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Psiconcologia: tra aspetti psicologici nel malato oncologico e richiesta di supporto

Psiconcologia: far emergere i bisogni psicologici e di rispondere a questi è un aspetto fondamentale della presa in carico del paziente oncologico

Di Bernardo Carli

Pubblicato il 22 Giu. 2020

L’evento cancro coinvolge numerosi aspetti della vita della persona, a partire dal momento diagnostico ai successivi follow-up e sono numerose le ripercussioni psicologiche che si hanno sul paziente oncologico e sulla sua famiglia.

 

Assistiamo oggi alla crescente capacità di cronicizzazione delle malattie mortali grazie alle innovazioni farmacologiche che permettono al paziente di convivere con la malattia per molti anni (Taylor, 2014) ed assume un valore crescente il concetto di “qualità di vita”. Diventa sempre più importante conoscere ed identificare l’impatto e le ripercussioni emotive della malattia per assicurare un sostegno psicologico ed uno spazio di contenimento emotivo al paziente oncologico ed ai familiari (Moreno-Smith et al., 2010; Lim et al., 2013), in una cornice comunicativa efficace tra l’operatore sanitario ed il paziente (Stamataki et al., 2015).

L’evento cancro coinvolge numerosi aspetti della vita della persona, a partire dal momento diagnostico ai successivi follow-up ed sono numerose le ripercussioni psicologiche che si hanno sul paziente oncologico e sulla sua famiglia.

In uno studio longitudinale (Williams et al., 2016) è stato indagato l’impatto della diagnosi di cancro sull’aspetto psicologico del paziente, dividendo il campione in tre categorie: due anni prima della diagnosi, entro i due anni dalla diagnosi e i successivi quattro. La ricerca ha considerato variabili quali la qualità di vita, le difficoltà quotidiane, l’ansia e la depressione. Come si può immaginare, l’impatto della diagnosi ha comportato un maggior declino della salute percepita, maggiori difficoltà quotidiane riportate e punteggi di ansia e depressione considerevolmente superiori al gruppo di controllo.

Il punto cardine dello studio consiste nell’aver dimostrato che questi punteggi non tornano, sebbene si attenuino con il tempo, ai livelli pre-diagnosi, rimanendo significativamente più bassi rispetto ai soggetti sani; suggerendo che la patologia impatti sul funzionamento psico-fisico a lungo termine e confermando l’importanza di un sostegno psicologico che accompagni il paziente lungo l’evento malattia nelle sue fasi e nel follow-up.

In una ricerca del 2014 (Nikbakhsh et al.) è stato esaminato un campione  di 150 soggetti  con cancro ed è emerso come il 40% mostrasse livelli subclinici di depressione, mentre il 32% arrivasse a punteggi indicativi di depressione clinica. Per quanto concerne la percentuale di ansia, i relativi punteggi subclinici e clinici indagati con l’HADS (Hospital Depression Anxiety Scale) erano rispettivamente di 44% e 22%.

Mentre in uno studio del 2012 (Linden et al.) che ha coinvolto 10153 pazienti oncologici è stata altresì riportata una percentuale di depressione e ansia subclinica rispettivamente del 17% e 23%, raggiungendo livelli clinici nel 13% e 19% dei casi. Possiamo affermare quindi che

Continuous screening for anxiety and depression is recommended as a necessary approach for good cancer care; on the other hand, after diagnosis of clinically important psychological disorder, proper treatment interventions must be performed to improve the quality of life (Nikbakhsh et al., 2014).

Tali dati sembrano essere confermati anche in studi qualitativi, ad esempio attraverso intervista ermeneutica (Stamataki et al., 2015) sono state indagate quattro aree: area emozionale, effetti sulle relazioni, effetti funzionali e sistema di salute in pazienti con melanoma. Alcuni temi emersi sono l’incertezza per il futuro ed il sentimento di impotenza, derivante probabilmente dal percepirsi solo passivo nell’affrontare la malattia e non proattivo nella guarigione; l’immagine corporea alterata, data dall’esito cicatriziale dell’intervento di rimozione chirurgica del melanoma, che contribuirebbe a compromettere la percezione di integrità fisica ed estetica. Vi sono state ripercussioni sulle relazioni familiari, desiderio di non gravare sulla famiglia, di mantenere un’autonomia funzionale e di proteggere i parenti da paure connesse alla malattia e da sentimenti negativi. Sono stati riportati molti problemi funzionali come dolore, stanchezza e spossatezza che influiscono sul portare a termine il lavoro, sugli hobby, sulle attività quotidiane e sul partecipare alle relazioni sociali. È stato riportato come molto frequente il sentimento di riorganizzazione della propria vita intorno al sintomo.

Riassumendo, emerge evidente come l’evento cancro comporti un susseguirsi di emozioni che si ripercuotono sul soggetto stesso, sulla famiglia, sugli amici e sugli operatori sanitari, portando ad una reciproca influenza che riguarda sia il paziente sia l’ambiente a lui vicino.

Esistono fasi nella elaborazione della malattia oncologica?

Un contributo importante dato all’ambito psiconcologico è rappresentato dal lavoro pionieristico di Elizabeth Kluber-Ross (1969), l’autrice ha infatti descritto le cinque fasi che il paziente percorre nella malattia terminale. Le cinque fasi riportate rappresentano in maniera chiara le reazioni del paziente alla patologia e costituiscono un punto cardine nella realtà clinica poiché, anche se non è evidente che si susseguano in un ordine specifico, permettono di identificare i bisogni sottostanti del malato e di favorire un adeguato sostegno e intervento dove richiesto e opportuno. Le fasi riportate dall’autrice sono:

1) La negazione: questa fase è frequente nel momento della diagnosi e rappresenta un meccanismo di difesa attraverso il quale le persone cercano di proteggersi dagli effetti di una malattia. La persona può comportarsi come se la patologia non fosse grave o, nei casi più estremi, come se non fosse successo; il paziente può infatti negare di avere una malattia malgrado i risultati diagnostici. La negazione rappresenta una fase normale attraverso la quale il soggetto prende inizialmente distanza dalla possibile prospettiva della propria morte, tuttavia se persiste e si irrigidisce può necessitare di un intervento psicologico.

2) La rabbia: questa è la seconda reazione che il paziente può avere di fronte alla prospettiva della propria morte. La rabbia può essere espressa direttamente verso le persone che lo circondano come il personale sanitario, la famiglia ed amici, poiché in salute ad esempio, o indirettamente esprimendo amarezza. Si può frequentemente ironizzare sul fatto che molte cose non  si potranno più fare, sul deterioramento fisico o fare battute pungenti sul tema della morte. Non è infrequente che il paziente si chieda come mai sia capitato a lui e sperimenti un’invidia verso persone che siano in salute o che siano guarite da malattie. La rabbia può essere rivolta verso i familiari ed è importante che il clinico normalizzi e contestualizzi tali emozioni.

3) La trattativa: il paziente può abbandonare la rabbia in favore della trattativa, ovvero la convinzione che se eseguirà atti moralmente giusti ed etici avrà in cambio la salute. Eventi come doni di beneficenza o comportamenti insolitamente piacevoli possono essere un indizio di questa fase, perciò si ha una negoziazione tra buona condotta in cambio di buona salute.

4) La depressione: in questa fase il paziente riconosce che può fare ben poco per tenere sotto controllo la malattia. Questa realizzazione coincide con un brusco calo di umore, peggioramento dei sintomi, aumento della stanchezza, fatica e dolore. È difficile distinguere tra i sintomi derivanti dalla depressione e quelli derivanti dal trattamento farmacologico o dalla malattia, perciò è importante un’adeguata distinzione clinica tra le due. Kluber-Ross (1969) identifica questa fase come la fase del “lutto anticipatorio”, dove i pazienti “piangono” la prospettiva della loro morte, anticipano la perdita di relazioni e di attività future.

5) L’accettazione: ultima fase degli stadi riportati dalla Kluber-Ross, rappresenta una presa di coscienza globale della propria morte, dove il paziente può essere troppo stanco per essere arrabbiato e troppo abituato alla malattia per essere depresso.

L’accettazione non è detto che sia pacifica e comprenda uno stato di calma, ma alcuni pazienti usano questo tempo per fare preparativi, decidere come suddividere i loro beni e come passare il tempo rimasto con i familiari.

La malattia oncologica può essere considerata una malattia sistemica, coinvolgendo il paziente stesso, la famiglia e la rete sociale in cui è inserito

Le reazioni e le mutue influenze che si possono verificare all’interno della famiglia sono molteplici: può avvenire per esempio che con l’avanzare della malattia e il conseguente declino fisico e psicologico il paziente decida di allontanarsi dalla famiglia e dalle interazioni sociali (Taylor, 2014); può avvenire che il paziente scelga di non parlare della malattia con i familiari ed amici al fine di non gravare su di essi (Stamataki, 2015). La famiglia a sua volta può andare incontro a una riorganizzazione dei ruoli in funzione del malato, con ripercussioni sul lavoro o su altre relazioni familiari.

In una rassegna del 2010 (Stenberg et al.) su un campione di quasi 20.000 caregivers familiari, i principali problemi riportati da questi sono stati: depressione, stanchezza, ansia, incertezza, paura, difficoltà nel dormire, perdita di peso e appetito.

Come suggeriscono gli autori, la malattia di una persona sconvolge i ruoli familiari, i quali possono divenire iperprotettivi ed imporsi standard elevati nella cura del paziente, assumendo un’elevata responsabilità nei suoi confronti; se il lavoro non è flessibile possono prendere giorni di ferie o di malattia, riorganizzandosi in funzione del malato. Identificare i familiari “assistenti” che sono in difficoltà ed integrarli nel percorso di sostegno  psiconcologico rappresenta un punto fondamentale della presa in carico globale del paziente, in quanto supportare i familiari è di notevole importanza per il paziente e per un percorso di cura più efficace/efficiente e meno doloroso.

Verso la presa in carico del paziente oncologico…

Nonostante le evidenze a favore del sostegno sociale nel ridurre lo stress e nell’incrementare il benessere psicologico percepito (Kiecolt-Glaser et al., 2002), è bassa la percentuale di pazienti oncologici che ricercano supporto psicologico e vi è un numero elevato di operatori sanitari che sottostimano le difficoltà emotive riportate da questo target. È stata presa in esame (Merckaert et al., 2009) la percentuale di pazienti affetti da cancro che ricercavano supporto: su 381 pazienti, solo il 25% delle donne ha espresso il desiderio di un sostegno psicologico, mentre elevati livelli di ansia e depressione erano sperimentati dal 70% del campione femminile; per quanto riguarda il campione maschile il 10% ricercava aiuto su una percentuale di 50% che riportava punteggi significativi di ansia e depressione. La maggior richiesta da parte delle donne può essere spiegata dalla loro tendenza ad adottare un maggior coping attivo, volto alla ricerca di sostegno. Secondo gli autori la percentuale bassa di pazienti che richiedevano aiuto può essere spiegata dalla loro sottostima dei benefici derivanti dal supporto psicologico e dal considerare ansia e depressione come conseguenze normali dell’impatto del cancro e del trattamento.

A tal proposito, Butow e collaboratori (2002) hanno esaminato i pattern di risposta dei medici e le informazioni richieste in reparto oncologico ed è stato riportato che i medici rispondono maggiormente a richieste di informazioni sulla prognosi, trattamento etc., piuttosto che a richieste di supporto emotivo. Di contro i pazienti sono più propensi a richiedere informazioni di carattere medico, in quanto percepiscono i medici e operatori come “indaffarati” e non ritengono opportuno coinvolgerli nelle loro paure ed ansie. Come riportano gli autori

if doctors do not recognise and acknowledge patient’s cues for emotional support, patients will be discouraged from seeking that support during the consultation.

Si può quindi sostenere che il dare informazioni ritagliate sulla persona con sensibilità, il coinvolgere il paziente nel trattamento e nelle decisioni affinché abbia un ruolo attivo ed il riconoscere il disagio emotivo, siano fattori che contribuiscono alla riduzione della morbilità psicopatologica nei pazienti affetti da cancro (Butow et al., 2002).

Tuttavia, è doveroso specificare che la presenza di risposte emotive dipende anche dalla capacità dell’équipe di far emergere i “bisogni psicologici” e di rispondere con congruenza a questi, sottolineando la necessità di sensibilizzare il personale sanitario verso il distress esperito dal paziente oncologico; quindi l’importanza di porre attenzione a tali segnali ed interpretare i bisogni sottostanti alle reazioni emotive elicitate dalla malattia oncologica nelle sue diverse fasi, così come nelle fasi del trattamento. Lavorare in un’ottica biopsicosociale comprende dare il giusto peso alle variabili psicologiche, sociali e biologiche che, interagendo tra loro, possono contribuire nella riuscita di un trattamento; essendo in stretta interazione tali variabili è necessario sia informare il paziente circa gli aspetti medici della malattia, sia informare circa sentimenti, paure e angosce comuni nell’iter oncologico, assicurando l’opportunità di essere seguiti in un percorso psicologico. L’aspetto emotivo della malattia, soprattutto se mortale, è sempre più importante e degno di essere monitorato al fine di garantire un’accettabile e soddisfacente qualità di vita esperita dal paziente, ribadendo il fatto che al giorno d’oggi si assiste ad una sempre più frequente cronicizzazione della malattia (Matarazzo, 1980) ed a una esigenza crescente di convivenza con questa.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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