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I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale

Gli orfanotrofi, anche quando sono dotati di risorse ed opportunità, non possono essere reputati luoghi idonei alla crescita dei minori (Monti et al. 2010), in quanto sono da considerare a pieno titolo delle istituzioni totali (Goffman, 1968).

Il presente contributo è il primo di una serie di tre articoli sull’argomento. In questa prima parte presentiamo una panoramica generale sulla situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Negli articoli che pubblicheremo nei prossimi giorni invece verranno illustrate le recenti ricerche sull’argomento e i relativi risultati.

 

In Italia è stato stabilito dalla legge n.149 del 2001 la totale chiusura delgi orfanotrofi; a tutt’oggi, però, ciò non e ancora completamente avvenuto (Istituto degli innocenti, 2007). In Europa, tra le situazioni di maggiore degrado compaiono quelle degli istituti di Russia e Romania, dove non è ancora prevista un’adeguata legislazione in merito.

Anche se le istituzioni presentano caratteristiche differenti a seconda dei paesi e anche all’interno degli stessi, un tema comune a tutte è la mancanza di interazione socio-emotiva con i caregivers: ciò è strettamente connesso con tipici ritardi nello sviluppo osservati nei minori post-istituzionalizzati ed i loro successivi problemi comportamentali (Merz & McCall, 2010).

In istituti come quelli russi e rumeni, i minori difficilmente riescono a godere di una relazione individualizzata con un adulto di riferimento, in quanto il rapporto numerico tra adulti e bambini è di circa 1 a 30/50 (Rutter et al., 2007). A ciò va aggiunto che tali minori sono esposti ad un eccessivo turnover del personale, arrivando a relazionarsi, nei loro primi due anni di vita, da un minimo di 50 a circa 100 diversi caregivers (Groark & Muhamedrahimov, 2005). La vita nella gran parte degli istituti si caratterizza per la scarsa o totale assenza di stimolazioni percettive, motorie e linguistiche, e le interazioni sono spesso brevi e mal dirette (Monti et al. 2010).

Poichè per circa l’85% dei minori adottati, dopo la separazione dalla famiglia biologica, la vita comincia in un istituto, gli studi sulla loro crescita fisica ed il loro sviluppo cognitivo ed affettivo proseguono da più di cinquant’anni (Smyke et al. 2007).

Ovviamente, anche i motivi per cui i bambini giungono agli istituti possono contribuire ad esiti diversi e differenti livelli di resilienza. In Romania, ad esempio, la ragione principale dell’abbandono di minori è la povertà (Zeanah et al., 2003), associata a scarse cure prenatali, malnutrizione materna ed esposizione prenatale ad alcol e altre sostanze. Anche in Russia la situazione dell’infanzia è molto difficile: in molte aree del Paese le famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà e il disagio sociale, aggravato spesso da fenomeni come tossicodipendenza ed alcolismo, spesso induce all’abbandono dei figli. La grande maggioranza dei bambini ricoverati, infatti, ha ancora almeno uno dei genitori in vita: essi sono definiti orfani sociali.

Nonostante in molti casi le situazioni istitutive dovrebbero avere breve durata, si calcola che soltanto il 9% dei minori ritorni alle proprie famiglie dopo l’ingresso in un istituto (Smyke et al. 2007). L’adozione può quindi essere considerata una soluzione; tuttavia, l’importanza che riveste tale avvenimento, suggerisce un’analisi più accurata dei fattori protettivi e di rischio che la caratterizzano.

Si presume che un accumulo di fattori di rischio (come la prematura incuria e l’abuso) conduca ad uno sviluppo del bambino meno buono, mentre i fattori protettivi (come una relazione di attaccamento sicuro) possano attenuare gli effetti negativi dei rischi, incrementando la resilienza (Chistolini, 2009).

Le ricerche hanno mostrato come la mancata costruzione di legami preferenziali e l’impossibilità di vivere in un contesto amorevole e prevedibile portino a difficoltà in varie aree dello sviluppo biologico e psico-sociale, che tendono ad aumentare in relazione all’intensità e alla durata della deprivazione. Già all’inizio degli anni Novanta, diversi autori riscontrarono nei primi bambini de-istituzionalizzati alterazioni nel comportamento e nelle relazioni sociali molto simili a quelle dei bambini autistici. A partire da ciò e stato possibile, nel tempo, identificare quella che è stata nominata da Federici (1998) «sindrome autistica post-istituzionale» o anche, da altri autori, «pattern quasi-autistico» (Rutter et al., 1999).

Ciò che permette di differenziare il «pattern quasi-autistico» dei soggetti deprivati dall’autismo riscontrabile nella popolazione normativa è che il primo sembra avere come causa il contesto di profonda deprivazione e non i fattori genetici; perciò, modificando tale contesto disfunzionale per la crescita, sono possibili margini di miglioramento (Hoksbergen et al., 2005).

Le ricerche pubblicate negli ultimi 15 anni hanno riscontrato la presenza di disturbi soprattutto in bambini cresciuti in istituzioni rumene (ritardi cognitivi, gravi disturbi del comportamento sociale e anomalie nel livello di cortisolo, fattore compatibile con elevati livelli di stress) (Smyke et al. 2002; Zeanah, et al. 2005). Nonostante questi risultati, Rutter e colleghi (1999) hanno notato una sorprendente variabilità individuale nel grado in cui lo sviluppo dei bambini sia compromesso dall’esperienza istituzionale ed hanno osservato significativi, se non completi, recuperi nei minori adottati dalla Romania (Rutter, 2007). Secondo quanto riportato da alcuni autori, all’incirca un quarto dei minori istituzionalizzati riesce ad avere un funzionamento normale, anche a seguito di ben due anni d’istituzionalizzazione (Emiliani, 2008).

Molti ricercatori, tra cui Juffer e van Ijzendoorn (2006), hanno sottolineato la significatività di un confronto fra minori abbandonati rimasti in istituto e quelli, invece, accolti in famiglia, affinché si possa verificare l’effettivo grado di efficacia dell’adozione internazionale come alternativa all’istituzionalizzazione.

Bowlby (1982) concluse un capitolo del suo libro con una frase piena di speranza:

Si puo supporre che l’adozione, se avviene in un contesto qualificato, possa offrire al bambino all’incirca le stesse possibilità di avere una vita familiare felice, quasi come se fosse cresciuto nella sua famiglia d’origine.

I Paesi con un’adeguata conoscenza delle cure precoci istituzionali e delle conseguenze che comportano possono promuovere interventi educativi in modo più mirato e consapevole, favorendo un migliore adattamento dei minori alle nuove situazioni di vita.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

La famiglia ai tempi del Coronavirus – Report dal webinar con la Dott.ssa Della Morte

Il settimo contributo pensato da Studi Cognitivi per approfondire gli aspetti relativi alla sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, è stato tenuto dalla Dr.ssa Della Morte il 15 maggio ed ha riguardato i disagi riscontrati dalle famiglie durante la pandemia.

 

La docente ha proposto un intervento diviso per fasce d’età, in modo da comprendere le specifiche difficoltà che ha dovuto affrontare ogni membro del nucleo familiare.

La famiglia

Con la messa in atto delle misure di prevenzione per evitare il contagio, sono venuti a mancare i supporti abituali, come la scuola, i nonni e le attività extrascolastiche, e i genitori hanno dovuto combinare le esigenze lavorative con quelle familiari. Si sono quindi ritrovati a dover guidare i figli nel processo di adattamento all’emergenza sanitaria.

Comprendere in che fase evolutiva si trova la propria famiglia (ad es. neosposi, neogenitori, etc) è necessario per individuare i bisogni e le sfide che si dovranno affrontare e per mettere in campo le risorse necessarie. Le risorse, spiega la docente, ci sono quasi sempre: con un po’ di fatica e tanta pazienza un equilibrio si può ripristinare. La resilienza (intesa come la capacità di “migliorare di fronte alle avversità”) in questo contesto diventa fondamentale. Non esistono genitori perfetti, né famiglie ideali; l’adattamento è difficile e ci si avvicina attraverso continui errori e riparazioni.

Le risorse che una famiglia può mettere in campo sono:

  • delle buone strategie di soluzione dei problemi;
  • un atteggiamento solidale e coordinato da parte dei genitori;
  • una comunicazione efficace;
  • il coinvolgimento emotivo;
  • l’opportunità di conoscersi meglio.

La messa in atto di queste risorse ha l’effetto di aumentare il senso di autoefficacia del genitore e di fornire ai figli solidi punti di riferimento per sentirsi al sicuro.

0-6 anni

In un contesto straordinario come quello del Covid-19 i più piccoli possono reagire in vari modi: posso mostrarsi ipereattivi agli stimoli, iporeattivi agli stimoli o impulsivi. Molte famiglie hanno chiesto e stanno chiedendo supporto ai terapeuti basandosi sull’osservazione del comportamento dei bambini; vorrebbero degli strumenti perché spesso la situazione in casa è di difficile gestione.

La parola chiave diventa routine: questa permette al bambino di avere la giornata scandita da tempi e attività e di sperimentare una sensazione di stabilità nel vivere una realtà nuova e stressante. Le attività da proporre sono molte, diverse a seconda dell’età e dello stadio di sviluppo. Alcuni esempi di letture sono le Favole al telefono di Rodari o L’isola degli smemorati di Pitzorno. I dispositivi tecnologici vanno limitati, il loro uso deve essere pensato e strutturato. Via libera, invece, a video collegamenti con amici e familiari.

Quello che ci possiamo aspettare dai bambini di questa età, in risposta alla pandemia e alle sue conseguenze, è una disregolazione emotiva e lo sviluppo di fobie. Bisogna andare incontro a un graduale riadattamento alle situazioni sociali, non portando avanti comportamenti di evitamento e distanziamento non necessari.

Le spiegazioni da fornire ai bambini rappresentano un aspetto davvero importante: bisogna chiarire cosa è successo, a cosa stiamo andando incontro e cosa succederà. Mostrare come i sacrifici di questo periodo siano per un bene comune e che anche i bambini possono fare la loro parte permette ai più piccoli di sentirsi coinvolti, responsabili e parte di un tutto. Esistono degli strumenti creati ad hoc per questo scopo come la Guida galattica al coronavirus o la Storia di coronavirus.

7-11 anni

A quest’età i bambini hanno idea di quali siano i sentimenti dei genitori, si accorgono dei cambiamenti e delle difficoltà. Sono molto attenti a ciò che li circonda e in grado di esprimere le proprie emozioni.

I cambiamenti legati all’avvento del Covid-19 per questa fascia d’età potrebbero essere:

  • legami affettivi più forti che vengono meno;
  • insofferenza;
  • paura;
  • mancato rispetto delle regole;
  • difficoltà a mantenere le abitudini.

I genitori hanno il compito di fornire chiarimenti, evitando però di creare eccessivo allarme. Dovrebbero spiegare che le difficoltà esistono ma che possono essere gestite, ricordare che la famiglia rappresenta una risorsa e invitare il bambino a manifestare le sue preoccupazioni. È utile fare esempi positivi di situazioni difficili già sperimentate e superate con successo.

Anche in questo caso creare una routine con ritmi regolari aiuta molto; lo si può fare per la didattica a distanza, i pasti e il sonno. Importanti sono le attività e i giochi condivisi. Si dovrebbero mantenere i contatti tramite gli strumenti di comunicazione a distanza, non delegando però la gestione dei dispositivi elettronici esclusivamente ai minori.

A livello scolastico ci sono stati degli enormi cambiamenti: i genitori si sono trovati a integrare il lavoro degli insegnanti, mettendo in campo sorprendenti risorse. Molte volte ci sono state reazioni positive dovute al diverso canale d’insegnamento e di verifica degli apprendimenti. Per esempio, i bambini con forte ansia sono stati aiutati dalla modalità online, migliorando il proprio rendimento e sperimentando un nuovo senso di autoefficacia. Lo stesso discorso vale per i ragazzi con difficoltà di apprendimento che non si sono più sentiti deficitari rispetto agli altri, ma pari e con gli stessi strumenti.

Adolescenti

Il mondo degli adolescenti è quello che più ha risentito delle misure di contenimento. A questa età i ragazzi stanno cercando la propria autonomia: prendono le distanze dai genitori, ma allo stesso tempo necessitano e dipendono ancora dai punti di riferimento familiari. La quarantena ha interrotto la sperimentazione, limitato molto le autonomie.

I genitori spesso si sono ritrovati a dover far fronte ad atteggiamenti sfidanti e alle difficoltà legate alla gestione di comportamenti e stati emotivi. Mostrarsi pazienti e accoglienti anche nei confronti degli atteggiamenti di sfida, ascoltare attivamente il figlio nei momenti di fragilità, creare uno spazio privato ed enfatizzare la possibilità di reinvestire quello che si è messo in pausa in un futuro sono tutti elementi che possono rivelarsi molto utili. Con i ragazzi di questa età un intervento efficace lascia degli spazi di autonomia e di scoperta della propria identità, pone l’accento sul monitoraggio e l’osservazione delle emozioni, stabilisce del tempo vuoto per organizzarsi mentalmente, emotivamente e relazionalmente e incoraggia la possibilità di condividere vissuti e pensieri.

Le raccomandazioni

Il Ministero della Salute ha pensato e realizzato delle vignette contenenti alcune raccomandazioni che ci permettono di capire a cosa dobbiamo fare attenzione:

  • colmare le distanze, rimanere in contatto, inseriti in un gruppo e in relazione;
  • creare una routine e alimentarsi in modo sano, mantenendo il giusto apporto calorico;
  • rimanere attivi: fare comunque del moto.

La docente ha inoltre mostrato come anche altre organizzazioni, ad esempio l’OMS e l’UNICEF, hanno fornito delle utili indicazioni su come affrontare il periodo della pandemia e come aiutare i bambini a gestire lo stress. Questo permette di usare delle linee guida comuni e chiare, stabilite da enti internazionali.

 

Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Dalla formulazione del caso alla ricerca sull’efficacia (2020) di A. Scarinci, R. Lorenzini e C. Mezzaluna – Recensione del libro

Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale si sviluppa a partire da un’attenta analisi delle radici storiche e del progresso della psicoterapia cognitivo-comportamentale in Italia, fino ad affrontare le tematiche della ricerca e della farmacologia.

 

Chiunque abbia affrontato un percorso di formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale si è spesso trovato davanti a numerosi testi, con l’obiettivo di poter approfondire le complesse e numerose tematiche presenti nella letteratura italiana ed internazionale sull’argomento. Tale varietà, se da una parte ha permesso alle nuove generazioni di psicoterapeuti di avere un quadro ampio degli aspetti clinici e di ricerca, dall’altro è spesso risultato essere un puzzle di nozioni difficili da assemblare.

Il libro Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale riesce a raggiungere lo scopo di integrare le principali questioni dibattute nell’ambito della psicoterapia non solo d’impronta cognitivo-comportamentale, con l’obiettivo di rappresentare una guida per gli specializzandi in formazione ed anche per giovani e più esperti psicoterapeuti.

Gli autori rappresentano una garanzia in tal senso: A. Scarinci, R. Lorenzini e C. Mezzaluna sono psicoterapeuti, ricercatori e formatori del panorama nazionale, con alle spalle numerose pubblicazioni ed anni di esperienza, sia a livello clinico che a livello didattico, coadiuvati da giovani clinici ed importanti autori del cognitivismo italiano che hanno partecipato alla stesura dei singoli capitoli (M. Cavalletti, M. Di Egidio, G.M. Ruggiero, G. Caselli, S. Sassaroli, S. Piccioni, C. Formiconi, V. Castellucci, L. Candria, M.C. Barnabei, V. Valenti, E. Favaretto, F. Bedani, M. Ferri, S. Tripaldi). La prefazione è invece stata curata A. Semerari.

Il volume si sviluppa a partire da un’attenta analisi delle radici storiche e del progresso della psicoterapia cognitivo-comportamentale in Italia, fino ad affrontare con attenzione le tematiche della ricerca e della farmacologia, offrendo indicazioni chiare e semplici e avvalendosi di ampie reviews della letteratura.

I primi capitoli del testo propongono interessanti approfondimenti sull’importanza della concettualizzazione del caso per la progettazione dell’intervento terapeutico ed il ruolo della relazione e dell’alleanza terapeutica nel trattamento, con particolare attenzione al razionale dell’utilizzo delle vecchie e nuove tecniche di intervento.

Viene poi dato ampio spazio all’importanza della formazione e della supervisione nei vari stadi di sviluppo dell’expertise del terapeuta, con riferimento sia alle competenze richieste a chi insegna, sia agli indispensabili percorsi di formazione continua di chi opera nel settore della salute mentale.

L’ultima parte del volume è dedicata al controverso tema della possibile convivenza tra approcci di prima, seconda e terza ondata del cognitivismo, passando da aspetti concernenti la diagnosi categoriale o dimensionale e all’intervento centrato su processi o contenuti, fino alle problematiche sempre attuali di integrazione tra le terapie manualizzate supportate empiricamente ed il ragionamento clinico sul singolo paziente.

Il viaggio nell’intricato mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale proposto dagli autori risulta essere davvero interessante e ben articolato, arricchito da nozioni chiare, spunti di riflessione e strumenti spendibili nella pratica clinica non solo per chi è in formazione, ma anche per chi da anni svolge questa difficile professione.

Il volume si candida quindi a diventare un riferimento importante che sinteticamente analizza i percorsi storici, i contenuti ed i processi su cui si basano gli interventi, ma anche le difficoltà e le criticità di una disciplina che ha comunque assunto, grazie all’Evidence Based Medicine, un importante valore scientifico che va sostenuto e divulgato correttamente.

 

Emozioni relative al corpo, motivazione e attività fisica: quale relazione?

La maggior parte degli studi sull’immagine corporea e sulle emozioni ad essa correlate si è concentrata solo sulle donne, il che alimenta l’idea che il problema sia più per queste ultime più che per gli uomini.

 

Il disturbo legato all’immagine corporea è stato tradizionalmente visto come una prerogativa delle donne, alimentata da una cospicua letteratura secondo cui le donne provano emozioni negative e insoddisfazione per il corpo in misura maggiore rispetto agli uomini (Frederick, Jafary, Gruys, & Daniels, 2012). Pertanto, la maggior parte degli studi si è concentrata solo sulle donne, il che alimenta l’idea che il problema riguardi queste ultime più che gli uomini. Uno sguardo completo sulle emozioni legate al corpo negli uomini può essere utile per comprendere gli atteggiamenti, le credenze e i comportamenti legati alla salute. Il presente studio ha lo scopo di esaminare le associazioni tra le emozioni della vergogna legate al corpo, senso di colpa e orgoglio e la motivazione all’attività fisica e il comportamento tra i maschi adulti. Nello specifico, sono stati esaminati i meccanismi di motivazione (estrinseca, introiettata, identificata, intrinseca) come possibili mediatori tra ciascuna delle emozioni legate al corpo e il comportamento di attività fisica.

Le emozioni autocoscienti sono fondamentali nel motivare e regolare la maggior parte delle cognizioni, dei sentimenti e delle azioni delle persone (Fischer & Tangney, 1995): motivano le persone a comportarsi moralmente e in modo socialmente responsabile (Leith & Baumeister, 1998), promuovono la perseveranza nei compiti e nei risultati (Stipek, 1995). La vergogna, il senso di colpa e l’orgoglio sono le emozioni studiate nel contesto delle emozioni autocoscienti e delle teorie sull’immagine del corpo (Tracy & Robins, 2004) e sono probabilmente associate a processi rilevanti per la salute come il comportamento di attività fisica (Castonguay, Gilchrist, Mack, & Sabiston, 2013). La vergogna legata al corpo è un’emozione estremamente dolorosa che gli individui provano quando non riescono a soddisfare gli standard sociali interiorizzati in relazione al corpo con un focus sulle cause radicate nel sé (ad es., “Sono una persona grassa”; Sabiston et al., 2010;). Il senso di colpa legato al corpo nasce in risposta a una trasgressione comportamentale e comporta rimpianto per il fallimento (ad es., “Sono ingrassato perché non faccio sport da tre mesi”; Sabiston & Castonguay, 2014). L’orgoglio deriva da comportamenti socialmente apprezzati (ad es., l’esercizio fisico) o che presentano caratteristiche positive (ad es., essere fisicamente in forma e attraente; Tracy & Robins, 2007). L’orgoglio si declina in autentico e arrogante: il primo emerge in risposta a comportamenti specifici (“ho finito la maratona per cui mi sono allenato”), si collega alla motivazione a impegnarsi in comportamenti diretti all’obiettivo, tra cui l’attività fisica (Castonguay et al., 2013); l’orgoglio arrogante nasce invece da aspetti globali del sé (“sono una persona in forma”) che coinvolge sentimenti di grandiosità personale e di superiorità verso gli altri (Castonguay et al., 2013). Esso è associato all’autocompiacimento narcisistico (Castonguay et al., 2013).

Deci & Ryan (2002) hanno individuato diverse tipologie di motivazione: amotivazione (mancanza di intenzione di impegnarsi in un comportamento), estrinseca (partecipare per soddisfare le richieste esterne), introiettata (partecipare per evitare di sentirsi colpevoli o per proteggere la propria autostima), identificata (partecipare per l’importanza personale attribuita al risultato dell’attività) e intrinseca (cioè partecipare per il godimento intrinseco o l’interesse per l’attività). Le motivazioni identificate e intrinseche sono anche dette “motivazioni autodeterminate” in quanto l’impegno verso un comportamento è il risultato di un senso di volontà e di scelta.

Si tratta di uno studio condotto con uomini adulti (N=152), i quali hanno compilato un questionario online. Nello specifico, è stata somministrata la Weight-and BodyRelated Shame and Guilt scale (WEB-SG; Conradt et al., 2007), composta da 12 items che misurano la vergogna per il corpo, l’immagine e il peso (6 item del tipo “Mi vergogno di me stesso quando gli altri sanno quanto peso realmente”) e il senso di colpa per le abitudini alimentari, l’esercizio fisico e il controllo del peso (6 items del tipo “Quando non riesco ad allenarmi fisicamente mi sento colpevole”). Le risposte agli item variavano da 0 (mai) a 4 (sempre). L’orgoglio autentico e arrogante legati al corpo sono stati valutate utilizzando la Body-Related Pride Scale (Sabiston et al., 2010). I partecipanti hanno valutato il loro livello di accordo attraverso aggettivi descrittivi di orgoglio autentico (N items = 7; realizzato, di successo, soddisfatto, sicuro di sé, produttivo, pieno di autostima) e di orgoglio arrogante (N items = 7; egoista, arrogante, snob, presuntuoso, compiaciuto). Le risposte sono state valutate utilizzando una scala Likert a 5 punti da 1 (per niente) a 5 (estremamente).

La Behavioral Regulation in Exercise Questionnaire (BREQ; Mullen, Markland, & Ingledew, 1997) è stata utilizzata per valutare la motivazione all’attività fisica: composta da 15 item, di cui 4 valutano la regolazione estrinseca (“Faccio esercizio perché gli altri dicono che dovrei”), 3 valutano l’introiezione (“Mi sento un fallimento quando non mi alleno da un po’ di tempo”), 4 valutano la motivazione identificata (“Valuto i benefici dell’esercizio”) e 4 item valutano la motivazione intrinseca (“Faccio esercizio perché è divertente”). I partecipanti hanno risposto riferendosi ad una scala a 5 punti che va da 0 (non è vero per me) a 4 (molto vero per me).

La Leisure Time Exercise Questionnaire (LTEQ; Godin & Shephard, 1985) è stata utilizzata per esplorare il comportamento relativo all’attività fisica: consiste in tre domande a risposta aperta che valutano la frequenza media di attività fisiche lievi, moderate e intense svolte settimanalmente per almeno 15 minuti durante il tempo libero.

I risultati hanno confermato le ipotesi principali, in quanto è emerso che ogni emozione autocosciente legata al corpo si associa con la motivazione all’attività fisica e al comportamento: vergogna e senso di colpa legati al corpo correlano positivamente con i meccanismi di motivazione meno autodeterminati (estrinseca e introiettato) e si associa negativamente ai meccanismi più autodeterminati e a comportamenti di attività fisica. L’orgoglio arrogante non correla con i meccanismi di motivazione, ma correla positivamente con l’attività fisica, suggerendo che questa emozione può essere una valida strategia per iniziare gli individui all’attività fisica. La motivazione estrinseca è un mediatore significativo di tutte le emozioni autocoscienti legate al corpo, tranne che per il legame tra l’orgoglio arrogante e l’attività fisica. La vergogna e il senso di colpa erano positivamente, mentre l’orgoglio autentico era negativamente, associati alla motivazione estrinseca. Inoltre, quest’ultima si associa negativamente all’attività fisica. La motivazione intrinseca e identificata hanno anche mediato le associazioni tra senso di colpa e attività fisica: il senso di colpa è associato positivamente ad esse, che a loro volta sono positivamente associate all’attività fisica. Inoltre, la vergogna correlata al corpo si associa positivamente alla motivazione introiettata e negativamente correlata a quella intrinseca. L’orgoglio autentico correla positivamente sia con la motivazione identificata che con quella intrinseca e direttamente associato al comportamento dell’attività fisica.

 

Test grafici in ambito clinico e forense. Criticità, validità e problematiche – Intervista a Leonardo Abazia

Leonardo Abazia, psicologo giuridico e psicoterapeuta presso l’UOPC di Napoli, Direttore dei Master in Perizia psicologica presso l’ICPG di Napoli, pubblica un nuovo testo, Test grafici in ambito clinico e forense. Criticità, validità e problematiche, che si pone come compendio critico e introduttivo ai test grafici.

 

Il testo è utilizzabile sia da un pubblico di neolaureati in psicologia, che iniziano a interfacciarsi con tali strumenti, sia da giovani colleghi psicologi, che già se ne avvalgono in ambito peritale e che potrebbero trarne giovamento soprattutto per quel che attiene le indicazioni di somministrazione e l’esplorazione degli aspetti critici.

 

Nella tecnica del disegno più che in altri metodi proiettivi, la teoria seguì il successo pratico, la validazione empirica precedette la costruzione di un sistema teorico.

Le parole di Karen Machover aprono il nuovo libro di Leonardo Abazia che, anche questa volta, si avvale della preziosa collaborazione di altri professionisti, in un lavoro corale e complesso.

Intervistatore (I): Da dove nasce l’esigenza di scrivere un ulteriore libro sui Test Grafici?

Leonardo Abazia (L.A.): Il testo nasce dalla volontà di rispondere alle tante domande poste dai discenti durante i corsi di psicodiagnostica svolti presso l’Istituto Campano di Psicologia Giuridica (ICPG) di Napoli, interrogativi che, dettati soprattutto dall’incertezza e da quell’alone di  problematicità che avvolge strumenti come i test grafici in ambito scientifico e psicologico, l’équipe afferente all’ICPG ha cercato di analizzare, in maniera sintetica e approfondita, in un testo unico. Per fare questo, sono stati analizzati i pareri pro veritate, le Consulenze Tecniche di Parte (CTP) e le Consulenze Tecniche d’Ufficio (CTU) che negli ultimi anni sono stati effettuati presso l’Istituto. Inoltre, si sono ricercati, in una bibliografia aggiornata, quegli elementi volti a confermare e/o disconfermare l’utilizzo così massiccio di questi test, troppo spesso spacciati per strumenti “oggettivi” sui quali  vengono costruite ipotesi diagnostiche. Il rischio, in questi casi, è che le suddette ipotesi vengano assunte come prove dalla magistratura o come validi elementi tecnici dagli avvocati a sostegno delle loro decisioni. L’utilizzo del sapere psicologico e, in particolare, gli strumenti scientifici utilizzati e ritenuti erroneamente oggettivi, devono sempre essere accompagnati da una definizione chiara ed esaustiva, dal loro valore euristico, da una loro validazione nel contesto in cui vengono utilizzati, dalla loro appartenenza a un’epistemologia e a una precisa teoria psicologica. Essi, infatti, acquistano significato e pregnanza solo se contestualizzati nella teoria di riferimento dalla quale nascono, traggono spunto e linfa vitale per esistere. Infine, l’attenzione è stata posta su alcune criticità che in ambito forense diventano veri e propri problemi, come l’attendibilità e la validità degli strumenti, le indicazioni per i quali sono stati costruiti e le procedure standardizzate di somministrazione.

La nostra categoria professionale è sicuramente quella che, più di ogni altra, possiede gli strumenti e le competenze, per approfondire gli aspetti legati alla psicodiagnosi, nonostante le criticità intrinseche ai test stessi. Purtroppo, fino ad oggi queste valutazioni psicodiagnostiche, in ambito giuridico, sono state effettuate e/o gestite da altre figure professionali come Medici Legali, Neuropsichiatri infantili e Psichiatri Forensi. Dunque, ho sentito la necessità di comunicare agli altri colleghi, l’importanza di svolgere con sempre maggiore autonomia un lavoro, come quello psicodiagnostico, i cui ambiti di intervento sono, per legge, ascrivibili al ruolo dello Psicologo.

Nel libro vengono esposti elementi, metodologie, ricerche, validazioni, per quanto attiene a cinque test grafici ripresi da vari libri specifici per ogni test e da un testo riconosciuto come fondante della letteratura nazionale, ossia Metodi e tecniche nella diagnosi della personalità. I test proiettivi di D. Passi Tognazzo (1999). Un lungo capitolo è stato dedicato ad otto casi di separazione nei quali sono stati somministrati, esposti e discussi il test congiunto della famiglia. Mentre nella seconda parte sono riportati ben 16 casi, sia clinici che forensi, nei quali sono stati utilizzati tutti e cinque i test.

I: Quali sono le difficoltà più grandi con cui si impatta in ambito forense e che il suo libro aiuta ad affrontare?

L.A.: La difficoltà più grande, con cui lo psicologo deve fare i conti è innanzitutto effettuare una corretta psicodiagnosi. Il complesso processo psicodiagnostico passa attraverso varie fasi e momenti come un buon colloquio clinico, un’attenta osservazione, una valorizzazione delle evidenze cliniche, ma anche un utilizzo corretto e critico dei test psicologici. Occorre procedere con un approccio metodologico molto rigoroso, seguendo dei criteri precisi, che abbiano una validità scientifica, ma che purtroppo non sempre sono disponibili. A oggi, risulta chiaro che le problematiche più roventi si sviluppino intorno a concetti come la validità, l’attendibilità, la costanza e la sensibilità dello strumento. Esiste, di fatto, un’evidente discrepanza tra l’ambito della ricerca e quello della pratica clinica: se, da una parte, le proprietà psicometriche indicano che tali strumenti non hanno, a volte, una buona validità, dall’altra, il loro utilizzo massiccio in ambito clinico potrebbe spingere il professionista a credere ciecamente nello strumento. Tuttavia, oltre alle criticità suddette, le tecniche proiettive vantano di fornire dati di qualità diversa rispetto a qualsiasi altro metodo, tra questi, il vantaggio di essere connotate da una direttività minore rispetto ad altri tipi di test e, dunque, la capacità, solitamente, di superare le difese consce del soggetto, permettendo un accesso privilegiato a informazioni psicologiche importanti, non altrimenti esplorabili e di cui il soggetto stesso non è consapevole.

I: Ancora una volta sceglie di collaborare con altri professionisti nella stesura del suo lavoro, in che modo avvengono tali collaborazioni e che valore aggiunto hanno portato al suo lavoro?

L.A.: La collaborazione con altri professionisti è sempre stata e rimane un elemento costante del mio lavoro. Chi come me opera in un ambito complesso come quello della Psicologia Giuridica, non può esimersi dal confrontarsi e dal collaborare con gli altri  esperti del settore. Ritengo, infatti, che il confronto sia l’unico modo, non solo per crescere, ma soprattutto per fronteggiare con passione e competenza le sfide che questo ambito di intervento richiede. In questo libro in particolare hanno collaborato giovani professionisti che, nel corso di questi anni, hanno lavorato con me nell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica. In verità, trovo sempre molto stimolante il confronto con i giovani professionisti, poiché riescono, con la loro passione, con le loro idee, con la loro curiosità e in particolare con il loro pensiero critico, a stimolare un dibattito fecondo su argomenti, e a mettere in dubbio credenze a volte impropriamente consolidate.

I: Quale consiglio si sente di dare ai futuri professionisti che leggeranno questo suo libro?

L.A.: Voglio dire loro che è essenziale un atteggiamento critico e di disincanto nei confronti di tutti gli strumenti che si troveranno a utilizzare nel corso del loro lavoro. Ma questa fase deve necessariamente essere preceduta da un approfondimento dello studio degli strumenti che verranno impiegati. Fondamentale risulta la formazione: è importante che l’operatore si formi in maniera adeguata alla somministrazione e all’interpretazione dei test grafici, che impari a conoscere la reale utilità degli strumenti che andrà ad applicare, le potenzialità e i limiti insiti nelle prove stesse, con la consapevolezza che le conoscenze, soprattutto nell’ambito delle scienze umane, sono spesso relative e che nessun test è uno strumento infallibile.

Il buon utilizzo dei test in generale e dei metodi proiettivi in particolare dipende, soprattutto, dalla preparazione dell’esaminatore e dalla sua esperienza in ambito psicodiagnostico. È solo in presenza di tali elementi, infatti, che si possono ottenere risultati utili ai fini di una esatta valutazione o di un corretto inquadramento psicodiagnostico.

 

L’autoregolazione emotiva nella sindrome dello spettro autistico

La disregolazione delle emozioni non è un criterio formale per la diagnosi del disturbo dello spettro autistico (ASD), tuttavia, i genitori e i clinici hanno da tempo notato l’importanza dei problemi emotivi nei soggetti con ASD.

Alice Covolan – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

In passato, su persone con disturbo dello spettro autistico, non vi sono stati molti studi che abbiano esaminato la regolazione delle emozioni, ma solo recentemente l’attenzione si è spostata verso questi orizzonti, riportando prove sufficienti che suggeriscono alti livelli di disturbo in questo dominio. La maggior parte degli studi tuttavia si sono concentrati sulla capacità delle persone con ASD di riconoscere emozioni negli altri, piuttosto che sull’esperienza e gestione delle proprie emozioni (Mazefsky et al., 2012). Altri studi hanno ampiamente effettuato osservazioni comportamentali e rapporti di indagine (Mazefsky et al., 2012) sul comportamento emotivo.

In diversi studi si sono frequentemente osservati comportamenti emotivi problematici inclusa irritabilità, scoppi d’ira, aggressività e / o comportamenti auto aggressivi. Lecavalier et al. (2006) ha recentemente suggerito che più del 60% dei giovani con ASD esibisce tali comportamenti. Inoltre, le persone con ASD hanno esperienza di alti livelli di ansia e aumento delle emozioni negative, che possono contribuire ad intensificare sentimenti di angoscia. Queste emozioni a livello elevato possono avere un impatto negativo sul funzionamento quotidiano e sulla qualità della vita. In particolare, gli studi hanno suggerito che gli individui con l’ASD usano strategie di regolazione delle emozioni adattive, come comportamenti diretti all’obiettivo o ricerca di supporto sociale, con meno efficacia rispetto al un gruppo di controllo con sviluppo tipico (Jahromi et al., 2012). Inoltre, le persone con ASD si affidano a strategie poco adattive o idiosincratiche, come l’evitamento e la ventilazione (Jahromi et al.,2012) o difesa e pianto (Konstantareas & Stewart, 2006). L’astensione dal contatto visivo in individui ASD è inteso come un meccanismo di coping usato per evitare una maggiore risposta emotiva associata al contatto oculare (Dalton et al., 2005). Questo è coerente con uno studio recente di Samson, Huber e Gross (2012) che suggerisce come gli adulti con ASD usino meno frequentemente la rivalutazione cognitiva rispetto alle persone con sviluppo tipico e usino di più la soppressione espressiva, che è considerata disadattativa a lungo termine se è l’unica strategia disponibile.

L’autoregolazione cognitiva – emotiva

Quando gli individui regolano le loro emozioni influenzano il modo in cui vivono e / o esprimono le emozioni (Gross, 1998; Gross & Thompson, 2007). Le abilità di regolazione delle emozioni sono fondamentali perché ci permettono un ottimale funzionamento e adattamento, ci consentono risposte appropriate nelle interazioni sociali e facilitano la capacità di affrontare nuovi cambiamenti e situazioni (Gross, 1998, 2007; Seta, Steinberg, & Morris, 2003). Nell’ultimo decennio, i ricercatori hanno evidenziato un certo numero di strategie di regolazione delle emozioni, le quali si differenziano notevolmente le une dalle altre; ad esempio, alcune influenzano la risposta emotiva in corso agendo su ciò che avviene prima (l’azione è focalizzata sull’antecedente), altre influenzano l’azione a posteriori (l’azione è focalizzata sulla risposta).

La rivalutazione cognitiva è una strategia di regolazione focalizzata sull’antecedente ed è stata identificata come particolarmente importante per il funzionamento emotivo adattivo, coinvolgendo il pensiero su un evento che può suscitare l’impatto emotivo. Precedenti studi suggeriscono che la rivalutazione cognitiva è una strategia altamente efficace nell’autoregolazione delle emozioni negative nei soggetti a sviluppo tipico e predice risultati positivi a lungo termine (Bower et al., 2005; Gross, 2002).

Arousal psicologico e strategie di regolazione emotiva in bambini di 3-6 anni con spettro autistico

Una recente ricerca di Zantinge et al. (2017) ha studiato l’arousal (attivazione emotiva) e le strategie di regolazione in 29 bambini con ASD (ASD con QI e competenze linguistiche ridotte) e 45 bambini con sviluppo tipico, di età compresa fra 41 e 81 mesi. Poiché si è notato un comportamento emotivo problematico con scoppi d’ira, irritabilità, aggressività, autolesionismo, ansia e impulsività riportato dai genitori di bambini con autismo, è stata valutata l’attivazione emotiva in bambini con ASD in risposta alla frustrazione, e come loro affrontino queste emozioni in termini di strategie di regolazione.

Il nucleo dello studio era la rilevazione fisiologica (misure della frequenza cardiaca) in parallelo alle osservazioni comportamentali che indicano in che modo i bambini superano il momento di frustrazione e quali strategie di regolazione applicano per tornare ad uno stato di equilibrio emotivo.

La misurazione dell’arousal emotivo ha rivelato che il modello di risposta emotiva nei bambini con ASD era simile a quello dei bambini con sviluppo tipico. Non c’era differenza nella risposta di attivazione emotiva tra i gruppi. Per entrambi i gruppi c’è stato un aumento di arousal in risposta alla frustrazione, la frequenza cardiaca diminuiva durante il recupero e la diminuzione della frustrazione si è manifestata in modo simile. Se la risposta emotiva alla frustrazione non differiva fra bambini con ASD e bambini con sviluppo tipico, al contrario, le osservazioni sulle strategie comportamentali di regolamentazione delle emozioni, hanno evidenziato che i bambini con ASD sviluppano diverse strategie disadattive, in particolare vi è un uso maggiore di ventilazione ed evitamento rispetto ai bambini con sviluppo tipico. I bambini con ASD hanno mostrato inoltre meno strategie costruttive (es. goal directed) rispetto ai bambini dallo sviluppo tipico.

In questo studio, i bambini con ASD hanno anche mostrato più problemi di autocontrollo nella vita quotidiana scolastica, come riportato dagli insegnanti. L’autocontrollo gioca un ruolo importante nella regolazione delle emozioni. Altri studi paralleli spiegherebbero tali risultati a causa di una capacità linguistica ridotta e sosterrebbero l’utilità di interventi mirati al linguaggio con l’obiettivo di insegnare un modello comunicativo appropriato, in particolare per poter esprimere il proprio stato d’animo quando un bambino mostra eccessivi scoppi d’ira. Gli autori di questo studio hanno ipotizzato anche che le capacità di inibizione e flessibilità cognitiva non sono state utilizzate da bambini con ASD perché probabilmente non ancora sviluppate come strategie di coping nel regolare l’emozione e, se le strategie di regolamentazione dipendessero dalle capacità di inibizione e flessibilità cognitiva, sarebbe interessante proseguire gli studi futuri su queste scoperte.

La Rivalutazione Cognitiva come strategia di regolazione emotiva in bambini e adolescenti con spettro autistico

Lo studio di Samson et al. (2014) ha puntato sulla valutazione della regolazione emotiva in bambini e adolescenti considerando la strategia della rivalutazione cognitiva, partendo da una maggiore comprensione della situazione. Mentre i risultati di uno studio precedente avevano fornito prove che suggerivano che gli adulti con ASD utilizzassero la rivalutazione cognitiva meno frequentemente e con meno efficacia rispetto agli adulti con sviluppo tipico (Samson et al., 2012), si sa poco sull’uso e sull’efficacia della rivalutazione cognitiva nei bambini e negli adolescenti con ASD. La tarda infanzia e l’adolescenza sono entrambe fasi critiche per lo sviluppo della regolazione delle emozioni. Durante queste fasi, gli individui acquisiscono un ampio repertorio di strategie di regolazione delle emozioni, tra cui strategie adattive come problem solving e rivalutazione cognitiva. 
Gli autori di questo studio hanno utilizzato i compiti di ‘Reactivity and Regulation Situation’: in poche parole bambini e ragazzi con ASD e sviluppo tipico sono stati invitati in una prima fase a valutare la situazione ricreata anche dal vivo che provocava un certo grado di frustrazione, rispondendo ad alcune domande che indagavano emozioni e pensieri. Successivamente sono stati istruiti alla rivalutazione cognitiva attraverso suggerimenti come ‘prova a pensare in modo diverso’, ‘puoi pensare a questa situazione in un modo diverso in modo che appaia meno preoccupante / paurosa?’. I partecipanti hanno valutato la loro negatività seguendo le loro rivisitazioni cognitive e non la loro iniziale reazione alla situazione. Dallo studio si è visto come, nonostante vi sia un utilizzo meno efficace della strategia di rivalutazione cognitiva da parte delle persone con ASD, un training sia utile per loro per riconoscere una situazione frustrante, le loro conseguenti attivazioni emotive e come l’uso della rivalutazione cognitiva li porti ad avere un pensiero più adattivo.

Autoregolamentazione emotiva di individui con ASD: uno Smartwatch per il monitoraggio e l’interazione

Torrado e colleghi (2017), hanno analizzato i bisogni delle persone con disturbi dello spettro autistico (ASD) per raggiungere una forma di assistenza pervasiva, fattibile e non stigmatizzante della loro autoregolamentazione emotiva, al fine di alleviare alcuni problemi comportamentali che minano la loro salute mentale per tutta la loro vita. Il gruppo di ricerca avrebbe ideato un sistema di smartwatch (orologio regolare) che supporta la rilevazione dello stato interno dell’utente attraverso modelli di sfogo da segnali fisiologici (come il battito cardiaco) e di movimento, e implementa una vasta gamma di strategie di autoregolazione, insieme a uno strumento di authoring per smartphone che deve essere utilizzato dai caregiver o dai membri della famiglia per creare e modificare queste strategie, in un modo adattivo. Torrado e colleghi (2017) hanno condotto un esperimento intensivo durato 9 giorni, con due persone con ASD che hanno mostrato varie risposte comportamentali rappresentative della loro disregolazione emotiva. Entrambi gli utenti sono stati in grado di utilizzare strategie di autoregolazione emotiva efficaci e personalizzate tramite mezzi del sistema, riuscendo a gestire la maggior parte degli episodi di stress e gli scoppi d’ira sperimentati nella loro classe.

Le emozioni sono il risultato della valutazione cognitiva delle circostanze esterne, perciò i modi per affrontare le questioni relative alle emozioni, sopratutto quando si tratta di persone con disabilità cognitiva, sono veramente vari. A causa di questo è ancora più problematico definire un intervento, perché le strategie di regolazione delle emozioni devono essere adattate a ciascun utente, praticamente caso per caso. Per progettare il modello di dati dietro il sistema, hanno seguito i consigli del Dr. Quintero-Lumbreras, esperto dell’Istituto di Psicogestione, che suggerisce attuali strategie di regolazione delle emozioni usate con i bambini. Hanno poi progettato il modello con le strategie di regolazione più utilizzate e le hanno in seguito implementate nel sistema. I risultati di questo studio hanno evidenziato che l’uso dello smartwatch evita l’utilizzo di immagini stampate per il supporto della regolazione emotiva e permette un risparmio di tempo, la sua creazione di contenuti è diretta e visivamente attraente, personalizzabile e pervasiva (l’utente riceve l’intervento ovunque e in qualsiasi momento se indossa lo smartwatch). Gli autori hanno osservato inoltre che fra i due partecipanti e i loro compagni di classe non ci sono differenze per il fatto di indossare smartwatch come supporto (cioè, nessuna stigmatizzazione), e il sistema li ha aiutati a controllare la maggior parte dei loro episodi di stress in pochi minuti. Essere in grado di gestire un gran numero di scoppi d’ira è altamente positivo per le persone con ASD e l’accumulo di episodi di esposizione spiacevoli e autolesionisti nel lungo termine aumenta i problemi di regolazione emotiva futura. Questo è il motivo per cui questo sistema potrebbe garantire un importante miglioramento della qualità della vita delle persone con ASD e problemi di disregolazione emotiva, poiché l’intervento applicato alla vita quotidiana può prevenire i problemi comportamentali e garantire una corretta autoregolazione emotiva.

 

‘Ricordi?’, una modalità per congelare il tempo

L’articolo propone una lettura del film Ricordi? di Valerio Mieli, evidenziando l’aspetto simbolico del ricordo e della focalizzazione sul futuro, tipica dell’essere umano che non riesce a stare nel qui ed ora. Tale interpretazione mette dunque il luce l’aspetto in ombra del ricordo, protagonista del lungometraggio.

 

La piattaforma Sky in questo periodo propone nel catalogo l’ultima pellicola del regista Valerio Mieli Ricordi?, di cui di seguito riportiamo una citazione significativa.

Lei: Alla fine le cose sono belle perchè sai che finiscono.
Lui: No, le cose sono meno belle perché ci angosciamo che finiranno.

Leggendo questa storia tramite una prospettiva psicologica, sembra che mostri come il rimanere ancorati al passato o proiettati verso il futuro permetta di non toccare il presente. I protagonisti, quando potrebbero entrare dentro una forte emozione provocata dall’intimità nell’incontro con sé o con l’altro, preferiscono inconsciamente la fuga in un ricordo o in pensieri anticipatori di un futuro ancora non esistente.

Il ricordo, protagonista assoluto, è accompagnato spesso dall’angoscia, menzionata dal ragazzo nella citazione sopra riportata. Il primo mantiene le persone paralizzate in un vissuto non più esistente e la seconda le scaglia verso una realtà che non ha ancora avuto luogo. L’effetto voluto protettivamente dall’inconscio risulta essere quello di rimanere bloccati in un viaggio temporale, la cui funzione è quella di non stare in quello che c’è.

Rimanere nel momento attuale può essere sentito come pericoloso, poiché comporterebbe un incontro reale con se stesso e con l’altro. A questo seguirebbe un’immersione dentro un arcobaleno di emozioni, i cui colori sono più o meno apprezzati.

Il momento presente è al contempo ciò da cui ci si vuole proteggere e ciò di cui non si può godere.

La mente crea una barriera protettiva, nota come meccanismo difensivo, che si innalza ogni qual volta sente che c’è il rischio di entrare nella foresta sconosciuta delle emozioni e si casca nel ricordo. Quanto può mettere paura quello che non si conosce e quanto può essere protettiva e invalidante la strada già conosciuta?

La paura del non conosciuto va a braccetto con il timore di vivere, dove per vivere non si intende la sopravvivenza, ma l’immersione emotiva in ogni esperienza. Nel caso del film, in soccorso alla paura di vivere arriva la fobia della perdita. Il protagonista infatti più volte ripete che non trova il senso di vivere una relazione se poi andrà persa. E così si culla in quella che sembra una continua depressione, autorizzato da un passato e da un futuro non più o non ancora esistenti, terrorizzato dall’effetto collaterale delle relazioni, ovvero dalla vita.

Eppure vi è un momento del film dove il ragazzo s’immerge nel dolore, che fino a quell’istante non era riuscito a toccare ed è allora che si permette di piangere. Entrare dentro un dolore è la chiave che ne permette l’uscita e la possibilità di incontrare altre emozioni. Non tutte sono piacevoli, ma passarci dentro ci permette di vivere appieno ogni esperienza e non di sopravvivere congelati in qualcosa che non c’è più, proprio come un ricordo, o nella paura che potrebbe avvenire una perdita. Quando si è disposti a lasciarsi andare all’imprevidibilità della vita, si può accedere appieno all’incontro con essa e a tutti i colori esistenti tra il bianco e il nero.

Sembra che la proposta riflessiva del film di Valerio Mieli sia questa: scegliere se alzare la barriera protettiva dei ricordi o lasciarci andare ad una doccia emozionale.

 

Comprendere i bambini. Sviluppo ed educazione nei primi 3 anni di vita (2019) di Silvana Quattrocchi Montanaro – Recensione

Un concetto interessante e non banale che viene proposto nel testo Comprendere i bambini. Sviluppo ed educazione nei primi 3 anni di vita è che tutto ciò che si fa con il bambino è educazione.

 

Il bambino non è un vaso da riempire
ma un fuoco da accendere (François Rabelais)

Educare oggi rappresenta una delle sfide più significative, complesse ed urgenti del nostro tempo. Le nuove scoperte scientifiche nel campo dello sviluppo dell’individuo, nonché la sempre più crescente complessità dei sistemi culturali e delle condizioni ambientali in cui il bambino, poi adolescente e adulto, cresce espongono la famiglia e la scuola (luoghi privilegiati dell’educare) a nuove difficoltà e sfide, che impongono la necessità di mutare i modelli e le strategie educative, patrimonio di altre epoche e periodi storici.

Oggi, più che mai, ci troviamo ad affrontare bambini e adolescenti inquieti, pigri, problematici e spesso portatori di manifestazioni patologiche già da giovanissimi. Giovani i cui comportamenti attivano negli adulti sgomento, preoccupazione e disorientamento rispetto a come poter meglio affrontare le difficoltà in termini educativi. Il processo educativo, che coinvolge la famiglia, ma anche la scuola, impone quindi agli adulti non solo di comprendere quali siano i bisogni, le difficoltà, le risorse e le fragilità di ogni bambino/ragazzo, ma anche quale sia il significato complesso e profondo dell’educare.

Silvana Quattrocchi Montanaro in questo libro offre al lettore una attenta e sensibile lettura del percorso di crescita e sviluppo del bambino nei primi tre anni di vita, facendosi guidare, da un lato, dalle recenti scoperte scientifiche sullo sviluppo del bambino e dall’altra dall’esperienza decennale dell’autrice di osservazione e lavoro con i genitori e i bambini. Il filo conduttore di questo percorso di acquisizione delle tappe fondamentali di sviluppo del bambino è però il concetto di educazione. L’educazione viene quindi proposta come un processo relazionale di ‘aiuto allo sviluppo’, dal potente potere trasformativo delle potenzialità e delle risorse sensoriali, fisiche e psichiche innate del bambino. Un processo questo che dovrebbe non solo tenere conto delle capacità del bambino ma dovrebbe essere rispettoso dei suoi tempi e della sua individualità. Un processo dinamico e continuo, che mira alla libertà e alla piena integrazione affettiva, emotiva e morale dell’individuo.

A superamento della diatriba tra responsabilità della scuola e della famiglia, l’educazione è proposta come un processo a ponte, che certamente inizia nella gravidanza e nei primi anni di vita attraverso e all’interno della relazione con i caregivers, ma che poi vede, secondo l’autrice, nel periodo tra i 3 e i 6 anni una fase importante per la continuazione, il rafforzamento e la correzione di ciò che è avvenuto prima, grazie all’azione educativa della scuola.

Un concetto interessante e non banale che viene proposto nel testo è che tutto ciò che si fa con il bambino è educazione. Offrire un ambiente sensorialmente ricco e stimolante, offrire una presenza adulta continua ed emotivamente adeguata ai bisogni del bambino, essere un caregiver simbiotico e successivamente capace di promuovere il processo di separazione, rispettare il valore biologico e psicologico del latte materno e dell’allattamento così come dello svezzamento, riconoscere e favorire il bisogno di libertà del bambino attraverso il camminare e il parlare, rappresentano per l’autrice momenti educativi fondamentali. Ognuno di questi, infatti, consente di offrire al bambino un ambiente via via adeguatamente capace di plasmare il suo cervello, e di porre in essere tutte le sue potenzialità di crescita ed adattive.

Ogni tappa di sviluppo significativa del bambino viene quindi riletta dall’autrice in chiave educativa e relazionale, e non solo sotto il profilo psico-biologico. Interessante è in quest’ottica la visione offerta della famiglia come nucleo sociale di base, e del padre come figura di grande rilievo dal punto di vista della sua paternità educativa: a lui è riconosciuto il delicato compito di facilitare e garantire la relazione simbiotica del bambino con la madre, arricchendo l’ambiente di esperienze sensoriali positive e adeguate, che consentano al piccolo di realizzare le proprie potenzialità.

L’accento è posto quindi sul ruolo educativo che la genitorialità esercita nella possibilità per il bambino di costruire quella fiducia di base, quel Modello Operativo Interno, per dirla alla Bowlby, di sé come degno di amore e dell’ambiente come capace di esserci, e di rispondere in modo adeguato ai suoi bisogni evolutivi.

Una genitorialità che non è quindi fatta di copioni predefiniti, di modus operandi preconfezionati, ma della capacità del caregiver di ascoltare, accogliere, accettare e rispettare i tempi e i modi del bambino di progredire nello sviluppo, a partire dal comprendere cosa lo sviluppo significhi e in che modo sia possibile facilitare la realizzazione delle potenzialità innate.

Nel suo testo l’autrice è stata capace di affrontare temi complessi con un linguaggio semplice e accessibile, ma sempre ricco di riferimenti forti alla letteratura scientifica attuale. Questo lo rende un testo interessante per tutti coloro che desiderino conoscere con maggior approfondimento il tema, ma anche un ottimo spunto di riflessione per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno deciso di raccogliere la sfida educativa e vogliono affrontarla con consapevolezza e competenza.

 

Il tatuarsi aumenta l’autostima e la soddisfazione per il proprio corpo?

I tatuaggi si possono definire come un mezzo di comunicazione non verbale utilizzato dal soggetto per inviare informazioni su di Sé in modo indiretto ed in grado di dare forma ad un’immagine personale ideale. 

 

La diffusione dei tattoo è un fenomeno ampiamente diffuso all’interno della società occidentale e spinge gli individui a scegliere di tatuarsi immagini, frasi, volti e paesaggi, ritenuti da loro significativi, nell’intento di apparire alla moda, sicuri di sé, unici ed interessanti (Armstrong et al., 2002). Infatti il tatuaggio si può definire come un mezzo di comunicazione non verbale utilizzato dal soggetto per inviare informazioni su di Sé in modo indiretto ed in grado di dare forma ad un’immagine personale ideale.

Ciò è confermato dalle motivazioni che la maggior parte degli individui dà rispetto alla scelta di tatuarsi. Le spiegazioni più frequenti riguardano l’acquisizione di maggior controllo del proprio corpo, oltre alla possibilità di esprimere il proprio Sé e di differenziarsi dagli altri, apparendo unici e speciali (Forbes, 2001; Carroll & Anderson, 2002; Armstrong et al, 2008).

Per questo motivo recentemente diversi studi hanno esplorato il legame tra autostima e comportamento di tatuarsi, oltre che l’influenza di quest’ultimo sull’incremento della soddisfazione corporea, ed il presente studio (Kertzman et al., 2019) si propone di approfondire questi aspetti.

Sono stati formati due gruppi, ciascuno composto da 60 donne, nel primo le donne presentano tutte dei tattoo e sono di età compresa tra i 18 e i 35 anni, mentre nel secondo, le partecipanti rientrano nella stessa fascia d’età, ma non hanno tatuaggi.

Servendosi del software PsyScan ed utilizzando nello specifico The repertory grid tecnique (RGT), che utilizza i colori come strumento d’indagine in grado di cogliere aspetti emotivi e cognitivi impliciti, gli autori hanno studiato le relazioni tra immagini corporea, autostima e comportamento di tatuarsi. A ciascun soggetto, preso singolarmente, è stato chiesto di indicare quale dei sette colori presentati era in grado di rappresentare maggiormente il costrutto esaminato (il proprio corpo, il Sé ideale, ecc.), ripetendo la procedura fino all’eliminazione di tutti i colori, e, una volta che la stessa operazione è stata applicata a tutti i costrutti, la relazione tra questi è stata studiata sulla base della precedente selezione degli elementi, in quanto ciascuna scelta è considerata indicativa per l’esame delle variabili oggetto di studio.

I risultati rilevano che le donne con i tatuaggi mostrano di avere un’autostima più bassa rispetto alle donne senza tatuaggi, in linea con i precedenti studi secondo cui il tatuarsi comporta una maggior accettazione del proprio corpo (Swami, 2011), che viene più graditamente esibito, in quanto diventa specchio della propria individualità (Pajor, Broniarczyk-Dyla, & Switalska, 2015), portando ad una maggior soddisfazione per il proprio corpo.

In conclusione, possiamo dire che è presente una relazione tra la scelta di tatuarsi ed il bisogno di sentirsi padroni del proprio corpo, motivo per cui questo comportamento ha inizio durante la fase adolescenziale, momento in cui il corpo cambia, assumendo forme e funzioni diverse, che si ripercuotono nel tentativo dell’individuo di dare un significato a tali trasformazioni, oltre che definire la propria identità alla luce del passaggio verso una nuova fase del ciclo di vita.

 

Miti sulla maternità: sviluppare uno stile di ragionamento efficace

La gravidanza, la nascita e primi tempi della maternità rappresentano per la maggior parte delle donne un’esperienza molto positiva. Tuttavia questo è un periodo di transizione e potrebbe rivelarsi difficile adattarvisi.

Alessandra Epis – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Alcune aspettative delle persone nei confronti della gravidanza e della maternità sono troppo idealizzate e si manifestano sottoforma di pensieri poco realistici quali:

  • Le donne in gravidanza sono sempre felici;
  • Sarò sempre felice di essere incinta e di essere madre;
  • C’è qualcosa di sbagliato in me se non ce la faccio ad affrontare le situazioni;
  • Le madri riconoscono e amano immediatamente il proprio bambino;
  • Le brave madri non provano sentimenti negativi nei confronti del proprio bambino;
  • Tutte le altre madri ce la fanno benissimo.

Purtroppo queste aspettative sono irrealistiche perché non tengono conto che diventare madri è un cambiamento di vita non solo esaltante, ma anche pieno di incognite e di difficoltà difficilmente prevedibili.

I compiti che aspettano una madre possono essere enormi, ci sono una gran quantità di cose da imparare, ogni parto e ogni bambino sono diversi.

La maggior parte delle donne desidera essere una buona madre e a volte, qualsiasi cosa meno della perfezione, può sembrare un enorme delusione.

“Mio figlio Andrea aveva spesso le coliche, ma io non andavo sempre in tilt. Anche se la situazione era sempre la stessa, non tutti i giorni io stavo male, anzi, c’erano dei giorni che avevo dei barlumi di serenità. Se non era la situazione esterna a me che cambiava, forse dovevo proprio iniziare a pensare che era qualcosa dentro la mia testa a farmi vedere la realtà con occhi diversi”.

Secondo la terapia cognitivo-comportamentale, i pensieri possono avere un grande impatto sull’umore e sul comportamento e possono diventare sia il peggior nemico che il miglior alleato di una persona.

Questi pensieri le persone non possono né verderli né conoscerli se non vengono esplicitati, invece spesso ci si aspetta che gli altri conoscano e comprendano quello che ci passa per la testa e rispondano in maniera appropriata.

Spesso ci capita di dare per scontato che certe cose siano ovvie e significative per gli altri così come lo sono per noi; questo è un errore e può creare molte incomprensioni ad esempio con il partner.

Può capitare di pensare che il nostro compagno possa leggerci nel pensiero e che automaticamente capisca di andare a prenderci una confezione di pannolini nella camera del bimbo; se lui però se ne sta seduto a bersi un caffè e automaticamente valutiamo questo comportamento come negativo, saltando alla conclusione che il nostro compagno non ci considera abbastanza, il risultato sarà che ci sentiremo arrabbiate e frustrate e ci comporteremo in modo scontroso con lui. Allo stesso tempo, lui si innervosirà perché non capirà il motivo per cui ce l’abbiamo con lui. La conseguenza più probabile di questo processo sarà che ci sentiremo ancora più arrabbiate e frustrate.

Un modo utile per non cadere in questo errore di ragionamento, cioè nel pensare che l’altro ci possa leggere nel pensiero, è quello di utilizzare una comunicazione assertiva, comunicando all’altra persona ciò di cui abbiamo bisogno e rispettando anche il punto di vista dell’altro.

Un altro modo utile per affrontare meglio certe situazioni consiste nel cominciare anche a non dare per scontato che quello che ci viene in mente sia automaticamente la sola possibile spiegazione e pensare che ci possono essere delle alternative di interpretazione anche se meno immediate.

Facciamo un esempio: il mio compagno riesce a calmare il bambino meglio di me, a questo punto posso iniziare a pensare di essere una cattiva madre e questo mi porterà a sentirmi depressa, arrabbiata e abbattuta, fino a litigare con il compagno, oppure potrei interpretare diversamente la situazione e pensare che finalmente qualcuno è riuscito a calmare il bambino e che il fatto di non esserci riuscita da sola, non fa di me una cattiva madre. Questa nuova interpretazione mi porterà a ridurre l’ansia e probabilmente a sentirmi anche più sollevata per il fatto di vedere il bambino più tranquillo, arrivando anche a ringraziare il compagno.

Le tecniche cognitive servono per imparare a valutare i fatti in modo più efficace, attraverso un approccio basato sulla verifica dell’attendibilità delle proprie interpretazioni, e a sviluppare un modo più utile ed efficace di valutare gli eventi. Questo processo parte dall’identificazione dei pensieri disfunzionali negativi e mira a metterli in discussione per modificarli.

Il modo di pensare è un’abitudine e come ogni abitudine richiede tempo e tenacia per essere modificata.

Il primo passaggio da fare per riconoscere possibili interpretazioni errate è quello di identificare i pensieri automatici che passano nella mente nel momento in cui si accorge di provare sentimenti negativi, troppo intensi e disturbanti. All’inizio cercare di identificare i pensieri disfunzionali può essere sgradevole perché concentrare l’attenzione su di essi può portare a sentirsi momentaneamente peggio. Può essere utile tenere una sorta di diario giornaliero in cui scrivere tutte le situazioni e i pensieri fatti che ti hanno portato a stare male.

Due modi per valutare e in seguito contrastare meglio i pensieri negativi, consistono nel dare a ogni pensiero negativo, un punteggio relativo al malessere provato che può andare da 0 (benessere e rilassamento) a 10 (la peggiore condizione possibile di malessere, depressione, ansia).

Valutare in questo modo l’intensità del proprio stato d’animo può servire ad imparare a non giudicare solo in termini di bianco o nero, di presenza o assenza, ma in termini di gradazioni di grigio così da capire come l’umore varia nel corso della giornata e delle giornate.

Un’altra misurazione utile da adottare nel processo di analisi critica dei pensieri automatici negativi è relativa al grado di convizione, ovvero a quanto questi pensieri siano ritenuti credibili e veri sempre su una scala da 0 (questo pensiero non è assolutamente credibile, vero) a 10 (sono totalmente convinto che questo pensiero di credibile, vero). In questo modo è più facile rendersi consapevoli che ad alcuni pensieri si crede di più rispetto che ad altri e che questa convinzione può variare da un giorno all’altro.

Normalmente c’è un forte legame tra il grado di malessere e il grado di convinzione.

E’ importante ricordare che chi sta affrontando un periodo di tristezza intensa, tende a notare e a ricordare gli aspetti negativi e a interpretare i fatti compiendo degli errori di ragionamento; è fondamentale non saltare a conclusioni affrettate e cercare di considerare i pensieri automatici negativi come delle ipotesi da esaminare.

Il processo di valutazione e critica dei pensieri disfunzionali corrisponde al momento in cui ci si accorge che ciò che si vede, è filtrato dalle lenti oscurate degli occhiali che si indossano.

La “messa in discussione” dei pensieri negativi: per verificare quanto sono accurati e fondati i modi di pensare, si possono fare alcune domande quali “che prove ci sono a favore di ciò che credo e che prove ho contro?” così da distinguere le impressioni dalla realtà; “quanto è probabile che questa cosa che penso sia vera o che accada realmente?”;“se anche ciò che penso fosse vero, qual è la cosa peggiore che realisticamente potrebbe capitare?”.

Lo scopo è quello di mettere in dubbio la veridicità di ciò che penso che mi porta a stare male, per favorire la ricerca di pensieri alternativi più utili e funzionali a promuovere il benessere.

Dopo aver analizzato un pensiero, è possibile renderlo più funzionale.

Facciamo un esempio:

la mia bambina quando le do il latte non mangia abbastanza, non mangia per colpa mia, non sono capace di prenderla nel modo giusto, sono un disastro come madre e questo mi fa sentire triste e in colpa.

A questo punto, proviamo a mettere in discussione i pensieri disfunzionali chiedendosi per esempio: Che prove ho a favore del fatto che io sia un disastro come madre solo perché la mia bambina mangia poco latte? Che prove ho contro questo mio pensiero?

Una “prova contro”, potrebbe essere il fatto che la pediatra mi ha detto che succede a molti bambini e che non dipende dal latte materno ma quanto dalla costituzione del bambino. Quindi un nuovo modo di interpretare la situazione potrebbe essere questo:

la mia bambina quando le do il latte non mangia abbastanza, ma questo non fa di me una cattiva madre.

Una volta costruiti dei pensieri funzionali è utile valutare le loro conseguenze sull’umore e sul comportamento, identificare l’intensità dell’emozione (che, con i pensieri più funzionali, ci aspettiamo che diminuisca) e valutare il grado di convinzione come descritto sopra.

Altre domande utili per costruire pensieri funzionali alternativi sono:

  • Su 100 persone, quante in questa situazione reagirebbero nel mio stesso modo?
  • Cosa potrebbe pensare in questa situazione un’altra persona?
  • Che cosa direi ad un’altra persona se pensasse quello che penso io?
  • Quali altri modi di considerare la situazione ci potrebbero essere senza cadere negli errori di interpretazione?

Modificare i pensieri negativi non significa passare dal vedere tutto nero al vedere tutto rosa poiché nella realtà le situazioni hanno una sfumatura di grigio/rosa in cui gli aspetti negativi si mescolano con quelli positivi. Nel costruire pensieri alternativi funzionali, bisogna pertanto cercare di essere obiettivi e realistici cioè non sottovalutare le difficoltà né sopravvalutare i punti di forza.

Quando si è in una situazione stressante può essere difficile identificare i pensieri automatici, potrebbe essere più facile riconoscerli in un secondo momento quando si è ritrovata un po’ di calma. Può essere altrettanto difficile trovare pensieri alternativi, ma all’inizio può bastare riuscire a mettere in discussione i pensieri disfunzionali.

Quando si è riusciti a costruire dei pensieri alternativi, non è necessario esserne convinti, ma basta considerarli come delle ipotesi da valutare e comportarsi come se queste ipotesi fossero vere e vedere cosa succede.

Ad esempio, per mettere alla prova l’ipotesi di non essere l’unica mamma che non riesce ad allattare il proprio bambino, si può chiedere ad altre mamme se anche a loro è capitato e che interpretazioni avevano costruito.

Non bisogna scoraggiarsi se alcuni vecchi pensieri disfunzionali continueranno per un po’ a tornare in mente, l’esercizio e la costanza nel modificarli creeranno nuove abitudini di pensiero.

Quando si è diventati consapevoli dei pensieri negativi e del loro ruolo nell’influenzare l’umore, si possono usare a sostegno delle tecniche cognitive descritte sopra, alcuni metodi per ridurre la forza dei pensieri negativi:

  • Interrompere il flusso di preoccupazioni (ad esempio: “decido di non pensare a questa cosa ora che sto giocando con il mio bambino/ sto pranzando/ sto per andare a dormire”);
  • Stabilire un tempo per le preoccupazioni (ad esempio: si può dedicare loro un momento della giornata predefinito della durata di non più di 30 minuti).

Dei buoni metodi per rinforzare i pensieri funzionali sono:

  • Cercare di notare con maggiore attenzione ciò che si è riuscite a fare piuttosto che gli insuccessi, scrivere ad esempio un elenco dei risultati positivi quotidiani;
  • Portare sempre con sé dei bigliettini su cui sono stati trascritti i pensieri funzionali e rileggerli più volte durante la giornata;
  • Farsi dei complimenti (“oggi sono stata brava a fare le lavatrici..”).

La maternità è un’esperienza allo stesso tempo esaltante e terribile, gratificante e frustrante. Se una donna ha nei confronti di questo ruolo solo aspettative positive può essere riluttante a cercare aiuto, temendo di essere giudicata una madre inadeguata, invece di rendersi conto che ci vuole tempo per adattarsi alla maternità e che alla base del malessere vi sono spesso delle interpretazioni errate delle situazioni e dei pensieri disfunzionali, che possono essere messi in discussione, arrivando a costruire pensieri più utili che ridurranno l’intensità dell’emozione disturbante.

 

Piccoli imprenditori ai tempi del Covid-19

In una società improntata sul lavoro, ci siamo chieste quali fossero state le conseguenze del coronavirus sui lavoratori, in particolare, sui piccoli imprenditori. Tale categoria è stata la più colpita, sia a livello economico, che a livello psicologico.

Antonella Bascià e Greta Maiorano

 

In generale, dai primi risultati dello studio condotto dalle Università degli Studi dell’Aquila e di Roma Tor Vergata e dal progetto Territori Aperti, è emerso che le misure contenitive, l’impatto economico e la pandemia stessa stanno avendo un importante impatto sui livelli di depressione, ansia, insonnia e sintomi di stress (R.Rossi, V. Socci, D. Taveli et al., 2020).

Ma tutti i piccoli imprenditori, che hanno visto chiudere le loro attività senza ricevere entrate economiche, come hanno affrontato la situazione? Quali strategie di coping hanno messo in atto?

Abbiamo posto tali domande ad alcuni imprenditori italiani in modo da farci un’idea generale dell’impatto psicologico che ha avuto la pandemia. Le domande sono state poste a un numero esiguo di persone; la nostra non vuole essere una ricerca, ma un mettere in luce i vissuti emotivi e le strategie di adattamento di una specifica categoria lavorativa.

La ristorazione, ad oggi, è uno dei settori maggiormente più colpiti dalla situazione pandemica, insieme al settore dei parrucchieri/estetisti e ai liberi professionisti. Abbiamo, perciò, indagato i vissuti emotivi di tali categorie lavorative.

Oscar (27 anni), proprietario e cuoco di un locale takeaway a Milano che ha aperto poco prima che scattasse il periodo di lockdown, si è ritrovato con tante spese accumulate e uno spreco notevole di risorse e materie prime. Nel descrivere i suoi vissuti emotivi riguardo a tutta la situazione, Oscar afferma di essersi sentito “abbattuto nello spirito” e lui e il suo socio si sono ritrovati “con le spalle al muro”. Le emozioni che ha sperimentato sono state principalmente: ansia per il futuro, paura di ritrovarsi sommersi dai debiti, agitazione sia per il virus che per l’attività, abbandono. Sì, l’abbandono è una tematica ricorrente nelle parole del giovane imprenditore, afferma di aver provato un “caos interiore” e sensazione di abbandono da parte di un Paese che ha concesso pochi aiuti economici e nessun sostegno psicologico rivolto alla sua categoria lavorativa. Nonostante ciò, si sente fortunato perché riesce a resistere e non demordere, soprattutto quando guardandosi intorno, molte attività storiche milanesi sono state costrette a chiudere. Tuttavia, il tempo di quarantena ha permesso di attuare delle strategie, come ad esempio l’investire in una maggiore pubblicità, capire le richieste del mercato e quando Oscar guarda al futuro, prova “incertezza, paura e tanta speranza di farcela”.

Elisa (26 anni), invece, è arrivata a Milano con la voglia di far carriera nel campo del make-up. Anche per lei è stato difficoltoso, in quanto la sua tipologia di lavoro non ha permesso la riorganizzazione da casa. Elisa afferma di essersi “sentita molto giù” perché proprio quando cominciavano ad aprirsi delle nuove strade, il lockdown ha bloccato tutto. Gli stati interni maggiormente sperimentati sono stati: senso di impotenza per la paura di “non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose”, alternati a momenti positivi in cui si “faceva forza” e si ripeteva che “tutto sarebbe passato”. Durante la quarantena, si è reinventata pubblicizzandosi molto sui social, presentando dei make-up estroversi su sé stessa. Se volge lo sguardo verso il futuro, ha tanta speranza che prima o poi la città della moda riprenda tutta la sua vitalità e ha tanta voglia di rimettersi in gioco.

Gianni (56 anni), parrucchiere e barbiere da 40 anni, afferma di essersi sentito perso perché si è ritrovato a casa, fermo e ciò ha portato “grosse sofferenze e non poche difficoltà”. Anche per Luigi è stata dura, si è ritrovato con sempre più tasse che si accumulavano, mentre la saracinesca del suo negozio era abbassata. Tuttavia, ha cercato di trascorrere nel miglior modo possibile i giorni di quarantena, dedicandosi alle passioni che aveva messo da parte da tempo. La ripresa lavorativa è stata faticosa, anche perché trascorre le ore lavorative con mascherina e visiera, disinfetta continuamente l’intero negozio, con la paura costante di contrarre il virus e infettare i suoi familiari. Tutto ciò però ha portato anche a risvolti positivi: con le nuove restrizioni, i clienti sono costretti a prendere appuntamento e ciò gli consente di pianificare al meglio la sua giornata lavorativa e la quotidianità, traendone dei grossi benefici.

Infine Sonia, una creatrice di bijoux artigianali, si è ritrovata con la produzione bloccata e di conseguenza bloccata economicamente. Sonia riferisce di “aver visto nero” e di aver provato tanta paura, soprattutto per il futuro. Passata la paura, però, ha iniziato a reinventarsi e si è dedicata al marketing online. Un mondo, per Sonia, totalmente nuovo e sconosciuto, ma ciò non l’ha fermata, anzi, le ha dato la spinta necessaria per promuovere la sua attività attraverso i social network. Il suo lavoro è totalmente cambiato: prima del virus consegnava i suoi gioielli nei negozi, adesso i social sono diventati la sua vetrina ed è intenzionata a proseguire su questa strada.

Dalle parole emerse di tutti gli intervistati, nonostante età e settori lavorativi differenti, si evince che l’adattamento è la parola chiave di questo strano periodo, che ha colpito tutti noi. Ognuno di loro ha adottato diverse strategie di coping, traendone dei benefici dal cambiamento.

Possiamo racchiudere il tutto in una sola parola: resilienza.

Le persone intervistate hanno dimostrato di avere una forte capacità di resilienza, ovvero il riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita in seguito ad un evento stressante o traumatico.

Dalla letteratura scientifica si evince che la resilienza è un “fenomeno ordinario dell’essere umano e non stra-ordinario”. Dunque, le persone si dimostrano resilienti e nella maggior parte dei casi riescono a adattarsi positivamente alle avversità della vita (Fiore F., 2016).

In conclusione, possiamo affermare che le persone intervistate sono riuscite a superare un periodo critico, facendo leva esclusivamente sulle loro risorse interiori. Nonostante la sensazione di abbandono provata, si sono rimboccate le maniche e hanno trovato il modo di adattarsi alla situazione, scoprendo nuovi lati del proprio modo essere e lavorare.

 

I sette pilastri della Mindfulness (2020) di Maria Beatrice Toro – Recensione del libro

I sette pilastri della Mindfulness racconta il metodo mindfulness, che ci porta dal fare all’essere, disinnescando il pilota automatico per lasciare andare la presa che i desideri hanno su di noi.

 

La Mindfulness come approccio di terza onda della terapia cognitvo-comportamentale si è ormai diffusa da qualche anno sia come Mindfulness-Based Cognitive Approach, sia come Mindfulness-Based Stress Reduction.

La decisione dell’autrice del libro I sette pilastri della Mindfulness di mettere nero su bianco tutto ciò che conosce sulla meditazione consapevole è partita da un evento di vita che l’ha vista prima giacere inerme in un letto di ospedale e poi riorganizzare completamente la propria vita e le proprie abitudini a seguito del malessere.

Il momento particolare che tutti noi stiamo attraversando, caratterizzato dalla pandemia, ci ha spinto a ripensare e riorganizzare la nostra vita un po’ come è successo alla Toro e proprio per questo la lettura di questo testo può esserci utile. La mindfulness, infatti, ci apre all’essenziale, al nostro stato originario di presenza.

La prima parte del libro I sette pilastri della Mindfulness presenta gli elementi essenziali della meditazione: come nasce, che cos’è, come si può praticare, a quali scopi.

Il prestare attenzione con intenzione al momento presente, in modo non giudicante produce una serie di benefici che vanno dal potere antinfiammatorio, alla modulazione delle difese immunitarie, dalla regolazione funzionale degli stati interni, alla creazione di nuovi percorsi sinaptici, all’impatto sullo stress, le malattie psicosomatiche e vari disturbi di natura psicologica.

L’autrice si sofferma sulla descrizione dei sette pilastri che considera punti fermi, non solo a livello tecnico, ma anche come idee chiave, principi, visioni d’insieme e abitudini di vita. La pratica sviluppa i pilastri della consapevolezza: non giudizio, pazienza, mente del principiante, fiducia, non cercare risultati (se non la pienezza dell’esperienza presente), accettazione e capacità di lasciare andare.

Il metodo mindfulness ci porta dal fare all’essere disinnescando il pilota automatico per lasciare andare la presa che i desideri hanno su di noi.

Nella seconda parte del libro la Toro descrive i pilastri prendendo in prestito sette storie di persone che svelano con le loro esperienze cosa siano tali pilastri di saggezza. Ognuno di essi è presentato con una breve premessa, a cui seguono esercizi e storie.

Il giudizio restringe la visione, focalizzando l’attenzione su alcuni dati e non altri, separando ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Saper quindi esercitare la sospensione del giudizio è indispensabile almeno quanto il saper giudicare e saper discernere. La fretta non è mai una buona consigliera e saper prendere il proprio tempo è una capacità preziosa. La mente aperta è pronta al nuovo, non ha paura ma è attratta da ciò che non conosce, non teme gli errori. Diventare coscienti di cosa significa essere realmente noi stessi, presuppone la capacità di fidarsi di essere noi stessi. Imparare l’arte del non fare o della non azione è il principio paradossale dell’azione senza azione. L’idea, infine, che sottende il pilastro del lasciar andare è quella di smettere di combattere e permettere a ciò che non ci occorre di scorrere, senza più trattenerlo.

Nella terza e ultima parte l’autrice presenta le nuove applicazioni e le prospettive della mindfulness che da semplice disciplina per la riduzione dello stress e dei pensieri negativi sta diventando sempre più sinonimo di ‘approccio filosofico consapevole alla vita’. Sono illustrati gli effetti che l’approccio produce: sulle relazioni affettive, nel mondo del lavoro, sulla salute, sul rapporto che abbiamo con il corpo e con il cibo.

Nel testo sono presentati sia gli esercizi codificati per sviluppare la consapevolezza sia i valori, i pilastri su cui si basa la pratica, aspetti diversi ma profondamente interconnessi.

Gli eventi della vita non sono controllabili e il Covid-19 ne è una testimonianza presente; possiamo, però, agire sul modo in cui li affrontiamo e la mindfulness può arginare la sofferenza, aumentare la pace interiore, la disposizione alla gioia e l’apertura amorevole verso l’altro.

 

Donne e sex toys

Una volta considerato tabù, la disponibilità e l’uso di prodotti per il potenziamento del piacere sessuale (cioè i sex toys) sta diventando sempre più comune in Nord America (Novak & Reece, 2012).

 

Indagini rappresentative a livello nazionale negli Stati Uniti indicano che il 52,5% delle donne dichiara di aver usato un vibratore nella propria vita (Herbenick et al., 2009) in diversi contesti sessuali, tra cui la masturbazione, rapporti sessuali e preliminari con un partner (Rosenberger & Reece, 2011). L’interesse accademico per l’uso dei sex toys è aumentato con l’aumentare della loro diffusione e del loro impiego all’interno di scenari sessuali (Rosenberger et al., 2012). Tuttavia, gran parte della ricerca si è focalizzata esclusivamente sull’utilizzo dei vibratori, con pochi studi che esaminano ulteriori tipologie di sex toys che le donne utilizzano per migliorare la propria vita sessuale. Approfondire tale argomento può essere estremamente utile nel fornire informazioni importanti a medici ed educatori relativamente al piacere sessuale e alla salute sessuale. Indispensabile è anche comprendere le implicazioni sanitarie dei comportamenti igienici associati all’uso dei sex toys: da ricerche precedenti è emersa una relazione tra problematiche vulvovaginali e l’impiego dei giocattoli sessuali (Fethers et al., 2009) proprio a causa di una errata pulizia di essi oppure della condivisione tra i partner.

Un recente studio si è posto come obiettivo, in un campione di donne canadesi (N=1408), quello di (1) indagare la prevalenza, la frequenza e la tipologia di giocattoli sessuali, (2) indagare i predittori socio-demografici e comportamentali dell’uso dei sex toys, (3) descrivere la prevalenza e la frequenza della condivisione e dei comportamenti igienici e, infine, (4) esaminare se la condivisione di sex toys e la frequenza con cui i partecipanti puliscono i loro giocattoli siano correlati all’insorgenza di patologie mediche, come ad esempio HPV, infezione batterica (BV) e infezioni da candida. Nello specifico i partecipanti dovevano compilare un questionario online su: informazioni demografiche, orientamento ed educazione sessuale; le domande volte ad indagare l’utilizzo di sex toys indagavano, nello specifico, l’uso di giocattoli sessuali fatti in casa o acquistati in negozio (potevano rispondere ‘sì’ o ‘no’), la frequenza con cui i giocattoli venivano usati (7 opzioni di risposta da ‘mai’ a ‘tutti i giorni’) e, infine, una domanda aperta in cui i partecipanti potevano specificare il tipo di giocattolo utilizzato; alcune domande approfondivano le abitudini sessuali dei partecipanti (rapporti vaginali, anali e orali), la condivisione dei sex toys e le pratiche igieniche utilizzate, infine, domande volte ad esplorare la salute dei partecipanti, cioè se avevano avuto diagnosi negli ultimi sei mesi di HPV, BV, candida e altre infezioni.

Dai risultati è emerso che il 52.3% dei partecipanti utilizza o ha utilizzato sex toys: il 24.7% li usa una volta a settimana, il 26.4% li utilizza una volta al mese o più, il 14.7% li utilizza meno di una volta all’anno, e soltanto il 7.8% non li utilizza affatto. Per quanto riguarda le tipologie di giocattoli utilizzati, il più comune è il vibratore (54.5%), il 21.3% utilizza il dildo e il 9.3% ha utilizzato giocattoli legati alle attività BDSM (bondage, disciplina, sadismo, mascochismo). Tra gli oggetti segnalati con meno frequenza vi sono i giocattoli home – made come il soffione per la doccia, spazzolini elettrici e altri. L’uso di sex toys non varia in base all’età o allo status di single o in coppia. Inoltre, i partecipanti che più frequentemente utilizzano giocattoli di questo tipo, sono coloro che hanno un livello di istruzione più elevato e coloro che hanno dichiarato di essere lesbiche o bisessuali. Dai risultati emerge anche che l’uso di giocattoli sessuali è significativamente associato alla pratica di sesso orale e anale, oltre a quello vaginale, suggerendo a sua volta un’associazione degli stessi con un repertorio più ampio di pratiche sessuali. Il 78.3% ha affermato di non condividere i propri toys e il 87.7% rivela di non utilizzare custodie usa e getta. Il 96% dei partecipanti lava il proprio giocattolo, di cui il 71.5% prima di ogni utilizzo o dopo ogni utilizzo. Il disinfettante più utilizzato è acqua e il comune sapone intimo (69.7%). Fra coloro che sono soliti condividere i propri sex toys, il 25.5% ha avuto infezioni vaginali, di cui il 75.2% ha avuto infezioni da candida, contro il 16.8% di coloro che non li condividono.

In conclusione, i risultati dello studio indicano che l’uso di giocattoli sessuali è comune tra le donne canadesi e che i partecipanti utilizzano una varietà di giocattoli sessuali al fine di migliorare la loro vita. Inoltre, i risultati hanno ulteriori implicazioni per gli educatori e i professionisti così che possano promuovere l’uso di sex toys in un modo che sia piacevole e al contempo riconosca l’importanza dei comportamenti igienici ad essi associati, al fine di ridurre la possibilità di trasmettere infezioni tra i partner. Di grande interesse per la ricerca futura sarebbe approfondire i fattori contestuali e motivazionali che influiscono sui comportamenti di igiene delle donne.

 

Neuroscienze – Lo studio scientifico del sistema nervoso

Dark: facciamo luce sulla serie tv del momento

Il 27 giugno 2020 è la data di uscita della tanto attesa terza stagione di Dark, nonché la data dell’apocalisse dovuta all’inizio del terzo ed ultimo ciclo. A cosa è dovuto il successo della serie tv tedesca che ha intrigato gli spettatori, lasciandoli bramanti in attesa della terza stagione?

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Una commistione di fattori ha reso la trama avvincente e coinvolgente, come fosse una fiaba per adulti. Una fiaba che inizia con una situazione reale, che si permea però di elementi fantastici per trasmettere qualcosa.

In una piccola cittadina tedesca, Winden, scompare un ragazzino nelle vicinanze di una grotta, immersa in un bosco. Il bosco è anche un simbolo che rimanda ad un luogo interiore in cui ci si può addentrare e perfino perdere. Dark rimanda agli spettatori l’idea che è possibile addentrarsi non solo nel bosco, bensì nella caverna, ed uscirne diverso, capace di comprendere la verità delle cose, come nel mito platonico la fuoriuscita dalla caverna consente di scorgere la realtà.

Nella caverna si trova una frattura temporale che catapulta, chi è in grado di attraversarla, nell’anno 1953, 1986, 2019. Questo è possibile grazie/a causa della centrale nucleare presente a Winden, le cui scorie radioattive hanno aperto una breccia nella dimensione temporale, mediante un processo spontaneo che ha determinato la creazione della particella di Dio.

Non è chiaro quale sia il punto di origine della vicenda, il primo episodio della prima stagione ha inizio con il suicidio di Michael, padre di Jonas, il protagonista adolescente che a seguito dell’evento viene ricoverato in una clinica psichiatrica e, al suo ritorno a Winden, scopre della scomparsa dello spacciatore della scuola.

A partire da questa morte e da questa scomparsa avvengono, a cascata, una serie di eventi concatenati, l’uno causa ed effetto dell’altro. Infatti, il tentativo di prevenire scenari catastrofici futuri e di non perdere le persone amate, porta i diversi personaggi a commettere le azioni che provocano gli eventi che avrebbero voluto evitare, determinando anche un loop temporale infinito.

Il che rimanda alla teoria di Nietzsche dell’eterno ritorno e della visione circolare del tempo:

Tutto quello che succede è contenuto sia nel passato che nel futuro.
Tutto è già avvenuto e deve tornare ad accadere.

Il superuomo è il fanciullo-filosofo che obbedisce alla propria volontà, anche a “ritroso”, poiché quanto si è compiuto nel passato è fatto perché in quel momento si riteneva l’azione migliore che si potesse compiere. Pertanto non ci sono sentimenti quali colpa, rimorso, rammarico, che tengano, bensì vi è un’assoluzione dagli errori compiuti.

Gli spettatori guardando Dark ricercano l’esperienza della catarsi, cioè della liberazione dalle emozioni possibile grazie all’avvicendarsi di situazioni possibilmente reali: tradimenti, incomprensioni, utilizzo d’alcol e di sostanze, problemi tra genitori e figli adolescenti, disturbi psichici e altri ancora.

Gli spettatori possono rintracciare qualcosa di sé negli abitanti della cittadina di Winden, che si disvela a poco a poco essere “malata, come una piaga infetta” e i suoi abitanti ne sono “parte” anch’essi malati, o forse, semplicemente umani. Dark pare il quadro di Escher Relatività, il quale raffigura scale che salgono e scendono in un gioco di prospettiva inusuale, ma che, guardato da diverse prospettive, quelle dei personaggi del quadro, diventa comprensibile.

La storia dei protagonisti, appartenenti a quattro delle famiglie di Winden, viene presentata attraverso epoche diverse. Ogni personaggio è alla ricerca di qualcosa, la verità, e di qualcuno, sia egli figlio, fratello, padre, marito, innamorato, disperso, assassino. Ognuno di loro inizia un percorso di conoscenza che si può riassumere con la frase di Helge Doppler:

Siamo tutti alla ricerca del nostro filo di Arianna, che ci mostri qual è la strada giusta che ci faccia da guida nelle tenebre. Chi di non vorrebbe conoscere il proprio futuro?

In qualche modo ogni personaggio cerca di controllare una situazione che gli sfugge dal controllo. Gli spettatori si riconoscono in questo. Dark è potente nel presentare il conflitto adolescenziale autonomia-dipendenza facendo ruotare la trama attorno ad esso.

Jonas torna nel 1986 per riportare indietro il padre nel 2019. Non lo fa perché questo impedirebbe la sua stessa esistenza: Mikkel/Michael non conoscerebbe la moglie, Hanna. Il compito dell’adolescente è proprio quello di svincolarsi dalle figure genitoriali affinché avvenga la costruzione dell’identità (Erik Erikson) e non ci sia invece identità diffusa.

È lo stesso Mikkel/Michael che si fa da parte per permettere a Jonas di svolgere il suo ruolo, il compito datogli dallo Jonas del futuro, costruendo se stesso: quando Jonas lo raggiunge per impedirgli di suicidarsi Mikkel/Michael, che non aveva intenti suicidi, li realizza.

Jonas è chiamato ad assumersi le sue responsabilità, la cosiddetta moratoria psicosociale, e lo fa spostandosi non solo avanti e indietro nel tempo, ma perfino fra più mondi, guidato da quello che Daniel Siegel definisce l’ESSENCE dell’adolescenza.

Essence è l’acronimo di:

  • Emotional Spark, l’aumento dell’intensità delle emozioni esperite;
  • Social Engagement, il maggior coinvolgimento sociale;
  • Novelty-seeking, la ricerca di novità;
  • Creative Exploration, l’esplorazione creativa.

Insomma, altri ingredienti della ricetta che rendono Dark una tra le serie più viste di Netflix.

 

L’impatto del coming out sulle relazioni familiari estese

Solitamente, nella vita di una persona omosessuale, bisessuale o queer (LGBQ), prima o poi arriva quel momento, colloquialmente definito coming out, in cui si decide di comunicare il proprio orientamento sessuale alla propria famiglia.

 

Condividere un aspetto così personale di sé può far sentire vulnerabili. Parallelamente, ricevere questa notizia può attivare svariate dinamiche psicologiche, sociali ed emotive nei familiari, ad esempio rifiuto oppure senso di colpa o di vergona (Grafsky, Hickey, Nguyen, & Wall, 2018).

Grafsky, Hickey, Nguyen e Wall (2018) hanno approfondito l’impatto del coming out sulle relazioni familiari, avendo in mente questa domanda: che differenze ci sono nella rivelazione del proprio orientamento sessuale da parte di adolescenti e giovani adulti ai diversi membri della famiglia?

Gli autori hanno sottolineato che tradizionalmente la ricerca si focalizza sulla rivelazione dell’orientamento sessuale ai propri genitori e sulle loro reazioni. Tuttavia, tutti i membri della famiglia, inclusi i fratelli e altri parenti meno prossimi come nonni o zii, possono differenziarsi e influenzarsi a vicenda rispetto alle modalità con cui accolgono l’informazione e reagiscono ad essa.

Per questo Grafsky e colleghi (2018) hanno intervistato ventidue adolescenti e giovani adulti di età compresa tra i 14 e i 21 anni, che si identificavano come gay, lesbiche, bisessuali, queer o pansessuali. Durante l’intervista ciascun partecipante doveva individuare sei persone significative della propria famiglia, descrivere la propria relazione con ciascuna di esse e indicare se queste fossero a conoscenza o meno del loro orientamento sessuale. I partecipanti dovevano poi riportare se la rivelazione fosse stata spontanea o dovuta alla comunicazione da parte di altri, specificando in questo caso chi avesse comunicato la notizia. Infine dovevano spiegare la loro decisione di rivelare il proprio orientamento sessuale a specifici membri della famiglia e raccontare esperienze positive e negative associate al coming out.

I risultati indicano che circa il 63% di tutti i familiari individuati era a conoscenza dell’orientamento sessuale degli intervistati. I familiari a cui più probabilmente veniva rivelato l’orientamento sessuale erano i fratelli (84%), seguiti dalle madri (81%). In generale, i genitori e i fratelli erano più probabilmente a conoscenza dell’orientamento sessuale dei figli rispetto ai parenti al di fuori del nucleo familiare stretto.

Le interviste hanno inoltre mostrato come la condivisione del proprio orientamento sessuale sia diversa a seconda della relazione che si ha con un particolare componente della famiglia. In particolare, gli autori hanno operato una distinzione tra rapporti “orizzontali” e “verticali”. Nel primo caso, i rapporti sono caratterizzati da pari status, reciprocità, vicinanza e intimità, come avviene tra fratelli. Nel secondo caso, le relazioni sono maggiormente gerarchiche e prevedono ruoli più distinti: da un lato, c’è chi ha più autorità, si prende cura ed è responsabile per l’altro, dall’altro c’è chi è in certa parte dipendente e deve mostrare più obbedienza e rispetto. Questo è il caso delle relazioni tra genitori e figli o tra nonni e nipoti.

Secondo quanto emerso dalle interviste, rivelare l’orientamento sessuale ai fratelli comportava ansia, ma anche sentimenti di lealtà e vicinanza. Quando i fratelli erano supportivi, fare coming out poteva rafforzare il loro legame.

I partecipanti ritenevano che fare coming out con i componenti della famiglia estesa era meno urgente e necessario che con i propri genitori e fratelli. La decisione di parlare del proprio orientamento sessuale dipendeva soprattutto dalla vicinanza geografica e relazionale con nonni, zii e cugini. Tendenzialmente, il coming out con la famiglia estesa era un processo non lineare e che ciclicamente si ripeteva con i diversi familiari.

Gli intervistati erano meno propensi a fare coming out con i nonni, in parte perché la differenza di età li faceva sentire a disagio a discutere di sessualità, in parte perché temevano che i nonni avessero dei pregiudizi nei confronti delle persone LGBQ. Gli adolescenti e giovani adulti erano preoccupati che i nonni potessero rifiutarli o di comunicare loro una notizia difficile da processare, aggiungendo a eventuali problemi di salute un’ulteriore difficoltà. In alcuni casi però il supporto da parte dei nonni è risultato significativo.

Un ruolo importante nel processo di coming out è quello rivestito da zie o zii. Gli autori hanno definito “diagonale” la relazione tra un adolescente o giovane adulto e gli zii. Infatti gli zii possono condividere relazioni affettuose con i propri nipoti, mantenendo un certo grado di autorità in quanto adulti, pur senza rivestire lo stesso ruolo educativo di un genitore. Per questo, i partecipanti hanno raccontato che spesso gli zii avevano un ruolo di mediazione con altri membri della famiglia o davano consigli su come comunicare la notizia ai genitori. Pertanto, gli zii possono essere preziosi sostenitori nel processo di rivelazione del proprio orientamento sessuale.

Un ruolo simile poteva essere ricoperto dai genitori adottivi, qui intesi come patrigni o matrigne, in quanto anche la loro relazione con i figli può essere definita diagonale. Tuttavia in questo caso la prossimità e la vicinanza dovevano essere negoziate e condivise. Similarmente, la condivisione con i fratelli acquisiti dipendeva dall’aver sviluppato con loro un legame più o meno stretto.

Questo studio presenta anche alcune limitazioni: è stato condotto su un campione poco numeroso, con metodi qualitativi e con partecipanti provenienti dagli Stati Uniti. Sarebbe interessante confrontare l’impatto del coming out sui vari componenti della famiglia e sull’intreccio dei loro rapporti in differenti culture.

Tuttavia, questo studio permette di affacciarsi sul complesso mondo delle relazioni familiari e di iniziare a comprendere come queste possano essere una fonte di sostegno emotivo e di comprensione, ma talvolta anche di stress, per ragazzi LGBQ+.

Per i clinici che lavorano con adolescenti e giovani adulti LGBQ+, è importante ricordare che fratelli, zii, nonni e membri della famiglia estesa, in virtù dei loro specifici ruoli, possono rappresentare fonti di stress o risorse da tenere in considerazione quando si discute della condivisione del proprio orientamento sessuale con la famiglia. Del resto, riconoscere l’orientamento sessuale dei membri LGBQ+ della propria famiglia significa anche ampliare il concetto di famiglia nucleare eteronormativa per accogliere la possibilità di famiglie più fluide, in cui conta la relazione più che il ruolo sociale.

 

Gravidanza tardiva: perché decidere di avere un figlio dopo i 40 anni?

Dato il cambiamento culturale e il maggior desiderio di autosufficienza, frutto dell’emancipazione moderna, avere figli dopo i 35-40 anni è una decisione che deve essere presa liberamente dalla donna, dopo un’accurata riflessione su di sé e sulle proprie possibilità, senza basarsi su pregiudizi o pressioni sociali.

 

Negli ultimi anni si assiste ad un cambiamento radicale della figura femminile e del rapporto con la maternità, non più legato esclusivamente alla volontà di realizzarsi come madre. Sono sempre più numerose le donne che scelgono di avere figli dopo i 35-40 anni e la creazione di una famiglia non si definisce più come una necessità evolutiva di genere, quanto più come un’opzione alla realizzazione della coppia matura, permettendo alla donna di poter compiere una scelta attiva in merito. Questo processo decisionale, ad oggi è possibile grazie alla diffusione dagli anni ‘60 degli anticoncezionali, ai trattamenti per la fertilità, la fecondazione in vitro e la legalizzazione dell’aborto per le gravidanze non desiderate (Christoffersen e Lausten, 2009).

Esiste quindi un reale orologio biologico? E quali sono le implicazioni bio-psico-sociali nella scelta di fare figli dopo i 35 anni?

Motivazioni a favore della maternità tardiva

Relazioni stabili e sicure

Molte donne scelgono di fare figli più tardi anche in relazione alla loro stabilità di coppia, rassicurate maggiormente dalla volontà di entrambi i partner di prendersi cura del bambino, in modo che nessuno dei due si debba trovare davanti alla scelta di sacrificare il lavoro per la famiglia o viceversa (Mills et al., 2011). La percezione di una disparità nella distribuzione del lavoro domestico e nell’occuparsi del figlio rende questo aspetto molto rilevante durante il processo decisionale nell’intraprendere o meno il percorso della genitorialità (Hook, 2010).

Istruzione e condizioni lavorative vantaggiose

Il lavoro a tempo pieno non tiene conto dell’impegno che richiede necessariamente la cura del figlio; con l’impostazione delle 8 ore lavorative, una coppia che decide di avere un figlio deve prendere in considerazione lavoro part-time e asili nido o babysitter che comunque comportano costi ed orari da rispettare. A complicare ulteriormente il processo decisionale c’è la difficoltà della donna a recuperare il proprio posto di lavoro una volta sostituita per i congedi di maternità, come molto spesso accade per la precarietà della posizione. Ad oggi, purtroppo, le conquiste delle donne per l’eguaglianza sul lavoro continuano a non essere abbastanza per assicurare compatibilità con la scelta di essere una madre giovane. La possibilità di intraprendere una carriera, dopo il percorso universitario, rientra comunque in un range di vita che va dai 30 ai 40 anni, periodo in cui biologicamente è predisposta al concepimento. Coerentemente, decidere di avere un figlio a carriera già avviata, e non prima della laurea o durante gli studi, assicura maggiore autonomia economica nel mantenimento e uno stipendio più alto. I percorsi di studio dopo l’istruzione superiore sono lunghi ed evitare la gravidanza in questo periodo formativo è la risultante della percezione di “non poterselo permettere” (Miller, 2010).

Maturità delle capacità cognitive ed emotive

Decidere di avere un figlio più in là con gli anni comporta sicuramente una maggiore consapevolezza delle proprie risorse personali, cognitive ed emotive, nel saper cogliere e interpretare correttamente i bisogni del bambino, strutturando un sistema coerente di regole all’interno dell’ambiente domestico. Studi confermano che l’età materna superiore ai 27-30 anni è predittiva di una maggiore autosufficienza del figlio in età adulta, associata a risultati scolastici e psicosociali migliori (Fergusson, 1999).

Elaborazione di una nuova identità

La maternità comprende una trasformazione inevitabile dell’identità connessa all’abbandono definitivo dello status di “figlia” per quello di “madre” che comprende una ridefinizione del proprio assetto mentale, affrontare gravidanza e parto (che implicherebbe in parte l’angoscia di morte), un annullamento di sé (del proprio tempo e spazio) in funzione della cura del figlio e l’abbandono di molti aspetti individualistici, come l’aspetto fisico (Schirone, 2013). Tutto ciò creerebbe sentimenti di ambivalenza connessi strettamente alla percezione del proprio orologio biologico, in difesa della sopravvivenza della specie, contro quello psicologico, in difesa delle aspirazioni identitarie. Inoltre, la cultura occidentale ad oggi pone molta enfasi sulla giovinezza e sulla bellezza fisica associata al successo, negando l’invecchiamento biologico e favorendo la percezione che ci possa essere qualcosa di assoluto e irrecuperabile nell’abbracciare l’identità materna. Scegliere di fare un figlio più tardi può essere comprensibile alla luce della voglia di potersi esprimere al meglio quando si è più giovani e di fare esperienze che altrimenti la cura del bambino durante i suoi primi anni non permetterebbe (viaggi, opportunità di lavoro, trasferirsi in un’altra città) (Chodorow, 2003).

Motivazioni a sfavore della maternità tardiva

I rischi più noti di una gravidanza “tardiva” sono quelli di natura biologica e medica, ma molti studi hanno evidenziato come la maternità in età avanzata potrebbe avere effetti anche di tipo psicologico e sociale.

Complicanze mediche

Affrontare una gravidanza in età avanzata potrebbe comportare tre esiti negativi: l’aborto spontaneo, la gravidanza ectopica (cioè con l’impianto dell’embrione in sedi diverse dalla cavità uterina; ad esempio: la gravidanza intrauterina e la gravidanza extrauterina) o la morte fetale tra la ventesima e la ventottesima settimana di gravidanza. Le ipotesi riguardo alle morti antepartum si possono ricollegare ad anomalie cromosomiche dei feti, al diabete gestazionale della madre e alla preclampsia (EPH), una sindrome caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di ipertesione, edema e proteinuria. Inoltre, altre complicanze dovute all’età della madre possono essere: le gravidanze gemellari (probabilmente dovute anche all’utilizzo della fecondazione in vitro nelle donne in età avanzata), che possono comportare maggiori difficoltà sia durante la gestazione che durante il parto; le malformazioni genetiche del bambino, tra le quali la Sindrome di Down sembra maggiormente collegarsi all’avanzata età della madre (Steine Susser, 2000).

Maggior rischio di disagio psicologico e sociale

Sempre più numerose in letteratura sono le ricerche che collegano la maternità tardiva al rischio di depressione dopo il parto (Carlson,2011;Aasheim et al.,2012;Muraca e Joseph, 2014). L’aumento di questo rischio può essere dovuto al fatto che le mamme più anziane hanno affrontato più difficoltà, sia durante la loro vita, sia, nello specifico, durante la gravidanza (per i motivi discussi nel paragrafo precedente); inoltre, a causa della concezione di maternità che è cambiata, e sta cambiando, col tempo potrebbero soffrire la mancanza di sostegno sociale e soprattutto del gruppo dei pari (Muraca e Joseph, 2014).

Altri studi, hanno invece collegato la maternità in età avanzata ad un aumento dell’ansia, riconducibile alla paura di perdere il proprio bambino, ma anche alla preoccupazione riguardo alla loro futura adeguatezza sociale e alla loro identità come madre. Quest’ultimo punto, si può collegare al fatto che, spesso, queste madri sono vittime di pregiudizi da parte sia della comunità (alimentati dalla propaganda mediatica) sia dai propri amici e parenti. Le ansie più specifiche che vengono riportate da queste madri sono: la preoccupazionedi essere considerata egoista da parte degli altri per il voler avere comunque un figlio nonostante l’età, la diminuzione dei livelli di energia fisica e mentale e il timore di non essere capace di affrontare e risolvere le situazioni. Infine, un’ulteriore preoccupazione che influisce sulla sintomatologia ansiosa è quella di poter morire presto e non riuscire a veder crescere i propri figli (Shaw e Giles, 2009).

Conclusioni

Dato il cambiamento culturale e il maggior desiderio di autosufficienza, frutto dell’emancipazione moderna, avere figli dopo i 35-40 anni è quindi una decisione che deve essere presa liberamente dalla donna, in seguito ad un’accurata riflessione su se stessa e sulle sue possibilità di offrire un futuro adeguato al proprio bambino, senza basarsi su pregiudizi o pressioni sociali. Anche decidere di non averne, quindi, non deve essere considerato un impedimento alla realizzazione personale né tanto meno frutto di sensi di colpa legati alla mancata generatività.

 

Il terapeuta che ride in seduta: osservazioni e riflessioni sul ruolo del riso in psicoterapia

Può un terapeuta sentirsi autorizzato in modo sincero e trasparente a lasciarsi andare ad una battuta o a ridere?

 

La mia collega (e omonima) Virginia Failoni tempo fa ci ha regalato un bellissimo articolo sul ruolo che può assumere il pianto all’interno del setting terapeutico, evento che si è meritato il costrutto di ‘Therapists’ Crying In Therapy’. Infatti non stiamo parlando di un pianto qualsiasi ma di quello del terapeuta. Sì sì, avete capito bene: anche lo psicoterapeuta può lasciarsi andare alla commozione e al pianto. La collega riporta, con sua sorpresa, i pochi riferimenti scientifici e i dati di letteratura a riguardo ma le conclusioni hanno normalizzato le lacrime che a volte condividiamo con i nostri pazienti. Sulla scia del suo contributo, ho pensato ad un momento al mio ultimo anno di specializzazione. Chiesi al mio supervisore se era permesso ridere durante la seduta. Cosa mi aspettavo? Che mi dicesse che ero pazza oppure che ridesse a sua volta alla mia domanda? Invece la sua reazione fu: ‘Fammi capire dai…a che stai pensando?

Ed eccoli lì, i frames di turno. In settimana avevo accolto un paziente e qualche secondo prima avevo ascoltato l’audio di un’amica. Gli aprii la porta mentre ridevo ancora. Quando entrò in stanza mi guardò con il volto visibilmente triste e fece un’espressione di disprezzo. Viceversa con un’altra paziente che mi aveva raccontato una storia davvero buffa io risi a stento. Non che non la trovassi divertente. Effettivamente lo era ma subito mi chiesi se era giusto-possibile-corretto-adeguato-ecc ecc ridere durante la seduta. Tuttavia, il mese successivo, una paziente con degli occhi blu molto intensi, aveva appena finito di piangere raccontandomi della morte del padre. Per asciugarsi le lacrime, prese un fazzolettino dalla scatola che si trasformò in un milione di pezzettini che le rimasero incollati alle palpebre. Come se fosse uno sketch comico, iniziai a ridere senza riuscire più a fermarmi. Lei, appena ne comprese il motivo, rise di gusto assieme a me. Il tutto durò la bellezza di qualche minuto.

Tornando al mio supervisore, ricordo che mi disse che se avessi trascorso due ore nel corridoio del suo studio avrei sentito tante risate e tante lacrime sia dei pazienti che dei terapeuti. Aveva ragione: proprio non esistono prescrizioni. Se non quelle che ci siamo costruiti nella nostra mente, durante la nostra storia di sviluppo o durante gli anni della formazione professionale.

Eventi di vita infatti consolidano dentro di noi schemi maladattivi interpersonali (Dimaggio et al. 2013; 2019) con cui conferiamo significato agli eventi. Se, per l’appunto, ci rincorre e domina l’idea di doverci mostrare sempre seri, composti e aderiamo all’immaginario collettivo che vede il terapeuta imperturbabile a tutto, allora sarà più difficile lasciarci andare. Potremmo vergognarci all’idea di trasmettere una risata sfacciata nello stesso modo in cui può essere difficile condividere qualche lacrima. Magari ci ritornano scene in cui ci è stato detto ‘Fannullone…sii concentrato a lavoro, non c’è spazio per altro’. Potremmo provare paura all’idea di non saper gestire le conseguenze e le ricadute nello spazio relazionale della terapia. D’altro canto, potremmo notare conseguenze nella relazione anche quando, con l’intento di soffocare una determinata reazione emotiva, ad esempio cercando di fare abortire una risata, inibendone l’emersione, appariamo inautentici.

Proprio come Virginia, ho provato anche io a fare un giro su Pubmed, e ho scoperto che nomi del calibro di Ellis, Perls, Erickson, Satir, Rogers sono considerati dei ‘super-therapists’ in grado di usare l’umorismo e le risate nelle terapie con i pazienti gravi, all’interno di terapie sia individuali sia di gruppo, sia in setting privati che in contesti istituzionalizzati (Adams, 2008). Sono, però, tecniche ben precise, volte all’induzione attiva di uno stato mentale positivo attraverso la visione di film immagini o storie, ad esempio (Martin, 2007). Anche Linge-Dahl et al. (2018) hanno mostrato l’importanza dell’uso della risata nelle cure palliative e, scorrendo nella ricerca, si trovano altri risultati circa l’applicazione della risata e dell’ironia in casi di insonnia, dipendenza, attacchi di panico e molto altro.

Quello su cui, invece, voglio puntare l’attenzione è un altro aspetto della risata e fa riferimento alla componente del tutto naturale e sincera, casuale, non lontana da quello che accade durante una cena tra amici. A questo punto la domanda dovrebbe essere posta in modo diverso: può un terapeuta sentirsi autorizzato in modo sincero e trasparente a lasciarsi andare ad una battuta o ad una risata? Ma su questo, nessun dato di ricerca. Ho però trovato un interessante studio in cui i soggetti interpretavano la risata dell’altro (quindi anche quella del proprio terapeuta) come scherno o presa in giro. Ovviamente si tratta di pazienti con idee paranoidee o con ansia sociale che faticano a decentrare e a non interpretare le reazioni degli altri se non in modo autoriferito e negativo. In tal caso però si tratta di un problema metacognitivo o di un bias cognitivo legato alla patologia (Kreifelts et al., 2014).

Ecco sciolto il mistero. Probabilmente non esiste una idea standard né universale sul riso nella stanza di terapia ma è necessario che il terapeuta si interroghi su quello che per lui può rappresentare e, soprattutto, che esplori assieme al paziente cosa gli passa nella mente mentre vede il proprio terapeuta lasciarsi andare alla risata, da quella riservata a quella più fragorosa. Abbiamo una domanda che, nella sua semplicità e sincerità, ci permette di indagare davvero di tutto. Suona tipo ‘Ma lei, in questo momento, come mi sta percependo?’ non molto diversamente da quando noi ci chiediamo come ci risuona quello che sta dicendo o facendo il paziente in un determinato momento. E lì bisogna corazzarsi di apertura mentale per poter incassare ogni tipo di risposta da parte dell’altro. Safran e Muran (2019) spiegano in modo chiaro l’importanza di questa disposizione interna, per certi versi difficile da coltivare, ma importante per sondare quello che accade nella danza relazionale di fronte a delle reazioni emotive fisiologiche e automatiche come appunto le lacrime e il riso, oppure anche il rossore, il sopracciglio alzato del disprezzo, gli occhi spalancati per la paura. Grazie a questo tipo di confronto scoprii che il paziente di cui accennavo prima, si sentì sottovalutato nel suo bisogno di attaccamento nel momento in cui mi vide sorridere alla porta. Viceversa, la paziente con i fazzolettini sugli occhi mi disse che era stato importante notare che, anche un dolore intenso può essere temporaneo e modificabile. Infine emerse anche il tema dell’accudimento nei miei confronti: temeva di avermi appesantito con la storia del padre. E fu così che scoprimmo un ulteriore tassello del suo funzionamento.

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