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L’uomo nelle relazioni

Percepiamo chiaramente che le relazioni, nel bene e nel male, influenzano le nostre emozioni. Oggi sappiamo che, mediante le emozioni, le relazioni influenzano anche la nostra fisiologia determinando benessere o sintomi vaghi. 

 

La natura umana è inscindibilmente relazionale, vale a dire che l’uomo trova la propria ragion d’essere solo nel giusto rapporto con le altre persone. In quest’ottica il successo e, più in fondo, la propria realizzazione altro non sono che una comunicazione riuscita con chi ci sta intorno.

È atteggiamento nevrotico l’usare il proprio potenziale per manipolare gli altri anziché crescere personalmente: il nevrotico prende il controllo e usa gli altri in compiti che non riesce a fare da solo.

Invece la persona in sintonia con l’ambiente non dirige ma integra le proprie capacità tra le persone con le quali condivide affetti o esperienze professionali.

In ciò la lingua di una comunità svolge un grande fattore di integrazione sociale. Attraverso la stessa lingua è possibile far passare la comunanza delle persone. Per questo in una occupazione di un paese straniero gli occupanti lo dotano della loro lingua.

Una stessa lingua non è mai uguale a sé stessa. Ci sono differenze diatopiche (dialetti regionali), diastratiche (tra classi sociali), diafasiche (dei registri, pensiamo che quello di uso quotidiano è diverso da quello ufficiale), diamesiche (dei mezzi di comunicazione). Ma ogni lingua costituisce un unicum, un sistema originale con cui il singolo popolo si dota di senso in vista dell’esperienza. Ogni lingua ha delle particolarità. Nella grammatica ebraica il termine ‘vocale’ significa letteralmente ‘movimento’ per indicare che, in questa lingua (e anche in aramaico), le vocali cambiano spesso nella formazione delle parole. In aramaico biblico i femminili che escono in –U servono a formare gli astratti. In sanscrito la E indoeuropea è resa A. L’Italiano deriva dal toscano. Sono tutti segni di una organizzazione interna che promana da ciò che si chiama lo spirito specifico di un popolo.

Il nostro psichismo deve procedere in armonia con il mondo esterno. La ragione ci spinge a scegliere quelle azioni con le quali interagiamo con gli altri. L’emotività ci fa sentire che quelle sono scelte giuste. Un padre avverte emotivamente che lavorare coscientemente e impiegare il proprio tempo per la famiglia è qualcosa di giusto.

Parte razionale e parte emotiva devono quindi andare di pari passo. Nel caso in cui non ci vadano, la psicoanalisi parla di ‘personalità come se’: colui che fa una cosa, è all’apparenza impeccabile buon padre di famiglia, buon impiegato, ma dentro avverte che tutto questo lo soffoca e non esprime adeguatamente la propria interiorità. Certamente la società nasce sempre per una certa repressione delle pulsioni, tuttavia tale repressione non deve essere parossistica, altrimenti l’individuo diviene macroscopicamente malato, cioè terribilmente insoddisfatto, senza un senso.

Nel fr. 46 di Eraclito vi è una frase, che in greco suona così: tēn de oiēsin ierēn nouson. Di solito si traduce: ‘L’opinione individuale è malattia sacra’ (epilessia). Ma la resa di oiēsin come ‘opinione individuale’ risponde a un significato tardivo del sostantivo greco. Probabilmente Eraclito voleva dire che quando l’emotività prende il sopravvento sulla ragione abbiamo una malattia sacra.

Nella realtà quotidiana ciò che sentiamo è la bussola di ciò che facciamo. Se la logica inconscia, basata sulla emotività, prende il sopravvento sulla ragione, abbiamo un delirio. Quando la ragione soffoca la sensazione più vera che i cuori avvertono, siamo schizoidi.

A questo punto il successo di una azione equivale a imporre il nostro potenziale contro le varie interferenze che accadono. Abbiamo la formula: P = p – (le + li). Vale a dire che la nostra performance (P) equivale al nostro potenziale totale (p) meno le interferenze interne (li) e le interferenze esterne (le). Le interferenze interne sono i pensieri che ci demotivano (non ce la farò mai). Le interferenze esterne sono gli ostacoli lungo la via. Il potenziale totale sono le capacità che abbiamo per compiere una azione. Mettiamo che dobbiamo andare in città: l’automobile è il potenziale totale, l’interferenza interna è la voglia di non farcela a guidare fino in città, l’interferenza esterna sono le buche lungo il percorso.

Ora, il nostro potenziale totale non è mai solo un fattore individuale: noi abbiamo capacità se intessiamo relazioni soddisfacenti. Se vogliamo diventare medici, il nostro potenziale è costituito non solo dal tempo che abbiamo impiegato a studiare, ma anche da quel professore che ha insegnato bene una materia e ci ha predisposti a imparare con successo. La interferenza interna potrebbe essere costituita dalla discrasia tra pensiero e emozione: vogliamo diventare medici per un progetto razionale di guadagnare denaro, ma non ne abbiamo una convalida emozionale, per cui non ci impegniamo abbastanza perché non sentiamo quella strada veramente nostra.

La maggior parte delle situazioni problematiche che ci capitano non sono reali, ma stanno unicamente nella nostra mente. La mente subisce queste interferenze:

  • Parte razionale: errata valutazione del reale, mediante inferenze non esatte: per esempio, se il partner non sta abbastanza con noi, tendiamo a inferire che non ci voglia più bene, ma il suo atteggiamento potrebbe dipendere anche da altre cause, come il fatto che stia male;
  • Parte subconscia: risente delle pressioni relazionali e culturali: per esempio, in base a tali pressioni le donne sono indotte a concedersi il meno possibile, invece gli uomini il più possibile, ma questo crea difficoltà nei rapporti di coppia;
  • Parte inconscia: istinti e pulsioni aggressiva e libidica sono tutti elementi che non rispondo all’ideale dell’io come ce lo immaginiamo, e questo crea innumerevoli problemi in noi e nel rapporto con gli altri.

Il nostro comportamento è lo specchio di ciò che siamo. È possibile conoscere una persona analizzando ciò che fa, anche senza introspezione. Per questo l’individuo in sé equilibrato ha un comportamento che lo fa stare in relazione ottimale con gli altri. Ma dall’altra parte la relazione squilibrata fa ammalare il singolo.

La qualità delle nostre relazioni influisce sulla qualità della nostra vita. Ma quando stiamo male con qualcuno ne viene inficiata anche la nostra salute fisica. Le relazioni costituiscono uno degli ambiti di ciò che ci crea stress, ma non l’unico. Oggi sappiamo per certo che molti problemi di salute hanno a che fare con lo stress: sono i cosiddetti sintomi vaghi (colon irritabile, stanchezza cronica, acidità, dolori di stomaco, disturbi digestivi, alterazioni del ritmo cardiaco, dolori cronici, difficoltà a dormire, ansia, e così via). Si stima che più della metà degli accessi ai medici sono causati da questi malesseri. Uno stress prolungato altera gli equilibri del nostro organismo fino all’insorgenza di questi sintomi.

Lo stress è la pressione a cui siamo sottoposti dall’ambiente. Il nostro organismo ha un sistema deputato a far fronte alle richieste più o meno impegnative che ci provengono dall’ambiente: è lo Stress System. Attraverso di esso ci adattiamo volta per volta all’ambiente. È costituito dal sistema nervoso autonomo, formato dal sistema simpatico (attivo soprattutto di giorno, che ci predispone all’azione) e dal sistema parasimpatico (attivo soprattutto di notte, che ci predispone al recupero e alla riparazione).
Quando le richieste dell’ambiente sono eccessive, lo stress si trasforma in sovra-stress, fino allo stress cronico quando il fattore stressante è prolungato nel tempo. Alcuni hanno identificato in questo stress eccessivo la causa di tutte le malattie. È come se ci fosse un logorio continuo che non fa attivare il simpatico la mattina quando serve e non permette il recupero la notte con l’attivazione del parasimpatico.

Il sistema nervoso autonomo è molto complesso: agisce in connessione con molti altri centri nervosi. Risponde a tutto ciò che accade nell’ambiente integrando gli input esterni con quelli interni. Il suo scopo è di coordinare tutti questi input per una finalità precisa: l’adattamento.

Il ricercatore che meglio ha chiarito questo aspetto è Porges. Nel nervo vago (che corrisponde al sistema parasimpatico) ci sono due unità: quella dorsale e quella ventrale. Pertanto, in base alle conclusioni cui è giunto Porges, il sistema dello stress è composto da tre sottosistemi: simpatico, parasimpatico dorsale, parasimpatico ventrale. il simpatico si attiva in tutte quelle situazioni che richiedono una mobilitazione dell’energia (impegni quotidiani, pericolo). Il dorsale si attiva quando dobbiamo bloccarci (minaccia e paralisi conseguente). Il ventrale si attiva quando possiamo rilassarci e ricaricarci. Sono tre risposte diverse di adattamento globale all’ambiente.

Questi sistemi si attivano sulla base della percezione che abbiamo dell’ambiente: è la neurocezione, la capacità inconscia che ogni organismo ha di captare i segnali che giungono dall’ambiente. Tutto questo è mediato dalle emozioni, che sono in grado di attivare i vari sistemi. Le emozioni sono espedienti che noi abbiamo per valutare l’ambiente. Allora se l’imperativo del sistema dello stress è di adattarci per garantire la nostra sicurezza, questo deve rispondere alla valutazione che noi facciamo della realtà (emozione) sulla base della percezione esterna e interna.

Quando percepiamo l’ambiente sicuro, si attiva il sistema ventrale (stiamo a riposo). Quando percepiamo un ambiente potenzialmente pericoloso, si attiva il simpatico (ci prepariamo all’azione: attacco o fuga). Quando percepiamo un ambiente minaccioso, si attiva il dorsale (è il freezing: ci blocchiamo dalla paura).

Questi tre sistemi si sono sviluppati nella storia dell’evoluzione progressivamente, in tempi differenti. Il più antico è il dorsale: ancora oggi gli animali inferiori si bloccano davanti a una minaccia, la lumaca si ritira, altri fingono di essere morti. In seguito sorse una risposta più evoluta: l’attacco o la fuga, quindi si sviluppò il sistema simpatico. Per ultimo venne il ventrale, quello dei mammiferi, che è una modalità di adattamento e difesa che coinvolge anche i propri simili: l’organismo cerca il senso di sicurezza stando insieme ai membri della propria specie.

Anche le relazioni sono fonte di pericolo e di minaccia (un capo nocivo o una famiglia irosa), pertanto, possono allertare i relativi sistemi. In questo modo scatta lo stress e i sintomi vaghi. Percepiamo chiaramente che le relazioni, nel bene e nel male, influenzano le nostre emozioni. Oggi sappiamo che, mediante le emozioni, le relazioni influenzano anche la nostra fisiologia determinando benessere o sintomi vaghi.

Il cervello che abbiamo nell’intestino è un insieme di neuroni che ha una sua autonomia. Il cervello cranico tramite il nervo vago influenza il secondo, e viceversa. Il microbioma è l’insieme di batteri che stanno nell’intestino e che manda segnali al cervello cranico. Si parla di 2 kg di microbioma intestinale e in tutto il corpo. Alterazioni del microbioma intestinale creano problemi nell’asse dello stress e nel comportamento. Esso:

  • Regola l’attività metabolica;
  • Produce molecole;
  • Regola l’epigenetica (espressione genica).

Prende le fibre insolubili, come la cellulosa, che non riusciamo a digerire, per produrre altre sostanze. Le sostanze così prodotte sono usate per regolare l’epigenetica delle nostre cellule in senso anti-infiammatorio. Per questo la fibra è utile al nostro organismo.

Il microbioma produce vitamina K, vitamine del gruppo B, acido folico, acido butirrico. L’acido butirrico è prodotto dalla fermentazione delle fibre e favorisce la termogenesi (produzione di calore) e l’ossidazione degli acidi grassi che mangiamo, cioè la loro degradazione. Questo acido migliora anche la sensibilità all’insulina.

Il microbioma intestinale produce i neurotrasmettitori, che fanno funzionare il cervello cranico. Per esempio, l’acetilcolina, che produce molti altri neurotrasmettitori e ormoni. Il glutammato, che è eccitatorio. Il GABA, che è inibitorio. Il cervello funziona bene se c’è la giusta connessione tra attivazione e inibizione. Non solo, ma le relazioni tra persone sono neurologicamente una attività nella quale sono coinvolti GABA e glutammato.

I tipi privi di microbioma intestinale hanno mostrato un aumento dell’attività motoria legata all’ansia.

Il microbioma viene distrutto da:

  • Antibiotici (è necessario un lasso di tempo di 2 anni per recuperare il microbioma completo dopo aver assunto antibiotici);
  • Sterilizzazione disfunzionale (quando la pulizia del corpo è eccessiva);
  • Eccesso di carboidrati (che favorisce i batteri patogeni);
  • Infiammazione cronica.

 

Più selfie condividi su instagram più sei felice?

Un recente studio ha scoperto che le persone che condividono attivamente selfie (foto di se stessi) su Instagram mostrano una maggior soddisfazione per la propria vita rispetto a coloro che non lo fanno.

 

I risultati, pubblicati su Human Behaviour and technology, mostrano una correlazione tra la felicità delle persone e la ricezione di premi sociali come i mi piace e i commenti positivi.

L’autore dello studio Julie Maclean sostiene che i social media sono diventati un fattore importante per quel che riguarda gli aspetti psicologici ed emotivi dell’individuo; ricerche passate hanno rivelato risultati contrastanti relativi alla relazione tra l’uso di social network e il benessere percepito.

Lo studio in questione ha pubblicizzato un sondaggio su diverse piattaforme di social media, ponendo domande atte ad indagare fattori quali: condivisione di foto, mi piace, commenti e soddisfazione per la propria vita. Complessivamente, sono state raccolte 373 risposte da utenti che condividono attivamente foto su Instagram; il 22,6% delle risposte proveniva da uomini e il 77,1% da donne. Una persona ha rifiutato di fornire informazioni di genere. Circa il 73% degli intervistati aveva meno di 25 anni; secondo gli autori il campione è in linea con i dati demografici degli utenti di Instagram.

I risultati hanno mostrato una correlazione positiva tra il numero di selfie condivisi online e il benessere percepito.

Una maggiore soddisfazione per la propria vita è stata riscontrata anche nelle persone che hanno ricevuto ricompense sociali positive come mi piace e commenti positivi sui loro selfie.

Inoltre, il benessere percepito, non diminuisce quando la foto di una persona riceve commenti negativi e / o pochi mi piace. Sulla base dei risultati, gli autori concludono che le ricompense sociali positive e negative influenzano il benessere di una persona in modo diverso.

Gli autori hanno riconosciuto diversi limiti dello studio. Le risposte sono state raccolte solo dagli utenti che hanno condiviso attivamente le foto. Ciò ha escluso gli utenti che condividono video o gli utenti che pubblicano foto passivamente. Inoltre, la cronologia di condivisione delle foto è stata auto-segnalata, il che avrebbe potuto indurre alcuni utenti a ricordare erroneamente le informazioni. Non è inoltre da escludere che, coloro che sono molto attivi sui social postando foto e commentando, lo fanno perché si sentono già soddisfatti per la propria vita, e che quindi la loro felicità non dipenda dai mi piace di una foto ma da fattori esterni ed estranei al social network.

Nonostante i limiti, gli autori suggeriscono che i dati potrebbero aiutare a migliorare gli sviluppi futuri per le piattaforme di social media.

I ricercatori concludono dicendo che, in futuro, i social network dovrebbero sfruttare il concetto di premi sociali per consentire un aumento dei livelli di interazioni online con un focus particolare sulla condivisione delle foto, dato che sembra essere il fattore che più agisce da premio sociale.

Se guarissero tutti sarebbe la fine

E anche nella società attuale non servono forse meticolosi e scrupolosi ossessivi per fare i bancari, i commercialisti e i controllori di volo o i neurochirurghi? E istrionici per animare il mondo dello spettacolo?

 

Queste riflessioni partono da un confronto con un collega in sede di supervisione su quanto dovesse essere ‘profondo’ o, potremmo dire, per non usare una terminologia più caratteristica della psicoanalisi, vasto ed esaustivo il suo intervento. Partivamo dalla sensazione che lui aveva che, nonostante la remissione dei sintomi motivo della richiesta, ci fosse ancora molto da fare, ovvero che ci fossero ancora dei problemi irrisolti seppure non avvertiti dal paziente e che un intervento davvero risolutivo avrebbe dovuto disvelare e risolvere prima di lasciare la libera uscita al paziente. Avvertivo che il dichiararsi soddisfatto e guarito del paziente lasciava il mio collega con l’amaro in bocca del capolavoro incompiuto, della perfezione mancata di poco. Avrebbe avuto voglia di dire al bravuomo contento e soddisfatto nella sua inconsapevolezza ‘lasciami lavorare, decido io quando sarai davvero a posto, che ne vuoi sapere tu!!!‘, in ciò ricordandomi l’ultima scena degli Aristogatti quando alla comparsa della scritta ‘fine’ il bracco Napoleone ribadisce che è lui il capo e lo dice lui quando è la fine per poi dire subito dopo appunto ‘Fine’.

Contemporaneamente per una sorta di specchio ricorsivo ho pensato che il lavoro di supervisione con il collega ed ex allievo di cui lui si dichiarava soddisfatto e in via di conclusione, aveva ancora molta strada da fare. Proprio perché lui pensava di non aver concluso il suo lavoro con il paziente io ero certo di non aver concluso il mio con lui.

Attenzione, non si tratta di quisquiglie e pinzillacchere, l’argomento è serissimo e riguarda il ruolo dello psicoterapeuta e più in generale quello della psichiatria nella società. Riguarda il concetto di salute e malattia e quello di guarigione che li congiunge. Arriva a toccare il rapporto esistente tra il singolo individuo e la società e a lambire quello tra esso e la specie nel gioco dell’evoluzione. Insomma mica ‘pizza e fichi’.

Ma andiamo con ordine partendo col ricordare l’insegnamento del mio maestro Cesare De Silvestri che diceva che il terapeuta è un umile strumento nelle mani del paziente e che del suo modo di funzionare e di stare al mondo bisogna cambiare solo il minimo indispensabile a eliminare stabilmente il sintomo per cui ha richiesto l’intervento e che qualsiasi allargamento non richiesto oltre questi confini è irrispettoso dell’unicità del paziente e assomiglia ad un sopruso che si pone nella stessa linea dei tentativi di rendere destri i mancini o curare l’omosessualità. Strada che prosegue fino alla normalizzazione di tutte le devianze e porta a rinchiudere i dissidenti nei gulag se si ha il buon gusto di non sterminarli proprio perché non inquinino i ‘sani’. Che sia per razza, per fede o per orientamento sessuale poco conta. L’idea sottostante è che ci sia solo un modo sano e giusto di essere uomini e che ad esso tutti debbano, con le buone o con le cattive, adeguarsi in primis per il loro bene e per salvare l’anima e poi per il bene di tutti evitando il terribile contagio delle ‘mele marce’. Così facendo, e senza rendersene neppure troppo conto, si finisce per voler modificare tutti quei comportamenti e modi di stare al mondo che non coincidono con la nicchia culturale del terapeuta che oggi si identifica grosso modo con la cultura della classe medio borghese dei paesi occidentali capitalistici cui si riferiscono praticamente tutte le ricerche psicologiche additando come normalità i valori e il modo di stare al mondo di una ristrettissima fascia dell’umanità caratterizzata da essere: ‘di razza bianca, occidentale, economicamente garantita, di cultura media, eterosessuale e con legami affettivo-sessuali stabili’. Per nostra fortuna il mondo non si esaurisce in questo campione ed è estremamente più vario e tale enorme varietà di valori e stili di vita mentre un tempo era geograficamente separata tra oriente e occidente e tra nord e sud del mondo, oggi grazie alla facilità degli spostamenti delle persone e a quello ancor più veloce se non istantaneo delle idee sul web, è presente in ogni comunità.

L’eliminazione delle devianze dalla media non è solo moralmente deprecabile (anche la morale che la giudica tale è relativa ad una certa cultura) il fatto è che proprio dalla deviazione dalla norma e persino dagli errori genetici (le mutazioni) si genera quella variabilità che è prerequisito per l’evoluzione della specie e la sua adattabilità agli ambienti più diversi. Non è improbabile che i vari disturbi di personalità e forse anche altre patologie siano rimaste come potenzialità nel patrimonio genetico umano perché in qualche ambiente del passato si sono dimostrate utili, un po’ come la microcitemia nelle zone malariche. Andrebbero forse protette come la tanto decantata biodiversità? E anche nella società attuale non servono forse meticolosi e scrupolosi ossessivi per fare i bancari, i commercialisti e i controllori di volo o i neurochirurghi? E istrionici per animare il mondo dello spettacolo? Ma ancora più seriamente una società in cui tutti fossero soddisfatti di se stessi, fermi nell’autodeterminarsi e orientati al perseguimento dei propri scopi, sarebbe priva di eroi e santi e molto probabilmente non funzionerebbe. Non dobbiamo dimenticare infatti che l’evoluzione è attenta alle specie e non ai singoli individui per cui spesso ciò che risulta essere un vantaggio per la specie in termini di maggiore prolificità e diffusione non è affatto un miglioramento della qualità della vita e della soddisfazione del singolo individuo. L’esempio più eclatante è la stessa morte che piuttosto avversata dal singolo libera risorse per gli individui più giovani eliminando quelli non più in grado di riprodursi.

 

Se è amore non ferisce: psicodinamica dello stalking

Spesso ci si chiede per quale motivo un soggetto non riesca ad accettare la fine di un rapporto di coppia. “Lasciami libera di lasciarti”, si è sentito dire in riferimento a quei rapporti sentimentali in cui uno dei due partner non è capace di accondiscendere alla rottura del legame e insiste a perpetrarlo pur contro la volontà dell’altro.

 

Non vorremmo doverci porre questo problema, o almeno non con la frequenza impostaci dalla realtà quotidiana. Invece, esistono persone cui sembra negato il diritto di separarsi dal proprio compagno, per un motivo che sfugge alla logica, all’etica, al senso di giustizia. Ma perché un soggetto, specie maschile, non riesce rassegnarsi alla perdita della partner?

Una possibile spiegazione potrebbe essere trovata risalendo alla concezione psichica che Freud attribuisce all’innamoramento, considerato un investimento ben più duraturo rispetto alla pulsione sessuale, che può essere provata nei confronti di qualsiasi persona, è effimera e meramente rivolta alla soddisfazione di una libido fisiologica. Al contrario l’innamoramento si distingue dalla pulsione sessuale per la sua durata e la sua direzionalità verso un oggetto insostituibile, non surrogabile e stabile nel tempo (Freud, 1921).

Freud ne parla come di pulsione “inibita nella meta” proprio in riferimento ad un bisogno che non si scarica soltanto con l’appagamento, in quanto la sua origine non è identificabile in una pulsione fisica, bensì in una necessità affettiva ( Freud, 1921).

In questo senso l’oggetto d’amore viene ad essere un investimento affettivo di vitale importanza: amando qualcuno l’Io si impoverisce, sacrifica se stesso per il bene dell’oggetto amato, si spoglia di parti di sé per approssimarsi all’oggetto fino a lasciarsene possedere interamente. In questa fase dell’innamoramento si riscontra anche una forte connotazione idealizzante, in ragione della quale l’oggetto amato incarna l’Ideale dell’Io, ovvero tutto ciò che si desidera, tutto ciò che si vorrebbe essere.

Ma investendo se stessi nell’oggetto d’amore si ribadisce anche una forma di identità che Freud definisce sociale, definendola non come alternativa a quella individuale, bensì complementare, in un certo senso necessaria. Legarsi ad un altro è anche un mezzo per affermare se stessi, per costruire un’identità stabile e sicura. Non si può esistere senza l’altro, e la relazione amorosa ne è una conferma. Questo testimonia come innamorandosi il soggetto riesce ad affermare la propria identità relazionale (Freud, 1921).

Dunque l’innamoramento non rappresenta solo una fase di investimento libidico nei riguardi di un altro diverso dal Sé, ma anche un’affermazione della propria identità, che nell’altro si riconosce e si struttura.

Ma quando l’amore finisce?

Quando una storia d’amore giunge al termine, il soggetto deve rimpossessarsi delle parti del Sé che aveva investito nell’altro, deve cessare di considerarlo come un oggetto libidico e constatare il distacco da lui. Il suo compito è quello di separarsi dal partner, di de-idealizzarlo, di rinunciare a vederlo come la meta del proprio investimento pulsionale affettivo.

Per quanto la separazione possa rappresentare un evento emotivamente destabilizzante, dopo un iniziale squilibrio dell’omeostasi affettiva il soggetto riesce a ricostruire una propria identità individuale e si rassegna alla rottura del legame in attesa di reinvestire su un nuovo oggetto d’amore. Sono queste le fasi della separazione funzionale.

In taluni casi, tuttavia, questo processo di differenziazione non avviene, ed è come se l’innamoramento non avesse mai fine. Questo può verificarsi nei soggetti che hanno sofferto una deprivazione affettiva durante l’infanzia e nei quali l’innamoramento, più che un senso di esistenza funzionale con l’altro, si identifica in una sorta di compensazione per la deprivazione subita. Per questi individui il partner, più che un oggetto esistente in se stesso, svolge una funzione meramente depositaria dei propri investimenti narcisistici. Di rimando l’abbandono viene a costituire una disconferma del Sé idealizzato che nell’altro si identifica, un vulnus alle parti che questi ha investito narcisisticamente nel partner, ma che non ha cessato di avvertire come proprie.

La personalità dello stalker, il persecutore

Ecco dunque la radice del problema: lo stalker, come viene chiamato il persecutore affettivo, non vede l’altro come un soggetto autonomo e indipendente, ma come un mero prolungamento del Sé. E si vede legittimato a possederlo pur contro la sua volontà, perché nell’altro abita il Sé: l’altro, in un certo senso, è il Sé. È come se l’oggetto d’amore gli appartenesse perché porta dentro una parte di se stesso. Il disinvestimento del legame è impossibile. L’altro è il Sé e riconoscere la fine del legame amoroso equivarrebbe a decretare la morte psichica di un soggetto che nell’altro ha investito tutto il Sé, in una sorta di rivalsa affettiva. I rispettivi limiti individuali assumono dimensioni confusive, e nel momento in cui al partner non viene riconosciuta la propria autonomia esistenziale, l’amore si trasforma in un possesso compulsivo e persecutorio.

Una visione psicodinamica dello stalking

In questo caso si evidenzia un mancato superamento della fase infantile che la Mahlher (1975) chiama simbiotica, nella quale il bambino si considera unito alla madre in un nucleo indistinto, e non riesce a percepire come esistente il confine fisico tra se stesso e lei. Le immagini del Sé e della madre sono condensate, unite, indistinte. La natura della relazione con l’oggetto materno è totalmente parassitaria, ovvero il bambino acquista benefici unilaterali dal rapporto diadico e reagisce con aggressività alla frustrazione empatica. Dunque la madre è il Sé, e il Sé è la madre, e in questa visione sincretica della realtà intrapsichica si riflette una visione della realtà esterna in egual modo globalizzante, nella quale i legami affettivi sono simbiotici e comportano la fusione totale delle individualità. Da qui nasce la coazione a ripetere del legame simbiotico, anche in età adulta, in base alla quale lo stalker crederà che la propria compagna rappresenti la figura della madre cui si sente ancora irrimediabilmente legato (Infrasca, 2010).

Fino a che questa condizione di unione fagocitante perdura, il soggetto non si sente minacciato da un’angoscia abbandonica, ma con l’avvento della separazione si presenta l’evento critico: di colpo il soggetto realizza l’impossibilità di attuare il proprio progetto di invasione, di possesso dell’identità dell’altro. Questa frustrazione della libido simbiotica, oltre a riattivare arcaici vissuti abbandonici subiti nell’infanzia, vede l’amore verso l’oggetto amato tramutarsi in un agito rabbioso finalizzato al ripristino della simbiosi interrotta, che si esplicita a mezzo di comportamenti compulsivi persecutori volti al recupero dell’altro (Infrasca, 1990).

Il narcisista reagisce con aggressività all’abbandono, perché la sua considerazione dell’altro è meramente ricondotta ad una dimensione strumentale. L’altro, in questo caso il partner, è un soggetto cui viene negata l’alterità, la libertà, l’autonomia: egli esiste solo per compiacere le sue fantasie simbiotiche, alle quali non può opporsi.

Da qui l’origine del pensiero psicotico in base al quale lo stalker si sente legittimato alla persecuzione dell’oggetto d’amore per riprendersi ciò di cui si sente ingiustamente deprivato e che crede gli appartenga. Da qui la sua certezza di poter esprimere comportamenti persecutori ispirati dalla brama di possesso verso l’altro che considera come un mero prolungamento del Sé, e la pretesa che anche lui debba mostrarsi connivente con questa sua delirante pulsione simbiotica compulsiva.

Sembra proprio questa la discriminante tra innamoramento funzionale e persecutorio.

Colui che sa porre fine ad un legame amoroso è anche un soggetto che ha raggiunto una capacità di differenziazione dall’oggetto materno, di regolazione delle pulsioni, di maturazione del Sé relazionale e di un adeguato esame della realtà inter ed intrapsichica. Questo gli consente di disporre di un Sé funzionale che sa esistere anche senza l’altro nel quale si è amorosamente riconosciuto; al contrario, colui che non accetta il termine di un rapporto amoroso è un soggetto che non sa esistere senza l’altro nel quale ha identificato un Sé fragile e inconsistente, capace solo di vivere in maniera simbiotica, e che nella libertà dell’altro vede una minaccia alla propria stabilità.

Il lutto mai rielaborato dello stalker

L’oggetto materno perseguitato dallo stalker è la madre-donna che egli identifica nell’oggetto d’amore; la stessa dalla quale si è sentito abbandonato e che, tramite la separazione, riattualizza la dolorosa separazione mai rielaborata. Il lutto dovuto a questa perdita è dunque di natura circolare, perché continuo, reiterato, che si presenta con andamento compulsivo in ogni tipo di relazione affettiva (Infrasca, 1990).

Nel momento in cui il partner (che a sua insaputa riflette l’immagine allucinatoria dell’oggetto materno) afferma la propria alterità attraverso la fine del rapporto, egli perpetra inconsapevolmente un nuovo tradimento che lo stalker non può accettare: il suo progetto di simbiosi con la madre abbandonica è di nuovo infranto, e l’oggetto d’amore, dapprima approcciato con meccanismi di idealizzazione e ipervalutazione, viene perseguitato con rabbia predatoria, perché divenuto un “crudele traditore”.

Conclusioni

L’innamoramento dello stalker consiste nel depositare nell’altro la prospettiva di un amore totalizzante e totalitario, in cui il Sé possiede per vivere, e se non possiede distrugge. Ma che nello stesso atto di possedere, distrugge.

Il suo non è amore, bensì una crociata volta all’invasione e all’annullamento dell’alterità del partner, attuata con una pretesa collusiva e autoriferita. Lo stalker è in realtà vittima di un legame simbiotico intrapsichico che in qualità di carnefice impone all’altro. Ed è proprio questo il punto da cui iniziare il trattamento terapeutico: dissolvere il legame simbiotico con l’oggetto materno interiorizzato, creare consapevolezza del Sé e dell’altro, capacità di mentalizzazione, contenimento degli agiti aggressivi, stabilimento di confini esistenziali autonomi. Perché lo stalker riesca finalmente a superare la fase simbiotica infantile.

I bambini vengono abbandonati. Gli adulti vengono lasciati. E forse è proprio questa la differenza. Lo stalker non ha mai smesso di sentirsi il bambino vittima di un crudele abbandono materno.

 

Melatonina, questa sconosciuta

Melatonina, melatonina ovunque: dai farmaci da banco agli integratori alimentari. Viene presentato come un prodotto che ci aiuta a dormire bene, a favorire l’addormentamento, a risolvere i problemi di insonnia.

 

Ma cosa si nasconde dietro la melatonina? È tutta una operazione di marketing o risulta essere veramente di aiuto a chi ha problemi del sonno? Vediamo un po’ più nel dettaglio..

La melatonina viene chiamata anche “l’ormone dell’oscurità” o “l’ormone vampiro”. Nomi sicuramente di grande impatto per la nostra memoria, che fanno pensare a qualcosa di sinistro e misterioso. In realtà, questo appellativo è relativo alla sua produzione durante le ore notturne da parte di una particolare zona del cervello, chiamata nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo. Questa piccolissima zona cerebrale, collocata nelle parti più profonde del nostro cervello, rappresenta una parte del nostro sistema nervoso che comunica direttamente con il nostro cervello lanciandogli dei segnali su quando è giorno e quando è notte. Normalmente, questi segnali seguono l’andamento della luce solare, ed è appunto a questo che è collegata la melatonina.

Quindi, durante il crepuscolo, il nostro cervello inizia a produrre melatonina per lanciare al nostro corpo un chiaro segnale: “è diventato buio, quindi è ora di prepararsi per andare a dormire”. In questo modo, è come se “venisse schiacciato un bottone” che aziona tutta una serie di azioni per preparare il nostro organismo al sonno.

Durante il sonno, poi, la concentrazione di melatonina diminuisce lentamente nel corso della notte. Con l’alba, e con la percezione da parte del cervello della luce solare (anche se si hanno gli occhi chiusi), il nostro cervello smette di produrre melatonina. L’assenza di melatonina nel nostro flusso sanguigno fa così che il cervello sia informato che “non è più buio” e il corpo si prepara al risveglio. In questo senso, si può dire che noi esseri umani siamo “solar powered” (Walker, 2017), e cioè alimentati a luce solare.

Molto spesso, quindi, gli effetti della melatonina sono principalmente legati all’effetto placebo, che non deve essere comunque sottostimato: si tratta, dopotutto, dell’effetto più attendibile di tutta la farmacologia. È comunque importante notare come la melatonina non sia registrata dalla Food and Drug Administration (FDA), ovvero l’ente governativo che si occupa della regolamentazione dei prodotti cibari e farmaceutici. Una ricerca che ha studiato le concentrazioni di melatonina in alcuni farmaci da banco ha rilevato che il contenuto di melatonina varia da -83% a +478% del contenuto dichiarato nell’etichetta. Inoltre, la variabile da lotto a lotto all’interno di un determinato prodotto variava fino al 465%. (Erland & Saxena, 2017).

La melatonina ci aiuta quindi a regolare il tempo del sonno, comunicando al nostro organismo il momento in cui inizia a fare buio. Proprio per questo, quindi, ha una piccola influenza nella diretta generazione del sonno di per sé, per lo meno se si considerano individui in salute e senza la sindrome del jet-lag (per cui in un primo momento la melatonina può aiutare a riassestare i propri ritmi del sonno).

 

La mente dietro la fame (2019) di Stefania Rossi, un libro sul rapporto tra cibo ed emozioni – Recensione

La mente dietro la fame è dedicato principalmente a coloro che soffrono a causa di un negativo rapporto con il cibo. L’autrice esperta nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, esamina i reali bisogni e le necessità che determinano l’insorgere della fame emotiva.

 

La mente dietro la fame è un libro che affronta il tema del rapporto con il cibo a partire dalle emozioni legate alla fame nervosa, proponendo un percorso di cambiamento dello stile di vita e dei modelli di pensiero che portano a comportamenti alimentari di compenso emotivo. Il modello teorico si rifà alla terapia Dialettico-Comportamentale che risulta efficace nel trattamento di bulimia e alimentazione incontrollata o bing eating disorder.

L’autrice, Stefania Rossi, psicologa e psicoterapeuta, docente a contratto presso l’Università degli Studi di Genova, si occupa da diversi anni del trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, in questo saggio ripercorre con il lettore gli step che conducono alla fame emotiva e mostra gli strumenti più efficaci per imparare a vivere serenamente il rapporto con il cibo.

La fame emotiva è una sensazione di urgenza, un bisogno improrogabile di mangiare per stare meglio se si è nervosi, tristi, arrabbiati, annoiati o ansiosi e non per reale necessità di nutrimento. Utilizzare il cibo per regolare le emozioni è indicativo di quanto dietro l’alimentazione ci sia un legame profondo e complesso tra psiche e corpo.

Cerchiamo di comprendere che in gioco non c’è solo la questione alimentare e il peso, ma si tratta di saper controllare e gestire la propria vita in base ai nostri desideri più profondi.

Il manuale pubblicato dalla casa editrice Toscana Book, si suddivide in undici capitoli:

  1. Gestire la fame emotiva:
  2. I fattori in gioco nella fame emotiva;
  3. I fattori in gioco nella fame fisica;
  4. Mindfulness;
  5. Consapevolezza emotiva;
  6. Il diario delle emozioni;
  7. Costruire l’efficacia;
  8. Prendersi un impegno con se stessi;
  9. Stress e ansia;
  10. Elevata sensibilità ed alta emotività;
  11. I disturbi del comportamento alimentare.

A chi si rivolge questo libro?

Accettare è il primo passo verso il cambiamento, non è arrenderci, semplicemente conoscerci per quello che si è. Essere pronti a vederci per come siamo è il presupposto per superare i comportamenti dannosi, che ci fanno sentire inadeguati e lontani da noi stessi, che rappresentano una nevrosi, una dissociazione tra quello che sentiamo e quello che siamo o facciamo.

La mente dietro la fame è dedicato principalmente a coloro che soffrono a causa di un negativo rapporto con il cibo. L’autrice esperta nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, esamina i reali bisogni e necessità che determinano l’insorgere della fame emotiva, con lo scopo di condurre il pubblico ad apprendere gli strumenti che possano permettergli di gestire al meglio la propria vita, promuovendo l’acquisizione di uno stile di vita più sano e fondato su di un reale benessere psico-fisico.

Sono inoltre inclusi nel testo l’illustrazione di esercizi tipici della DBT, come la sessione di mindfulness, l’analisi della catena emotiva, il diario delle emozioni, l’agire con efficacia, il rispetto di sé e molti altri che una volta appresi conducono il lettore ad una ristrutturazione cognitiva.

Perché è utile leggere La mente dietro la fame?

E’ utile perchè per chi ha problemi col cibo, mettersi a dieta non basta, anzi molte volte espone al fallimento e alla perdita di fiducia in se stessi. E’ utile perché si tratta di un manuale capace di coniugare la teoria del funzionamento alimentare patologico, con le esercitazioni pratiche volte a superare l’utilizzo del cibo come sintomo di un vuoto e un disagio emotivo.

Non si limita alle descrizioni delle tecniche, ma favorisce il cambiamento tramite il riconoscimento e l’accettazione delle proprie emozioni e conduce al miglioramento del proprio stile di vita anche attraverso l’introduzione di abitudini nuove e sane. Il tutto illustrato tramite un linguaggio accessibile a qualsiasi lettore.

Risulta ideale per guidare l’operato di psicologi e psicoterapeuti che si trovano a dover gestire pazienti impegnati nella lotta contro un disturbo alimentare offrendosi come supporto professionale, ma la lettura è altrettanto consigliabile anche a coloro che in primis sentono di non avere un rapporto sereno con il cibo.

 

Attivismo politico: un possibile fattore di protezione per la salute mentale di studenti universitari afroamericani e latinoamericani?

Quando uno studente afroamericano o latinoamericano subisce molte microaggressioni razziali, l’attivismo politico può avere effetti sulla sua salute mentale aiutandolo a sentirsi meno stressato, ansioso o depresso? 

 

Le conseguenze del razzismo sono purtroppo tristemente note e sempre maggiore importanza viene data a comprendere quali elementi portano gli individui a manifestare comportamenti razzisti e xenofobi con l’intento di intervenire preventivamente e/o tempestivamente per ridurre gli episodi di discriminazione.

Alcuni studi sul fenomeno razzismo si sono concentrati anche sulla ricerca di quelli che possono essere dei fattori protettivi per le vittime, in grado di aiutarle a ridurre i loro livelli di stress e ansia. Uno dei più recenti lavori a riguardo è quello di Hope, Velez, Offidani-Bertrand, Keels e Durkee (2018) condotto su studenti universitari afro- e latinoamericani

Gli studenti universitari che appartengono alle minoranze etniche e razziali afroamericana e latinoamericana sono più a rischio di sviluppare problematiche di salute mentale, come sintomi depressivi, insoddisfazione personale e isolamento sociale (Ancis, Sedlacek, & Mohr, 2000; Hinderlie & Kenny, 2002).

Le conseguenze delle microaggressioni discriminatorie si ripercuotono sui risultati accademici. Infatti le maggiori difficoltà durante il primo anno di università sono dovute a fattori emotivi più che accademici (Pritchard & Wilson, 2003; Szulecka, Springett, & DePauw, 1987).

Un fattore di protezione per la salute degli studenti universitari appartenenti a minoranze razziali ed etniche può essere l’attivismo politico, cioè l’impegno civico per apportare cambiamenti a situazioni ritenute ingiuste.

A questo proposito, Hope, Velez, Offidani-Bertrand, Keels e Durkee (2018) hanno condotto il loro studio per indagare gli effetti dell’attivismo politico sulla salute mentale di studenti universitari afro- e latinoamericani. L’ipotesi che guida lo studio è che l’attivismo politico possa essere, per questi giovani adulti, un’efficace strategia di coping.

Lo studio si è concentrato su studenti afroamericani e ispanici al loro primo anno di università. Gli autori hanno misurato le variabili di interesse all’inizio del primo semestre, durante le vacanze invernali e al termine del secondo semestre.

I ricercatori hanno raccolto dati circa la salute mentale dei partecipanti, in particolare rispetto allo stress percepito (Perceived Stress Scale; Cohen, Kamarck, & Marmelstein, 1983), all’ansia (Generalized Anxiety Disorder Screener-Symptoms Scale; Carroll & Davidson, 2000) e ai sintomi depressivi (Psychiatry/National Depression Screening Day Scale; Baer et al., 2000).

L’attivismo politico nel corso del primo anno di università è stato misurato usando lo Youth Involvement Inventory (Pancer, Pratt, Hunsberger, & Alisat, 2007). I dati indicano che, sebbene il 31% del campione non abbia partecipato ad alcuna attività politica durante il primo anno di università, il 57% degli studenti ha donato denaro, giocattoli, abiti o altro; il 37% ha donato denaro o fatto volontariato in un gruppo sociale o politico; il 30% si è unito a proteste, marce, incontri o dimostrazioni politiche; infine meno del 15% si è impegnato direttamente in una campagna politica, nel boicottaggio di un prodotto o nel suo opposto, il buycotting, ossia l’acquisto di un prodotto per supportare un’azienda in linea con i propri valori etici o politici.

Inoltre, è stata valutata la presenza di microaggressioni razziali ed etniche, con un focus su quei comportamenti discriminatori che suscitano sentimenti di inferiorità a livello accademico (sottoscala Academic Inferiority della School-Based Racial/ Ethnic Microaggressions Scale; Keels, Durkee, & Hope, 2017).

Altre variabili di controllo considerate sono il genere, l’essere i primi nella propria famiglia a frequentare il college, le problematiche economiche e l’efficacia politica.

Gli studenti hanno riportato di aver subito diverse microaggressioni nel corso dell’anno. Per gli studenti afroamericani, tali microaggressioni risultano associate soprattutto a un aumento dello stress. Per quelli latinoamericani invece comportano maggiore ansia.

Non solo le microaggressioni, ma anche l’attivismo politico ha effetti diversi sugli studenti afroamericani e latinoamericani. Infatti, gli studenti afroamericani più coinvolti nella vita politica mostrano livelli più bassi di stress. Al contrario, l’attivismo politico sembra avere un effetto negativo sugli studenti ispanici: quelli più politicamente attivi infatti manifestano più sintomi depressivi.

L’ipotesi forse più rilevante dello studio, tuttavia, riguarda la possibilità che l’attivismo politico rappresenti un fattore di protezione soprattutto per coloro che studiano in un contesto istituzionale discriminatorio. Ossia, quando uno studente afroamericano o latinoamericano subisce molte microaggressioni razziali, il fatto di essere attivo a livello politico può aiutarlo a sentirsi meno stressato, ansioso o depresso?

Nel caso degli studenti ispanici, sembra sia così: infatti, a parità di discriminazioni subite, gli studenti ispanici più politicamente impegnati manifestano meno sintomi depressivi. Al contrario, gli studenti afroamericani che subiscono molti comportamenti discriminatori e che sono politicamente più attivi riportano livelli più alti di ansia e stress.

Alla luce di queste evidenze, si può argomentare che i risultati di questo studio siano in parte controversi. Infatti, essi mostrano come l’attivismo politico possa essere talvolta una fonte di supporto, e talaltra un’ulteriore fonte di stress, ansia o depressione.
Inoltre, l’attivismo politico spiega solo una piccola parte del benessere o malessere dei partecipanti. Questo significa che altri fattori possono essere più rilevanti nel determinare la salute mentale degli studenti universitari.

Un’ulteriore limitazione di questo studio è che esso considera gli effetti dell’attivismo politico nell’arco di un anno. Uno studio longitudinale più esteso permetterebbe invece di capire gli effetti dell’attivismo politico a più lungo termine.

Se vogliamo comprendere come migliorare la salute mentale degli studenti universitari, tenendo a mente le difficoltà aggiuntive di quelli appartenenti a minoranze etniche, il ruolo dell’attivismo politico e di altri fattori deve essere approfondito.

Invidia e vergogna nella personalità narcisistica

Per quanto possa apparire contraddittorio, il nucleo esistenziale più intimo del narcisismo è connotato da vissuti di invidia e vergogna. L’apparente ipervalutazione del Sé, propria di questi soggetti, è soltanto uno strumento compensativo con cui l’Io cerca di supplire l’autostima fragile e frammentata tipica di questa personalità.

 

Sarebbe, infatti, in ragione di un vissuto affettivo deprivante, sofferto a causa di un mancato riconoscimento empatico da parte del genitore, che il bambino, diventato in seguito adulto, ha appreso a svalutare i legami libidici con l’oggetto primario, conferendo al Sé quell’onnipotenza primaria che gli è stata negata in fase diadica. Khout (1971) imputa il narcisismo patologico ad un deficit, dunque a una mancanza affettiva che il bambino ha dovuto fronteggiare quando avrebbe dovuto ricevere una sicurezza responsiva in grado di nutrire in lui sentimenti di onnipotenza primaria, unita all’idealizzazione del genitore, anziché l’idealizzazione del Sé in via difensiva.

Il soggetto narcisista avverte un vuoto affettivo e relazionale derivante dalla rappresentazione frustrata di aspettative non raggiunte, o mai all’altezza degli standard prospettati. Questo lo porta a ricercare una millantata perfezione in ogni aspetto della vita, soprattutto quello estetico e professionale, ambiti nei quali cerca di eccellere non in una prospettiva di autocompiacimento sano e costruttivo, ma solo per contrastare il senso di inferiorità e inadeguatezza che lo perseguita dall’interno, creando insanabili vissuti di vergogna. La vergogna è un sentimento di riprovazione globale verso l’IO: si prova vergogna per essere o per non essere qualcosa. Al contrario nel senso di colpa, sentimento estraneo al narcisismo, si prova rimorso e senso di riparazione per un’azione commessa, dunque si prova vergogna per ciò che si è fatto.

L’altro indefettibile componente della personalità narcisista, ovvero l’invidia, genera una dimensione relazionale che vede l’altro come un mero oggetto da depredare di tutti gli aspetti buoni che possiede, e di cui il narcisista vuole impossessarsi a sua volta. Tale avidità maligna, tuttavia, non è ispirata da sentimenti velleitari verso gli oggetti: il narcisista non vorrebbe possedere ciò che invidia, vorrebbe piuttosto che fosse l’altro a non possederlo; e dunque anche il desiderio di possesso è giustificato da ragioni distruttive e predatorie. Il narcisista desidera distruggere più ancora che possedere.

Kernberg (1975) non imputa l’origine del narcisismo ad un deficit affettivo infantile, facendolo derivare piuttosto dalla natura costituzionale del soggetto, predisposta in via congenita alla sperimentazione di vissuti di invidia e aggressività verso l’oggetto primario, dal quale nega l’indipendenza e l’appoggio.

Melanie Klein (1957) aveva affermato, a sua volta, la radice biologica dell’invidia, identificabile in quegli atteggiamenti, tipici della fase schizoparanoide, volti a depredare il seno buono (ovvero la madre) di tutti gli oggetti che possiede, per possederli e distruggerli.

Secondo la prospettiva kleiniana l’invidia, l’avidità e le angosce persecutorie sono profondamente collegate tra loro, in un legame che al crescere delle une fa subentrare l’accrescimento delle altre. Questo circolo vizioso allontana il bambino dalla possibilità di superare in funzione adattiva la fase schizoparanoide e, dunque, di abbandonare i vissuti sadici e predatori verso il seno buono e la madre che in esso è identificata. Egli non avvertirà mai la necessità di proteggere l’oggetto materno dai propri impulsi, non riuscirà a provare senso di colpa per le sue velleità distruttrici, e non riuscirà ad accettare l’oggetto materno in una dimensione sincretica e ambivalente, in cui il buono può coesistere con il cattivo senza rischio di distruzione.

L’ambivalenza è quella dimensione che consente di accettare la natura positiva e negativa dell’oggetto materno, che se da una parte frustra e proibisce, dall’altra nutre e accudisce con finalità conservative. Questo mancato raggiungimento dell’ambivalenza, e dunque dell’accettazione della coesistenza degli opposti, spinge il narcisista all’idealizzazione irrealistica di un Sé privo di difetti, del quale nessuno si mostrerà mai all’altezza. Da qui gli standard di perfezionismo, di eccellenza, di devozione relazionale pretesi dal narcisista, che lo spingeranno ad enfatizzare in senso distruttivo ogni minima mancanza commessa da coloro con cui si relaziona, spingendolo alla costruzione di pattern relazionali fondati sulla pretesa, unidirezionali, fortemente utilitaristici, e comunque mai ispirati da velleità donative o di attaccamento.

L’incapacità del narcisista di attaccarsi a qualsiasi oggetto al di là di se stesso si traduce dunque nell’incapacità di costruire stili relazionali volti al riconoscimento dell’altro come oggetto autonomo, degno di esistenza e considerazione affettiva (McWilliams, 1994). L’altro è solo qualcuno da invidiare, in un attacco predatorio grazie al quale il soggetto crederà di confermare la propria percezione esistenziale e di sfuggire alle proprie angosce persecutorie, ma che in realtà servirà soltanto ad accrescere l’intensità delle stesse.

L’invidia impedisce, infine, anche la costruzione una piena gratificazione del Sé. Ed è per questo che, per quanti successi e affermazioni conseguirà, il narcisista non potrà mai sentirsi sicuro e soddisfatto, ma tenderà sempre alla ricerca di un nuovo confronto con soggetti da depredare per colmare il vuoto affettivo – esistenziale che lo devasta. L’invidia diventa così un elemento funzionale alla sopravvivenza del narcisista, il quale, in sua assenza, dubiterebbe dell’esistenza del suo stesso Sé.

L’invidia nel setting terapeutico

Uno degli esiti più negativi della formazione dell’invidia narcisistica è l’impedimento della costruzione della gratitudine, quella capacità che consente al soggetto di riconoscere nell’altro qualcuno da amare e da proteggere e dal quale lasciarsi curare, per riconoscere infine di aver bisogno di lui. Il narcisista al contrario non è capace di prendersi cura del soggetto, né di proteggerlo dai suoi attacchi. La sua valutazione esistenziale è rivolta ad una visione del Sé autoriferita, in cui l’altro non viene mai riconosciuto come un oggetto autonomo, bensì come un oggetto Sé, esistente soltanto nella misura in cui si mostra all’altezza delle idealizzazioni narcisistiche (Klein, 1957). E per quanto bene potrà ricevere da questo oggetto, il narcisista si premurerà di proiettare in lui la propria insoddisfazione esistenziale, facendolo sentire in costante difetto.

La malvagità egosintonica con cui attua questo comportamento è dettata dalla volontà di negare la dipendenza dall’oggetto materno invidiato, che non è mai stata rielaborata in funzione depressiva (Klein, 1957): quindi, anche ove riceverà un favore, il narcisista non potrà mostrarsi grato, o dimostrerebbe di aver avuto necessità dell’oggetto. Allo stesso modo, anche ove avrà bisogno della presenza dell’altro, non potrà mai palesarlo, o finirebbe con l’inficiare l’onnipotenza del Sé (McWilliams, 1994).

Questo aspetto di invidia e negazione di dipendenza dall’oggetto genera difficoltà relazionali in ambito sociale così come in quello terapeutico, nel quale la pulsione distruttiva del narcisista crea una funzione transferale ostativa ad un risultato evolutivo. Anche il terapeuta viene dunque identificato come una fonte da distruggere, più che come uno strumento di conoscenza e contenimento del Sé patologico. L’idea di dipendere da altri risulta intollerabile e l’idea di ammettere di aver ricevuto un beneficio terapeutico viene visto come un affronto al Sé, inammissibile quanto inaccettabile. Anzi, è probabile che il paziente indulga nel negare anche a se stesso, oltre che al terapeuta, ogni possibile miglioramento raggiunto grazie alla terapia, impegnandosi quindi non solo nell’ignorarlo, ma altresì nell’evitarne l’attuazione (McWilliams, 1994)

Ma possiamo dire, del narcisista, che la sua avidità serve solo ad impoverirlo, e dunque è proprio nella negazione della dipendenza che è possibile sperimentare la necessità latente della stessa. Per questo il terapeuta dovrà lavorare sulle resistenze all’attaccamento cercando di aggirarle cautamente, in prospettiva di dotare il paziente di un oggetto buono da interiorizzare e con cui placare le proprie angosce persecutorie (Gabbard, 2015).

Il terapeuta, specie nelle prime fasi della terapia, dovrà tollerare l’inevitabile invidia del paziente che potrà esprimersi attraverso confessioni larvate, fatte sul finire della seduta, quando ormai non possono più essere interpretate né rese oggetto di colloquio. Dovrà tollerare le sue disconferme, le squalifiche sul suo operato, più o meno esplicite, che rappresenteranno in realtà solo il suo timore dell’attaccamento relazionale; dovrà accettare di venir distrutto, annientato dal paziente, che in lui vede una potenziale minaccia alla propria onnipotenza (Horner, 1993).

Freud riteneva che la psicoanalisi non potesse essere attuata con i narcisisti, proprio per l’incapacità degli stessi di costruire un transfert terapeutico (1916). In realtà oggi si tende a credere che, con pazienti di questo tipo, l’apparente assenza di transfert sia essa stessa il transfert (Gabbard, 2015).

La spiegazione è ovvia, se pensiamo che il transfert consiste nella riproduzione terapeutica del rapporto affettivo con gli oggetti primari – dunque con i genitori – e che il disturbo narcisistico ha impedito proprio la costruzione di queste relazioni oggettuali validanti: in base a ciò il paziente non percepisce nel terapeuta la figura riattualizzata del padre o della madre, né la riproduzione del suo rapporto con loro, ma soltanto una mera estensione del Sé, sia quella ipervalutata e idealizzata, sia quella svalutata e oggetto di vergogna (McWilliams, 1994). Il terapeuta deve dunque lasciare che il paziente lo utilizzi come oggetto Sé utile al mantenimento del processo interno dell’autostima, evitando di sentirsi sminuito quando l’invidia narcisistica, per liquidare l’angoscia connessa alla vergogna e all’invidia, verrà diretta su di lui in un’alternanza idealizzata e svalutante: nella consapevolezza che si tratta di proiezioni riferite al Sé del paziente, del quale lui costituisce solo l’oggetto proiettivo (McWilliams, 1994).

Sarà questo il primo passo verso la costruzione di un’autostima autentica e non difensiva, dell’interiorizzazione trasmutante che è risultata deficitaria nell’infanzia (Khout, 1971), ma anche il passaggio indispensabile per svincolare il paziente dai legami libidici maligni e predatori che l’invidia ha generato, potenziato, mantenuto nel tempo.

 

L’esigenza di fornire servizi psicologici online indotta dalla pandemia e la sottostima dei rischi deontologici e legali da parte degli psicologi

I cambiamenti sociali imposti dalla pandemia, insieme ad una generalmente bassa competenza/consapevolezza digitale, hanno indotto molto velocemente a erogare dei servizi psicologici online poco aderenti al codice deontologico e ai requisiti legali richiesti dal GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati.

 

L’emergenza COVID-19 ha modificato drammaticamente molte abitudini quotidiane che avevamo ed accelerato alcuni processi che difficilmente avrebbero registrato una diffusione ed una pervasività così massiccia. Uno di questi processi è stato senza dubbio quello della digitalizzazione online di molte attività che erano già potenzialmente realizzabili anche molto prima della pandemia, ma che la necessità imposta dal distanziamento sociale fisico ha reso rapidamente auspicabili se non addirittura necessarie.

Molte di queste attività hanno registrato un incremento sbalorditivo della loro implementazione e integrazione digitale perché vi è stato un forte cambiamento della percezione relativa a queste modalità alternative alla tradizionale compresenza fisica. La spinta di questa differente percezione nei confronti del digitale è stata promossa da motivazioni economiche e/o dalla necessità di stabilire comunque un’interazione sociale non fisica.

Svolgere queste attività attraverso la tecnologia digitale web è passata molto rapidamente dall’essere generalmente percepite, prima dell’emergenza COVID-19, quali modalità si potenzialmente realizzabili, ma anche possibilmente da evitare per la combinazione di generale sfiducia sull’efficacia attribuita alle nuove tecnologie comunicative e la consapevolezza del bisogno di acquisire specifiche conoscenze e competenze necessarie per gestire tali contesti, ad essere considerate, durante il periodo di pandemia, come unica opzione possibile di interazione e di realizzazione dell’attività stesse.

Questa dinamica che ha visto la drammatica transizione generale del percepito (in meno di un mese) da un misto di scetticismo e preoccupazione ad unica (e quindi improvvisamente prioritaria) modalità di svolgimento dell’attività professionale, ha caratterizzato ad esempio qualsiasi ambito educativo e didattico così come pressoché la totalità dei servizi di supporto psicologico durante la pandemia.

Mi concentrerò ora proprio su questo contesto caratterizzato dai servizi psicologici forniti attraverso tecnologie digitali web (videochiamate, messaggistiche, email, etc.).

Ritengo questo contesto specifico paradigmatico di come i cambiamenti sociali imposti dalla pandemia, insieme ad una generalmente bassa competenza/consapevolezza digitale, abbiano indotto molto velocemente delle nuove pratiche professionali poco aderenti al codice deontologico (in questo caso degli psicologi) e dei requisiti legali richiesti dal GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati.

Collaborando da anni con la dott.ssa Marlene Maheu, psicologa americana pioniera del settore della telepsicologia che dirige il gruppo di lavoro dedicato a questo argomento dell’APA (American Psychological Association), e, facendo con lei un documento che è servito per definire le attuali linee guida sulla telepsicologia americane (Agnoletti & Maheu, 2013), sono fortemente convinto che il recente fenomeno indotto dalla pandemia sulle pratiche professionali degli psicologi dovrebbe richiamare l’attenzione anche delle istituzioni non tanto per punire i comportamenti scorretti, ma per fornire soluzioni più pratiche, agevoli e sicure alla comunità di psicologi professionisti e quindi ai loro clienti/pazienti.

Il particolare fenomeno psicosociale in oggetto consiste nella sottovalutazione dei rischi legali/deontologici percepiti dai professionisti (sia nei confronti dei professionisti stessi che relativamente la loro utenza) per la specifica combinazione di questi fattori:

  • motivazioni economiche;
  • bassa competenza delle dinamiche digitali/tecnologiche;
  • effetto psicosociale di diluizione di responsabilità e conformismo dovuto alla pubblica diffusione soprattutto nel web di pratiche non corrette (talvolta promosse anche dalle istituzioni oltre che dai singoli professionisti).

Individualmente questi specifici fattori possono già rappresentare una condizione sufficiente per innescare il fenomeno di sottovalutazione dei rischi percepiti derivanti da pratiche non conformi il proprio codice deontologico, ma in generale probabilmente tali fattori sono compresenti in varie forme all’interno della popolazione degli psicologi professionisti.

La motivazione economica è il fattore che senza dubbio caratterizza maggiormente gli psicologi liberi professionisti che, con l’introduzione delle misure di contenimento della pandemia, hanno in generale registrato un abbassamento significativo dei loro introiti (già particolarmente bassi rispetto altre categorie professionali) sia per la forte diminuzione di clienti/pazienti disposti a recarsi fisicamente da loro che per l’invito istituzionale di erogare i servizi possibilmente in modalità online per tutelare maggiormente i professionisti stessi oltre che naturalmente i loro utenti.

Il fatto di dover offrire quasi esclusivamente in modalità digitale i propri servizi ha spiazzato la maggior parte di psicologi clinici liberi professionisti che si sono trovati nella spiacevole situazione di dover/poter utilizzare unicamente questa forma tecnologica per provvedere alla sopravvivenza della propria attività economica in assenza però di un’effettiva competenza specifica (come richiesto da tempo dal proprio codice deontologico).

Relativamente il fattore della bassa competenza digitale occorre dire che particolarmente in Italia, rispetto altre nazioni, la telepsicologia ha finora (o meglio fino all’attuale pandemia) registrato una minore attenzione probabilmente per una poco solida cultura generale riguardante la digitalizzazione.

Anche in assenza di dati e riscontri statistici è assai irrealistico pensare che la popolazione di psicologi clinici, abbia acquisito le competenze di telepsicologia in un tempo così ridotto (meno di un mese) nella quasi totale assenza, tra l’altro tutt’ora riscontrabile, di specifici corsi relativi queste particolari tematiche.

A prova di ciò non esistono tuttora corsi di formazione istituzionali su questo argomento (anche quelli privati sono pochissimi) ed in genere la modalità digitale è (o è stata fino all’attuale pandemia) percepita con molto scetticismo e diffidenza dalla comunità degli psicologi clinici malgrado la decennale letteratura scientifica internazionale smentisca questi preconcetti (Commissione atti tipici, osservatorio e tutela della professione, 2017; Hilty et al., 2013; Slone et al. 2012; Turgoose et al., 2018; Varker et al., 2019).

Riguardo all’effetto di diluizione di responsabilità e l’effetto conformismo, il fatto che soprattutto nel web sia molto diffusa l’offerta di servizi psicologici online attraverso, ad esempio, piattaforme di videochiamata già molto popolari, non le rende automaticamente né rispettose del codice deontologico né del regolamento GDPR.

È sufficiente leggere con attenzione i documenti contrattuali che si sottoscrivono con le aziende che forniscono questi servizi informatici per accorgersi che il trattamento dei dati personali presenta perlomeno dubbi relativi la compatibilità sia nei confronti del codice deontologico che del GDPR.

Con molta probabilità il fatto di utilizzare piattaforme o app molto diffuse sia all’interno della popolazione generale che diffuse all’interno della comunità stessa di psicologi (istituzioni comprese) facilita i processi decisionali che tendono a sottostimare i rischi legali e deontologici derivanti dall’utilizzo di queste tecnologie.

Tutt’oggi se si incrociano le parole “videochiamata” o “videoconferenza” e “GDPR” in qualsiasi motore di ricerca compaiono pochissime aziende che offrono chiaramente l’informazione di soddisfare i criteri richiesti dal GDPR.

Va ricordato che, in caso di dubbio nel decidere se utilizzare o meno una piattaforma o app che soddisfi o meno i criteri espressi dal codice deontologico o dal GDPR, la scelta eticamente (e deontologicamente e legalmente) corretta dovrebbe essere sempre quella di non utilizzare quegli strumenti tecnologici di cui non sono chiare le implicazioni e i rischi sia per il professionista che per i clienti/pazienti.

Il principio appena descritto è anche codificato formalmente all’interno del GDPR che da una parte non tollera l’ignoranza in materia dell’uso improprio della tecnologia comunicativa utilizzata (la legge non ammette ignoranza, in latino “ignorantia legis non excusat”) e dall’altra, attraverso il principio di “accountability” (responsabilizzazione), attribuisce al titolare del trattamento dei dati la responsabilità di gestire e documentare attivamente i suoi processi decisionali in merito.

Risulta tra l’altro particolarmente interessante dal punto di vista psicologico che questa dinamica di de-responsabilizzazione sia una competenza molto conosciuta della psicologia sociale (si vedano ad esempio in merito i famosi esperimenti di Ash, di Milgram ed il principio di riprova sociale di Cialdini) quindi patrimonio di tutti gli psicologi.

In estrema sintesi è dunque fortemente auspicabile far crescere la cultura digitale, tecnologica e legale/deontologica all’interno della comunità degli psicologi (sia liberi professionisti che non) al fine di ridurre i rischi legali e risarcitori derivanti dall’uso poco professionale del trattamento dei dati dei loro assistiti.

 

La sindrome da Workaholism ai tempi del lavoro agile

Il periodo di quarantena ha modificato non solo il vissuto personale, ma anche le pratiche lavorative. Le aziende si sono trovate, quasi improvvisamente, a gestire l’emergenza organizzativa, approdando, in tempi rapidi, al lavoro agile o smartworking.

 

Ma questo lavoro agile è davvero così “intelligente” da migliorare il benessere di tutti i lavoratori? In un recente report sul lavoro agile nelle Pubbliche Amministrazioni italiane (Tripi & Mattei, 2020) durante il periodo covid19, gli autori rilevano come il lavoro intelligente tenda a diminuire lo spazio sia fisico sia psicologico tra vita privata e vita lavorativa, in quanto rende il lavoratore iperconnesso. Questo può avere effetti positivi, in termini di mobilità, produttività e multitasking; ma anche negatività legate all’aumento dello stress lavoro-correlato, ma soprattutto di sindromi non facilmente rilevabili, come quella da Workaholism. Si tratta, infatti, di una sindrome camaleontica, che si mimetizza con facilità, in quanto, da parte del lavoratore si instaura una vera dipendenza; per l’azienda il lavoratore workaholic può essere una risorsa umana molto produttiva.

Il termine Workaholic (in italiano letteralmente ‘sindrome da alcolista da lavoro’, più in generale ‘sindrome da dipendenza da lavoro’) è stato coniato da Oates (1971), come contrazione delle parole ‘work’, ovvero ‘lavoro’ e ‘a(lco)holic’, cioè ‘alcolizzato’. Si riferisce a persone la cui necessità di lavoro è diventata così forte che può costituire un pericolo per la loro salute, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale (Oates, 1971).

Sebbene sia stata dedicata una notevole attenzione al costrutto di workaholism negli ultimi anni (Fassel, 1990; Garfield, 1987; Kiechel), sono state intraprese poche ricerche empiriche per approfondire la comprensione di questo fenomeno (Porter, 2001; Robinson & Post, 1995, 1997). Questo, infatti, ha influito sulla mancanza di chiarezza nell’operazionalizzazione del costrutto della sindrome da dipenza lavorativa e, di conseguenza anche sulla sua individuazione e valutazione. Alcuni ricercatori, ad esempio, hanno proposto l’esistenza di diversi tipi di modelli di comportamento workaholic (Scott et al., 1997). Naughton (1987) presenta una tipologia di workaholism basata sulla relazione tra impegno professionale e tendenze ossessivo-compulsive.

Interessante è invece notare come, al di là delle differenze individuali che contribuiscono a definire un identikit di lavoratore workaholic, ci sono anche aspetti culturali. Nella Società della Rete (Simmel, 1991), infatti, che ha costruito la cultura della connessione, il lavoro può seguire la risorsa umana in qualsiasi luogo. La tecnologia, quindi, diventa un mezzo che (col)lega all’ufficio. Negli ultimi decenni, la tecnologia ha reso il workaholism più diffuso che mai. Questo accade anche perché, culturalmente, essere ‘occupati’ è un distintivo di onore.

In conclusione, il lavoro agile e intelligente risulta un’ottima strategia per fronteggiare una crisi di qualsiasi natura (dalla pandemia alla crisi economica) agevolando l’azienda, ma anche il lavoratore. Non bisogna, però, dimenticare di ricostruire, anche nel contesto virtuale, momenti di socializzazione, ma soprattutto di supporto e attenzione alle ‘vulnerabilità’ lavorative.

“Fiore”, l’umanità di un genitore – Recensione del film

Il presente articolo, attraverso l’analisi del rapporto padre – figlia del film Fiore di Claudio Giovannesi (2016), descrive il processo di caduta del mito genitoriale durante l’adolescenza, presentando comunque la situazione disagiata in cui si trovano i protagonisti della storia.

 

Ora che dormi ti voglio parlare
sono tuo padre ma non lo so fare
perché io sono cresciuto soltanto in altezza
un metro e ottanta è la mia insicurezza.

Queste sono alcune delle parole della celebre canzone di Federico Salvatore Ninna nanna gelosa, che potrebbero essere pronunciate dal padre di Daphne, la protagonista di Fiore, film di Claudio Giovannesi del 2016, reperibile in questo momento nel catalogo di RaiPlay.

La cornice di questa storia tratta di un contesto particolarmente complesso e svantaggiato. Daphne è una ragazza costretta a rubare telefoni, puntando un coltello alla gola del malcapitato, per poterseli rivendere e sostentarsi con il ricavato. Dorme dove capita e sembra non appartenere ad alcun nucleo familiare, finché non viene rinchiusa in riformatorio e dopo un periodo lì si presenta al colloquio con lei il padre, interpretato da Valerio Mastandrea. Quest’uomo ha trascorso 7 anni in carcere ed essendo appena uscito non ha un lavoro e non può sostenere la figlia economicamente. Egli stesso vive nell’abitazione della compagna, anche lei in condizioni non abbienti e con un figlio ancora in età scolare.

Uno dei legami messi in luce dal film è proprio quello tra Daphne e suo padre. La protagonista vive l’adolescenza in modo ancor più critico rispetto alla consuetudine, ma anche lei come molte ragazze della sua età non è immune ai limiti del padre, che in questo caso sono di natura economica. Dopo aver trascorso un breve periodo con lui, è arrabbiata nei confronti dell’uomo che non può tenerla a casa con sé e non può provvedere a lei, poiché impossibilitato dalla propria situazione. Grazie a questo passaggio è possibile notare quanto il legame tra Daphne e suo padre sia molto simile a quello di una qualsiasi adolescente e il proprio genitore.

Sin dall’infanzia alcune figure genitoriali assumono nella mente dei bambini una parvenza di onnipotenza e sembra come se non potessero essere soggetti ad alcun limite, talmente tanto che nemmeno la morte portebbe coglierli.

L’adolescente per uscire dalla fase infantile deve venire faccia a faccia con i limiti del genitore e sbattendo contro uno o più di questi muri, si trova ad affrontare il dolore che dà l’impatto. Nel momento in cui il limite diviene visibile, la rappresentazione mentale del genitore scende dalle nubi dell’Olimpo e diviene sempre più umana. Eppure il processo di umanizzazione del genitore interiorizzato è più facile a dirsi che a farsi, poiché nell’onnipotenza vi è la colpevolezza, mentre nell’umanità convergono più fattori difficili da digerire, tra cui l’impotenza e l’impossibilità della persona che abbiamo di fronte di essere come vorremmo che fosse, così anche la consapevolezza che un giorno questa persona non ci sarà più.

Nel caso di Daphne la difficoltà è quella di accettare l’impossibilità del proprio padre nel non poterla tenere con sé. Le risulta più facile arrabbiarsi e colpevolizzarlo per la condizione che li tiene separati e che la costringe a tornare nel riformatorio. Invece, negli occhi dell’uomo che va a riprenderla in un pub dopo che lei fugge, si legge il dolore di trovarsi egli stesso davanti alla propria impotenza, non potendo trascorrere con sua figlia più di quel breve periodo insieme.

Pur se non sempre nella stessa condizione economica, in questo “giuoco delle parti”, come lo definirebbe Pirandello, si evince ogni volta che le credenze infantili iniziano a crollare in quei figli pronti ad imbarcarsi nel delicato periodo dell’adolescenza. La differenza fondamentale è che, mentre nel padre di Daphne il limite è più facilmente visibile, poiché di carattere pratico, spesso i limiti genitoriali non sono così palesi e ci mettono più tempo per emergere ed essere poi accettati. Eppure, a volte, anche le impossibilità maggiormente visibili, come quella del padre della ragazza, sono difficili da digerire, poiché bisognerebbe uscire dalla convinzione che quel genitore all’apparenza tanto forte è così tanto umano che non può salvarci, e forse gli unici che possono salvarci siamo noi stessi.

 

Bisessualità: le differenze tra uomini e donne nei comportamenti sessuali

Un recente studio si è proposto di esplorare quali siano i comportamenti bisessuali che le donne e gli uomini considerano come aver “fatto sesso”, con chi li hanno messi in atto e le differenze negli atteggiamenti sessuali e nelle storie sessuali bisessuali attraverso le coorti generazionali.

 

Negli ultimi tre decenni, la ricerca sul rapporto tra identità e salute di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) è aumentata in modo significativo (Institute of Medicine [IOM], 2011). Sebbene questa ricerca abbia evidenziato una serie di disparità di salute vissute dalle persone LGBT, pochi studi si sono concentrati esplicitamente sulla salute delle persone bisessuali (Human Rights Campaign [HRC], 2015).

Spesso i dati di donne e uomini bisessuali sono stati combinati con quelli di donne e uomini gay lesbiche, concentrandosi principalmente sui comportamenti sessuali (ad esempio, fare sesso con donne e/o uomini), piuttosto che sull’identità e sull’esperienza (Bostwick, 2012; Pathela, Blank, Sell, & Schillinger, 2006; Pathela, Hajat, Schillinger, Sell, & Mostashari, 2006;). Tuttavia, le persone identificate bisessualmente costituiscono un gruppo distinto e separato da donne e uomini lesbiche, gay ed eterosessuali (Bostwick, 2012; Galupo, 2011). Un recente studio si è proposto di esplorare quali sono i comportamenti bisessuali che le donne e gli uomini considerano come avere “fatto sesso” e quali di questi comportamenti hanno assunto solo con donne, solo con uomini, donne e uomini, o con nessuno. Inoltre, questo studio esamina le differenze negli atteggiamenti sessuali e nelle storie sessuali di donne e uomini bisessuali attraverso le coorti generazionali.

I partecipanti sono stati selezionati da una banca dati molto ampia (N = 14.724) che comprendeva uno spettro di orientamenti sessuali. I criteri di inclusione per le analisi includevano l’età minima di 18 anni, il fatto di vivere negli Stati Uniti, l’auto-identificazione come bisessuale e l’identificazione come uomo. Essi hanno compilato un questionario online, ovvero il Had Sex Survey del Kinsey Insitute 2007, che aveva lo scopo di esplorare il genere [ad es., “Quale delle seguenti caratteristiche ti descrive meglio? -Donna (nata femmina), – Uomo (nato maschio), – Transessuale / donna transessuale (MTF), – Transessuale / uomo transessuale (FTM); – Donna intersessuale; – Uomo intersessuale; – Uomo intersessuale; – scelgo di non rispondere”], l’orientamento sessuale, gli atteggiamenti riguardo a quali comportamenti costituiscono l’aver “fatto sesso”, andando a fornire una personale definizione di tale atto (ad es., “Diresti di aver ‘fatto sesso’ con qualcuno se il comportamento più intimo che hai avuto è stato…?” seguito da un elenco di comportamenti a cui si può rispondere “No”, “Sì” e “Scelgo di non rispondere”), modelli di comportamento per tutta la vita [ad es., “Ha mai tenuto uno dei seguenti comportamenti con un uomo (uomini) o una donna (donne)”?] e alcuni dati demografici. Per le donne e gli uomini bisessuali di questo campione non c’è stato un accordo universale su quali comportamenti costituiscono l’atto. Tuttavia, come ci si aspetterebbe, è più probabile che alcuni comportamenti siano etichettati come “sesso” rispetto ad altri.

Dai risultati è emerso che relativamente pochi, ma proporzionalmente più uomini bisessuali rispetto a donne bisessuali, considerano il bacio passionale e la stimolazione manuale o orale del seno come “sesso”. Un numero maggiore di partecipanti ha considerato come “sesso” la stimolazione manuale e orale dei genitali e dell’ano, oltre all’uso di giocattoli sessuali. Il rapporto tra l’età e la probabilità di considerare l’uso di giocattoli sessuali come “aver fatto sesso” è risultato statisticamente significativo per entrambi i sessi, in quanto gli uomini e le donne più anziani sono generalmente più propensi a considerare l’uso di giocattoli sessuali come sesso rispetto ai gruppi più giovani. Indipendentemente dal sesso e dall’età, la maggior parte, ma non tutti i partecipanti (88% – 100%), hanno considerato i rapporti penilo – vaginali (PVI) e penilo – anali (PAI-ricettivi; e per gli uomini PAI-insertivi) come “rapporto sessuale”. Nello specifico, le donne sono risultate significativamente più propense degli uomini a contare PVI e PAI – ricettivo come sesso.

I risultati rivelano anche che per gli uomini bisessuali, i comportamenti sessuali più comunemente segnalati con partner di entrambi i sessi sono stati i comportamenti manuali e orali dei genitali (“80%), il bacio profondo e la stimolazione manuale del seno (70%) e la stimolazione orale del seno (60%). Circa un terzo ha riferito di aver avuto rapporti anali insertivi con uomini e donne e un altro quarto ha riferito di averli avuti solo con partner maschi. L’età è stata associata in modo significativo con l’aver adottato tutti i comportamenti tranne il bacio profondo, anche se la natura precisa della relazione variava. Rispetto alle fasce d’età più anziane, un numero minore di uomini bisessuali nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni si è impegnato in tutti i comportamenti ad eccezione dei baci profondi. In altre parole, le coorti in età più avanzata hanno riferito un maggior numero di esperienze sessuali di vario tipo.

Per le donne bisessuali, i comportamenti sessuali più comunemente segnalati con partner di entrambi i sessi erano il bacio profondo (quasi il 90%), la stimolazione manuale e orale del seno e la stimolazione manuale dei genitali (“80%) e quella orale (“70%). PVI e PAI con soli uomini sono stati segnalati rispettivamente dall’84% e dal 64%. Circa un quarto ha riferito solo con i partner maschi. L’età è stata associata in modo significativo con l’aver adottato tutti i comportamenti tranne il bacio, con le coorti più anziane che hanno avuto più esperienza. Tuttavia, la forza delle associazioni di storie di comportamento con l’età erano generalmente più deboli rispetto a quelle degli uomini. In sintesi, rispetto agli uomini e alle donne bisessuali più anziani, i gruppi di età più giovani (18-29 anni) hanno riportato una minore esperienza sessuale ed erano meno propensi a contare un certo numero di comportamenti come sesso; e le correlazioni con l’età erano più forti per gli uomini che per le donne su un certo numero di item. Tuttavia, questo modello non è limitato a questo campione bisessuale (Sanders et al., 2010).

Tali risultati hanno importanti implicazioni metodologiche per gli studi basati su questionari e stime della popolazione sul comportamento e l’identità sessuale e hanno ramificazioni cliniche per intervistare clienti o pazienti.

 

Il Training Autogeno nella malattia oncologica

A fronte delle numerose evidenze sull’utilizzo del training autogeno in vari contesti, risulta interessante l’applicazione di tale tecnica nel campo oncologico, ovvero nella riduzione del dolore e nel miglioramento generale della qualità di vita percepita.

 

Il Training Autogeno (TA) è una tecnica di rilassamento sviluppata da J.H. Schultz nel 1932 con l’obiettivo di rendere il paziente meno vincolato al terapeuta e conseguentemente di sviluppare una capacità di rilassamento autonoma. È una tecnica mind to muscle, che parte dal presupposto di arrivare ad un rilassamento corporeo attraverso la concentrazione mentale. Il concetto di base è l’ideoplasia, il fenomeno per cui il pensiero riesce a modificare uno stato corporeo, mentre il principio di funzionamento è il condizionamento classico: attraverso la ripetizione di esercizi mentali volti a raggiungere un obiettivo fisiologico, si arriva alla costante associazione tra questi (Mauti, 2012).

Il training autogeno, nella sua forma, presenta sei esercizi base:

  1. Pesantezza
  2. Calore
  3. Cuore
  4. Respiro
  5. Plesso solare
  6. Fronte fresca

Gli esercizi sopra esposti seguono una prima fase di modulazione del respiro, più profondo e lento ed una induzione alla calma e rilassamento.

In letteratura sono stati riportati gli effetti positivi di tale tecnica nel trattamento di numerosi disturbi, in particolare nell’emicrania, asma, eczema, ipertensione, tachicardia, disturbi somatoformi, insonnia, ansia, depressione e dolore cronico (Linden, 1994; Stetter & Kupper, 2002; Varvogli & Darviri, 2011).

A fronte delle numerose evidenze sull’utilizzo del training autogeno in vari contesti, risulta interessante l’applicazione di tale tecnica nel campo oncologico, ovvero nella riduzione del dolore e nel miglioramento generale della qualità di vita percepita; il TA permette infatti al paziente di svolgere tale tecnica in autonomia ed in un contesto domestico e familiare rendendo più facile e accessibile l’utilizzo della tecnica di rilassamento quotidianamente. Generalmente la diagnosi di malattia neoplastica genera nel pazienti sentimenti di incertezza, paura, rabbia, insonnia e stress (Campolmi et al., 2019; Williams et al., 2016) che spesso persistono durante l’iter oncologico, riverberandosi su numerosi aspetti della vita del paziente e del familiare; rendendo necessari e auspicabili interventi complementari che siano volti a supportare il paziente nel suo percorso e garantirgli una qualità di vita soddisfacente.

Uno studio (wright et al., 2002) ha preso in esame l’effetto del Training Autogeno su un gruppo di pazienti oncologici, dopo aver somministrato il questionario HADS (Hospital Anxiety Depression Scale) e POMS (Profile of Mood States) prima e dopo il trattamento, analizzando i dati sia quantitativamente che qualitativamente.

I principali risultati dopo 10 settimane di training hanno sottolineato una riduzione dell’ansia misurata con il questionario HADS e maggiori punteggi di vigore e spirito combattivo (POMS); in aggiunta i resoconti self-report dei pazienti hanno mostrato una minore rabbia e tensione percepita, una maggiore facilità nell’addormentamento, un effetto calmante e distensivo oltre che una maggiore focalizzazione su se stessi e sui propri pensieri ed una migliore espressione degli stessi, favorendo un incremento del benessere percepito. Gli autori commentano tali risultati sottolineando che il senso di confidenza e padronanza conferito dall’acquisizione del training potrebbe placare le paure associate all’anticipazione del futuro, l’utilizzo della tecnica in autonomia permette di avere una maggiore padronanza e di svolgerla nei momenti di maggior bisogno.

Un altro studio (Hidderley, 2004) ha esaminato come l’insegnamento del training autogeno in un gruppo di pazienti oncologici influisca sulla risposta immunitaria e sulle variabili di ansia e depressione (HADS). Suddividendo il campione di 31 soggetti in due sottogruppi, uno sperimentale ed uno di controllo, i risultati hanno mostrato una riduzione dei punteggi di ansia e depressione dei soggetti che avevano partecipato al percorso di training autogeno; inoltre, nel medesimo sottogruppo, è stata osservata una maggiore risposta immunitaria attraverso l’analisi dei linfociti T e B sia rispetto al periodo antecedente il  training sia rispetto al sottogruppo di controllo. Tale dato sembra essere confermato anche da un altro studio (Minowa & Koitabashi, 2014) dove è stato evidenziato un incremento della risposta immunitaria attraverso l’analisi della immunoglobulina A salivare, in un gruppo di pazienti oncologici sottoposti a trattamento con TA rispetto al gruppo di controllo. Gli autori commentano che la stimolazione del sistema parasimpatico indotta dall’utilizzo del training potrebbe indurre una risposta immunitaria maggiore, laddove è ben documentato l’effetto dello stress nella riduzione della stessa (Taylor, 2014).

Generalmente, durante l’iter oncologico, una fase critica è rappresentata dal trattamento medico, sia farmacologico che chirurgico, dove è frequente il riscontro di sentimenti ambivalenti come la speranza per il sollievo dal dolore o dalla progressione della malattia e contemporaneamente paura ed ansia per l’invasività o l’esito del trattamento (Stark & House, 2000)

Minowa e Koitabashi (2013) hanno preso in esame l’effetto della pratica del training autogeno sulle le variabili di ansia e di dolore percepito attraverso rispettivamente il test STAI (Stait-Trait Anxiety Inventory) e VAPS (Visual Analogue Pain Scale), in un campione di 60 pazienti con tumore al seno a seguito dell’intervento chirurgico. Un gruppo di pazienti ha seguito un protocollo di TA per 20 minuti, 3 volte al giorno nei 3 giorni successivi l’intervento, mentre l’altro gruppo ha seguito l’assistenza usuale. I risultati mostrano una significativa riduzione dei parametri dell’ansia nel post-test all’interno del gruppo che aveva partecipato al training rispetto al gruppo di controllo; gli autori commentano questo dato, in linea con quanto affermato da Wright e coll. (2002), che la stimolazione del sistema parasimpatico possa aver indotto uno stato di calma e rilassamento contribuendo ad interrompere il circolo vizioso di ansia, tensione e dolore. Per quanto concerne i punteggi di dolore, vi è stata una riduzione significativa nel gruppo che ha partecipato al TA rispetto al gruppo di controllo, nonostante sia stata seguita la medesima terapia medica. Gli autori specificano che l’effetto di rilassamento del training, nel presente studio, si è mantenuto per circa un giorno, mentre in accordo con la letteratura, sono necessarie circa 8 settimane per padroneggiare efficacemente la tecnica ed avere un effetto più duraturo.

Il training autogeno si è dimostrato inoltre efficace nella prognosi dell’insonnia in pazienti affetti da malattie croniche, dove stress e ansia possono essere sia causa che conseguenza di difficoltà nel sonno.

Pertanto, Robinson e colleghi (2010) hanno preso in esame l’effetto della pratica del TA in un campione di 153 pazienti con problemi cronici di salute ed è emerso un significativo aumento della qualità del sonno percepita: nello specifico sono stati riportati minor risvegli notturni, un sonno percepito come maggiormente ristoratore e una minore latenza nell’addormentamento.

Analoghi risultati sono stati trovati in uno studio di Simeit e collaboratori (2004), dove è stata riscontrata una minor latenza nell’addormentamento, qualità e durata maggiore di ore di sonno in un campione di pazienti oncologici a seguito di un percorso di TA.

I dati hanno dimostrato anche un miglioramento della qualità di vita percepita attraverso la somministrazione del QLC-30, sottolineando un beneficio psicologico generale dell’intervento.

I risultati sopra esposti sono incoraggianti prendendo in considerazione che la prevalenza dei disturbi del sonno è presente nel 23-60% dei pazienti oncologici in rapporto al 9-30% della popolazione generale (Semeit et al., 2004).

In conclusione, sebbene siano numerosi gli studi che prendono in esame i bisogni psicologici ed assistenziali del malato oncologico, sono relativamente poche le ricerche che inseriscono e studiano il Training Autogeno come intervento complementare nella pratica oncologica.

I risultati sopra esposti mettono in luce gli aspetti positivi dell’utilizzo del TA nell’incrementare il benessere percepito, nel ridurre variabili di ansia, stress e problemi legati al sonno; potenzialmente si può evincere che tale tecnica di rilassamento, soprattutto per la possibilità di essere svolta in autonomia e relativa facilità di apprendimento, rappresenti un importante ausilio nell’intervento con il malato oncologico, migliorando molteplici variabili psicologiche e fisiche che, interconnesse, possono incrementare la qualità di vita del paziente. Sarebbe inoltre interessante approfondire la ricerca in questo campo estendendo l’utilizzo del training autogeno ad i familiari dei pazienti con il cancro, essendo quest’ultima una malattia che si riverbera inevitabilmente sul sistema di relazioni della persona che ne è affetta, stravolgendo i ruoli e la quotidianità del contesto familiare di cui fa parte.

 

Covid-19: il trattamento breve gruppale online – Report dal webinar delle Dott.sse Rebecchi, Mazzocco e Ascani

L’ultimo incontro, organizzato da Studi Cognitivi per approfondire alcuni aspetti psicologici relativi all’emergenza Covid-19, ha avuto come protagoniste le Dr.sse Rebecchi, Mazzocco e Ascani. Il webinar del 5 giugno ha esposto un protocollo per il trattamento gruppale online in risposta al disagio scaturito dalla pandemia e dalle sue conseguenze.

 

Le docenti hanno fornito i dati della letteratura scientifica, chiarito le motivazioni che hanno portato alla creazione dell’intervento e hanno illustrato il protocollo sia nei suoi aspetti organizzativi che operativi, proponendo anche esercizi esperienziali.

La Dr.ssa Rebecchi ha spiegato come la psicologia clinica e quella d’emergenza siano le discipline a cui far riferimento nel rispondere alle numerose richieste di aiuto per la gestione dello stress conseguente al contesto pandemico. L’impatto globale del SARS-CoV-2 sulla salute pubblica è senza precedenti e ha messo in discussione tutti i clinici: sono saltati alcuni criteri diagnostici (per esempio, non possiamo più parlare di disturbo acuto da stress per la durata del fenomeno, non è un evento paragonabile a un terremoto) e sono cambiati i setting d’intervento. La letteratura a riguardo è in fase di produzione e non si hanno ancora abbastanza informazioni sul virus, sulle conseguenze e sull’impatto psicologico a breve, medio e lungo termine.

L’idea di un protocollo per il trattamento gruppale cognitivo-comportamentale nasce da Studi Cognitivi. Le motivazioni alla base della sua realizzazione sono:

  1. costruire un protocollo breve per la gestione dello stress e delle reazioni emotive (ansia, umore deflesso e rabbia), nell’ottica di trovare un nuovo adattamento;
  2. individuare un contesto (quello di gruppo) in grado di favorire la conoscenza, comprensione e condivisione di una varietà di eventi stressanti, delle diverse reazioni emotive e comportamentali (positive e negative) e delle possibili risorse di fronteggiamento;
  3. dare attenzione alla peculiarità del fenomeno pandemico Covid-19, che comprende diverse variabili: la paura della malattia o del contagio, le reazioni alle misure di prevenzione, ai dispositivi e al susseguirsi delle fasi, lo smarrimento causato da informazioni contrastanti, l’incertezza per il futuro, …

I gruppi CBT-Covid-19 hanno lo scopo di favorire la gestione dello stress derivante dalla situazione attuale di emergenza e si articolano in 6 incontri a cadenza settimanale da 1 ora e mezza ciascuno. I gruppi sono composti da un massimo di 8 partecipanti e due conduttori. Alla fine del ciclo di incontri sono stati pensati 3 follow-up per monitorare i livelli di stress (a 1 mese, 3 mesi e 6 mesi). I criteri di ingresso al gruppo, necessari per la valutazione di efficacia e per poter estendere il protocollo, sono:

  • la presenza di una sintomatologia reattiva o di un disagio significativo legato ai contenuti di paura del contagio o a reazioni emotive nei confronti dei dispositivi e delle conseguenze;
  • il raggiungimento di punteggi soglia (cut-off): IES > 33 e CORE > 14;
  • l’assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia, depressione e PTSD (criteri rilevati tramite colloquio clinico).

Da non sottovalutare, inoltre, la disponibilità dei partecipanti a lavorare in 1 ora e mezzo ogni settimana online in uno spazio tranquillo e intimo.

L’incontro preliminare e i 3 follow-up prevedono la compilazione di una batteria testale, sulla piattaforma inTherapy, composta da:

  • CORE-OM: utile per la valutazione di esito; permette di analizzare diversi domini: il benessere soggettivo, i sintomi-problemi, il funzionamento e i rischi per sé e per gli altri.
  • GAD-7 (Generalized Anxiety Disorder 7): il self-report maggiormente utilizzato per lo screening dei disturbi d’ansia.
  • PHQ-9 (Patient Health Questionnaire – 9): una scala che misura i sintomi depressivi relativi alle ultime due settimane.
  • IES-R (Impact of Event Scale – Revised): il più diffuso strumento per la valutazione di screening della sintomatologia post-traumatica.

Tutti gli incontri sono stati pensati con un’architettura simile: un riassunto della seduta precedente, la revisione degli homework, un’introduzione riguardante l’obiettivo dell’incontro, un brainstorming sulle sedute precedenti e sull’argomento del giorno, l’informativa, alcuni esercizi esperienziali e gli homework per consolidare gli apprendimenti.

Incontro 1: Quali eventi critici di stress

Il primo incontro si apre con la presentazione dei partecipanti e delle regole del gruppo, necessarie per garantire la condivisione e la privacy. Dopo questo primo momento si prosegue con l’esplorazione, la validazione e la normalizzazione dei vissuti emotivi, dei pensieri e delle reazioni alla pandemia riportate da ogni membro del gruppo. Successivamente vengono spiegate le varie fasi che ogni persona attraversa quando è esposta ad eventi stressanti (informativa) e vengono contestualizzate le reazioni emerse durante l’esplorazione (sintomi cognitivi, emotivi e comportamentali). L’intervento si conclude con l’esercizio del posto al sicuro, che costituirà anche l’homework della settimana per i partecipanti.

Incontro 2: Tecniche di gestione allo stress

Nel corso del secondo incontro viene spiegato cosa sono gli indicatori somatici di disregolazione e la finestra di tolleranza (Siegel, 2003) e vengono introdotte alcune tecniche di gestione dello stress a partire dalle situazioni condivise dai membri del gruppo durante l’intervento precedente. Nell’ottica di rispondere a diverse esigenze ed esperienze, gli esercizi proposti e insegnati vanno in due diverse direzioni:

  • regolare l’iperattivazione del sistema simpatico: calmare l’attivazione con esercizi di ri-orientamento, ridurre la tensione e regolare il respiro;
  • regolare l’ipoattivazione del sistema parasimpatico: aumentare l’attivazione con esercizi di ri-orientamento, aumentare la tensione e regolare il respiro.

Incontri 3, 4 e 5: Le emozioni e la pandemia

Gli incontri 3, 4 e 5 sono dedicati alle emozioni che più spesso hanno accompagnato la popolazione durante la fase di emergenza sanitaria da Covid-19: l’ansia, le sensazioni depressive e la rabbia. Infatti, non sono rari i casi di forti preoccupazioni per un possibile contagio, angosce per un futuro incerto, una profonda tristezza per l’isolamento o per le difficoltà nella gestione dei figli e dirompenti arrabbiature dovute al mancato rispetto delle regole di prevenzione.

Ognuno di questi incontri prevede una fase di sintetica informativa sull’emozione e sulle sue caratteristiche, la costruzione di ABC a partire dagli episodi condivisi dai partecipanti, la disputa dei pensieri disfunzionali e l’individuazione di pensieri alternativi. Durante ogni intervento, inoltre, vengono fornite delle strategie utili per affrontare lo stato interno preso in esame:

  • accettazione Be A.W.AR.E (Beck, A.T., Emery, G. & Greenberg, R.L. 1985), training attentivo (Wells, 2012) e rilassamento progressivo di Jacobson (Goldwurm, G. F., Sacchi, D., & Scarlato, A. 1986) per l’ansia;
  • accettazione della tristezza, identificazione delle risorse e programmazione di attività piacevoli (Leveni, 2018) nel caso delle sensazioni depressive;
  • stop del pensiero (Johnson, 1999) e respirazione lenta (Andrews, 2003) per la rabbia.

Incontro 6: Utilizziamo le risorse

Durante l’ultimo incontro si effettua un riepilogo degli interventi precedenti e si prova ad individuare ed imparare vecchie risorse e nuove tecniche per affrontare in modo più funzionale le situazioni difficili. Inoltre, partendo dalle problematiche emerse nel ciclo di incontri, verrà dedicato uno spazio alla prevenzione delle ricadute, identificano eventuali segnali di stress e le possibili strategie alternative.

 

Come individuare i casi di alienazione genitoriale: il modello a quattro fattori validato da Amy J. L. Baker

Nel corso di separazioni coniugali spesso si osservano dinamiche relazionali caratterizzate da una forte ostilità che possono incidere sul benessere psicologico dei figli. In questo ambito si inserisce un fenomeno, attualmente di forte interesse per ricercatori e professionisti dell’ambito psicologico-clinico e forense, denominato alienazione genitoriale.

Daniela Marchetti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto

 

Nella letteratura recente il termine alienazione genitoriale è utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore (a cui ci si riferisce con la denominazione di preferito o alienante) mette in atto comportamenti (strategie di alienazione) che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (che assume il ruolo di bersaglio o genitore rifiutato). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi presentano specifici segni rivelatori (manifestazioni comportamentali di alienazione genitoriale) e possono essere considerati figli alienati (Baker & Fine, 2014).

I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano la necessità in prima istanza di saper riconoscere dinamiche coniugali complesse, terreno fertile per lo sviluppo dell’alienazione genitoriale, in seconda istanza di individuare interventi che consentano di ridurre gli effetti a lungo termine sui figli.

Il modello a quattro fattori

In letteratura è possibile rintracciare diverse definizioni dell’alienazione genitoriale non necessariamente in disaccordo ma caratterizzate da una enfatizzazione di aspetti diversi del processo di alienazione (Verrocchio & Marchetti, 2017). In questa sede si fa riferimento al modello che individua e sottolinea quattro elementi centrali per la definizione e identificazione della dinamica di alienazione genitoriale. Seguendo questo modello recentemente validato dalla Dott.ssa Amy J. L. Baker (2018), riconosciuta a livello mondiale come una delle maggiori esperte del fenomeno, affinché si possa parlare di alienazione genitoriale è necessario siano presenti contemporaneamente quattro fattori. Se vengono rintracciati solo alcuni di questi non sarà pertanto corretto parlare di alienazione genitoriale.

Il primo elemento da considerare è la presenza di un rifiuto non giustificato di un genitore. Ciò vuol dire che non dovranno configurarsi esperienze di abuso o trascuratezza perpetrate dal genitore bersaglio o rifiutato. In questi casi infatti non è corretto parlare di alienazione genitoriale, ma di rifiuto motivato da parte di un figlio che rientrerebbe tra le dinamiche dell’estrangement (Harman, Bernet, & Harman, 2019; Kelly & Johnston, 2001).

Il secondo elemento è costituito dalla constatazione che il bambino rifiuta un genitore che precedentemente amava e con il quale aveva un buon legame di attaccamento. Per valutare questo fattore risulta fondamentale analizzare in maniera esaustiva la qualità della relazione genitore-figlio antecedente la conflittualità di coppia. Se si rintracciano elementi a sostegno di una relazione normativamente sana, il cambiamento rigido dell’atteggiamento del bambino nei confronti del genitore rifiutato potrà costituire un elemento che contribuirà all’identificazione di un caso di alienazione genitoriale.

Il terzo elemento deriva dall’osservazione di comportamenti tipici da parte del figlio rifiutante. Tra questi comportamenti si possono osservare: la campagna denigratoria del genitore rifiutato; la presenza di motivazioni deboli addotte per il rifiuto ingiustificato del genitore bersaglio; l’assenza di ambivalenza nei confronti del genitore preferito; il fenomeno del pensatore indipendente; il fenomeno degli scenari presi in prestito; la totale assenza di senso di colpa; il sostegno incondizionato del genitore preferito; la diffusione dell’ostilità ad altri componenti del nucleo familiare del genitore rifiutato (nonni, zii, ecc.). Tali comportamenti sono stati identificati e classificati da Gardner (1992) e possono essere rintracciati nella descrizione approfondita proposta da Verrocchio e Marchetti (2017).

Il quarto ed ultimo elemento è costituito dalla presenza di atteggiamenti e comportamenti specifici messi in atto dal genitore preferito. Le strategie di alienazione sono ampiamente descritte nella letteratura internazionale e nazionale (Baker, 2007; Bernet, Baker & Verrocchio, 2015; Verrocchio & Marchetti, 2017). Ci si limiterà pertanto a indicarne solo alcune delle più frequenti per fornire esempi utili. Una strategia spesso utilizzata è il parlar male o denigrare l’altro genitore davanti al figlio. Bisogna precisare che non ci si riferisce a sporadiche critiche o osservazioni fatte nei confronti del coniuge o ex coniuge, ma a continue manifestazioni verbali e non verbali di denigrazione dell’altro genitore davanti al figlio. Un’altra strategia frequentemente riscontrata è costituita dalla messa in atto di comportamenti volti a limitare il contatto e la comunicazione tra il genitore e il figlio (ad esempio, addurre scuse per non rendere disponibile il figlio, limitare o evitare le telefonate, ecc.). Tali strategie possono essere accompagnate da manifestazioni di freddezza emotiva e scarsa responsività se il figlio manifesta la volontà di parlare e/o vedere il genitore bersaglio dimostrando quindi affetto nei suoi confronti. Queste ed altre strategie minano a più livelli la relazione genitore bersaglio-figlio:

  1. creano una relazione simbiotica tra il bambino e il genitore preferito;
  2. creano distanza tra il genitore bersaglio e il bambino, attenuando o interrompendo il loro legame di attaccamento;
  3. portano il genitore bersaglio a provare sofferenza e rabbia nell’interazione con il figlio rifiutante e tali sentimenti contribuiscono ad alimentare il conflitto esistente.

Le conseguenze dell’alienazione genitoriale

L’importanza di identificare correttamente la presenza della dinamica di alienazione deriva da una corposa letteratura che ha individuato effetti negativi in coloro che hanno riferito di essere state vittime di alienazione genitoriale. Tali conseguenze si manifestano attraverso bassa autonomia, sintomatologia ansiosa e depressiva, stile di attaccamento insicuro, distress psicologico e bassa qualità della vita (Baker & Ben-Ami, 2011; Ben-Ami & Baker, 2012; Bernet et al., 2015; Saini et al., 2016Verrocchio & Baker, 2015; Verrocchio, Baker & Bernet, 2016; Verrocchio, Marchetti & Fulcheri, 2015; Verrocchio, Marchetti, Carrozzino, Compare, Fulcheri, 2019). Inoltre l’alienazione genitoriale viene attualmente considerata una forma di maltrattamento psicologico. Diverse ricerche sottolineano in modo stabile che tanto più vengono messe in atto strategie di alienazione da parte del genitore preferito quanto più il figlio si sentirà vittima di maltrattamento (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Questa forma di violenza viene definita in letteratura come una reiterazione di pattern comportamentali o modelli relazionali ritenuti psicologicamente dannosi in quanto creano nel bambino l’idea di essere non amato, non desiderato, non meritevole di amore (Binggeli, Hart, & Brassard, 2001) e comprende atti di commissione (abuso emotivo) e di omissione (trascuratezza emotiva) (Verrocchio, 2014).

Recentemente, partendo dalle caratteristiche definitorie e dalle implicazioni per la salute, la dinamica di alienazione genitoriale è stata proposta come una forma specifica di violenza familiare al fine sia di promuovere un più ampio riconoscimento del fenomeno, sia di fornire una cornice teorica che consenta di condurre ricerche utili ad un ulteriore sviluppo di trattamenti rivolti ai figli alienati e ai genitori bersaglio (Harman et al., 2018; 2019).

 

Momentaneamente silenziosi. Guida per operatori, insegnanti e genitori di bambini e ragazzi con mutismo selettivo (2018), di E. Iacchia, P. Ancarani – Recensione

In Momentaneamente silenziosi non mancano una serie di domande tipiche che il genitore spesso si pone circa il mutismo selettivo manifestato dal proprio figlio. Ogni quesito ha la sua risposta riconducibile ad un determinato paragrafo del testo.

 

Durante la lettura di questo libro ho provato un po’ ad immedesimarmi in quel mutismo che le autrici definiscono ‘situazionale’. Ho ipotizzato una situazione in cui l’ansia potesse raggiungere il culmine, e in effetti mi sono resa conto che verrebbe spontaneo ammutolirsi.

Questo perché il Mutismo Selettivo altro non è che un disturbo caratterizzato da una forte ansia, la quale, mal gestita, blocca la parola in alcuni ambienti o situazioni; talvolta il disagio è circoscritto solo verso alcuni interlocutori.

Si tratta di un mutismo situazionale in quanto in situazioni in cui l’ansia non è elevata i soggetti parlerebbero normalmente.

Per farci meglio capire questo concetto le autrici espongono varie testimonianze e casi di soggetti con mutismo selettivo.

Vengono descritte situazioni in cui il soggetto, di età infantile ma non solo, cade nel proprio silenzio senza la propria volontà, esperendo questa situazione con difficoltà e disagio.

Soprattutto viene esposta una condizione difficilmente gestibile per insegnanti e genitori.

I primi paragrafi del libro sono volti a illustrarci il disturbo secondo i criteri del DSM 5, riconoscerne i campanelli di allarme, le cause e le conseguenze.

Ne viene fuori un’importanza non indifferente riconosciuta alle emozioni. I soggetti con mutismo selettivo sono particolarmente emotivi, e chi sta loro accanto dovrà essere bene in grado di saper affrontare questa emotività.

Le autrici espongono tre pilastri che consentono di uscire da questa condizione di mutismo: innanzitutto insegnanti e genitori dovranno accettare e comprendere la situazione con la consapevolezza che essa sia del tutto risolvibile; in secondo luogo bisogna essere diligenti nell’organizzare in modo abile tutte le informazioni sul disturbo; infine sarà possibile attivarsi rimodulando la gestione dei rapporti nelle case e nelle aule.

Nei capitoli a seguire il libro si trasforma in una vera e propria guida in prima linea per i genitori, a seconda dell’età del proprio figlio, della situazione e dei luoghi in cui il mutismo potrebbe verificarsi.

Una guida molto pratica, che suggerisce le attività manuali che il genitore potrebbe proporre al proprio figlio. Come se il genitore possedesse una bussola di cui ogni punto cardinale ha la sua importante direzione da seguire.

E non mancano una serie di domande tipiche che il genitore spesso si pone circa questo disturbo manifestato dal proprio figlio. Ogni quesito ha la sua risposta riconducibile ad un determinato paragrafo del testo. Ciò rende il libro una guida completa e di facile e immediato utilizzo.

Naturalmente non poteva mancare una parte del testo dedicata al contesto scolastico.

A scuola il mutismo selettivo viene sovente confuso con un’eccessiva timidezza. Eppure la scuola è l’ambiente in cui questo disturbo viene ad esperirsi con maggiore frequenza.

Conta per cui far sì che l’insegnante sia in qualche modo strategico. Naturalmente ciò sarà possibile solo costruendo una giusta rete scuola – famiglia.

Il ragazzo dovrà sentirsi inserito, accettato e rilassato. Non è infatti un caso che l’alunno affetto da mutismo selettivo possa divenire una vittima di bullismo.

Anche per gli insegnanti le autrici del libro mettono a disposizione una serie di domande e risposte al fine di fornire le corrette linee guida per la gestione del disturbo esperito a scuola.

E non bisogna sorvolare sul fatto che il mutismo selettivo non è solo una condizione caratterizzante l’infanzia, bensì è facilmente riscontrabile anche in età adolescenziale.

In un’età in cui le emozioni raggiungono l’apice dell’intensità potrebbe sembrare non semplice gestire questa condizione, ma anche in tal caso è risolvibile. Bisogna seguire i tre pilastri suggeriti dalle autrici: comprendere la situazione, pianificare dal punto di vista teorico un intervento adeguato, e infine attivarsi sulla gestione dei rapporti esperiti dal ragazzo.

In fondo le strutture scolastiche ed educative sono ben attrezzate per la gestione di tali situazioni, e laddove necessario non sarà difficile mettere a punto un Piano Didattico Personalizzato per il soggetto in questione.

Il libro è dunque una guida ben completa sul mutismo selettivo, che si limita non solo a descriverci il disturbo con le sue possibili cause e conseguenze, ma intende aiutare gli adulti di riferimento nella gestione dei rapporti con i propri figli o alunni.

E soprattutto pone l’accento su una questione di non scarso rilievo: talvolta anche riuscire a pronunciare una parola potrebbe definirsi un’impresa… non impossibile.

 

Violenza domestica: confronto tra due programmi di intervento per gli aggressori

Il tema della violenza domestica è stato molto discusso recentemente, anche in seguito all’aumento dei casi di violenza domestica avvenuto durante il periodo di quarantena legato alla pandemia di covid-19.

 

Infatti, secondo quanto riportato dall’Istat, le telefonate al numero verde 1522 antiviolenza e stalking sono aumentate del 73% tra il primo marzo e il 16 aprile 2020. Nel 93,4% dei casi la violenza riportata avveniva in casa, ossia veniva perpetrata da parte di persone vicine alla vittima.

Che cosa si può fare per proteggere efficacemente le vittime di violenza domestica?

Negli Stati Uniti, accanto ai provvedimenti della polizia e delle autorità giudiziarie, vengono proposti diversi programmi di intervento per gli aggressori (batterer intervention programs, BIP; Zarling, Bannon e Berta, 2019). Tradizionalmente, questi programmi seguono un protocollo definito Duluth Model. Il Duluth Model si sviluppa da una prospettiva teorica secondo cui la violenza domestica è conseguenza di una visione patriarcale. Pertanto, l’obiettivo generale del trattamento è modificare le convinzioni sessiste degli aggressori, da cui deriverebbero i loro comportamenti violenti. Il protocollo è caratterizzato dall’uso di tecniche psicoeducative, che hanno lo scopo di far comprendere la gravità degli abusi commessi. Il Duluth Model può essere somministrato da solo o in combinazione con un trattamento cognitivo comportamentale (CBT), per modificare credenze problematiche e comportamenti disfunzionali.

Tuttavia i programmi basati sul Duluth Model, sulla CBT o su una combinazione dei due hanno un’efficacia poco soddisfacente, in quanto non riducono adeguatamente i tassi di recidiva (Eckhardt et al., 2013).

Per questo, Zarling e colleghi (2019) hanno studiato l’efficacia di un programma alternativo, definito Achieving Change Through Values-Based Behavior (ACTV), ossia “raggiungere il cambiamento attraverso comportamenti basati sui valori”. L’ACTV trae le proprie radici dall’ACT (Acceptance and Committment Therapy), una forma di psicoterapia che dà importanza al raggiungimento di ciò che ha valore per ciascuno. Secondo l’ACT, la violenza domestica potrebbe essere ricondotta al tentativo di evitare esperienze interiori spiacevoli, ad esempio pensieri o emozioni negativi.

L’ACTV cerca di promuovere il cambiamento concentrandosi non tanto sul modificare il contenuto di pensieri ed emozioni, come nel Duluth Model e nella CBT, quanto sul modificare il modo in cui si reagisce a questi pensieri ed emozioni. Ad esempio, di fronte al pensiero “La mia partner non dovrebbe trattarmi in questo modo”, il Duluth Model e la CBT cercherebbero di sostituire questo pensiero con uno più razionale; l’ACTV invece cercherebbe di insegnare a rispettare comunque l’altra persona, anche se si ritiene che non ci stia trattando come vorremmo. Inoltre nell’ACTV si utilizzano i valori importanti per l’individuo come motivazioni per perseguire il cambiamento.

L’ACTV prevede cinque moduli: nel primo l’obiettivo è individuare i valori importanti per ciascuno e imparare a riconoscere quali comportamenti sono efficaci nel raggiungerli e quali no. Il secondo, il terzo e il quarto modulo si focalizzano rispettivamente sull’insegnamento di abilità di regolazione emotiva, abilità cognitive e abilità comportamentali, ad esempio di comunicazione, assertività e risoluzione dei conflitti. Il modulo finale si concentra sull’identificazione di possibili ostacoli al cambiamento e su come agire per risolvere queste eventuali difficoltà.

Zarling e colleghi (2019) hanno confrontato l’efficacia dei due programmi di intervento sopra descritti in un campione di oltre tremila uomini condannati per violenza domestica. L’efficacia è stata definita come effettività nella prevenzione di recidive, cioè nuove denunce per reati a carico dai partecipanti durante i dodici mesi successivi al trattamento.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti che avevano svolto parzialmente o completamente l’ACTV avevano meno denunce per reati in generale e per reati violenti nei 12 mesi successivi al trattamento, rispetto a coloro che avevano seguito il Duluth Model abbinato alla CBT. Tuttavia non c’erano differenze tra i due gruppi rispetto al numero di denunce ricevute per violenza domestica.

Questo significa che l’ACTV è risultato più efficace nel prevenire la perpetrazione di reati in generale, anche di natura violenta, ma non è risultato più effettivo nel prevenire la violenza domestica, che era invece proprio il suo scopo principale.

Zarling e colleghi (2019) sostengono che ciò possa dipendere dall’ampiezza di abilità insegnate tramite il programma ACTV, che possono essere estese a varie situazioni oltre al contesto relazionale. Ciò è senz’altro utile, tuttavia non mira in modo specifico l’obiettivo di proteggere le vittime di violenza domestica aiutando gli aggressori a cambiare il proprio comportamento.

È comunque possibile che l’ACTV sia efficace nel ridurre anche la violenza domestica per specifici campioni. Per scoprirlo, sarebbero necessari ulteriori studi. La ricerca in futuro dovrebbe anche cercare di spiegare perché, ossia attraverso quali specifici meccanismi, l’ACTV sia efficace.

In conclusione, l’aspetto più socialmente e praticamente rilevante di questo studio è che, sebbene i dati circa l’efficacia dell’ACTV debbano essere approfonditi, esso dimostra l’importanza di adottare pratiche evidence-based nella rieducazione di autori di reato. Infatti, solo attraverso un approccio scientifico è possibile monitorare l’efficacia di un intervento, evitando il rischio di affidare al senso comune gli sforzi per eliminare la violenza domestica.

 

Disturbi dell’umore in menopausa

La menopausa costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Se la produzione degli estrogeni cala, diminuiscono anche le quantità di serotonina, endorfine e dopamina e di conseguenza si verifica un notevole cambio dell’umore.

Francesca Carbonella – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La menopausa è una tappa fisiologica della vita di ogni donna. Essa si verifica mediamente intorno ai 50 anni di età, a seguito della cessazione dei cicli mestruali conseguente alla perdita della funzione follicolare ovarica. In questa delicata fase del ciclo di vita femminile, si verifica inoltre un’interruzione della produzione di estrogeni e progesterone. La menopausa costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Secondo lo stereotipo classico la maternità e la crisi adolescenziale hanno un significato evolutivo e creativo mentre la menopausa è più un’esperienza di lutto dovuto alla perdita della fertilità.

Durante la menopausa il corpo produce meno estrogeni. Nello specifico, durante il climaterio (periodo premenopausa) le ovaie, produttrici di estrogeni e progesterone, rispondono sempre meno agli stimoli degli ormoni FSH e LH prodotti dall’ipofisi, ghiandola che si trova alla base della testa. Questi sbalzi ormonali mandano in tilt l’ipotalamo, quella parte del cervello che gestisce anche la reazione alle emozioni. Gli estrogeni, infatti, oltre alla regolazione del ciclo mestruale, stimolano anche la produzione di:

  • serotonina, il cosiddetto “ormone della felicità”;
  • endorfine, sostanze prodotte dal cervello che potremmo soprannominare “molecole della gioia”;
  • dopamina, la “molecola del piacere”.

Se la produzione degli estrogeni cala, diminuiscono anche le quantità di serotonina, endorfine e dopamina, di conseguenza si verifica un notevole cambio dell’umore.

Il passaggio verso la menopausa è comunque un processo graduale: le fluttuazioni ormonali iniziano diversi anni prima della scomparsa del ciclo e danno luogo a irregolarità mestruali, cambiamenti dell’intensità del flusso, così come a sintomi di varia natura e soprattutto a una progressiva riduzione della fertilità.

Questa fase ha una durata molto variabile, può protrarsi anche per dieci anni; è la fase generalmente più sintomatica e prende il nome di perimenopausa.

La sintomatologia della menopausa è alquanto variegata, in quanto tale fase è caratterizzata da un vissuto fortemente soggettivo e spesso difficoltoso.

Gli effetti della menopausa sono infatti molto variabili e dipendono da predisposizione genetica, storia personale, stile di vita, fattori psicosociali e ambiente socioculturale.

Spesso la menopausa è vissuta in maniera drammatica dalle donne perché viene identificata con l’inizio dell’invecchiamento.

Alcune donne, per la possibilità di vivere una sessualità più libera, svincolata dal timore di una gravidanza, o per la scomparsa di sintomi mestruali magari gravosi e invalidanti, accolgono questo periodo positivamente. Queste donne mostrano un’attitudine positiva verso la menopausa, ritenendola non solo una transizione fisiologica, ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi.

Altre donne attribuiscono, invece, all’insorgere della menopausa un significato di perdita e impoverimento, aggravato dalla presenza di sintomi e manifestazioni che interferiscono con la qualità della vita.

A tutto ciò si aggiungono i fattori sociali e culturali, in particolare il significato attribuito alla fase della menopausa. In alcune culture, infatti, la cessazione della fertilità corrisponde a un momento di crescita sociale e pone la donna in una posizione privilegiata, in cui gode di maggior considerazione e rispetto, nella società occidentale, al contrario la menopausa è spesso sinonimo di perdita di femminilità e invecchiamento.

Da un punto di vista prettamente ormonale, gli estrogeni condizionano la qualità di vita, in quanto la loro carenza incide sul desiderio sessuale e favorisce la comparsa di sintomi vasomotori, genitourinari, osteoarticolari e a carico della sfera psicoemotiva.

Uno dei fenomeni più fastidioso, indice di carenza di estrogeni, è rappresentato dalla comparsa delle vampate di calore. Molto spesso esse compaiono di notte, causando importanti sudorazioni che interferiscono con la qualità del sonno e si ripercuotono poi sul benessere generale, anche durante il giorno.

Il calo ormonale ha effetti anche sull’apparato riproduttivo, con la comparsa di secchezza e atrofia vaginale, le quali possono rendere il rapporto sessuale doloroso e difficile. Quando il livello di estrogeni diminuisce, inoltre, si riduce anche la produzione di collagene ed elastina: la pelle può diventare più sottile, secca e perdere elasticità.

In aggiunta a questi effetti di carattere prettamente fisico, in prossimità della menopausa possono manifestarsi anche stanchezza, cefalea, difficoltà di concentrazione e memoria. Sono inoltre frequenti insonnia e disturbi del sonno e del tono dell’umore, con ansia, irritabilità e depressione.

Gli estrogeni, come anche gli ormoni androgeni, hanno certamente l’effetto di un “fertilizzante” cerebrale; tuttavia non esistono prove certe a favore di un legame diretto tra la loro riduzione e la comparsa di depressione e disturbi dell’umore.

Per spiegare questa relazione sono state formulate varie ipotesi. Per esempio, la carenza estrogenica, causando vampate e sudorazioni notturne che interferiscono con il sonno, che a sua volta è legato al cambiamento di umore, sarebbe indirettamente responsabile dei sintomi a carico della sfera psicoemotiva.

Secondo la teoria psicosociale, la spiegazione sarebbe da ricercare invece in fattori esterni e nei cambiamenti biologici. I sintomi depressivi sarebbero quindi correlati a diversi fattori di stress: possibili problemi di salute, la cura dei figli, della casa, dei genitori anziani o di richieste di lavoro sempre più crescenti, difficoltà di coppia o nella relazione con il partner, problemi con i figli.

Tutti questi fattori stressanti, il basso livello di sostegno sociale e i problemi fisici possono essere strettamente correlati all’insorgenza della depressione in questo periodo.

Da un punto di vista epidemiologico, generalmente, le donne sono più esposte alla depressione rispetto agli uomini: il sesso femminile è colpito in percentuale più che doppia.

In aggiunta a ciò, da recenti studi è emerso che oltre il 7% delle donne tra i 55 e i 75 anni di età sviluppa un disturbo depressivo.

La prevalenza nel lifetime per il disturbo depressivo maggiore è del 10,2% nelle donne contro il 5,2% degli uomini; per la distimia del 5,4% contro il 2,6% e ancora più marcata risulta la preponderanza femminile per la depressione atipica e per i disturbi depressivi stagionali (Kessler, McGonagle, Swartz et al., 1993; World Health Organization Kobe Center, 2005; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

Differenti ipotesi spiegano la maggior prevalenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini:

  • fattori neuroendocrini: differenze nella struttura cerebrale e nell’impatto sul cervello dei diversi ormoni sessuali;
  • fattori psicosociali: differenze nelle strategie di coping, nella vulnerabilità personale, nella frequenza di esposizione e nella qualità degli eventi stressanti. In particolare: eventi di separazione o di perdita traumatica, abusi e violenze;
  • fattori legati alla storia dello sviluppo: relazioni di attaccamento nell’infanzia e in età prepuberale;
  • storia famigliare di disturbi psichiatrici;
  • tratti temperamentali;
  • variazioni ormonali in determinate fasi del life span.

Secondo alcuni studi si riscontrano diversità di genere anche nella sintomatologia depressiva. In effetti emerge come le donne manifestino con maggior prevalenza statistica il quadro della depressione atipica. Il genere femminile inoltre, presenta maggiori comorbilità psichiatriche per i disturbi d’ansia, i disturbi somatoformi e la bulimia; differentemente nell’uomo si riscontra un’associazione maggiore con l’abuso di alcol e sostanze e il disturbo ossessivo compulsivo (Khan, Broadhead, Schwartz, Koltz, Brown, 2005).

In maniera più dettagliata, alcuni studi epidemiologici hanno mostrato come i fattori di stress psicosociale siano associati ad un aumentato rischio per sviluppo di sintomi depressivi subclinici ed un esordio depressivo maggiore durante la transizione menopausale e il loro impatto sia maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé (Lanza di Scalea, Niolu, Siracusano, 2010).

È ormai risaputo da diversi anni che le donne hanno un rischio maggiore di sviluppare un disturbo depressivo durante il postpartum a causa del cambiamento ormonale, tuttavia si hanno ancora poche conoscenze in merito al rischio depressivo associato al periodo di transazione verso la menopausa.

Sinora, anche dal punto di vista clinico, le raccomandazioni circa la diagnosi e la terapia di questo tipo di depressione sono state alquanto carenti.

A proposito dell’associazione tra i sintomi della perimenopausa e il disturbo depressivo, secondo la letteratura scientifica, sintomi quali vampate di calore e disturbi del sonno iniziano in questo momento e possono coesistere e sovrapporsi ai sintomi della depressione. In particolar modo quando le vampate di calore avvengono durante la notte, la così detta “sudorazione notturna”, il sonno può essere interrotto; i persistenti disturbi del sonno causati da questo sintomo possono contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi depressivi.

Il processo diagnostico tuttavia è particolarmente ostico perché le cause scatenanti la depressione possono essere difficili da identificare, inoltre molte volte i sintomi esperiti non soddisfano i criteri per una diagnosi piena di depressione. Anche i sintomi depressivi lievi però possono abbassare la qualità di vita, ciò che appare veramente importante quindi è un’analisi dettagliata dei sintomi per giungere ad una diagnosi e identificare la miglior cura possibile.

A tal riguardo, recentemente un team di esperti convocato dalla North American Menopause Society e dal Network on Depression Centers Women and Mood Disorders Task Group e approvato dalla International Menopause Society ha redatto le prime linee guida, pubblicate sul Journal of Women’s Health per la valutazione e il trattamento della depressione durante la perimenopausa.

Le conclusioni a cui sono giunti gli esperti per la stesura delle linee guida permettono di affermare che:

  • la perimenopausa è un periodo di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi depressivi lievi con la possibilità di comparsa di un disturbo depressivo maggiore;
  • il rischio di sviluppare sintomi depressivi è elevato anche nelle donne senza precedenti episodi;
  • diversi sintomi della perimenopausa si sovrappongono alla presenza della depressione complicandone l’individuazione;
  • i fattori stressanti della vita possono influenzare negativamente l’umore, aumentando il rischio di depressione in questo particolare periodo;
  • i trattamenti terapeutici per la depressione (terapia farmacologia antidepressiva e interventi di psicoterapia) dovrebbero rimanere i gold standard in casi di depressione associata a perimenopausa.

In conclusione, ansia e depressione sono dunque comuni nelle donne in menopausa, ma non ci sono prove chiare che la fase biologica in sé aumenti il rischio di disordini dell’umore clinicamente significativi, se non in donne con fattori di rischio predisponenti, come per esempio:

  • un precedente episodio di depressione, anche legato alla sindrome premestruale e/o alla fase post partum;
  • stress psicosociale;
  • un lungo periodo perimenopausale caratterizzato da sintomi vasomotori gravi e prolungati.

 

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