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Il congresso EABCT di Atene 3-5 settembre 2020 – Report dalla seconda giornata

Nella seconda giornata del congresso della European Society of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), che si è svolto online ad Atene dal 3 al 5 settembre, ho assistito alle presentazioni di Anke Ehlers dell’Università di Oxford sul disturbo post traumatico da stress (PTSD) e di Janet Treasure del King’s College di Londra sull’anoressia nervosa.  

 

Anke Ehlers sul disturbo da stress post traumatico

Due le idee più significative esposte dalla Ehlers, con solidità empirica: ha ribadito -dati alla mano- la superiorità della terapia cognitivo comportamentale (CBT) per il PTSD su ogni altra terapia, compresa l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), e ha illustrato le nuove ipotesi sul reale meccanismo d’azione della CBT nel trauma, ipotesi legate a parallele scoperte sul meccanismo patologico del PTSD.

Ribadire la superiorità della CBT non è solo il frutto di una mera rivalità tra psicoterapie -CBT e EMDR- ma è anche lo sforzo di fornire ai pazienti linee guida affidabili sulle cure più specifiche per il PTSD. Come si sa, negli ultimi anni l’EMDR ha legittimamente avanzato la propria candidatura a terapia specifica e di scelta per il PTSD e per molti altri disturbi legati al trauma. Il merito di questa sfida alla CBT, che deteneva questo privilegio, è di aver generato una sana rivalità clinica sull’efficacia dei trattamenti che va a vantaggio della cura dei pazienti.

I dati di efficacia portati dalla Ehlers mostrano che entrambe le psicoterapie d’elezione, CBT e EMDR, sono molto più efficaci di ogni altra psicoterapia in termini di effect size e di varie altre misure statistiche (di cui ignoro gli arcani segreti tecnici) e che la CBT mostra un margine di superiorità rispetto all’EMDR. Quindi per il PTSD si raccomandano CBT ed EMDR di gran lunga rispetto a ogni altra terapia e si concede una significativa preferenza alla CBT. È una conclusione importante in tempi in cui il verdetto di Dodo, per altri casi affidabile (ad esempio i disturbi di personalità), rischia però, se abusato, di favorire un quadro scientifico e clinico stagnante in cui ogni cosa fatta in compagnia del paziente in una stanza più o meno funziona.

Accanto a questo risultato significativo a favore della CBT ma per certi versi non nuovo ma solo un po’ dimenticato, Ehlers ha offerto anche risultati, anch’essi empiricamente supportati, innovativi sul funzionamento della CBT. Anche in questo caso va riconosciuto un merito alla rivalità con l’EMDR: essa ha stimolato ricerche più approfondite sul meccanismo psicopatologico del PTSD e sul processo d’azione della CBT. Il modello clinico del PTSD proposto dalla Ehlers è più processuale e metacognitivo di quello classico del gruppo CBT di Oxford (gruppo a cui Ehlers peraltro appartiene a pieno titolo). È vero che la natura clinica del PTSD favoriva uno sguardo processuale già nel modello CBT classico: il malessere post traumatico non dipendeva da valutazioni distorte della realtà ma da una gestione disfunzionale di memorie traumatiche intrusive. Insomma, processi interni distorti e non distorte valutazioni dell’ambiente.

Questa intuizione processuale e metacognitiva già presente nella CBT classica è stata ulteriormente sviluppata da Ehlers che ha studiato a fondo il meccanismo intrusivo delle memorie traumatiche nel PTSD, dimostrando come esse si presentino alla coscienza con l’immediatezza di un’esperienza reale e prive del loro carattere di ricordi passati, di modo che il paziente che le vive attribuisce loro un valore di minaccia reale e immediata. La memoria degli episodi di pericolo è totalmente disgiunta (se vogliamo, dissociata) da tutte le altre memorie e per questo essa perde la sua qualità di ricordo. La conseguenza terapeutica è un lavoro metacognitivo e normalizzante di costruzione -faticosa e non spontanea- della consapevolezza del carattere di ricordi di queste memorie traumatiche. Costruzione faticosa, non spontanea e controintuitiva perché avviene malgrado e nonostante il presentarsi di queste memorie in forma di esperienza immediata e presente.

In tal modo tutta una serie di ipotesi passate sul PTSD basate sulla esplorazione degli episodi traumatici come un lavoro di scavo e di ricostruzione di informazioni dimenticate o addirittura rimosse si ribalta nel suo contrario: le memorie non sono affatto rimosse ma sono fin troppo ben presenti e immediate alla mente del paziente. Ma non si tratta della solita critica alla psicoanalisi; si tratta anche di ridimensionare la concezione di certi interventi immaginativi oggi di moda come rivisitazione vivida e intensa di un passato che condiziona perché semi dimenticato. Al contrario, si tratta di rivisitare il passato in una condizione di distacco emotivo che li renda meno vividi, meno immediatamente immaginati e per niente rivissuti con intensità. Invece è il distacco critico e razionale che favorisce la consapevolezza che si tratta di ricordi e non di esperienze presenti. Un lavoro quindi metacognitivo e, in un certo senso, anti-esperienziale se con questo termine intendiamo un contatto diretto con l’emotività del momento presente. Semmai si tratta di una esperienzialità metacognitiva, mediata e non immediata. E sia la CBT che l’EMDR al loro meglio sembrano funzionare in questa direzione.

Gli interventi CBT raccomandati dalla Ehlers si chiamano “updating trauma memories” e “discriminating triggers of reexperiencing (THEN and NOW)” e consistono in un lavoro di riconnessione delle memorie traumatiche con il contesto passato da cui si sono disgiunte e di riconoscimento degli stimoli del presente che scatenano le intrusioni in maniera imprevedibile per il paziente (anche se poi spesso ci sono delle associazioni inconsapevoli per analogia). Lavoro fondamentalmente consapevole e riflessivo, basato su una forte condivisione della formulazione del modello del PTSD che favorisca una gestione razionale (diciamolo) di stati mentali sgradevoli e non su una liberazione dalle memorie intrusive dopo una qualche esperienza emozionale correttiva.

Janet Treasure: keynote sull’anoressia nervosa

Dedico meno righe alla keynote della Treasure sull’anoressia perché si è trattato di una presentazione di taglio in buona parte più psichiatrico che cognitivo comportamentale, con molti dati sui fattori di rischio.

Interessanti tuttavia i dati sugli aspetti cognitivi e interpersonali dell’anoressia, empiricamente confermati (che è un grande merito) seppure non nuovi: si ribadisce il tratto criticista, copertamente conflittuale e iperprotettivo delle relazioni familiari dell’anoressica, che favoriscono nelle pazienti un atteggiamento evitante e poco propenso alla crescita personale e all’esplorazione e che si rifugia in un perfezionismo singolarmente ristretto, limitato al controllo del peso e dell’aspetto corporei.

 

Giù dal burrone la Sportività, su gli indici di gradimento e il guadagno degli sponsor: il fascino del trash talking nello sport e delle personalità che lo utilizzano

L’attività agonistica è sottoposta a controlli etici e di parità per rendere lo Sport possibilmente più equo ed assente di conflitti incontrollabili. Tuttavia, a causa degli elementi caratteriali di certi atleti professionisti, si assiste spesso a degli scambi verbali dal contenuto “sotto la cintura” che, paradossalmente, lo rendono più apprezzato e tifato. Segue una analisi divulgativa di questo fenomeno comunicativo legato alla teoria dei personal traits.

 

L’attività sportiva dà sfogo necessario per soddisfare i nostri istinti primordiali ereditati dal nostro atavico passato di cacciatori e di nomadi di sussistenza (Liebenberg, 2008), si è evoluta fino ad essere un elemento di incontro fra le varie Società Umane, un fenomeno economico globale e semplicemente un punto di incontro con l’Altro. Con l’evolversi del concetto di Legge e di Rispetto nella Cultura Umana, questa ha poi portato alla nascita di una vera e propria Giurisprudenza nel mondo delle Attività Agonistiche (Martens, 1987), cosa che ha dato i natali al comportamento chiamato “sportività” (“sportsmanship”), un comportamento rispettoso ed equo nei confronti dell’avversario (Vallerand, Deshaies,  Cuerrier,  Brière & Pelletier,1996).

La sportività è una caratteristica attitudinale considerata favorevole nella Storia, che porta l’atleta ad essere percepito dal pubblico come dotato di buona apertura caratteriale e di buona capacità di giudizio (Sharpe, Brown, & Crider, 1995). L’atteggiamento sportivamente corretto è generalmente considerato con tale positività che gli Accademici Filosofici  se esso potesse essere considerato materia di studio nel campo delle categorie morali (JW Keating, 1964).

Tuttavia, con l’avvento e lo sviluppo delle telecomunicazioni, si è visto l’assunzione di rilevanza dell’elemento comunicativo definito “trash talking”, ovvero quella comunicazione aggressiva dove uno o più soggetti rivolgono insulti all’avversario con obiettivo di squalificarlo psicologicamente per dare l’impressione di esserne superiori (Yip, Schweitzer, Nurmohamed, 2018).

Sebbene una parte della psicologia della comunicazione (e di chi abbia una attitudine orientata all’etica con salienza) considera questa comunicazione come veicolo di inciviltà (ibidem), un’altra parte, assieme agli studiosi odierne delle Scienze Motorie, considerano il trash talking come un elemento normale all’interno della competizione sportiva, essendo ciò una reazione psicoattitudinale e di rilascio della tensione da parte di certi tipi caratteriali quando hanno a che fare con la tensione (Dixon, 2007).

Come si può evidenziare paradossalmente, l’insulto sportivo sul campo e/o attraverso i media è considerato una strategia non ortodossa con possibili risultati favorevoli (Silverman, 1999) o certamente buoni sia dal punto di vista dei risultati sul campo che omeostatici (Gorvett,2019).

Di fatto, il trash talking, più che un elemento comunicativo di cornice che possa creare interesse nei confronti dell’evento sportivo, è oggi ritenuto ingrediente essenziale dello stesso evento (Jarett, 2019), di cui bisogna avere una perenne e solida capacità di utilizzo (Cohn, 2020).

Inoltre, come evidenziato dallo status sociale e culturale che famosi trash talkers come Cassius Clay/Muhammad Ali, Tito Ortiz, John McEnroe, Larry Bird, Charles Barkley e Conor McGregor hanno raggiunto, le personalità controverse sono state spesso accolte favorevolmente dal pubblico, a dispetto delle impressioni negative che sono date da comportamenti come l’arroganza e l’aver nessun rispetto (Thorngate, 1976).

Questo si verifica perché spesso i risultati dei loro sproloqui hanno l’effetto desiderato (Best, 2019), permettendogli di avere una buona accoglienza dal pubblico (Ring et al, 2019). Oltretutto, questa impressione spesso evolve in simpatia ed attrazione verso questo tipo di attore, che sia per la sicurezza ostentata o che sia per la personalità fuori dagli schemi, poiché l’esposizione incondizionata dei lati meno accettabili del carattere umano è spesso accolta favorevolmente, poiché è segno di ribellione contro le leggi Etiche e Sociali imposte, percepite spesso come un limite imposto (Gruber, 2015). Per questo alcune personalità sportive possono rientrare nel profilo descritto dalla Dark Triad, ovvero soggetti con tratti comportamentali machiavellici, narcisistici e psicopatici (Pahulus, Williams, 2002).

Ovviamente, sebbene il trash talking sia un argomento interessante e a volte, come strategia, crei un interesse oggettivo nei confronti dell’attore e dell’attività agonistica che pratica, di base è un elemento controverso e facilmente controproducente, che può portare a squalifiche evitabili, sia sportivamente che psicologicamentee (Gracia, 2018) ed è spesso frustrazione e aggressività disfunzionale fatta passare per sicurezza (Edger, 2011).

 

Pornografia durante il lockdown: un’indagine descrittiva sull’utilizzo di materiale pornografico

Le conseguenze del COVID-19 hanno avuto un grande impatto sulla sfera relazionale e sessuale. La situazione di isolamento e la sospensione della routine quotidiana potrebbero aver portato a un incremento della fruizione della pornografia. E’ davvero così?

 

I DPCM che si sono susseguiti nel periodo dell’emergenza sanitaria da COVID-19 hanno portato ad un cambiamento radicale nella vita di ogni persona. Il distanziamento sociale e l’isolamento nelle proprie abitazioni sono state le principali cause di difficoltà di varia natura, tra cui si collocano anche quelle della sfera relazionale e sessuale.

Tutte le relazioni hanno subito un drastico cambiamento e rottura della propria routine. È stato pertanto possibile ipotizzare tre differenti tipologie di relazioni durante questo periodo:

  • Coppie conviventi: in questo caso la sessualità era permessa e del tutto sicura, a patto che entrambi i partner rispettassero le norme di sicurezza di prevenzione Covid-19. Il periodo del lockdown può essere stato usato per riscoprire una sessualità più serena e senza fretta. Può essere stata l’occasione per dare spazio a nuove pratiche, a nuovi giochi o ad una maggior intimità relazionale. Al contrario, le coppie con figli in casa hanno potuto avere una maggior difficoltà nella gestione dell’attività sessuale all’interno delle mura domestiche e una diminuzione drastica dei momenti da dedicare solamente alla coppia.
  • Coppie a distanza: l’impossibilità di potersi vedere fisicamente ha portato all’utilizzo della tecnologia per ricercare una sorta di vicinanza. Quindi sexting, chat o chiamate sono stati sicuramente mezzi importanti per mantenere accesa la sessualità nella relazione.
  • Single: sono state le persone più sacrificate in questo periodo. Questo perché hanno dovuto rinunciare ad avere qualsiasi tipo di conoscenza fisica che avrebbe potuto portare all’instaurare una nuova relazione o solamente ad iniziare un’attività sessuale. L’unico mezzo per scaricare la tensione erotica è stata la masturbazione.

Le attività sessuali online

Internet viene utilizzato nella quotidianità dalla maggior parte della popolazione mondiale e sta diventando uno strumento sempre più essenziale nella vita di una persona (Vianzone, 2017).

L’isolamento e il distanziamento sociale hanno fatto sì che la maggior parte delle persone navigassero nel web utilizzandolo anche come mezzo per la soddisfazione sessuale attraverso l’uso di pornografia, chat erotiche o praticando sexting.

Infatti internet può essere sia visto come un’alternativa per soddisfare i propri bisogni sessuali, sia usato come un’estensione della vita sessuale con il/la proprio/a partner, al fine di sperimentare nuove pratiche o confrontarsi con gruppi di minoranze sessuali (Eleuteri et al., 2012).

La pornografia online e le chat room offrono quotidianamente la possibilità di entrare in contatto con diverse preferenze e pratiche sessuali. Molti autori identificano questi comportamenti con il nome di Attività Sessuali Online (ASO), mentre tutte le pratiche in cui viene utilizzato materiale esplicito (video o foto), in letteratura, vengono identificate con l’acronimo SEMI (Sexually Explicit Material on the Internet) (Eleuter et al., 2012).

Copper (1998) ha ideato il modello delle 3 A per comprendere meglio la forza e l’attrattività del web, individuando tre elementi di forza:

  • Access (accessibilità);
  • Affordability (economicità);
  • Anonimity (anonimato).

Griffiths (2000) ha individuato tutta una serie di motivazioni che spingono una persona ad utilizzare il web per l’ASO, alcune di queste sono:

  • Ricerca di partner sessuali;
  • Divertimento sessuale;
  • Divertimento sessuale online (chat erotica, sesso via webcam);
  • Gratificazione sessuale;
  • Auto-esplorazione;
  • Ricerca di informazioni riguardante pratiche sessuali.

Per quanto riguarda gli utenti che utilizzano ASO troviamo i partner, i solitari e i parafilici. I primi sono persone che hanno una relazione esistente e stabile offline e utilizzano la modalità virtuale per arricchire la propria attività sessuale, ricercando nuove pratiche o nuovi stimoli. Per quanto riguarda le persone solitarie, la motivazione principale è quella di ricercare un piacere erotico attraverso la masturbazione o la ricerca di partner sessuali offline. Gli ultimi, i parafilici, trovano spazio nell’ASO per individuare pratiche sessuali minoritarie e non convenzionali e per poterle condividere, o anche solo per avere un confronto, con le comunità che possono essersi sviluppate nel web (Cosmi, 2009).

Indagine Start&Up

Ipotizzando alcuni cambiamenti relativi al comportamento sessuale nel periodo di lockdown, all’interno del progetto social Start&Up, abbiamo condotto un’indagine descrittiva per valutare un eventuale incremento o diminuzione della visione di materiale pornografico on line.

L’indagine è stata realizzata attraverso un questionario divulgato tramite canali social (principalmente Facebook ed Instagram) con campionamento casuale. Il campione è composto da 203 persone provenienti da diverse zone d’Italia: il 52% dal centro Italia, il 30% dal nord, mentre il 18% dal sud e isole.

Come possiamo notare dal grafico seguente, le risposte sono state date principalmente da un pubblico di genere femminile.

FIGURA 1 – Dati riguardanti il genere dei partecipanti allo studio.

Inizialmente l’attenzione è stata posta sull’eventuale cambiamento del desiderio sessuale durante il lockdown e dal grafico che segue possiamo notare come il 24% dei partecipanti ha manifestato una diminuzione.

FIGURA 2 – Dati relativi alla variazione del desiderio sessuale nel periodo di quarantena.

E’ stato possibile osservare una diminuzione della fruizione di materiale pornografico durante il lockdown. Prima di tale periodo, il 59% del campione ne faceva uso, con la seguente frequenza:

  • 61% 1-2 volte la settimana;
  • 29% 3-4 volte la settimana;
  • 10% tutti i giorni.

Nel periodo della quarantena questa percentuale è scesa al 53%, soprattutto per il genere femminile (46% nel pre quarantena contro il 38% durante la quarantena); si è notato invece un incremento del 4% sull’utilizzo quotidiano.

La maggior parte delle persone ha dichiarato di visionare materiale pornografico quando è solo (96%), mentre solo una minima parte insieme al/alla partner (4%).

Le motivazioni che hanno spinto all’utilizzo della pornografia sono state:

  • desiderio sessuale (51%);
  • noia (19%);
  • stress o ansia (6%);
  • combinazione di più fattori (24%).

Conclusioni e limiti

La situazione di isolamento e la sospensione della routine quotidiana ci hanno portato ad ipotizzare un incremento della fruizione della pornografia, considerando anche gli abbonamenti gratuiti offerti da diverse piattaforme pornografiche; i dati emersi invece non hanno confermato tale ipotesi. E’ pur vero che questa indagine presenta dei limiti: in primis un campione relativamente piccolo, il che lo rende poco rappresentativo della popolazione italiana; inoltre non sono state effettuate analisi di correlazione tra le diverse variabili, quindi non è stato possibile stabilire un legame di causa-effetto tra queste.

 

La Paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi (2019) di C. Dambone e L. Monteleone – Recensione del libro

Il libro si concentra su uno dei più complessi e dibattuti temi della nostra società: il fenomeno migratorio e la paura dello straniero.

 

Carmelo Dambone, psicologo clinico, psicoterapeuta e docente universitario, insieme a Ludovica Monteleone, laureata in Interpretariato e Comunicazione e appassionata di giornalismo, analizzano il fenomeno migratorio e le complessità della società multiculturale offrendoci un punto di vista nuovo su una tematica che ci interessa particolarmente in questo periodo storico.

“Tutti gli immigrati sono terroristi”, oppure “gli immigrati sono troppi”, o ancora “ci rubano il lavoro e non pagano le tasse e sono tutti in Italia, aiutiamoli a casa loro!”.

Quante volte abbiamo sentito queste frasi pronunciate da persone al bar, per strada o in televisione? E quante volte ci siamo chiesti se fossero frasi dette tanto per dire o vere credenze e convinzioni diffuse nella nostra società?

Pensare che gli immigrati siano portatori di pericolo, che siano troppi per essere gestiti, che la loro cultura sia troppo diversa e per questo incompatibile con la nostra è un atteggiamento che caratterizza la nostra società. In realtà, l’immigrazione a cui stiamo assistendo in questi anni è un fenomeno senza tempo. Esiste da sempre. L’Italia è stata un Paese di emigrazione e noi stessi, prima, siamo stati i migranti di altri paesi. Ma come abbiamo fatto a dimenticarcene? Come mai disdegniamo questo fenomeno quando in passato ne siamo stati protagonisti?

Il fatto di cercare in un altro paese una vita migliore fa parte dell’essere umano, tuttavia oggi la migrazione ha assunto un significato diverso. Il fenomeno è associato alla paura dell’immigrato e dello straniero, la “xenofobia”. Ma tutto è più complesso di quanto possa sembrare, perché se da un lato un gruppo di persone riconosce questa paura come insensata e si prodiga per la difesa dello straniero, un’altra parte della società vede lo straniero come diverso e pone così una distinzione netta tra le categorie sociali.

I mass-media, inoltre, sembrano giocare un ruolo fondamentale nella reazione di paura verso lo straniero. Quotidianamente assistiamo a storie di violenza e delinquenza che riguardano i migranti, spesso narrate con un linguaggio non appropriato, il quale, irrobustisce gli stereotipi di paura e devianza che riguardano queste persone. Proprio l’esposizione continua, il condizionamento a questi racconti e le informazioni mediate non permettono la creazione di pensieri e idee obiettive e libere da pregiudizi e stereotipi.

Cosa dire poi del terrorismo, tema ampiamente trattato dagli autori? La percezione del migrante come potenziale terrorista è talmente esasperata che ci spinge a considerare terroristi anche innocenti che scappano dai loro Paesi a causa della guerra.

Così la paura si alimenta e la diversità diventa una barriera, un ostacolo paralizzante per la crescita della società.

Come porci di fronte a questi ostacoli? Secondo gli autori:

Per un processo di integrazione è necessario un nuovo modello di pensiero, una rivoluzione culturale che metta le basi per nuovi valori per includere l’altro. Le differenze non sottraggono nulla agli altri, ma aggiungono.

Il lettore troverà di fronte a sé un libro che gli regalerà un’ottima occasione per una riflessione su uno dei temi più importanti della nostra società. Speriamo in un cambio di prospettiva, magari inaspettato, di chi la presenza dello straniero la vive ogni giorno con un timore infondato!

 

Svelato un altro mistero sul cervello, le spine dendritiche alla base dell’apprendimento

I ricercatori del CHU Sainte-Justine Hospital and Universite de Montreal hanno indagato i meccanismi sottostanti l’apprendimento e la formazione della memoria. I risultati del loro studio sono stati pubblicati su Nature Communications.

 

Guidato dal professor Roberto Araya, il team ha studiato la funzione e la trasformazione morfologica delle spine dendritiche, minuscole sporgenze situate sui rami dei neuroni, implicate nella plasticità sinaptica, ritenute il meccanismo alla base dell’apprendimento e della memoria. Questa è la prima volta che le regole della plasticità sinaptica, un processo direttamente correlato alla formazione della memoria nel cervello, sono state indagate con una metodologia che ci permette di comprendere meglio la plasticità neuronale e, in definitiva, come si formano i ricordi quando i neuroni della neocorteccia cerebrale ricevono flussi singoli e/o multipli di informazioni sensoriali.

Il cervello è composto da miliardi di cellule nervose eccitabili meglio conosciute come neuroni. Sono specializzati nella comunicazione e nell’elaborazione delle informazioni. Un esempio calzante e che rende l’idea è il seguente, immagina un albero, le radici sono rappresentate dall’assone, il tronco centrale dal corpo cellulare, i rami periferici dai dendriti e, infine, le foglie dalle spine dendritiche; quest’ultime ricevono informazioni eccitatorie da altre cellule e decidono se queste informazioni sono sufficientemente significative da essere amplificate e diffuse ad altri neuroni (Tazerart et al., 2020).

Questo è un concetto chiave nell’elaborazione, integrazione e archiviazione delle informazioni e quindi nella memoria e nell’apprendimento.

Le spine dendritiche fungono da zona di contatto tra i neuroni ricevendo input (informazioni) di forza variabile. Se un input è persistente, viene attivato un meccanismo mediante il quale i neuroni amplificano il “volume” in modo che possano “sentire” meglio quella particolare informazione (Caporale & Dan., 2008).

In caso contrario, le informazioni di un “volume” basso verranno ulteriormente abbassate in modo da non essere notate. Questo fenomeno corrisponde alla plasticità sinaptica, che implica il potenziamento o la depressione della forza di input sinaptica (Tazerart et al., 2020).

Questa è la legge fondamentale della plasticità dipendente dal tempo, o plasticità dipendente dal tempo di Spike (STDP), che regola la forza delle connessioni tra i neuroni nel cervello e si ritiene che contribuisca all’apprendimento e alla memoria (Tazerart et al., 2020).

In letteratura, la precisa organizzazione strutturale delle spine dendritiche e le regole che controllano l’induzione della plasticità sinaptica sono sconosciute. Il team di Araya è riuscito a far luce sui meccanismi alla base della STDP. Fino ad oggi, nessuno sapeva come gli input sinaptici (informazioni in arrivo) fossero disposti nell’albero neurale e cosa causasse precisamente una colonna vertebrale dendritica per aumentare o diminuire la forza, o il volume, delle informazioni che trasmette (Tazerart et al., 2020).

L’obbiettivo dei ricercatori era quello di estrarre “leggi di connettività sinaptica” responsabili della costruzione di ricordi nel cervello. Per lo studio sperimentale, il team ha utilizzato soggetti in età adolescenziale, dato che questo è un periodo critico per l’apprendimento e la formazione di memorie nel cervello. Utilizzando tecniche avanzate nella microscopia a due fotoni che imitano i contatti sinaptici tra due neuroni, i ricercatori hanno scoperto un’importante legge relativa alla disposizione delle informazioni ricevute dalle spine dendritiche. Il loro lavoro mostra che, a seconda del numero di input ricevuti (sinapsi) e della loro vicinanza, le informazioni verranno prese in considerazione e memorizzate in modo diverso, infatti se più di un input si verifica in un punto del neurone, la cellula considererà queste informazioni più importanti e aumenterà il suo volume (Tazerart et al., 2020).

Questa è una scoperta importante perché le alterazioni strutturali e funzionali delle spine dendritiche (i principali destinatari di input da altri neuroni), sono spesso associate a condizioni neurodegenerative, poiché il paziente non può più elaborare o memorizzare correttamente le informazioni. Comprendendo i meccanismi alla base delle dinamiche delle spine dendritiche e il modo in cui influiscono sul sistema nervoso, potremmo quindi essere in grado di sviluppare approcci terapeutici nuovi e potenzialmente più efficaci per il trattamento di malattie neurodegenerative (Tazerart et al., 2020).

 

Il congresso EABCT di Atene 3-5 settembre 2020

Si è appena concluso il congresso della European Society of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), il cinquantesimo della serie ma anche il primo online. La sede reale è stata Atene dove il congresso è stato organizzato dal 3 al 5 settembre, mentre quella virtuale era nei computer dei partecipanti.

L’online offre i suoi vantaggi: spostamento immediato da una presentazione all’altra invece che il pellegrinaggio nei corridoi dei congressi, disponibilità -per una settimana- di tutte le presentazioni che rimanevano registrate, e così via. D’altro canto, mancava l’esperienza del congresso come incontro tra persone in carne e ossa.

A che punto siamo con i disturbi di personalità

Molte le presentazioni della prima giornata; tra le tante privilegio le keynote di Arnoud Arntz sulla Schema Therapy (ST) e quella di Judith Beck sulla Case Conceptualization. Arnoud Arntz sta portando avanti da anni un lavoro di valorizzazione della ST, questa forma di terapia cognitiva specializzata per i disturbi di personalità. Merito di Arntz è non limitarsi a illustrare i limiti e l’efficacia della ST ma presentare ogni anno a ogni congresso EABCT una panoramica dello stato scientifico della psicoterapia dei disturbi di personalità, panoramica in cui inserisce poi i suoi dati sulla ST. In tal modo apprendiamo che la ricerca è piuttosto stagnante. Gli studi davvero affidabili sono davvero pochi (solo 9) e anche un po’ vecchiotti (risalgono a prima del 2010).

Arnoud Arntz - EABCT 2020

A voler essere poi davvero rigorosi, dice Arnzt, gli studi davvero inattaccabili sono addirittura solo 2. I risultati poi non sono trionfali. Tutte le terapie mostrano un 40% di drop-out, compresa quella dialectical behavioral therapy (DBT) che è il golden standard. Inoltre, il margine di superiorità della DBT rispetto alle altre psicoterapie è minimo e significativo soprattutto nel fornire un (piccolo) margine di minore rischio di suicidio. Ciò che poi davvero interessa è che nel gruppone delle altre terapie tutte egualmente efficaci (sia pure di una virgola di meno della DBT) c’è anche la cara vecchia cognitive behavioral therapy (CBT) classica, altrettanto efficace di una serie di terapie in genere indicate come più indicate ed efficaci della CBT nei disturbi di personalità, come la mentalization based therapy (MBT) di Fonagy o la Transference Focused Psychotherapy (TFP) di Kernberg. È uno dei meriti di Arntz avere sfatato questo mito della minore efficacia della CBT nei disturbi di personalità e di aver detto varie volte che, invece di analizzare i difetti della CBT, forse sarebbe ora di tentare un passo avanti che per ora non c’è, con l’eccezione del passettino della DBT.

Pagato questo debito alla CBT, Arntz passa poi a presentare i suoi forti dati sulla Schema Therapy, sempre più forti ogni anno che passa. All’obiezione che Arntz abbia un conflitto di interessi in quanto terapeuta ST si può rispondere che i suoi dati sembrano rigorosi e il prestigio scientifico di Arntz è indiscusso. Attendiamo che questi dati, se sono davvero così forti, ricevano il definitivo riconoscimento delle linee guida ufficiali delle varie organizzazioni sanitarie di prestigio mondiale.

Judith Beck e la concettualizzazione del caso

L’altra keynote del primo giorno è stata tenuta da Judith Beck che, seguendo una tendenza recente, ha valorizzato l’aspetto della case conceptualization nella CBT come momento chiave del trattamento. È una mossa che trova molti di noi d’accordo. La condivisione della case conceptualization è sempre di più non semplicemente uno schema astratto, ma un intervento psicoterapeutico concreto in cui si costruisce il patto terapeutico e si condivide con il paziente una ipotesi sulla sua sofferenza e sul suo funzionamento e una proposta di trattamento. In passato questo passaggio era considerato come automatico e garantito mentre oggi ci si rende conto che esso deve essere oggetto di una attenta operazione di condivisione e negoziazione esplicite. Che anche Judith Beck lo affermi con maggior forza che in passato è incoraggiante. Nella sua presentazione, inoltre, la Beck ha introdotto anche una concettualizzazione aggiuntiva delle risorse positive del paziente da condividere accanto alla formulazione del disfunzionamento.

Il suicidio: molto oltre la depressione

La depressione non rappresenta una causa necessaria al suicidio, ma sono più direttamente coinvolti altri aspetti indipendenti da diagnosi psichiatriche (Flamenbaum, 2009), che vanno poi a costituire il costrutto di dolore mentale.

Introduzione

La comprensione della complessità della sofferenza umana, come i professionisti della salute sanno, va spesso al di là di un mero incasellamento all’interno di un continuum tra normalità e psicopatologia, e questo vale ancora di più parlando di un fenomeno come il suicidio. Quello che vorrei qui presentare è un costrutto, ancora in fase di elaborazione e oggetto di studi, che sembra essere promettente nello spiegare, e successivamente intervenire o prevenire, nell’ideazione suicidaria, chiamato dolore mentale. Credo, infatti, sia importante portare a conoscenza nuove concettualizzazioni in ambito di salute e malattia mentale, soprattutto quando questi si discostano dalla psicopatologia ufficiale e (forse proprio per questo) possono aiutarci, come clinici, a comprendere sempre più profondamente la sofferenza umana.

Il suicidio e il dolore mentale

Il suicidio, ad oggi, rappresenta una delle principali cause di morte al mondo (Mattew et al, 2008). In particolare, per quanto riguarda gli ultimi anni, questa alta incidenza, soprattutto nel contesto italiano, è stata associata alla crisi economica (Goleman, 2011), ma risulta estremamente riduttivo considerare solamente determinati eventi esterni per comprendere un comportamento così complesso come l’atto suicidario. È opinione comune, infatti, che il suicidio avvenga in soggetti con disturbi psichici, in particolare in soggetti depressi, mentre in realtà, pur essendo sempre presente una percentuale di rischio suicidario durante quadri depressivi come disturbo depressivo maggiore o distimia (American Psychiatric Association, 2018), si sta sempre più osservando che chi è depresso non necessariamente penserà al suicidio (Clark & Fawcett, 1992; Johns & Holden, 1997). Escludendo anche gravi disturbi psicotici o di personalità, il costrutto clinico che si è visto poter essere più direttamente associato al suicidio è il dolore mentale, ovvero uno stato di forte sofferenza psicologica innescato, in particolare, dalla frustrazione intollerabile di determinate esigenze psicologiche percepite come vitali dalla persona, che si può collocare al di fuori di quadri diagnostici di tipo psichiatrico o psicopatologico. Consiste, inoltre, nella tendenza a provare vergogna, sconfitta, umiliazione e dolore, tutti stati emotivi che entrano a far parte di un’esperienza generalizzata di angoscia insopportabile sentita come una perturbazione emotiva (Shneidman, 1993). È una sensazione spiacevole che trae origine da una valutazione negativa di sé e delle proprie funzioni accompagnata da forti emozioni negative (Orbach, 2003). È nel momento in cui questa esperienza così negativa diventa insopportabile, superando le capacità di tolleranza del soggetto, che si manifesta il rischio dell’attuazione di un comportamento suicidario (Holden, 2001). Il suicidio è stato spesso affiancato ad altri tipi di costrutti psicopatologici, primo fra tutti la depressione, come detto sopra (Carroll, 1991; Shneidman, 1993; Holden, 2001; Orbach, 2003), ma anche disturbi ansiosi e disturbi da dipendenza correlati all’uso di sostanze (Orbach, 2003; Guimaraes, 2014). Malgrado questa concomitanza tra suicidio e psicopatologia, dalla letteratura emerge che considerare il dolore mentale (e quindi anche il suicidio come sua conseguenza più grave) come un costrutto puramente psicopatologico sia estremamente limitativo. È possibile supporre, infatti, che il dolore mentale, per quanto simile in certi elementi alla depressione, in realtà si discosti da essa, proprio osservando che non solo la depressione non è una causa sufficiente alla realizzazione del suicidio, ma che il desiderio di porre fine alla propria vita può essere interpretato come l’espressione di specifici bisogni non soddisfatti, soprattutto nell’età infantile (Clark & Fawcett, 1992; Johns & Holden, 1997). La depressione non rappresenta, quindi, una causa necessaria al comportamento suicidario, ma sono più direttamente coinvolti altri aspetti indipendenti da diagnosi psichiatriche (Flamenbaum, 2009), che vanno poi a costituire il costrutto di dolore mentale (riassunti nell’ultima parte dell’articolo). Nello specifico, la gran parte dei suicidi sembrano essere conseguenza di un intenso dolore psicologico associato a sentimenti di vergogna, umiliazione, sofferenza, angoscia, disperazione, solitudine, paura e terrore. Uno studio di Van Heeringen (2010) ha analizzato i cambiamenti di funzionamento cerebrale associati al dolore mentale nei pazienti depressi e i risultati hanno mostrato che i livelli di dolore mentale non sono correlati alla gravità della depressione, ma sono piuttosto associati all’accrescimento del rischio di suicidio. Il dolore mentale è comunque spesso presente nella depressione, ma analizzando la relazione causa-effetto, risulta essere il dolore mentale di per sé la causa principale del suicidio (Shneidman, 1993). Quindi, depressione o altre psicopatologie si possono considerare associate al suicidio ma non ne rappresentano la causa, il suicidio è conseguenza di dolore estremo dovuto alla presenza di affetti negativi uniti all’incapacità di sopportare tale dolore e alla convinzione cognitiva che il suicidio rappresenti l’unica via di fuga da questo stato di sofferenza.

Cos’è il dolore mentale

A questo punto è opportuno illustrare più nello specifico che cos’è il dolore mentale e in che cosa sembra essere diverso dalla depressione. Per questo, è altrettanto importante specificare che definire esattamente cosa si intenda per dolore mentale rappresenta, ad oggi, una sfida ancora alquanto complessa, ma è ormai evidente l’interesse e la volontà di diversi studiosi di addentrarsi in essa. Infatti, con il sempre più crescente sviluppo della psicosomatica a livello internazionale e con la diffusione di un modello psichiatrico sempre più olistico, appare sempre più importante in ambito clinico portare l’attenzione anche a costrutti diversi dalla psicopatologia ufficiale e che emergono proprio dalla consapevolezza dell’inscindibilità tra mente e corpo. Il dolore mentale è uno di questi. Basta analizzare questa definizione: termini quali dolore (che richiama più prettamente la dimensione fisica) e mentale (che richiama invece il pensiero), intendono sottolineare come questo tipo di dolore possa essere considerato qualcosa di non meno reale di altri tipi dolore percepiti in determinate parti del corpo, anche senza coinvolgere nessuna area specifica (Tossani, 2012), comportando un vissuto intenso tanto quanto il dolore fisico. In realtà, il confine stesso tra dolore mentale e dolore fisico appare, a livello teorico, di difficile definizione. Il dolore fisico, infatti, coinvolge sempre anche dimensioni psicologiche e allo stesso modo il dolore mentale coinvolge inevitabilmente componenti fisiche. Questo significa che la sofferenza, fisica o corporea, può essere causa di dolore e può essere generata da stati psicologici come paura, ansia, depressione, fatica, perdita dell’oggetto amato (Loser, 1999-2000). La sofferenza esiste principalmente nella mente e gli eventi che possono portare a sofferenza differiscono da paziente a paziente. La sua presenza o assenza è riscontrabile solo in base a ciò che riferisce direttamente il paziente: soffrire è un vissuto della persona non solo derivante dal corpo e ha origine nei cambiamenti che minacciano l’integrità della persona come entità sociali e psicologiche complesse (Saunders, 1963). Frank (1961-1962) ha invece definito il dolore mentale come una forma di vuoto causata dalla perdita di significato nel vivere, sottolineando come il dolore mentale origina da un senso di frustrazione esistenziale che non è di per sé patologico né patogenetico, in quanto termina nel momento in cui viene trovata soddisfazione a quella frustrazione oppure viene trovato un senso alla propria vita. Engel (1961), invece, afferma che il dolore mentale è una caratteristica risposta alla perdita della condizione di essere amato. Ciò che è interessante osservare, è che in nessuna di queste molteplici definizioni, sebbene diverse, troviamo una qualche patologizzazione del dolore mentale. Questo sta ad indicare come il dolore mentale sia un costrutto che si pone probabilmente al di fuori della patologia ufficiale, ma che merita altrettanta attenzione clinica anche come fattore di rischio fondamentale di diversi quadri psicopatologici. La ricerca sul dolore mentale può dirsi comunque ancora ad una fase preliminare e sono necessari più studi per analizzare, più nello specifico, le sue componenti, i suoi effetti a brave e lungo termine (anche in un’ottica di prevenzione di determinati disturbi psichiatrici ai quali è correlato) e ciò che la distingue dai disturbi depressivi.

Tenendo in considerazione ciò, è comunque possibile qui elencare, per una migliore comprensione del costrutto, le caratteristiche comuni individuate negli gli studi fin qui effettuati (citati nel testo), cercando di differenziarlo il più chiaramente possibile dalla depressione:

  • discrepanza tra il sé ideale e il sé attuale: questo aspetto può essere presente in modo indiretto nella depressione, ma nel caso del dolore mentale ne rappresenta una delle caratteristiche fondamentali;
  • valutazione negativa di sé come mancante di qualità desiderate, provocata dalla frustrazione di desideri infantili o dal mancato raggiungimento delle proprie ambizioni, tutto ciò associato a colpa e vergogna: l’auto-giudizio negativo è presente anche nella depressione (American Psychiatric Association, 2018), ma nel caso del dolore mentale la vergogna sembra essere una caratteristica più presente di quanto lo sia nella depressione;
  • consapevolezza del proprio ruolo nell’esperienza, ovvero sentirsi responsabili (e poi in colpa) per il proprio stato di sofferenza: sentimenti di colpa sono molto comuni nella depressione (American Psychiatric Association, 2018), ma nel dolore mentale la colpa preminente (o unica) non è riferita al proprio stato di sofferenza, ovvero la persona crede di essere l’unica artefice del proprio dolore (nella depressione, invece, ad esempio, la colpa del proprio stato di sofferenza potrebbe essere anche attribuita ad altri o all’ambiente esterno);
  • sentimenti di incompletezza: nella depressione, invece, troviamo maggiormente senso di vuoto, disperazione, mancanza di interesse o piacere (American Psychiatric Association, 2018);
  • sentirsi senza significato e attribuzione di un giudizio negativo a questo stato (stato di sofferenza sopportabile): questo costituisce un aspetto che potrebbe essere correlato al vissuto di vuoto spesso presente nella depressione, ma può andare anche oltre, significando, quindi, mancanza di uno scopo nella propria vita, nell’esistenza stessa o di qualcosa/qualcuno che inneschi nella persona il desiderio di vivere o continuare a vivere, e non si colloca all’interno di una diagnosi di depressione;
  • sempre più crescente senso di essere carenti, accompagnato da assenza di speranza e significato (stato di sofferenza insopportabile): la perdita di speranza non sempre compare direttamente nella depressione, mentre rappresenta un punto centrale nella decisione di vivere o morire nel caso del dolore mentale; infatti rappresenta la variante che determina se il dolore può essere sopportabile o non sopportabile;
  • percezione che questo tipo di sofferenza durerà a lungo nel tempo (è questa lunga durata che può portare a conseguenze negative patologiche, da qui la necessità di prevenzione e riconoscimento precoce): questo non è sempre vero nella depressione, in quanto per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore è sufficiente che i sintomi siano presenti anche solo per un periodo di due settimane (American Psychiatric Association, 2018);
  • pressante tema della perdita, sia di qualcuno/qualcosa di amato, sia di un’aspettativa futura, provocando senso di fallimento personale (la persona sente di non essere stata in grado di raggiungere qualcosa di piacevole o evitare qualcosa di spiacevole): questo senso della perdita come fallimento personale può far parte, anche in questo caso, di una forma di auto-giudizio negativo nella depressione (American Psychiatric Association, 2018), ma nel caso del dolore mentale diventa qualcosa di molto più specifico e pervasivo e può andare a costituire l’origine stessa del dolore;
  • idee suicidarie o suicidio come effetto massimo: questo aspetto è presente, come già detto, sia nel dolore mentale che nella depressione, ma il dolore mentale sembra essere maggiormente correlato.

 

“Perché lui non mi ama?”: il caso di una terapia di coppia

Claudio vive “ad alta velocità”, cerca stimoli intensi, vuole “tutto e subito”. Giorgia è una donna perfezionista, dedita all’ordine e alla disciplina, desidera essere “nel giusto” e “irreprensibile”. Un breve assaggio della loro terapia di coppia, che attraverserà anche i mondi individuali, alla luce dell’approccio sistemico-relazionale.

 

“Perché non mi ama?”: questa la domanda con cui Giorgia si presenta in terapia insieme al compagno Claudio. Giorgia ha 42 anni. Tesa e concitata, mi racconta che non sente il partner coinvolto quanto lei vorrebbe. E desidera ardentemente – quasi pretende – un “perché”. Una bella donna, con un’aria addolorata e stanca ben mascherata da un trucco accurato, che forse vorrebbe “aggiustare” il suo compagno che lei descrive “freddo e anaffettivo, tranne quando si arrabbia”. Claudio, 45 anni, non bello, ma attraente, si mostra insofferente e irritato, ma chiarisce che, nonostante non sopporti le continue “liti, vendette e recriminazioni” della compagna, lui le vuole bene e vuole stare con lei. Decidiamo di fare una terapia di coppia riformulando insieme l’obiettivo: capire se queste due persone possono sopravvivere a questa tempesta rimanendo uniti, se possono tollerare le loro differenze individuali e se esiste il modo di essere appagati insieme.

Il percorso psicoterapico con loro, che attraverserà la dimensione di coppia, ma anche i loro mondi individuali, avviene alla luce dell’approccio sistemico-relazionale. Il presente verrà letto infatti alla luce del sistema familiare trigenerazionale e dunque in virtù di dinamiche, ruoli, confini e transazioni a esso legate.

Claudio, inizialmente restìo alla terapia, è una persona che, in vari ambiti della sua esistenza, vive “ad alta velocità”: cerca stimoli intensi. E’ molto ambizioso e dinamico, ama gli sport estremi e riempie la vita di attività. Prima della relazione con Giorgia, aveva una vita sessuale molto ricca in cui si destreggiava tra più frequentazioni parallele. Vuole “tutto e subito”, un po’ come un adolescente. Indagare la sua storia ed elaborarla in presenza di Giorgia avrà un grande valore per la coppia: lui si scoprirà di fronte a lei (e di fronte a se stesso), lei lo comprenderà più a fondo e tra loro si farà strada un senso di maggiore vicinanza emotiva. Claudio ha avuto un’infanzia in cui, in un clima familiare altamente conflittuale e aggressivo, gli è stato negato il diritto ad essere un bambino: è stato costretto a crescere rapidamente e a badare a sé stesso, e questo gli ha sempre impedito di riconoscere le parti più fragili e tenere di sé: “io sono fiero di non essermi mai pianto addosso: chi lo fa è solo un debole” mi dice una volta, con un mezzo sorriso che esprime un apparente disprezzo. Ma è anche cresciuto con una grande tenacia, come se avesse bisogno di essere risarcito di ciò che ha patito. Nel corso della vita è stato animato da una forte determinazione nel raggiungere certi traguardi (belle donne, avanzamenti di carriera), quasi a voler ristabilire una sorta di giustizia o saldare dei conti in sospeso. Tutto questo è avvenuto però a spese dell’empatia, che Claudio non ha potuto sviluppare al meglio perché non si è mai potuto permettere innanzitutto di entrare in contatto con le proprie emozioni, cosa che sarebbe stata insostenibile. Esclusa la rabbia, che invece vive ed esprime in modo piuttosto esplosivo. Ha imparato a essere forte, forse credendo che nella forza risieda il valore per cui sarà amato. Sarà molto difficile per Claudio avvicinarsi al suo bisogno d’amore, avendoci rinunciato sin da piccolo ed essendosi diretto piuttosto, nel corso della sua crescita, alla ricerca del piacere e del potere. Nel tempo, ha capito che l’amore è qualcosa che merita e che anche lui è “buono”, nonostante azioni che non lo hanno fatto sentire tale: “ero un bambino terribile, a scuola ero il più feroce dei bulli e anche a casa facevo il matto” mi racconta una volta con voce molto seria, abbandonando per un po’ quell’aria disinvolta e così sicura di sé.

Solo quando riuscirà a empatizzare col suo “bambino interiore” riuscirà ad aprirsi all’altro (non solo alla sua fidanzata) e a trasformare la possessività in intimità.

Anche Giorgia ha ripercorso la sua storia. E’ stata una “brava bambina”, ricoperta di aspettative elevatissime. Mi dice un giorno, armata di abbigliamento e capelli impeccabili: “a casa mia non mi erano permessi errori, un voto sufficiente era per mia mamma una coltellata” e alza gli occhi al cielo. E’ diventata una donna perfezionista, verso di sé e verso gli altri, dedita all’ordine e alla disciplina. Sin dall’inizio colgo come il suo desiderio di essere “nel giusto” e “irreprensibile” nasconda un gran bisogno di riconoscimento. Al contrario di Claudio, ha forti difficoltà a riconoscere la rabbia, che nasconde dietro un atteggiamento di compostezza e controllo e che trasforma nella tendenza a “correggere” l’altro, ma anche se stessa (cercando di diventare sempre più “perfetta”). Giorgia capirà che non serve controllare ogni cosa, né essere perfetta per volersi bene.

Uno dei più grandi traguardi lo raggiungerà quando un giorno, parlando della dimensione del piacere, che smette di essere per lei una temibile perdita di controllo, mi dirà: “ero così concentrata sui miei doveri che quasi mi ero dimenticata cosa significasse abbandonarmi a qualcosa che mi piace e basta, come rimanere a letto la domenica mattina ad ascoltare la musica o uscire con Claudio a fare una passeggiata, senza dover correre a sbrigare le faccende domestiche”. E il viso rilassato, con un trucco leggero e la voce più morbida mi confermano che qualcosa sta veramente cambiando.

Giorgia e Claudio capiranno perché si sono trovati, sulla base di quali incastri e congiunture, ma soprattutto sentiranno che il sentimento c’è ancora, nonostante le incomprensioni passate. Sarà quindi possibile continuare a camminare insieme sostenendosi nelle loro differenze e fragilità, ma anche incoraggiandosi nei rispettivi punti di forza. Le loro diversità non sono necessariamente ostacoli nella loro coppia, anzi l’uno può essere supportivo e stimolante per l’altra: Claudio, coi suoi aspetti impulsivi e vitali, la aiuta nello scoprire la spontaneità e nell’attenuare le rigidità, Giorgia invece dà struttura alla tendenza caotica ed esuberante di lui e lo incoraggia nello scoprire l’importanza di limiti e regole. Ad oggi stanno ancora insieme, in una coppia che talvolta ha ancora i suoi conflitti, ma che è uno spazio in cui entrambi sono maggiormente consapevoli di sé e di chi hanno di fronte. Conoscendo, ognuno dei due, chi sono, chi sono stati e chi possono diventare. Perché, come dice Carl Rogers:

È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare.

 

EMDR e disturbo di panico (2018) di Elisa Faretta – Recensione del libro

Questo libro, riconoscendo l’elevata frequenza del Disturbo di Panico (DP), si propone di fornire una guida completa al suo trattamento attraverso l’EMDR; è stato infatti strutturato un protocollo specifico per il DP, che viene presentato fase per fase ed esemplificato attraverso un caso clinico reale.

 

Il libro parte dal presupposto che non tutti i pazienti con DP accedono o richiedono le cure necessarie, nonostante la farmacoterapia e la psicoterapia possano dare un aiuto concreto. Il presupposto alla base dell’utilizzo dell’EMDR per trattare il panico risiede nell’idea che i vissuti legati a questa patologia siano particolarmente angoscianti, imprevedibili e provocanti paure e impotenza estreme, come i Traumi, con la T maiuscola ad identificarne la loro importanza e pervasività: l’Attacco di Panico (AP), infatti, può essere considerato di per sé come esperienza traumatica. Durante la crisi, infatti, spiega Faretta, la persona prova una paura incontrollabile, insieme alla percezione di perdita di controllo e la certezza di stare per morire; ecco perché è fondamentale rielaborare i ricordi legati al panico.

Il libro nella sua prima parte definisce il DP secondo la descrizione del DSM-5 e ne contestualizza l’eziologia, considerando anche le più recenti teorie neuropsicologiche: ad esempio, include la teoria Polivagale di Porges (che distingue due circuiti del sistema parasimpatico, uno ventrovagale, che ha effetto calmante sul cuore, e uno dorsovagale, che invece permette una difesa attraverso un progressivo rallentamento fino all’immobilizzazione, come fanno ad esempio i rettili), le neuroscienze di Panksepp e anche la teoria dell’attaccamento di Bowlby; è esposta anche la teoria dell’Adaptive Information Processing (AIP), base del metodo EMDR, secondo la quale le esperienze sfavorevoli infantili (ACEs) ed i traumi successivi non vengono adeguatamente elaborati, danneggiando le strategie di coping e rendendo il soggetto vulnerabile alle esperienze stressanti.

Attraverso l’EMDR vengono elaborate diverse informazioni:

  • Il ricordo degli AP, in particolare il primo, l’ultimo ed il peggiore.
  • Quali situazioni li elicitano maggiormente.
  • I traumi pregressi, in particolare le eventuali esperienze di trascuratezza che hanno favorito lo sviluppo di DP.
  • Il rafforzamento di una prospettiva adattiva per affrontare i futuri AP.

Fondamentale per il terapeuta è considerare la storia di attaccamento, per elaborare le esperienze infantili stressanti con l’EMDR, perché l’insorgenza del DP può essere correlata alla riattivazione di tali esperienze precoci. A conclusione della prima parte del libro, si può attendere una remissione totale o parziale della sintomatologia con un numero di sedute compreso tra 12 e 19.

Nella seconda parte del libro sono spiegate le 8 fasi del protocollo, con attenzione ai fattori terapeutici specifici e aspecifici, considerando anche l’alleanza terapeutica e la “dual attention”; il protocollo modificato per AP comprende:

  1. Psicoeducazione: per conoscere il panico e le modalità dell’EMDR, per selezionare poi la stimolazione bilaterale più adatta (es movimenti oculari) attraverso l’esercizio del Posto al Sicuro;
  2. Target: si decide su quale attacco di panico lavorare, ossia se sul primo, sull’ultimo o sul peggiore, ossia quello che ha provocato sensazioni, emozioni o ricordi maggiormente impattanti;
  3. Immagine: si sceglie quella più disturbante per ciascun target, individuando anche l’emozione associata e collocando il disagio nel corpo, in quanto la manifestazione somatica del panico è una componete importante dell’AP;
  4. Ricordi traumatici: vengono individuati i traumi della storia personale del paziente per poterli elaborare, quindi con la già accennata attenzione alla storia di attaccamento;
  5. Lavoro sul presente: per poter specificare i fattori scatenanti, che è uno degli obiettivi del protocollo, come anticipato già sopra;
  6. Rafforzamento di azioni positive future.

Nell’ultimo capitolo è esposto il protocollo EMDR di gruppo per il DP, presentando anche le ricerche svolte a riguardo negli ultimi 15 anni. Nel contesto di gruppo, l’attenzione è focalizzata particolarmente sulla concettualizzazione del caso, sugli interventi psicoeducativi, sull’individuazione delle risorse, sulla storia di attaccamento; inoltre, si propone l’intervento con EMDR-Drawing Integration, cioè l’elaborazione del target attraverso stimolazione bilaterale + disegno. Durante l’intero trattamento, il gruppo è visto come una grossa risorsa, perché permette di creare vissuti condivisi con altre persone nella stessa difficile condizione di vita.

Infine, nell’appendice si trova una rassegna di alcuni strumenti fondamentali nel trattamento dei pazienti, come il questionario per la concettualizzazione del caso, le tecniche di stabilizzazione, delle quali sono riportati alcuni script di casi reali, i suggerimenti per una psicoeducazione mirata allo specifico disturbo in oggetto.

 

Amici con benefici: fino a che punto è possibile?

Gli amici con benefici permettono ai partner di accedere ad un’attività sessuale conveniente, minimizzando teoricamente le conseguenze negative o i rischi associati a relazioni più impegnate. Tuttavia, per mantenere questi benefici è necessario che i partner siano in grado di discutere le regole emotive, di comunicazione e sessuali.

 

Capire come e perché le relazioni occasionali si evolvono e si dissolvono è un importante obiettivo di ricerca, considerando quanto siano comuni queste relazioni: ben il 50-65% delle persone dichiara di avere almeno un partner sessuale occasionale ad un certo punto della propria vita (Bisson & Levine, 2009; Jonason, Li, & Cason, 2009). Nello specifico, questo studio prende in considerazione il corso temporale longitudinale di un particolare tipo di accordo casuale, sempre più popolare e comune, ovvero le relazioni tra amici con benefici (FWBR), al fine di fornire un primo sguardo sulle potenziali traiettorie che tali relazioni possono seguire.

Questa tipologia di relazione coinvolge due amici che scelgono di impegnarsi in attività sessuali, mantenendo contemporaneamente un’amicizia (Bisson & Levine, 2009; Owen & Fincham, 2011). Anche se di solito raggiungono un certo livello di vicinanza, non c’è necessariamente l’aspettativa del forte attaccamento emotivo e dell’impegno che caratterizza le tradizionali relazioni romantiche (Olmstead, Billen, Conrad, Pasley, & Fincham, 2013; VanderDrift, Lehmiller, & Kelly, 2012). Tuttavia, le FWBR sono caratterizzate da alti livelli di incertezza circa le traiettorie future (48,9%; Bisson & Levine, 2009).

Quand’è che le relazioni tra amici con benefici producono risultati desiderabili per i loro partner? La ricerca ha dimostrato che le FWBR forniscono alcuni “benefici”, come suggerisce il nome stesso: permettono ai partner di accedere ad un’attività sessuale conveniente, minimizzando teoricamente le conseguenze negative o i rischi associati a relazioni più impegnate (VanderDrift et al., 2012; Weaver, MacKeigan, & MacDonald, 2011). Tuttavia, per mantenere questi benefici è necessario che i partner siano in grado di discutere le regole emotive, di comunicazione e sessuali per la loro relazione, cosa che non sempre avviene (Hughes, Morrison, & Asada, 2005).

Il presente studio si è proposto di rispondere alle seguenti domande: (a) le persone impegnate nelle FWBR ottengono alla fine il tipo di relazione che desiderano, (b) quali fattori anticipano la transizione verso la tipologia di relazione futura desiderata e (c) quali fattori sono associati a una trasformazione delle FWBR nel tempo? A tale scopo è stato considerato un campione di 192 soggetti implicati in relazioni tra amici con benefici, dei quali sono stati raccolti dati in due momenti a distanza di 11 mesi l’uno dall’altro: i partecipanti hanno riferito il coinvolgimento in un FWBR, cosa volevano per il futuro della loro relazione, come e perché la loro relazione è cambiata nel tempo e la comunicazione all’interno del loro rapporto. I partecipanti sono stati reclutati attraverso siti web di uso comune e Social Network. Gli unici criteri di inclusione presenti erano: avere più di 18 anni ed essere impegnati in una relazione tra amici con benefici.

Per rispondere alla domanda relativa a quale sia il desiderio circa il futuro del loro rapporto, i partecipanti dovevano rispondere alla seguente domanda di Lehmiller et al. (2011), “Come speri che il tuo rapporto ‘amici con benefici’ cambi nel tempo” (opzioni di risposta: “Spero che rimanga lo stesso”, “Spero che diventiamo una coppia”, “Spero che diventiamo amici intimi che non fanno sesso”, o “Spero che interrompiamo del tutto la nostra relazione sessuale e l’amicizia”). Al Tempo 2, è stato chiesto alle persone di indicare la loro attuale relazione tra le seguenti quattro opzioni: “siete ancora ‘amici con benefici'”, “siete solo amici, ma non coinvolti sessualmente”, “siete coinvolti in una relazione romantica”, o “non avete nessuna amicizia o relazione di alcun tipo in questo momento”. Successivamente, è stato chiesto a tutti i partecipanti, ad eccezione di quelli che hanno selezionato “siete ancora ‘amici con benefici'”, di rispondere a 12 domande relative al motivo per cui hanno percepito che il loro stato di relazione al Tempo 2 era cambiato: tre valutavano la comunicazione (ad esempio: “Io e il mio partner non siamo riusciti a definire quale fosse la nostra relazione”), le altre nove valutavano se l’individuo o il suo partner FWB desiderassero un particolare tipo di relazione. Per esaminare il motivo per cui le relazioni potevano cambiare nel tempo è stata misurata la soddisfazione e l’impegno per gli aspetti sessuali e di amicizia delle relazioni tra amici con benefici, così come l’impegno per le FWBR nel loro insieme, attraverso una versione ridotta e modificata della scala del modello di investimento (Rusbult, Martz, & Agnew, 1998), così da essere applicabili alla componente di amicizia delle relazioni tra amici con benefici (ad esempio, “Mi sento soddisfatto della nostra amicizia”), alla componente sessuale delle relazioni tra amici con benefici (ad esempio, “Il nostro rapporto sessuale è molto migliore di quello degli altri”) e alle relazioni tra amici con benefici in generale (ad esempio, “Voglio che il nostro rapporto ‘amici con benefici’ duri per sempre”).

I risultati mostrano che al Tempo 1, il 48% dei partecipanti sperava che la propria FWBR rimanesse così com’era, mentre il 25% esprimeva il desiderio che la propria FWBR diventasse una relazione romantica, il 12% a un’amicizia senza sesso, e il 4% a nessuna relazione. Inoltre, l’11% ha scelto di scrivere una risposta alternativa. Al contrario, al Tempo 2, il 31% dei partecipanti è passata a non avere alcun tipo di relazione con il proprio partner FWB del Tempo 1, mentre il 28% si è trasformato in amicizie senza sesso, il 26% è rimasto così com’è e il 15% è passato a relazioni romantiche. Nel complesso, solo il 17% dei partecipanti ha riferito che, al Tempo 2, si trovava nel tipo di relazione che aveva dichiarato di volere al Tempo 1: le persone i cui desideri sono stati realizzati sono quelle che al Tempo 1 desideravano, alla fine, diventare amici che non hanno rapporti sessuali (il 59% che ha voluto questo al Tempo 1 era in amicizia con il proprio partner del Tempo 1 FWBR al Tempo 2); il 43% dei partecipanti, che volevano non avere alcun tipo di relazione, nel Tempo 2 non aveva alcuna relazione e il 40% dei partecipanti, che volevano che la loro relazione rimanesse così com’era, non hanno mostrato variazioni nella relazione al Tempo 2. Inoltre, i fattori che predicono una trasformazione futura della relazione “amici con benefici” sono i seguenti: la transizione verso le relazioni sentimentali viene predetta significativamente e positivamente dall’impegno per l’amicizia, per la relazione sessuale e per la FWBR, così come dal grado di soddisfazione dell’amicizia e dal livello di comunicazione dell’amicizia; l’impegno per l’amicizia e la soddisfazione dell’amicizia erano anche significativamente e negativamente associati con la transizione verso la cessazione di ogni tipo di rapporto; infine, l’impegno sessuale era negativamente associato con la transizione verso un’amicizia senza sesso.

Infine, analizzando le ragioni che hanno condotto alla trasformazione della relazione da un tempo all’altro è emerso un livello di accordo elevato circa i desideri futuri tra entrambi i partner, ad eccezione del caso in cui si è giunti alla cessazione del rapporto al tempo 2. In quest’ultimo caso, le motivazioni alla base potevano essere di due tipologie differenti: (1) i due partner desideravano cose differenti (ad es. mentre uno voleva una semplice amicizia, l’altro voleva una relazione romantica), oppure (2) i due partner non sono stati in grado di comunicare abbastanza sulla relazione.

 

Discalculia: definizione e trattamenti

Il 3-6% circa dei bambini in età scolare sono affetti da Discalculia Evolutiva, un disturbo specifico dell’apprendimento che si manifesta in assenza di deficit cognitivi.

Elena Eccher – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitva e Ricerca Bolzano

 

Caratteristiche rilevanti sono la resistenza alla modificabilità e all’automatizzazione e attualmente non è ancora stato strutturato un trattamento efficace e condiviso che consenta di risolvere o ridurre il deficit che comporta. Un team di ricercatori del Developmental and Cognitive Neuroscience Lab dell’Università di Padova ha dimostrato gli effetti positivi di un trattamento condotto tramite videogiochi d’azione.

La discalculia evolutiva è un disturbo delle abilità numeriche e aritmetiche che si manifesta in bambini con intelligenza entro la norma, che non hanno subito danni neurologici. Può presentarsi associata a dislessia, ma è possibile che ne sia dissociata (Temple, 1992). Il 20% circa degli studenti incontra difficoltà nella matematica, ma solo l’1% è discalculico, di conseguenza il 99% circa delle segnalazioni sarebbe costituito da casi di difficoltà di apprendimento e non di disturbo specifico del calcolo.

Al fine di distinguere tra le due condizioni, Tressoldi e Vio (2008) hanno identificato le seguenti differenze:

  • Innato vs non innato: ci sono diversi studi che confermano l’ipotesi secondo cui i disturbi specifici dell’apprendimento presentano delle caratteristiche neuro-funzionali specifiche sin dalla nascita (Grigorenko, 2001), che permettono di evidenziare dei precoci indicatori di rischio già in età prescolare, mentre una difficoltà o un ritardo nell’apprendimento possono insorgere anche dopo un avvio regolare.
  • Resistenza alla modificabilità: se la modificazione dell’espressività del problema cambia in tempi rapidi e con semplici adattamenti didattici, è possibile supporre che non dipenda da alterazioni neuro-funzionali, ma da una momentanea difficoltà. La misura degli esiti ottenuti in seguito a questi interventi (la cosiddetta risposta all’intervento, response to intervention o response to treatment) costituisce un elemento utile e importante per individuare i soggetti che permangono resistenti, cioè che non manifestano miglioramenti significativi. Questi soggetti si confermerebbero come maggiormente a rischio, presentando le caratteristiche che raccomandano un invio ai servizi specialistici.
  • Resistenza all’automatizzazione: nei ragazzi con discalculia, De Candia, Bellio e Tressoldi (2007) osservano che dopo mesi di training specifico sulle componenti del calcolo deficitarie, si assiste ad un miglioramento nella correttezza, che raggiunge i criteri di sufficienza, ma lo stesso non vale per la velocità, segno che è presente un’importante resistenza all’automatizzazione del compito.

La classificazione internazionale utilizzata dai clinici in Italia per la diagnosi dei Disturbi specifici d’apprendimento, l’International Classification of Diseases (ICD 10), descrive la disclaculia come caratterizzata da prestazioni sostanzialmente inferiori rispetto a quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto nella capacità di calcolo, misurata con test standardizzati somministrati individualmente; il disturbo inoltre interferisce in modo significativo con l’apprendimento scolastico e con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di calcolo.

Come discusso da Tressoldi e Vio (2008), il disturbo si caratterizza per una resistenza al trattamento, in particolar modo all’automatizzazione; ovvero, mentre per l’accuratezza si potranno raggiungere risultati simili a quelli dei coetanei a sviluppo tipico, per la velocità questo risultato probabilmente non sarà mai raggiunto. Essendo la velocità di esecuzione la caratteristica del disturbo più difficile da modificare, sarà fondamentale adottare un protocollo di intervento che abbia le caratteristiche per tentare di migliorarla e questo è possibile solo se le esercitazioni proposte sono a tempo e se vengono ripetute frequentemente (non inferiori a 2-3 volte a settimana).

Per poter impostare un buon progetto di aiuto per bambini con discalculia evolutiva, una volta effettuata la diagnosi, è necessario distinguere tra abilità numeriche e aritmetiche: le prime si riferiscono alla capacità di leggere, scrivere e riconoscere i numeri, identificarne la collocazione lungo la linea dei numeri, riconoscerne l’ordine di grandezza; le seconde riguardano la capacità di utilizzare i numeri per eseguire i calcoli, a mente o per iscritto, i fatti numerici (tabelline, calcoli entro la decina).

Per quanto riguarda il sistema dei numeri, Biancardi e collaboratori (2011) hanno individuato tre ambiti sui quali intervenire: la linea dei numeri, la transcodifica e la codifica semantica.

Utilizzare correttamente la linea numerica è di fondamentale importanza, poiché permette di accedere in modo rapido ed efficace ad informazioni numeriche necessarie per lo svolgimento di molti compiti numerici e aritmetici. Come afferma Dehaene (2000): contare è l’abc del calcolo.

Ogni training riabilitativo destinato al recupero di difficoltà su numeri e calcolo deve quindi prevedere la verifica ed eventualmente un training per rendere efficiente il conteggio e la capacità di operare sulla linea dei numeri.

I meccanismi di transcodifica permettono di trasformare un numero da un codice all’altro, senza alterarne la struttura. Si tratta di una funzione particolarmente importante poiché incertezze ed errori nella scrittura e lettura di numeri comportano un pesante aggravio nelle attività scolastiche. Si tratta di difficoltà che si collocano al livello più elementare dei compiti aritmetici e che pertanto interferiscono con qualunque attività. Va quindi allenata la capacità di riconoscimento, lettura, scrittura e ripetizione di numeri in diversi codici (arabico, alfabetico, scritto e orale).

La codifica semantica si riferisce alla capacità di rappresentare mentalmente la grandezza numerica, la quantità. Tra gli esercizi per allenare la codifica semantica ci sono per esempio le triplette, in cui si chiede di identificare tra tre numeri il maggiore, le inserzioni, in cui il bambino deve identificare la posizione di un numero in rapporto ad altri e la stima numerica, in cui si deve collocare un numero sulla linea dei numeri.

Per quanto riguarda il calcolo scritto i trattamenti riabilitativi possono essere suddivisi in tre ambiti: attenzione alla selezione dell’algoritmo, richiamo delle procedure e strategie metacognitive di controllo dei risultati.

Un gruppo di ricercatori del laboratorio Decone dell’Università di Padova, Andrea Facoetti, Simone Gori e Sandro Franceschini, ha verificato e proposto un intervento alternativo. Data la presenza di un ritardo nell’orientamento rapido dell’attenzione nei bambini con Discalculia Evolutiva (Trussardi, 2010) e supponendo che in tali bambini l’attenzione spaziale visiva potesse essere direttamente coinvolta nelle deficitarie capacità di cognizione numerica e di calcolo, hanno ipotizzato che un training delle capacità di orientamento visuospaziale potesse portare dei benefici. In considerazione degli studi sugli effetti degli action video games sulle capacità attentive (Green e Bavelier, 2012; Green e Bavelier, 2003; Green, Pouget e Bavelier, 2010) e dei risultati della ricerca condotta con bambini con diagnosi di Dislessia Evolutiva (Franceschini et al, 2013), i ricercatori hanno ipotizzato che un training con questo tipo di giochi potesse potenziare le abilità di cognizione spaziale e che questo permettesse direttamente o indirettamente degli apprendimenti verificabili sia a livello delle abilità e della rapidità nell’orientamento visuoattentivo che della cognizione numerica e delle capacità aritmetiche. Tutti i giochi proposti presentavano le caratteristiche riferibili a giochi action e per classificarli nella categoria AVG è stata seguita la checklist prodotta da Green, Li & Bavelier (2009) e già utilizzata nello studio parallelo sulla dislessia da Franceschini e colleghi (2013), secondo cui i videogiochi d’azione hanno una serie di caratteristiche, quali:

  • estrema velocità sia in termini di transitorietà degli eventi che in termini di rapidità degli elementi in movimento;
  • un alto grado di carico percettivo, cognitivo e di precisa programmazione motoria;
  • imprevedibilità sia temporale che spaziale;
  • enfasi per l’elaborazione visiva periferica.

I risultati sono entusiasmanti! I dati dimostrano che solo dodici ore di allenamento con un videogioco d’azione interattivo su piattaforma Wii-™ (Rayman Raving Rabbit), migliorano l’acuità numerica (senso del numero) e le capacità aritmetiche dei bambini trattati. Nelle prove di calcolo e cognizione numerica il risultato è più sostanziale e statisticamente significativo: relativamente al calcolo il gruppo sperimentale ha riportato un incremento dell’accuratezza nelle tabelline saltate e nelle addizioni complesse; nell’area della cognizione numerica migliora sia la velocità che l’accuratezza nella lettura di numeri, la velocità nel confronto tra grandezze delle triplette numeriche, la velocità e l’accuratezza del confronto tra grandezze analogico-numerico e la precisione nell’orientamento sulla linea dei numeri. In seguito alle sessioni di gioco anche le abilità di attenzione visuo-spaziale risultano migliorate. Questi risultati possono avere importanti ricadute sia a livello applicativo che a livello teorico. Emerge, infatti, che il miglioramento delle capacità visuo-attentive può avere un impatto positivo sulle competenze matematiche e che i videogiochi d’azione potrebbero costituire un accattivante e accessibile trattamento per la Discalculia Evolutiva. Inoltre, poiché è emerso che l’attenzione visuo-spaziale può essere efficacemente allenata nei bambini, si potrebbe lavorare in questa direzione per elaborare programmi di prevenzione precoce, che con risorse ridotte riescano a ridurre l’incidenza e/o la gravità di tale deficit. A livello teorico, infine, i risultati emersi potrebbero contribuire a chiarire il ruolo dell’attenzione visuo-spaziale nella cognizione numerica.

 

Disturbo borderline di personalità e comportamenti sessuali a rischio

Le evidenze scientifiche mostrano come le adolescenti con sintomi psichiatrici tendano maggiormente ad assumere comportamenti sessualmente rischiosi. Il disturbo borderline di personalità (BPD) è davvero caratterizzato da una maggior presenza di questi agiti?

 

Quando si parla di comportamenti sessualmente rischiosi si intende una serie di condotte sessuali che sono associate ad un alto numero di conseguenze negative per l’individuo. Nello specifico, l’età precoce del primo rapporto, così come un ampio numero di partners sessuali e il non utilizzo del condom, possono causare infezioni sessualmente trasmissibili ed aumentare la probabilità di avere gravidanze indesiderate (Basen-Engquist, 1992).

Le evidenze scientifiche sostengono che le adolescenti con sintomi psichiatrici sono maggiormente soggette ad assumere questi comportamenti (Anatale & Kelly, 2015; Brown et al., 2010; Cunningham et al., 2017) e che il disturbo borderline di personalità (BPD) risulta essere quello che presenta maggiormente questi comportamenti a rischio (American Psychiatric Association, 2013).

Infatti, questo disturbo è caratterizzato da relazioni interpersonali ed un’immagine di Sé instabili, nonché instabilità affettiva e presenza di comportamento impulsivo autolesionista. La forte impulsività, i soverchianti sentimenti di vuoto e l’elevata paura dell’abbandono sono le caratteristiche che maggiormente spiegano le condotte sessualmente a rischio di questi soggetti (ibidem) e che hanno spinto numerosi ricercatori ad approfondire la relazione tra questi aspetti; sulla scia dei precedenti risultati, il presente studio (Penner et al., 2019) intende indagare le differenze tra adolescenti femmine con e senza BPD in termini di comportamenti sessualmente a rischio, oltre ad esaminare gli atteggiamenti personali, il rispetto delle norme e l’autoefficacia individuale.

  123 ragazze adolescenti di età compresa tra i 12 e i 17 anni sono state selezionate da una struttura psichiatrica in cui erano ricoverate per disturbi emotivi e comportamentali di varia natura e sono state sottoposte al Safer Choices Survey (SCS; Basen-Engquist et al., 1999), un questionario in grado di valutare i comportamenti sessualmente a rischio, al Sexual Risk Behaviors Beliefs and Self Efficacy Scale (SRBBS; Basen-Engquist et al., 1999), in grado di valutare le attitudini, il rispetto delle regole e l’autoefficacia sessuale, al Childhood Interview for Borderline Personality Disorder (CI-BPD; Zanarini, 2003), un’intervista semistrutturata per misurare il disturbo di personalità borderline in età infantile ed adolescenziale, al Borderline Personality Features Scale for Children (BPFSC; Crick, Murray-Close, & Woods, 2005), per rilevare i tratti borderline, ed al Youth Self-Report (YSR; Achenbach & Rescorla, 2001), per misurare il livello di psicopatologia.

I risultati hanno mostrato che non ci sono differenze significative in termini di comportamenti sessualmente a rischio tra soggetti con disturbo borderline di personalità e non, ma che le ragazze con BPD hanno atteggiamenti più rischiosi ed una minore autoefficacia a rifiutare le proposte sessuali e che ciò influisce sulla loro capacità di decidere responsabilmente che tipo di condotta adottare in situazioni non sicure per la loro salute.

In conclusione, possiamo dire che la minore autoefficacia delle ragazze adolescenti con BPD le espone a comportamenti sessuali a rischio come l’avere rapporti con persone sconosciute o conosciute appena, il non usare il condom e il non riuscire ad essere assertive all’interno di un contesto sessuale. Questi comportamenti incidono sulla salute psico-fisica del soggetto e sollecitano la messa in atto di interventi psico-educativi e preventivi al fine di limitarli.

 

Bodyfulness. La pratica della consapevolezza somatica (2020) di C. Caldwell – Recensione

Bodyfulness è sia un manuale pratico adatto ai principianti, sia una risorsa per professionisti del benessere.

 

La respirazione, le sensazioni e il movimento sono i modi in cui conosciamo il nostro corpo. Nel libro Bodyfulness viene trattato il modo di contemplare la propria corporeità considerando che spesso nella quotidianità ci muoviamo in modo inconsapevole o addirittura in conflitto con il nostro fisico.

Nel libro Bodyfulness Christine Caldwell offre una guida pratica per vivere una vita con maggiore consapevolezza, a prescindere dal corpo in cui ci troviamo. Ogni capitolo offre approfondimenti ed esercizi pratici che aiutano a recuperare la consapevolezza fisica perduta o mai acquisita. L’obiettivo principale dall’autrice è quello di affrontare le proprie sensazioni e sviluppare relazioni armoniose, con se stessi e con gli altri. L’attenzione alle sensazioni corporee aiuta a sfruttare il proprio potenziale determinando alcuni benefici.

Questo libro è ben organizzato e alquanto informativo, tratta in modo profondo ciò che significa veramente essere una creatura corporea.

Bodyfulness è sia un manuale pratico adatto ai principianti, sia una risorsa per professionisti del benessere.

Questo libro offre l’opportunità di imparare di più sull’essere se stessi, in particolare durante i processi di cambiamento e nei contesti sociali aiutando a vivere con maggior consapevolezza. Christine Caldwell condivide le sue conoscenze multidisciplinari integrando ricerca, esperienza clinica e nozioni sul corpo; una parte viene dedicata nello specifico al corpo in movimento dove il fisico ci aiuta a risvegliarci letteralmente e metaforicamente.

Caldwell pone le basi teoriche e anatomiche per spiegare il ruolo del corpo come veicolo naturale per la consapevolezza.

L’autrice tratta le pratiche somatiche di respirazione, sensazioni e movimento in modo che si possano svolgere direttamente con l’obiettivo di vivere in armonia nel momento presente.

 

Intelligenza artificiale, IoT e 5G

Le nuove tecnologie sono connotate da tre attori: l’intelligenza artificiale (IA), l’Internet of Things (IoT) e il 5G. Essi sono elementi fondanti che animano la platea sistemica del digitale.

 

Sui collegamenti fra questi – IoT, 5G e IA – si concentra il presente contributo. Nel loro operare e nel loro apporto, essi possono essere visti senza soluzione di continuità, come si farà nell’analisi che segue.

L’Internet of Things (IoT) è il neologismo coniato per indicare oggetti reali connessi a internet. Oggetti che, collegati alla rete, consentono di unire il mondo reale a quello virtuale. ‘Cosa’/’oggetto’ stanno a significare molteplici categorie di apparecchiature – da semplici dispositivi a impianti e sistemi tecnologicamente sofisticati; dai materiali a macchinari e attrezzature per la produzione nei settori primario, del manifatturiero e terziario.

Il fatto che tutti questi oggetti siano/possano essere collegati in rete consente di realizzare una mappa intelligente del loro funzionamento, dalla gestione di un grande volume di informazioni (big data) alla produzione e trasmissione del risultato finale. E tali esercizi – sia sul piano degli input sia su quello del feedback – generano spillovers in termini di nuove forme di conoscenza (Bellini, 2020).

L’internet delle cose è l’esempio più immediato e più citato per illustrare le innovazioni che il 5G introdurrà nel quotidiano andando a mutare significativamente molti settori. Si sa, ogni ‘G’ ha condotto a rivoluzioni tecnologiche sempre più pervasive. Con la sigla 5G si indica la nuova tecnologia e gli standard di connessione dati di quinta generazione, cha andrà a sostituire quella attuale (lo standard di comunicazione attualmente usato negli smartphone, tablet, ecc.). Il 5G permetterà di raggiungere una connessione dati molto più rapida del 4G: quest’ultimo può raggiungere una velocità teorica di 150MBPS (velocità di connessione di rete), mentre il 5G potrà arrivare a una velocità di 1000 MBPS.

Inoltre, i tempi di latenza – quelli che trascorrono tra l’emissione e la ricezione di un comando – saranno pressoché azzerrati. IoT e 5G, ça va sans dire, possono essere interpretati come due beni complementari fra loro dalla portata fortemente innovativa e dotati di elevate sinergie (nel controllare droni, videocamere, robot, veicoli, ecc.), in quanto il primo ben si presta alla maggiore velocità, alla bassissima latenza e all’abbinamento quantità-qualità delle reti di nuova generazione.

Le più recenti stime valutano oltre 50 miliardi di prodotti che con l’introduzione del 5G potranno creare un network connesso in tempo reale. Da qui il cambiamento anche della terminologia in Internet of ‘many’ things (Barbera, 2019): smart city, smart agrifood, smart home, smart medical home, veicoli a guida autonoma, ecc. Così l’IoT non si limiterà al 5G per gli oggetti legati alla domotica (permetterà di controllare a distanza gli elettrodomestici, ad esempio), ma allargherà la sua prospettiva ai più vari contesti – fino ai sensori posti su di noi riguardanti il nostro stato di salute. La medicina digitale è un campo fortemente aperto ai sensori: la crescita di questi dispositivi è alimentata da vari fattori, come i costi sempre più ridotti e i miglioramenti della tecnologia, che hanno permesso di miniaturizzare le componenti elettroniche, rendendo i dispositivi leggeri e di dimensioni contenute così da poter essere indossati o integrati nell’abbigliamento. Ad esempio, per molti diabetici, misurare la glicemia più volte al giorno non sarà più necessario grazie a un cerotto digitale; chi lo usa può visualizzare il suo andamento glicemico in ogni momento della giornata direttamente dall’app istallata sul suo smartphone. Il diabetico può anche impostare degli avvisi in funzione delle proprie esigenze che lo aiuteranno a controllare i valori quando superano i limiti di sicurezza. Le statistiche e i grafici riportati sull’app possono essere condivisi in tempo reale e consentire al medico curante di monitorare la persona a distanza, personalizzando la terapia e adattandola alle specifiche esigenze. La condivisione immediata contribuirà significativamente al raggiungimento degli obiettivi clinici, consentendo un risparmio di energie e di tempo, riducendo gli spostamenti e favorendo una maggiore consapevolezza del paziente sempre più incline a gestire attivamente la propria salute.

La ‘sensorizzazione’ fa ormai parte della vita quotidiana di molte persone, soprattutto di utenti sani che confidano in una gestione della vita come fenomeno misurabile mediante strumenti specifici. Esemplare è lo sviluppo di un ampio movimento culturale, chiamato quantified self, il cui slogan è: ‘la conoscenza di sé attraverso i numeri’ (Collechia, 2018). Inoltre, l’invecchiamento della popolazione, che interessa molti paesi, porterà all’uso massiccio di apparecchiature mediche e di assistenza da remoto. Una popolazione connessa porterà tipicamente al problema della protezione dei dati personali e alla sua regolamentazione.

In particolare, sono dieci i settori che, secondo diversi studi, potrebbero avvalersi del 5G: oltre alla sanità, il manifatturiero (esempio, l’Industria 4.0), i servizi di pubblica utilità (public utilities), il trasporto pubblico, la sicurezza, i media e l’intrattenimento, il comparto automobilistico, i servizi finanziari, la rete commerciale, l’agricoltura. Riguardo a quest’ultima, grazie al ‘massive IoT’ abilitato dal 5G e all’eventuale utilizzo della blockchain, sarà possibile tenere sotto controllo le piantagioni monitorando capillarmente il grado di maturazione delle colture, ricorrere in maniera mirata e tempestiva agli antiparassitari, razionalizzare l’uso delle risorse, finanche migliorare la sicurezza alimentare tracciando in tempo reale i prodotti dalla loro coltivazione fino alla tavola.

Soffermandoci sul caso delle smartcities, il loro sviluppo beneficerà della connessione 5G in grado di sostenere sia i rilevatori per la raccolta e analisi in tempo reale delle informazioni, sia una grande quantità di dispositivi connessi con una minima latenza. Dispositivi intelligenti connessi si agganceranno a reti flessibili, con esternalità socio-economiche positive, quali l’alleggerimento del traffico, la progettazione di edifici intelligenti, la gestione energetica (West, 2016), la gestione dei parcheggi, dei porti e degli aeroporti, la sicurezza nelle strade, nonché la gestione di grandi eventi che tipicamente richiedono un forte dispiegamento di forze dell’ordine.

Un altro esempio in cui il 5G può risultare dirimente è quello delle emergenze ambientali: la rete connessa di sensori può rendere più veloce e granulare il feedback delle informazioni così da ottimizzare la risposta (Barbera, 2019). La stessa emergenza Covid-19 ha dimostrato come l’internet veloce non sia più solamente un’opzione. Il futuro dei sistemi sanitari, soprattutto in Occidente, dovrà ineludibilmente passare dalla digitalizzazione dei propri servizi e da una sempre maggiore condivisione dei propri dati. Tutto questo può realizzarsi attraverso un’infrastruttura telematica 5G. Che in futuro un’emergenza sanitaria, come il Covid-19, potrà essere affrontata meglio grazie al 5G viene argomentato in un Rapporto del Centro Studi Internazionali-CeSI (cfr. Crippa, 2020; Romano, 2020). Dal tracciamento dei contagiati all’analisi dei big data mediante IA fino alle ‘ambulanze smart’. Infatti – si sostiene nel Rapporto – connettendo l’ambulanza (e i dispositivi dell’IoT a bordo) con l’ospedale, sarebbe possibile informare la struttura ricevente circa le condizioni del paziente già durante il tragitto, accorciando così i tempi utili a predisporre le attività di ricezione e di trattamento sanitario (Crippa, 2020; Romano, 2020).

Alla luce dei nuovi scenari, le stesse reti di generazione più sofisticate avranno un tale grado di complessità e di rapidità da poter essere controllate soprattutto dall’intelligenza artificiale. Sottostante, quindi, il rapporto tra IoT, reti e intelligenza artificiale.

Le aspettative intorno al 5G sono la transizione da un universo costituito dalle comunicazioni uomo-macchina a uno in cui la comunicazione avviene soprattutto tra le macchine stesse.

L’interconnessione fra oggetti (come le automobili autonome che si muovono all’interno della stessa città, i robot autonomi utilizzati nella logistica per la movimentazione di merci che operano all’interno di un magazzino) e, dunque, il campo dei sistemi multi agente sono collegati all’ambito applicativo dell’IA (Fiocca, 2020).

Il binomio hi-tech ‘5G-IA’ si avvale di benefici reciproci in settori diversi.

Di più: la progressiva complessità e la porosità dei contesti in cui viviamo portano in direzione di una continua evoluzione delle reti. Già si parla del 6G: la tecnologia mobile di sesta generazione che dovrebbe rappresentare un naturale avanzamento e consolidamento delle prestazioni assicurate dal 5G. Il futuro standard di rete –la cui ricerca è ancora nelle prime fasi sperimentali– si spingerà oltre sia spianando il percorso a nuove applicazioni, sia intensificando e raffinando quelle già trattate dalla quinta generazione. E, naturalmente, la IA assolverà una funzione dirimente ai fini della performance del 6G. Ma siamo ancora nel futuro remoto; intanto si combatte ancora per il 5G.

Il punto che si vuole enfatizzare nel presente lavoro è che la realtà ‘effettiva’ – quindi né quella virtuale, né quella aumentata – e, con essa, l’umanità – nella sua essenza più creativa ed empatica- ci abbandonerà all’interno di una bolla tecnologicamente sofisticata che sempre più ci isolerà gli uni dagli altri. Ad esempio, il contatto con il medico, se può essere più efficiente ed efficace da ‘remoto’, quando è ‘prossimo’ esso è più umano, è punto di riferimento, è psicologicamente rassicurante.

L’isolamento, che danno psichico…!

L’evoluzione è un mondo di bolle e di monadi? Ma è questo che vogliamo? Quanto di noi, delle nostre esperienze, del nostro vissuto, nei nostri beni relazionali siamo disposti a cedere a favore di progressivi guadagni di efficienza? L’innovazione e la tecnologia di generazioni sempre più elevate conduce a una vita più ‘comoda’ e tesa al problem-solving, perché sollevata da tanti compiti, mansioni, ripetitività, problemi, incertezze, complessità. Certo, uno stile di vita friendly da una parte. Ma si tratterà di una vita dove ci sarà meno da parlare, riflettere, toccare, organizzare, comunicare. Sono, questi, avanzamenti utopistici o distopici?

Gli aspetti vivificanti del nostro esistere non possono essere depauperati, persino quando essi presumono sforzo, fatica, sacrificio, dolore.

Una regolamentazione cautelativa e declinata per la dimensione etica chiama forte, e con toni sempre più elevati con l’avanzamento tecnologico IA – IoT – 5G.

La gestione dell’incertezza nel trattamento dati degli psicologi ed il concetto di ‘accountability’ del regolamento europeo sulla privacy (GDPR)

Tutti i professionisti sanitari a partire dal 2018 hanno dovuto uniformarsi al nuovo regolamento europeo relativo il trattamento dei dati personali chiamato GDPR (General Data Protection Regulation) che obbliga i professionisti (sia sanitari che non) che gestiscono i dati dei loro clienti/pazienti a soddisfare i requisiti richiesti dalla nuova normativa.

 

Va da sé che gli operatori sanitari come gli psicologi, oltre a rispettare il GDPR (tecnicamente chiamato Regolamento Europeo 2016/679), hanno anche l’obbligo di rispettare il proprio codice deontologico di riferimento a tutela dei loro assistiti (codice deontologico degli psicologi per la categoria degli psicologi, codice deontologico dei medici per la categoria dei medici, etc.).

Il GDPR è una normativa che, diversamente da molte altre normative del passato, richiede di sostanziare, in termini di documenti e procedure, una serie di criteri astratti al fine di essere aderenti (tecnicamente si usa il termine ‘compliant’) ad essa.

Il regolamento europeo sulla privacy non fornisce una serie di documenti precompilati da declinare all’interno del proprio contesto professionale bensì indica la tipologia di documenti che devono essere prodotti da parte del titolare del trattamento dei dati (per gli psicologi liberi professionisti si tratta del professionista stesso) per rispondere adeguatamente ai principi promossi dalla normativa.

Il GDPR quindi fornisce una specifica serie di principi volutamente generali ed astratti per indurre nei professionisti titolari del trattamento dei dati dei loro clienti/pazienti un atteggiamento proattivo che non potrebbe essere promosso nel caso la direttiva europea fornisse invece dei semplici modelli precompilati semplicemente da declinare nel proprio contesto lavorativo.

La filosofia della privacy promossa dalla nuova normativa europea prevede un cambiamento di prospettiva da burocratica/amministrativa a valoriale/concettuale e, per quanto riguarda il ruolo del titolare del trattamento dei dati, da passiva e statica a proattiva e dinamica.

Queste differenze rappresentano delle piccole grandi rivoluzioni che il GDPR ha voluto promuovere dalle quali deriva tutta una serie complessa di conseguenze sia concettuali che comportamentali oltre che, come vedremo tra poco, legali.

Sia per armonizzare il diritto europeo in materia di privacy che per le note vicende negative relative l’utilizzo improprio di dati personali soprattutto da parte di importanti corporation del web, si è sentita la necessità di codificare un regolamento dove fosse maggiormente facilitata, rispetto il passato, l’identificazione della responsabilità di coloro che trattano i dati personali e i dati sensibili, ecco perché il GDPR ha come primo principio cardine l’’accountability’ (traducibile con il temine italiano di ‘responsabilizzazione’).

La responsabilizzazione del titolare del trattamento dati richiesta dal GDPR non è più quindi, come in passato, limitata alla piuttosto passiva sottoscrizione di una serie di documenti standard generalmente ampiamente condivisi all’interno della comunità di appartenenza ma obbliga ad assumere un ruolo attivo e dinamico (che si aggiorna quindi nel tempo) rispetto le misure operative ritenute soggettivamente opportune, efficaci e dunque adeguate per salvaguardare i dati trattati.

Nello specifico della professione dello psicologo ne consegue quindi che ogni titolare del trattamento dei dati, per essere considerato adeguato al regolamento GDPR, deve essere in grado di documentare tali processi decisionali indicando anche quando questi processi decisionali sono stati effettuati.

È chiaro che la dinamica del trattamento dei dati informatici ed in particolare quelli che transitano nel web è profondamente più complessa rispetto il contesto tradizionale non digitale quindi il concetto di ‘accountability’ del GDPR applicato al mondo digitale implica una formazione ed una competenza specifica assolutamente non banale da parte dei professionisti.

Va fatto notare che attualmente in Italia, in particolar modo in seguito alla diffusione del supporto psicologico fornito in modalità online, promosso indirettamente dalla diffusione della pandemia, vi è il paradosso di una scarsissima formazione professionale in merito gli strumenti tecnici/tecnologici (e le loro implicazioni etiche, deontologiche e legali) malgrado si tratti di una modalità ormai largamente diffusa ed utilizzata dalla stessa comunità di professionisti.

A conferma di quanto appena esposto, attualmente nessun corso universitario in Italia tratta approfonditamente queste specifiche tematiche pur essendo ormai da decenni che la maggior parte di psicologi presenti nel mercato del lavoro (CNOP, 2017) sono soprattutto liberi professionisti e che, all’interno di questa categoria, le nuove tecnologie comunicative sono già ampiamente utilizzate da diversi anni (e lo saranno sempre di più).

Purtroppo questo scenario poco coerente riflette quanto la velocità dell’evoluzione tecnologica non sia abbinata ad una altrettanto veloce evoluzione culturale e formativa della professione dello psicologo.

I contesti digitali implicano dinamiche, e quindi anche potenziali rischi, relative la privacy degli utenti che sono diverse rispetto a quelle tradizionali, per questo motivo, per essere gestite correttamente richiedono una specifica formazione relativa alle implicazioni legali e deontologiche degli scenari informatici coinvolti.

È importante a questo punto comprendere che la logica descrittiva dei principi astratti introdotti dal GDPR rappresenta, dal punto di vista legale, un rovesciamento dell’ ‘onere della prova’ rispetto al passato per la tipologia di documentazione che il titolare del trattamento dei dati deve presentare al fine di dimostrare di essere aderente con il regolamento stesso.

Prima del GDPR in materia di privacy le istituzioni fornivano delle procedure formalizzate in modelli specifici da compilare e sottoscrivere (come riferimento si pensi ad esempio all’attuale documento del consenso informato), quindi la responsabilità legale e deontologica era limitata formalmente quasi unicamente all’atto piuttosto passivo relativo alla sottoscrizione del documento stesso.

Dopo l’introduzione del GDPR è invece lo psicologo stesso che deve creare i documenti dove vengono riportati i personali e soggettivi processi decisionali in merito al trattamento dei dati, fornendo quindi prova di aver effettuato queste azioni sia conoscitive/formative che applicative.

Ribadisco che documentare il proprio processo decisionale implica necessariamente l’acquisizione di una specifica formazione dedicata a questo argomento finalizzata alla concreta realizzazione delle specifiche procedure e comportamenti che soddisfano il codice deontologico e la regolamentazione europea sulla privacy.

Nei processi decisionali che lo psicologo prende in considerazione comunemente per gestire le informazioni dei propri clienti/pazienti esiste naturalmente la possibilità (presente soprattutto quando si gestiscono le dinamiche del mondo del web) di affrontare scenari molto complessi ed incerti.

Qui riporto alcuni esempi più frequenti:

Skype o Zoom sono piattaforme GDPR compliant o no?

Whatsapp è uno strumento idoneo per tutelare adeguatamente la privacy dei miei clienti?

Cosa succede se durante una videochiamata con il nostro paziente ci accorgiamo della presenza di una terza persona non prevista all’interno del servizio psicologico stabilito?

Rispondere a queste domande non è affatto banale e richiede di dedicare molto tempo ed energie finalizzate all’acquisizione degli aspetti sia tecnici sia legali purtroppo notoriamente lontani dal patrimonio formativo generalmente caratterizzante lo psicologo.

Sarebbe molto utile delegare queste competenze specifiche a professionisti esperti del settore legale ed informatico ma nella pratica professionale dello psicologo verosimilmente risulta essere una soluzione adottata molto raramente soprattutto per la combinazione di ragioni economiche (in modo particolare nel settore libero professionale) e di bassa consapevolezza generale relativa alle dinamiche ed i rischi di questi contesti professionali.

Dalla valutazione dei contesti incerti descritti poco sopra derivano scelte e comportamenti aderenti o meno il vigente regolamento europeo sulla privacy ed il codice deontologico di appartenenza.

In termini pratici ad esempio è corretto, dal punto di vista deontologico e del regolamento GDPR, utilizzare una piattaforma di videochiamata o una app di cui non conosciamo con presumibile sicurezza e chiarezza il trattamento dei dati?

Visti i recenti scandali che hanno coinvolto molte delle principali piattaforme di videochiamata e app, quanto è professionalmente accettabile per uno psicologo italiano continuare ad utilizzare con i propri clienti/pazienti queste tecnologie informatiche?

È corretto scegliere una piattaforma di videochiamata, o una app, sapendo che la privacy dei loro utenti è già stata largamente violata in passato?

In questo caso sappiamo dimostrare legalmente che non siamo co-responsabili di queste violazioni?

Da psicologi possiamo scegliere una piattaforma di videochiamata, o una app, quasi esclusivamente perché è già largamente utilizzata dagli utenti (anche perché generalmente presente gratuitamente) oltre che da molti colleghi psicologi (e magari anche promossa da diverse istituzioni psicologiche italiane…) senza sapere con sicurezza se è aderente al codice deontologico degli psicologi ed al GDPR tutelando quindi esaurientemente la privacy dei nostri clienti/pazienti?

Per scegliere la app o la piattaforma di videochiamate da utilizzare, è sufficiente affidarsi al fatto che venga promossa (più o meno direttamente attraverso video e documenti ufficiali dedicati a questo argomento) da istituzioni psicologiche (il CNOP, l’ordine regionale di appartenenza, etc…)?

Se sì, di chi è la responsabilità del promuovere aziende (private) che non soddisfano chiaramente i criteri richiesti dal GDPR e dal codice deontologico?

Se no, occorre registrare che il criterio di ‘accountability’ richiesto esplicitamente dal GDPR al titolare del trattamento dati dovrebbe essere di per sé sufficiente a contrastare le comunicazioni istituzionali che promuovono questi strumenti tecnologici evitandone quindi consapevolmente l’utilizzo.

Occorre notare che, in caso di incertezza riguardo l’adeguatezza del trattamento dati di qualsiasi strumento tecnologico utilizzato nell’interazione con il cliente/paziente la scelta deontologicamente e legalmente corretta è sempre quella che prevede di evitarne l’utilizzo per il principio di prudenza, di precauzione e di tutela nei confronti degli assistiti.

Di fronte alla valutazione incerta dei possibili rischi relativi al trattamento dei dati ai quali potenzialmente viene esposto lo psicologo stesso (titolare dei dati) e soprattutto il suo assistito, occorre quindi sempre evitare di utilizzare tale mezzo o strumento.

Solo se possiamo infatti documentare effettivamente il processo decisionale che ci ha condotti ad esempio ad utilizzare una piattaforma (GDPR ‘compliant’) piuttosto che un’altra (di cui non conosciamo con chiarezza la sua aderenza al GDPR o della quale siamo a conoscenza di criticità già emerse in passato nella gestione della privacy degli utenti) abbiamo la sicurezza di rispondere adeguatamente al principio di ìaccountability’.

Nel caso opposto, cioè se il processo decisionale prevede la scelta d’utilizzo di uno strumento tecnologico che non rispetta il regolamento europeo (magari perché il professionista non ha verificato questo aspetto), lo psicologo non sta rispettando in pieno il principio di ‘accountability’ richiesto dal GDPR né i principi espressi dal proprio codice deontologico perché sta esponendo sé stesso ed i suoi assistiti a rischi relativi alla privacy.

Tali rischi sono quindi anche potenzialmente legalmente perseguibili per il fatto di essere prevedibili, e quindi evitabili, attraverso un’adeguata formazione (prevista e data per scontata peraltro sia dal GDPR che dal codice deontologico degli psicologi).

È infatti notoriamente scorretto professionalmente utilizzare uno strumento di cui non si conoscono le specificità in merito al trattamento dei dati.

Sia deontologicamente che legalmente lo psicologo è tenuto sempre a tutelare al meglio la privacy dei propri clienti/pazienti quindi, in mancanza di informazioni che confermano l’aderenza al codice deontologico o al GDPR, non dovrebbe mai utilizzare strumenti che espongono ad un qualsiasi potenziale rischio i dati dei suoi assistiti.

Dove infatti non sono chiare o sono poco prevedibili da parte dello psicologo le implicazioni ed i rischi nell’utilizzo di uno specifico mezzo/strumento viene applicato il principio legale secondo il quale l’ignoranza non viene ammessa (in latino ‘ignorantia legis non excusat’) codificato sia all’interno del codice deontologico stesso degli psicologi (si veda ad esempio l’articolo 1, 4 e 5) che nel GDPR attraverso il principio di ‘accountability’ che prevede infatti il ruolo pro-attivo e dinamico del titolare del trattamento dei dati.

Quanto appena affermato risulta confermato anche dal parere legale di avvocati che ho personalmente interpellato specificamente su questi particolari aspetti relativi la professione dello psicologo.

Così come in auto, se non indossiamo la cintura di sicurezza guidando l’automobile (o non la facciamo allacciare ai passeggeri dell’auto) non stiamo rispettando il codice stradale, da psicologi se non utilizziamo uno strumento tecnologico idoneo per comunicare con i nostri clienti/pazienti non stiamo rispettando pienamente il nostro codice deontologico né il regolamento europeo sulla privacy.

La metafora è particolarmente calzante perché, come nel contesto automobilistico non ci sono evidenti problemi o palesi difficoltà durante la guida anche se non si indossano le cinture fino a quando non intervengono controlli da parte delle autorità o avvengono incidenti, nel contesto pratico dello psicologo vi può essere una pericolosa sottostima di alcuni rischi professionali legati al trattamento dei dati fino a che avvengono controlli o ‘incidenti’, rappresentati da eventuali cause legali risarcitorie promosse dai clienti/pazienti a scapito del professionista.

Per esperienza professionale personale sia lavorando all’interno di un’azienda di risarcimento danni sia grazie alla collaborazione con la collega americana Marlene Maheu, presidentessa della task force dedicata alla telepsicologia dell’APA (American Psychological Association), che già da diversi anni ha affrontato aspetti analoghi nel contesto della regolamentazione privacy americana (HIPPA), posso affermare che purtroppo talvolta questo tipo di controlli ed ‘incidenti’ avvengono e proprio per questo motivo occorre essere maggiormente consapevoli delle corrette pratiche professionali da adottare.

Soprattutto in questo periodo dove la pandemia ha accelerato notevolmente, anche se forzatamente, il processo d’utilizzo delle modalità digitali all’interno della pratica dello psicologo, esistono delle dinamiche psicosociali che hanno indotto probabilmente una diffusa e forte sottostima dei rischi nel trattamento dei dati di molti psicologi italiani (Agnoletti, 2020).

È dunque assolutamente prioritario, al fine di tutelare maggiormente sia gli psicologi che soprattutto i loro clienti/pazienti, colmare il più velocemente possibile il gap culturale e formativo relativo alle dinamiche legali/deontologiche implicate nell’uso delle recenti tecnologie comunicative che prevedibilmente si diffonderanno sempre più largamente all’interno della nostra comunità professionale.

Chiaramente questo compito deve essere promosso principalmente dalle istituzioni psicologiche italiane.

Self control web: opportunità e rischi della tecnologia nei bambini

I genitori spesso possono essere investiti da molteplici richieste ambientali alle quali si aggiungono le richieste, anche di attenzioni, dei propri figli. In queste o altre occasioni può accadere che ci si affidi all’uso di smartphone o altri apparecchi digitali per ‘regolare’ i bambini e le loro emozioni.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

I social network, e in generale l’uso di internet, sono entrati a far parte della nostra quotidianità. Ogni fascia d’età ne è stata inevitabilmente investita. In un mondo in cui siamo costantemente connessi, l’impatto che questi strumenti hanno sulle nostre vite personali è significativo (Naskar et al., 2016; King et al., 2018).

I giovani, e anche i bambini che ormai crescono con libero accesso allo smartphone, vengono chiamati nativi digitali: si tratta di una generazione che cresce tra cellulari, tablet e pc. In questo non c’è nulla di male; usare la tecnologia ed essere sempre connessi fa parte ormai del nostro vivere quotidiano, ma è necessaria una certa educazione digitale che potrebbe partire sin dalla tenera età.

Occorre spostare l’attenzione al ‘quanto e come’ viene usato lo strumento digitale.

I Bambini, le emozioni e l’autocontrollo

I bambini fanno la conoscenza delle emozioni sin dai primi mesi di vita e col tempo imparano a conoscerle e regolarle con l’aiuto dell’adulto.

Ogni anno è diverso: il bambino impara a conoscere nuove abilità, entra in contatto con l’ambiente, diventa un soggetto attivo, cresce. Inizia a sperimentare il concetto di tempo, attesa e inizia a entrare in contatto con le proprie emozioni. Le reazioni cambiano a seconda dell’ambiente, del bambino e così via.

Ogni bambino è a sé: c’è chi di fronte a una frustrazione piange, c’è chi piange e si butta per terra scalciando; oppure chi rimane fermo sul ‘no’, sulla sua posizione e ‘sfida’ l’adulto, come c’è anche chi, di fronte a una frustrazione, si limita a mostrarsi contrariato ma rimane imperturbabile.

Verso i due anni i bambini imparano ad esprimirsi spesso usando i no.

La risposta no può seguire spesso le richieste che l’adulto propone al bambino (‘metti via i giochi’, ‘andiamo a cambiare il pannolino’ ad esempio). Compaiono capricci, scenate oppure possono manifestarsi comportamenti provocatori e di sfida. Tutto può allora essere motivo di fastidio, nervosismo o rabbia: dal mettersi il giubbotto per uscire di casa, al non voler condividere un gioco, al pezzetto piccolo di verdura nel piatto. Frustrazione e rabbia sono emozioni che mettono a dura prova i genitori. In particolare quando non avvengono tra le mura domestiche ma in contesti pubblici. Alcuni genitori potrebbero essere più sensibili ai capricci e ai pianti dei propri bambini e potrebbero intervenire mettendo in atto comportamenti efficaci o meno. Altri genitori potrebbero mantenere la propria posizione innescando un’escalation di emozioni tra sé e il bambino. Questi sono gli anni in cui i bambini, ma anche i genitori, sperimentano l’apprendimento per prova ed errori. Ogni comportamento, richiesta, risposta, reazione emotiva è nuova sia per i bambini che per i genitori. I bambini spesso possono arrabbiarsi se non vengono accolti i loro bisogni, magari in tempi rapidi e nella modalità pensata o se i loro bisogni vengono colti e si risponde con toni forti, alti, aggressivi o non accoglienti. Dall’altro canto, i genitori spesso possono essere investiti da molteplici richieste ambientali alle quali si aggiungono le richieste, anche di attenzioni, dei propri figli. In queste o altre occasioni può accadere che ci si affidi all’uso di smartphone o altri apparecchi digitali per ‘regolare’ il bambino. La gestione delle emozioni, della loro durata e della loro intensità, tuttavia, non dovrebbe essere affidata troppo o troppo precocemente ad un mezzo tecnologico: diventare capaci di autoregolarsi significa imparare a stare con le proprie emozioni, a tollerarle e a gestirle. Con ‘regolazione’ si fa riferimento alla capacità che il bambino possiede fin dalla nascita di regolare i propri stati emotivi e organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali adeguate (Sander, 1962 1987; Stern, 1985; Lichtenberg, 1989). La regolazione è un processo che muove i primi passi tra le capacità innate del bambino e le interazioni della diade bambino/caregiver intorno al raggiungimento dell’omeostasi (Sroufe,1995). Le strategie per la regolazione di stato sono inizialmente fornite dal caregiver e successivamente interiorizzate dal bambino e si generalizzano nel tempo includendo la regolazione degli stati affettivi, l’attenzione, l’arousal e l’organizzazione di comportamenti complessi che comprendono le interazioni sociali. L’uso dei sensi nell’esplorazione del mondo e le interazioni con gli altri consentono ai bambini di essere più creativi, di apprendere di più: in particolare, le interazioni vis à vis e il gioco non strutturato sono indispensabili per la creatività, l’immaginazione, l’acquisizione di abilità emozionali, le capacità di problem solving e l’autonomia.

I bambini e i media

Eugene A. Geist (2012) ha condotto una ricerca allo scopo di studiare, attraverso osservazioni partecipate, le interazioni spontanee tra bambini di età compresa fra i 2 e i 3 anni e il tablet che avvenivano in contesti sia familiari che educativi. Dallo studio emergeva la facilità con la quale i bambini interagivano naturalmente con l’interfaccia touch screen, ricorrendo a modalità che ricordavano quelle utilizzate con altri giocattoli. Sulla base delle osservazioni riportate nella ricerca, lo studioso affermava che provare a limitare l’accesso e l’uso delle tecnologie a questi bambini, che cresceranno e vivranno in una società tecnologica, significherebbe nuotare contro corrente. Questo non significa, secondo Geist, che le esperienze debbano essere tutte mediate dalle tecnologie, ma che l’uso creativo di questi dispositivi può contribuire a sviluppare il loro potenziale cognitivo. Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale (2019) di Jordan Shapiro, è un ulteriore esempio di pensiero positivo verso l’uso della tecnologia con la messa in luce degli aspetti positivi nell’apprendimento. Tuttavia gli autori trasmettono un messaggio importante: consentire l’uso della tecnologia ma con la presenza di un adulto, valorizzandone tempo e finalità. I nuovi oggetti tecnologici non dovrebbero diventare alternative ai giochi o ai giocattoli tradizionali, ma aggiungersi ad essi. Potrebbero essere una forma di apprendimento attivo svolta secondo tempi e modalità ben strutturate e precise. Per i bambini tra i 2 e i 3 anni, in particolare, si sconsiglia l’esposizione passiva e prolungata (per più di 30 minuti) alla Tv e alle tecnologie touch in assenza di adulti che possano svolgere un ruolo interattivo ed educativo. In più l’utilizzo di determinati comportamenti, quali ad esempio pianto-uso del cellulare, può creare un paradigma di apprendimento molto potente che i genitori potrebbero far fatica a modificare. L’uso di smartphone o altri apparecchi digitali per gestire le emozioni potrebbe comportare una difficoltà nella capacità di riconoscerle, nominarle, raccontarle. Le emozioni non regolate rendono difficile l’adattamento individuale, le relazioni interpersonali, la gestione delle fonti di stress e il rapporto con gli stimoli che innescano i processi affettivi, i desideri e così via. Lo smartphone, il pc o altri strumenti digitali finirebbero col diventare dei compagni di evasione da emozioni ‘fastidiose’, ad esempio quando il bambino impara a spostare il focus della propria preoccupazione riducendo le sensazioni negative provate.

Sin dai primi mesi di vita sia i genitori che i bambini spesso procedono per prove ed errori alla continua scoperta dell’altro, occorre quindi essere consapevoli del reciproco contributo dato nella relazione, perché anche il bambino è competente nella relazione (Gandolfi, 2008) e modifica il comportamento dell’adulto.

Disturbi alimentari maschili e orientamento sessuale: un percorso tra dati storici e recenti evidenze dalla ricerca

I disturbi alimentari sono patologie a prevalenza spiccatamente femminile, tuttavia alcuni casi di uomini affetti da tali disturbi hanno portato la ricerca psicologica a interrogarsi, tra altre variabili, anche sul ruolo della sessualità maschile nella loro genesi.

 

In reazione all’orientamento sessuale, alcune ricerche hanno mostrato una maggior presenza di uomini omosessuali e bisessuali tra i maschi che soffrono di un disturbo alimentare (Robinson & Holdern, 1986; Carlat, Carmago & Herzog, 1997; Russel & Keel, 2002; Dakanalis et al., 2012). Secondo alcuni studi circa il 40% dei maschi portatori di disturbi alimentari riferisce il proprio orientamento come ‘non eterosessuale’ (Feldman & Meyer, 2007). Morgan (2008) riporta che ‘la maggior parte degli uomini che soffre di un disturbo dell’immagine corporea è eterosessuale e la maggior parte degli uomini omosessuali non riporta un disturbo dell’immagine corporea. Ciononostante circa un uomo su cinque con disturbo alimentare ha un orientamento omosessuale’. Il legame tra orientamento sessuale e disturbi alimentari nel maschio è stato esplorato e dibattuto a partire dagli anni ’80. Nel 1984 Herzog e collaboratori hanno pubblicato uno studio in cui hanno confrontato un gruppo maschile anoressico-bulimico con un gruppo femminile portatore del medesimo quadro psicopatologico; il 26% del campione maschile riportava un orientamento omosessuale contro il 4% della controparte femminile. Un altro confronto tra due gruppi clinici ha evidenziato che i maschi con disturbi alimentari riportavano isolamento affettivo e conflitti omosessuali con maggior frequenza rispetto alle pazienti femmine (Herzog et al. 1991). Dunque la sovrarappresentazione dell’omosessualità all’interno dei disturbi alimentari sembrerebbe caratteristica peculiare della popolazione maschile, mentre per le femmine sembrerebbe essere in linea con la distribuzione nella popolazione non patologica. Fichter e Daser (1987) intervistarono un gruppo di pazienti anoressici maschi rilevando come i soggetti si percepissero e fossero percepiti dagli altri come più ‘femminili’ nell’aspetto e nel comportamento, rispetto agli altri uomini; il 65% riportava una preferenza per giochi e attività tradizionalmente femminili durante l’infanzia e il 20% avrebbe voluto essere del sesso opposto. Un altro studio dello stesso anno ha confrontato due gruppi, maschile e femminile, di pazienti bulimici rilevando un’incidenza di comportamenti omosessuali e bisessuali del 53% dei pazienti maschi contro l’assenza di tali condotte nel campione femminile (Schneider & Agras, 1987). Nel 1997 presso il Massachusetts General Hospital, è stata condotta una ricerca analizzando 135 cartelle cliniche di pazienti maschi valutati tra il 1980 e il 1994 con diagnosi di disturbo alimentare. Attraverso l’analisi dei dati anamnestici e le trascrizioni dei colloqui clinici, è emerso che il 42% dei pazienti si riconosceva come omosessuale o bisessuale (Carlat, Camargo & Herzog, 1997)

In tempi più recenti uno studio italiano condotto da Dakanalis e collaboratori (2012) ha indagato il legame tra orientamento sessuale e disturbi del comportamento alimentare, sottoponendo questionari self-report a 125 studenti universitari di orientamento omosessuale e 130 di orientamento eterosessuale. Dal confronto dei due campioni è emerso che i ragazzi omosessuali mostravano più alti livelli di insoddisfazione corporea e un maggior numero di comportamenti alimentari patologici rispetto al campione eterosessuale.

La sovrarappresentazione dell’omosessualità nella popolazione di maschi portatori di disturbi alimentari ha portato i ricercatori a interrogarsi sul fenomeno e nel corso degli anni sono state proposte diverse teorie. Ad esempio Crisp (1972) ha ipotizzato che il disturbo alimentare negli uomini possa avere una funzione protettiva rispetto all’angoscia che la propria omosessualità rinnegata diventi visibile agli altri, giustificando la scarsa virilità percepita con l’estrema magrezza del proprio corpo. Morgan (2008) ha riportato una simile spiegazione, teorizzando che alcuni ragazzi che fanno esperienza di conflitti relativi alla sessualità possano trovare sollievo con il disturbo alimentare: secondo questo autore, in alcuni casi i maschi, attraverso la restrizione alimentare e il conseguente cambiamento della fisiologia del proprio corpo, inibirebbero la pulsione sessuale, sospendendo così i compiti evolutivi relativi al proprio orientamento sessuale. I maschi con disturbi dell’alimentazione riportano una minor attività sessuale prima e durante la malattia rispetto alle ragazze e mostrano alti livelli di angoscia rispetto alle relazioni sessuali; tali tematiche sembrano essere preminenti nella genesi del disturbo alimentare (Balottin, 2003). Secondo le teorie che vedono la patologia come difesa dai conflitti sessuali, la condizione di denutrizione porterebbe ad un minor apporto proteico e una conseguente minor sintesi ormonale; i maschi con anoressia nervosa hanno infatti livelli più bassi di testosterone, correlati a un abbassamento del desiderio sessuale (Hoffer et al., 1986). Tali fenomeni sono analogamente riscontrabili nelle femmine con anoressia restrittiva, dove lo stato di denutrizione porta ad alterazione della funziona ovarica (Singhal et al., 2014) e a una riduzione dell’attività sessuale (Pinheiro et al., 2010,).

Ad oggi il dibattito riguardante il legame tra omosessualità e disturbi alimentari della sfera maschile è ampiamente aperto. Alcuni autori hanno spiegato che il fatto che gli omosessuali siano maggiormente rappresentati tra i maschi con disturbo alimentare, sia da imputare al fatto che possano essere più propensi a chiedere aiuto per tale problematica rispetto agli uomini eterosessuali (Woodside, 2004), di conseguenza la notevole esiguità di diagnosi di disturbo alimentare negli uomini eterosessuali sarebbe da imputare ad una generale reticenza degli individui maschi a chiedere un aiuto psicologico (tale diffidenza si correla ad una maggior ‘mascolinità’ percepita), unita allo stigma sociale derivante dal soffrire di una patologia considerata tipicamente femminile (Greenberg & Schoen, 2008). Questo aspetto è sintetizzato in modo semplice ed efficace dalla testimonianza di un paziente anoressico:

Non posso immaginare quanto sarebbe stato difficile cercare aiuto se io fossi stato eterosessuale. Avrebbero pensato che io fossi gay quando in realtà non lo ero‘. (Ashuk, 2004)

Altri autori sostengono che l’orientamento sessuale sia da considerare nella misura in cui influenza l’espressione clinica del disturbo (Murray et al., 2017), in altre parole gli uomini omosessuali sarebbero più a rischio di sviluppare certi tipi di disturbi alimentari, legati a diete restrittive e comportamenti compensatori, rispetto agli eterosessuali, che li manifesterebbero attraverso modelli alimentari iperproteici e preoccupazioni riguardanti la massa muscolare. Tale differenza deriverebbe dalle diverse concezioni riguardanti la forma del corpo appartenenti alle differenti subculture di appartenenza (Smith et al., 2011).

È importante sottolineare che la maggior parte degli studi finora condotti soffre di alcuni limiti metodologici, come l’esiguità di soggetti considerati, la mancanza di studi randomizzati e una selezione viziata dei campioni considerati (Bankoff & Pantalone, 2014). Inoltre in molte ricerche i soggetti omosessuali e bisessuali venivano inclusi all’interno dello stesso gruppo ‘non eterosessuale’. Si consideri poi che una visione tricotomica dell’orientamento sessuale, alla luce delle evidenze provenienti dalla sessuologia, risulterebbe troppo semplificata e porterebbe a risultati di ricerca troppo vaghi (Kuna & Sόbow, 2017). Infine si prenda in considerazione che gli studi sui disturbi alimentari e orientamento sessuale finora condotti non hanno tenuto conto di quell’emarginazione nosografica riguardante i ‘nuovi’ disturbi della nutrizione quali ad esempio il disturbo da alimentazione incontrollata, la sindrome da alimentazione notturna, la vigoressia e l’ortoressia. Prospettive future di ricerca dovrebbero ampliare i campioni considerati, tenendo conto delle recenti evidenze sui disturbi della nutrizione e sui temi della sessualità.

 

 

Io e le mie ossessioni (2020) di Mark Freeman – Recensione del libro

Il libro di cui parleremo oggi si intitola Io e le mie ossessioni, scritto da Mark Freeman ed edito da Macro.

 

Si tratta di un libro dinamico e agile in cui si racconta il disagio mentale in modo discorsivo, narrativo e risolutivo poiché di volta in volta sono presentati una serie di comportamenti alternativi da intraprendere per poter affrontare i diversi disagi che, spesso, attanagliano la nostra esistenza. Io e le mie ossessioni è diviso in due parti: nella prima parte sono esposte e passate in rassegna le abilità di base della salute mentale che portano ogni persona ad attingere alle stesse per affrontare il quotidiano. Si parte dal riuscire a capire chi siamo o cosa vorremmo essere per comprendere le abilità che ognuno di noi possiede. Lo scopo è conoscere noi stessi, i nostri limiti e i nostri punti di forza, per poi individuare percorsi migliori da intraprendere per ottenere benessere. Per questo, se si riuscissero a individuare quali siano i pensieri e i comportamenti disfunzionali si potrebbe imparare a gestirli, individuando comportamenti alternativi più funzionali al raggiungimento dell’obiettivo. Di conseguenza, il nostro benessere psicologico sarà avvantaggiato dall’apprendimento di questi nuovi comportamenti, se praticati con costanza. Cosa importante è diventare consapevoli del proprio modo di essere e per questo praticare in maniera cadenzata la mindfulness agevola. Quindi, esattamente come uno sportivo cura il proprio corpo allenandosi con costanza e tenacia, tutti dovremmo esercitarci costantemente per ottenere un maggiore benessere mentale.

Nella seconda parte del libro si parlerà di emozioni e di come queste gestiscano la nostra vita quotidiana. Importante è comprendere che se riuscissimo a non assecondare le emozioni, tipo ansia e tristezza, ma ci focalizzassimo su obiettivi e valori diversi riusciremmo a ottenere ciò che desideriamo con un minore dispendio di energie e fatica. Ovviamente, saranno presentante le ossessioni e le compulsioni e saranno passati in rassegna, di conseguenza, una serie di diversi esercizi volti a gestire questi disagi psicologici derivanti dall’ansia. Ci sono esercizi volti a raggiungere il cambiamento, altri invece tendono a rendere consapevoli del disagio, in ogni caso la forza di questo libro è determinata proprio dalla presenza degli esercizi che rendono pratica la teoria e per questo sono fondamentali nel processo di cambiamento e gestione dell’impulso.

La cosa importante è capire che siamo noi al centro, cioè la persona con i propri limiti e i propri punti di forza che la agevoleranno ad affrontare il cambiamento. Lo scopo, dunque, è capire cosa ci può aiutare e renderci più audaci nell’affrontare le sfide quotidiane cui siamo sottoposti. Per questo, superare i propri limiti porta al cambiamento. Tutti possiamo migliorare apprendendo come riuscire a fare esperienza di pensieri, emozioni e desideri, accettandoli senza contrastarli. Solo in questo modo è possibile individuare la strada migliore da intraprendere per andare avanti nel migliore dei modi. L’obiettivo è superare gli stati emotivi dolorosi non assecondandoli, ma metabolizzandoli quotidianamente. Ottenere una buona forma mentale è un lavoro duro, faticoso, ma caratterizzato da costanza e pazienza che alla lunga portano ottimi risultati.

Questo libro si concentra sulle azioni che, se praticate quotidianamente come l’allenamento fisico, riescono a portare alla individuazione di metodi nuovi che aiuteranno a gestire le esperienze difficili della vita. Cambiare i propri comportamenti e le proprie abitudini implica sforzi e sacrifici notevoli, ma solo se si mettono in atto delle azioni è possibile ottenere dei risultati.

Questo è il grande senso del libro: fare per ottenere o come direbbero gli inglesi ‘baby steps but steps!’.

 

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