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Genitorialità e nuove tecnologie

Il ruolo del genitore è sempre più difficile, spesso accompagnato da incertezze e diventa oggetto di ricerca e di giudizio, soprattutto quando i figli passano dal mondo adolescente a quello adulto.

 

Tu sei fuori dal mio mondo. E il tuo mondo mi fa tristezza.

Questa affermazione di Veronesi tratta dal celebre film Genitori e figli: agitare bene prima dell’uso ci fa soffermare e riflettere su un tema che oggi ci interessa tutti da molto vicino, il rapporto che i figli hanno con i loro genitori e le nuove tecnologie.

Ognuno di noi fin dalla più tenera età utilizza nei diversi contesti di vita la propria funzione genitoriale: il bambino che imita la mamma e la vuole imboccare dandole il suo cibo, ci mostra come questa funzione di prendersi cura e assumere un ruolo da genitore che nutre, sia già presente nei primi anni di vita. Questo è probabilmente uno dei primi interscambi osservabili che riflette un lungo percorso già compiuto dal bambino a livello rappresentativo – narrativo e che ci fa capire come il bambino si costruisce un’idea di relazione che dipende dalle modalità relazionali che ha stabilito con i propri genitori (Bowlby, 1983). Il bambino è pertanto predisposto con i genitori a sviluppare un legame di attaccamento, necessario per mantenere un senso di sicurezza.

La famiglia nella quale genitori e bambino fanno parte, è il principale luogo di crescita di ogni individuo, dalla sua nascita e per tutta la vita. A seconda del momento evolutivo in cui ci si trova, la famiglia assume significati e ruoli diversi, ma rimane sempre un punto di riferimento, nel bene e nel male, per ciascuno dei suoi membri.

Il ruolo del genitore è sempre più difficile, spesso accompagnato da incertezze e diventa oggetto di ricerca e di giudizio, soprattutto quando i figli passano dal mondo adolescente a quello adulto. Il fatto che con le nuove tecnologie “tutto è possibile” influisce notevolmente sul rapporto genitori/figli. Pensiamo ad un adolescente che fa difficoltà ad inserirsi in maniera adeguata nel contesto scolastico o nel gruppo di amici: internet offre un mondo sociale e virtuale molto appetibile, dove sembra essere possibile ciò che nella vita reale è invece molto difficile. Spesso gli adolescenti vivono in questo mondo virtuale, senza che i genitori se ne rendano conto; ma oggi questo è parzialmente vero, perché spesso accade che sono i genitori stessi a passare la maggior parte del loro tempo con le nuove tecnologie, togliendo “spazio” e concedendosi meno al rapporto con i propri figli. È pur vero che per i genitori di oggi è indispensabile avere familiarità con la nuova tecnologia, presente non solo in ambito lavorativo, ma anche e soprattutto nella relazione con i figli.

Per concludere sarebbe utile riflettere su aspetti preventivi dell’utilizzo di internet e social network. Nonostante molti adolescenti e giovani adulti considerino i genitori inadeguati come guida nell’universo delle nuove tecnologie, i ragazzi andrebbero educati fin da piccoli a fruire delle nuove tecnologie insieme agli adulti, dandone dei limiti temporali e alternandoli con compiti evolutivamente più stimolanti, in modo da non togliere “spazio e tempo” alla loro relazione reale, autentica, di relazione, vis à vis.

 

Procrastinazione decisionale e accademica: il disagio provato dagli studenti procrastinatori e la difficoltà nel cambiare le proprie abitudini

La procrastinazione è tipicamente definita come un ritardo volontario dell’azione verso un qualche compito, nonostante le prevedibili conseguenze negative e gli esiti potenzialmente deleteri (Ferrari, 2010; Steel, 2007).

 

L’atto della procrastinazione, soprattutto se cronicizzato, può portare gli individui a sperimentare ansia e stress legati proprio al ritardo (Ferrari, 2010).

Uno dei tipi di procrastinazione è la procrastinazione decisionale: un tipo cognitivo di procrastinazione cronica, caratterizzata dal ritardo nel prendere decisioni, in particolare in circostanze stressanti (Ferrari, 1994).

Un altro tipo è la procrastinazione accademica, associata al ritardo volontario dell’azione correlata allo studio, nonostante si sia consapevoli delle conseguenze negative causate dal ritardo (Steel & Klingsieck, 2016).

Nonostante l’ampiezza della letteratura sulla procrastinazione in senso lato, solo pochi studi hanno direttamente indagato i sentimenti degli studenti verso la procrastinazione e il loro desiderio di cambiare questa abitudine.

Uno studio recente (Hen & Goroshit, 2020) ha dunque voluto esaminare gli effetti della procrastinazione decisionale e di quella accademica sulle sensazioni di disagio degli studenti legati alla procrastinazione accademica e il desiderio di cambiare le loro abitudini nel procrastinare. Il presupposto era che la procrastinazione accademica avrebbe mediato il rapporto tra procrastinazione decisionale e sentimenti degli studenti verso la procrastinazione accademica. Un totale di 373 studenti universitari di scienze sociali provenienti dal nord di Israele hanno partecipato allo studio, compilando un questionario online comprendente le seguenti scale:

  • il Decisional Procrastination Questionnaire (Mann, 1982) per la misurazione della procrastinazione decisionale;
  • l’Academic Procrastination Scale- Student Form (Milgram et al., 1999) per l’assessment della procrastinazione accademica e per misurare le sensazioni degli studenti su questa.

I risultati dello studio sfidano la percezione tradizionale che la procrastinazione sia per lo più associata a sentimenti di disagio: infatti, mentre la procrastinazione decisionale è effettivamente associata a un’esperienza di disagio sul procrastinare, quella accademica non manda segnali legati al disagio, pur essendo i procrastinatori accademici vogliosi di cambiare la loro abitudine nel procrastinare.

I risultati perciò suggeriscono una differenza tra i due tipi di procrastinazione e possono contribuire all’ipotesi che per alcuni studenti la procrastinazione accademica serva nell’immediato come un sollievo emotivo che, se associato a risultati accademici negativi, può poi portare al desiderio di cambiare questa abitudine.

Se questo fosse vero, un possibile intervento dovrebbe includere la presa di coscienza di questo processo e lo sviluppo di altre strategie per il sollievo emotivo. Infatti, uno studente che soffre di procrastinazione decisionale cronica, non attribuendo una sensazione negativa alla procrastinazione accademica, potrebbe non essere in grado di prendere una decisione per quanto riguarda il desiderio di cambiare questa abitudine.

 

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep. 5/5 Gli scopi del rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

Il podcast è distribuito su:

 


QUINTA PUNTATA DEL PODCAST:
GLI SCOPI DEL RIMUGINIO

 

La ruota del tempo – Racconto

La rottura era avvenuta così, senza dare alcun preavviso e senza lasciare a nessuno il tempo di prepararsi. Similmente siamo stati colpiti tutti noi dal virus Covid-19 e dalle sue conseguenze.

 

La mente è come una macchina del tempo.
Rimette insieme i pezzi per rivivere il passato;
Consente di immaginare e proiettarsi nel futuro;
Gira ed elabora ogni istante, scandendo il momento presente.

Come ogni giorno la ruota aveva preso a girare nel suo consueto orario. Una alla volta le persone arrivavano e prendevano il proprio posto: i mattinieri in fila già alle prime luci dell’alba, pronti a salire, i ritardatari, con affanno e di gran fretta, sperando nell’ultima corsa.

Era un venerdì come tanti, così si pensava.

Tutti realizzavano i propri giri: chi sbadigliava, ancora assonnato; chi sorrideva, già pensando al fine settimana a venire; ognuno attendeva, più o meno pazientemente, che la giornata trascorresse per poter scendere dalla ruota e, finalmente, tornare nella propria casa.

Ogni tanto si udiva qualche strano scricchiolio ma nessuno sembrava preoccuparsi più di tanto, del resto, se il capo-giostra continuava ad osservarli con il volto sereno ed un sorriso lieto, non avevano alcun motivo di dubitare. E allora pensavano ‘va tutto bene’. Era ormai pomeriggio, il sole cominciava ad abbassarsi rendendo l’aria più fresca e la ruota cominciava a rallentare la sua corsa, creando un’atmosfera sempre più distesa e leggera. Poi, improvvisamente, ecco l’imprevisto, l’inaspettato che tutto cambia.

La rottura era avvenuta così, senza dare alcun preavviso e senza lasciare a nessuno il tempo di prepararsi. Il capo-giostra inizialmente aveva provato a tranquillizzare gli animi, sarebbe bastato avvisare il tecnico e portare un po’ di pazienza per risolvere la situazione, così diceva, ma le cose non andarono proprio così. Non si trattava del solito ‘guasto tecnico’, nulla che si potesse risolvere con qualche semplice indicazione: dopo aver borbottato a bassa voce al telefono, costringendo la mimica facciale ad un sorriso rassicurante, era giunto il momento di condividere con tutti la verità. Bisognava attendere che passasse il fine settimana per ricevere un aiuto esperto e consentire alle persone di tornare alla loro vita: la discesa dalla giostra avrebbe, infatti, compromesso inevitabilmente l’equilibrio dell’intera ruota fino a un possibile crollo.

Il capo-giostra era stato allora sommerso di domande e di un bisogno di rassicurazioni. La paura di cadere dalla ruota pervadeva gli animi, ognuno aveva le sue buone ragioni per desiderare di scendere come alla fine di ogni giornata e andare incontro ai propri progetti e alla propria libertà.

Cercando di non oscillare, con movimenti cauti e mani salde intorno alle barre, sarebbe stato possibile ridurre il margine di rischio; in fondo si trattava di resistere pazientemente fino al lunedì, così ognuno pensava e ripensava per darsi coraggio.

Potevano farcela, anzi: dovevano farcela.

Quella del venerdì era stata una serata strana e, dopo tanto parlare di quanto accaduto, tutti si erano addormentati profondamente in cerca di un riparo lontano nel tempo e nello spazio in cui trovare conforto.

Il sabato mattina, come ogni sabato del villaggio che si rispetti, anche se in quella situazione nuova, anomala, gli adulti si svegliarono colmi di buoni propositi: era così tanto tempo che non riuscivano a godersi il panorama offerto dalla ruota, presa solitamente dal suo girare incessante, e potevano finalmente ascoltare i propri pensieri, solitamente coperti dai rumori della giostra, dal parlottio della gente, raccontare delle storie ai propri bambini, godere del loro sguardo meravigliato. La paura era tanta ma, chiusi e protetti all’interno della propria cabina, quella giocata del destino rappresentava forse una possibilità. I bambini erano smarriti, non era mai capitato nella loro vita di poter osservare il tempo trascorrere così lentamente e, francamente, non sapevano proprio che farne. Allo stesso tempo, tuttavia, era facile per loro lasciarsi guidare dai grandi ed era bello vivere quel tempo familiare che una parte di loro aveva sempre desiderato, coltivato come una piccola fiamma accesa.

Stando attenti e restando uniti, il peggio sarebbe passato velocemente, il lunedì sarebbe arrivato in un battito di ciglia.

Il momento desiderato era giunto quasi rapidamente e quella mattina nessuno sembrava avere sonno, gli occhi erano tutti ben aperti, spalancati per la trepidante attesa. Il tecnico era arrivato, occhiali scuri e una valigetta stretta nella mano destra: passava in rassegna, scrutava con attenzione ogni ingranaggio, cercava di capire cosa si nascondesse, quale fosse l’origine del danno. Più passava il tempo, più la sua confusione pareva aumentare. Non poteva fare a meno di scuotere il capo. Era il capo-giostra che ora aveva l’ingrato compito di comunicare a tutti la necessità di prolungare quell’attesa, di dover aspettare una settimana o, chissà, forse due, per lasciare che tecnici esperti trovassero una soluzione a quel guasto inatteso, così inconsueto.

Le persone a questo punto erano davvero disorientate, si chiedevano come sarebbe stato possibile rimanere così immobili, sospendere all’improvviso la loro vita; d’altra parte si rendevano conto, però, che nulla in quel momento poteva essere più importante di proteggersi, di proteggere l’altro. A questo punto tutti avevano cominciato a stringersi silenziosamente all’interno delle proprie cabine, stando attenti a non sporgersi e, soprattutto, a non farle oscillare: era una questione di equilibrio, la noncuranza di una singola persona avrebbe potuto produrre oscillazioni a catena e mettere così in pericolo la vita di ognuno di loro.

Il tempo non era mai trascorso così lento, quella specie di frenesia da cui erano stati così a lungo presi per mano e guidati li aveva lasciati così, in sospeso, con un semplice ‘torno presto’ si era allontanata senza lasciare alcuna indicazione. Abituati a correre durante la giornata come in una maratona spalla a spalla con il tempo, gli adulti avevano sentito da subito l’istinto di riempire le loro giornate, di intrattenere, propositivi e stimolanti, i propri bambini: forse era questo l’unico modo che possedevano per reagire, senza sentire troppo chiaramente i propri pensieri, senza doversi chiedere, perciò, se fossero dei bravi genitori a tempo pieno.

La cabina poteva essere così ridipinta, i vetri tirati a lucido, i cuscini rinnovati con colori e fantasie e, perché no, un tocco di verde in più magari avrebbe reso l’atmosfera più calda. I bambini, dal canto loro, avrebbero potuto dipingere, inventare storie, giocare a carte ed aiutare ad impastare biscotti. Quante cose sarebbe stato possibile fare! Pensando e ripensando, si sarebbe potuto farsi venire sempre nuove idee, l’importante era riuscire a non fermarsi. La verità era che, per i bambini, quel tempo sconosciuto non era poi così male, sapeva di famiglia, di carezze sulla testa e di sorrisi condivisi, sapeva di calma e di riparo dalle proprie paure, quelle che spesso li avevano fatti sentire così fragili ed arrabbiati, che avevano fatto loro desiderare intensamente di poter essere stretti forte in un abbraccio, di sentirsi sussurrare piano ‘andrà tutto bene’.

Le prime giornate erano state scaldate dal sole, guardare verso il basso sporgendosi dalla cabina poteva suscitare molta paura ma, restando all’interno e dedicandosi alle cose semplici, diventava addirittura possibile, a volte, dimenticare quanto stava accadendo. Il rientro degli angeli custodi, quello sì, che era un momento in cui non si poteva tentare nessuna evasione o rimozione difensiva: gli angeli custodi, così venivano chiamati, ogni mattina scendevano cautamente dalle loro cabine e passavano l’intera giornata tenendo salda tra le proprie mani una fune con tutte le forze che avevano, permettendo in questo modo di mettere in sicurezza il più possibile la stabilità della giostra. I loro volti stanchi, le mani ferite e doloranti, tutto di loro raccontava una storia seria, una storia che faceva paura, che ricordava a tutti quelli al riparo ciò che poteva sembrare così surreale e lontano.

Una sera, sul calare del sole, una voce sottile aveva cominciato ad intonare una canzone: le note di quella melodia, come tante piccole chiavi, erano riuscite ad entrare nel cuore delle persone che subito si erano sentite pervadere da un senso di euforia e di fiducia, che dalla pancia era salito velocemente fino alla testa; era bastato uno sguardo complice per sentirsi così vicini gli uni con gli altri e per unirsi timidamente a quel coro ormai crescente di voci. Sera dopo sera, quel momento di condivisione era diventato ormai un appuntamento irrinunciabile, un’esperienza capace di risollevare gli animi, di dare loro quella carica che li avrebbe resi pronti ad affrontare il giorno successivo. O quasi.

Al termine della settimana, la possibilità di dover rimanere sospesi per quindici giorni ancora era ormai diventata certezza. Era necessario a questo punto riorganizzarsi perché bambini e ragazzi non smettessero di imparare: pensando e ripensando, era stato deciso di comune accordo di trasmettere ogni giorno una lezione attraverso l’altoparlante finora addetto alla diffusione della musica e delle comunicazioni di servizio all’interno del parco. Non sempre l’ascolto riusciva ad essere fluido, talvolta la voce risultava gracchiante ed era difficile comprendere bene; aggiungiamoci, inoltre, il fatto di non poter vedere i maestri di persona, di sentirsi inevitabilmente osservati dai propri familiari ed ecco che riuscire ad essere ricettivi, ancor prima che produttivi, poteva rivelarsi una vera e propria missione. Proprio in quanto al sentirsi osservati, quel che stava venendo a mancare a molti in quei giorni di invischiamento era la possibilità di garantirsi un proprio spazio personale o, quantomeno, di poterlo reclamare senza suscitare troppi sensi di colpa e risentimenti.

Era una grande prova di equilibrio per tutti, un equilibrio che certamente non sarebbe stato più lo stesso. Quel che all’inizio sembrava così difficile, impensabile quasi, stava ora accadendo piuttosto naturalmente, come ogni ‘legge della sopravvivenza’ racconta. Ognuno a suo modo stava trovando, un passo alla volta, la strada migliore per adattarsi all’imprevisto.

Incredibilmente la necessità impellente di riempire il tempo e di muoversi si stava mitigando, in quella pausa dalla realtà di ogni giorno alcune consapevolezze stavano emergendo gradualmente e si palesavano con estrema chiarezza: il modo migliore per fare tesoro di tale esperienza era portare con sé un bagaglio del viaggio introspettivo appena compiuto, collocare scatti e souvenir all’interno del proprio mondo interiore perché, anche tornando alla vita abituale, non venisse mai dimenticato.

Nel corso delle giornate poteva capitare che la cabina oscillasse, come se il vento, passando, si divertisse a darle una piccola spinta per poi scappar via veloce come solo lui sa fare: proprio in quei momenti, nonostante la ruota fosse completamente immobile, l’umore poteva cominciare un nuovo giro sulle montagne russe e salire, scendere, risalire e poi riscendere senza sosta fino alla fine di quella corsa impetuosa.

Era naturale che alcune domande risuonassero nella testa e che fosse difficile metterle a tacere: ci si chiedeva come sarebbe stato tornare alla vita abituale e quanto tempo avrebbe richiesto, se il lavoro ne avrebbe risentito, ma anche quando sarebbe stato finalmente possibile abbracciare di nuovo un caro amico. Insomma, nonostante fosse chiaro più che in altri momenti quanto la vita fosse un dono, in quel ciclo continuo di pensieri non risultava affatto semplice riuscire a porre un freno ed interrompere la corsa: conveniva lasciarla fluire fino al suo arrivo.

I bambini, dal canto loro, non sembravano altrettanto provati. Desideravano di certo poter sgranchire un po’ le gambe con una bella corsa, correre in bici e sdraiarsi sul prato con gli amici per riprendere un po’ il fiato ma, a parte questo, a parte un po’ di nostalgia per la libertà perduta, per il resto, tutto sommato, stavano vivendo quella rilassatezza che prima era difficile anche solo immaginare. Del resto, anche prima erano abituati a vivere gli amici per lo più affacciandosi dalla cabina, a raccontarsi sogni nel cassetto e ridere a crepapelle facendo a meno della vicinanza fisica. Ma era proprio così? Davvero riuscivano ad affrontare quei giorni sospesi a mente libera e cuor leggero?

Forse, in realtà, la loro vocina interiore poneva delle domande che spesso però rimanevano dentro, silenziose, senza che nessuno potesse ascoltarle, per poi cercare una risposta nel volto e nelle espressioni dei più grandi. Forse il guscio che già si erano costruiti intorno, in quella immobilità forzata, stava divenendo via via sempre più spesso, duro, e avrebbe reso ancor più difficile ritornare ad affacciarsi al mondo esterno. E’ vero infatti, seppur paradossale, che più a lungo genitori e figli trascorrevano il tempo fisicamente vicini più cresceva tra di loro un muro di silenzio che li rendeva emotivamente distanti: non essendo abituati infatti a dialogare, risultava difficile riuscire ad avere un confronto costruttivo che non facesse esplodere le parole come nel lancio di una navicella spaziale o, al contrario, che non creasse un nodo alla gola incapace di farle uscire, mettendole a tacere.

Finalmente il capo-giostra aveva delle buone notizie da dare, esisteva una soluzione che da lì a poche ore avrebbe permesso alla ruota di ricominciare a girare. Finalmente il momento tanto atteso era ad un passo. Quanto lo avevano desiderato! Quante cose avrebbero voluto fare per recuperare il tempo perduto! Si sentivano emozionati e grati al pensiero di poter trascorrere attimi che un tempo avrebbero considerato abituali ma che invece, ora, apparivano così pieni di vita.

Certo, forse all’inizio sarebbe sembrato tutto un po’ strano ma c’era quella voglia di non perdersi nulla, di catturare ogni istante e viverlo intensamente che spesso si avverte quando l’esperienza ci porta ad aprire gli occhi come per la prima volta e ci rende consapevoli dell’unicità che contraddistingue ogni singolo attimo.

Il grande entusiasmo che aveva pervaso i presenti era stato però contenuto da una comunicazione ulteriore, arrivata subito dopo, quando le grida di gioia di tutti avevano permesso al capo-giostra di riprendere a parlare. Se era vero che probabilmente esisteva una possibile soluzione al problema, era altrettanto vero che sarebbe stata sperimentale, che non era possibile prevedere se avrebbe funzionato o quale sarebbe stata la sua evoluzione: l’ingranaggio da sostituire, infatti, era ormai fuori produzione e l’unica possibilità era creare un nuovo meccanismo. Ricominciare portava con sé un margine di rischio, richiedeva il coraggio di compiere, tutti simultaneamente, un salto nel vuoto. Non sarebbe stato di certo facile uscire dalla propria zona di comfort, tollerare l’incertezza, l’instabilità che avrebbe accompagnato la nuova partenza fino ad un nuovo assestamento, ma era l’unica possibilità che avevano. Dopo aver cercato sostegno l’uno nello sguardo dell’altro, una persona alla volta cominciava la cauta discesa dalle proprie cabine attraverso delle funi. L’entusiasmo era tale che spesso occorreva richiamare all’ordine chi non prestava sufficiente attenzione alle indicazioni date, ma per loro era difficile riuscire a controllarsi, inebriati come erano. Si sentivano, infatti, come sotto l’effetto di un innamoramento, confusi ma al tempo stesso felici. Era, però, assolutamente necessario che non perdessero la rotta, che la stella polare non smettesse di orientarli tra le onde di quel mare di cui non potevano avere il pieno controllo: la stella polare andava ricercata dentro di sè e, una volta trovata, quando cioè si fossero ritrovati, le acque non avrebbero certo smesso di oscillare sotto l’effetto delle correnti, ma di sicuro sarebbe stato più difficile perdersi, sapendo da dove ripartire.

Una volta disposte le misure necessarie, era arrivato il momento di lasciare la giostra: dopo aver abitato quel tempo sospeso, ecco infine la possibilità di tornare al tepore delle proprie case. Era stata data la precedenza agli anziani, i più fragili in questa imprevedibile discesa, per poi far scendere, a turno, prima gli adulti e poi bambini e ragazzi, perché, sebbene solitamente fossero considerati le creature più delicate, da proteggere, in tale situazione potevano contare su un’agilità e una resistenza superiori a chiunque altro.

Solo una volta scesi e posti gli uni accanto agli altri si era potuto tirare un sospiro di sollievo e sentir dissolvere parte della tensione accumulata. In cerca di quella rassicurazione che avrebbe reso il riposo ristoratore, prima di allontanarsi avevano osservato ancora una volta il volto del capo-giostra ma questa volta, nonostante i suoi sforzi, il suo sguardo esitante aveva lasciato trapelare una mancanza di risposte.

Quella notte avrebbero goduto del rientro nella propria casa, sentendosi al sicuro e tuttavia estraniati, come al rientro da un lungo viaggio. Nel frattempo tecnici esperti ed angeli custodi avrebbero lavorato silenziosamente al nuovo ingranaggio che l’indomani avrebbe permesso alla ruota di ricominciare a girare e al tempo reale di tornare a scorrere. Se avrebbe funzionato o no, nessuno poteva ancora saperlo. Non avevano dunque certezze ma erano convinti di una cosa, fra tutte: andare avanti voleva dire non voltarsi indietro.

Almeno per quella notte avevano deciso di distogliere la mente da quanto accaduto e soprattutto di non crearsi aspettative rispetto alla nuova fase a venire. Al risveglio, riportata la mente conscia alla lucidità perduta, ogni persona aveva cominciato a prepararsi per questo nuovo inizio come in ogni primo giorno che si rispetti. Ognuno affrontava la situazione a suo modo: c’era chi correva frettolosamente verso la propria cabina con fare impavido, probabilmente avventato, chi non si sentiva ancora pronto ad una risalita che lasciava così tante incertezze e infine chi, nonostante nutrisse delle perplessità, era convinto di dover prendere il coraggio a due mani spinto della necessità di voler andare avanti, per rimettere in moto la giostra, per il bene collettivo. Del resto, ‘chi si ferma è perduto’ recita un noto detto popolare.

Al di là del vissuto personale di ciascuno, vi era comune accordo rispetto alla necessità di sentirsi più protetti, reclamando di diritto delle misure che rendessero ogni risalita ed ogni discesa meno rischiose: ecco allora che un’imbracatura e dei guanti protettivi avrebbero reso gli spostamenti abituali sicuramente meno rapidi e agevoli ma al tempo stesso più sicuri. Non era semplice stabilire come fosse meglio comportarsi, quanto potersi rilassare e quanto dover restare in allerta; al di là dei timori primordiali legati alla sopravvivenza propria e dei propri cari, il dubbio che la struttura della ruota non tornasse più alla stabilità di un tempo continuava a far capolino nella mente di ciascuno.

Tutti questi pensieri, tuttavia, assumevano un’importanza secondaria per coloro che avevano atteso il ritorno alla libertà come l’attracco di un’ancora di salvezza per sfuggire ad un disagio interiore, amplificato a dismisura in quella dorata prigione, o alla necessaria tolleranza di vicinanze dolorose e deleterie: essere resi di nuovo liberi, questa era l’unica vera nuova occasione per tutti loro.

I giorni passavano e le persone senza rendersene conto si adattavano sempre di più alla loro nuova realtà, con pazienza e resilienza. Sicuramente rimettersi in moto, con la condivisione partecipe di tutti, aveva aiutato ad allontanare inerzia e senso di solitudine ma, obiettivamente, molto era stato reso possibile dalle riflessioni maturate in quei lunghi giorni e dalla consapevolezza raggiunta su quanto tutto possa cambiare improvvisamente senza alcun preavviso, sull’importanza di potersi fermare, di poter osservare la propria vita e leggere, con occhi diversi, dinamiche disfunzionali ormai consolidate e tentare di produrre un reale cambiamento.

Del resto, non è questo il saggio segreto della vita, riuscire a tollerare l’incerto e trovare il coraggio di mettersi in discussione?

 

Ricordo di Arthur Freeman

È scomparso, probabilmente per una infezione da coronavirus, Arthur Freeman, psicoterapeuta, ricercatore e studioso cognitivo comportamentale dai molteplici interessi.

Freeman partecipò storicamente alla elaborazione del modello cognitivo comportamentale classico sviluppandolo in direzioni diverse da quelle iniziali della depressione e dei disturbi d’ansia, incoraggiandone l’applicazione a scenari clinici fino a quel momento poco esplorati come la terapia di gruppo per adolescenti e bambini (Christner, Stewart e Freeman, 2007), gli interventi cognitivi in situazioni di crisi e pronto intervento (Dattilio e Freeman, 1994), l’intervento sociale (Freeman, 2006) o quello educativo e scolastico (Mennuti, Freeman e Christner 2006) e soprattutto la terapia cognitiva per i disturbi di personalità, curando con Beck in persona la stesura del testo di riferimento “Cognitive therapy of personality disorder” (Beck, Davis, Freeman, 2015).

Già questa opera di allargamento del campo di applicazione della terapia cognitiva comportamentale classica segnalava l’apertura mentale di Arthur Freeman, eppure non poteva bastargli. Freeman collaborò anche allo sviluppo di trattamenti cognitivi diversi da quello di Beck, come la terapia razionale emotiva e comportamentale di Ellis o gli orientamenti costruttivistici di Mahoney. Eccolo quindi scrivere un lavoro di analisi dell’azione dei pensieri irrazionali insieme ad allievi diretti di Ellis come Daniel David e Raymond DiGiuseppe (David, Freeman, DiGiuseppe, 2010) oppure curare con Mahoney un libro sulla cognizione in senso ampio in psicoterapia (Freeman, Mahoney, DeVito, Martin, 2004). Ai congressi era facile incontrarlo a tavole rotonde di confronto tra diversi modelli, tavole in cui egli rappresentava sia l’esponente del modello classico di Beck che lo spirito critico che cercava stimoli, punti di discussione ma anche di contatto. Il suo non era un facile eclettismo, dato che teneva ben ferme le differenze tra i vari orientamenti, ma un indefesso confrontare rigoroso e scientificamente fondato.

Era un uomo cordiale e aperto alla collaborazione. Poche settimane fa alla Sigmund Freud University di Milano, purtroppo non di persona ma online a causa del coronavirus, ha fatto una delle sue ultime lezioni dedicata alle influenze della terapia psicodinamica sulla terapia cognitivo comportamentale. Anche questo suo ultimo argomento testimonia la varietà dei suoi interessi. Col senno di poi comprendiamo che era già provato per l’infezione da coronavirus ma lui non aveva voluto annullare l’incontro. In Italia è stato tradotto e pubblicato il suo libro sui disturbi di personalità già citato, purtroppo da tempo fuori catalogo. Tuttavia siamo felici di annunciare che ne stiamo curando una nuova traduzione e pubblicazione per l’anno prossimo. È il migliore saluto che possiamo fare a Freeman.

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep- 4/5 La paura di abbandonare il rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

Il podcast è distribuito su:

 


QUARTA PUNTATA DEL PODCAST:
LA PAURA DI ABBANDONARE IL RIMUGINIO

 

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep. 3/5 L’incontrollabilità del rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

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TERZA PUNTATA DEL PODCAST:
L’INCONTROLLABILITA’ DEL RIMUGINIO

 

 

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Ep. 2/5 Le forme del rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

 

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Tirocini impossibili e specializzazioni congelate: la Lettera aperta al Ministro Manfredi

Salve, siamo gli studenti delle seguenti scuole di psicoterapia italiane:

Istituto di Analisi Immaginativa, Slop Scuola Lombarda di Psicoterapia, Studi Cognitivi, Studi Cognitivi e Ricerca Ptcr di Mestre, C.I.S.S.P.A.T, SICC, SSPC IFREP (sede Mestre), IACP Milano, Sfpid Roma, Scuola Italiana di Cognitivismo Clinico SICC, Istituto Gabriele Buccola, scuola di psicoterapia cognitiva di Palermo, FormaMentis, Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Psicoterapia Training School, Istituto Walden Roma, Analisi transazionale, CRP Centro Ricerche in Psicoterapia, SICC SRL, IGB Istituto Gabriele Buccola Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Scuola di neuropsicologia La Sapienza, Scuola di specializzazione in Psicoterapia Psicosomatica del Cristo Re, Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) e Associazione di Psicologia Cognitiva Comportamentale (APC) di Verona, Ancona, Grosseto, Lecce, Roma, Reggio Calabria, Grosseto, Napoli, Bari, Iefcos, Scuola Adleriana di Psicoterapia, C.R.P. Centro per la Ricerca in Psicoterapia, SPIC di Busto Arsizio (Varese), IGB Scuola di Psicoterapia Cognitiva

È nostro interesse e necessità testimoniare e chiedere supporto per il difficile periodo dal punto di vista formativo inerente la conclusione dei nostri studi e l’adempimento delle ore annuali di tirocinio obbligatorio. Tale difficoltà è dettata dall’emergenza sanitaria in atto che ha avuto un notevole impatto anche nel nostro percorso formativo come psicoterapeuti.

Infatti, nonostante le molteplici richieste inoltrate ai vari responsabili delle strutture ospitanti dove noi psicoterapeuti in formazione svolgiamo il nostro tirocinio (aziende ospedaliere e strutture private convenzionate con il SSN) ancora oggi per alcuni di noi non è possibile svolgere e/o dare continuità al percorso di tirocinio obbligatorio per la specializzazione. Ciò è dovuto alle misure che tali strutture hanno adottato a seguito dell’emergenza sanitaria in corso tra cui, appunto, la sospensione dei tirocini medesimi. Altri colleghi ancora, pur avendo già un tirocinio attivo, non stanno ricevendo l’autorizzazione a rientrare in servizio per terminare le ore. Infine, diverse strutture non stanno permettendo nemmeno l’espletamento del tirocinio in modalità online (il MIUR oltretutto si è espresso sentenziando che il massimo delle ore espletabili da remoto può essere soltanto il 30% delle totali).

Secondo le ultime direttive ministeriali, gli studenti dei quarti anni qualora non riuscissero ad effettuare il tirocinio entro il 2020, saranno obbligati a spostare la data di specializzazione all’anno successivo finché le ore non siano state completate, con il rischio di dilatare le tempistiche, spendendo il doppio del tempo e delle energie.
Per tali ragioni terminare le ore di tirocinio, come da obbligo formativo, si sta rivelando un’impresa impossibile. La conseguenza è che ciò mette seriamente a rischio la nostra specializzazione.

Abbiamo quindi deciso di unirci nello scrivere la seguente lettera al Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, in cui spieghiamo la complessità della nostra condizione e chiediamo a lui supporto.

 

Gentile Ministro Manfredi,

Siamo degli studenti delle scuole di specializzazione in psicoterapia italiane.
Le scriviamo questa lettera facendoci portavoce di una situazione che ci mette in grande difficoltà e non ci permette di portare avanti il percorso di studi da noi scelto.

Nelle scorse settimane abbiamo segnalato alla direzione delle nostre scuole la complicatissima situazione che ci stiamo trovando a vivere riguardante l’espletamento del tirocinio curricolare: molte delle Aziende ospedaliere interpellate, così come le strutture private convenzionate con il SSN, non attiveranno nuovi tirocini nel 2020. Pertanto, nonostante ci siano tutor disponibili ad accoglierci, la domanda viene respinta dagli uffici preposti. Oltretutto le suddette comunicazioni vengono fornite telefonicamente dopo ripetuti tentativi di mettersi in contatto con le strutture; in molti casi non otteniamo neanche risposta alle mail di richiesta tirocinio inviate.

Per coloro che avevano già attivato il tirocinio nel mese di gennaio e febbraio 2020, la situazione non è migliore: molte strutture ospitanti infatti non permettono di rientrare in sede per completare le ore, fino a data da destinarsi. Facciamo presente che il lockdown è stato posto in essere a inizio Marzo, pertanto molti di noi hanno avuto modo di svolgere solo una piccola percentuale delle ore previste. Ricordiamo, infine, che non tutte le strutture acconsentono ad attivare un tirocinio online e che comunque le normative Ministeriali a tal proposito parlano chiaro: si possono espletare da remoto al massimo il 30% delle ore totali previste.

Secondo le ultime direttive, gli studenti dei quarti anni, qualora non riuscissero ad effettuare il tirocinio entro il 2020, saranno obbligati a spostare la data di specializzazione all’anno successivo finché le ore non siano state completate, con il rischio di dilatare le tempistiche, spendendo il doppio del tempo e delle energie.

Dai direttivi delle nostre scuole ci è stato risposto di seguire le disposizioni Ministeriali, che purtroppo risultano totalmente scollate da quello che è il contesto reale e attuale delle strutture ospitanti.
La situazione attuale non dipende da volontà personali di non svolgere il tirocinio ma da una condizione eccezionale causata da una pandemia globale.

Il nostro interesse è di segnalare la complessa situazione e chiedere un’attenzione e una tutela da parte del MIUR.

Porgiamo cordiali saluti,

Gli allievi delle scuole di psicoterapia italiane

 

La presente lettera è stata firmata dai seguenti studenti specializzandi in psicoterapia, raggiungendo 257 adesioni:

Adriano Trono Federica Lodi Rizzini Marta Barcaccia
Alessandra Colombo Federica Murabito Marta de Luca
Alessandra De Martino Federica Paganelli Marta Santonastaso
Alessandra Inglese Federica Pulito Martina Bellucci
Alessandra Perugini Festo Terenzio Martina Maffei
Alessandra Sgaramella Flavia Pizzicannella Martina Nicolis
Alessia Pappalardo Francesca Barbieri Martina Zaccaria
Alessia Spotti Francesca Cannone Matteo Cupellini
Alessia Stelitano Francesca Evangelista Melania Raccichini
Alice Tellini Francesca Girelli Melania Severo
Alice Zanini Francesca Grilli Michela Greco
Ambra Contardo Francesca Rascio Michela Marazzi
Andrea De Salvo Francesca Rizzuto Michele Antonelli
Andrea Galentino Francesca Rossini Michele Martino
Andrea Lusuardi Francesca Rubino Michele Storti
Andrea Panato Francesca Siino Monica David
Angela Manghisi Francesco Maria Carissimo Nadia Palamin
Anna Brentegani Francesco Pompei Nancy Drago
Anna De Luca Francesco Rizzo Nicoletta Agostinelli
Anna Maggio Fretti Marika Noemi Alagia
Anna Maria Carratelli Gianluca Cruciani Noemi Botticelli
Anna Maria Cutrupi Gilda Picchio Noemi Solarino
Anna Maria Mastrola Giordan Signoretto Nunzia Losito
Anna Paola Montagnoli Giorgia Caprara Ornella Bellomia
Anna Sardella Giorgia Petrova Pamela Gualdani
Annalina Pacifico Giorgio Carducci Pamela Saccoccio
Annalisa De Lucia Giovambattista Lo Russo Paola Montani
Antonella Bonifacio Giovanbattista Andreoli Paolo Spina
Antonella Calvio Giulia Armani Piera Stano
Antonella Calvio Giulia Baldini Rachele Dileo
Antonella de Fazio Giulia De Angelis Ramona Fimiani
Arianna Lucia Giulia Giuriato Ramona Salvati
Arianna Ventrelli Giulia Gozzi Reana Di Girolamo
Barbara Parlagreco Giulia Natarelli Riccardo De Cesaris
Barbara Trimarco Giulia Ongaro Riccardo Valli
Basei Arianna Giulia Perusi Roberta Cortese
Beatrice Salvetti Giulia Rossetti Roberta Lucia novello
Carla Perisano Giulia Salvi Roberta Romano
Carolina Papa Giulia Sorge Roberta Schifano
Cecilia Delaini Giulio Perelli Rosanna De Angelis
Cecilia Franchini Giuseppe De Santis Rosanna Turrone
Chiara Bagattini Grazia Basile Rossana Otera
Chiara Bolcato Greta Pasqualini Sabrina Consumati
Chiara Carnovale Greta Pozzetti Sabrina Dominello
Chiara Giannini Guyonne Rogier Sanfilippo Pietro
Chiara Maria de leone Ilaria Bernardon Sara Parlati
Chiara Miceli Ilaria Rizzo Sara Sirianni
Cinzia Calluso Ilenia Vallinoto Sara Terranova
Cinzia Governatori Irene Aganetto Serena Pericone
Cinzia Marcuzzo Irene Centomo Silvia Di Vara
Claudia Giartosio Irene Nisi Silvia Giorgione
Claudia Lucarini Irina Corrado Silvia Loppa
Claudio Contrada Isabella Federico Silvia Pucci
Cristina Fonte Jessica Brescia Silvia Ritacco
Cristina Parente Jessica Bruno Silvia Scrimieri
Dalila Cantale Jessica Di Tommaso Silvia Tulla Nesto
Damun Miri Lavasani Jessica Socci Simona Bartiromo
D. Di Sciascio Katarina Faggionato Simona Elia
David Maddalon Laura Blasi Sofia Bonamassa
De Lorenzis Laura De Zorzi Sofia Sambo
De Vita Maria Rosaria Laura Magro Solaria Favale
Delia Trapani Letizia Fidani Stefania Chines
Denise Grezzo Letizia Salvalaio Stefania Garzia
Elena Chiffi Luana Augusta Stefania Greco
Elena Facci Luana Roccatani Susanna Simeoni
Elena Gambella Luca Burigana Tania Fanelli
Elena Guidotti Luciano Consalvi Tanja Valentic
Elena La Gattuta Lucrezia Meduri Teresa Olivieri
Elena Martorella Ludovica Foglia Tranquilli Sara
Elena Puttini Luisa Casagrande Valentina De Santis
Elena Tonolli Majka De Tommaso Valentina Spagnoli
Eleonora Poli Marco Giugliano Valentina Varalta
Eliana Sbardella Marco Gussoni Valentina Verzari
Elisa Caputo Margherita Montolli Valeria Centello
Elisa Evangelista Maria Chiara Pipolo Valeria Vaccaro
Elisabetta Giuranno Maria Cristina Tata Valerio Pellegrini
Elisabetta Raniti Maria Grazia Nuzzo Vanessa Cianchi
Emma Lerro Maria Pia Pietropaolo Vanessa Ventre
Erica Esposito Maria Sole Lerza Veronica Ferrari De Stefano
Erika Maniscalco Maria Valentina Scaltrito Virginia Brunetti
Ermelinda Orsini Mariachiara Orlacchio Vita Picilli
Ester Fanton Mariagloria Favotto Vittoria Zaccari
Eugenia Corallo Marianna Caroprese Ylenia Scorrano
Fabiana Megna Marianna Liotti  
Fabrizia Tudisco Marika Iaia  
Federica Aloia Marilisa Ciorra  
Federica Lavilla Marina Carconi  

Curare i Disturbi dell’Alimentazione nel post-lockdown. Intervista agli esperti: Dr. Dalle Grave, Dott.ssa Calugi, Dott.ssa Bertelli, Dott.ssa Ramponi

Lo scorso primo luglio la Dott.ssa Rosaria Nocita, del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano, ha intervistato quattro professionisti che si occupano di pazienti affetti da Disturbi Alimentari.

 

Il rientro alla quotidianità ha portato le persone con problematiche alimentari a confrontarsi nuovamente con situazioni di disagio: esposizione del proprio corpo, ripresa di contatti sociali, ripristino della routine con conseguenti modifiche al regime alimentare, riattivazione di metodi compensativi.

Le crititicità di questo periodo consistono sia nell’affrontare i disagi propri del Disturbo dell’Alimentazione, antecedenti alla pandemia, sia nel fronteggiare le conseguenze del lockdown.

Ma cosa emerge nel quadro clinico di pazienti con Disturbi dell’Alimentazione dalla fine del lockdown? Quali sono le ‘sfide’ da affrontare in questo particolare momento? Quali conseguenze si osservano attualmente in seguito alla convivenza prolungata tra genitori e figli?

Gli esperti intervistati hanno condiviso preziose osservazioni su questi temi e hanno esposto riflessioni cliniche di grande valore, secondo le diverse aree di competenza e l’esperienza in contesti di cura differenti di ciascuno.

 

DISTURBI ALIMENTARI E LOCKDOWN – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE AGLI ESPERTI:

 

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Psicologia in cucina – La sparizione della farina spiegata dalla psicologia

Cucinare è un modo per dimostrare affetto e attenzione a chi ci è vicino e condividerà con noi quelle pietanze. Ma è anche un modo per prenderci cura di noi stessi ed esprimere il nostro umore.

 

Avrete sicuramente notato come nel periodo di quarantena dovuta al Covid-19 si sia riscontrato un fenomeno curioso: nei supermercati è sparita la farina! Esiste uno stretto legame tra psicologia e arte del cucinare. Non solo per un’indiscutibile necessità di cibo per la nostra sopravvivenza ma anche per il significato evidente che assume sia in campo sociale che come pratica per favorire uno stato di benessere personale. Una sorta di ‘mindfulness’, un percorso interiore per conoscerci meglio e, perché no, per farci conoscere meglio da chi ci sta intorno. Perché il nostro rapporto con la cucina dice molto anche di noi.

Perché è sparita la farina?

Indubbiamente le circostanze hanno avuto il loro peso. Trovandosi a passare molto più tempo a casa, numerose persone, molte più di quelle che lo fanno abitualmente, hanno deciso di utilizzare il loro tempo cucinando. Dolci, pizze, pane, pasta fatta in casa. Anche persone che normalmente non si erano mai dedicate alla cucina non solo per mancanza di tempo ma anche perché non si erano mai sentite particolarmente in sintonia con i fornelli.

Sicuramente cucinare ha un grande valore di condivisione, è un’attività che spesso presuppone un successivo momento in cui un gruppo, che in questo periodo possiamo restringere ad una famiglia, si ritrova intorno ad un tavolo e si guarda negli occhi. Passa del tempo insieme, lasciando da parte almeno per un po’ altre distrazioni, comunica, si confronta. Il poter sottolineare questo momento condividendo qualcosa che gratifichi i sensi, come il gusto, diventa un’occasione in più per far sì che l’umore e la disposizione d’animo dei partecipanti siano quanto di meglio si possa desiderare.

Cucinare ha appunto una forte valenza sociale, come ci spiega il Dott. Antonio Ceresa, neuroscienziato, nel suo libro La Cooking Therapy: Come trasformare la cucina in una palestra per la mente. Applicazioni per pazienti neurologici. La Cooking Therapy, ci spiega nel suo libro, sta diventando un vero e proprio trattamento medico per ridurre la disabilità in varie patologie neurologiche (ictus, demenze, trauma cranico) e psichiatriche (dipendenze da sostanze, schizofrenia, anoressia nervosa).

Cucinare ha infatti il potere di astrarci da quello che circonda, allontana altri pensieri e fa sì che ci concentriamo su quello che stiamo facendo in quel preciso momento. Ci concede una tregua da quello che normalmente occupa la nostra mente, funzione particolarmente utile soprattutto quando questo qualcosa è rappresentato da preoccupazioni e pensieri negativi. Allenta lo stress (manipolare gli ingredienti, come ad esempio impastare la farina, ha la medesima funzione rilassante delle note palline antistress), insegna a gestire il tempo senza ansie, inoltre ci fa sentire padroni della situazione, in grado di controllarla e prevederla, con effetti calmanti e rassicuranti.

Cucinare come forma di espressione

Il modo in cui cuciniamo dice anche molto di noi, ad esempio ci fa capire quanto siamo creativi, quanto siamo in grado di fronteggiare un imprevisto (vi è mai capitato di essere alle prese con una ricetta e nel bel mezzo della sua realizzazione accorgervi che vi manca un ingrediente essenziale?), quanto sappiamo essere pazienti nel differire una gratificazione e quanto siamo capaci di affrontare una delusione, qualora la nostra ricetta risultasse al di sotto delle aspettative o il forno decidesse di giocarci qualche brutto scherzo.

Cucinare è un modo per dimostrare affetto e attenzione a chi ci è vicino e condividerà con noi quelle pietanze. Ma è anche un modo per prenderci cura di noi stessi ed esprimere il nostro umore: oggi cucino questo perché è in sintonia con il modo in cui mi sento. Se cuciniamo solo per noi stessi abbiamo l’occasione di metterci in gioco senza sentirci giudicati, liberi di lasciarci andare ed essere noi stessi, e liberi di valutare i risultati che avremo raggiunto senza paura di essere criticati. Inoltre è risaputo che prendersi cura di sé stessi ha il potere di rendere più felici.

Da soli o in compagnia

A seconda che ci si dedichi all’arte culinaria da soli o in compagnia, obiettivi, effetti e benefici variano.

Cucinare da soli ci permette di ritagliarci del tempo esclusivamente per noi stessi, organizzarci, gestirci, prendere l’iniziativa, decidere come comportarci, ad esempio se seguire un piano prestabilito o mettere in gioco la nostra creatività. E il risultato (se tutto sarà andato bene) sarà una gratificazione alle nostre abilità.

Se cuciniamo in gruppo, condividiamo un’esperienza, ci confrontiamo con gli altri, collaboriamo per il raggiungimento di un obiettivo comune, dividiamo i ruoli e gli spazi, cementiamo l’intesa e otteniamo una gratificazione che riguarda il lavoro di squadra e la capacità di interagire più che le singole abilità.

Addirittura alcune aziende si affidano alla cucina per la loro strategia di team building, ossia quelle pratiche messe in atto nell’ambito delle risorse umane per formare un gruppo coeso e in grado di esprimere al meglio le potenzialità di ciascuno. Colleghi che hanno condiviso un’esperienza ai fornelli ne hanno ottenuto notevoli benefici sia dal punto di una maggiore capacità di collaborare che di una maggiore creatività.

A volte cucinare diventa anche un pretesto per mantenere vivi i contatti con gli amici, persone che magari non sono con noi in questo momento ma con le quali scambiamo ricette, esperienze e consigli. Consolida il nostro ruolo all’interno di un gruppo e allontana la paura di sentirci soli.

Una nuova concezione

Anche la concezione stessa della cucina, intesa come spazio dove sperimentare la nostra abilità ai fornelli, è cambiata radicalmente negli ultimi anni. Se una volta le cucine erano locali a sé dove gli ospiti esterni non avevano accesso, oggi cucinare è sempre più un atto di condivisione. Le cucine sono più aperte, a volte sono un tutt’uno con il salotto, e vedere la padrona di casa intenta a cucinare mentre si aspetta di pranzare, magari collaborando agli ultimi ritocchi, è visto come qualcosa di sempre più normale e piacevole.

Dunque, da soli o in compagnia, cucinare ci aiuta a confrontarci con noi stessi, con le nostre abilità e i nostri limiti, facilita il confronto con gli altri e la capacità di collaborare. E se vi sentite negati per la cucina, è il momento di sfatare questa convinzione: è infatti dimostrato che uscire dalla propria comfort zone e affrontare una situazione che fa sentire a disagio accresce l’autostima e la fiducia in noi stessi! Provare per credere.

Il Rimuginio: il podcast sul pensiero ripetitivo – Introduzione: cosa si intende per rimuginio

Il rimuginio è quella catena di pensieri che intrappola la nostra attenzione, ci isola dentro la nostra mente e ci tiene ancorati a rabbia, ansia e tristezza, rendendole perseveranti.

 

In termini più tecnici, rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, di cercare quella chiave di volta che ci permetta di uscire dalle sabbie mobili, talvolta è un’abitudine appresa in giovane età di cui ormai siamo scarsamente consapevoli. In ogni caso oggi possiamo dire che il rimuginio è un processo psicopatologico con una valenza transdiagnostica, vale a dire un cardine portante della sofferenza psicologica, indipendente dal contenuto con qui questa si manifesta.

L’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato noi autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato ai colleghi psicologi e psicoterapeuti. Molte persone che hanno assistito alle presentazioni o che hanno letto il libro ci hanno scritto per chiederci delucidazioni o per promuovere una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Per rispondere a questa curiosità abbiamo scelto di tradurre e sintetizzare alcuni messaggi chiave del libro in questa serie di trasmissioni.

Il libro è un manuale per psicoterapeuti, questo podcast vuole essere un aiuto per tutti, con l’ambizione di trasmettere utili informazioni rigorose e chiare nonché qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

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Pensieri, linguaggi e spazi della rete: come e perché influenzano la mente degli adolescenti

Tendiamo un po’ tutti a sminuire l’importanza dei pensieri e, in particolare, a minimizzare il ruolo che essi rivestono nella determinazione dei comportamenti.

 

La nostra mente è bombardata e invasa quotidianamente da una serie infinita di concetti, idee e immagini che incidono sulle dinamiche di funzionamento del nostro cervello, generando continui processi di adattamento e cambiamento. Allorquando si tratti di suggestioni negative siamo indotti a ritenere, erroneamente, che transitare o indugiare per qualche attimo in pensieri di questo tipo non possa recare alcun danno.

In realtà, a causa della sua plasticità, il cervello si trasforma a seconda della natura degli impulsi e degli stimoli che riceve o di cui è oggetto, orientando conseguentemente le scelte e lo stile di vita che adottiamo. Ciò significa che, pur non avendone coscienza, siamo al centro di una violenta ‘competizione’ tra contenuti mentali diversi che cercano, rispettivamente, di avere la meglio. Ciascuno di essi, infatti, cerca di prevalere sull’altro con il proposito di accaparrarsi il controllo delle azioni e dei comportamenti. E’ evidente che, in questa lotta senza confini tra pensieri, siamo sensibilmente influenzati e condizionati dall’uso del linguaggio in quanto ‘soggetti parlanti’ (Dennett, 2000).

Nel medesimo istante in cui prestiamo il consenso, iniziando a colloquiare con le suggestioni che provengono dall’esterno, consentiamo alle stesse di insinuarsi nella nostra mente. Le evidenze scientifiche comprovano, peraltro, che la forza dei pensieri è tale da influenzare anche il corpo e la salute fisica, oltre che quella psichica. Invero, in alcuni casi gli stati d’animo indotti dai pensieri si spingono ogni oltre limite, originando anche malattie fisiche e sofferenze psicologiche.

I meccanismi mentali alla base della formazione dei pensieri hanno suscitato l’interesse della comunità scientifica e, in particolare, delle neuroscienze, le quali, analizzando il contributo di fattori genetici e ambientali alle differenze cognitive individuali, hanno prodotto nel tempo indicazioni assai utili.

Se si volge lo sguardo al mondo del web il processo di formazione dei pensieri diventa ancor più complesso e delicato. Alla luce dei profondi mutamenti intervenuti negli ultimi decenni, la rete, infatti, non è più da intendersi come mero strumento, avendo ormai ‘inglobato’ la mente e il linguaggio dell’individuo. Secondo l’ipotesi della ‘mente estesa’ (Clark – Chalmers) i confini della mente variano a seconda dei legami causali che il cervello intrattiene con porzioni di mondo fuori da sé. In questo quadro l’ambiente esterno non si limita a giocare un ruolo di input per i processi cognitivi e mentali che hanno luogo nella testa, ma viene inglobato nei processi stessi in qualità di veicolo esteso dei pensieri (Clark & Chalmers, 1988). Si è osservato, al riguardo, che l’ambiente tecnologico in cui siamo immersi, con cui abbiamo stabilito una simbiosi biotecnologica, diventa ogni giorno più personalizzato, tagliato su misura dei bisogni di ciascun utente, più trasparente, integrato nelle nostre vite e disegnato per aiutarci a portare a termine i nostri progetti tanto da diventare invisibile. Più questo mondo intelligente risponde alle intime esigenze dell’individuo, più è difficile stabilire dove finisca la persona e inizi l’ambiente tecnologico con cui essa co-evolve (Piredda & Gola, 2016).

Gli effetti che l’abuso tecnologico e la navigazione in rete generano nella mente degli adolescenti sono palesi. E’ stato rilevato, peraltro, che l’isolamento dei giovani nel mondo virtuale, oltre a sottrarli alle relazioni con l’ambiente, può condurre a diverse forme di psicopatologia (hikikomori, ludopatia, internet addiction, etc). In alcuni casi a causare il disagio o l’isolamento sociale può essere anche il cyberbullismo (Pirelli, 2018). Si aggiungano le tipologie di devianza correlate all’utilizzo della rete che, a seconda dei casi, vedono i giovani come autori o vittime di reato: sexting (invio di testi o immagini sessualmente esplicite tramite internet); grooming (adescamento online di minori a fini sessuali con tecniche di manipolazione psicologica); revenge porn (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, anche a scopo di estorsione, senza il consenso dell’interessato); happy slapping (aggressione con schiaffi di sconosciuti per strada ripresa e pubblicata sul web). Capita spesso che a farla da padrone sia la cultura del branco, la logica di gruppo pseudo-criminale di fronte alla quale le individualità dei singoli arretrano o, addirittura, scompaiono. Esistono poi i cosiddetti ‘giochi di morte’ indotti e veicolati dalla rete, ripresi e postati sui vari siti: blue whale (mettere in atto 50 azioni autolesionistiche, di preparazione alla morte, che culminano nel suicidio); balconing (gettarsi in piscina dai balconi delle camere d’albergo); ghost riding (abbandonare lo sterzo dell’auto a folle velocità, ballando sul cofano o sul tetto); car surfing (cavalcare una macchina in corsa come se fosse una tavola da surf); daredevil selfie (effettuare autoscatti in condizioni o situazioni estreme). Si tratta di esperienze emozionali molto forti in cui non esiste alcun senso del limite. A completare il quadro c’è il web sommerso (deep web), cioè l’insieme delle risorse informative non indicizzate dai normali motori di ricerca cui si accede mediante un linguaggio telematico sofisticato ovvero tramite app e siti istituzionali apparentemente normali. Nel deep web accade un po’ di tutto: cessione di armi o droga, prostituzione, pedopornografia, vendita di video violenti o macabri che ritraggono episodi di bullismo, stupri, suicidi.

A proposito della replicazione automatica dei pensieri assumono rilievo gli studi della memetica, i quali mostrano in che modo il cervello viene influenzato da alcuni meccanismi. La nascita della memetica si deve al biologo evoluzionista Richard Dawkins che nel libro Il gene egoista utilizzò per la prima volta il termine ‘meme’, un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione (simile al gene), appresa e custodita nella memoria individuale, che si trasferisce da individuo a individuo tramite replicazione.

I memi sono modi di fare qualcosa o di costruire qualcosa (non istinti), si trasmettono per via percettiva (non genetica) e hanno una propria fitness riproduttiva, proprio come i virus. I memi mutualistici sono diventati ormai la cassetta degli attrezzi, il vocabolario di ciascuna persona, e ciò perché ‘il linguaggio si è evoluto per adattarsi al cervello prima che il cervello si evolvesse per adattarsi meglio al linguaggio’ (Dennett,2018). Gli studi recenti confermano che la struttura del linguaggio non è determinata dalla funzione comunicativa, ma è l’esito di un progetto biologico che ha dotato gli esseri umani di un sistema di ricombinazione di simboli (Chomsky et al., 2019).

L’esplosione dell’uso dei media digitali e l’avvento dei social media hanno determinato il proliferare di ricerche scientifiche basate sull’analisi dell’impatto di determinati contenuti mediali. È il caso degli internet memes (file di testo, link, immagini, brani o video diffusi online), di cui si studiano le linee di discendenza e le modificazioni. E’ stato evidenziato, in proposito, che i meme mutano e si evolvono lasciando una traccia di dati che può essere studiata con un rigore metodologico senza precedenti (come nel caso di una delle prime ricerche sulla diffusione di informazioni via facebook o dei numerosi studi sul tipo di reazione emotiva suscitata da un contenuto su twitter). Oggi analisti e scienziati sarebbero in grado di tracciare la diffusione di idee e comportamenti in tempo reale con opportuni algoritmi (Liva, 2019).

C’è chi mette in guardia circa la complessità delle reti e la diffusione virale di idee e comportamenti, ponendo interrogativi su come emergono, si assestano, scompaiono o si propagano le idee e i comportamenti sociali. Fu Susan Balckmore a coniare qualche anno fa il termine tecnomemi i quali, a differenza dei memi, si riproducono senza bisogno di essere ospitati in cervelli umani; possono riprodursi ed evolvere saltando da una macchina all’altra mediante reti tecnologiche indipendenti. Si ipotizza addirittura che avremmo costruito, sia pure non intenzionalmente, una rete globale intrecciata che ha le caratteristiche di un ‘sistema complesso’ da cui in futuro potrebbero emergere proprietà imprevedibili. Tale approccio scientifico propone un interrogativo inquietante: ‘se mai davvero nascesse una mente o un pensiero autonomo o una coscienza di ordine superiore alla nostra da questa struttura fisica e informatica che abbiamo costruito, ce ne accorgeremmo?’ (Eletti, online).

Quanto ai nuovi linguaggi della rete e ai pericoli che incombono sugli adolescenti, l’influsso del mondo digitale è tale da poter oltrepassare qualsiasi confine, residuando pochi margini di manovra a tutela del singolo individuo. Ciò significa che, lungo questo percorso tortuoso, i più giovani corrono inevitabilmente il rischio di elaborare false immagini di sé, non riuscendo a trovare l’equilibrio tra identità personale, identità sociale e identità virtuale. Invero, l’identità e la struttura del sé, specie nella fase dell’adolescenza, rischiano di essere del tutto deformate o alterate dai meccanismi psicologici della rete (in particolare dei social).

Una delle caratteristiche dello sviluppo in adolescenza è trasformare le identità frammentate in un sé ‘integrato’. Considerato che questo processo si avvale delle continue sperimentazioni su internet e delle strategie di presentazione del sé finalizzate alla compensazione e alla facilitazione sociale (superare la timidezza, agevolare le relazioni), il risultato può essere di due tipi. 1) L’esplorazione in rete di nuove identità offre ulteriori opportunità, oltre alla famiglia e alla scuola, di scoprire sé stessi e accettarsi, favorendo lo sviluppo dell’unità del concetto di sé. 2) Gli esperimenti di identità in rete si rivelano dannosi in quanto la sovraesposizione a diverse relazioni e idee aumenta i dubbi circa il vero sé (Minelli, 2018).

In che modo allora tutelare gli adolescenti (e non solo) dal meccanismo perverso che li rende prigionieri e schiavi della raffica di contenuti mentali provenienti dal mondo digitale?

Ebbene, non è tanto o solo agli oggetti dei pensieri che occorre prestare attenzione, ma soprattutto alle loro ‘rappresentazioni’, non sottovalutando il fatto che una delle attività più frequenti è parlare a se stessi e che tramite la memoria e l’immaginazione i pensieri continuano a sopravvivere anche quando gli oggetti che li hanno prodotti non ci sono più.

Su un piano analogo e sovrapponibile alcuni suggerimenti utili derivano dalla prossemica, la disciplina che analizza la gestione del corpo e delle distanze durante la comunicazione. Un recente studio ha messo in luce che nella comunicazione internet 2.0, a dispetto della lontananza reciproca e dell’isolamento fisico, siamo in realtà tutti schiacciati e intrappolati in uno stesso ‘spazio ridotto’ (per quanto multidimensionale e definito dal proprio particolare punto d’accesso) e inesorabilmente esposti allo sguardo e all’azione altrui. I pericoli, pertanto, non diminuiscono affatto ma, paradossalmente, aumentano (Fadda, 2018).

Si può comprendere, a questo punto, quanto le ‘abitudini del pensiero’ siano vincolanti e in che modo esse riescano a condizionare lo stato emotivo, modificando la percezione della realtà. Non a caso si evocano di sovente i nuovi malesseri degli adolescenti (Muglia 2019). Da questo punto di vista sarà essenziale in futuro analizzare il rapporto tra mente, linguaggio e comportamento, approfondendo il nesso tra mondo digitale e plasticità del cervello nell’età adolescenziale. Ai fini di una compiuta e più efficace conoscenza del fenomeno non v’è dubbio che l’interazione sinergica tra linguistica, discipline umanistiche e neuroscienze cognitive risulterà di fondamentale importanza.

 

Storia del gusto. A tavola con i filosofi (2018) di Felice Bonalumi – Recensione

La agile e didattica ricognizione di Bonalumi nel suo libro Storia del gusto. A tavola con i filosofi, conferma che la filosofia non ha certo amato il senso del gusto né la funzione alimentare, ma già osservava Brillat-Savarin (1825), il cibo è un piacere sociale per eccellenza.

 

Non vi è molta differenza tra l’iconografia di Iside e quelle di Maria. Ad esempio, l’Isis Lactans del Museo Pio Clementino (Fig. 1) presenta analogie straordinarie con innumerevoli Madonne del Latte del nostro Medioevo e Rinascimento. Queste ultime immagini, tuttavia, contengono sempre un elemento di drammaticità, qualche sottile allusione simbolica alla passione e morte del Cristo, proprio nel momento dell’allattamento, proprio nella condizione della più piena beatitudine.

Del resto, nel modello kleiniano la suzione è il paradigma di tutte le relazioni oggettuali – libidiche ma anche persecutorie – del bambino e dell’adulto. La madre, che generosamente mette a disposizione il nettare bianco, è in questa prospettiva l’oggetto di desideri e di godimenti insuperabili, rispetto a cui le gratificazioni genitali non saranno che una pallida immagine.

L’onda lunga del ‘68 e una liberazione sessuale pervasiva e sistematica hanno dato un sapore insipido ai pruriti libidici che tormentarono i nostri nonni, con buona pace degli psicoanalisti ancora ancorati ad un rigido modello Freudiano. Se la genitalità è una fonte di godimento sempre più stanca e scontata nella società contemporanea, cresce invece in maniera inarrestabile l’interesse per l’alimentazione. Proliferano le diete, basate sui principi più disparati e bizzarri, che garantiscono bellezza, salute e giovinezza. Ma soprattutto si è affermato socialmente un interesse quasi coatto per la componente pulsionale dell’alimentazione, per i sapori.

Storia del gusto A tavola con i filosofi 2018 di F Bonalumi Recensione Fig 1

Fig. 1: Isis Lactans, Museo Pio Clementino, Roma

Storia del gusto A tavola con i filosofi 2018 di F Bonalumi Recensione FIg 2

 Fig. 2: Borgognone, Madonna del Latte, Accademia Carrara, Bergamo

Si moltiplicano le trasmissioni di cucina e le edizioni di repertori culinari. Vengono riscoperte e riproposte ricette romane, medioevali, rinascimentali. I cuochi più in voga si schierano ora per la novelle cuisine, ora per la cucina molecolare, ora per la cucina pop. Ovunque sorgono ristoranti etnici ove gli avventori inseguono il mito di sapori tradizionali od addirittura primordiali. In piena emergenza coronavirus il governo non ha potuto esimersi da una progressiva riapertura dei ristoranti, luoghi del tutto incompatibili con l’uso delle rituali mascherine protettive ma ormai essenziali al benessere sociale.

Non vi è dubbio: il senso del gusto svolge un ruolo centrale nella nostra società. Con il suo Storia del gusto: A tavola con i filosofi, Felice Bonalumi ha affrontato questo senso speciale sotto un profilo strettamente filosofico. In questo specifico ambito il gusto è stato oggetto da sempre di una decisa svalutazione. Senso troppo legato alla visceralità, alla corporeità, il gusto ha imbarazzato i cultori di una filosofia che in occidente manifesta una precisa opzione preferenziale per i processi intellettuali ed astratti. I numerosi capitoli che Bonalumi dedica alla filosofia antica non sono che elenchi forse un po’ sterili di classificazioni e prospettive filosofiche che hanno giudicato il gusto un senso insignificante o addirittura pericoloso per la riflessione filosofica.

Ad esempio, nella filosofia romana, il gusto rischia di compromettere l’ideale, etico ed estetico insieme, della moderazione. Per Cicerone, osserva Bonalumi, ‘il cibo è solo qualcosa di necessario per il corpo e per la vita e, riallacciandosi alle antiche virtù, la parola d’ordine è morigeratezza. La frase, cibi condimentum esse famem / il condimento del cibo è la fame, all’interno della polemica contro gli epicurei è diventata famosa’ (Bonalumi, p. 15). Addirittura, per Seneca l’ingordigia ha compresso l’austera etica della romanità primitiva fino al punto da incidere sulla salute del corpo: “Le malattie erano semplici e originate da cause semplici: la molteplicità delle portate ha provocato la molteplicità delle malattie. […] Perciò le nostre malattie sono nuove, come nuovo è il nostro genere di vita.” (ibidem, p. 17)

Nel cristianesimo tardo-antico e medioevale il conflitto tra digiuno e abbuffata, tra magro e grasso, tra carnevale e quaresima è un asse fondamentale, attorno a cui si organizza tutto il ciclo dell’anno e delle stagioni. Nel De digiuno Agostino rileva: ‘È un’osservanza questa, una virtù dell’animo, un vantaggio dello spirito a spese della carne, e non può essere oggetto di offerta a Dio da parte degli angeli‘. Non vi può essere vera festività senza una preparazione dell’anima e del corpo. E il digiuno ne è componente irrinunciabile.

Kant era convinto che la natura umana potesse contare su doti intrinseche che rendevano possibile un percorso conoscitivo ed etico inaccessibile agli animali inferiori. Questa specifica potenzialità dell’umano poteva per lui riscattare anche la più viscerale delle funzioni. Dal suo punto di vista – osserva Bonalumi – ‘la voracità distingue l’uomo che ‘non è schiavo di quella’ dalla bestia che ‘si getta sulla preda’ e istituisce ‘un rapporto morale e razionale dell’uomo col suo stomaco’ tanto che ‘lascia a un uomo il suo cervello, ma dagli lo stomaco di un leone o di un cavallo: ed egli certamente cesserà di essere un uomo’.’ (Bonalumi, p. 48).

Più ambigua è invece la posizione del materialismo ottocentesco. Feuerbach si rese famoso dichiarando che ‘L’uomo è ciò che mangia‘ ma non è chiaro se intendesse cogliere il valore dell’alimentazione nell’educazione e nello sviluppo morale dell’uomo, o semplicemente negare qualsiasi significato alle esperienze emotive e sociali.

Insomma, la agile e didattica ricognizione di Bonalumi conferma che la filosofia non ha certo amato il senso del gusto né la funzione alimentare. Ma attenzione, può essere facile svalutare questo senso speciale ed identificare il complesso sistema di fantasie libidiche e forze motivazionali associate ai piaceri del gusto con un livello di funzionamento psichico concreto ed autistico: una forza orientata alla dissoluzione del legame sociale.

Non è così: le immagini con cui abbiamo aperto il nostro breve intervento già suggeriscono una prospettiva diversa. Inoltre, come già osservava Brillat-Savarin (1825), il primo filosofo della Gourmandise, il cibo è un piacere sociale per eccellenza. Con la parziale eccezione della cultura nordamericana contemporanea, il pasto è sempre luogo e momento d’incontro. Dal simposio greco ai sissizi spartani, dai banchetti medioevali fino alle eleganti cene borghesi, la condivisione delle vivande è fondamento specifico della socialità.

Nella dimensione privata e familiare, poi, il pasto comune è il momento della condivisione e della comunicazione. Del resto tavole imbandite radunano ancora oggi intere famiglie allargate per le ritualità festive dal Natale e della Pasqua o in occasione della celebrazione dei matrimoni.

Le iconografie isidiche e mariane che abbiamo ricordato all’inizio di questa recensione richiamano la nostra attenzione sullo straordinario valore emotivo del pasto rituale. Il pasto, ogni pasto rimanda a questa situazione primaria, all’incontro simbolico con il materno.

Del resto nelle culture antiche non vi era pasto, vegetale o carneo che non fosse preceduto da un sacrificio alle divinità. Solo il cibo consacrato era consumabile. Offrendo se stesso sulla Croce il Cristo rinnova definitivamente il sacrificio, ma anche in questa nuova forma più astratta non vi è sacrificio senza un processo nutrizionale, almeno simbolico.

Il materialismo ci inganna. Insoddisfatti per la minestra quotidiana affolliamo esotici o gourmet, trascurando che ogni alimento rimanda alla beatitudine dell’allattamento, ed è nostalgia di una funzione sempre più evanescente nella società contemporanea.
Mentre il potere ed il controllo crescono nella cultura come nella politica, nell’igiene come nell’economia, nelle famiglie la capacità di nutrire, di generare e di alimentare appaiono sempre più retaggio di un passato ormai inattingibile: l’inarrestabile declino demografico che affligge l’occidente non riflette solo problemi sociali o pressioni ideologiche e culturali.

Nel ‘600 le grandi potenze si affrontavano negli oceani per il controllo delle spezie, fonte di inestimabile ricchezza e potere. Oggi inseguiamo miti culinari più economici. Ma non potremo mai riappropriarci di ciò che il tempo ci ha tolto per sempre. Non gusteremo più il latte materno.

 

Sogni lucidi: gli effetti sull’umore

I sogni lucidi sono definiti come sogni in cui l’individuo diventa consapevole di sognare: i sognatori lucidi sono immersi in uno stato di coscienza ibrido, che presenta elementi di veglia e sogno (Voss et al., 2009).

 

Di conseguenza, i sognatori a volte possono cambiare la scena o la situazione del sogno e manipolare gli eventi del sogno come desiderano. Poiché il mondo dei sogni non è vincolato dalle leggi o dai parametri della fisica, gli individui sono in grado di compiere atti – impossibili nel mondo reale – come volare, fare magie o respirare sott’acqua (Stumbrys & Erlacher, 2016).

Uno dei metodi per capire se si sta sognando è noto come test di realtà (per esempio nei sogni non si può spegnere la luce o si continua a respirare se ci si tappa il naso) (LaBerge & Rheingold, 1991). Più l’individuo si abituerà a testare la realtà durante il giorno più aumenterà la probabilità che il sognatore metterà alla prova il suo ambiente quando sogna, riuscendo a discriminare lo stato di veglia da quello di sonno.

Altri due metodi, l’Induzione Mnemonica dei Sogni Lucidi (MILD; LaBerge, 1980) e il Wake-Back-To-Bed (WBTB; LaBerge et al., 1994), sono usati in congiunzione tra loro, in quanto un individuo è svegliato dal sonno dopo un periodo di tempo specifico per aumentare la prontezza mentale (WBTB) e istruito a provare cognitivamente una frase, come ad esempio ‘mi ricorderò che sto sognando’ (MILD), quando si ricoricherà per dormire.

Pur esistendo un filone di ricerca che indica che l’addestramento ai sogni lucidi può essere utilizzato per ridurre gli incubi sia in intensità sia in frequenza (Spoormaker & Van Den Bout, 2006; Zadra & Pihl, 1997; Macedo et al., 2019), poco si sa sugli effetti che il sogno lucido ha sull’umore dell’individuo durante la veglia.

Uno studio recente (Stocks et al., 2020) ha voluto indagare se l’esperienza della lucidità nel sogno migliora l’umore nella veglia e se la lucidità è associata al contenuto emotivo del sogno e alla qualità soggettiva del sonno.

20 partecipanti sono stati invitati a completare tecniche di induzione del sogno lucido per una settimana, durante la quale sono stati invitati a completare circa 10 test di realtà al giorno insieme alla tecnica MILD/WBTB di notte e a riportare gli effetti in un diario di sogno online, per una valutazione sui sogni lucidi e valutazioni soggettive della qualità del sonno, del contenuto emozionale del sogno e dell’umore durante la veglia.

Un questionario a 19 item – composto da item del Dream Lucidity Questionnaire (DLQ; (Stumbrys et al., 2013) e del Lucid Skills Questionnaire (LUSK; (Schredl et al., 2018) – è stato utilizzato per la valutazione sui sogni lucidi. La Positive and Negative Affect Schedule (PANAS; Watson et al., 1988) è stata utilizzata per la valutazione dell’umore dei partecipanti durante la veglia.

Dai risultati si è riscontrato che chi aveva avuto più sogni lucidi aveva la mattina un umore migliore e un maggiore contenuto positivo del sogno rispetto a chi aveva avuto meno sogni lucidi. Una correlazione positiva è stata trovata anche tra sogni lucidi e vividezza sensoriale, senza inoltre pregiudicare la qualità del sonno. Sorprendentemente, non è stato riscontrato alcun rapporto tra il numero di test di realtà e di tecniche MILD/WBTB e la frequenza di sogni lucidi, risultato che va in contrasto con quello di altre ricerche (Aspy et al., 2017).

Alla luce di questi risultati i sogni lucidi confermano il loro potenziale di supporto per il benessere dell’individuo e per il trattamento degli incubi, sebbene si incoraggino in futuro ricerche su numeri più ampi ed effetti nel lungo periodo.

 

European Conference on Digital Psychology: iscrizioni aperte

Iscrizioni aperte alla prima Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale , organizzata dalla Sigmund Freud University Milano il 19 e 20 febbraio 2021 presso lo Spazio Eventi Magna Pars a Milano.

ISCRiVITI ORA! 9998
  • Early registration: 15 ottobre 2020
  • Late registration: 15 dicembre 2020

 

European Conference on Digital Psychology – CALL FOR ABSTRACTS

Call for abstracts aperta fino al 15 settembre 2020: studenti universitari e post Laurea, studenti di Scuole di specializzazioni, clinici, ricercatori e Professori possono sottoporre già da ora abstract per presentazioni orali e/o poster dei loro progetti.

Info: [email protected]

Lo psicologo delle cure primarie può fare la differenza per il benessere della collettività

L’attenzione alla componente psicologica della salute è fondamentale. Al senato arriva la proposta di legge per l’istituzione dello psicologo delle cure primarie. Requisiti sui quali si basa il servizio: costi contenuti e rapida presa in carico della persona.

 

Il disegno di legge intitolato ‘Istituzione dello psicologo di cure primarie’ è stato illustrato in Senato il giorno 16 luglio 2020 dalla prima firmataria, la senatrice Paola Boldrini, capogruppo del Pd nella Commissione Sanità.

Alla conferenza stampa erano presenti anche David Lazzari, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Mario Falconi, presidente del Tribunale dei diritti e doveri del medico e Antonio Panti, della Commissione deontologica della Fnomceo, i quali si sono espressi a sostegno del DDL, essendo solidali e credendo nei principi sui quali si fonda.

Il DDL, in quanto iniziativa legislativa, rappresenta il primo passo verso la realizzazione concreta del servizio. Seguirà l’iter canonico: verrà annunciato all’Assemblea e assegnato alla Commissione competente per essere approvato alla Camera.

Introduzione

L’OMS calcola che nel mondo ci siano 450 milioni di persone che soffrono di disturbi mentali, neurologici o del comportamento, e che la gran parte di questi disturbi non siano né diagnosticati né trattati (OMS 2001).

Ed il numero continua a crescere con un conseguente impatto sulla salute e sui principali aspetti sociali, umani ed economici in tutti i Paesi del mondo. (Epicentro, ISS, 11 ottobre 2020).

Sono oltre 50mila le telefonate arrivate, con un vero e proprio picco di chiamate giornaliere durante il lockdown, al numero verde di supporto psicologico, attivato nel mese di aprile 2020 dal ministero della Salute e dalla Protezione Civile per l’emergenza Covid-19. Il servizio ha registrato un alto grado di soddisfazione degli utenti nel periodo di attività; a chiamare molti anziani ma anche studenti; l’età media registrata è di 49 anni. Le motivazioni di chi utilizza il servizio sono legate a stati di ansia (14%), depressione (13%) o più frequenti stati di preoccupazione generalizzata e altre problematiche pregresse emerse a causa dell’emergenza (oltre il 40%). Merita attenzione il dato di persone con problemi di irritabilità (2%), con disturbi del ciclo sonno-veglia (2%), con problemi di relazione (1,2%), e quelle che hanno richiesto aiuto nell’elaborazione di un lutto (3,2%) non necessariamente legato al Covid-19 (Comunicato n. 189, 11 giugno 2020, Ministero della Salute).

In Italia solo il 60% di chi riferisce sintomi depressivi ricorre all’aiuto di qualcuno, rivolgendosi soprattutto a medici e operatori sanitari (Sorveglianza PASSI, Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia, periodo 2015-2018).

Nel 2018 il portale AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha rappresentato un dato allarmante: rispetto all’anno precedente, infatti, è aumentato dell’8% il numero di italiani a cui è stato somministrato un farmaco per combattere ansia, nevrosi, attacchi di panico e insonnia. (Rapporto OsMed 2018)

Nel 2017 circa 3,7 milioni di italiani hanno assunto psicofarmaci, mentre il consumo di benzodiazepine è stato 50 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti. Dati allarmanti a cui va aggiunto il sommerso, nonché il numero di persone che, pur avendo bisogno, per vergogna, decidono di non farsi aiutare (AIFA).

La riflessione sull’organizzazione dell’assistenza psicologica si colloca all’interno di uno scenario che comprende sia la crescita progressiva della domanda psicologica da parte dei cittadini, sia il cambiamento degli scenari dei percorsi di cura che richiamano sempre con maggiore insistenza alla qualità della cura, includendo necessariamente l’aspetto psicologico e relazionale, aspetto, inoltre, presente nei nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).

L’obiettivo della psicologia di cure primarie è quello di garantire benessere psicologico di qualità nella medicina di base, sul territorio, vicino alla realtà di vita dei pazienti, alle loro famiglie e alla comunità.

Commento al DDL

Il disegno di legge, cioè una proposta legislativa, avanzata dalla senatrice Boldrini ed i suoi collaboratori, potrà tradursi in legge una volta approvata, in forma identica, da entrambe le Camere.

Il testo di legge si presenta diviso in 3 articoli:

ART 1: istituzione del servizio di cure psicologiche

  • In riferimento all’articolo 1, comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, e dell’articolo 12 della legge 25 giugno 2019, n.60, in ogni azienda sanitaria locale viene instituito il servizio di psicologia di cure primarie, strutturato a livello di distretto sanitario. Lo scopo è quello di garantire un primo livello di servizi di cure psicologiche nella medicina di base, che sia di qualità, accessibile e caratterizzato da una rapida presa in carico della persona, efficace, economicamente efficiente ed integrato con gli altri servizi sanitari e socio-sanitari. Proprio in relazione a questo ultimo punto, viene sottolineata la necessità di sviluppare una rete di collaborazione con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta, nonché con gli altri professionisti sanitari e socio-sanitari (ostetriche, fisioterapisti, infermieri) presenti sul territorio. Con la consapevolezza che nella medicina moderna il concetto di salute ha assunto un significato ampio e dinamico. La salute è definita come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non mera assenza di malattia (OMS, 1946).
  • Il sevizio di psicologia di cure primarie garantisce un primo livello di intervento sulla popolazione per rispondere alla domanda di cura dei disturbi mentali ad uno stadio iniziale. Il fine è quello di intervenire precocemente per limitare o eliminare il disagio psicologico dell’individuo ed i conseguenti costi sociali ed economici in caso di assenza di intervento primario. Il servizio organizza e gestisce l’assistenza psicologica di base promuovendo e realizzando l’integrazione funzionale con i servizi specialistici di secondo livello, costituendo un filtro sia per l’accesso ai livelli secondari di cure sia per il pronto soccorso.

Art. 2: aree di intervento, percorsi operativi e finalità del servizio di cure psicologiche

  • Le aree di intervento su cui lo psicologo di cure primarie è chiamato ad intervenire, delineate nei nuovi LEA, sono:
    • disagi legati all’adattamento quali lutti, perdita del lavoro, separazioni e malattie croniche;
    • problemi legati a fasi del ciclo di vita;
    • disagi emotivi transitori ed eventi stressanti;
    • sostegno psicologico alle diagnosi infauste e alla cronicità o recidività delle malattie;
    • scarsa aderenza alla cura;
    • richiesta impropria di prestazioni sanitarie;
    • supporto all’equipe dei professionisti sanitari.
  • L’attività dello psicologo di cure primarie, che affianca il medico nella cura del paziente, è finalizzata nella prevenzione primaria, per identificare precocemente e intervenire tempestivamente in problematiche psico-sociali. È finalizzata, inoltre, nella prevenzione secondaria per attuare un intervento di primo livello nei casi di sofferenza psicologica già in atto ed inviare appropriatamente la persona a servizi socio-sanitari, anche specialistici e territoriali secondo necessità.
    Lo scopo delle cure psicologiche in questo senso è quello di aiutare la popolazione a gestire problematiche psicologiche di varia natura, problemi legati all’adattamento, quali perdita del lavoro, separazioni, malattie croniche, ma anche problemi legati al ciclo di vita dell’individuo e a disagi emotivi transitori ed eventi stressanti.
    L’interesse deve essere sempre quello di contribuire a progetti di prevenzione della malattia e di promozione ed educazione alla salute.
  • Il servizio di psicologia di cure primarie sviluppa un rapporto strategico con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta per intervenire sui sintomi psichici di lieve o media entità o sintomi fisici i quali non risultano ascrivibili a patologie organiche producendo somatizzazione di ansia e stati depressivi.
  • Gli aspetti funzionali di integrazione e collaborazione tra medici e psicologi nelle cure primarie sono ricompresi in 3 processi operativi:
  • Invio da parte del medico allo psicologo, cui segue la presa in carico integrata
  • Trattamento congiunto, in cui il medico e lo psicologo valutano contestualmente il paziente
  • Consulenze specifiche: situazioni in cui il medico chiede allo psicologo di individuare e condividere strategie di intervento; di analizzare le dinamiche che limitano il mantenimento dello stile di vita e lo stato di salute della persona in famiglia; di avere un confronto su problematiche relazionali con la persona o un supporto nella presa in carico della persona ad alta intensità emotiva.

ART. 3: organizzazione del personale per il servizio di cure psicologiche

  • Afferiscono al servizio di psicologia di cure primarie gli psicologi dirigenti dipendenti, gli psicologi con rapporto convenzionale della specialistica ambulatoriale e gli psicologi assunti con formazione post-laurea specifica in cure primarie. Il rapporto di riferimento è di uno psicologo ogni cinque medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, anche con rapporto di lavoro flessibile in attesa che venga stipulato uno specifico accordo nazionale unico della psicologia delle cure primarie ai sensi dell’articolo 48 della legge 23 dicembre 1978, n.78.
  • Le aziende sanitarie locali ed ospedaliere istituiscono il Dipartimento aziendale di psicologia, all’interno del quale è ricondotto anche il servizio di psicologia di cure primarie, la cui direzione è affidata ad un dirigente psicologo.

Conclusioni

L’accesso volontario e diretto ad uno psicologo, in grado di dare risposta ad un disagio di origine non biologica è oggi estremamente difficile. La difficoltà è data sia da un pregiudizio sociale ancora molto diffuso, sia dalla assenza di tale professionalità nell’ambito dell’assistenza primaria. Questo si traduce in un contatto con l’utente, da parte del professionista di cure psicologiche, laddove il medico di assistenza primaria ne riscontri l’utilità, estremamente tardivo. Con il rischio che sintomi e disturbi si cronicizzino, con perdite significative di quote di efficacia ed efficienza.

L’istituzione dello psicologo di cure primarie potrebbe da una parte normalizzare la figura professionale e dall’altra intervenire prontamente sui disagi psichici, nelle fasi iniziali, laddove l’intervento è risolutivo nella maggior parte dei casi.

Se si vuole un sistema di cure primarie utile ed efficace, l’attenzione alla componente psicologica della salute è fondamentale, e non si tratta solo di offrire cure al disturbo psicologico o di trattare il problema individuale. Si tratta di occuparsi del benessere e della salute psicofisica dei cittadini di un territorio, dei membri di una comunità, in modo equo e accessibile, per fornire a tutti, indistintamente, cura e terapia, ma anche per promuovere consapevolezza, promozione di salute e adozione di comportamenti positivi.

L’auspicio è che, nel clima di nuova valorizzazione che lo Stato Italiano sta dando alla sanità pubblica in questo momento, vi sia da parte del Parlamento la volontà di portare avanti questa svolta epocale per la salute psicologica dei cittadini.

 

La maggioranza silenziosa: la popolazione anziana in Italia e in Europa ai tempi del Covid-19

Il numero di anziani in Europa è in crescita progressiva. La transizione alla vita anziana è anzitutto una transizione familiare; indipendentemente dalla coabitazione, tutti i membri che sono in relazione con l’anziano si trovano a ricoprire nuovi ruoli ed assumere nuove responsabilità.

Premessa

Ho scelto questo titolo La maggioranza silenziosa ricordando il titolo di un testo La maggioranza deviante di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, pubblicato per la prima volta nel 1971. Gli autori analizzano la tipologia della devianza e il suo inserimento all’interno del contesto sociale ed economico del periodo, quando in Italia la cultura psichiatrica era chiusa in una “ideologia della diversità” che sanciva l’inferiorità dell’altro. Il grosso problema che Basaglia mette in luce è costituito dall’organizzazione sociale custodialistica e punitiva.

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entri questo riferimento con la popolazione anziana oggi in Italia ed in Europa. Come cittadina e professionista psicologa ho dovuto rilevare che il mondo occidentale si è accorto della numerosità degli anziani solo in occasione della numerosità dei decessi che il virus ha determinato prevalentemente in pazienti di fasce d’età compresa tra i 70 anni ed oltre.

E in quali contesti si è diffuso il contagio del virus? In RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) strutture con un’utenza esclusivamente anziana, la cui organizzazione non ha nulla da invidiare alle Istituzioni Totali spersonalizzanti e custodialistiche degli anni ’70. Tutti avremo osservato come le informazioni che i media fornivano quotidianamente, come “bollettini di guerra” sui morti, risultavano svalorizzanti e superficiali quando si soffermavano sulle percentuali che riguardavano gli anziani. Come ha detto recentemente il prof. Alessandro Vespignani da Boston, intervistato da Lucia Annunziata, “…in fondo, come se rappresentassero un peso”. Questa tragica esperienza servirà a ripensare e riprogettare l’organizzazione sociale e socio sanitaria destinata a questa numerosità imponente di cittadini e alle loro famiglie?

Qualche dato in Italia

Da oggi la popolazione italiana può considerarsi più giovane: si è ufficialmente “anziani” dai 75 anni in su. La svolta è arrivata dal Congresso nazionale della Società italiana di gerontologia e geriatria (SIGG) che si è tenuto a Roma nel novembre 2019:

Un 65enne di oggi ha la forma fisica e cognitiva di un 40-45enne di 30 anni fa. E un 75enne quella di un individuo che aveva 55 anni nel 1980. (prof. Niccolò Marchionni)

I geriatri lanciano l’adozione di una definizione dinamica del concetto di “anzianità” che si adatti

alle mutate condizioni demografiche ed epidemiologiche. Bisogna tener conto che scientificamente si è anziani quando si ha un’aspettativa media di vita di dieci anni.

Immagine 1 – Dati Istat sulla popolazione anziana

Immagine 2 – Dati Istat sulla popolazione anziana

Qualche dato in Europa

Il numero di anziani in Europa è in crescita progressiva, secondo i dati Eurostat. Il rapporto Ageing Europe 2019 restituisce un quadro già noto, da alcuni anni, in merito ad età, condizioni di salute e di vita degli over 65.

È l’intera popolazione europea a mostrare una curva anagrafica verso l’alto: gli anziani sono più numerosi, la loro aspettativa di vita è più lunga e al tempo stesso nascono meno bambini. Eurostat scrive che l’età media della popolazione, nei 28 paesi UE, al 1° gennaio 2018 è di 43,1 anni. Tradotto: metà dei cittadini europei hanno superato i 43 anni. In Italia, questo rapporto è di poco più alto, cioè metà della popolazione ha già compiuto 46,3 anni.

Inoltre, si stima che in Europa la popolazione degli anziani di età pari o superiore a 65 anni salirà dai 101 milioni all’inizio del 2018 a 149 milioni entro il 2050.

La famiglia e gli anziani

Nonostante gli studi della sociologia relazionale evidenzino l’indebolimento e la crisi della famiglia, è opportuno occuparsi del fenomeno dell’invecchiamento in relazione a questa cellula della società insostituibile, espressione di un bisogno naturale di incontro e scambio tra generazioni.

Se ci riferiamo al ciclo vitale della famiglia, l’entrata nella fase anziana rappresenta oggi una nuova sfida della vita, ammesso di riuscire a vivere la transizione in maniera positiva. Infatti, la transizione alla vita anziana è anzitutto una transizione familiare, indipendentemente dalla coabitazione, che non riguarda solo il soggetto anziano, bensì tutti i membri che sono in relazione a lui e che si trovano in quel momento a ricoprire nuovi ruoli ed assumere nuove responsabilità.

In questo senso, è di fondamentale importanza per il benessere dell’anziano la concordanza tra vari fattori:

  • l’atteggiamento che la società nel suo complesso ha nei confronti dell’invecchiamento;
  • le condizioni psicofisiche dell’anziano;
  • le aspettative dell’anziano;
  • le aspettative delle persone per lui significative che fanno parte della rete familiare ed amicale.

L’età cronologica non è più l’elemento primario dell’esperienza personale dell’invecchiamento; esiste uno iato tra la società delle immagini che si concentra sull’età cronologica e sulle modificazioni corporee, e la percezione personale di ciascuno.

L’approccio sistemico, purtroppo, non si è occupato di questa fase del ciclo di vita familiare, nonostante la particolare lente con la quale guarda alle dinamiche relazionali potrebbe offrire un grande contributo nel trattare la complessità e l’eterogeneità delle famiglie con generazioni anziane. La transizione all’età anziana va analizzata in una prospettiva relazionale, individuando rischi e risorse proprio nel contesto familiare considerato quale luogo di incontro e scambio tra le generazioni.

Cosa significa essere nonni oggi?

Attias-Donfut, in qualità di pioniera e studiosa di questa tematica, afferma che i nonni hanno un ruolo fondamentale nella vita dei propri nipoti, poiché contribuiscono alla costruzione della loro identità personale, costituendo per loro quella che viene chiamata pillar identity, cioè la colonna portante della loro identità. E’ cruciale per un bambino o un giovane, vivere il rapporto con i nonni, con i quali si instaura un rapporto altro, rispetto a quello impostato con e dai genitori, un legame dove è possibile sperimentare nuove e altre parti di sé, dove le regole possono cambiare e la fantasia può prendere varie forme. (Bramante, 2020)

Il fenomeno dei nonni come risorsa nella scena familiare è presente in tutti i paesi europei, in particolare delle nonne, come figura di supporto nella cura dei figli e sostengo ai genitori impegnati nel difficile compito di conciliazione tra famiglia e lavoro; ruolo che diviene particolarmente cruciale per tutti i genitori single o separati.

La cura dei nipoti gioca anche un ruolo nel bilancio tra dare e ricevere tra le generazioni e introduce una maggior probabilità che, da adulti, i nipoti siano poi disponibili a ricambiare, offrendo assistenza ai loro nonni.

La famiglia italiana contemporanea ha ereditato dalle generazioni precedenti la cura a domicilio dei propri anziani: dagli anni ’80 in poi è diminuito in modo significativo il ricorso all’istituzionalizzazione dell’anziano autosufficiente, ed anche parzialmente autosufficiente. Questo è avvenuto grazie al fatto che le famiglie si sono organizzate autonomamente nella cura a domicilio, pur tra mille difficoltà, attraverso un ruolo di care giving svolto in genere dalle donne con l’aiuto di badanti.

Il primo rapporto sull’innovazione e il cambiamento nel settore della (LCT) Long Term Care (a cura di CERGAS SDA BOCCONI, 2018), ha fotografato l’esistenza di un esercito silenzioso di 8 milioni di caregiver familiari che si auto-organizzano per far fronte ai bisogni di assistenza dei propri cari, anche non più autonomi, a cui si affiancano quasi un milione di badanti tra regolari e non regolari.

Oggi è la generazione di mezzo, generazione sandwich, che ha subito un progressivo invecchiamento, portando ad assistere al fenomeno per cui “giovani anziani” si trovano a prestare sostegno ed aiuto ai “grandi anziani”. Proseguendo in questa direzione c’è il forte rischio che il carico eccessivo di cura a domicilio possa portare al burn out del caregiver familiare con conseguente urgente ricorso al ricovero in strutture RSA, vissuto come sconfitta e con sensi di colpa che complessificano il delicato passaggio dal domicilio all’Istituzione.

Va inoltre considerato che l’inserimento in RSA – Istituzione Totale – da un lato priva della sua specifica singolarità il nuovo ospite e dall’altro tende rapidamente a far sentire il sistema familiare “esautorato” dal prendersi cura del proprio congiunto. Questa esperienza viene descritta dai familiari come estremamente dolorosa e accompagnata da una sensazione di spaesamento.

Ho avuto l’opportunità di occuparmi, come formatrice di operatori di differenti professionalità, delle metodologie di accoglimento del nuovo ospite e della sua famiglia in numerose RSA. Da tutti gli operatori sono state descritte maggiori criticità quando il ricorso alla struttura residenziale è assimilato con l’arrivo ad un Pronto soccorso piuttosto che ad una preparazione e cura dell’accoglimento. In ogni caso, è stata sempre rilevata l’assenza, o la scarsa percentuale di presenza sul territorio, di servizi di Cura e di Assistenza intermedi, che possano quindi ritardare, ove effettivamente necessario in caso di pluripatologie e di complessificazione delle cure, il passaggio dal domicilio alla struttura residenziale.

Nel secondo rapporto sul futuro del settore LCT e delle prospettive dei servizi (a cura di CERGAS SDA BOCCONI, 2019), i gestori pubblici, privati e dalle policy regionali, hanno sottolineato il ruolo fondamentale del counseling destinato alle famiglie, necessario per orientarle su nuovi servizi, quali:

  • nuove soluzioni a domicilio;
  • nuove soluzioni per l’abitare e l’housing sociale;
  • nuove forme di residenzialità assistenziale;
  • nuove forme di Centri Diurni;
  • nuove modalità di presa in carico personalizzata dell’anziano.

Il rapporto si conclude con delle domande aperte sulle direzioni che prenderà l’innovazione:

[…] rimane da dirimere se il regolatore pubblico vorrà essere regista delle trasformazioni necessarie, indicando una strada realistica e percorribile o se per l’ennesima volta vorrà nascondersi dietro la facciata di un universalismo formale, lasciando che solo le determinanti epidemiologiche, sociali, e di mercato costruiscano il settore così come è già accaduto negli ultimi 20 anni con il fenomeno delle badanti.

Così termina il rapporto pubblicato nel settembre 2019; ora, a maggio 2020, potremmo aggiungere: “come la diffusione del Covid-19 nelle RSA per anziani ha rivelato”.

 

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