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Tra utopia e fanatismo – Il caso di Jim Jones

Jim Jones ha concepito l’idea di creare un’utopia socialista, dove la fratellanza e la tolleranza avrebbero avuto la meglio sul materialismo e sul razzismo che detestava; arriva così a fondare una città con i suoi seguaci che prende il nome di Jonestown.

 

Uno dei casi più famosi che risponde alla definizione di delirio è ‘il caso Jonestown’, che non è un delirio individuale, bensì un delirio collettivo propagatosi a causa dell’effetto massa.

L’obiettivo del presente articolo è quello di realizzare una disamina su una delle menti più controverse del dopoguerra, quella di Jim Jones; per raggiungere questo obiettivo analizzeremo le fasi rilevanti della sua vita allo scopo di ipotizzare una diagnosi.

La giovinezza

James Warren Jones nasce nel 1931 nell’Indiana rurale e sin da giovane viene descritto dai conoscenti come un ‘ragazzo strano’ per via delle sue occupazioni: studiare religione, torturare gli animali e parlare di morte.

I suoi genitori non sono religiosi, ma Jones inizia a manifestare fanatismo sin da quando è molto giovane: la domenica mattina passa da una chiesa protestante all’altra, appassionandosi ad improvvisare sermoni con gli amici e a bacchettare chi fa rumore durante il salmo. Racconta di una chiamata del Signore, nonostante per molti quello sembrasse solo un disperato bisogno di attenzione. Jones studia pedagogia all’università dell’Indiana, e a 21 anni inizia a fare il pastore. L’integrazione è al centro delle sue prediche ma i suoi primi gesti concreti hanno poco successo, dato che diverse famiglie lasciano la chiesa quando i primi neri entrano dalla porta. Questo non lo scoraggia, anzi è un incentivo per la creazione della sua chiesa chiamata il ‘Tempio del Popolo’.

Interessante, per il nostro scopo, è sapere che suo padre era un reduce disabile della prima guerra mondiale, iscritto al Ku Klux Klan, nome utilizzato da diverse organizzazioni segrete esistenti negli Stati Uniti d’America, con finalità politiche e terroristiche a contenuti razzisti e sostenitrici della superiorità dell’etnia caucasica bianca.

Naturalmente sorge una domanda: abbiamo a che fare con un ‘genetico fanatismo’ o il suo estremismo nasce da una forma di ribellione nei confronti dell’ideologia del padre?

L’utopia multietnica

Il ‘Tempio Del Popolo’ nasce come un movimento laico di volontariato, con connotazioni politico-socialiste unite a principi della chiesa protestante (Wessinger, 2000).

Jones ha concepito l’idea di creare un’utopia socialista, dove la fratellanza e la tolleranza avrebbero avuto la meglio sul materialismo e sul razzismo che detestava (Zimbardo, 2008).

Inizialmente diffonde il suo messaggio incoraggiando i propri discepoli a donare cibo e lavoro ai poveri, per i quali avvia una mensa e un ospizio. Impressionati dalla sua opera pia, molti si uniscono alla sua chiesa, ma, successivamente, riferendo della visione di un imminente attacco nucleare ai danni del Midwest americano, convince un centinaio di persone a seguirlo in California, dove continua la sua attività offrendo sostegno anche ad alcolisti e tossicomani.

Oltre alla sua comunità multietnica c’è il suo stretto nucleo familiare che comprende quattro bambini, di cui tre adottati da diverse etnie.

Quello che all’inizio è un piccolo progetto di creare una famiglia multietnica, si estende sempre più fino ad includere un migliaio di persone. Predicare libertà e uguaglianza, nell’epoca in cui imperversa la guerra fredda, fa guadagnare facili consensi, soprattutto tra le minoranze etniche più deboli e svantaggiate, di cui i suoi seguaci fanno parte. Per molti Jones rappresenta la salvezza e la speranza di una vita migliore.

Il sogno diventa realtà

A seguito di accuse di promiscuità sessuale e di attività politiche segrete, la setta si trasferisce nella giungla della Guyana, al confine col Venezuela, fondando qui la nuova città di Jonestown, ma, prima di trasferirsi, i fedeli devono vendere o lasciare alla chiesa tutti i loro beni terreni. Jones sceglie questo posto perché lo ritiene il luogo ideale per pregare e salvarsi da una guerra nucleare (incipit indicativo dei suoi tratti paranoici e deliranti).

L’idea è, quindi, di trasformare questa comunità in un paradiso in Terra: i membri vengono indottrinati con linguaggio millenaristico e tecniche di lavaggio del cervello. Coloro che abbandonano la comune sono definiti disertori ed esiste una polizia informale per ostacolare, se non rendere impossibile, la fuga. Le diserzioni sono comunque pochissime poiché le persone vivono una vita completamente comunitaria, in cui è difficile sviluppare il desiderio di andarsene, ma pian piano i suoi squilibri si fanno sempre più evidenti.

Il suo carisma è fortemente percepito, così come la sua necessità di tenere tutto sotto controllo: non a caso crea un sistema di controllo interno che ha come obiettivo iniziale quello di assicurarsi che tutti stiano bene, ma che successivamente si tramuta in un vero lavoro di spionaggio, in cui sono proibiti persino i rapporti sessuali senza la sua concessione.

‘Per una serie inspiegabile di ragioni, accade che io sia stato scelto per essere Dio’ predica Jones. Nella sua dottrina, che chiama socialismo divino, il ruolo di Jim Jones come autore di miracoli e salvatore dell’umanità si va ampliando fino a mettere in ombra quello di Gesù Cristo.

L’organizzazione si fa sempre più severa, il lavoro più duro e con orari sempre più lunghi. Non avendo denaro la gente sembra non avere scelta e continua a vivere nella convinzione di una giusta causa, in cui il sacrificio avrebbe portato alla creazione del mondo ideale tanto sognato.

Leadership

Uno studio che indaga lo stile di leadership ha suggerito che l’onnipotenza, la paranoia e la costruzione di monumenti sono le principali caratteristiche dello stile di leadership della megalomania (Seifries, 2018).

Da una ricerca inedita, Zimbardo ha scoperto che Jones ha molto probabilmente acquisito la sua capacità di convincere da un famoso pensatore sociale: George Orwell (Dittman, 2003).

Durante 25 anni di ricerche e interviste con i sopravvissuti di Jonestown, Zimbardo ha trovato analogie tra le tecniche di controllo mentale usate da Jones a Jonestown – ovvero sofisticati tipi di acquiescienza , conformità e obbedienza – e quelle descritte nel libro di fantascienza di Orwell 1984. Alcune delle tecniche di controllo mentale sono:

  • Il Grande fratello ti sta guardando. Zimbardo afferma: ‘Jones ha usato questa idea per guadagnare la fedeltà dei suoi seguaci. Ha ottenuto che i seguaci si spiassero l’un l’altro e ha fatto sì che degli autoparlanti inviassero messaggi in modo tale che la sua voce fosse sempre presente mentre i suoi seguaci lavoravano, dormivano e mangiavano‘.
  • Auto-incriminazione. Jones incaricava i seguaci di rendergli dichiarazioni scritte chiamate confessioni in cui dicevano di aver abusato delle proprie figlie o commesso altri gravi crimini. Le confessioni venivano ritirate e conservate negli archivi della chiesa. Le defezioni non erano ammesse: chi provava a lasciare il culto veniva perseguitato e minacciato per molto tempo dai fedelissimi di Jones. Dal pulpito, Jones non mancava mai di ricordare storie terribili di disgrazie o di morte che avevano per protagonisti i traditori.
  • Induzione al suicidio. I seguaci di Jones facevano esercitazioni pratiche di suicidio fino al dell’evento vero e proprio che li coinvolse nel suicidio di massa.
  • Distorcere la percezione della gente.Jones ha offuscato il rapporto tra le parole e la realtà, per esempio, imponendo ai suoi seguaci di rendergli grazie ogni giorno per il buon cibo e per il lavoro, eppure la gente era affamata e lavorava sei giorni e mezzo a settimana. Per padroneggiare queste tecniche di controllo mentale, Jones è stato in grado di ottenere obbedienza e fedeltà dai seguaci. Jim Jones è probabilmente il leader del culto più carismatico dei tempi moderni, a causa del suo carisma, della sua oratoria, del suo sex appeal, del suo dinamismo e della sua partecipazione totale nel controllo di ogni membro del suo gruppo‘ afferma Zimbardo.
  • La tecnica del ‘piede oltre la soglia’. Jones agganciava le persone richiedendo donazioni e impegno inizialmente esigui, ma gradualmente estendeva tali richieste, per cui il soggetto, già inserito nel sistema, non poteva sottrarsi al crescente coinvolgimento e si ritrovava a reclutare nuovi malcapitati, a dover assistere a lunghe funzioni religiose, a dover essere attivo politicamente per difendere il proprio gruppo.
  • La psicologia del conformismo. Qualsiasi forma di dissenso non veniva tollerata e i suoi personali informatori erano invitati a diventare amici di coloro che esprimevano dubbi riguardo al gruppo, per poi eliminare i disaccordi mediante pestaggi o umiliazioni pubbliche; le famiglie venivano divise, i bambini allontanati dai genitori, le coppie spinte a relazioni extraconiugali per indebolire la forza del loro legame. L’isolamento geografico del gruppo dalla società ottenuto a Jonestown è solo la ciliegina sulla torta di questa strategia.
  • Guarigioni miracolose venivano presentate al gruppo sotto forma di giochi di prestigio, grazie alla collaborazione di suoi seguaci molto devoti (che pur credevano nei suoi poteri sovrannaturali).
  • L’autogiustificazione. Sebbene si sia portati a pensare che riti di iniziazione dolorosi o bizzarri svalutino agli occhi del soggetto l’appartenenza al gruppo, è piuttosto vero il contrario; ciascuno giustificava la propria sofferenza mettendosi positivamente a disposizione dell’organizzazione.

La diagnosi ipotetica

Possiamo ipotizzare in Jones un’organizzazione personologica narcisistica. Inoltre l’importanza delle sue prediche nasceva dalla convinzione che presto sarebbero stati invasi, che i nemici erano nascosti nella giungla e presto li avrebbero attaccati. Possiamo, quindi ipotizzare che si tratti di un Disturbo Delirante, ma quest’ultimo potrebbe essere insorto anche nel contesto di un preesistente Disturbo Paranoide di Personalità. In tali soggetti, nella prima età adulta si manifestano una sfiducia e una sospettosità pervasive nei confronti degli altri e delle loro intenzioni, che si protraggono per tutta la vita.

Delirio di persecuzione, di religione o di grandezza?

Il delirio è una condizione acuta di distacco e percezione distorta della realtà, che risulta costante e pervasivo nella vita della persona e non è bizzarro come nella schizofrenia; secondo il DSM-5 è caratterizzato da un’alterazione della coscienza e da modificazioni cognitive che si sviluppano in un breve lasso di tempo. Il Disturbo Delirante è quindi un disturbo caratterizzato da convinzioni deliranti, in assenza degli altri sintomi tipici della schizofrenia ed evolve in genere dalla degenerazione di tratti caratteriali come il fanatismo, la diffidenza, l’inclinazione al rancore e via dicendo. La nascita del disturbo può non avere sintomi rilevanti dal punto di vista delle capacità dell’individuo di vivere una vita sociale relativamente normale, ma la sua degenerazione può modificare questa situazione, come nel caso descritto.

Il contenuto delle idee di Jones ci indica che si tratta di un delirio di grandezza, più che religioso o di persecuzione, considerato che il leader aveva la convinzione di essere estremamente importante, di possedere un ruolo di grande rilievo e qualità particolari, come quella di compiere miracoli (che in realtà inscenava). Il delirio di onnipotenza porta il soggetto coinvolto a voler avere il controllo su ciò che per lui rappresenta la sua proprietà, e possiamo dedurre che nel caso di Jones si tratti di possedere molteplici persone (la comune), nonché di un’idea: la pseudo-religione che ha creato. Nell’uomo tendenzialmente questa possessività eccessiva si manifesta con un aumento dell’aggressività verso chi o cosa può minacciare la o le sue proprietà, reali o immaginarie. Scatti d’ira, agitazione, rabbia e impulsività rappresentano i connotati principali di questa forma di psicosi e si ritrovano tutte in Jones. Ogni singolo gesto può scatenare la psicosi, ma di solito questa non sfocia in un atto violento, bensì si sviluppa a cerchi concentrici, come minacce e raggiri.

L’epilogo

In seguito alle rivendicazioni delle famiglie di alcuni membri, che ritengono i loro parenti trattenuti contro la loro volontà, una delegazione guidata dal deputato Leo Ryan decide di recarsi al tempio.

Quindici persone in cerca di libertà, confessano di essere state trattenute forzatamente nella comune da Jim Jones, per questo il servizio di sicurezza del movimento, contrariato dal tradimento, inizia a sparare lasciando pochi superstiti. Venuto a conoscenza dell’accaduto, Jones convoca un’assemblea generale in cui avanza la richiesta ai membri di effettuare un suicidio di massa per la gloria del socialismo, porgendo loro un cocktail a base di cianuro e valium e parole rassicuranti:

Se non ci lasciano vivere in pace, allora moriremo in pace. Senza di me la vita non ha senso. Seguitemi amici, è facile‘.

La vicenda conosce un epilogo tragico il 18 novembre 1978 con il suicidio collettivo di 913 adepti, di cui 219 bambini. Esistono testimonianze provenienti dai pochi superstiti i quali riferiscono che le persone che si opposero alla decisione di Jones, furono uccise a colpi di arma da fuoco e che il livello di fanatismo estremo portò le madri ad avvelenare spontaneamente i loro figli.
I sopravvissuti descrivono Jonestown come una combinazione di prigione, bucolica isola di felicità e riuscita integrazione multietnica.

 

La VideoTherapy (VDT) come strumento terapeutico. Studio pilota su un nuovo protocollo di trattamento

Durante l’adolescenza ogni esperienza e relazione concorre a sviluppare la propria identità e le esperienze psicotiche precoci influenzano l’abilità degli individui di integrare la propria personalità in una struttura unificata e coerente.

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Introduzione

La VideoTherapy (VDT) è un protocollo di intervento basato sull’utilizzo di tecniche di videoconfrontazione. Essa è stata concepita, sviluppata e studiata presso il Centro Adolescenza di Bassano del Grappa (VI) come risposta all’esigenza di implementare modalità di trattamento innovative e specifiche, da affiancare alle tecniche standard, con l’obiettivo di rinforzare alcuni aspetti di percezione di Sé ed autoconsapevolezza (Brazzale et al., 2018).

Il Centro Adolescenza è un servizio di intervento precoce e prevenzione in giovani con disagio psicologico, prime manifestazioni di disturbi psichici, stati mentali a rischio o all’esordio psicotico. L’esperienza maturata in questo ambito ha fatto sì che emergesse il bisogno di rinforzare alcuni aspetti di percezione di Sé e del mondo che appaiono disfunzionali nei giovani, in particolare in quelli a rischio.

La percezione di Sé

Una prima riflessione è legata al fatto che le esperienze psicotiche – in particolare quelle precoci – portano con sé il rischio di intaccare la percezione di un Sé coerente, unico e solido, portando alla frammentazione del Sé (Goldstein, 1995; Cullberg, 2006).

Considerando dunque la popolazione giovanile, è comprensibile come queste riflessioni assumono rilevanza. Durante l’adolescenza, infatti, ogni esperienza e relazione concorre a sviluppare la propria identità e le esperienze psicotiche precoci influenzano l’abilità degli individui di integrare la propria personalità in una struttura unificata e coerente. Il primo episodio psicotico in tal senso può avere conseguenze drammatiche, dando luogo a sentimenti di smarrimento, di discontinuità, diminuita coerenza interna e confusione (Grazebrook et al., 2004; Cullberg, 2006; Hertz, 2008).

Metacognizione e percezione dell’altro

Oltre alla percezione di Sé, vi è un’altra componente frequentemente danneggiata in tali disturbi: la percezione dell’altro, del mondo esterno, che ha conseguenze sulle relazioni e sulla qualità delle interazioni sociali (Flaherty, 2014). Gli studi sulla Metacognizione, in particolare di Stephen Moritz, hanno confermato come vi siano bias specifici attivi in tali contesti di interazione, portando l’autore a sviluppare un Training specifico per le psicosi basato sul rinforzo di competenze specifiche e sul rendere più flessibili alcune strategie cognitive in atto nelle situazioni sociali, come ad esempio il saltare alle conclusioni e gli stili attributivi (Moritz et al. 2010: Moritz et al. 2013; Moritz et al. 2016).

Sulla base di questi studi si è deciso di valutare la possibilità di introdurre VDT come nuovo ed innovativo strumento di rinforzo della percezione di Sé, accompagnata da uno strumento già standardizzato che avesse come focus la percezione dell’esterno, attraverso l’uso del Training Metacognitivo per le Psicosi (Moritz et al., 2013). Ben prima dell’efficacia clinica e terapeutica di questo strumento, è stato importante valutarne la sostenibilità all’interno di un servizio pubblico, osservando e considerando i feedback dei giovani partecipanti in questa prima fase.

La VDT

La VDT è uno strumento che si fonda sull’incontro ed il confronto tra l’individuo e la propria immagine, con cui dialoga e su cui riflette, studiato in varie forme applicative con pazienti con Disturbi Alimentari, Disturbi dell’Umore e Schizofrenia (Brazzale et al., 2018). Giusti (1999) sottolinea come tale incontro fondi le basi per una esperienza di revisione: tramite l’interazione con l’immagine riflessa, la stessa immagine diventa l’interlocutore del soggetto in un processo di confronto con sè stessi.

Lo scopo di questa operazione consiste nel rendere più adattive e sane le modalità interpretative del soggetto, portandolo a considerare la realtà non più come oggettiva, ma come il risultato di un’operazione attiva da parte del soggetto percepiente. Uno dei principali effetti terapeutici della VDT entra in gioco quando l’immagine diventa autonoma, o meglio, quando avviene un processo di “distanziamento” dall’immagine mentale di sé. La fase del playback nel protocollo VDT ha proprio questa fondamentale  funzione all’interno del processo di cambiamento.

Questa distanza tra l’immagine riflessa e quella mentale, permette all’individuo anche di riconoscere le discrepanze tra il Sé ideale e il Sé reale, mettendo in moto un necessario processo di differenziazione e/o di integrazione dei diversi aspetti del Sé rappresentato e pensato, oltre che approfondire la consapevolezza di alcune modalità relazionali e di interazione.

Abbiamo ritenuto che tale progetto di utilizzo delle tecniche di VDT potesse promuovere una nuova esperienza percettiva e psicologica, insolita ed originale, il cui fine può essere proprio l’integrazione delle diverse parti del Sé neutralizzando la dissociazione psicotica. Ulteriori effetti terapeutici della VDT, inoltre, risultano essere attivi nella capacità di stimolare una osservazione e monitoraggio delle propri bias implicati giudizio di Sé (Bias interni, giudizio e monitoraggio del Sé) (Brazzale et al. 2018). Tale azione potrebbe dunque agire sul Sé sociale o Sé narrativo, una delle strutture del Sé più evolute, il quale permette all’individuo di accedere ad una riflessione su sé stesso ad auto descriversi. Questa struttura è tra le prime ad essere compromessa nelle fasi a rischio, arrivando ad una destrutturazione del Sé minimo o nucleare nelle patologie psicotiche e nella schizofrenia (Cozzi, 2018).

Lo studio

Nel 2015 è stato dunque strutturato uno studio pilota condotto da diverse Aziende Sanitarie Locali del Veneto, al fine di testare l’applicabilità dello strumento all’interno del sistema sanitario pubblico ed osservarne la possibile efficacia clinica. Considerando che il principale obiettivo era valutare la sostenibilità dell’intervento, sono state svolte principalmente osservazioni di tipo qualitativo, accompagnate dalla somministrazione pre- e post- intervento, di alcuni test clinici e questionari per valutare aree sintomatiche, la teoria della mente e le abilità percettive e di manipolazione dell’immagine visiva. Come detto precedentemente, l’efficacia clinica della tecnica non è stata oggetto di indagine in questa prima fase, motivo per cui l’analisi dei dati ha avuto un ruolo più marginale, seppur dando indicazioni incoraggianti rispetto ad una possibile efficacia. Tali dati sono stati comunque esposti e discussi nel manoscritto originale pubblicato presso American Psychiatry (Brazzale et al, 2018).

In questa fase sperimentale, il protocollo VDT è stato testato con ragazzi che riportavano una sintomatologia psicotica lieve, piuttosto che con coloro che avessero già sperimentato un episodio psicotico (FEP), al fine di valutare l’attuabilità con la popolazione in fase premorbosa e pertanto a rischio clinico (CHR) sulla base dato clinico e di ricerca secondo cui le stesse esperienze pseudo psicotiche siano presenti in queste fasi già in forma lieve (Larson et al, 2010; Yung et al, 2013, Cozzi, 2017).

La VDT si svolge tramite l’utilizzo di un I-Pad o tablet posto all’altezza degli occhi, con il quale il soggetto interagisce in varie forme. Le tecniche principali consistono nella Video Confrontazione, Video Story e PlayBack (Brazzale et al., 2018).

Nella Video Confrontazione, gli individui si osservano nel monitor, commentando l’immagine, i sentimenti e le sensazioni elicitate, dialogando con la persona riflessa nello schermo.

Nella Video Story il soggetto lavora con delle foto di sé che porta in seduta, descrivendo le circostanze, i sentimenti, le emozioni e i ricordi che suscitavano in lui.

Il PlayBack è un momento in cui il soggetto rivede la seduta registrata tramite il tablet e viene stimolato a fare ulteriori commenti e raccontare le proprie sensazioni nel rivedersi.

Tale protocollo è stato applicato a 18 adolescenti (12-21 anni), in carico presso le ULSS locali e valutati come a rischio per lo sviluppo di un disturbo psicotico, con lo scopo di valutarne l’applicabilità in un contesto ambulatoriale. Ai ragazzi è stata spiegata la natura sperimentale dell’intervento, che non ha sostituito il trattamento standard che stavano svolgendo.

I risultati e la risposta positiva dei giovani trattati hanno permesso di verificare la sostenibilità applicativa dell’intervento. La VDT è apparsa come una tecnica promettente, essa infatti è stata un’attività originale, interessante ed appetibile per i ragazzi.

L’interesse mostrato dai giovani rispetto a queste nuove tecniche alternative al colloquio standard ha inoltre permesso di contrastare l’isolamento e la resistenza in terapia, stimolando di fatto nei ragazzi una rinnovata curiosità e la partecipazione attiva rispetto al processo terapeutico.

Sono state fatte osservazioni riguardanti la possibile efficacia clinica nel breve termine, le quali hanno mostrato come effettivamente vi sono dati incoraggianti. I limiti legati alla scarsa numerosità e rappresentatività del campione non consentono tuttavia di trarre maggiori conclusioni.

L’associazione della VDT con tecniche di intervento di stampo meta-cognitivo ha infine conferito complementarità e incisività all’intervento (Brazzale et al., 2018).

 

La dinamica della cura (2019) di Jean-Paul Hiltenbrand – Recensione del libro

Lo scritto La dinamica della cura va alla scoperta dei concetti psicodinamici di pulsione, ripetizione e rimozione che da Freud ad oggi rimangono temi fondamentali per la psicologia clinica e la psicoanalisi.

 

Il secondo libro dell’autore francese Jean-Paul Hiltenbrand, come la sua prima opera Transfert, Oggetto a, Identificazione. Concetti fondamentali della psicoanalisi,  magistralmente racchiude le trascrizioni dei seminari milanesi tenuti per gli allievi del Laboratorio freudiano e i soci dell’Associazione lacaniana. Un percorso dedicato a tre concetti fondamentali e cari alla psicoanalisi che l’autore espone restituendoli al suo pubblico esperto in modo originale, chiaro ed esemplificativo.

I seminari approfondiscono e riesaminano i concetti di pulsione, ripetizione e rimozione analizzati in relazione alla cura e al rapporto tra analista e paziente. Le prime pagine sono dedicate al ‘solo elemento concettuale puro’ della psicoanalisi, ovvero la pulsione, quella nota ‘forza che spinge l’uomo verso un sistema di piacere o dispiacere e che si articola nel corpo’, concetto che Hiltenbrand espone riprendendo le formulazioni di Freud e paragonandolo continuamente al pensiero di Lacan. Nel farlo egli ravviva la spiegazione rimandando ad esempi di pulsione nella relazione tra paziente e analista sostenendo quanto questa sia talvolta difficilmente accessibile al terapeuta. Egli presenta al pubblico racconti e aneddoti divertenti, arricchendo la trattazione con descrizione di casi clinici, fatti di cronaca e rispondendo alle curiosità del pubblico, anche quando queste esulano dal topic principale.

L’autore passa poi a trattare il ‘concetto’ di desiderio e domanda attraverso illustrazioni ideate da Lacan per descrivere questi fenomeni e inquadrarli all’interno della relazione madre-bambino. Egli affronta poi il desiderio maschile e femminile, trattando la questione con toni talvolta duri e fronteggiando temi sociali attuali in maniera originale.

Il secondo seminario affronta poi il percorso storico della ripetizione approfondendo alcuni testi freudiani attraverso i quali questo concetto si è ‘trasformato subendo varie vicissitudini‘. Un concetto che Lacan ha scelto di considerare come uno dei quattro concetti fondamentali della psicanalisi e che definisce come ‘qualcosa che richiede sempre del nuovo e non è la ripetizione di un identico‘. All’interno del processo di cura, la ripetizione è ‘una resistenza che va attraversata‘ e che va distinta dal transfert.

Per fare subito la differenza tra transfert e ripetizione, vi ricordo ciò che ho detto ieri. Il transfert è una messa in atto della realtà dell’inconscio attraverso le strade di quell’inganno che è l’amore. Ma a differenza della ripetizione che è una messa in atto di un reale, il transfert tocca la dimensione della domanda e della mancanza e quindi tocca la struttura di beanza del soggetto.

Hiltenbrand dedica un ultimo seminario alla rimozione, definita come ‘uno dei punti fondamentali della psicoanalisi, poiché legata alla concezione di sintomo e alla sua interpretazione’. Tale concetto si situa ‘all’incrocio tra l’inconscio e il sintomo’ e ha un valore fondamentale nell’ambito della clinica e in relazione al processo di cura. In questo senso, lo scopo dell’analisi è ‘sollevare’ la rimozione in modo civile, riconoscere il rimosso e accertarne la dimensione, identificando e decifrando i sintomi che ne derivano.

Questo testo, nelle modalità con cui è stato ideato e grazie alle trascrizioni delle lezioni/seminari risulta una testimonianza importante grazie alla quale sia analisti sia pazienti, nell’ambito della dinamica della cura, possono cercare soluzioni a dilemmi e precisazioni sui temi che riguardano la pulsione, la ripetizione e la rimozione. Il lettore troverà così uno spazio narrativo in cui riscoprire i concetti della psicoanalisi freudiana e lacaniana, trattati in modo originale ed arricchiti da una clinica attuale sempre più rivolta a tematiche del mondo odierno.

 

MCT di gruppo per il GAD – fattibilità ed efficacia

Uno studio pilota recente condotto in una clinica psichiatrica norvegese ha cercato di valutare la fattibilità della g-MCT per i pazienti adulti affetti da GAD e la sua efficacia nella riduzione della sintomatologia ansiosa, depressiva, nonché sulla riduzione delle metacognizioni positive e negative e le strategie di coping disadattive.

 

Il Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD) è un disturbo comune associato tipicamente a un decorso cronico e a una riduzione significativa della qualità di vita del paziente (Spitzer et al., 2006; DSM-5, 2013). Esso è caratterizzato da preoccupazioni eccessive e incontrollabili legate a molteplici eventi o attività (DSM-5, 2013).

La Metacognitive Therapy (MCT) (Wells, 2009) ambulatoriale individuale per il GAD ha un’efficacia ben consolidata in ricerca (Wells & King, 2006; Wells et al., 2010; van der Heiden et al., 2012; Nordahl et al., 2018), tanto da essere stata inserita come trattamento d’elezione all’interno delle linee guida del National Institute for Health and Clinical Excellence (2011). Tuttavia, l’efficacia di una terapia di gruppo MCT (g-MCT) per il GAD è stata analizzata solo in uno studio (van der Heiden et al., 2013), il quale, pur avendone constatato l’efficacia nella riduzione dei sintomi del GAD, ha lasciato aperte ancora altre questioni, soprattutto in riguardo all’effettiva fattibilità (recrutamento, grandezza del gruppo, dropout) di una terapia così strutturata.

Di conseguenza, uno studio pilota recente (Haseth et al., 2019) condotto in una clinica psichiatrica norvegese ha cercato di valutare la fattibilità della g-MCT per i pazienti adulti affetti da GAD e la sua efficacia nella riduzione della sintomatologia ansiosa, depressiva, nonché sulla riduzione delle metacognizioni positive e negative e le strategie di coping disadattive.

Il campione era composto da 23 partecipanti, di cui 22 donne (95,7%), con diagnosi primaria di GAD (ADIS-IV, Brown et al., 1994). I partecipanti sono stati suddivisi in cinque gruppi g-MCT, ciascuno con 4-6 pazienti, e sottoposti a 10 sessioni di gruppo settimanali (gestite da psicologi e psichiatri addestrati allo scopo), ciascuna con una durata di 90 minuti. Le sessioni della g-MCT erano strutturatate sulla formulazione del caso personale, la messa in discussione delle credenze metacognitive, e la prevenzione delle ricadute.

I pazienti sono stati sottoposti inoltre alla seguente testistica (pre-trattamento, post-trattamento e in un follow-up a tre mesi dalla fine del trattamento): il The Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) per la misurazione della gravità del rimuginio; il Generalized Anxiety Disorder-7 (GAD-7; Spitzer et al., 2006) per l’assessment dei sintomi del GAD; il The Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9; Kroenke et al., 2001) per la sintomatologia depressiva; la Generalized Anxiety Disorder Scale-Revised (Wells, 2009) per la valutazione del GAD secondo il modello metacognitivo.

Analizzando i risultati, il trattamento con la g-MCT si è dimostrato efficace sia nel ridurre i sintomi legati al rimuginio, all’ansia e alla depressione, sia ad abbattere le credenze metacognitive e le strategie di coping disadattive. Nel rilevamento post-trattamento il 65,3% dei pazienti aveva mostrato un tasso di recupero sintomatologico, il 30,4% era migliorato e il 4,3% non aveva mostrato alcun cambiamento (1 paziente soltanto). Al follow-up di 3 mesi, il tasso di recupero era aumentato al 78,3%. Inoltre, i tassi di recupero erano paragonabili per i pazienti con e senza comorbidità.

Per quanto riguarda gli aspetti legati alla fattibilità della terapia di gruppo, circa il 75% dei pazienti eleggibili per la terapia di gruppo aveva accettato questo tipo di trattamento e non si sono verificati drop out durante le dieci sessioni. Alla fine del trattamento i terapeuti ne erano soddisfatti e lo consideravano come un metodo applicabile alla pratica clinica.

In conclusione, la g-MCT per il GAD è un trattamento che può offrire un approccio alternativo (ed economicamente vantaggioso) rispetto a quello individuale MCT. I tassi di recupero e le dimensioni degli effetti sui sintomi suggeriscono che la g-MCT potrebbe essere efficace quanto la MCT individuale e la CBT: in questo senso è auspicabile che la ricerca futura si occupi di testare questi dati di efficacia su campioni più numerosi.

 

Mobbing – caratteristiche psicosociali e strategie di intervento di un fenomeno diffuso

Il mobbing (da to mob, ossia ‘assalire tumultuosamente’) viene definito in differenti modalità come molestia verbale, aggressione verbale, isolamento, calunnia ripetute nei confronti di una specifica persona per uno specifico periodo di tempo (Einarsen, 2005).

 

L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l’ufficio internazionale del lavoro (ILO) (Takaki et al., 2010) definiscono il mobbing alla luce di comportamenti ripetuti e offensivi (di stampo vendicativo o malizioso) finalizzati all’umiliazione e a porre in uno stato di inferiorità – minorità un singolo individuo lavoratore o un gruppo di lavoratori. Il primo studioso ad introdurre il termine fu Konrad Lorenz nel 1958 descrivendo, in campo etologico, il comportamento animale volto a minare e ad intimidire il rivale.

Harald Edge (n.d.) definisce il mobbing nel seguente modo:

Con la parola Mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro,
esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o
superiori. La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata,
criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all’altro, o
viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si
arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può
essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo
‘scomoda’, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato
licenziamento.

Lo stesso Edge (n.d) lo definisce altresì come un conflitto che accade a lavoro, solo a lavoro, con una frequenza di tutti i giorni, pochi giorni alla settimana o al mese per almeno sei mesi (Maran, 2018).

La legislazione italiana (Regione del Veneto, 2012) recepisce il mobbing e lo definisce nel seguente modo (l’articolo è stato tratto dal codice di protezione della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori nella Pubblica Amministrazione):

Costituisce mobbing un complesso di atti e comportamenti ostili, aggressivi o vessatori, posti in essere reiteratamente e sistematicamente, con modalità persecutorie, nei confronti della lavoratrice o del lavoratore da chi si trova in posizione sopraordinata (mobbing verticale) ovvero da colleghi (mobbing orizzontale) e che, creando un clima intimidatorio, umiliante, degradante, ed offensivo, hanno lo scopo o l’effetto, anche emarginandolo/a dall’ambiente di lavoro, di violarne la dignità personale e di danneggiare l’integrità psico-fisica.

Questo articolo, il 5 del Codice sopra citato, è interessante poiché evidenzia un legame molto stretto tra ciò che la legge identifica come mobbing e le evidenze scientifiche emerse in campo psicologico. Non sempre è presente questo tipo di legame e quando presente si avverte della necessità di una stretta collaborazione interdisciplinare che è sempre un passo avanti nell’integrazione e nello sguardo rivolto alla teoria della complessità. Ma l’articolo del Codice si spinge più in là per chiare esigenze normative e pone la necessità di un nesso causale tra il comportamento rivolto al lavoratore e il danno arrecato allo stesso, nonché la necessità di inscrivere gli atti di mobbing all’interno di un preciso piano vessatorio. Esiste dunque una intenzionalità di ledere la dignità del lavoratore e la sua integrità psico-fisica agendo con animus nocendi. È proprio tale volontà di nuocere che pone un legame con la violazione dei vincoli contrattuali che legano il datore di lavoro al lavoratore e ne descrivono il rapporto in funzione delle generali clausole di correttezza e buona fede. Da un punto di vista civilistico il mobbing viola l’articolo 2087 del c.c. che pone un generale obbligo di sicurezza sul lavoro, imponendo al datore di intraprendere tutte le misure necessarie per proteggere l’integrità fisica e psicologica del lavoratore (Menduto, 2020).

Il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro pone la necessità di una valutazione, in capo al datore di lavoro, che evidenzi tutti i rischi connessi alla salute. In questi debbono rientrare, evidentemente, anche i fattori di stress lavoro correlati o, in modo più specifico, i fattori di stress psicosociale a lavoro. Prima di procedere, oltre a tali fonti dell’ordinamento giuridico, esiste altresì anche un’altra fonte sopra le altre: la Costituzione. Essa infatti pone una tutela per i diritti fondamentali della persona nonché riconoscendo che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, pone di fatto, una necessità alla sua tutela come bene essenziale per la sua stessa sopravvivenza. Nel 2002 l’OMS (Zeynep, 2019) ha definito il mobbing un problema per la salute mondiale con conseguenze dannose.

Oltre agli aspetti civilistici che pongono una questione relativa al risarcimento e alla restaurazione, esistono altresì delle conseguenze a livello penale per lesioni per le quali si verifichi malattia del corpo e/o della mente.

Dunque dalla Costituzione, alle leggi Statali, alla P.A., fino ai luoghi di lavoro privati, la salute psico-fisica del lavoratore è al centro. O, almeno, al centro della tutela legislativa che si differenzia dall’idea che uno stesso principio di tutela della persona sia effettivamente al centro del sistema socio-economico del nostro paese.

Per quanto riguarda la sistematicità e reiterazione del comportamento con finalità persecutorie e vessatorie, qualcosa di più specifico è fornito da Leymann che, definendo il mobbing un ‘conflitto non violento nel luogo di lavoro’ (Zeynep, 2019), sostiene una frequenza del comportamento pari a una volta a settimana per almeno sei mesi (2019).

Esistono altresì figure che si occupano nello specifico di consulenza, assistenza e prevenzione in questioni inerenti la salute del lavoratore, o che almeno dovrebbero: psicologi del lavoro, medico del lavoro, responsabile del servizio protezione e prevenzione, rappresentante dei lavoratori in materia di sicurezza e organi statali per la sorveglianza della P.A. quali il comitato unico di garanzia, l’organo indipendente di valutazione e, in genere, le organizzazioni sindacali e il dipartimento risorse umane di ciascuna azienda privata o pubblica. Queste le figure coinvolte, in linea generale, a tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Tuttavia, seppure esiste un largo impiego degli psicologi all’interno del dipartimento risorse umane, non esiste ancora una chiara legislazione che ne regolamenti nello specifico il ruolo. Per fare un esempio, anche laureati in sociologia, giurisprudenza, economia possono ricoprire tale ruolo. Forse sarebbe necessario, come fa notare Altrapsicologia (2019), riuscire a regolamentare in modo più specifico il campo di applicazione delle conoscenze e possibilità della psicologia all’interno dell’ambito lavorativo.

Ritornando al mobbing, dati dal 2011 al 2016 riferiscono circa più di 38 mila casi in Turchia (Zeynep, 2019) mentre dati del 2018 dicono una prevalenza del 5/10% in Europa, del 50% negli USA e del 4% in Italia. Questo per fornire anche un’inquadratura mondiale del fenomeno. Nelle economie maggiormente capitalistiche e competitive il fenomeno appare più sviluppato. Tuttavia, il 4% non è poco, poiché spesso il mobbing è legato a disturbi psicologici come conseguenza dello stesso, se non viene affrontato seriamente si corre il rischio di ritrovarsi una società ‘ammalata’ che comporterà nuovi costi per la politica che si potrebbero evitare. Per farlo, tuttavia, occorre anche modificare il modo di pensare di fare impresa ed economia e non solo intervenire laddove esistono dei potenziali rischi, giacché rilevarli significherebbe che il contesto è già potenzialmente ‘affetto’ e il danno può essere fatto. Come sempre, la prevenzione è la miglior cura, tuttavia occorre, in questo caso, cambiare il modo di pensare e sentire che si traduce in una diversa modalità di fare impresa ed economia.

Un ulteriore dato evidenzia come in prevalenza le donne di una fascia compresa tra i 34 e i 45 anni di età siano oggetto di mobbing (Kostev et al., 2014). Sembra essere più diffuso tra la popolazione femminile e quella dei laureati (Zeynep, 2019). Vi possono essere tre ordini di spiegazione: il primo di stampo femminista afferma la cultura del patriarcato che prevarica e considera inferiori le donne. Il secondo di stampo sociologico afferma che le donne sono più esposte a condizioni di stress poiché si occupano del lavoro e dell’accudimento dei figli (o della famiglia in genere) e lo stress è uno dei fattori di rischio più importanti quando si parla di mobbing. La terza spiegazione è di stampo psicologico: le donne parlano molto di più dei loro problemi rispetto agli uomini per i quali affermare di essere vittime di mobbing da parte di un superiore, per esempio, potrebbe essere una ferita narcisistica importante tale da preferire il silenzio alla possibile, e percepita, offesa al loro valore. Per quanto riguarda i laureati sembra che essi, avendo avuto accesso ad una cultura più ampia, siano in grado di riconoscere tali fenomeni e di agire utilizzando gli strumenti legislativi idonei.

I fattori di stress psicosociali a carico dell’ambiente di lavoro (e delle relazioni immerse in tale ambiente) sono gli aspetti più importanti relativi alla valutazione dei rischi e prevenzione per quanto riguarda la salute psico-fisica dei lavoratori. Infatti è ormai comprovato che lo stress nel luogo di lavoro può condurre a problematiche di tipo respiratorio, cardiocircolatorio, muscolo-scheletriche, dei tessuti connettivi, digestive e sintomi/patologie psicologiche e psichiatriche come depressione, distimia, ansia, problemi del sonno, PTSD e anche suicidio (con conseguente responsabilità del datore di lavoro per casi accertati), abuso di sostanze, fobia sociale. Nel caso specifico del mobbing sembra che esso sia fortemente legato al PTSD. Il DSM (il manuale di riferimento per i disturbi connessi alla mente) prevende sintomi come evitamento dell’evento e ripetizione dello stesso. Ossia il soggetto evita tutti quei luoghi, persone, oggetti che in qualche modo lo possono riportare all’evento traumatico ma attraverso sogni (incubi) e flashback esiste una ripetizione dell’evento traumatico. Questi stessi comportamenti e sintomi sono stati riscontranti anche come conseguenza del mobbing (Zeynep, 2019). Quanto detto porta a considerare il mobbing come evento traumatico in se stesso. Un altro studio (Kostev, 2014) riporta, come conseguenze prevalenti, depressione, somatizzazioni e ansia (in quest’ultimo caso fino a tre volte in più rispetto a soggetti non esposti a mobbing). In generale lo studio rileva una possibilità di ammalarsi fino a due volte superiore.

Ma quali sono i fattori psicosociali che incidono sul clima lavorativo? A tal proposito occorre partire con alcuni modelli che possono fornire una utile delucidazione per comprendere quali siano gli elementi che incidono sul clima di lavoro. Un primo modello, definibile bidimensionale, è fornito da Karasek (1979) che, in modo molto semplice ma efficace, pone al centro la richiesta lavorativa in rapporto alla cosiddetta ‘latitudine decisionale’, che indica appunto la distanza tra il lavoro che è richiesto di svolgere e il potere del singolo di assumere decisioni in maniera autonoma sullo stesso. Appare evidente che questa dimensione chiama in causa l’autonomia del lavoratore e la possibilità di vedere impiegate al meglio le sue abilità e capacità naturali e acquisite. Sulla base dell’intrecciarsi di queste modalità Karasek individua tre tipologie di lavoro:

  • Lavori ad alta sollecitazione (ove la domanda è elevata ma il controllo da parte dei lavoratori è basso e le loro abilità/capacità di rispondere alla domanda non sono impiegate o non sono adeguate rispetto alla richiesta lavorativa aumentando lo stress nei lavoratori ed esponendoli a patologie cardiovascolari e muscoloscheletriche);
  • Lavori attivi (ove la richiesta lavorativa è adeguata alle capacità dei lavoratori e vi è un buon controllo e autonomia da parte degli stessi. I lavoratori si sentono motivati e stimolati).
  • Lavori a bassa sollecitazione (ove la richiesta lavorativa è bassa rispetto alle capacità/abilità e al controllo da parte dei lavoratori. Questi ultimi si sentono demotivati e sotto stimolati, fino a percepirsi come inutili).

Questo modello è stato integrato dagli studi di Johnson (1988) che individua una terza dimensione nel cosiddetto ‘supporto sociale lavorativo’ ossia il supporto fornito da colleghi (orizzontale) e responsabili (verticale). Sembra che il supporto che proviene in senso verticale sia maggiormente efficace come fonte di rinforzo positivo per i lavoratori che si sentono motivati e stimolati. Questo, chiaramente, offre una spiegazione di facile portata: in senso psicoanalitico il superiore gerarchico è assimilabile alla figura del padre che è fortemente legata al valore di un soggetto. Agisce dunque come oggetto-sé a supporto del sé del lavoratore e fornendo coesione narcisistica allo stesso. È come se, usando un’immagine metaforica, si costruisse una seconda pelle attorno al soggetto (il lavoratore) che gli fornisce uno strumento di difesa ulteriore; in questo modo è più resiliente ad eventuali stress lavorativi, famigliari, personali, che potrebbero incidere negativamente sulla sua efficacia ed efficienza.

Sull’importanza del rinforzo positivo si è sviluppato un ulteriore modello offerto da Siegrist (1996) basato su due fattori: sforzo e ricompensa. Se il modello precedente era definito ‘modello richiesta/controllo’, questo viene definito ERI (o effort-reward imbalance). Anche questo modello è di facile accesso poiché pone variabili accessibili anche al buon senso comune, ossia lo sforzo che il lavoratore compie e la ricompensa verso lo stesso.

Questi modelli, come altri, sono stati criticati in funzione di teorie derivanti dall’ambiente sociologico (per il quale occorre tenere in considerazione la classe di appartenenza del lavoratore. Classi più basse sono esposte maggiormente al rischio di burnout o patologie) e dallo stesso ambiente psicologico (tratti di personalità e costrutto della resilienza sono fattori individuali in capo al singolo lavoratore che influenzano in maniera negativa quanto positiva le relazioni con colleghi, superiori e la sua produttività).

In ogni caso esistono differenti studi che pongono in relazione questi modelli con lo stress lavoro correlato e quindi con potenziali rischi per il clima lavorativo, in questo si possono dunque includere tutti quei rischi legati allo sviluppo di comportamenti violenti o aggressivi come il mobbing. Una valutazione sul clima lavorativo e sui rischi legati al mobbing deve dunque tenere in considerazione questi aspetti legati al clima e di cui i modelli sopra citati offrono un adeguato strumento di indagine.

Naturalmente esistono anche questionari come il QCE, il WES e l’IMPC che sono validi strumenti per ottenere una stima dei costrutti ‘clima aziendale’ e ‘stress lavoro-correlato’.

È possibile muovere una ulteriore critica a questi modelli e più in generale al lavoro. Oggi la società è prevalentemente capitalistica. Nei grandi centri capitalistici come l’America pare che il mobbing sia più diffuso, lo si è visto prima con i dati forniti. Tutti questi modelli e gli strumenti oggi adottati per l’intervento sul clima di lavoro, sulle relazioni tra colleghi e superiori e al fine di minimizzare i rischi che possono portare a situazioni civilistiche e penali complicate come il mobbing o la molestia sessuale, sono pressoché inutili, o quanto meno offrono solamente vane illusioni, se non sono inseriti all’interno di un’idea più importante, alta, che possa guidare l’azienda tanto privata quanto pubblica in qualsiasi forma. Questi modelli risentono infatti dell’esigenza capitalistica di produzione, che si declina poi nei termini di efficacia ed efficienza del lavoratore. Questo è corretto ma si rischia di rimuovere una parte essenziale in questo discorso. Da un punto di vista psicoanalitico si potrebbe dire che il rischio è quello di forcludere questo aspetto. Ciò di cui si sta parlando è la persona. Come visto, questo termine appare nella Costituzione, nelle leggi e nei codici che la tutelano ma spesso viene mascherata (come se già essa stessa non fosse sufficiente, persona significa appunto maschera) da termini come lavoratore o, ancora in modo più brutale: risorsa di mercato. Questo tipo di pensiero, che guida il mondo dell’imprenditoria, Marina Valcharenghi (2003) lo chiamerebbe maschile, ossia atto ad analizzare, creare ordine, scomporre. Un pensiero digitale, ossia che funziona per categorie come il codice binario 0-1 piuttosto che un pensiero analogico atto a recuperare la relazione e le somiglianze tra gli oggetti (più tipico della donna). Per porre al centro la persona occorre pensare in modo femminile, un po’ come faceva Adriano Olivetti (2015) che pensava ad una fabbrica come comunità, come luogo nella cultura e nella cittadinanza, inserito in un ambiente non per modificarlo ma per rispettarlo. Un imprenditore che, dunque, pensava anche all’estetica della fabbrica e al suo organismo (termine forse più sensato di organigramma) inteso come un insieme pulsante e vivo di persone appartenenti ad una comunità. Un imprenditore ‘padre’ ma anche ‘madre’ che sappia fare del luogo di lavoro un luogo sì di efficacia ed efficienza prestazionale, ma mai in misura maggiore rispetto al valore della cultura, della crescita personale e della tutela della persona come fine e non come mezzo per un plusvalore personale.

Se si ripensa a quanto scritto all’inizio dell’articolo su Lorenz appare evidente che, in una cultura orientata alla competizione e all’ansia da prestazione, l’altro diventi una minaccia da neutralizzare. Questo, chiaramente, è eccessivo per poter essere adoperato come spiegazione del singolo caso di mobbing, rischiando per altro di oscurare le responsabilità individuali tanto del datore di lavoro quanto della vittima. A tal proposito gli studi di Baumeister (1997) affermano come la vittima possa benissimo essere al posto del carnefice poiché vi è spesso un circolo vizioso fatto di attacchi reciproci e inadeguate difese da entrambe le parti.

Si può ora abbandonare questa breve riflessione per ritornare al mobbing in senso stretto. Esistono almeno tre soggetti nel mobbing: la vittima, il mobber e il testimone e differenti sottocategorie per la prima e la seconda di queste. La vittima può essere prigioniera, passiva, ambiziosa, ipocondriaca, capro espiatorio; mentre il mobber può essere istigatore, collerico, maniacale, carrierista, sadico, frustrato. In genere il mobbing può provenire in senso orizzontale (dai colleghi), in senso verticale (dai superiori) o essere strategico (finalizzato, per esempio, ad ottenere le dimissioni della persona).

Esistono, altresì, differenti condizioni di mobbing (Camerino & Marlasca, 2017):

  • Minare la dignità personale;
  • Minare la dignità lavorativa;
  • Impedire il progresso al lavoro (sia come obbiettivi di lavoro sia come carriera);
  • Bloccare la comunicazione;
  • Intimidazioni velate/manifeste.

Secondo gli studi di Edge (n.d.), il mobbing si sviluppa in fasi:

  • Conflitto mirato: si sceglie la vittima.
  • Inizio del mobbing: questo non produce ancora effetti dannosi sulla vittima che comunque inizia a percepire un senso di disagio e malessere.
  • Sintomi psico-somatici.
  • Errori ed abusi dell’amministrazione del personale.
  • Situazione di malattia conclamata del lavoratore (fino alla vera e propria depressione. In questa fase si sviluppano tutti i sintomi che gli studi riscontrano).
  • Esclusione del lavoratore dal mondo del lavoro.

Oltre al mobbing è stato introdotto da Edge anche un altro termine noto come straining e indicante una situazione di stress sul luogo di lavoro. È possibile quindi affermare che al centro vi sia sempre la tutela della persona e che, dunque, anche quando i comportamenti non raggiungono l’intensità, la quantità e la qualità per definire il mobbing ma arrecano danno al lavoratore devono essere tenuti in considerazione. Dunque lo strainining si distingue dal mobbing più per intensità che per qualità o quantità ma è in ogni caso presente l’animus nocendi. Dello stesso parere risulta essere, ancora una volta, la legislazione che recepisce lo straining con la sentenza del tribunale di Bergamo n.286 del 2005.

Le soluzioni al mobbing possono riguardare, chiaramente, le vie legali, oppure ‘aggiustamenti’ come spostare il proprio luogo di lavoro da una sede all’altra o da un ufficio all’altro, licenziare il mobber, cambiare lavoro e altre misure che, in ogni caso, intervengono quando il danno è stato fatto.

Molto più interessante e meno valutato è l’aspetto dedicato alla prevenzione. Esistono alcune linee guida generali che pongo al centro la formazione e l’informazione: appendere cartelli informativi che consentano alle persone di individuare e riconoscere il fenomeno del mobbing qualora questo dovesse presentarsi (si ricorda appunto che i laureati erano in percentuale maggiore proprio perché si pensa sappiano riconoscere il fenomeno e possiedano le conoscenze per tutelarsi anche legalmente); organizzare in azienda dei corsi formativi rispetto alla tematica, alle conseguenze e alla legislazione in merito per offrire a tutti un chiaro quadro di responsabilità ed eventuali conseguenze civili e penali. Tuttavia questo non basta ed è qui che il ruolo dello psicologo e dello psicoterapeuta sono più utili e occorrerebbe integrarli in azienda in modo attivo all’interno delle dinamiche relazionali come forse solo Olivetti ha saputo fare con Musatti.

Il lavoratore è pur sempre, come si ricordava prima, una persona, dunque possiede alle sue spalle una storia e una personalità che ne guidano il pensiero, il sentire e l’azione. Un’azienda che sia parte della comunità, la cui finalità sia di integrarsi nella comunità e non tanto di realizzare un plusvalore, quanto piuttosto di crescere assieme alla comunità, non può esimersi dal considerare la storia del singolo lavoratore come parte integrante della sua storia personale. L’azienda diverrebbe in questo modo una comunità che possa accogliere i membri della collettività nella quale si insedia. Questo non deve dimenticare certo l’economia e le necessità che derivano dalla produzione, bensì deve essere anche a suo favore. È questo aspetto che meno viene considerato: la possibilità di coniugare una crescita umana e una crescita economica. L’ago della bilancia è totalmente spostato verso quest’ultimo aspetto. L’equilibrio degli opposti che da Epiteto a Ermete Trismegistro fino a Jung è posto al centro del mondo e della possibilità della persona di essere nel mondo è in agonia a favore della ‘risorsa di mercato’ dimenticandosi totalmente dell’uomo e del suo essere integrato nella natura. Il mondo sembra aver attraversato una fase schizo-paranoide con difese come scissione e onnipotenza, proiettando sempre al di fuori di sé il seno cattivo attivando l’angoscia paranoide nei confronti della figura dell’altro. Solo oggi si cominciano ad intravedere un primo ritiro delle proiezioni che, inevitabilmente, porteranno ad una fase depressiva con angoscia connessa.

Come scrive Conrad (2002) nel suo libro Cuore di tenebra il lavoro permette ‘di trovare sé stessi’ (p.8). Sulla stessa linea di pensiero si muove anche Fougeyrollas (1974) che, definendo l’uomo un processo di autoformazione in divenire, recupera la teoria marxista evidenziando che attraverso il lavoro l’uomo crea se stesso. L’uomo, strappando materie prime alla natura, le consegna al processo produttivo attraverso il quale si astrae, per mezzo del suo lavoro, dalla natura e si inscrive nell’ambito della cultura. In tal senso è forse comprensibile la frase di Geertz (1998) che afferma che ‘la natura dell’uomo è la sua cultura e la cultura dell’uomo è la sua natura’ (pp. 63-64), e tra l’una e l’altra si insinua il lavoro attraverso il quale l’uomo opera sulla natura, crea cultura, ma soprattutto crea relazioni di produzione che sono la base della società. Questa breve riflessione permette di comprendere come il lavoro sia molto di più di ciò che comunemente si intende e sia, come già la stessa Costituzione riconosce, al centro della stessa possibilità di una società di esistere ma non tanto per l’importanza dell’economia intesa come finanza e del mercato economico in quanto piazza di scambio di valore e di realizzazione del plusvalore, ma poiché il lavoro è il mezzo attraverso il quale l’uomo trova e realizza se stesso, ossia la sua natura che è la cultura. Per tale motivo il luogo del lavoro è una comunità di crescita e di destino poiché lega tra loro gli uomini in quanto tali e non in quanto risorse di mercato. Questa riflessione è utile al fine della tematica del mobbing poiché, se si sposta l’attenzione alla prevenzione, appare fondamentale pensare che non vi possa essere prevenzione senza un cambiamento radicale di prospettiva che guida l’azione economica che debba essere intesa come gestione della casa comune, quale etimologicamente si riferisce. Naturalmente questo implica che il lavoratore non sia più solo una risorsa di mercato ma una persona integrata nell’azienda che diviene una comunità di destino, il destino attraverso il quale l’uomo e l’umanità realizza se stessa non all’interno di dinamiche di potere o di principi di produzione, ma creativamente. Questo implica liberare una quota di Eros repressa dal capitalismo e poter ripensare al modello economico per riuscire davvero a trasformare il lavoro nell’opera di realizzazione della natura dell’uomo. In tal senso il lavoro cesserebbe di essere lavoro alienante e di produrre cretinismo dell’operaio come sosteneva Marx.

Di questo forse Olivetti ha saputo aprire la strada per poter pensare ad una crescita stessa dell’operaio che è crescita dell’azienda e della comunità nella quale è inserita. Per far questo è però necessario integrare quelle figure professionali che possono fungere da guida nell’intercettare eventuali distorsioni rispetto alla tendenza naturale dell’uomo e del suo sviluppo. Queste figure sono coloro che, in una categoria generale, appartengono alle scienze umane. Anche queste si trovano a vedere represso il loro Eros per vederlo asservito alla logica capitalistica del plusvalore. Basti pensare che ciò a cui classicamente si dedica la psicologia del lavoro è la selezione o ricerca del personale o, come più comunemente viene detto con un anglicismo (poiché oggi anche la lingua è soggetta alle logiche del capitale e della globalizzazione capitalistica), HR, piuttosto che dedicarsi allo studio di come migliorare un pensiero imprenditoriale che sappia coniugare il valore della persona umana e la necessità di crescita, non in senso economico inteso come realizzazione del plusvalore, ma in senso umano come crescita dell’uomo. Chiaramente l’aspetto economico è qui incluso ma ad esso viene attribuito un diverso valore. Non si tratta di fornire uno stipendio per introdurre liquidità nel mercato, generare domanda e dare avvio al moltiplicatore di keynesiana memoria al fine di generare più offerta e di assumere più persone, ma piuttosto con il fine di attribuire valore alla singola persona in quanto tale e permetterle di inserirsi nel destino che ci lega gli uni agli altri. Il pensiero è di fondamentale importanza poiché guida l’azione e in questo gli psicologi, per esempio, possono offrire un grande aiuto. Questa forse è la migliore prevenzione che è possibile effettuare, non solo per cercare di arginare fenomeni quali il mobbing, ma anche per ridare al lavoro il suo giusto valore (non a caso lavoro e valore sono parole molto simili tra di loro e come tutte le parole nascono come astrazione dal copro inconscio comunicando qualcosa che appartiene allo stesso e dunque alla nostra stessa natura).

Esiste, altresì, un’altra opportunità con la quale l’azienda può realizzare il suo destino di comunità e di crescita intrecciandosi a quello dell’uomo e che, allo stesso tempo, può offrire un’opportunità di prevenzione per il mobbing, ipotesi con la quale si vuol concludere questo articolo. Tra le numerose critiche rivolte agli studi citati e non, ci sono quelle che vedono nei tratti di personalità del lavoratore dei fattori che possono essere legati, in modo più deterministico, agli esiti psico-somatici. In tal senso non sarebbe il mobbing in quanto tale ad arrecare danno alla salute del singolo lavoratore, ma piuttosto una condizione di stress che il lavoratore non riesce a tollerare a causa della sua personalità e della sua bassa resilienza. Un pensiero di questo tipo è corretto, ma è l’uso che se ne vuol fare che diventa perverso. Un’azienda che sia anche comunità di crescita non può e non deve assurgere a tali giustificazioni, ma deve saper farsi carico dei suoi organi vivi (i lavoratori) e saperli mantenere in salute. In tal senso introdurre la psicoterapia all’interno dell’azienda, così come esiste il medico e l’infermiere, al completo servizio gratuito del lavoratore (persona), è un modo per mantenere la salute dell’azienda stessa ma anche per farsi carico della comunità nella quale sorge e alla quale deve offrire un’opera di destino che non può solo legarsi alla generazione del plusvalore e alla ricompensa economica offerta alla ‘risorsa di mercato’, ma deve saper farsi carico della persona in quanto tale. Solo così un imprenditore diverrà veramente se stesso; l’etimologia del termine rimanda appunto a prahendere, ossia ‘prendere sopra di sé’ o ‘farsi carico’.

Ma di cosa egli si fa carico? Dell’attività economica certamente ma se l’attività economica si realizza mediante il lavoro e il lavoro è il centro della possibilità dell’uomo di realizzare sé stesso (purché creativo e non alienante), ciò vuol dire che l’imprenditore si fa carico anche del lavoratore in quanto persona. Ovviamente non si possono addebitare ad egli soltanto le colpe, è necessario un complice scambio tra lo Stato e il mondo dell’impresa che però debba basarsi, o avere come sfondo o fine, questo tipo di pensiero. Solo così si potranno considerare davvero i fattori psico-sociali alla base del mobbing e di altri comportamenti che arrecano danno alla dignità del lavoratore e alla sua integrità psico-fisica, che è danno alla possibilità della persona di realizzare se stessa e si potrà davvero fare prevenzione verso gli stessi contribuendo al destino degli uomini in quanto tali.

Quando la paura può diventare una cattiva consigliera – Intervista al Prof. Paolo Legrenzi

Per meglio comprendere la paura, secondo il Prof. Legrenzi, è fondamentale tenere conto di come funziona la nostra mente: non sempre la paura si innesca di fronte a un pericolo reale o in proporzione all’entità o all’intensità del pericolo.

 

In questi mesi ho avuto il piacere di svolgere delle interviste a grandi personalità nell’ambito della psicologia, approfondendo con ognuno di loro tematiche specifiche all’interno di una macroarea, ossia Emozioni e Ragione.

Nel presente articolo sono state elaborate le riflessioni emerse dall’intervista al grande psicologo e accademico di fama internazionale nel campo della psicologia cognitiva, Paolo Legrenzi, sul tema della paura.

Autore di numerose pubblicazioni tra le quali Come funziona la mente, Psicologia generale, Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze, Perché gestiamo male i nostri risparmi, Perché abbiamo bisogno dell’anima, tra i suoi ultimi libri troviamo A tu per tu con le nostre paure e Paura, panico, contagio. Il Prof. Legrenzi ci spiega come la paura, seppur emozione importante per l’essere umano, talvolta può divenire disfunzionale e ‘cattiva consigliera’.

Le nostre paure sono molto più numerose dei pericoli che corriamo.
Soffriamo molto di più per la nostra immaginazione che per la realtà.
(Lucio Anneo Seneca)

Il Prof. Paolo Legrenzi (Fig. 1) apre l’intervista spiegando come le emozioni svolgano un ruolo essenziale per l’essere umano, guidando i suoi comportamenti, le sue scelte, le azioni e i processi di adattamento all’ambiente esterno più in generale.

Paura quando e disfunzionale e come gestirla Intervista al Prof Legrenzi Fig 1

Fig. 1: Il Prof. Paolo Legrenzi

Riprendendo le sue parole dobbiamo “pensare alla persona umana come ad un’automobile ed alle emozioni come al carburante; emozioni connotate positivamente, come ad esempio il piacere, danno una spinta, sono più motivanti, al contrario emozioni connotate negativamente, come ad esempio la paura, il dolore, sono come dei freni, ci bloccano e/o orientano verso altre direzioni” al fine di preservarci da un pericolo o una minaccia.

Ma entrando nel vivo della paura, continua a spiegare il Prof. Paolo Legrenzi, va tenuto conto di come funziona la nostra mente, e non sempre la paura si innesca di fronte un pericolo reale o in proporzione all’entità o intensità del pericolo. La paura infatti, continua a spiegarci il Prof. Legrenzi, è determinata più dalla percezione soggettiva del pericolo che dalla reale entità del pericolo stesso. Entrano in gioco in tal senso variabili come la lontananza, la novità e l’alterità dell’evento, che contribuiscono ed incidono a farcelo percepire come più o meno pericoloso. Il Prof. Legrenzi, in tal senso, ci porta a riflette su come ad esempio temiamo un attentato terroristico, un crollo della borsa, un disastro aereo più di quanto temiamo ad esempio morti per incidenti stradali, perché più frequenti e più abitudinari, oppure non temiamo il riscaldamento globale in quanto evento a lungo termine e meno temuto di quanto invece si dovrebbe.

In altri casi invece la paura si rivela funzionale in quanto ci induce ad attingere alle nostre risorse per affrontare un problema o un pericolo, che va adeguatamente conosciuto, valutato, affrontato e non evitato per come saremmo più propensi a fare.

Ma parlando di paura, continua il Prof. Legrenzi, diventa importante riconoscere e distinguere le nostre dalle paure collettive, poiché, sottolinea, anche quelle sono virali e contagiose, e si diffondono molto di più e più rapidamente di quanto lo facciano i virus da un punto di visto biologico.

In merito a ciò, il Prof. Legrenzi fa riferimento a quanto abbiamo vissuto e continuiamo a vivere in rapporto alla pandemia causata dalla diffusione del Covid-19 ed in tal senso per approfondimenti si rimanda alla recensione del suo ultimo libro Paura, panico, contagio che ne offre un’attenta analisi.

Infine, ho chiesto 3 consigli su come poter sfruttare a nostro vantaggio la paura e non rimanere incastrati in trappole che spesso poi generano patologia.

Il Prof. Legrenzi ci suggerisce che la prima operazione da fare è chiedersi se la nostra paura è proporzionata al pericolo e per fare ciò dobbiamo conoscere l’entità del pericolo.

Secondo punto essenziale, secondo il prof. Legrenzi, è il principio del controllo, ossia valutare cosa sia veramente sotto il nostro controllo e cosa non lo sia per non disperdere energie psicofisiche. Infine armarci di coraggio e saggezza per accettare ciò che non dipende da noi.

A conclusione della presente, ritengo calzante riportare un pensiero di San Francesco d’Assisi che recitava:

Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio per cambiare quelle che posso,
e la saggezza per riconoscerne la differenza.

 

La fatica di essere pigri (2020) di Gianfranco Marrone – Recensione del libro

La fatica di essere pigri è un libro fondato sul paradosso secondo il quale per essere pigri sia necessario adoperarsi al massimo e compiere uno sforzo intellettuale e fisico.

 

Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica all’Università di Palermo, autore del libro La fatica di essere pigri, ci regala un testo sulla pigrizia, un atteggiamento duramente criticato dalla società occidentale. L’uscita del libro durante la fase di ripresa dopo il lockdown a causa della pandemia da Covid-19 sembra paradossalmente calzante, poiché, chiusi nelle nostre case, abbiamo sperimentato un periodo di ‘ozio forzato’ che ci ha messo di fronte alla difficoltà del rimanere fermi.

L’arte del dolce far nulla è il nucleo centrale del libro, una libertà che nella società viene attribuita a chi resiste ai doveri sociali e si ribella ai ritmi frenetici della vita moderna, rinunciando così all’operosità e alla produttività richiesta in favore dell’aspirazione al riposo. Ma questa brama, questo diritto di libertà del poter non far nulla coinvolge in realtà uno sforzo superiore a quanto si possa credere. Essere pigri è da pochi, esige un lungo lavoro di apprendimento, poiché il pigro, ovvero colui che sembra non fare nulla, in realtà non fa quello che gli altri si aspettano da lui e si adopera ardentemente per fabbricare le condizioni che gli permettano di difendere questa inerzia.

Ma cos’è la pigrizia? Che sia essa una forma d’ozio?

La pigrizia ha una lunga storia che si è in effetti incrociata a quella dell’ozio. In realtà, spiega Marrone citando Bertrand Russell, ‘l’ozio è essenziale per la civiltà‘ e non è un vizio, così come invece è vista la pigrizia. L’ozio è un atteggiamento di cultura del sapiente, che predilige la cura dello spirito non comportando necessariamente inoperosità. In epoca moderna, al contrario, l’ozio è stato considerato un malcostume e assimilato alla pigrizia.

La storia antropologica e filosofica della pigrizia viene disegnata attraverso le riflessioni di numerosi filosofi e mostrando le differenze di concezione del termine tra la cultura occidentale e asiatica. Nel Buddismo Zen giapponese, per esempio, questa ‘oziosità’ viene interpretata come una forma di devozione verso il mondo, un’attività permeata dell’arte e della bellezza e, citando lo scrittore cinese Lin Yutang, ‘la cultura sarebbe proprio un prodotto dell’ozio‘.

L’autore opera una ricostruzione dell’area semantica del termine pigrizia utilizzando detti e proverbi, arrivando ad approfondire i racconti e le fiabe russe. In queste entrano in gioco personaggi come Oblòmov di Ivan Gončarov, considerato ‘il celebre pigro letterario’, un protagonista inoperoso e inattivo che oziando sembra in realtà celare un comportamento di sovversione contro la società capitalista russa dell’Ottocento.

L’analisi narrativa non si ferma alla fiaba russa, ma approfondisce personaggi della cultura popolare come Snoopy e Paperino. Quest’ultimo, che aspira a riposare tutto il giorno sulla sua amaca, è invece costretto a lavorare costantemente di modo da conquistare il suo amato momento di relax. Ed ecco la morale ritornare. Ecco nuovamente il paradosso. Il riposo è l’oggetto desiderato dal simpatico papero, un’utopia, perché per ottenerlo è costretto a faticare.

Per essere pigri bisogna lavorare moltissimo, scontrarsi con un mondo che cambia e che pretende sempre di più un attivismo ipocritamente euforico. La pigrizia non è un dono, né un tratto caratteriale: è semmai un oggetto da conquistare dopo infinite lotte.

Così il lettore viene infine messo di fronte alla questione:

Cos’è la pigrizia oggi? Come può trovare spazio questo termine nella società odierna? Siamo davvero capaci di non fare nulla, poltrire e piegarci a queste forme di inoperosità estremamente antisociali e impossibili?

Secondo Roland Barthes, la pigrizia consiste nello spezzare il tempo il più spesso possibile, nel diversificarlo, ricercando tale vizio in piccole azioni e diversivi che possano sconvolgere il ritmo dell’esistenza frantumando la routine. Così, oggi, possiamo praticare la pigrizia e riprenderci questa libertà a piccole dosi, anche solo a cominciare dalla semplice azione di prepararci un caffè.

Disturbi del sonno in età infantile predicono la presenza di disturbi mentali in adolescenza?

Secondo uno studio condotto da un team della School of Psychology dell’Università di Birmingham, specifici problemi del sonno tra neonati e bambini molto piccoli possono essere collegati a disturbi mentali negli adolescenti (Lereya et al., 2017). 

 

Lo studio longitudinale, con sede nel Regno Unito, è stato condotto su 14.000 donne incinte e i risultati mostrano che i bambini piccoli che si svegliavano regolarmente durante la notte e sperimentavano routine del sonno irregolari tendevano a sviluppare sintomi psicotici in adolescenza. Emerge inoltre che i bambini che dormono poco di notte e che vanno a letto tardi, hanno maggiori probabilità di sviluppare un disturbo borderline di personalità (BPD) durante la loro adolescenza.

Precedenti ricerche hanno dimostrato che gli incubi persistenti nei bambini correlano con lo sviluppo di psicosi e del disturbo borderline di personalità (Lereya et al., 2017).

I ricercatori hanno esaminato i dati provenienti da 7000 partecipanti che riportavano sintomi psicotici e oltre 6.000 individui che mostravano i sintomi del disturbo borderline di personalità. I dati analizzati provengono dallo studio Children of the 90s (noto anche come coorte di nascita Avon Longitudinal Study of Parents and Children – ALSPAC) che è stato istituito dall’Università di Bristol.

Il comportamento del sonno dei partecipanti è stato monitorato dai genitori quando i bambini avevano 6, 18 e 30 mesi e valutato di nuovo a 3, 4, 5 e 8 anni (Lereya et al., 2017).

I risultati, pubblicati su JAMA Psychiatry, mostrano associazioni significative con esperienze psicotiche in adolescenza, tra i bambini di 18 mesi che tendevano a svegliarsi più frequentemente di notte e che avevano una routine del sonno anormale già a partire dai 6 mesi di età (Lereya et al., 2017).

Ciò supporta l’evidenza esistente che l’insonnia contribuisce alla psicosi, ma suggerisce che queste difficoltà potrebbero essere già presenti anni prima che si verifichino esperienze psicotiche.

Il team ha anche scoperto che i bambini che dormivano meno durante la notte e andavano a letto più tardi all’età di tre anni e mezzo tendevano poi a sviluppare il disturbo borderline di personalità.

Infine, i ricercatori hanno scoperto che la depressione ha mediato i legami tra problemi del sonno infantili e l’insorgenza di psicosi negli adolescenti, ma questa mediazione non è stata osservata nel disturbo di personalità borderline, suggerendo l’esistenza di un’associazione diretta tra problemi del sonno e sintomi del BPD (Lereya et al., 2017).

Il professor Steven Marwaha, autore senior dello studio, suggerisce che è fondamentale identificare i fattori di rischio che potrebbero aumentare la vulnerabilità degli adolescenti allo sviluppo di questi disturbi, identificare quelli ad alto rischio e fornire conseguentemente interventi efficaci.

Secondo gli autori dell’articolo, il sonno potrebbe essere uno dei più importanti fattori sottostanti a certi disturbi mentali; se così fosse, agire prontamente quando iniziano a presentarsi problemi del sonno in infanzia, potrebbe fungere come prevenzione del disturbo mentale in adolescenza (Lereya et al., 2017).

Storia Critica della Psicoterapia (2020) di R. Foschi e M. Innamorati – Recensione

Foschi e Innamorati costruiscono una storia della psicoterapia che è al contempo sia racconto in senso stretto che storia delle idee, indagando gli avvenimenti che ne hanno costellato l’evoluzione e il rapporto con i suoi presupposti filosofici

 

Si legge scorrevolmente la Storia Critica della Psicoterapia di Renato Foschi e Marco Innamorati. Esauriente, istruttivo e appassionante e racconta la storia della psicoterapia per quella che è: il romanzo di formazione dell’immaginario culturale del XX secolo, l’avventura spirituale dell’età contemporanea, la quest di una moderna compagnia dell’anello, una quest ora di ambiente steam punk con Freud, ora fantasy con Jung e ora science fiction con la mindfulness. Solo la terapia cognitivo comportamentale, quotidiana e borghese come una villetta con giardino di un sobborgo americano, si presta meno bene a questa avventurosa metafora.

Foschi e Innamorati costruiscono una storia della psicoterapia che è al contempo sia racconto in senso stretto che storia delle idee, indagando gli avvenimenti che ne hanno costellato l’evoluzione e il rapporto con i suoi presupposti filosofici, dando spazio al pensiero di Freud e alle sue evoluzioni, le contestazioni di Adler e Jung, le trasgressioni di Ferenczi, Rank e Reich, la nascita dell’analisi infantile, lo sviluppo dei diversi modelli psicodinamici alternativi (le relazioni oggettuali, la psicologia del sé, il modello culturale di Horney e Fromm, la Psicologia dell’Io, l’Intersoggettivismo, l’Ermeneutica, il Lacanismo, l’Analisi Relazionale). Sono presenti poi i modelli non psicodinamici, dal Cognitivismo alla Terapia Familiare alla Bioenergetica, fino all’Analisi Transazionale e alla Terapia della Gestalt. In parallelo, presenta anche l’origine autonoma del Comportamentismo e il suo successivo incontro col Cognitivismo, descrivendo le diverse evoluzioni che da questo incontro si sono generate. Ancora, il libro dà conto anche della genesi della Psicologia Umanistica e dei suoi sviluppi e anche del modello Strategico e Sistemico.

È però vero che un libro che si chiama Storia Critica della Psicoterapia senza aggettivi soffre del fatto che la parte del leone di questa storia vada ai modelli psicodinamici che da soli occupano i tre quarti del libro mentre gli altri modelli si devono accontentare delle briciole di poche decine di pagine sparse qua e là, per quanto benissimo scritte. Speriamo che la prossima edizione sia più equilibrata a favore dei modelli cognitivisti e comportamentisti, sistemici, umanistici ed esperienziali. E non perché manchino porzioni dedicate a questi modelli e non siano ben scritti. Il problema è che però i modelli non psicodinamici sono serviti con porzioni da sushi mentre i capitoli dedicati alla psicoanalisi sono pantagruelici arrosti di cinghiale.

Questo difetto del libro si lascia però perdonare dalla competenza che i due autori mostrano quando trattano gli altri modelli. Ad esempio, dal punto di vista cognitivo comportamentale, per quanto nel libro ci siano troppo poche le pagine (solo una trentina) dedicate a questo modello, non si può che rimanere ammirati da quanto dense esse siano, soprattutto quando trattano gli inizi comportamentisti, davvero erudite e istruttive. Altrettanto stupefacente è la conoscenza storica dei modelli pre-freudiani francesi, a cominciare da quello di Pierre Janet.

Vi è però un secondo difetto nella trattazione dei modelli cognitivi e comportamentali: vi sono alcune imprecisioni concettuali che riguardano la narrazione degli sviluppi storici da Beck in poi di questo modello. Questo difetto probabilmente non è imputabile ai due autori, ma più alla difettosa conoscenza storica che il modello cognitivo e comportamentale ha di se stesso.

Conoscenza difettosa che ha inquinato le fonti storiche a cui hanno attinto Foschi e Innamorati e che ha le sue ragioni. La prima è la scarsa propensione dei cognitivisti e comportamentisti per l’approfondimento storico. Mentre la psicoanalisi ha tratto beneficio dalle sue parentele umanistiche per sviluppare un acuto senso storico, reso necessario anche per comprendere i suoi numerosi scismi, l’impostazione più empirista e lo sviluppo apparentemente più lineare delle terapie cognitive e comportamentali hanno limitato la riflessione storica in questo campo. La conseguenza è l’eccesiva diffusione di narrazioni semplicistiche.

Tra le tante, ne predominano due. La prima – diffusa nei paesi anglo-sassoni – è quella che racconta l’armonica nascita del cognitivismo dal grembo del comportamentismo seguita dalla felice fioritura della cosiddetta terza onda processuale e funzionalista. Tre generazioni senza conflitti. Purtroppo si comincia a capire che non è andata così. Va detto che a questa vulgata troppo lineare Foschi e Innamorati riescono a sfuggire: essi sono consci ad esempio delle influenze psicodinamiche di Beck che col comportamentismo mai ebbe a che fare. Questa è una prova di quanto i due autori siano ottimi storici della psicoterapia.

La seconda vulgata –diffusa in Italia ma presente anche altrove- contrappone un modello cognitivo anglo-sassone che sarebbe semplicistico, ingenuamente scientista, ma al fondo rozzo e probabilmente nemmeno così efficace come esso pretenderebbe di essere, a un modello cognitivo alternativo più complesso e clinicamente realistico, ingiustamente trascurato perché meno evidence based ma provvisto di raffinate radici costruttiviste, culturalmente europeo e aperto alla felice integrazione con le forme più sofisticate di psicoterapia psicodinamica, soprattutto di impostazione relazionale. Questo vangelo alternativo si conclude insinuando che la cosiddetta “terza onda” cognitivista è in realtà la resa del rozzo modello anglo-sassone alle ragioni della complessità, inevitabilmente destinate a forgiarsi nella fucina di Mime dell’integrazione tra i modelli grazie a un impavido Sigfrido di là da venire.

A onore del forte intuito storico di Foschi e Innamorati, essi non solo riescono a sfuggire felicemente alla prima vulgata ma nutrono dei sospetti anche verso la seconda, per quanto in parte li irretisca. Dove invece non centrano del tutto il bersaglio è nella descrizione della terza onda, da loro compresa più nel suo versante integrazionista, che pure esiste. La verità è che la terza onda non cerca l’integrazione; al contrario essa è frutto del recupero concettuale del rigore funzionalista di matrice comportamentale. Questo verdiano “Torniamo all’antico e sarà un progresso” del funzionalismo cognitivo di terza onda sembra meno chiaro a Foschi e Innamorati. Sarà per la prossima edizione. Intanto, seguendo il consiglio di Verdi, torniamo ad ascoltare Palestrina.

 

K-SADS-PL DSM-5: l’intervista diagnostica per la valutazione dei disturbi psicopatologici in bambini e adolescenti

La K-SADS-PL DSM-5 è un ottimo strumento per l’identificazione della diagnosi primaria e per l’identificazione della diagnosi in comorbilità e utile per la comprensione e l’evoluzione del disturbo psicopatologico riscontrato in età precoce.

Arianna Ferretti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

La K-SADS-PL DSM-5

La K-SADS-PL DSM-5 è un’intervista diagnostica sviluppata da Kauffman, Birmaher, Brent, Rao e Ryan nel 1997 che valuta i disturbi psicopatologici in bambini e adolescenti secondo i criteri del DSM-5. Pertanto tiene in considerazione sia le precedenti edizioni che l’introduzione dei nuovi disturbi dell’età evolutiva, quali il disturbo dello spettro dell’autismo e il disturbo da disregolazione dell’umore dirompente. È un ottimo strumento per l’identificazione della diagnosi primaria e per l’identificazione della diagnosi in comorbilità. È utile per la comprensione e l’evoluzione del disturbo psicopatologico riscontrato in età precoce. La somministrazione della K-SADS-PL è norma che venga effettuata da un operatore esperto, che assuma un atteggiamento neutrale e non teso a dare suggerimenti di risposta. Tuttavia la sola somministrazione della K-SADS-PL non è sufficiente per una corretta valutazione psicodiagnostica e risulta necessaria un’integrazione al fine di ottenere una valutazione più definita e completa.

Le diagnosi primarie

La K-SADS-PL DSM-5 valuta le seguenti diagnosi primarie:

KSADSPL DSM5 valutazione dei disturbi psicopatologici in minori TAB1Tabella 1: Diagnosi prese in esame dallo strumento K-SADS-PL DSM-5

Per poter procedere con l’intervista diagnostica è necessario, prima, effettuare i seguenti passaggi:

  1. Compilazione della scala trasversale di valutazione dei sintomi per bambini e genitori;
  2. Fare una breve intervista introduttiva non strutturata;
  3. Fare un’intervista diagnostica di screening;
  4. Compilare la checklist per la somministrazione dei supplementi;
  5. Approfondire gli eventuali supplementi diagnostici necessari;
  6. Compilare la checklist complessiva della storia clinica del paziente.

Andiamo a capire concretamente cosa significano e come sono strutturate queste tappe.

1. Compilazione della scala trasversale di valutazione dei sintomi per bambini e genitori

Prima della somministrazione dell’intervista diagnostica è necessario che sia i genitori che i bambini compilino la scala di valutazione dei sintomi trasversali, composta da 25 item che valutano la severità dei sintomi riscontrati nelle ultime due settimane.

2. Breve intervista introduttiva non strutturata

A questo punto il valutatore, in una breve intervista di circa 15 minuti, raccoglie informazioni dai genitori e dal paziente circa:

  • dati demografici;
  • lo stato di salute;
  • i sintomi attuali;
  • eventuali informazioni su trattamenti psicologici o neuropsichiatrici passati;
  • il funzionamento scolastico del bambino;
  • gli hobby;
  • la qualità delle relazioni familiari;
  • la qualità delle relazioni con il gruppo dei pari.

Lo scopo di tale intervista introduttiva è quello di stabilire un setting caratterizzato da un clima rilassato per il paziente e di comprendere se si sia verificata un’alterazione del funzionamento del bambino/ragazzo. Per quanto riguarda i genitori si cerca di ottenere informazioni circa le fasi dello sviluppo del figlio, elemento che potrebbe facilitare la diagnosi differenziale. È importante che il valutatore modifichi il proprio linguaggio sulla base di quello usato dai genitori e dal bambino/ragazzo.

3. Intervista diagnostica di screening

Questa intervista si sofferma sui sintomi delle differenti diagnosi primarie. Per ogni sintomo sono previste domande specifiche e criteri che vanno ad indagare i vari aspetti caratteristici del disturbo indagato. Si approfondisce, inoltre, se quanto riscontrato è un sintomo attuale o se si è verificato in altri momenti della vita del bambino. Il valutatore, man mano che procede con l’intervista di screening, si annota il punteggio che il paziente ottiene fino ad esplorare tutte le possibili diagnosi primarie.

Successivamente si procede prendendo in considerazione i criteri di esclusione delineati per gli episodi attuali o passati del disturbo. Se il bambino non raggiunge i criteri di esclusione per qualche diagnosi si va a somministrare un apposito supplemento specifico (punto 5).

4. Compilare la checklist per la somministrazione dei supplementi

Alla fine dell’intervista di screening, sul manuale, si trova una scheda chiamata “checklist diagnostica complessiva” in cui si annotano i supplementi richiesti insieme alle date di eventuali episodi pregressi o attuali nel disturbo.

5. Approfondire gli eventuali supplementi diagnostici necessari

I supplementi diagnostici che possono essere approfonditi, qualora il paziente non raggiunga i criteri di inclusione per qualche diagnosi sono:

La funzione principale di questi supplementi diagnostici è quella di facilitare la diagnosi differenziale e di fornire informazioni importanti prima di andare a valutare, nel dettaglio, i sintomi caratteristici dei diversi disturbi.

6. Checklist complessiva della storia clinica del paziente

Si tratta di un modello da compilare, inserito al termine dei supplementi del manuale K-SADS-PL, utile per registrare le informazioni diagnostiche attuali e le informazioni salienti relative all’intera vita del paziente. Contiene anche una sessione per il follow-up della checklist ideale per avere utili informazioni sul decorso longitudinale della patologia.

La validità diagnostica

La K-SADS-PL risulta essere l’intervista psichiatrica per l’età evolutiva maggiormente usata nella ricerca su popolazioni cliniche. Infatti, in letteratura, è possibile reperire una modesta quantità di studi che la includono e la utilizzano. È tradotta in numerose lingue tra cui l’italiano, lo spagnolo, il portoghese, il francese e il cinese. È stata dimostrata la sua validità diagnostica nel differenziare le popolazioni cliniche dai controlli e nel differenziare le diverse diagnosi nei campioni clinici. Per quanto riguarda l’Italia, il gruppo di Sogos, Di Noia, Fiorello e Picchiotti, che ha inoltre curato la traduzione del manuale in lingua italiana, ne ha valutato l’attendibilità sulla popolazione clinica dimostrando una congruenza tra la diagnosi effettuata tramite K-SADS-PL e l’osservazione clinica. La validità diagnostica è stata dimostrata anche in Spagna.

 

ACT: Acceptance and Commitment Therapy (2020) – Il primo libro italiano interamente dedicato all’ACT. Recensione del nuovo volume di Paolo Moderato, Giovambattista Presti, Francesco dell’Orco


ACT: Acceptance and Commitment Therapy è un testo fruibile a chi si affaccia per la prima volta al mondo dell’ACT, perché ne presenta i processi fondamentali e come applicarli, e utile per chi conosce già il modello, per riordinare e riorganizzare le proprie conoscenze.

 

Il panorama di libri sull’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) è ormai fiorente anche in Italia, ma fino ad ora abbiamo avuto il piacere di leggere esclusivamente traduzioni dagli autori internazionali. 
Poi finalmente, in piena pandemia da COVID-19, ha visto la luce il primo volume interamente dedicato all’ACT scritto da autori italiani, conosciuti e stimati dalla comunità ACT del nostro Paese.

Gli autori

Paolo Moderato, ordinario di Psicologia alla IULM, Milano, presidente dell’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), membro dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), past president della European Association for Behavioral and Cognitive Therapies (EABCT) e presidente di CBT-Italia.

Giovambattista Presti, professore associato di Psicologia generale all’Università di Enna Kore, è presidente della Società Italiana degli Analisti del Comportamento in campo Sperimentale e Applicato (SIACSA), past president dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), membro fondatore dell’European Association for Behaviour Analysis (EABA).

Francesco dell’Orco, psicologo e psicoterapeuta, membro del consiglio direttivo di ACT-Italia, ricercatore clinico dell’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), membro del GIS ACT FOR KIDS di ACT-Italia.

Hanno contribuito alla stesura di alcuni capitoli anche le psicoterapeute Marta Schweiger e Anna Bianca Prevedini.

Punto di forza

Uno dei pregi di questo manuale è quello di riuscire a chiarire una caratteristica fondamentale dell’ACT, che non è sempre di facile comprensione quando la si incontra inizialmente. E cioè che l’ACT non è un insieme di tecniche, strategie o protocolli destinati ai vari disturbi. Ma è piuttosto un modello transdiagnostico, un approccio globale alla persona in qualsiasi età e situazione si trovi, con lo scopo di aiutarla a vivere una vita attiva e significativa anche, ma non solo, nei momenti di difficoltà e sofferenza.

Struttura

Il volume fa parte della collana 100 domande, pertanto il contenuto è esposto attraverso una serie di domande e risposte tipiche di quando si affronta un caso clinico o quesiti che vengono frequentemente posti riguardo questo modello terapeutico. Gli argomenti comprendono tutto ‘il tema’ di cui questo specifico volume si occupa e raccolgono anche le domande cui talvolta non si trova risposta nei testi tradizionali: una sorta di manuale semplice e di veloce consultazione, che consente di rispondere ai maggiori dubbi sul tema presentato.

Il testo è accompagnato da riferimenti grafici al glossario e risorse di approfondimento e, dove opportuno, alcune risposte rinviano ad altre domande nel corso del volume, simulando l’interattività dei supporti digitali.

Sono compresi anche tabelle, esercizi, metafore, esempi clinici e 7 questionari per la valutazione.

Questo format rende il testo sia fruibile a chi si affaccia per la prima volta al mondo dell’ACT, perché può trovare un’esaustiva rassegna di come si articola l’ACT nei suoi processi fondamentali e come applicarli, sia utile per chi conosce già il modello, perché può essere un modo per riordinare e riorganizzare le proprie conoscenze e rivedere aree o concetti da approfondire. Inoltre, chi volesse mettere alla prova la propria conoscenza e comprensione della materia, potrebbe provare a rispondere alle varie domande proposte e successivamente verificarne l’accuratezza nelle risposte del testo.

Contenuti

Il volume si apre offrendo le basi teoriche dell’ACT, che nasce all’interno della cosiddetta terza ondata delle psicoterapie cognitivo-comportamentali e si sviluppa in sei processi chiave, descritti chiaramente nel testo. In questa parte si specifica anche l’importanza del linguaggio, dell’analisi del comportamento e del concetto di flessibilità psicologica per iniziare a comprendere i punti cardine del modello.

Si prosegue con una serie di quesiti volti a far comprendere come la consapevolezza dei propri valori consenta di ottenere e mantenere una direzione verso cui muoversi tramite azioni impegnate. Gli autori ci spiegano come sia fondamentale nella vita della persona, affinché sia piena e significativa, ma anche in terapia, per poter produrre un reale cambiamento concreto e non solo ‘mentale’.

Nella terza parte ci si concentra sulla mente e sui pensieri, che nell’ACT non vanno messi in discussione o modificati, ma piuttosto riconosciuti come eventi mentali che fanno parte dell’esperienza della persona. Gli autori ci spiegano quando possono diventare problematici e oggetto di intervento terapeutico, in particolare se diventano di ostacolo alla persona, nel senso che ci si lascia ‘catturare’, e quando ci si fonde con essi e si mettono in atto comportamenti che rendono la vita meno ricca e significativa. Il concetto di fusione (cognitiva) è centrale nel modello psicopatologico dell’Acceptance and Commitment Therapy (e per questo viene più volte chiamato in causa nei vari capitoli) e consiste nel ritenere un proprio pensiero come una realtà, una verità oggettiva, invece che una valutazione, un giudizio verbale legato ad un determinato contesto.

Grazie al contributo di Marta Schweiger, si viene introdotti alla Mindfulness, che nell’ACT viene intesa come capacità di vivere nel momento presente e se ne illustrano i principi, le pratiche fondamentali. Nel presente modello, l’abilità di stare nel qui e ora è centrale perché è un prerequisito in ciascuno degli altri processi chiave ed è fondamentale per favorire la flessibilità psicologica.

Nella quinta parte viene esposto come è possibile rispondere alle emozioni: con l’evitamento oppure con disponibilità e accettazione. Gli autori approfondiscono nel dettaglio come promuovere queste abilità durante i colloqui terapeutici.

Si prosegue poi con la descrizione del Sé, che nell’ACT è di tipo operazionale e distingue fra Sé come contenuto o concettualizzato e Sé come contesto o osservante. Il primo corrisponde ad una definizione di se stessi basata sul ‘vociare della mente’ ed è costruito quindi verbalmente su giudizi e categorizzazioni, le storie che la persona (si) racconta su di sé. Il secondo, denominato anche Sé osservante, è la prospettiva da cui possiamo osservare l’attività verbale, i pensieri, le sensazioni e le emozioni, una sorta di ‘consapevolezza pura’. Gli autori ci spiegano quando e come il Sé concettualizzato possa diventare problematico e come aiutare il paziente a lasciarlo andare. Ci mostrano anche come sviluppare il Sé come contesto, in modo che sia un luogo neutro e sicuro dal quale osservare e accogliere tutta la propria esperienza.

Nel settimo capitolo, con il contributo di Anna Bianca Prevedini, si introduce l’azione impegnata ovvero tutto quello che possiamo concretamente fare in linea con i nostri valori, per andare verso la persona che vorremmo essere. Si approfondisce come promuovere questo processo e come preparare il paziente ai possibili, anzi probabili, ostacoli che incontrerà nella messa in pratica delle azioni guidate dai suoi valori.

L’ultima parte è una preziosa serie di domande riguardanti specifiche applicazioni, strumenti pratici, da dove cominciare e alcuni possibili problemi in terapia.

Le domande finiscono qui, ma il libro no! 
Oltre la doverosa bibliografia, troviamo un glossario a cui si rimanda durante tutto il corso del volume per le parole chiave principali. 
Per finire, gli autori ci regalano sette questionari validati in italiano per l’assessment clinico. Nello specifico, ci consentono di indagare i processi principali dell’ACT, Mindfulness inclusa (anche nei bambini e adolescenti).

Conclusioni

Ho incontrato questo testo dopo aver letto una trentina di libri internazionali in ambito ACT e quindi non mi aspettavo che questo volume potesse stupirmi e offrirmi qualcosa in più rispetto agli altri. In particolare, quando me lo sono ritrovato in mano, ho subito notato che era molto più piccolo e leggero della maggior parte dei manuali ACT che riempiono la mia libreria e quindi mi è balenato per la mente il pensiero che questo non potesse contenere qualcosa di più di quello che avevo già ricevuto dagli altri. E invece, appena iniziata la lettura, mi sono accorta di quanto la mia prima valutazione fosse errata! ‘Nella botte piccola c’è il vino buono’ e per questo mi sono gustata questa preziosa opera tutta in un sorso!

Fra quello che ho letto finora riguardo all’Acceptance and Commitment Therapy, ritengo che questo testo presenti la miglior combinazione fra completezza, chiarezza e sintesi e l’ho trovato quindi fra i manuali più efficaci nel far conoscere e comprendere l’ACT. 
Pertanto, credo che meriti una lettura da parte di tutti i terapeuti italiani interessati all’ACT (indipendentemente dal livello di conoscenza della materia) e mi auguro che venga presto tradotto in inglese perché dovrebbe far parte della libreria di ogni terapeuta ACT (e azzarderei anche di ogni terapeuta cognitivo-comportamentale) non solo in Italia.

 

Da fidanzati ad amici

La presente ricerca ha cercato di valutare e prevedere la qualità delle relazioni post-rottura e quali siano le caratteristiche maggiormente associate allo sviluppo di un’amicizia.

 

Le relazioni romantiche sono un aspetto centrale della vita umana ed hanno il potenziale per soddisfare i bisogni fondamentali di appartenenza, propri degli individui (Baumeister & Leary, 1995). Sfortunatamente, il mantenimento di un rapporto è una vera e propria sfida, al punto da potersi concludere con una dissoluzione. Tuttavia, ci sono poche ricerche sulla natura delle relazioni tra gli individui a seguito della cessazione di una relazione romantica non coniugale: non si sa fino a che punto gli ex partner romantici rimangano vicini dopo la rottura. Le storie d’amore non sempre finiscono una volta per tutte, al contrario spesso i partner si lasciano per poi ricongiungersi. Inoltre, proprio a causa del bisogno fondamentale di appartenenza, gli individui potrebbero passare a forme di relazione meno interdipendenti (ad es. amicizia) al fine di evitare o attenuare l’impatto di esiti negativi derivanti dalla rottura romantica. L’amicizia post – rottura è più probabile se i membri della coppia che si sono lasciati erano amici prima della storia d’amore (Metts, Cupach, & Bejlovec, 1989), se l’amicizia è sostenuta socialmente (Busboom, Collins, Givertz, & Levin, 2002), se la rottura è stata reciproca (Hill, Rubin, & Peplau, 1976), e se il rapporto aveva un elevato livello di soddisfazione romantica pre-rottura (Bullock, Hackathorn, Clark, & Mattingly, 2011).

La presente ricerca ha cercato di valutare e prevedere la qualità delle relazioni post-rottura: utilizzando il Modello di Investimento dei Processi di Impegno come quadro teorico (Rusbult, Agnew, & Arriaga, 2012), gli autori hanno esaminato la natura generale di tali relazioni, nonché come le caratteristiche della relazione romantica prima di una rottura possano servire a prevedere la relativa vicinanza delle relazioni dopo la rottura. Nello specifico, questo modello focalizza la sua attenzione sulla costruzione dell’impegno psicologico dei partner nei confronti della relazione, il quale implica l’intento di rimanere in una relazione e l’attaccamento psicologico al partner. Esso è influenzato dal grado di soddisfazione vissuto, dalla qualità delle alternative disponibili alla relazione attuale e dall’ammontare dell’investimento nella relazione: la soddisfazione è il risultato di una comparazione tra la realtà della relazione e le proprie aspettative relativamente a ciò che è accettabile; le alternative alla relazione attuale possono includere altri potenziali partner, altre persone in generale (ad es. gli amici) o semplicemente non aver alcuna relazione; gli investimenti, invece, possono essere sia tangibili (ad es. beni materiai, denaro e amici) che intangibili (ad es. tempo, identità e piani futuri) (Goodfriend & Agnew, 2008). Un maggiore impegno in una relazione è il risultato di una maggiore soddisfazione, di un minor numero di alternative e di maggiori investimenti nella relazione (Rusbult et al., 1998).

Gli autori hanno misurato in un primo momento la qualità del rapporto romantico (a T1): i partecipanti (N=143 giovani adulti) dovevano completare The Investment Model Scale (IMS; Rusbult et al., 1998), un questionario volto ad indagare la qualità del coinvolgimento romantico prima della rottura. Nello specifico, IMS si compone di quattro scale che misurano il grado di soddisfazione (5 items del tipo ‘Mi sento soddisfatto del nostro rapporto’), le alternative alla relazione attuale (5 items del tipo ‘Le mie alternative sono attraenti, ad es. uscire con un altro, passare il tempo da solo’), l’investimento (5 items del tipo ‘Mi sento molto coinvolto nella mia relazione’) e l’impegno (7 items del tipo ‘Mi impegno a mantenere il rapporto con il mio partner’) verso la propria storia d’amore. Le opzioni di risposta erano collocate su una scala Likert a 9 punti, da 0=fortemente in disaccordo a 8=fortemente d’accordo.  In un secondo momento (a T2) gli autori hanno valutato la vicinanza post-rapporto romantico utilizzando quattro variabili: (1) il livello di contatto della relazione di post-rottura, che è stato misurato con una sola domanda ‘Attualmente come descriveresti lo stato della tua relazione con questa persona?’ (opzioni di risposta: nessuna relazione, conoscenti, amici, amici intimi, migliori amici); (2) la frequenza di contatto della post – rottura, che è stata misurata con la domanda ‘Attualmente hai qualche contatto con questa persona?’ (opzioni di risposta: nessun contatto, meno di una volta al mese, una volta al mese, una volta a settimana, una volta al giorno, più volte al giorno); (3) l’emozione positiva post-rottura, che è stata misurata con la domanda ‘Fino a che punto provi emozioni positive quando pensi a questa persona ora?’ (da 0 per niente a 8 totalmente); (4) l’emozione negativa post-rottura, che è stata valutata con la domanda ‘Fino a che punto provi emozioni negative quando pensi a questa persona ora?’ (da 0 per niente a 8 totalmente). Inoltre, a T2 i partecipanti dovevano rispondere a due ulteriori domande relative alla probabilità percepita (ad es. ‘Qual è la probabilità di ricongiungersi in maniera romantica con questa persona in futuro?’; modalità di risposta: fornire una percentuale di probabilità compresa tra 0 e 100) e al desiderio di riunificazione romantica (ad es. ‘Su una scala da 0 a 10 quanto vorresti riunirti con questa persona in futuro?’).

I risultati hanno rivelato che gli individui con un livello di soddisfazione più elevato, alternative scarse e maggior investimento nella relazione romantica hanno riferito un maggior impegno romantico nei confronti del loro partner a T1 (pre-rottura). L’impegno romantico media gli effetti di queste premesse sulla successiva vicinanza: l’impegno a T1 prevedeva livelli significativamente più elevati di vicinanza tra i due a T2 (post-rottura). E’ emerso, inoltre, che l’associazione positiva tra l’impegno romantico pre-rottura e vicinanza post-rottura è indipendente sia dalla probabilità percepita e dal desiderio di ricongiungersi con gli ex partner, sia dal fatto di aver scelto o subito la rottura.

In conclusione, questi risultati suggeriscono che le variabili del IMS valutate durante un coinvolgimento romantico in corso possono prevedere il passaggio a una relazione post-rottura con un certo livello di vicinanza. Pertanto, alla domanda ‘Perché alcune ex relazioni romantiche continuano con un certo grado di interdipendenza mentre altre si concludono definitivamente?’ il presente studio supporta l’idea che un maggiore impegno nella relazione romantica può essere ridefinito in una relazione più stretta dopo la rottura. Esso media gli effetti della soddisfazione romantica, degli investimenti e delle alternative sulla vicinanza post-rottura. Nella misura in cui gli ex partner sono in grado di fornire risorse preziose che soddisfano i bisogni, è probabile che la relazione venga mantenuta con un certo grado di vicinanza (Le & Agnew, 2001). Questo suggerisce che le persone che hanno investito molto nelle loro storie d’amore siano particolarmente inclini a cercare di mantenere una relazione con il loro ex partner, poiché continuano ad essere percepite come una preziosa fonte di risorse. Presi insieme, anche se la soddisfazione e gli investimenti possono essere visti come barriere alla fine di una relazione romantica, nel caso di una rottura, tale perdita può essere evitata o minimizzata mantenendo una relazione caratterizzata da un’interdipendenza relativamente minore invece di una completa cessazione del contatto. Nonostante questi risultati, sarebbe utile, in una ricerca futura, delineare i fattori che portano le persone a rimanere amici dopo la rottura contro il riaccendere la loro relazione romantica con i loro ex partner.

 

La Focalizzazione Sensoriale nella Terapia Mansionale Integrata

La Terapia Mansionale Integrata (TMI), attraverso l’applicazione da parte dei pazienti delle mansioni prescritte dal terapeuta, permette di affrontare i problemi, le resistenze e le credenze che possono dare origine alle differenti disfunzioni del comportamento sessuale e offre la possibilità di discutere e valutare i miglioramenti ed i traguardi raggiunti.

Arianna Ferretti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Le mansioni sessuali nella Terapia Mansionale Integrata

Con il termine “mansioni sessuali” si fa riferimento a tecniche specifiche relative alla Terapia Mansionale Integrata (TMI). Si tratta, in linea di massima, di prescrizioni di comportamento sessuale che rappresentano uno dei punti fondamentali nella terapia sessuale e che sono assimilabili a dei veri e propri homework. Infatti attraverso l’applicazione, da parte dei pazienti, delle mansioni prescritte dal terapeuta è possibile comprendere e avere la possibilità di affrontare i problemi, le resistenze e le credenze che possono dare origine alle differenti disfunzioni del comportamento sessuale ed offre, inoltre, la possibilità di discutere e valutare i miglioramenti ed i traguardi raggiunti. Non si tratta, quindi, di atti spontanei della coppia, poiché può risultare veramente difficile rendere spontaneo e naturale un comportamento richiesto e prescritto.

Una mansione sessuale è composta da micro-obiettivi concordati con il paziente, viene proposta e costruita con i pazienti stessi a seconda della problematica riportata e degli obiettivi terapeutici stipulati. Lo scopo non è quello di provocare piacere sessuale, anche se può succedere, ma è quello di favorire il processo terapeutico (Fenelli e Lorenzini, 2014) e di creare le condizioni per guidare la coppia verso l’esplorazione della sessualità.

La prescrizione, dunque, viene fatta a fine seduta ed è necessario che sia chiara e che venga spiegata, in modo spontaneo e dettagliato, alla coppia. È necessario pertanto, che il terapeuta non abbia timore o pregiudizi né conti in sospeso con la propria sessualità (Kaplan, 1976). Una volta spiegata, si chiede alla coppia se ci sono domande o aspetti non chiari, se ne verifica la reale fattibilità e si analizzano le possibili difficoltà. Può essere una prescrizione più o meno flessibile. Per Masters e Johnson (1970) era usuale applicare le mansioni sessuali in modo rigido e protocollare, mentre Kaplan (1976) iniziò a flessibilizzare e rendere maggiormente dinamici i vari step delle terapie mansionali a seconda delle caratteristiche dei pazienti, della fase della terapia e degli obiettivi concordati.

Le quattro fasi della terapia

Ogni terapia sessuale è caratterizzata dalla presenza di quattro fasi fondamentali, che fungono da “bussola” anche all’interno delle tecniche mansionali prescritte dal terapeuta:

  1. La conoscenza di sé;
  2. La conoscenza dell’altro e di sé tramite l’altro;
  3. La conoscenza del proprio piacere e delle proprie emozioni;
  4. La conoscenza del piacere di coppia e dell’intimità e condivisione delle emozioni.

Ognuna di queste fasi tiene di conto della componente comportamentale, cognitiva e relazionale:

Tabella 1. Le quattro fasi della terapia sessuale in ambito comportamentale, cognitivo e relazionale

Quindi è essenziale lavorare, in prima battuta, sui disagi e sulle risorse del singolo individuo per poi concentrarci, gradualmente, sulla coppia. Spesso i pazienti mostrano la tendenza a voler accelerare tale processo dando per scontati aspetti che, in seduta, risultano necessari di un approfondimento e che mirano ad un accrescimento della consapevolezza del paziente.

La Focalizzazione Sensoriale

Tra le teorie mansionali più note ed utilizzate in terapia vi è la Focalizzazione Sensoriale (Sensate Focus) inventata da Master and Johnson nel 1970 in occasione dei loro numerosi e preziosi studi sulla sessualità e sulla terapia sessuale. Alcuni terapeuti prediligono il termine “legame di piacere” (pleasuring) che è stato utilizzato, inoltre, dagli stessi Masters and Johnson nella letteratura scientifica sull’argomento. Nella focalizzazione sensoriale, la coppia decide di rinunciare all’avere il rapporto sessuale, e di conseguenza l’orgasmo, per giorni e settimane. Questa mansione sessuale viene prescritta dal terapeuta dopo un’accurata anamnesi, la definizione del problema in ambito sessuologico e la stipulazione degli obiettivi terapeutici. Viene fatta questa prescrizione solo quando è specificatamente indicato nel trattamento delle disfunzioni sessuali riscontrate. È una tecnica particolarmente indicata ed efficace nel disturbo dell’eccitamento maschile e femminile e per le inibizioni dell’orgasmo maschile e femminile (Seal & Meston, 2018). Il meccanismo di azione della focalizzazione sensoriale si basa sulla riduzione di tensione che si verifica nel corso dei rapporti sessuali. In definitiva i partner si liberano da credenze e doverizzazioni che possono compromettere la qualità del sesso. Un esempio tipico di pensiero che non aiuta l’uomo con problemi di mantenimento dell’erezione può essere “Stavolta devo riuscirci”, mentre un pensiero tipico della donna può essere “Devo impegnarmi a riuscire a fargli mantenere l’erezione”. Attraverso la focalizzazione sensoriale, nessuno dei due ha l’obbligo o il dovere di mantenere e/o provocare l’erezione e non c’è alcun tipo di pressione o ansia. Se prendiamo in considerazione la teoria dell’apprendimento, è comprensibile come questo presupposto possa creare le radici per l’estinzione di emozioni, come l’ansia, che sfavoriscono il rapporto sessuale. Con questa tecnica mansionale si favorisce nell’uomo e nella donna un senso di rilassamento e scioltezza che vanno a diminuire, progressivamente, e dissipare l’ansia anticipatoria che funge spesso come premonitore di un possibile insuccesso. Di conseguenza, le sensazioni ed emozioni positive suscitate dai vari step che caratterizzano la focalizzazione sensoriale, vanno a fungere da veri e propri rinforzi e ad impattare sul benessere sessuale. Esistono due tipi di focalizzazione sensoriale: I e II.

Focalizzazione sensoriale I

In questa fase il terapeuta, con prescrizioni chiare e precise, chiede alla coppia di non avere alcun tipo di rapporto sessuale e si accerta del punto di vista dei pazienti prima di chiudere la seduta. Chiede, quindi, alla coppia di cercare un momento e uno spazio adatto e, dopo aver provato a lasciare andare ogni tipo di preoccupazione diversa dalla questione sessuale, dà loro l’indicazione di farsi una doccia e di andare a dormire senza vestiti addosso. Chiede, inoltre, che si accarezzino l’un l’altro, definendo in seduta chi inizierà per primo, e specificando che è essenziale che non vengano toccate e/o accarezzate le zone erogene e/o genitali. Le carezze è importante che siano il più gentili e tenere possibile e che vadano ad esplorare reciprocamente tutte le zone del corpo del partner: si parte dalla nuca, per passare dalla schiena fino ai piedi. Il partner che riceve le carezze ha il compito di porre consapevolezza unicamente sulle proprie sensazioni. È importante che non si preoccupi, ad esempio, che la moglie possa stancarsi o annoiarsi e che si “perda” sulle proprie sensazioni corporee. È essenziale che i partner comunichino eventuali fastidi o punti di eccitazione scoperti durante la mansione, così che possano capire che cosa piace all’altro in modo da poterlo replicare nelle sessioni successive e al di fuori della terapia. La focalizzazione sensoriale I termina quando i partner si sentono totalmente soddisfatti.

Focalizzazione sensoriale II

La focalizzazione sensoriale II è di norma successiva alla focalizzazione sensoriale I, anche se in alcuni casi il trattamento può iniziare assegnando già questo compito. Il terapeuta in questa fase dà istruzioni precise e dettagliate in merito al legame di piacere genitale e specifica che l’obiettivo non è quello di arrivare all’orgasmo, ma di produrre eccitamento. In definitiva la prescrizione è quella di accarezzare un po’ dappertutto il corpo del partner con l’intento specifico di portarlo all’eccitazione. Si chiede alla coppia di osservare l’interazione tra i due e si forniscono tutte le medesime indicazioni della focalizzazione sensoriale I (consapevolezza sulle sensazioni corporee e non sulla performance). Ad esempio, nel caso specifico di un deficit di erezione, nella focalizzazione sensoriale II è previsto che il terapeuta rassicuri la coppia sul fatto che l’obiettivo della mansione è quello di provare eccitazione e non di ottenere e mantenere un’erezione.

Al termine della focalizzazione I e II, il terapeuta chiederà ai pazienti il dettaglio di ogni aspetto riscontrato durante la mansione. Questo aspetto è cruciale poiché racchiude sia gli aspetti positivi, i quali possono fungere da rinforzo positivo per le sessioni successive, che quelli negativi che, di conseguenza, possono permettere di apportare le necessarie modifiche da applicare nel corso della terapia.

 

La relazione di attaccamento e la funzione riflessiva all’interno dei contesti di gioco

La teoria dell’attaccamento ha concettualizzato la funzione riflessiva come la capacità di essere consapevoli degli stati mentali propri ed altrui, oltre che dell’essere in grado di separare gli stati mentali propri da quelli degli altri (Fonagy & Target, 1998).

 

Ciò può essere considerato importante in tutte le interazioni che caratterizzano il rapporto tra mamma e figlio, incluse quelle che riguardano i momenti di gioco della diade (Borelli et al., 2017). Infatti la madre è coinvolta in misura considerevole nelle attività ludiche del figlio durante il periodo dell’infanzia, e la capacità di rispondere in modo adeguato alle sue richieste, svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo delle capacità riflessive di quest’ultimo (Fonagy & Target, 1998), che diventa in grado di comprendere i propri stati emotivi, esprimere le proprie emozioni ed avere una buona regolazione emotiva (Howard et al, 2017), ma anche di tollerare i fallimenti, accettare le frustrazioni, rispettare le regole e migliorare le proprie capacità di interazione con i pari.

A partire da queste premesse, il presente studio (Waldman-Levi, Finzi-Dottan, & Cope, 2019) intende indagare se le capacità di caregiving e la funzione riflessiva della madre siano in grado di predire il supporto offerto dalla madre al figlio nei momenti di gioco, oltre a fornire un approfondimento dell’esperienza di gioco della diade.

Dopo aver selezionato le famiglie, lo studio si è svolto nell’ambiente familiare, in cui le madri, in seguito alla compilazione di un questionario, sono state invitate a giocare con i propri figli nel modo in cui erano solite fare e l’interazione, durata 15 minuti, è stata videoregistrata, in modo che potesse essere successivamente analizzata.

Inizialmente sono stati somministrati dei questionari che comprendono la Caregiving System Function Scale (CSF; Shaver et al., 2010), che misura le disposizioni del caregiver nelle attività e nelle attitudini mostrate, il Rumination-Reflection Questionnaire (RRQ; Trapnell & Campbell, 1999), che misura le tendenze ruminative e la capacità riflessiva ed il Parent’s/Caregiver Support of Children’s Playfulness (PCSCP; Waldman-Levi & Bundy, 2016), che valuta il gioco della diade; successivamente, sono stati esaminati il linguaggio verbale e non verbale della madre, oltre che le sue capacità riflessive, attraverso le videoregistrazioni.

I risultati rilevano che una predisposizione al caregiving materno sicuro è in grado di predire la funzione riflessiva, che a sua volta è in grado di predire il supporto offerto dalla madre nelle occasioni di gioco. Infatti le madri che hanno mostrato di avere un attaccamento sicuro, sono risultate anche caratterizzate da una forte attenzione agli stati emotivi ed ai bisogni cognitivi del figlio, reciprocità e adeguatezza degli scambi verbali e non verbali. È stata rilevata la presenza di lodi, commenti positivi e vicinanza emotiva, in grado di incoraggiare la formazione della competenza e dell’autostima, anche nei casi in cui i bambini dovevano tollerare una frustrazione, oltre a capacità di insegnare e far apprendere le regole del gioco, aiutando il bambino nel processo di scaffolding delle proprie abilità. D’altro canto, le madri con attaccamento ansioso sono risultate caratterizzate da forti tendenze ruminative e focalizzazione sulle proprie ansie piuttosto che sui bisogni del figlio all’interno del contesto di gioco, mentre le madri con attaccamento evitante si sono rivelate distaccate emotivamente dal rapporto diadico e dai bisogni presentati dal figlio nel contesto di gioco. Si è visto come le madri in questi casi non siano riuscite a fornire supporto ai figli, ma hanno mostrato o ansia all’interno degli scambi verbali e non verbali o una forte competizione nei confronti del bambino.

In conclusione, è possibile confermare l’ipotesi iniziale secondo cui la presenza di funzioni riflessive predice la qualità del rapporto madre-figlio, influenzando la formazione delle capacità riflessive dell’individuo, ed in ultima analisi le abilità sociali e relazionali future.

Psicoterapia in Pandemia: come cambia la dimensione relazionale?

Introdotta per la prima volta nel 1127, la quarantena è la principale misura di contrasto adottata durante tutte le pandemie di malattie infettive e contagiose. Già in passato, la letteratura ha posto l’accento sui disagi psicologici correlati alle pandemie come l’aumento dei livelli di ansia, di panico e di distress nella popolazione o la modificazione della percezione del rischio e delle modalità di trasmissione. 

 

Introduzione

Il Corona Virus Diseases 19 (COVID-19) è una malattia respiratoria causata dal virus SARS CoV-2. Emersa in Cina nel dicembre 2019, si è diffusa rapidamente in tutti i continenti, inducendo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) a dichiarare, inizialmente, lo stato di emergenza di sanità pubblica internazionale e, a marzo 2020, lo stato di pandemia. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di un nuovo virus con un’accertata trasmissione interumana, da una suscettibilità universale, ovvero assenza di anticorpi negli organismi, da un impatto sanitario grave e da una diffusione a livello mondiale con rischio significativo di restrizioni al commercio e al traffico internazionale. La modalità di trasmissione è per via respiratoria o per contatto relativamente ravvicinato. Al momento, sono assenti vaccini e protocolli terapeutici consolidati.

Le malattie contagiose sono parte integrante della storia dell’umanità, da quando gli uomini hanno iniziato ad organizzarsi in società, creando nuclei di persone che si relazionano e convivono nello stesso spazio (Panè, 2020). Dalla Peste Nera del 1300 ad oggi, sono state registrate numerose pandemie, quelle più rilevanti dell’ultimo secolo sono l’influenza Spagnola nel 1918, l’influenza asiatica H2N2 nel 1957 e l’influenza suina A/H1N1 nel 2010.

Introdotta per la prima volta nel 1127, durante l’epidemia di peste a Venezia, la quarantena è la principale misura di contrasto adottata durante tutte le pandemie di malattie infettive e contagiose (Brooks, 2020). Nonostante il progredire medico scientifico, il distanziamento sociale, caratterizzato dal confinamento e dalla limitazione dei rapporti sociali, è ancora oggi la principale risposta in presenza di nuove epidemie (es. SARS nel 2003, Ebola nel 2014).

Già in passato, la letteratura ha posto l’accento sui disagi psicologici correlati alle pandemie come l’aumento dei livelli di ansia, di panico e di distress nella popolazione (Wong, 2010) o la modificazione della percezione del rischio e delle modalità di trasmissione. Inoltre, ulteriori effetti psicologici negativi, registrati nelle misure restrittive delle passate quarantene, sono stati: aumento dei suicidi (Barbisch, 2015), aumento di manifestazioni di rabbia o di cause legali, presenza nella popolazione di sintomi depressivi e sintomi da disturbo da stress post-traumatico acuto (Brooks, 2020), comportamenti da evitamento (verso persone con sintomi o luoghi pubblici) e/o comportamenti iperprotettivi. Tali cambiamenti si sono mantenuti per molto tempo anche a pandemia terminata (Lau, 2010), più lungo è stato il periodo di quarantena, maggiori sono stati gli effetti psicologici negativi (Brooks, 2020).

L’attuale situazione pandemica, caratterizzata da un costante percepito pericolo di vita, l’incertezza di poter essere curato in ospedale, la paura dell’altro potenzialmente infetto, la riduzione della libertà di movimento, la privazione del processo di lutto, la separazione fisica dai propri cari, lo svuotamento dei magazzini e la difficoltà di reperire dispositivi medici di sicurezza, l’improvvisa crisi economica, l’incertezza con cui le istituzioni e le nazioni si muovono, può produrre effetti drammatici sulla salute e si configura come una situazione peri-traumatica che può avere un forte impatto sul sistema nervoso centrale.

Impatto del distanziamento sociale sul sistema neurobiologico

Porges definisce la neurocezione come

il modo in cui i circuiti neurali distinguono fra una situazione o una persona sicura ed una pericolosa o che rappresenta una minaccia per la vita. (Porges, 2004)

La percezione del pericolo tende ad attivare reazioni di difesa più antiche, come la mobilizzazione o l’immobilizzazione, riconducibili al cervello “rettiliano”, o più evolute, come la tendenza all’ingaggio sociale, collegate al cervello “limbico”, fino allo sviluppo di una socialità e moralità condivisa (Churchland, 2012 ).

Durante una pandemia ci si ritrova in una condizione di minaccia per la vita che è condivisa dalla comunità, ma è vissuta dagli individui o dai nuclei familiari in sostanziale isolamento sociale, come una condizione che porta a una inevitabile limitazione della co-regolazione. In un contesto di distanziamento sociale, l’attivazione del reaching out (strategia di ricerca dell’altro relativa alla difesa “mammifera” del pianto di attaccamento), ci spinge a mantenere almeno le connessioni virtuali con i nostri simili, l’utilizzo di una video chiamata ci permette infatti di percepire la voce e l’espressione facciale dell’interlocutore.

Tuttavia tale attivazione può non rivelarsi sufficiente alla co-regolazione e può far inoltre saltare il “patto sociale”, ovvero le norme, le regole e le aspettative alla base del nostro quotidiano vivere e del nostro senso di sicurezza.

Ciò potrebbe avere un impatto sul sistema nervoso in allarme che, non avendo la possibilità concreta di attivare il coinvolgimento sociale, tenderebbe a presentare un’iperattivazione dei sistemi di difesa animale più antichi.

Nei nostri pazienti, ma anche in tutti noi, infatti, possiamo notare tendenze comportamentali alla fuga (es. uscite fuori dalle regole) o all’attacco (rabbia intensa verso le istituzioni o verso i conspecifici che si avvicinano) o anche fenomeni di immobilizzazione riconducibili a difese animali come il congelamento (paralisi, insonnia, attacchi di panico) o il collasso (ipersonnia, ipoattivazione, stanchezza, mancanza di motivazione all’azione). Naturalmente ogni persona reagirà in base alla propria storia di vita e al proprio modello operativo interno (Bowlby,1973).

Il tentativo, come psicoterapeuti, è quello di regolare i sistemi nervosi dei nostri pazienti, in modo da trasformare la situazione peritraumatica in un’occasione di espansione sia della consapevolezza sia della capacità di gestire i propri stati interni e il senso di impotenza esperito.

L’intervento psicologico in ambito emergenziale possiede, infatti, caratteristiche peculiari che lo differenziano da quello ordinario, per cui l’applicazione delle competenze psicologiche e psicoterapeutiche, proprie del setting clinico, necessita di essere adattata ed integrata con le conoscenze delle prassi emergenziali e delle prestazioni online (CNOP, 2020).

In presenza di una pandemia, con l’emergente bisogno psicologico da un lato e le limitazioni nel poter esercitare la professione con le modalità tradizionali dall’altro, quali sono gli aspetti che contraddistinguono l’intervento psicologico e la relazione terapeutica?

Psicoterapia online ai tempi del Covid-19

Setting e self-disclosure

Il diffondersi del Covid-19 ha inevitabilmente indotto un cambiamento del setting terapeutico, l’introduzione di software per videochiamate, attraverso cui svolgere colloqui clinici, ha infatti trasformato la seduta in presenza in un’esperienza di e-therapy. Questo fenomeno, per alcuni psicoterapeuti, non è stato del tutto nuovo, alla luce di una già precedente diffusione di mezzi informatici, sincroni (videochiamate) e non sincroni (messaggi e e-mail).

Tale rapido cambiamento operativo è stato motivato dalla situazione di potenziale pericolo, dalla necessità di tutela e protezione reciproca ed è stato volto, in prevalenza, alla prosecuzione dei lavori terapeutici già impostati precedentemente (CNOP, 2013), con particolari cautele rispetto ai soggetti con difficoltà nell’esame di realtà, ideazioni suicidarie o gravi stati dissociativi.

Questa importante rivoluzione nel setting terapeutico, porta a numerose riflessioni cliniche.

In primo luogo, la pandemia pone, forse per la prima volta nella storia della psicoterapia, paziente e terapeuta nella medesima situazione peritraumatica, condizione questa che genera un senso di impotenza e vulnerabilità condivisi e favorisce allo stesso tempo empatia e compassione. Attraverso la psicoterapia online, emerge l’opportunità di condividere, nel qui ed ora, la propria esperienza umana. Le nostre case si aprono reciprocamente, facendoci accedere, attraverso lo schermo, ai luoghi quotidiani dell’altro. Gli spazi d’intimità visibili favoriscono, paradossalmente, maggior vicinanza rispetto alla presenza fisica nel setting abituale. In tale contesto clinico, risultano ancora più importanti la consapevolezza e l’attenzione del terapeuta alla propria self-disclosure e la responsabilità verso il proprio benessere. Il terapeuta tende ad assumere atteggiamenti di cura del sé, di resilienza, di compassione e gentilezza verso le proprie fragilità, orientato alla co-regolazione emotiva con il paziente, alla normalizzazione dei vissuti, all’acquisizione di consapevolezza dei processi cognitivi e relazionali e alla ricerca di risorse.

La psicoterapia online richiede inoltre al terapeuta una maggiore attenzione alla comunicazione non verbale, che avviene prevalentemente attraverso il proprio volto e quello del paziente, da monitorare costantemente, in un processo parallelo, con continui aggiustamenti (luce, distanza dallo schermo, direzione degli sguardi, ecc.).

Una reciproca comunicazione efficace e l’orientamento dell’attenzione del paziente ai propri segnali corporei promuovono il rinforzo del Sé adulto e l’integrazione mente-corpo.

La perdita di parte della prossemica rimane un’esperienza incarnata di impoverimento nel processo relazionale; tuttavia la possibilità di osservare il proprio volto in interazione con l’altro attiva i neuroni specchio e facilita una riflessione sui propri stati emotivi e mentali, aprendo interessanti punti di contatto con la Self Mirroring Therapy (Vergatillo, 2020).

Un ulteriore elemento da tenere in considerazione nel contesto online è l’eventuale instabilità della connessione Internet: il verificarsi di rotture e riparazioni della sintonizzazione comunicativa, che avviene attraverso la rete, può essere considerata come “l’oggettivazione” di ciò che accade quotidianamente all’interno della comunicazione umana e nella relazione di attaccamento. L’autentico impegno reciproco e l’esperienza di ripetute riparazioni alla perdita di sincronizzazione comunicativa favoriscono la capacità di regolazione emotiva e regalano un interessante parallelismo con un’esperienza di attaccamento sicuro: madri che alla rottura fanno seguire una riparazione efficace, hanno bambini più capaci di regolarsi (Tronick, 2008).

Possiamo inoltre considerare l’“effetto di disinibizione online” (Suler, 2004), che evidenzia la tendenza degli individui ad esprimersi e agire con maggior impulsività ed intensità emotiva sul web, piuttosto che di persona. Lo schermo tra l’individuo e il mondo online crea una barriera che può essere vissuta come una protezione.

In tal caso, la psicoterapia via web potrebbe anche facilitare l’espressione emotiva del paziente, promuovendo l’accesso ad emozioni più intense nella relazione terapeutica. Si rileva infatti una maggiore disponibilità e apertura dei pazienti all’identificazione e condivisione, nel dialogo terapeutico, dei propri nuclei di sofferenza più profondi.

Ipotizziamo quindi, considerando la clinica dell’attaccamento disorganizzato, che l’attivazione del sistema di attaccamento possa essere vissuta come meno “pericolosa”, data la distanza fisica e il potenziale maggior controllo da parte del paziente nella relazione con il terapeuta (es. la persona potrebbe facilmente scegliere di interrompere la comunicazione), e quindi favorire la regolazione della fobia dell’attaccamento. Allo stesso tempo, la possibilità di mantenere la relazione attraverso il web, nonostante la situazione comune di pandemia, potrebbe invece favorire la regolazione della fobia della perdita dell’attaccamento. La relazione terapeutica diventa infatti lo spazio di cura che si può conservare, ma ad una distanza fisica potenzialmente meno “minacciosa”. Tale ipotesi potrebbe arricchire la lettura clinica rispetto al lavoro con le parti del Sé, che su molteplici aspetti, appare facilitato e più efficace nella psicoterapia online. La danza diadica (Schore, 2008) della coppia terapeutica rispetto alla relazione di attaccamento, sembra essere a tratti più fluida, facilitando così anche il rapporto del paziente adulto con la propria esperienza interna. Questo conferma come la psicoterapia possa essere considerata una “esperienza relazionale correttiva”.

Le fobie delle parti del sé

Quando in clinica si lavora con i sistemi interni, seguendo le linee guida della Terapia degli Stati dell’Io (Shapiro, 2017) e/o della Teoria e dell’intervento con la Dissociazione Strutturale (Van der Hart et. al., 2006), si procede all’identificazione delle “parti del sé”, che possono essere più o meno dissociate, in modo da aumentarne la consapevolezza e quindi anche la regolazione e la gestione nella vita quotidiana.

In ottica clinica, tali “parti” possono essere riconducibili a circuiti neurali che conservano esperienze di vita, ricordi, memorie e sono portatrici di emozioni, sensazioni intense, e pensieri ricorsivi. Il sistema nervoso tende a proteggersi da tale intensità, sviluppando “difese” che mantengono la separazione e la frammentazione interna. Tali difese possono essere definite “fobie”, termine che può includere un senso di rifiuto, di paura, di spinta ad escludere e/o eliminare tali aspetti del sé dalla propria esperienza quotidiana.

Il meccanismo di sopravvivenza, che salva il cervello nelle situazioni acute, si mantiene attivo anche dopo che il pericolo è passato, continuando ad escludere dalla coscienza (emotiva, somatica e/o cognitiva) alcune parti del sé, che intensificano ulteriormente la loro esperienza implicita, entrando a forza nel vissuto del paziente, che è costretto a ri-sperimentare tali ricordi, benché sia impegnato ad escluderli dalla coscienza (Baita, 2018).

In psicoterapia abbiamo appreso a lavorare con le fobie, in altre parole le difese psichiche che proteggono il funzionamento quotidiano del paziente, attraverso l’approccio progressivo con l’EMDR (Gonzalez e Mosquera, 2016), includendo anche le preziose indicazioni cliniche di Janina Fisher (2017) e di Robin Shapiro (2017). Le strategie più efficaci possono essere riassunte nel promuovere la dis-identificazione della persona da ciò che sente, proponendo di considerare tale esperienza intensa come una parte di sé. Questo si fa provando a rappresentarla con un oggetto, un disegno o un’immagine mentale, per poi poter lavorare sulla relazione della persona adulta con tale parte del proprio sistema interno. L’obiettivo sarà promuovere il riconoscimento, la curiosità, la consapevolezza, la comprensione, l’empatia, la compassione verso quell’aspetto del sé, in modo da favorirne la regolazione e l’inclusione nell’esperienza cosciente, in vista di un processo integrativo.

Notiamo come la modalità online non solo mantenga l’efficacia di questi strumenti terapeutici, ma tenda ad incrementarne l’effetto. Ipotizziamo infatti che la distanza fisica, ed in particolare l’esclusione di alcuni sensi, come il tatto e l’olfatto, possa far sperimentare alle persone un senso di safety maggiore anche rispetto al terapeuta in quanto altro “mammifero” potenzialmente pericoloso, soprattutto per chi ha attraversato storie di traumi complessi. Sembra che questo possa facilitare la regolazione adulta (associata clinicamente all’attivazione della corteccia prefrontale) e in qualche modo ridurre l’intensità delle fobie verso gli stati interni, cosa che permette un lavoro più immediato, rapido ed efficace.

Inoltre, il ricorso all’immagine del paziente stesso, che si ha a disposizione sui vari strumenti di videochiamata, può anche essere utilizzato come risorsa per il recupero del Sé Adulto e la presentificazione delle parti del sé, proponendo al paziente di guardarsi e di riconoscersi nella propria immagine presente.

L’utilizzo di oggetti appartenenti alla casa dei pazienti, e quindi più familiari a loro, sembra favorire la connessione empatica con l’esperienza interna; la possibilità di proporre una sperimentazione rispetto alla distanza da quell’oggetto sembra promuovere una gestione attiva e autonoma dell’oggetto stesso, che potrebbe dar luce ad un senso più profondo di empowerment nella gestione quotidiana delle sensazioni e emozioni intense o dei pensieri ricorrenti. Sembra che i pazienti si trovino a fare più lavoro per mantenersi adulti, pur portando il terapeuta nelle loro case e quindi più vicino, ma in una condizione di completo controllo del mezzo di comunicazione, come già evidenziato.

Inoltre, la possibilità di sperimentare la psicoterapia direttamente negli spazi della quotidianità del paziente, potrebbe facilitargli il consolidamento delle esperienze relazionali terapeutiche funzionali (es. adeguatezza, padronanza, protezione, regolazione), che non restano così confinate ad uno spazio “altro” rispetto alla vita di tutti i giorni, come può essere lo studio del terapeuta.

Non sappiamo esattamente quali siano i fattori in gioco, che sicuramente variano da situazione a situazione, ma in generale notiamo come questo tipo di lavoro di distinzione e collegamento dia spesso risultati di regolazione emotiva e somatica più efficaci rispetto al lavoro abituale delle sedute in vivo. Le persone riportano frequentemente di sentirsi più integrate, di gestire meglio la loro vita quotidiana, e di accedere con meno difficoltà a nuclei centrali di sofferenza. Come terapeuti abbiamo più facilmente una visione d’insieme del sistema interno dei nostri pazienti. Naturalmente questo non vale per tutte le situazioni cliniche, ma in generale possiamo spingerci ad ipotizzare che il lavoro di psicoterapia online con gli stati dell’io e le parti del sé abbia vantaggi imprevisti, da approfondire, continuare ad esplorare, mantenere ed eventualmente integrare al lavoro di psicoterapia tradizionale.

La mindfullness

La pandemia, esponendoci alla mancanza di sicurezza fisica ed economica, all’isolamento forzato e all’allontanamento sociale, alla paura e allo stress legati all’incertezza del futuro sollecita, come già evidenziato, in continuazione il nostro sistema di allarme e, in alcuni casi, tale situazione può riattivare e far riaprire vecchi dolori, aumentando il rischio di disorganizzazione emotiva.

Risulta dunque importante contrastare il senso di impotenza che si riscontra negli stati di peritraumatizzazione, la sensazione di essere trascinati dentro una situazione, coinvolti in uno stato che stimola la messa in atto di automatismi difensivi per avere la possibilità di sperimentare un senso di padronanza derivante dal sentire che stiamo partecipando in maniera attiva a una grande esperienza condivisa (Van der Kolk, 2020).

Estremamente utili le parole di Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare che ha contribuito  al diffondersi della mindfulness nella cultura occidentale, per orientarci in questo momento storico, quando definisce il dolore come

La realtà di ciò che sta succedendo, un gradiente naturale delle esperienze della vita

mentre la sofferenza come

Uno stato mentale ed emotivo determinato dal rapporto con quella realtà

e quindi una delle possibili risposte al dolore fisico ed emotivo (Kabat Zinn, 1990).

La mindfulness è una pratica di auto-osservazione che conduce ad una graduale maggiore consapevolezza di sé e della realtà in cui viviamo; è un modo di stare in interconnessione, relazione con sé stessi, con gli altri e con il mondo, con atteggiamento di curiosità, amicizia, accoglienza, apertura, lasciando risuonare quello che c’è, in modo non giudicante. Tale pratica si sviluppa partendo da una costante cura dedicata a qualità umane universali, innate intenzioni transpersonali quali la gentilezza verso sé stessi e gli altri, la compassione, la capacità di gioire con e per gli altri e l’equanimità, cioè la disponibilità e capacità di andare incontro a tutti i momenti della vita con eguale rispetto e sensibilità.

La coltivazione della mindfulness sia formale sia informale, individuale e di gruppo o inserita all’interno di un percorso terapeutico, si è rivelata, anche durante la pandemia, una pratica preziosa, un importante strumento di elaborazione della sofferenza. Essa favorisce infatti il processo di integrazione alla base del benessere psicofisico, a diversi livelli: intrapsichico, interpersonale, sociale e di connessione con il mondo.

Le pratiche meditative possono aiutare a:

  • sperimentare una sensazione di radicamento al tempo presente che dà stabilità e permette di volgere lo sguardo al futuro in termini progettuali e non ansiosi;
  • avere consapevolezza del corpo e del corpo in movimento per sentire di poter incanalare quella normale attivazione fisiologica presente in occasione di eventi stressanti;
  • calmare il corpo e trovare uno spazio interiore di tranquillità dal quale è possibile ascoltare e regolare le emozioni, i pensieri e i comportamenti;
  • favorire il decentramento e la disidentificazione con pensieri ed emozioni, migliorare la regolazione attentiva ed emotiva, riducendo ruminazione depressiva (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991) e ruminazione ansiosa (Roemer & Borkovec, 1993);
  • contrastare l’ottundimento emotivo, ovvero una risposta fisiologica normale in situazioni di emergenza che porta a distaccarsi dalla realtà al fine di evitare le emozioni che creano sofferenza. Entrare in contatto con le emozioni e i pensieri, osservandoli attraversare la nostra esperienza senza farsi travolgere da essi, permette di coglierne la natura transitoria e di scegliere di agire in modo non reattivo ma intenzionale;
  • proteggerci dal ricorrere all’utilizzo di strategie di autoregolazione disfunzionali (alcool, cibo, sostanze);
  • favorire lo sviluppo di un’embodied mind: la sollecitazione della corteccia prefrontale mediale sinistra, attivata dalla mindfulness, è alla base di un sistema mente-corpo integrato;
  • coltivare l’empatia e la compassione, assumere un atteggiamento di apertura, accoglienza e accettazione nei confronti delle proprie e altrui fragilità e di quelle parti più soggette al giudizio, migliorando la resilienza alla situazione;
  • mantenere attiva la naturale tendenza dell’essere umano alla connessione, sia con sé stessi sia con gli altri, anche se a grossa distanza, e indirizzare l’azione al mantenimento di questa connessione con i mezzi elettronici disponibili;
  • sentire un senso di appartenenza ad un gruppo con il quale condividere dei momenti di pratica a distanza; la crescita della consapevolezza, intesa come fenomeno che avviene attraverso la connessione tra sé, gli altri e il mondo, insieme alla compassione si sono rivelate un potente regolatore della facoltà morale che ci ha permesso di co-evolvere come specie.

Anche in tempo di pandemia partire da quello che è il nostro presente, ancorati ad un senso di sicurezza interno, è importante per mantenere la possibilità di scegliere e di agire in direzione del futuro.

Conclusioni

Questo articolo nasce dal confronto fra psicoterapeuti che hanno vissuto, per la prima volta nella storia umana, l’esperienza del proprio lavoro in un contesto di pandemia.

A fronte di un impoverimento dato dall’impossibilità di una relazione in presenza, la nostra flessibilità e capacità di adattamento come esseri umani hanno permesso alla relazione terapeutica di andare oltre il distanziamento sociale.

La condivisione di riflessioni cliniche ha fatto emergere vantaggi inaspettati e sorprendenti, ci ha spinto a conformare e co-costruire nuove modalità e strumenti terapeutici, ma richiede ulteriori approfondimenti e sviluppi di ricerca sull’efficacia a medio e lungo termine.

 

Soddisfazione sessuale e body image: differenze a seconda dell’orientamento sessuale

Un articolo di Frontiers in Psychology, pubblicato di recente, si è focalizzato sull’indagine delle differenze che intercorrono tra eterosessuali, bisessuali e omosessuali nella soddisfazione sessuale legata all’immagine corporea (Moreno-Domìniguez et al.,2019).

 

In letteratura sono presenti numerosi studi che dimostrano quanto le donne soffrano la pressione di avere un corpo perfetto che rientri negli standard imposti dalla società (es. Wade and DiMaria, 2003); questo ha naturalmente delle ripercussioni sull’autostima e sulla scarsa soddisfazione che, attualmente, è stata principalmente indagata in donne eterosessuali (Rodin et al., 1984). Tuttavia, la mole di studi relativi alle differenze tra donne eterosessuali e donne omosessuali non è ancora sufficiente a sottolineare le differenze nel body image tra i due gruppi: infatti, alcuni studi dimostrano che non vi siano differenze significative (es. Yean et al., 2013), mentre altri affermano che le donne omosessuali soffrano meno il peso del giudizio sociale riguardo al proprio corpo (es Leavy et al., 2012).

Questa contraddizione potrebbe essere dovuta al fatto che le donne omosessuali sono state sempre considerate come un gruppo omogeneo ed erroneamente non siano state adeguatamente analizzate le differenze esistenti tra i singoli individui: le donne omosessuali che mostravano più tratti ‘tipicamente femminili’, come suggerisce una ricerca di Henrichs-Beck e Szumanski (2017) avevano più possibilità di soffrire per un’immagine corporea negativa rispetto a quelle con tratti più ‘mascolini’.

Una spiegazione per la quale le donne eterosessuali potrebbero subire più pressioni sociali rispetto alla forma del proprio corpo è la frequente oggettificazione sessuale di cui sono vittime, solitamente più spesso delle donne omosessuali (Fredrickson & Roberts, 1997).

I risultati della letteratura suggeriscono inoltre che più una donna è insoddisfatta del proprio corpo, più è probabile che lo sia a livello sessuale. Anche in questo caso però, gli studiosi si sono concentrati principalmente su campioni eterosessuali e i pochi studi sulle donne appartenenti a minoranze sessuali hanno escluso le donne bisessuali (Henderson et al., 2009).

Il presente studio (Moreno-Domìniguez et al., 2019) si poneva l’obiettivo di indagare quanto l’immagine corporea fosse correlata all’insoddisfazione sessuale vissuta da donne bisessuali, omosessuali ed eterosessuali: lo scopo era quello di determinare se l’insoddisfazione corporea fosse in grado di predire l’insoddisfazione sessuale e se esistessero differenze per orientamento sessuale. L’ipotesi degli autori era che le donne bisessuali soffrissero meno l’insoddisfazione per i loro corpi rispetto alle donne eterosessuali e omosessuali in seconda battuta.

Tramite un questionario online, sono state reclutate 354 donne, 156 eterosessuali, 79 bisessuali e 78 omosessuali. Sono state prese in considerazione variabili demografiche, la frequenza media dei rapporti sessuali, il peso corporeo e domande riguardo la soddisfazione del proprio corpo.

I risultati hanno mostrato che non vi erano differenze statisticamente significative riguardo la soddisfazione sessuale nei tre gruppi né nella soddisfazione riguardo al proprio corpo. Tuttavia, le preoccupazioni riguardo alla forma del corpo avevano una maggior influenza sulla soddisfazione sessuale per le donne eterosessuali e bisessuali rispetto a quelle omosessuali.

La terapia online durante e dopo l’emergenza CoVid-19: una survey per indagare l’operare dei terapeuti ** PARTECIPA ALLA RICERCA **

La psicoterapia online durante e dopo l’emergenza sanitaria: una survey per indagare l’operare dei terapeuti.

 

Fino a qualche mese fa la psicoterapia online era poco diffusa. Negli USA un sondaggio del 2018 ha rilevato che meno della metà dei terapeuti eroga prestazioni psicologiche in teleterapia e di questi la maggior parte predilige il telefono o l’email rispetto alla modalità di videochiamata. In Europa si stima che solo il 30% ne faccia utilizzo.

Con lo scoppio della pandemia e le conseguenti misure di contenimento adottate dal Governo, i terapisti hanno dovuto trovare un’alternativa per non lasciare i propri pazienti senza supporto. Pertanto molti hanno deciso di proseguire l’attività clinica online grazie all’utilizzo di strumenti di videochiamata.

Questo cambio di modalità ha avuto delle ripercussioni sul modo di organizzare e condurre le sedute? E se sì, quali?

Per rispondere a queste domande, Studi Cognitivi, network di Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, ha deciso di effettuare un sondaggio anonimo tra i terapeuti per indagare come abbiano gestito il passaggio dalla terapia in studio alla modalità online e i cambiamenti che questo ha comportato. (Sei un paziente? Partecipa al sondaggio anonimo che indaga l’esperienza vissuta dai pazienti)

Infatti in un percorso psicoterapeutico giocano un ruolo importante fattori quali il setting, gli aspetti tecnici e la relazione terapeutica. La modalità con cui viene svolta la psicoterapia, dal vivo oppure online, può influenzare questi fattori e di conseguenza il modo di operare del terapeuta.

Il breve questionario richiede al terapeuta di soffermarsi su diversi aspetti cardine della sua attività, come per esempio l’organizzazione del setting, la scelta delle tecniche da utilizzare, la gestione del tempo in seduta, la relazione con il proprio paziente, la capacità di concentrarsi, l’efficacia degli interventi e gli eventuali progressi percepiti.

Partecipare al sondaggio significa dare un contributo importante alla ricerca scientifica in ambito clinico poiché i dati raccolti forniranno indicazioni preziose che permetteranno di migliorare il lavoro dello psicoterapeuta e l’efficacia complessiva della psicoterapia stessa.

 

SE SEI UN TERAPAEUTA E NEL CORSO DELL’EMERGENZA SANITARIA HAI EFFETTUATO PERCORSI PSICOTERAPICI ONLINE CON I TUOI PAZIENTI, PARTECIPA ALLA RICERCA:


Sei un paziente? Partecipa al sondaggio anonimo che indaga l’esperienza vissuta dai pazienti

Il disturbo ossessivo compulsivo: le ricerche genetiche, neurobiologiche ed immunologiche

Il disturbo ossessivo-compulsivo è un disturbo a genesi complessa. Sono numerose le ricerche sugli aspetti genetici, neurobiologici ed immunologici del DOC. Questi aspetti, uniti alla considerazione dei fattori psicologici e al contributo dell’epigenetica, hanno chiarito la multifattorialità nell’eziologia di questo disturbo.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo o DOC è caratterizzato da pensieri (ossessioni) e comportamenti (compulsioni) ripetitivi, vissuti come intrusivi e spiacevoli da parte del soggetto che ne soffre.

Il DOC ha un’incidenza del 2%-2,5% nella popolazione generale e dopo la depressione, l’ansia e le dipendenze, rappresenta uno dei disturbi psichici più diffusi al mondo. Colpisce gli uomini in percentuale leggermente superiore alle donne. Nel 50% dei casi i primi sintomi si osservano già in età infantile, se questi persistono oltre la pubertà è piuttosto difficile assistere ad una guarigione spontanea.

Attualmente si ritiene che tale disturbo abbia un’eziologia multifattoriale. Vi sono fattori genetici, neurobiologici e psicologici, quali l’educazione rigida, le situazioni di forte impatto emotivo e la difficoltà nel gestire lo stress, che determinano la comparsa e la persistenza di questa patologia.

Numerosi sono gli studi scientifici che riguardano gli aspetti genetici, neurobiologici ed immunologici del DOC.

Le prime ricerche a favore di un’ipotesi genetica risalgono agli anni ’30 del secolo scorso e si basano sullo studio dei familiari dei pazienti. Le ricerche sulla familiarità sono state condotte nel tempo, esaminando campioni eterogenei per consistenza e composizione, la maggior parte degli studi concorda nel ritenere che il tasso di rischio per DOC nei parenti di primo grado oscilli tra il 10% ed il 20%.

Gli studi sui gemelli si basano sulla distinzione tra gemelli monozigoti, che hanno lo stesso patrimonio genetico, e gemelli eterozigoti che condividono solo il 50% del patrimonio genetico. In ogni caso si presume che in entrambi i tipi di gemelli, l’ambiente e le relazioni parenterali siano identiche. Il primo importante studio sui gemelli risale al 1965 quando fu condotta l’analisi di una serie di casi singoli con il dato di una più alta concordanza per il disturbo ossessivo fra i gemelli monozigoti, rispetto ai dizigoti, dato che è stato confermato dagli studi successivi.

E’ interessante l’associazione esistente tra sindrome di Tourette, disturbo caratterizzato dalla presenza di tic motori e fonatori incostanti, e DOC. Questa comorbidità ha portato a ritenere che i due disturbi possano rappresentare l’espressione di un’alterazione di uno stesso gruppo di geni. Circa il 50% dei soggetti con sindrome di Tourette presenta un DOC e oltre la metà dei bambini e degli adolescenti con DOC, in un momento della vita, sviluppa tic più o meno gravi.

Uno studio condotto da Elinor K. Karlsson e Kerstin Lindblad-Toh del Broad Institute di Cambridge, negli Stati Uniti, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature Communications (2017), ha individuato quattro geni che con altissima probabilità hanno un ruolo causale nella genesi del DOC. In particolare si tratta di alcune varianti dei geni NRXN1 e HTR2A, del gene CTTNBP2  e del gene REEP3 che regola il comportamento delle vescicole cellulari in cui si accumulano i neurotrasmettitori da rilasciare nelle sinapsi.

Gli studi neuroscientifici in ambito psichiatrico hanno permesso di individuare i circuiti neuronali coinvolti nella fisiopatologia del DOC. Gli strumenti utilizzati in quest’ambito sono stati soprattutto quelli di neuroimaging. Il principale circuito evidenziato è quello fronto-striatale-talamico. Le evidenze indicano un’iperattivazione della corteccia orbito-ventro-mediale che è responsabile del perdurare delle rappresentazioni emozionali e provoca un affaticamento a livello dei nuclei caudati, questi sembrano essere in grado di inibire l’ideazione ossessiva ed il comportamento compulsivo. Inoltre sono state evidenziate, nei soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo, anomalie a livello dell’ippocampo e dell’amigdala. Il circuito amigdalo-corticale ha un ruolo specifico nell’espressione e regolazione della paura. In conclusione ossessioni e compulsioni sono legate ad una disfunzione del circuito fronto-striatale-talamico e del circuito amigdalo-corticale.

Uno dei principali neurotrasmettitori utilizzati nella comunicazione tra corteccia celebrale e strutture sottocorticali quali i nuclei caudati, l’ippocampo e l’amigdala è la serotonina. L’utilizzo di farmaci attivi nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo risale agli anni ’80 del secolo scorso, il primo farmaco ad essere utilizzato fu la cloripramina. Alla luce delle attuali evidenze la terapia con inibitori del re-uptake della serotonina, sia selettivi che non, rappresenta la prima scelta farmacologica nel trattamento del DOC.

Esistono, infine, vari studi che valutano il legame tra le infezioni streptococciche e lo sviluppo dei sintomi del DOC e dei tic. E’ stato ipotizzato che l’infezione da streptococco sia in grado di provocare, in soggetti predisposti, una produzione anomala di autoanticorpi capaci di legarsi alle cellule neuronali, provocando alterazioni a carico dei gangli della base. Il termine PANDAS, indica un gruppo di pazienti in cui si verifica l’insorgenza o l’esacerbazione brusca dei sintomi del DOC o di tic, o entrambi a seguito di infezioni da streptococco. Gli studi di neuroimaging hanno mostrato nei PANDAS aumenti di volume in corrispondenza dei nuclei della base. Il coinvolgimento del sistema immunitario è indicato anche dalla presenza di alterazioni quantitative di TNF-alfa, IL-6 e IL-1, molecole implicate nei processi infiammatori, nel siero dei pazienti con DOC e sindrome di Tourette.

Ad aprile 2020 sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Brain Behaviour and Immunity i dati di un lavoro di un team di ricercatori coordinati dall’Università di Roehampton e dalla Queen Mary University, a cui hanno partecipato anche studiosi delle Università di Teramo e Milano. Questa ricerca ha evidenziato un’alta presenza di Imood nei linfociti dei pazienti con DOC. Si tratta di una proteina che si trova nelle cellule immunitarie e che rappresenta, secondo lo studio, un tratto distintivo di chi soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo.

Sono molte e varie le evidenze riguardo gli aspetti eziologici del DOC. Il gran numero di dati, che si riferiscono ad aspetti differenti, rafforza il convincimento che questo sia un disturbo a genesi multifattoriale.

Sono ormai noti i legami tra espressione genica ed esperienze ambientali e psichiche, indagati dall’epigenetica. Secondo la visione classica il genoma è un codice fisso nel quale si possono verificare delle mutazioni. In realtà i nostri geni possono, a seconda delle condizioni, essere espressi oppure rimanere silenti. Tutto ciò può determinare la comparsa di uno stato patologico o al contrario contribuire al mantenimento dello stato di salute. Gli stimoli ambientali, psicologici e culturali funzionano da attivatori o disattivatori dell’epigenoma, questo meccanismo appartiene alla genesi del DOC e di numerose altre patologie.

 

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