La comunicazione riveste un ruolo importante in tutte le fasi della gestione del paziente affetto da cancro e consente un’efficace presa in carico dei bisogni del paziente.
Elisa Mudolon, GIiada Massacesi, Fiorenza Filippi, Anna Esposito, Beatrice Plini, Giacomo Di Leonardo, Emanuela Forte, Elisabetta Masciotta, Giovanna Tedeschi
Il cancro è una delle maggiori cause di decessi e l’incidenza di tale patologia sembra essere in costante crescita negli ultimi vent’anni, con un incremento che non esclude nemmeno l’ambito pediatrico.
L’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, in collaborazione con l’associazione internazionale dei registri del cancro, ha messo a disposizione i dati raccolti nell’arco di tempo tra il 2001 ed il 2010, provenienti da 62 paesi dai relativi registri della popolazione epidemiologica. È stato evidenziato come la leucemia sia in proporzione il neoplasma più presente, e colpisce quasi il 40% della popolazione oncologica tra i 0 ed i 4 anni con una percentuale analoga nella fascia tra i 5 e i 9 anni. I tumori del sistema nervoso centrale invece rappresentano una problematica consistente oltre che nelle fasce d’età 0-4 anni e 5-9 anni anche nella fascia d’età 10-14 anni, seguita dal linfoma che presenta un’alta incidenza nella fasci d’età 10-14 anni. In generale si stima che lo standard di incidenza della malattia oncologica nella popolazione mondiale per la fascia 0-14 anni sia di 140·6 persone-anni per milione (Steliarova-Foucher et al., 2017).
I dati raccolti ci dimostrano l’urgenza e la gravità di un problema che nel caso della popolazione colpita, rappresentata per una gran parte da pazienti pediatrici, travalica quelle che sono le semplici esigenze di una guarigione, ma incontra bisogni profondi di cura e attenzione alle dinamiche intervenienti. Dalla diagnosi alla comunicazione della stessa, la presa in carico del paziente è totale rispetto alle sue esigenze.
A tal proposito è stato condotto uno studio, parte di una ricerca più ampia, sulla comunicazione nell’ambito dell’oncologia pediatrica. I soggetti coinvolti erano divisi principalmente in tre gruppi: 34 bambini con cancro tra gli 8 ei 16 anni, i 59 rispettivi genitori, e 51 soggetti sopravvissuti al trattamento che al momento della diagnosi avevano tra gli 8 e i 16 anni, con un range di età tra i 15 e i 30 anni. Gli strumenti utilizzati erano delle vignette che raffiguravano varie situazioni basate su tematiche comuni dell’iter dei pazienti pediatrici oncologici, verso le quali i tre gruppi dovevano esprimere delle preferenze rispetto a come volevano che la situazione raffigurata si svolgesse. Gli elementi all’interno di esse variavano a seconda del soggetto a cui venivano presentate. In particolare è emerso come pazienti, genitori ed ex-pazienti indicavano come importante nell’81% dei casi l’empatia dei professionisti. Nel 70% delle situazioni i tre gruppi di soggetti preferivano che informazioni sulla malattia fossero date a bambini e genitori simultaneamente. Vi sono tuttavia differenze nelle preferenze riguardo la quantità di informazioni da dare ai bambini; tale differenza era da associare all’età e allo stato emotivo dei pazienti pediatrici. Inoltre, nel 71% dei casi i tre gruppi preferivano che i bambini partecipassero alle decisioni mediche. Tale preferenza era largamente associata all’età del paziente (Zwaanswijk et al., 2011).
Quando ad avere il cancro è il proprio figlio… le conseguenze sulla famiglia e sui genitori
La diagnosi di cancro in un bambino diventa una fonte destabilizzante per l’intera famiglia, ma a tenere le redini del nucleo familiare è la coppia genitoriale che prova un forte senso di inadeguatezza scaturito dall’impossibilità di proteggere il bambino dalla malattia.
La sintomatologia prevalente, soprattutto nel genitore che assiste maggiormente il bambino, è quella depressiva, la quale si amplifica con la comparsa delle problematiche comportamentali che il piccolo manifesta lungo il decorso patologico. I genitori potrebbero percepire un senso di oppressione causato dal peso delle scelte che si trovano a dover effettuare riguardo le cure e i trattamenti del figlio, ma anche una frustrazione connessa al senso di impotenza per non riuscire più a proteggere il bambino.
Risultano frequenti anche i sensi di colpa connessi all’eventualità di fattori ereditari che potrebbero aver influito sulla proliferazione del tumore, o ad eventi passati di trascuratezza del bambino, o ancora al non aver desiderato la gravidanza.
Sarebbe auspicabile la collaborazione genitoriale nel corso dell’adattamento alla malattia del bambino, così da facilitare un dialogo sugli eventuali timori reciproci, sulle difficoltà riscontrate e sul peso della patologia oncologica, ma spesso capita che sia solo uno dei due genitori ad assistere il piccolo quotidianamente. Dopo la diagnosi potrebbero verificarsi delle situazioni di triangolazione in cui i genitori iniziano a manifestare iperprotezione verso il bambino tanto da trascurare altre sfere importanti sia della propria vita privata che sociale; questo atteggiamento potrebbe essere percepito dal bambino come anomalo e far accrescere in lui il timore per ciò che gli sta accadendo (Tremolada, 2004).
L’importanza della comunicazione nell’ambito oncologico
Secondo Epstein e Street (2007) la comunicazione nell’ambito oncologico tra clinico, paziente e genitori, veicolerebbe delle specifiche funzioni.
Una delle principali sarebbe quella di fornire supporto emotivo, guida e comprensione, utili tramite l’ascolto attivo a fornire una buona base per una relazione di aiuto. Tale funzione sarebbe importante soprattutto nella fase di comunicazione della diagnosi. Altre funzioni importanti riguardano lo scambio di informazioni e la risposta all’emotività del nucleo familiare.
È possibile inoltre che nel momento successivo alla diagnosi siano sperimentati stati di incertezza. Le competenze comunicative del clinico devono assolvere alla gestione dell’incertezza laddove esista, ad esempio riguardo la prognosi ed effetti a lungo termine della malattia e fornire risposte dove vi siano certezze.
Infine tramite la comunicazione si promuoverebbero le abilità di decision-making e di auto-gestione del paziente rispetto alle sue azioni per mantenere il proprio stato di salute, utili a favorire la compliance e l’adesione al trattamento (ivi).
In una metanalisi condotta su 90 studi sulla comunicazione nell’ambito dell’oncologia pediatrica è stato evidenziato come ad essere oggetto delle ricerche era principalmente il resoconto o i racconti dell’esperienza del paziente, la comunicazione della diagnosi e del trattamento e la comunicazione della prognosi. A livello delle funzioni della comunicazione ciò che viene principalmente analizzato nelle ricerche con il 95,6% e più specificatamente in 86 ricerche è lo scambio di informazioni. Solamente in 4 ricerche con il 4,4% viene analizzata la gestione dell’incertezza nel paziente. I risultati quindi suggerirebbero nuove linee di ricerche di largo interesse per i clinici (Sisk et al., 2018).
La comunicazione quindi rivestirebbe un ruolo importante in tutte le fasi della gestione del paziente oncologico. La relazione instaurata tramite questa è di fondamentale importanza per la presa in carico dei bisogni del paziente. A tal proposito riportiamo qui un caso che mostra come la presenza di figure deputate alla gestione della comunicazione possa rendere espliciti tali bisogni e successivamente affrontarli, aumentando la consapevolezza e le risorse della persona.
Storia di una mamma e della sua bambina: come la comunicazione può aiutare ad affrontare il peso del cancro
Appena giunta in reparto ho incontrato una mamma e la figlia di 7 anni originarie di Bucarest.
Ho notato subito che la signora durante la presentazione guardava con interesse il tesserino. Pian piano ho cominciato a chiedere il motivo della loro permanenza in ospedale e anche altre informazioni. Ed è emerso che la bambina era lì per dei controlli, vista una precedente malattia neoplastica (a 2 mesi le era stato asportato un tumore alla surrenale sinistra).
Raccogliendo una sua domanda “voi siete dei volontari?” ho presentato l’associazione e il suo lavoro lasciando i riferimenti telefonici che sono stati accolti dalla signora con molto trasporto e interesse.
Dopo che la figlia si è allontanata la mamma si è sentita libera di trasmettere tutta la sua angoscia che “scarica” mangiando le unghie delle mani (con la bambina presente esercita molto controllo sulle proprie emozioni).
Successivamente con Adriana e un’altra mamma che gentilmente ha fatto da interprete abbiamo condotto un colloquio dove la signora ha descritto le proprie difficoltà familiari ed economiche, inoltre, purtroppo non ha il sostegno del marito, colpito da aneurisma quando la bambina era malata ed ora presenta problemi di memoria a breve termine.
Dall’incontro è emersa tutta l’angoscia e la tristezza della signora, preoccupata anche dalla difficoltà di trovare un lavoro per incrementare l’economia familiare che è molto deficitaria.
Ho condiviso il lavoro che, anche se in poco tempo, ha fatto Adriana, ovvero evidenziare i punti di forza (la perseveranza tra tutte) che hanno permesso la signora di affrontare tutte le sue vicissitudini.
Penso che alla fine dell’incontro la mamma della bambina sia riuscita a realizzare di aver molta forza interiore che ha esternato inizialmente con il pianto che si è trasformato pian piano in un bel sorriso.