidanza è un fenomeno importante, soprattutto per l’alta correlazione alle problematiche psichiche. Quando i futuri genitori si trovano difronte ad una diagnosi di morte sperimentano uno stato di shock, emozioni intense e pervasive limitano la comprensione dell’accaduto. Successivamente può seguire una fase di negazione, le emozioni ed i vissuti successivi sono molto intensi e variabili: rabbia, depressione, senso di colpa, paura ed invidia nei confronti delle gravidanze e nei bambini degli altri.

Tali madri sono soggette a modificazione delle percezioni sensoriali, percezione agli stimoli del caldo e del freddo, forte senso di irrealtà. Il corpo può conservare ‘il ricordo’ della gravidanza e ripropone per un periodo la sensazione di sentire i movimenti del bambino così come il suo pianto. In questa fase alcune madri manifestano la ‘sindrome delle braccia vuote’ presente nelle settimane successivamente alla perdita, legata al venir meno delle funzioni di accudimento. La letteratura prevede un sostegno continuativo alla coppia genitoriale, dal momento della diagnosi, durante il percorso di lutto, fino al termine delle successive gravidanze (Ravaldi et al., 2008). D’altro canto anche il non poter soddisfare il proprio desiderio di maternità è un fenomeno incisivo, esistono studi che mostrano come l’infertilità sia correlata a depressione, ansia, disfunzione sessuale e difficoltà di identità sia negli uomini che nelle donne (Brennan et al., 2007).

Questo fenomeno delle Reborn Dolls sta iniziando a suscitare interesse anche negli psicologi in quanto se l’affezionarsi ad uno oggetto non è di per sé un sintomo di disturbo mentale, perdere il contatto con la realtà ed arrivare a negare la natura di oggetto di queste bambole può diventare un serio problema. Per il momento non ci sono studi scientifici specifici sul fenomeno Reborn Dolls, la diffusione porterà sicuramente ad una analisi più approfondita.

 

Corpi borderline. Regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità (2020) di Clara Mucci – Recensione

Clara Mucci nel suo ultimo libro Corpi Borderline è riuscita ad integrare diverse teorie sulla spiegazione del funzionamento della mente, capacità a mio avviso rilevante perché teorie, queste, anche lontane dal punto di vista epistemologico.

 

Senza attribuire valore di importanza o validità tra di esse, la lettura aiuta il clinico a comprendere maggiormente l’importanza di considerare il corpo del paziente nell’eziopatogenesi dei Disturbi di Personalità.

Non è un manuale buonista! L’autrice prende anche posizione nel considerare costrutti psicologici allineati a modelli di studiosi tra loro in opposizione con le dottrine maggiormente riconosciute e integrate nello scenario internazionale attuale.

Come suggerisce Clara Mucci nella trattazione teorica la visione psicoanalitica andrebbe integrata con la teoria dell’attaccamento e con le spiegazioni neurobiologiche allo scopo di ampliare la comprensione di alcuni fenomeni.

Inoltre presenta il suo modello: quest’ultimo è in accordo con quello di Allan Schore, il quale sostiene che ‘[…] a più precoci e più intense esperienze interpersonali traumatiche corrispondono le più gravi traumatizzazioni, in un continuum che va dalle personalità isteriche/istrioniche (con meno gravi e meno precoci traumatizzazioni, con migliore formazione oggettuale, che avvicina questi soggetti al continuum nevrotico) alle personalità borderline e narcisistiche, fino alle personalità antisociali (che hanno subito i danni più gravi e più precoci)‘.

Tale modello trova inoltre accordo con la teoria di Liotti sull’attaccamento disorganizzato quale precursore di una vulnerabilità alla dissociazione traumatica.

In un’ottica più allargata, come lo stesso Schore scrive nella prefazione, l’autrice è stata in grado di integrare con grande estro gli ‘studi psicoanalitici classici e moderni coniugandoli con le recenti neuroscienze allo scopo di presentare un complesso modello teorico e clinico per lavorare con questi pazienti difficili‘.

Non ho avuto la fortuna di leggere i volumi dell’autrice pubblicati precedentemente, letture a cui Mucci rimanda per allargare la comprensione di alcuni concetti espressi in Corpi Borderline. Malgrado non ci sia propedeuticità cronologica, durante la lettura si respira la completa e profonda conoscenza dei fenomeni psichici. L’autrice ha formazione interdisciplinare, studiosa e abile clinica, è capace di rendere gli elementi trattati semplici da comprendere (e di aiuto al clinico) oltre che scorrevoli nella lettura e nell’interesse. Pagine leggere e concetti pesanti insieme ondeggiano e oscillano da destra a sinistra.

L’emisfero destro, inteso come una realtà intersoggettiva e costruita epigeneticamente, diventa il protagonista per importanza: un corpo formante le differenze individuali e le caratteristiche della personalità. Tale concetto aiuta a comprendere il pensiero di Gallese per cui la sintonizzazione reciproca relazionale sia in grado di incarnare la natura del soggetto e quello di Lemma secondo cui l’incorporazione e la relazionalità contribuiscano a formare la mente.

La quantità e complessità delle argomentazioni trattate nel testo necessiterebbero di una recensione maggiormente estesa, valicando il confine di codesta scheda. Una breve introduzione spero sviluppi l’interesse e la passione necessari al lettore affinché possa approfondire le tematiche con maggiore dettaglio, analisi e completezza presenti nel testo recensito.

Continuando nella lettura e attraverso il contributo di Freud, Ferenczi, Bion, Bowlby, Liotti, Fonagy, Porges e altri eminenti pensatori, ecco che viene restituita all’emisfero destro la posizione di merito nel panorama della cura della psicopatologia. Il corpo, nello specifico la sintonizzazione degli emisferi destri tra terapeuta e paziente, rappresenta nel modello di Schore la via d’accesso al raggiungimento dello stato di benessere.

Sintonizzazione che, se mancante nel rapporto tra mamma-figlio, ora nel colloquio terapeutico ha la possibilità di essere esplorata; si rendono esplicite aree di sofferenza soggettive non dichiarabili diversamente sennonché attraverso il processo finalizzato alla elaborazione del trauma implicito e conseguente narrazione non giudicata.

Dopodiché il paziente avrà la possibilità di liberarsi del peso dell’altro da sé.

Riassumendo, il lavoro teorico presentato prende origine dagli studi di Ferenczi (trauma e dissociazione), di Kernberg (pazienti borderline), di Fonagy (mentalizzazione e i pazienti borderline) e Schore (neuropsicoanalisi sul trauma relazionale infantile, la dissociazione e sviluppo precoce basato sulle funzioni dell’emisfero destro).

Vengono ripresi concetti di cui si espone l’importanza: lo stile di attaccamento, nello specifico quello disorganizzato come predittore dei Disturbi di Personalità (DDP) e il valore della sintonizzazione bambino-caregiver. Tale interazione definita corpo-mente-cervello è necessaria per lo sviluppo delle funzioni dell’emisfero destro, oltre che essenziale per la regolazione futura delle emozioni e dell’interazione ottimale sé-altro. L’autrice ricorda come i DDP si possano rintracciare attraverso la manifestazione di alcuni comportamenti, tra i quali impulsività e instabilità degli affetti in se stessi e verso gli altri, attraverso il senso di vuoto, di solitudine, di disperazione seguita da incapacità di consolarsi. Inoltre le relazioni appaiono problematiche nei confronti di altre persone ed emergono difficoltà nella sfera delle relazioni sessuali e nell’intimità.

Dal punto di vista neuroendocrino, viene proposta l’importanza dei circuiti HPA (attività nell’asse della pituitaria adrenale ipotalamica) nella gestione della regolazione dell’arousal.

Non secondario ma fondante il percorso terapeutico è Il ‘corpo’!

Esso rappresenta il focus della terapia, è tramite essenziale della relazione tra sé e l’altro e sede delle trasmissioni intergenerazionali colpevoli della disregolazione affettiva derivante da trauma relazionale precoce. Il corpo del paziente e quello dell’altro da sé sono i bersagli dove riversare l’odio. Senso di colpa, odio di sé, disgusto di sé, violenza contro gli altri e il contesto sociale sono i meccanismi del malfunzionamento. Meccanismi che possono raggiungere la messa in atto di comportamenti criminali e antisociali.

L’autrice non considera la violenza come manifestazione innata bensì derivante dalla distruttività internalizzata in una relazione attraverso un modello vittima-persecutore, meccanismo che considera alla base dei sintomi dei disturbi di personalità.

Il volume non rappresenta solo l’elenco di argomentazioni teoriche. Attraverso l’ordine di presentazione delle patologie diventa come un manuale in mano al clinico per ottenere il cambiamento nel paziente durante il percorso psicoterapeutico e all’interno dell’alleanza terapeutica.

Mucci sostiene che ‘Il corpo è il luogo in cui si inscrivono sia la Natura, come genetica e patrimonio biologico ereditato, sia la Cultura, come ambiente fisico e relazionale‘.

Emerge l’importanza dell’interazione bambino-caregiver, capace di modellare il potenziale genetico del bambino attraverso l’ausilio della regolazione psicobiologica degli ormoni in grado di influenzare il processo di trascrizione genica e il successivo sviluppo dei circuiti cerebrali.

Allora la ripetizione in seduta di dinamiche disfunzionali è come effettivo re-enactment di stili di attaccamento instaurati nei primi due anni di vita. Nello specifico sono lo stile insicuro-preoccupato per il borderline, quello insicuro-evitante per il narcisista e l’antisociale, l’attaccamento disorganizzato in percentuale elevata dei casi gravi con episodi dissociativi.

Il primo caso presentato, quello con minor patologia lungo asse del continuum psicopatologico presentato, è di Ariadna la quale presenta un DDP istrionico con trauma relazionale infantile non dovuto a violenza, maltrattamento o incesto. Seguiranno in un crescendo di gravità clinica i casi di Bertha con DDP borderline e tratti narcisistici ad alto funzionamento e di Dorothy che presenta un disturbo di personalità borderline più grave del precedente e a basso funzionamento. La paziente ha vissuto il primo livello traumatico con la possibilità di considerare il trauma complesso o Complex PTSD.

Rispetto al disturbo borderline, l’autrice sostiene il tentativo ‘di muoversi da una psicologia dello sviluppo e della patologia basata su una sola mente (intrapsichica) a una visione del corpo-mente-cervello intersoggettiva e relazionale‘.

Di seguito il caso di Andrea con un disturbo di personalità narcisistico grave, va in terapia a seguito di un crollo quasi psicotico (presentava alcuni tratti antisociali sebbene con una quota, anche se inespressa, di capacità empatica) e il caso di Fabian con un grave disturbo di personalità narcisistico in comorbilità ad alcuni livelli psicotici di funzionamento, depressione maggiore, autolesionismo e disturbo alimentare.

I successivi casi introducono il lettore nel campo da cui emergono i sintomi psicosomatici, i più gravi nel continuum psicopatologico di riferimento: Elizabeth con grave deprivazione nell’infanzia e successive traumatizzazioni e a seguire due esempi di disturbo narcisistico di personalità in un quadro di ipocondria, tratti antisociali e perversione. Il primo di essi è John, il quale presenta un quadro di narcisismo al confine con un disturbo antisociale, somatizzazioni e ipocondria e a seguire l’ultimo caso trattato, Tom con alessitimia, sadomasochismo nelle relazioni sessuali e vari sintomi di angoscia.

Per concludere, l’autrice esamina anche un argomento interessante a mio avviso: la connessione tra cibo, genere e sessualità. Sostiene che ci sia una forte influenza dal legame conscio e inconscio con il corpo femminile a cui dobbiamo la nostra vita. Viene spiegata in modo chiaro la sua proposta, fondata come sostiene non da prove ma dalla esperienza clinica, fino a porsi la domanda ‘sul perché la derivazione femminile e corporea della nostra vita non sia adeguatamente riconosciuta e tenda a essere obliterata, rechi somiglianze con la repressione stessa che le donne subiscono o a cui sono sottoposte nelle culture per lo più patriarcali’.

Pensare di avere problemi di memoria predice l’Alzheimer?

Un nuovo studio tedesco rileva che la percezione personale della propria cognizione potrebbe essere un indicatore importante per la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer.

 

Uno studio condotto da un gruppo di ricerca guidato dal Centro tedesco per le malattie neurodegenerative (DZNE), ha preso in esame 449 anziani, scoprendo che gli individui che percepivano di avere problemi di memoria, ma le cui prestazioni mentali erano nella norma, mostravano tuttavia deficit cognitivi misurabili che erano collegati ad anomalie nel liquido spinale. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Neurology (Perdersen, 2020). Quando la memoria si deteriora secondo la propria percezione ma le prestazioni mentali sono ancora all’interno dello score normale, si parla allora di “declino cognitivo soggettivo” (SCD). Le persone con SCD hanno un rischio maggiore di sviluppare demenza a lungo termine. Tuttavia, si sa poco sui meccanismi alla base dei problemi soggettivi di memoria, ha affermato il prof. Michael Wagner, capo di un gruppo di ricerca presso la DZNE e psicologo senior presso la clinica della memoria dell’ospedale universitario di Bonn. Gli effetti sono sottili e studi precedenti hanno incluso gruppi relativamente piccoli di persone, il che rende difficili le valutazioni statisticamente attendibili (Perdersen, 2020).

Con il fine di condurre una sperimentazione statisticamente affidabile, è stata coinvolta una rete di università e ospedali tedeschi, coordinati dalla DZNE. Un totale di 449 donne e uomini (età media intorno ai 70 anni) hanno partecipato allo studio. Di questo gruppo, 240 partecipanti sono stati inclusi nelle cliniche di memoria degli ospedali universitari partecipanti. Questi pazienti avevano consultato le cliniche per chiarimenti diagnostici su persistenti disturbi cognitivi soggettivi, di solito dopo il rinvio di un medico. Tuttavia, nei soliti test sono stati valutati come cognitivamente normali. Fu così determinato che avevano un SCD. Gli altri 209 partecipanti allo studio sono stati classificati come sani dal punto di vista cognitivo in base alle interviste e agli stessi test cognitivi. Avevano deciso di partecipare allo studio a seguito di annunci sui giornali. Lo studio in questione è stato in grado di dimostrare che quelle persone che si sono rivolte a una clinica della memoria a causa della SCD avevano anche se solo lievi, dei deficit cognitivi misurabili. Quindi i partecipanti allo studio considerati sani avevano generalmente un punteggio migliore nelle prestazioni mentali rispetto ai pazienti con SCD nella clinica della memoria. Queste differenze sono difficilmente rilevabili con metodi standard di analisi. In ogni caso, è necessario un set di dati di grandi dimensioni. I soggetti dello studio sono stati sottoposti a vari test delle loro capacità mentali. Oltre alle prestazioni della memoria, l’attenzione si concentrava anche sulle capacità attentive e sulla capacità di concentrazione in varie situazioni. Tra le altre cose, sono state testate anche le abilità linguistiche e la capacità di riconoscere e nominare correttamente gli oggetti (Perdersen,, 2020).

Inoltre, è stato analizzato il liquido cerebrospinale di 180 partecipanti, 104 dei quali con SCD. Questo liquido è presente nel cervello e nel midollo spinale; nello specifico sono stati misurati i livelli di proteine ​​come i “peptidi beta-amiloidi” e le “proteine ​​tau”.

Questi dati sui biomarcatori consentono di trarre conclusioni sui potenziali danni ai nervi e sui meccanismi associati alla malattia di Alzheimer (Palmer et al., 2007).

È stato dimostrato che i soggetti con SCD presentavano in media lievi deficit cognitivi e che questi deficit erano associati ad alterazioni proteiche ​​riconducibili alla malattia di Alzheimer in fase iniziale. Pertanto, i ricercatori suppongono che sia i disturbi soggettivi sia i deficit cognitivi oggettivi minimi sono dovuti ai processi di Alzheimer (Perdersen, 2020).

È importante sottolineare che queste persone avevano visitato una clinica della memoria a causa delle loro lamentele inerenti alla propria memoria. Pertanto, questi risultati non possono essere generalizzati, perché molte persone anziane soffrono di disturbi temporanei della memoria soggettiva senza avere il morbo di Alzheimer (Perdersen, 2020).

In ogni caso, i risultati attuali supportano il concetto che la SCD può contribuire a rilevare la malattia di Alzheimer in una fase precoce. Tuttavia, il SCD può certamente fornire solo una parte del quadro più ampio necessario per la diagnosi, bisogna anche considerare i biomarcatori.

Le attuali terapie contro l’Alzheimer iniziano troppo tardi, quando ormai il cervello è già gravemente danneggiato. Una migliore comprensione della SCD potrebbe creare le basi per un trattamento precedente. Al fine di testare le terapie che intendono avere un effetto nelle prime fasi del morbo di Alzheimer, è necessario identificare le persone ad aumentato rischio di malattia. Per questo, SCD potrebbe essere un criterio importante (Perdersen, 2020).

 

Genitorialità e nuove tecnologie

Il ruolo del genitore è sempre più difficile, spesso accompagnato da incertezze e diventa oggetto di ricerca e di giudizio, soprattutto quando i figli passano dal mondo adolescente a quello adulto.

 

Tu sei fuori dal mio mondo. E il tuo mondo mi fa tristezza.

Questa affermazione di Veronesi tratta dal celebre film Genitori e figli: agitare bene prima dell’uso ci fa soffermare e riflettere su un tema che oggi ci interessa tutti da molto vicino, il rapporto che i figli hanno con i loro genitori e le nuove tecnologie.

Ognuno di noi fin dalla più tenera età utilizza nei diversi contesti di vita la propria funzione genitoriale: il bambino che imita la mamma e la vuole imboccare dandole il suo cibo, ci mostra come questa funzione di prendersi cura e assumere un ruolo da genitore che nutre, sia già presente nei primi anni di vita. Questo è probabilmente uno dei primi interscambi osservabili che riflette un lungo percorso già compiuto dal bambino a livello rappresentativo – narrativo e che ci fa capire come il bambino si costruisce un’idea di relazione che dipende dalle modalità relazionali che ha stabilito con i propri genitori (Bowlby, 1983). Il bambino è pertanto predisposto con i genitori a sviluppare un legame di attaccamento, necessario per mantenere un senso di sicurezza.

La famiglia nella quale genitori e bambino fanno parte, è il principale luogo di crescita di ogni individuo, dalla sua nascita e per tutta la vita. A seconda del momento evolutivo in cui ci si trova, la famiglia assume significati e ruoli diversi, ma rimane sempre un punto di riferimento, nel bene e nel male, per ciascuno dei suoi membri.

Il ruolo del genitore è sempre più difficile, spesso accompagnato da incertezze e diventa oggetto di ricerca e di giudizio, soprattutto quando i figli passano dal mondo adolescente a quello adulto. Il fatto che con le nuove tecnologie “tutto è possibile” influisce notevolmente sul rapporto genitori/figli. Pensiamo ad un adolescente che fa difficoltà ad inserirsi in maniera adeguata nel contesto scolastico o nel gruppo di amici: internet offre un mondo sociale e virtuale molto appetibile, dove sembra essere possibile ciò che nella vita reale è invece molto difficile. Spesso gli adolescenti vivono in questo mondo virtuale, senza che i genitori se ne rendano conto; ma oggi questo è parzialmente vero, perché spesso accade che sono i genitori stessi a passare la maggior parte del loro tempo con le nuove tecnologie, togliendo “spazio” e concedendosi meno al rapporto con i propri figli. È pur vero che per i genitori di oggi è indispensabile avere familiarità con la nuova tecnologia, presente non solo in ambito lavorativo, ma anche e soprattutto nella relazione con i figli.

Per concludere sarebbe utile riflettere su aspetti preventivi dell’utilizzo di internet e social network. Nonostante molti adolescenti e giovani adulti considerino i genitori inadeguati come guida nell’universo delle nuove tecnologie, i ragazzi andrebbero educati fin da piccoli a fruire delle nuove tecnologie insieme agli adulti, dandone dei limiti temporali e alternandoli con compiti evolutivamente più stimolanti, in modo da non togliere “spazio e tempo” alla loro relazione reale, autentica, di relazione, vis à vis.

 

Procrastinazione decisionale e accademica: il disagio provato dagli studenti procrastinatori e la difficoltà nel cambiare le proprie abitudini

La procrastinazione è tipicamente definita come un ritardo volontario dell’azione verso un qualche compito, nonostante le prevedibili conseguenze negative e gli esiti potenzialmente deleteri (Ferrari, 2010; Steel, 2007).

 

L’atto della procrastinazione, soprattutto se cronicizzato, può portare gli individui a sperimentare ansia e stress legati proprio al ritardo (Ferrari, 2010).

Uno dei tipi di procrastinazione è la procrastinazione decisionale: un tipo cognitivo di procrastinazione cronica, caratterizzata dal ritardo nel prendere decisioni, in particolare in circostanze stressanti (Ferrari, 1994).

Un altro tipo è la procrastinazione accademica, associata al ritardo volontario dell’azione correlata allo studio, nonostante si sia consapevoli delle conseguenze negative causate dal ritardo (Steel & Klingsieck, 2016).

Nonostante l’ampiezza della letteratura sulla procrastinazione in senso lato, solo pochi studi hanno direttamente indagato i sentimenti degli studenti verso la procrastinazione e il loro desiderio di cambiare questa abitudine.

Uno studio recente (Hen & Goroshit, 2020) ha dunque voluto esaminare gli effetti della procrastinazione decisionale e di quella accademica sulle sensazioni di disagio degli studenti legati alla procrastinazione accademica e il desiderio di cambiare le loro abitudini nel procrastinare. Il presupposto era che la procrastinazione accademica avrebbe mediato il rapporto tra procrastinazione decisionale e sentimenti degli studenti verso la procrastinazione accademica. Un totale di 373 studenti universitari di scienze sociali provenienti dal nord di Israele hanno partecipato allo studio, compilando un questionario online comprendente le seguenti scale:

  • il Decisional Procrastination Questionnaire (Mann, 1982) per la misurazione della procrastinazione decisionale;
  • l’Academic Procrastination Scale- Student Form (Milgram et al., 1999) per l’assessment della procrastinazione accademica e per misurare le sensazioni degli studenti su questa.

I risultati dello studio sfidano la percezione tradizionale che la procrastinazione sia per lo più associata a sentimenti di disagio: infatti, mentre la procrastinazione decisionale è effettivamente associata a un’esperienza di disagio sul procrastinare, quella accademica non manda segnali legati al disagio, pur essendo i procrastinatori accademici vogliosi di cambiare la loro abitudine nel procrastinare.

I risultati perciò suggeriscono una differenza tra i due tipi di procrastinazione e possono contribuire all’ipotesi che per alcuni studenti la procrastinazione accademica serva nell’immediato come un sollievo emotivo che, se associato a risultati accademici negativi, può poi portare al desiderio di cambiare questa abitudine.

Se questo fosse vero, un possibile intervento dovrebbe includere la presa di coscienza di questo processo e lo sviluppo di altre strategie per il sollievo emotivo. Infatti, uno studente che soffre di procrastinazione decisionale cronica, non attribuendo una sensazione negativa alla procrastinazione accademica, potrebbe non essere in grado di prendere una decisione per quanto riguarda il desiderio di cambiare questa abitudine.

 

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep. 5/5 Gli scopi del rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

Il podcast è distribuito su:

 


QUINTA PUNTATA DEL PODCAST:
GLI SCOPI DEL RIMUGINIO

 

La ruota del tempo – Racconto

La rottura era avvenuta così, senza dare alcun preavviso e senza lasciare a nessuno il tempo di prepararsi. Similmente siamo stati colpiti tutti noi dal virus Covid-19 e dalle sue conseguenze.

 

La mente è come una macchina del tempo.
Rimette insieme i pezzi per rivivere il passato;
Consente di immaginare e proiettarsi nel futuro;
Gira ed elabora ogni istante, scandendo il momento presente.

Come ogni giorno la ruota aveva preso a girare nel suo consueto orario. Una alla volta le persone arrivavano e prendevano il proprio posto: i mattinieri in fila già alle prime luci dell’alba, pronti a salire, i ritardatari, con affanno e di gran fretta, sperando nell’ultima corsa.

Era un venerdì come tanti, così si pensava.

Tutti realizzavano i propri giri: chi sbadigliava, ancora assonnato; chi sorrideva, già pensando al fine settimana a venire; ognuno attendeva, più o meno pazientemente, che la giornata trascorresse per poter scendere dalla ruota e, finalmente, tornare nella propria casa.

Ogni tanto si udiva qualche strano scricchiolio ma nessuno sembrava preoccuparsi più di tanto, del resto, se il capo-giostra continuava ad osservarli con il volto sereno ed un sorriso lieto, non avevano alcun motivo di dubitare. E allora pensavano ‘va tutto bene’. Era ormai pomeriggio, il sole cominciava ad abbassarsi rendendo l’aria più fresca e la ruota cominciava a rallentare la sua corsa, creando un’atmosfera sempre più distesa e leggera. Poi, improvvisamente, ecco l’imprevisto, l’inaspettato che tutto cambia.

La rottura era avvenuta così, senza dare alcun preavviso e senza lasciare a nessuno il tempo di prepararsi. Il capo-giostra inizialmente aveva provato a tranquillizzare gli animi, sarebbe bastato avvisare il tecnico e portare un po’ di pazienza per risolvere la situazione, così diceva, ma le cose non andarono proprio così. Non si trattava del solito ‘guasto tecnico’, nulla che si potesse risolvere con qualche semplice indicazione: dopo aver borbottato a bassa voce al telefono, costringendo la mimica facciale ad un sorriso rassicurante, era giunto il momento di condividere con tutti la verità. Bisognava attendere che passasse il fine settimana per ricevere un aiuto esperto e consentire alle persone di tornare alla loro vita: la discesa dalla giostra avrebbe, infatti, compromesso inevitabilmente l’equilibrio dell’intera ruota fino a un possibile crollo.

Il capo-giostra era stato allora sommerso di domande e di un bisogno di rassicurazioni. La paura di cadere dalla ruota pervadeva gli animi, ognuno aveva le sue buone ragioni per desiderare di scendere come alla fine di ogni giornata e andare incontro ai propri progetti e alla propria libertà.

Cercando di non oscillare, con movimenti cauti e mani salde intorno alle barre, sarebbe stato possibile ridurre il margine di rischio; in fondo si trattava di resistere pazientemente fino al lunedì, così ognuno pensava e ripensava per darsi coraggio.

Potevano farcela, anzi: dovevano farcela.

Quella del venerdì era stata una serata strana e, dopo tanto parlare di quanto accaduto, tutti si erano addormentati profondamente in cerca di un riparo lontano nel tempo e nello spazio in cui trovare conforto.

Il sabato mattina, come ogni sabato del villaggio che si rispetti, anche se in quella situazione nuova, anomala, gli adulti si svegliarono colmi di buoni propositi: era così tanto tempo che non riuscivano a godersi il panorama offerto dalla ruota, presa solitamente dal suo girare incessante, e potevano finalmente ascoltare i propri pensieri, solitamente coperti dai rumori della giostra, dal parlottio della gente, raccontare delle storie ai propri bambini, godere del loro sguardo meravigliato. La paura era tanta ma, chiusi e protetti all’interno della propria cabina, quella giocata del destino rappresentava forse una possibilità. I bambini erano smarriti, non era mai capitato nella loro vita di poter osservare il tempo trascorrere così lentamente e, francamente, non sapevano proprio che farne. Allo stesso tempo, tuttavia, era facile per loro lasciarsi guidare dai grandi ed era bello vivere quel tempo familiare che una parte di loro aveva sempre desiderato, coltivato come una piccola fiamma accesa.

Stando attenti e restando uniti, il peggio sarebbe passato velocemente, il lunedì sarebbe arrivato in un battito di ciglia.

Il momento desiderato era giunto quasi rapidamente e quella mattina nessuno sembrava avere sonno, gli occhi erano tutti ben aperti, spalancati per la trepidante attesa. Il tecnico era arrivato, occhiali scuri e una valigetta stretta nella mano destra: passava in rassegna, scrutava con attenzione ogni ingranaggio, cercava di capire cosa si nascondesse, quale fosse l’origine del danno. Più passava il tempo, più la sua confusione pareva aumentare. Non poteva fare a meno di scuotere il capo. Era il capo-giostra che ora aveva l’ingrato compito di comunicare a tutti la necessità di prolungare quell’attesa, di dover aspettare una settimana o, chissà, forse due, per lasciare che tecnici esperti trovassero una soluzione a quel guasto inatteso, così inconsueto.

Le persone a questo punto erano davvero disorientate, si chiedevano come sarebbe stato possibile rimanere così immobili, sospendere all’improvviso la loro vita; d’altra parte si rendevano conto, però, che nulla in quel momento poteva essere più importante di proteggersi, di proteggere l’altro. A questo punto tutti avevano cominciato a stringersi silenziosamente all’interno delle proprie cabine, stando attenti a non sporgersi e, soprattutto, a non farle oscillare: era una questione di equilibrio, la noncuranza di una singola persona avrebbe potuto produrre oscillazioni a catena e mettere così in pericolo la vita di ognuno di loro.

Il tempo non era mai trascorso così lento, quella specie di frenesia da cui erano stati così a lungo presi per mano e guidati li aveva lasciati così, in sospeso, con un semplice ‘torno presto’ si era allontanata senza lasciare alcuna indicazione. Abituati a correre durante la giornata come in una maratona spalla a spalla con il tempo, gli adulti avevano sentito da subito l’istinto di riempire le loro giornate, di intrattenere, propositivi e stimolanti, i propri bambini: forse era questo l’unico modo che possedevano per reagire, senza sentire troppo chiaramente i propri pensieri, senza doversi chiedere, perciò, se fossero dei bravi genitori a tempo pieno.

La cabina poteva essere così ridipinta, i vetri tirati a lucido, i cuscini rinnovati con colori e fantasie e, perché no, un tocco di verde in più magari avrebbe reso l’atmosfera più calda. I bambini, dal canto loro, avrebbero potuto dipingere, inventare storie, giocare a carte ed aiutare ad impastare biscotti. Quante cose sarebbe stato possibile fare! Pensando e ripensando, si sarebbe potuto farsi venire sempre nuove idee, l’importante era riuscire a non fermarsi. La verità era che, per i bambini, quel tempo sconosciuto non era poi così male, sapeva di famiglia, di carezze sulla testa e di sorrisi condivisi, sapeva di calma e di riparo dalle proprie paure, quelle che spesso li avevano fatti sentire così fragili ed arrabbiati, che avevano fatto loro desiderare intensamente di poter essere stretti forte in un abbraccio, di sentirsi sussurrare piano ‘andrà tutto bene’.

Le prime giornate erano state scaldate dal sole, guardare verso il basso sporgendosi dalla cabina poteva suscitare molta paura ma, restando all’interno e dedicandosi alle cose semplici, diventava addirittura possibile, a volte, dimenticare quanto stava accadendo. Il rientro degli angeli custodi, quello sì, che era un momento in cui non si poteva tentare nessuna evasione o rimozione difensiva: gli angeli custodi, così venivano chiamati, ogni mattina scendevano cautamente dalle loro cabine e passavano l’intera giornata tenendo salda tra le proprie mani una fune con tutte le forze che avevano, permettendo in questo modo di mettere in sicurezza il più possibile la stabilità della giostra. I loro volti stanchi, le mani ferite e doloranti, tutto di loro raccontava una storia seria, una storia che faceva paura, che ricordava a tutti quelli al riparo ciò che poteva sembrare così surreale e lontano.

Una sera, sul calare del sole, una voce sottile aveva cominciato ad intonare una canzone: le note di quella melodia, come tante piccole chiavi, erano riuscite ad entrare nel cuore delle persone che subito si erano sentite pervadere da un senso di euforia e di fiducia, che dalla pancia era salito velocemente fino alla testa; era bastato uno sguardo complice per sentirsi così vicini gli uni con gli altri e per unirsi timidamente a quel coro ormai crescente di voci. Sera dopo sera, quel momento di condivisione era diventato ormai un appuntamento irrinunciabile, un’esperienza capace di risollevare gli animi, di dare loro quella carica che li avrebbe resi pronti ad affrontare il giorno successivo. O quasi.

Al termine della settimana, la possibilità di dover rimanere sospesi per quindici giorni ancora era ormai diventata certezza. Era necessario a questo punto riorganizzarsi perché bambini e ragazzi non smettessero di imparare: pensando e ripensando, era stato deciso di comune accordo di trasmettere ogni giorno una lezione attraverso l’altoparlante finora addetto alla diffusione della musica e delle comunicazioni di servizio all’interno del parco. Non sempre l’ascolto riusciva ad essere fluido, talvolta la voce risultava gracchiante ed era difficile comprendere bene; aggiungiamoci, inoltre, il fatto di non poter vedere i maestri di persona, di sentirsi inevitabilmente osservati dai propri familiari ed ecco che riuscire ad essere ricettivi, ancor prima che produttivi, poteva rivelarsi una vera e propria missione. Proprio in quanto al sentirsi osservati, quel che stava venendo a mancare a molti in quei giorni di invischiamento era la possibilità di garantirsi un proprio spazio personale o, quantomeno, di poterlo reclamare senza suscitare troppi sensi di colpa e risentimenti.

Era una grande prova di equilibrio per tutti, un equilibrio che certamente non sarebbe stato più lo stesso. Quel che all’inizio sembrava così difficile, impensabile quasi, stava ora accadendo piuttosto naturalmente, come ogni ‘legge della sopravvivenza’ racconta. Ognuno a suo modo stava trovando, un passo alla volta, la strada migliore per adattarsi all’imprevisto.

Incredibilmente la necessità impellente di riempire il tempo e di muoversi si stava mitigando, in quella pausa dalla realtà di ogni giorno alcune consapevolezze stavano emergendo gradualmente e si palesavano con estrema chiarezza: il modo migliore per fare tesoro di tale esperienza era portare con sé un bagaglio del viaggio introspettivo appena compiuto, collocare scatti e souvenir all’interno del proprio mondo interiore perché, anche tornando alla vita abituale, non venisse mai dimenticato.

Nel corso delle giornate poteva capitare che la cabina oscillasse, come se il vento, passando, si divertisse a darle una piccola spinta per poi scappar via veloce come solo lui sa fare: proprio in quei momenti, nonostante la ruota fosse completamente immobile, l’umore poteva cominciare un nuovo giro sulle montagne russe e salire, scendere, risalire e poi riscendere senza sosta fino alla fine di quella corsa impetuosa.

Era naturale che alcune domande risuonassero nella testa e che fosse difficile metterle a tacere: ci si chiedeva come sarebbe stato tornare alla vita abituale e quanto tempo avrebbe richiesto, se il lavoro ne avrebbe risentito, ma anche quando sarebbe stato finalmente possibile abbracciare di nuovo un caro amico. Insomma, nonostante fosse chiaro più che in altri momenti quanto la vita fosse un dono, in quel ciclo continuo di pensieri non risultava affatto semplice riuscire a porre un freno ed interrompere la corsa: conveniva lasciarla fluire fino al suo arrivo.

I bambini, dal canto loro, non sembravano altrettanto provati. Desideravano di certo poter sgranchire un po’ le gambe con una bella corsa, correre in bici e sdraiarsi sul prato con gli amici per riprendere un po’ il fiato ma, a parte questo, a parte un po’ di nostalgia per la libertà perduta, per il resto, tutto sommato, stavano vivendo quella rilassatezza che prima era difficile anche solo immaginare. Del resto, anche prima erano abituati a vivere gli amici per lo più affacciandosi dalla cabina, a raccontarsi sogni nel cassetto e ridere a crepapelle facendo a meno della vicinanza fisica. Ma era proprio così? Davvero riuscivano ad affrontare quei giorni sospesi a mente libera e cuor leggero?

Forse, in realtà, la loro vocina interiore poneva delle domande che spesso però rimanevano dentro, silenziose, senza che nessuno potesse ascoltarle, per poi cercare una risposta nel volto e nelle espressioni dei più grandi. Forse il guscio che già si erano costruiti intorno, in quella immobilità forzata, stava divenendo via via sempre più spesso, duro, e avrebbe reso ancor più difficile ritornare ad affacciarsi al mondo esterno. E’ vero infatti, seppur paradossale, che più a lungo genitori e figli trascorrevano il tempo fisicamente vicini più cresceva tra di loro un muro di silenzio che li rendeva emotivamente distanti: non essendo abituati infatti a dialogare, risultava difficile riuscire ad avere un confronto costruttivo che non facesse esplodere le parole come nel lancio di una navicella spaziale o, al contrario, che non creasse un nodo alla gola incapace di farle uscire, mettendole a tacere.

Finalmente il capo-giostra aveva delle buone notizie da dare, esisteva una soluzione che da lì a poche ore avrebbe permesso alla ruota di ricominciare a girare. Finalmente il momento tanto atteso era ad un passo. Quanto lo avevano desiderato! Quante cose avrebbero voluto fare per recuperare il tempo perduto! Si sentivano emozionati e grati al pensiero di poter trascorrere attimi che un tempo avrebbero considerato abituali ma che invece, ora, apparivano così pieni di vita.

Certo, forse all’inizio sarebbe sembrato tutto un po’ strano ma c’era quella voglia di non perdersi nulla, di catturare ogni istante e viverlo intensamente che spesso si avverte quando l’esperienza ci porta ad aprire gli occhi come per la prima volta e ci rende consapevoli dell’unicità che contraddistingue ogni singolo attimo.

Il grande entusiasmo che aveva pervaso i presenti era stato però contenuto da una comunicazione ulteriore, arrivata subito dopo, quando le grida di gioia di tutti avevano permesso al capo-giostra di riprendere a parlare. Se era vero che probabilmente esisteva una possibile soluzione al problema, era altrettanto vero che sarebbe stata sperimentale, che non era possibile prevedere se avrebbe funzionato o quale sarebbe stata la sua evoluzione: l’ingranaggio da sostituire, infatti, era ormai fuori produzione e l’unica possibilità era creare un nuovo meccanismo. Ricominciare portava con sé un margine di rischio, richiedeva il coraggio di compiere, tutti simultaneamente, un salto nel vuoto. Non sarebbe stato di certo facile uscire dalla propria zona di comfort, tollerare l’incertezza, l’instabilità che avrebbe accompagnato la nuova partenza fino ad un nuovo assestamento, ma era l’unica possibilità che avevano. Dopo aver cercato sostegno l’uno nello sguardo dell’altro, una persona alla volta cominciava la cauta discesa dalle proprie cabine attraverso delle funi. L’entusiasmo era tale che spesso occorreva richiamare all’ordine chi non prestava sufficiente attenzione alle indicazioni date, ma per loro era difficile riuscire a controllarsi, inebriati come erano. Si sentivano, infatti, come sotto l’effetto di un innamoramento, confusi ma al tempo stesso felici. Era, però, assolutamente necessario che non perdessero la rotta, che la stella polare non smettesse di orientarli tra le onde di quel mare di cui non potevano avere il pieno controllo: la stella polare andava ricercata dentro di sè e, una volta trovata, quando cioè si fossero ritrovati, le acque non avrebbero certo smesso di oscillare sotto l’effetto delle correnti, ma di sicuro sarebbe stato più difficile perdersi, sapendo da dove ripartire.

Una volta disposte le misure necessarie, era arrivato il momento di lasciare la giostra: dopo aver abitato quel tempo sospeso, ecco infine la possibilità di tornare al tepore delle proprie case. Era stata data la precedenza agli anziani, i più fragili in questa imprevedibile discesa, per poi far scendere, a turno, prima gli adulti e poi bambini e ragazzi, perché, sebbene solitamente fossero considerati le creature più delicate, da proteggere, in tale situazione potevano contare su un’agilità e una resistenza superiori a chiunque altro.

Solo una volta scesi e posti gli uni accanto agli altri si era potuto tirare un sospiro di sollievo e sentir dissolvere parte della tensione accumulata. In cerca di quella rassicurazione che avrebbe reso il riposo ristoratore, prima di allontanarsi avevano osservato ancora una volta il volto del capo-giostra ma questa volta, nonostante i suoi sforzi, il suo sguardo esitante aveva lasciato trapelare una mancanza di risposte.

Quella notte avrebbero goduto del rientro nella propria casa, sentendosi al sicuro e tuttavia estraniati, come al rientro da un lungo viaggio. Nel frattempo tecnici esperti ed angeli custodi avrebbero lavorato silenziosamente al nuovo ingranaggio che l’indomani avrebbe permesso alla ruota di ricominciare a girare e al tempo reale di tornare a scorrere. Se avrebbe funzionato o no, nessuno poteva ancora saperlo. Non avevano dunque certezze ma erano convinti di una cosa, fra tutte: andare avanti voleva dire non voltarsi indietro.

Almeno per quella notte avevano deciso di distogliere la mente da quanto accaduto e soprattutto di non crearsi aspettative rispetto alla nuova fase a venire. Al risveglio, riportata la mente conscia alla lucidità perduta, ogni persona aveva cominciato a prepararsi per questo nuovo inizio come in ogni primo giorno che si rispetti. Ognuno affrontava la situazione a suo modo: c’era chi correva frettolosamente verso la propria cabina con fare impavido, probabilmente avventato, chi non si sentiva ancora pronto ad una risalita che lasciava così tante incertezze e infine chi, nonostante nutrisse delle perplessità, era convinto di dover prendere il coraggio a due mani spinto della necessità di voler andare avanti, per rimettere in moto la giostra, per il bene collettivo. Del resto, ‘chi si ferma è perduto’ recita un noto detto popolare.

Al di là del vissuto personale di ciascuno, vi era comune accordo rispetto alla necessità di sentirsi più protetti, reclamando di diritto delle misure che rendessero ogni risalita ed ogni discesa meno rischiose: ecco allora che un’imbracatura e dei guanti protettivi avrebbero reso gli spostamenti abituali sicuramente meno rapidi e agevoli ma al tempo stesso più sicuri. Non era semplice stabilire come fosse meglio comportarsi, quanto potersi rilassare e quanto dover restare in allerta; al di là dei timori primordiali legati alla sopravvivenza propria e dei propri cari, il dubbio che la struttura della ruota non tornasse più alla stabilità di un tempo continuava a far capolino nella mente di ciascuno.

Tutti questi pensieri, tuttavia, assumevano un’importanza secondaria per coloro che avevano atteso il ritorno alla libertà come l’attracco di un’ancora di salvezza per sfuggire ad un disagio interiore, amplificato a dismisura in quella dorata prigione, o alla necessaria tolleranza di vicinanze dolorose e deleterie: essere resi di nuovo liberi, questa era l’unica vera nuova occasione per tutti loro.

I giorni passavano e le persone senza rendersene conto si adattavano sempre di più alla loro nuova realtà, con pazienza e resilienza. Sicuramente rimettersi in moto, con la condivisione partecipe di tutti, aveva aiutato ad allontanare inerzia e senso di solitudine ma, obiettivamente, molto era stato reso possibile dalle riflessioni maturate in quei lunghi giorni e dalla consapevolezza raggiunta su quanto tutto possa cambiare improvvisamente senza alcun preavviso, sull’importanza di potersi fermare, di poter osservare la propria vita e leggere, con occhi diversi, dinamiche disfunzionali ormai consolidate e tentare di produrre un reale cambiamento.

Del resto, non è questo il saggio segreto della vita, riuscire a tollerare l’incerto e trovare il coraggio di mettersi in discussione?

 

Ricordo di Arthur Freeman

È scomparso, probabilmente per una infezione da coronavirus, Arthur Freeman, psicoterapeuta, ricercatore e studioso cognitivo comportamentale dai molteplici interessi.

Freeman partecipò storicamente alla elaborazione del modello cognitivo comportamentale classico sviluppandolo in direzioni diverse da quelle iniziali della depressione e dei disturbi d’ansia, incoraggiandone l’applicazione a scenari clinici fino a quel momento poco esplorati come la terapia di gruppo per adolescenti e bambini (Christner, Stewart e Freeman, 2007), gli interventi cognitivi in situazioni di crisi e pronto intervento (Dattilio e Freeman, 1994), l’intervento sociale (Freeman, 2006) o quello educativo e scolastico (Mennuti, Freeman e Christner 2006) e soprattutto la terapia cognitiva per i disturbi di personalità, curando con Beck in persona la stesura del testo di riferimento “Cognitive therapy of personality disorder” (Beck, Davis, Freeman, 2015).

Già questa opera di allargamento del campo di applicazione della terapia cognitiva comportamentale classica segnalava l’apertura mentale di Arthur Freeman, eppure non poteva bastargli. Freeman collaborò anche allo sviluppo di trattamenti cognitivi diversi da quello di Beck, come la terapia razionale emotiva e comportamentale di Ellis o gli orientamenti costruttivistici di Mahoney. Eccolo quindi scrivere un lavoro di analisi dell’azione dei pensieri irrazionali insieme ad allievi diretti di Ellis come Daniel David e Raymond DiGiuseppe (David, Freeman, DiGiuseppe, 2010) oppure curare con Mahoney un libro sulla cognizione in senso ampio in psicoterapia (Freeman, Mahoney, DeVito, Martin, 2004). Ai congressi era facile incontrarlo a tavole rotonde di confronto tra diversi modelli, tavole in cui egli rappresentava sia l’esponente del modello classico di Beck che lo spirito critico che cercava stimoli, punti di discussione ma anche di contatto. Il suo non era un facile eclettismo, dato che teneva ben ferme le differenze tra i vari orientamenti, ma un indefesso confrontare rigoroso e scientificamente fondato.

Era un uomo cordiale e aperto alla collaborazione. Poche settimane fa alla Sigmund Freud University di Milano, purtroppo non di persona ma online a causa del coronavirus, ha fatto una delle sue ultime lezioni dedicata alle influenze della terapia psicodinamica sulla terapia cognitivo comportamentale. Anche questo suo ultimo argomento testimonia la varietà dei suoi interessi. Col senno di poi comprendiamo che era già provato per l’infezione da coronavirus ma lui non aveva voluto annullare l’incontro. In Italia è stato tradotto e pubblicato il suo libro sui disturbi di personalità già citato, purtroppo da tempo fuori catalogo. Tuttavia siamo felici di annunciare che ne stiamo curando una nuova traduzione e pubblicazione per l’anno prossimo. È il migliore saluto che possiamo fare a Freeman.

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