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Covid-19: il trattamento breve gruppale online – Report dal webinar delle Dott.sse Rebecchi, Mazzocco e Ascani

L’ultimo incontro, organizzato da Studi Cognitivi per approfondire alcuni aspetti psicologici relativi all’emergenza Covid-19, ha avuto come protagoniste le Dr.sse Rebecchi, Mazzocco e Ascani. Il webinar del 5 giugno ha esposto un protocollo per il trattamento gruppale online in risposta al disagio scaturito dalla pandemia e dalle sue conseguenze.

 

Le docenti hanno fornito i dati della letteratura scientifica, chiarito le motivazioni che hanno portato alla creazione dell’intervento e hanno illustrato il protocollo sia nei suoi aspetti organizzativi che operativi, proponendo anche esercizi esperienziali.

La Dr.ssa Rebecchi ha spiegato come la psicologia clinica e quella d’emergenza siano le discipline a cui far riferimento nel rispondere alle numerose richieste di aiuto per la gestione dello stress conseguente al contesto pandemico. L’impatto globale del SARS-CoV-2 sulla salute pubblica è senza precedenti e ha messo in discussione tutti i clinici: sono saltati alcuni criteri diagnostici (per esempio, non possiamo più parlare di disturbo acuto da stress per la durata del fenomeno, non è un evento paragonabile a un terremoto) e sono cambiati i setting d’intervento. La letteratura a riguardo è in fase di produzione e non si hanno ancora abbastanza informazioni sul virus, sulle conseguenze e sull’impatto psicologico a breve, medio e lungo termine.

L’idea di un protocollo per il trattamento gruppale cognitivo-comportamentale nasce da Studi Cognitivi. Le motivazioni alla base della sua realizzazione sono:

  1. costruire un protocollo breve per la gestione dello stress e delle reazioni emotive (ansia, umore deflesso e rabbia), nell’ottica di trovare un nuovo adattamento;
  2. individuare un contesto (quello di gruppo) in grado di favorire la conoscenza, comprensione e condivisione di una varietà di eventi stressanti, delle diverse reazioni emotive e comportamentali (positive e negative) e delle possibili risorse di fronteggiamento;
  3. dare attenzione alla peculiarità del fenomeno pandemico Covid-19, che comprende diverse variabili: la paura della malattia o del contagio, le reazioni alle misure di prevenzione, ai dispositivi e al susseguirsi delle fasi, lo smarrimento causato da informazioni contrastanti, l’incertezza per il futuro, …

I gruppi CBT-Covid-19 hanno lo scopo di favorire la gestione dello stress derivante dalla situazione attuale di emergenza e si articolano in 6 incontri a cadenza settimanale da 1 ora e mezza ciascuno. I gruppi sono composti da un massimo di 8 partecipanti e due conduttori. Alla fine del ciclo di incontri sono stati pensati 3 follow-up per monitorare i livelli di stress (a 1 mese, 3 mesi e 6 mesi). I criteri di ingresso al gruppo, necessari per la valutazione di efficacia e per poter estendere il protocollo, sono:

  • la presenza di una sintomatologia reattiva o di un disagio significativo legato ai contenuti di paura del contagio o a reazioni emotive nei confronti dei dispositivi e delle conseguenze;
  • il raggiungimento di punteggi soglia (cut-off): IES > 33 e CORE > 14;
  • l’assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia, depressione e PTSD (criteri rilevati tramite colloquio clinico).

Da non sottovalutare, inoltre, la disponibilità dei partecipanti a lavorare in 1 ora e mezzo ogni settimana online in uno spazio tranquillo e intimo.

L’incontro preliminare e i 3 follow-up prevedono la compilazione di una batteria testale, sulla piattaforma inTherapy, composta da:

  • CORE-OM: utile per la valutazione di esito; permette di analizzare diversi domini: il benessere soggettivo, i sintomi-problemi, il funzionamento e i rischi per sé e per gli altri.
  • GAD-7 (Generalized Anxiety Disorder 7): il self-report maggiormente utilizzato per lo screening dei disturbi d’ansia.
  • PHQ-9 (Patient Health Questionnaire – 9): una scala che misura i sintomi depressivi relativi alle ultime due settimane.
  • IES-R (Impact of Event Scale – Revised): il più diffuso strumento per la valutazione di screening della sintomatologia post-traumatica.

Tutti gli incontri sono stati pensati con un’architettura simile: un riassunto della seduta precedente, la revisione degli homework, un’introduzione riguardante l’obiettivo dell’incontro, un brainstorming sulle sedute precedenti e sull’argomento del giorno, l’informativa, alcuni esercizi esperienziali e gli homework per consolidare gli apprendimenti.

Incontro 1: Quali eventi critici di stress

Il primo incontro si apre con la presentazione dei partecipanti e delle regole del gruppo, necessarie per garantire la condivisione e la privacy. Dopo questo primo momento si prosegue con l’esplorazione, la validazione e la normalizzazione dei vissuti emotivi, dei pensieri e delle reazioni alla pandemia riportate da ogni membro del gruppo. Successivamente vengono spiegate le varie fasi che ogni persona attraversa quando è esposta ad eventi stressanti (informativa) e vengono contestualizzate le reazioni emerse durante l’esplorazione (sintomi cognitivi, emotivi e comportamentali). L’intervento si conclude con l’esercizio del posto al sicuro, che costituirà anche l’homework della settimana per i partecipanti.

Incontro 2: Tecniche di gestione allo stress

Nel corso del secondo incontro viene spiegato cosa sono gli indicatori somatici di disregolazione e la finestra di tolleranza (Siegel, 2003) e vengono introdotte alcune tecniche di gestione dello stress a partire dalle situazioni condivise dai membri del gruppo durante l’intervento precedente. Nell’ottica di rispondere a diverse esigenze ed esperienze, gli esercizi proposti e insegnati vanno in due diverse direzioni:

  • regolare l’iperattivazione del sistema simpatico: calmare l’attivazione con esercizi di ri-orientamento, ridurre la tensione e regolare il respiro;
  • regolare l’ipoattivazione del sistema parasimpatico: aumentare l’attivazione con esercizi di ri-orientamento, aumentare la tensione e regolare il respiro.

Incontri 3, 4 e 5: Le emozioni e la pandemia

Gli incontri 3, 4 e 5 sono dedicati alle emozioni che più spesso hanno accompagnato la popolazione durante la fase di emergenza sanitaria da Covid-19: l’ansia, le sensazioni depressive e la rabbia. Infatti, non sono rari i casi di forti preoccupazioni per un possibile contagio, angosce per un futuro incerto, una profonda tristezza per l’isolamento o per le difficoltà nella gestione dei figli e dirompenti arrabbiature dovute al mancato rispetto delle regole di prevenzione.

Ognuno di questi incontri prevede una fase di sintetica informativa sull’emozione e sulle sue caratteristiche, la costruzione di ABC a partire dagli episodi condivisi dai partecipanti, la disputa dei pensieri disfunzionali e l’individuazione di pensieri alternativi. Durante ogni intervento, inoltre, vengono fornite delle strategie utili per affrontare lo stato interno preso in esame:

  • accettazione Be A.W.AR.E (Beck, A.T., Emery, G. & Greenberg, R.L. 1985), training attentivo (Wells, 2012) e rilassamento progressivo di Jacobson (Goldwurm, G. F., Sacchi, D., & Scarlato, A. 1986) per l’ansia;
  • accettazione della tristezza, identificazione delle risorse e programmazione di attività piacevoli (Leveni, 2018) nel caso delle sensazioni depressive;
  • stop del pensiero (Johnson, 1999) e respirazione lenta (Andrews, 2003) per la rabbia.

Incontro 6: Utilizziamo le risorse

Durante l’ultimo incontro si effettua un riepilogo degli interventi precedenti e si prova ad individuare ed imparare vecchie risorse e nuove tecniche per affrontare in modo più funzionale le situazioni difficili. Inoltre, partendo dalle problematiche emerse nel ciclo di incontri, verrà dedicato uno spazio alla prevenzione delle ricadute, identificano eventuali segnali di stress e le possibili strategie alternative.

 

Come individuare i casi di alienazione genitoriale: il modello a quattro fattori validato da Amy J. L. Baker

Nel corso di separazioni coniugali spesso si osservano dinamiche relazionali caratterizzate da una forte ostilità che possono incidere sul benessere psicologico dei figli. In questo ambito si inserisce un fenomeno, attualmente di forte interesse per ricercatori e professionisti dell’ambito psicologico-clinico e forense, denominato alienazione genitoriale.

Daniela Marchetti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto

 

Nella letteratura recente il termine alienazione genitoriale è utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore (a cui ci si riferisce con la denominazione di preferito o alienante) mette in atto comportamenti (strategie di alienazione) che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (che assume il ruolo di bersaglio o genitore rifiutato). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi presentano specifici segni rivelatori (manifestazioni comportamentali di alienazione genitoriale) e possono essere considerati figli alienati (Baker & Fine, 2014).

I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano la necessità in prima istanza di saper riconoscere dinamiche coniugali complesse, terreno fertile per lo sviluppo dell’alienazione genitoriale, in seconda istanza di individuare interventi che consentano di ridurre gli effetti a lungo termine sui figli.

Il modello a quattro fattori

In letteratura è possibile rintracciare diverse definizioni dell’alienazione genitoriale non necessariamente in disaccordo ma caratterizzate da una enfatizzazione di aspetti diversi del processo di alienazione (Verrocchio & Marchetti, 2017). In questa sede si fa riferimento al modello che individua e sottolinea quattro elementi centrali per la definizione e identificazione della dinamica di alienazione genitoriale. Seguendo questo modello recentemente validato dalla Dott.ssa Amy J. L. Baker (2018), riconosciuta a livello mondiale come una delle maggiori esperte del fenomeno, affinché si possa parlare di alienazione genitoriale è necessario siano presenti contemporaneamente quattro fattori. Se vengono rintracciati solo alcuni di questi non sarà pertanto corretto parlare di alienazione genitoriale.

Il primo elemento da considerare è la presenza di un rifiuto non giustificato di un genitore. Ciò vuol dire che non dovranno configurarsi esperienze di abuso o trascuratezza perpetrate dal genitore bersaglio o rifiutato. In questi casi infatti non è corretto parlare di alienazione genitoriale, ma di rifiuto motivato da parte di un figlio che rientrerebbe tra le dinamiche dell’estrangement (Harman, Bernet, & Harman, 2019; Kelly & Johnston, 2001).

Il secondo elemento è costituito dalla constatazione che il bambino rifiuta un genitore che precedentemente amava e con il quale aveva un buon legame di attaccamento. Per valutare questo fattore risulta fondamentale analizzare in maniera esaustiva la qualità della relazione genitore-figlio antecedente la conflittualità di coppia. Se si rintracciano elementi a sostegno di una relazione normativamente sana, il cambiamento rigido dell’atteggiamento del bambino nei confronti del genitore rifiutato potrà costituire un elemento che contribuirà all’identificazione di un caso di alienazione genitoriale.

Il terzo elemento deriva dall’osservazione di comportamenti tipici da parte del figlio rifiutante. Tra questi comportamenti si possono osservare: la campagna denigratoria del genitore rifiutato; la presenza di motivazioni deboli addotte per il rifiuto ingiustificato del genitore bersaglio; l’assenza di ambivalenza nei confronti del genitore preferito; il fenomeno del pensatore indipendente; il fenomeno degli scenari presi in prestito; la totale assenza di senso di colpa; il sostegno incondizionato del genitore preferito; la diffusione dell’ostilità ad altri componenti del nucleo familiare del genitore rifiutato (nonni, zii, ecc.). Tali comportamenti sono stati identificati e classificati da Gardner (1992) e possono essere rintracciati nella descrizione approfondita proposta da Verrocchio e Marchetti (2017).

Il quarto ed ultimo elemento è costituito dalla presenza di atteggiamenti e comportamenti specifici messi in atto dal genitore preferito. Le strategie di alienazione sono ampiamente descritte nella letteratura internazionale e nazionale (Baker, 2007; Bernet, Baker & Verrocchio, 2015; Verrocchio & Marchetti, 2017). Ci si limiterà pertanto a indicarne solo alcune delle più frequenti per fornire esempi utili. Una strategia spesso utilizzata è il parlar male o denigrare l’altro genitore davanti al figlio. Bisogna precisare che non ci si riferisce a sporadiche critiche o osservazioni fatte nei confronti del coniuge o ex coniuge, ma a continue manifestazioni verbali e non verbali di denigrazione dell’altro genitore davanti al figlio. Un’altra strategia frequentemente riscontrata è costituita dalla messa in atto di comportamenti volti a limitare il contatto e la comunicazione tra il genitore e il figlio (ad esempio, addurre scuse per non rendere disponibile il figlio, limitare o evitare le telefonate, ecc.). Tali strategie possono essere accompagnate da manifestazioni di freddezza emotiva e scarsa responsività se il figlio manifesta la volontà di parlare e/o vedere il genitore bersaglio dimostrando quindi affetto nei suoi confronti. Queste ed altre strategie minano a più livelli la relazione genitore bersaglio-figlio:

  1. creano una relazione simbiotica tra il bambino e il genitore preferito;
  2. creano distanza tra il genitore bersaglio e il bambino, attenuando o interrompendo il loro legame di attaccamento;
  3. portano il genitore bersaglio a provare sofferenza e rabbia nell’interazione con il figlio rifiutante e tali sentimenti contribuiscono ad alimentare il conflitto esistente.

Le conseguenze dell’alienazione genitoriale

L’importanza di identificare correttamente la presenza della dinamica di alienazione deriva da una corposa letteratura che ha individuato effetti negativi in coloro che hanno riferito di essere state vittime di alienazione genitoriale. Tali conseguenze si manifestano attraverso bassa autonomia, sintomatologia ansiosa e depressiva, stile di attaccamento insicuro, distress psicologico e bassa qualità della vita (Baker & Ben-Ami, 2011; Ben-Ami & Baker, 2012; Bernet et al., 2015; Saini et al., 2016Verrocchio & Baker, 2015; Verrocchio, Baker & Bernet, 2016; Verrocchio, Marchetti & Fulcheri, 2015; Verrocchio, Marchetti, Carrozzino, Compare, Fulcheri, 2019). Inoltre l’alienazione genitoriale viene attualmente considerata una forma di maltrattamento psicologico. Diverse ricerche sottolineano in modo stabile che tanto più vengono messe in atto strategie di alienazione da parte del genitore preferito quanto più il figlio si sentirà vittima di maltrattamento (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Questa forma di violenza viene definita in letteratura come una reiterazione di pattern comportamentali o modelli relazionali ritenuti psicologicamente dannosi in quanto creano nel bambino l’idea di essere non amato, non desiderato, non meritevole di amore (Binggeli, Hart, & Brassard, 2001) e comprende atti di commissione (abuso emotivo) e di omissione (trascuratezza emotiva) (Verrocchio, 2014).

Recentemente, partendo dalle caratteristiche definitorie e dalle implicazioni per la salute, la dinamica di alienazione genitoriale è stata proposta come una forma specifica di violenza familiare al fine sia di promuovere un più ampio riconoscimento del fenomeno, sia di fornire una cornice teorica che consenta di condurre ricerche utili ad un ulteriore sviluppo di trattamenti rivolti ai figli alienati e ai genitori bersaglio (Harman et al., 2018; 2019).

 

Momentaneamente silenziosi. Guida per operatori, insegnanti e genitori di bambini e ragazzi con mutismo selettivo (2018), di E. Iacchia, P. Ancarani – Recensione

In Momentaneamente silenziosi non mancano una serie di domande tipiche che il genitore spesso si pone circa il mutismo selettivo manifestato dal proprio figlio. Ogni quesito ha la sua risposta riconducibile ad un determinato paragrafo del testo.

 

Durante la lettura di questo libro ho provato un po’ ad immedesimarmi in quel mutismo che le autrici definiscono ‘situazionale’. Ho ipotizzato una situazione in cui l’ansia potesse raggiungere il culmine, e in effetti mi sono resa conto che verrebbe spontaneo ammutolirsi.

Questo perché il Mutismo Selettivo altro non è che un disturbo caratterizzato da una forte ansia, la quale, mal gestita, blocca la parola in alcuni ambienti o situazioni; talvolta il disagio è circoscritto solo verso alcuni interlocutori.

Si tratta di un mutismo situazionale in quanto in situazioni in cui l’ansia non è elevata i soggetti parlerebbero normalmente.

Per farci meglio capire questo concetto le autrici espongono varie testimonianze e casi di soggetti con mutismo selettivo.

Vengono descritte situazioni in cui il soggetto, di età infantile ma non solo, cade nel proprio silenzio senza la propria volontà, esperendo questa situazione con difficoltà e disagio.

Soprattutto viene esposta una condizione difficilmente gestibile per insegnanti e genitori.

I primi paragrafi del libro sono volti a illustrarci il disturbo secondo i criteri del DSM 5, riconoscerne i campanelli di allarme, le cause e le conseguenze.

Ne viene fuori un’importanza non indifferente riconosciuta alle emozioni. I soggetti con mutismo selettivo sono particolarmente emotivi, e chi sta loro accanto dovrà essere bene in grado di saper affrontare questa emotività.

Le autrici espongono tre pilastri che consentono di uscire da questa condizione di mutismo: innanzitutto insegnanti e genitori dovranno accettare e comprendere la situazione con la consapevolezza che essa sia del tutto risolvibile; in secondo luogo bisogna essere diligenti nell’organizzare in modo abile tutte le informazioni sul disturbo; infine sarà possibile attivarsi rimodulando la gestione dei rapporti nelle case e nelle aule.

Nei capitoli a seguire il libro si trasforma in una vera e propria guida in prima linea per i genitori, a seconda dell’età del proprio figlio, della situazione e dei luoghi in cui il mutismo potrebbe verificarsi.

Una guida molto pratica, che suggerisce le attività manuali che il genitore potrebbe proporre al proprio figlio. Come se il genitore possedesse una bussola di cui ogni punto cardinale ha la sua importante direzione da seguire.

E non mancano una serie di domande tipiche che il genitore spesso si pone circa questo disturbo manifestato dal proprio figlio. Ogni quesito ha la sua risposta riconducibile ad un determinato paragrafo del testo. Ciò rende il libro una guida completa e di facile e immediato utilizzo.

Naturalmente non poteva mancare una parte del testo dedicata al contesto scolastico.

A scuola il mutismo selettivo viene sovente confuso con un’eccessiva timidezza. Eppure la scuola è l’ambiente in cui questo disturbo viene ad esperirsi con maggiore frequenza.

Conta per cui far sì che l’insegnante sia in qualche modo strategico. Naturalmente ciò sarà possibile solo costruendo una giusta rete scuola – famiglia.

Il ragazzo dovrà sentirsi inserito, accettato e rilassato. Non è infatti un caso che l’alunno affetto da mutismo selettivo possa divenire una vittima di bullismo.

Anche per gli insegnanti le autrici del libro mettono a disposizione una serie di domande e risposte al fine di fornire le corrette linee guida per la gestione del disturbo esperito a scuola.

E non bisogna sorvolare sul fatto che il mutismo selettivo non è solo una condizione caratterizzante l’infanzia, bensì è facilmente riscontrabile anche in età adolescenziale.

In un’età in cui le emozioni raggiungono l’apice dell’intensità potrebbe sembrare non semplice gestire questa condizione, ma anche in tal caso è risolvibile. Bisogna seguire i tre pilastri suggeriti dalle autrici: comprendere la situazione, pianificare dal punto di vista teorico un intervento adeguato, e infine attivarsi sulla gestione dei rapporti esperiti dal ragazzo.

In fondo le strutture scolastiche ed educative sono ben attrezzate per la gestione di tali situazioni, e laddove necessario non sarà difficile mettere a punto un Piano Didattico Personalizzato per il soggetto in questione.

Il libro è dunque una guida ben completa sul mutismo selettivo, che si limita non solo a descriverci il disturbo con le sue possibili cause e conseguenze, ma intende aiutare gli adulti di riferimento nella gestione dei rapporti con i propri figli o alunni.

E soprattutto pone l’accento su una questione di non scarso rilievo: talvolta anche riuscire a pronunciare una parola potrebbe definirsi un’impresa… non impossibile.

 

Violenza domestica: confronto tra due programmi di intervento per gli aggressori

Il tema della violenza domestica è stato molto discusso recentemente, anche in seguito all’aumento dei casi di violenza domestica avvenuto durante il periodo di quarantena legato alla pandemia di covid-19.

 

Infatti, secondo quanto riportato dall’Istat, le telefonate al numero verde 1522 antiviolenza e stalking sono aumentate del 73% tra il primo marzo e il 16 aprile 2020. Nel 93,4% dei casi la violenza riportata avveniva in casa, ossia veniva perpetrata da parte di persone vicine alla vittima.

Che cosa si può fare per proteggere efficacemente le vittime di violenza domestica?

Negli Stati Uniti, accanto ai provvedimenti della polizia e delle autorità giudiziarie, vengono proposti diversi programmi di intervento per gli aggressori (batterer intervention programs, BIP; Zarling, Bannon e Berta, 2019). Tradizionalmente, questi programmi seguono un protocollo definito Duluth Model. Il Duluth Model si sviluppa da una prospettiva teorica secondo cui la violenza domestica è conseguenza di una visione patriarcale. Pertanto, l’obiettivo generale del trattamento è modificare le convinzioni sessiste degli aggressori, da cui deriverebbero i loro comportamenti violenti. Il protocollo è caratterizzato dall’uso di tecniche psicoeducative, che hanno lo scopo di far comprendere la gravità degli abusi commessi. Il Duluth Model può essere somministrato da solo o in combinazione con un trattamento cognitivo comportamentale (CBT), per modificare credenze problematiche e comportamenti disfunzionali.

Tuttavia i programmi basati sul Duluth Model, sulla CBT o su una combinazione dei due hanno un’efficacia poco soddisfacente, in quanto non riducono adeguatamente i tassi di recidiva (Eckhardt et al., 2013).

Per questo, Zarling e colleghi (2019) hanno studiato l’efficacia di un programma alternativo, definito Achieving Change Through Values-Based Behavior (ACTV), ossia “raggiungere il cambiamento attraverso comportamenti basati sui valori”. L’ACTV trae le proprie radici dall’ACT (Acceptance and Committment Therapy), una forma di psicoterapia che dà importanza al raggiungimento di ciò che ha valore per ciascuno. Secondo l’ACT, la violenza domestica potrebbe essere ricondotta al tentativo di evitare esperienze interiori spiacevoli, ad esempio pensieri o emozioni negativi.

L’ACTV cerca di promuovere il cambiamento concentrandosi non tanto sul modificare il contenuto di pensieri ed emozioni, come nel Duluth Model e nella CBT, quanto sul modificare il modo in cui si reagisce a questi pensieri ed emozioni. Ad esempio, di fronte al pensiero “La mia partner non dovrebbe trattarmi in questo modo”, il Duluth Model e la CBT cercherebbero di sostituire questo pensiero con uno più razionale; l’ACTV invece cercherebbe di insegnare a rispettare comunque l’altra persona, anche se si ritiene che non ci stia trattando come vorremmo. Inoltre nell’ACTV si utilizzano i valori importanti per l’individuo come motivazioni per perseguire il cambiamento.

L’ACTV prevede cinque moduli: nel primo l’obiettivo è individuare i valori importanti per ciascuno e imparare a riconoscere quali comportamenti sono efficaci nel raggiungerli e quali no. Il secondo, il terzo e il quarto modulo si focalizzano rispettivamente sull’insegnamento di abilità di regolazione emotiva, abilità cognitive e abilità comportamentali, ad esempio di comunicazione, assertività e risoluzione dei conflitti. Il modulo finale si concentra sull’identificazione di possibili ostacoli al cambiamento e su come agire per risolvere queste eventuali difficoltà.

Zarling e colleghi (2019) hanno confrontato l’efficacia dei due programmi di intervento sopra descritti in un campione di oltre tremila uomini condannati per violenza domestica. L’efficacia è stata definita come effettività nella prevenzione di recidive, cioè nuove denunce per reati a carico dai partecipanti durante i dodici mesi successivi al trattamento.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti che avevano svolto parzialmente o completamente l’ACTV avevano meno denunce per reati in generale e per reati violenti nei 12 mesi successivi al trattamento, rispetto a coloro che avevano seguito il Duluth Model abbinato alla CBT. Tuttavia non c’erano differenze tra i due gruppi rispetto al numero di denunce ricevute per violenza domestica.

Questo significa che l’ACTV è risultato più efficace nel prevenire la perpetrazione di reati in generale, anche di natura violenta, ma non è risultato più effettivo nel prevenire la violenza domestica, che era invece proprio il suo scopo principale.

Zarling e colleghi (2019) sostengono che ciò possa dipendere dall’ampiezza di abilità insegnate tramite il programma ACTV, che possono essere estese a varie situazioni oltre al contesto relazionale. Ciò è senz’altro utile, tuttavia non mira in modo specifico l’obiettivo di proteggere le vittime di violenza domestica aiutando gli aggressori a cambiare il proprio comportamento.

È comunque possibile che l’ACTV sia efficace nel ridurre anche la violenza domestica per specifici campioni. Per scoprirlo, sarebbero necessari ulteriori studi. La ricerca in futuro dovrebbe anche cercare di spiegare perché, ossia attraverso quali specifici meccanismi, l’ACTV sia efficace.

In conclusione, l’aspetto più socialmente e praticamente rilevante di questo studio è che, sebbene i dati circa l’efficacia dell’ACTV debbano essere approfonditi, esso dimostra l’importanza di adottare pratiche evidence-based nella rieducazione di autori di reato. Infatti, solo attraverso un approccio scientifico è possibile monitorare l’efficacia di un intervento, evitando il rischio di affidare al senso comune gli sforzi per eliminare la violenza domestica.

 

Disturbi dell’umore in menopausa

La menopausa costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Se la produzione degli estrogeni cala, diminuiscono anche le quantità di serotonina, endorfine e dopamina e di conseguenza si verifica un notevole cambio dell’umore.

Francesca Carbonella – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La menopausa è una tappa fisiologica della vita di ogni donna. Essa si verifica mediamente intorno ai 50 anni di età, a seguito della cessazione dei cicli mestruali conseguente alla perdita della funzione follicolare ovarica. In questa delicata fase del ciclo di vita femminile, si verifica inoltre un’interruzione della produzione di estrogeni e progesterone. La menopausa costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Secondo lo stereotipo classico la maternità e la crisi adolescenziale hanno un significato evolutivo e creativo mentre la menopausa è più un’esperienza di lutto dovuto alla perdita della fertilità.

Durante la menopausa il corpo produce meno estrogeni. Nello specifico, durante il climaterio (periodo premenopausa) le ovaie, produttrici di estrogeni e progesterone, rispondono sempre meno agli stimoli degli ormoni FSH e LH prodotti dall’ipofisi, ghiandola che si trova alla base della testa. Questi sbalzi ormonali mandano in tilt l’ipotalamo, quella parte del cervello che gestisce anche la reazione alle emozioni. Gli estrogeni, infatti, oltre alla regolazione del ciclo mestruale, stimolano anche la produzione di:

  • serotonina, il cosiddetto “ormone della felicità”;
  • endorfine, sostanze prodotte dal cervello che potremmo soprannominare “molecole della gioia”;
  • dopamina, la “molecola del piacere”.

Se la produzione degli estrogeni cala, diminuiscono anche le quantità di serotonina, endorfine e dopamina, di conseguenza si verifica un notevole cambio dell’umore.

Il passaggio verso la menopausa è comunque un processo graduale: le fluttuazioni ormonali iniziano diversi anni prima della scomparsa del ciclo e danno luogo a irregolarità mestruali, cambiamenti dell’intensità del flusso, così come a sintomi di varia natura e soprattutto a una progressiva riduzione della fertilità.

Questa fase ha una durata molto variabile, può protrarsi anche per dieci anni; è la fase generalmente più sintomatica e prende il nome di perimenopausa.

La sintomatologia della menopausa è alquanto variegata, in quanto tale fase è caratterizzata da un vissuto fortemente soggettivo e spesso difficoltoso.

Gli effetti della menopausa sono infatti molto variabili e dipendono da predisposizione genetica, storia personale, stile di vita, fattori psicosociali e ambiente socioculturale.

Spesso la menopausa è vissuta in maniera drammatica dalle donne perché viene identificata con l’inizio dell’invecchiamento.

Alcune donne, per la possibilità di vivere una sessualità più libera, svincolata dal timore di una gravidanza, o per la scomparsa di sintomi mestruali magari gravosi e invalidanti, accolgono questo periodo positivamente. Queste donne mostrano un’attitudine positiva verso la menopausa, ritenendola non solo una transizione fisiologica, ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi.

Altre donne attribuiscono, invece, all’insorgere della menopausa un significato di perdita e impoverimento, aggravato dalla presenza di sintomi e manifestazioni che interferiscono con la qualità della vita.

A tutto ciò si aggiungono i fattori sociali e culturali, in particolare il significato attribuito alla fase della menopausa. In alcune culture, infatti, la cessazione della fertilità corrisponde a un momento di crescita sociale e pone la donna in una posizione privilegiata, in cui gode di maggior considerazione e rispetto, nella società occidentale, al contrario la menopausa è spesso sinonimo di perdita di femminilità e invecchiamento.

Da un punto di vista prettamente ormonale, gli estrogeni condizionano la qualità di vita, in quanto la loro carenza incide sul desiderio sessuale e favorisce la comparsa di sintomi vasomotori, genitourinari, osteoarticolari e a carico della sfera psicoemotiva.

Uno dei fenomeni più fastidioso, indice di carenza di estrogeni, è rappresentato dalla comparsa delle vampate di calore. Molto spesso esse compaiono di notte, causando importanti sudorazioni che interferiscono con la qualità del sonno e si ripercuotono poi sul benessere generale, anche durante il giorno.

Il calo ormonale ha effetti anche sull’apparato riproduttivo, con la comparsa di secchezza e atrofia vaginale, le quali possono rendere il rapporto sessuale doloroso e difficile. Quando il livello di estrogeni diminuisce, inoltre, si riduce anche la produzione di collagene ed elastina: la pelle può diventare più sottile, secca e perdere elasticità.

In aggiunta a questi effetti di carattere prettamente fisico, in prossimità della menopausa possono manifestarsi anche stanchezza, cefalea, difficoltà di concentrazione e memoria. Sono inoltre frequenti insonnia e disturbi del sonno e del tono dell’umore, con ansia, irritabilità e depressione.

Gli estrogeni, come anche gli ormoni androgeni, hanno certamente l’effetto di un “fertilizzante” cerebrale; tuttavia non esistono prove certe a favore di un legame diretto tra la loro riduzione e la comparsa di depressione e disturbi dell’umore.

Per spiegare questa relazione sono state formulate varie ipotesi. Per esempio, la carenza estrogenica, causando vampate e sudorazioni notturne che interferiscono con il sonno, che a sua volta è legato al cambiamento di umore, sarebbe indirettamente responsabile dei sintomi a carico della sfera psicoemotiva.

Secondo la teoria psicosociale, la spiegazione sarebbe da ricercare invece in fattori esterni e nei cambiamenti biologici. I sintomi depressivi sarebbero quindi correlati a diversi fattori di stress: possibili problemi di salute, la cura dei figli, della casa, dei genitori anziani o di richieste di lavoro sempre più crescenti, difficoltà di coppia o nella relazione con il partner, problemi con i figli.

Tutti questi fattori stressanti, il basso livello di sostegno sociale e i problemi fisici possono essere strettamente correlati all’insorgenza della depressione in questo periodo.

Da un punto di vista epidemiologico, generalmente, le donne sono più esposte alla depressione rispetto agli uomini: il sesso femminile è colpito in percentuale più che doppia.

In aggiunta a ciò, da recenti studi è emerso che oltre il 7% delle donne tra i 55 e i 75 anni di età sviluppa un disturbo depressivo.

La prevalenza nel lifetime per il disturbo depressivo maggiore è del 10,2% nelle donne contro il 5,2% degli uomini; per la distimia del 5,4% contro il 2,6% e ancora più marcata risulta la preponderanza femminile per la depressione atipica e per i disturbi depressivi stagionali (Kessler, McGonagle, Swartz et al., 1993; World Health Organization Kobe Center, 2005; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

Differenti ipotesi spiegano la maggior prevalenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini:

  • fattori neuroendocrini: differenze nella struttura cerebrale e nell’impatto sul cervello dei diversi ormoni sessuali;
  • fattori psicosociali: differenze nelle strategie di coping, nella vulnerabilità personale, nella frequenza di esposizione e nella qualità degli eventi stressanti. In particolare: eventi di separazione o di perdita traumatica, abusi e violenze;
  • fattori legati alla storia dello sviluppo: relazioni di attaccamento nell’infanzia e in età prepuberale;
  • storia famigliare di disturbi psichiatrici;
  • tratti temperamentali;
  • variazioni ormonali in determinate fasi del life span.

Secondo alcuni studi si riscontrano diversità di genere anche nella sintomatologia depressiva. In effetti emerge come le donne manifestino con maggior prevalenza statistica il quadro della depressione atipica. Il genere femminile inoltre, presenta maggiori comorbilità psichiatriche per i disturbi d’ansia, i disturbi somatoformi e la bulimia; differentemente nell’uomo si riscontra un’associazione maggiore con l’abuso di alcol e sostanze e il disturbo ossessivo compulsivo (Khan, Broadhead, Schwartz, Koltz, Brown, 2005).

In maniera più dettagliata, alcuni studi epidemiologici hanno mostrato come i fattori di stress psicosociale siano associati ad un aumentato rischio per sviluppo di sintomi depressivi subclinici ed un esordio depressivo maggiore durante la transizione menopausale e il loro impatto sia maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé (Lanza di Scalea, Niolu, Siracusano, 2010).

È ormai risaputo da diversi anni che le donne hanno un rischio maggiore di sviluppare un disturbo depressivo durante il postpartum a causa del cambiamento ormonale, tuttavia si hanno ancora poche conoscenze in merito al rischio depressivo associato al periodo di transazione verso la menopausa.

Sinora, anche dal punto di vista clinico, le raccomandazioni circa la diagnosi e la terapia di questo tipo di depressione sono state alquanto carenti.

A proposito dell’associazione tra i sintomi della perimenopausa e il disturbo depressivo, secondo la letteratura scientifica, sintomi quali vampate di calore e disturbi del sonno iniziano in questo momento e possono coesistere e sovrapporsi ai sintomi della depressione. In particolar modo quando le vampate di calore avvengono durante la notte, la così detta “sudorazione notturna”, il sonno può essere interrotto; i persistenti disturbi del sonno causati da questo sintomo possono contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi depressivi.

Il processo diagnostico tuttavia è particolarmente ostico perché le cause scatenanti la depressione possono essere difficili da identificare, inoltre molte volte i sintomi esperiti non soddisfano i criteri per una diagnosi piena di depressione. Anche i sintomi depressivi lievi però possono abbassare la qualità di vita, ciò che appare veramente importante quindi è un’analisi dettagliata dei sintomi per giungere ad una diagnosi e identificare la miglior cura possibile.

A tal riguardo, recentemente un team di esperti convocato dalla North American Menopause Society e dal Network on Depression Centers Women and Mood Disorders Task Group e approvato dalla International Menopause Society ha redatto le prime linee guida, pubblicate sul Journal of Women’s Health per la valutazione e il trattamento della depressione durante la perimenopausa.

Le conclusioni a cui sono giunti gli esperti per la stesura delle linee guida permettono di affermare che:

  • la perimenopausa è un periodo di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi depressivi lievi con la possibilità di comparsa di un disturbo depressivo maggiore;
  • il rischio di sviluppare sintomi depressivi è elevato anche nelle donne senza precedenti episodi;
  • diversi sintomi della perimenopausa si sovrappongono alla presenza della depressione complicandone l’individuazione;
  • i fattori stressanti della vita possono influenzare negativamente l’umore, aumentando il rischio di depressione in questo particolare periodo;
  • i trattamenti terapeutici per la depressione (terapia farmacologia antidepressiva e interventi di psicoterapia) dovrebbero rimanere i gold standard in casi di depressione associata a perimenopausa.

In conclusione, ansia e depressione sono dunque comuni nelle donne in menopausa, ma non ci sono prove chiare che la fase biologica in sé aumenti il rischio di disordini dell’umore clinicamente significativi, se non in donne con fattori di rischio predisponenti, come per esempio:

  • un precedente episodio di depressione, anche legato alla sindrome premestruale e/o alla fase post partum;
  • stress psicosociale;
  • un lungo periodo perimenopausale caratterizzato da sintomi vasomotori gravi e prolungati.

 

La rabbia e la voglia di non pensarci…aspetti processuali nel trattamento della disregolazione emotiva – Report dal webinar

Il 5 giugno si è svolto in diretta streaming il seminario dal titolo La rabbia e la voglia di non pensarci… aspetti processuali nel trattamento della disregolazione emotiva dove sono intervenuti per approfondire il tema dei disturbi della personalità la Dr.ssa Sandra Sassaroli, il Dr. Giovanni Maria Ruggero e il Dr. Gabriele Caselli.

 

Con il termine personalità si intende uno stile persistente che governa il modo in cui la persona pensa, sente, percepisce e agisce, pertanto un disturbo di personalità (DP) rappresenta un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative culturali, è pervasivo e inflessibile, esordisce in adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio significativo.

Essendo difficile delineare il confine tra personalità sana e disturbata esistono alcuni indicatori che permettono di individuare un disturbo di personalità: spesso i DP sono caratterizzati da egosintonia, ovvero le persone sono poco o per niente consapevoli del problema, e da difficoltà di regolazione, con espressioni rigide, inflessibili e indipendenti dal contesto. Uno dei DP più diffusi e invalidanti è il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), caratterizzato da instabilità emotiva, identitaria e nelle relazioni interpersonali, difficoltà di controllo della rabbia, comportamenti impulsivi, sentimenti cronici di vuoto e comportamenti autolesivi.

In un’ottica terapeutica, una volta identificate tali caratteristiche risulta utile comprendere cosa le produce e sostiene: secondo la terapia dialettico comportamentale (DBT) le difficoltà insorgono dall’interazione tra una predisposizione biologica e un’ambiente invalidante, la quale predispone a una disregolazione emotiva che si definisce su tre assi (alta sensibilità agli stimoli emotigeni, esperienza di emozioni molto intense, lento ritorno alla baseline). Tale disregolazione porterebbe alla messa in atto di comportamenti impulsivi che distolgono l’attenzione da stati emotivi spiacevoli, pertanto da una disregolazione emotiva dipenderebbe una disregolazione comportamentale.

Ciò che permette alla disregolazione emotiva di influenzare quella comportamentale è la modalità in cui ci si abitua a reagire ai propri stati interni, chiamata regolazione cognitiva e definita come la capacità di agire sulle operazioni mentali, ad esempio scegliendo di non pensare a qualcosa o concentrandosi su determinati stimoli. Nel DBP uno dei processi di regolazione cognitiva più utilizzato è la ruminazione che consiste nell’analisi continua del proprio malessere, delle sue cause e conseguenze nel tentativo di rispondere alla domanda “perché?”. Si tratta dunque di un processo analitico di autocritica e di ragionamento controfattuale (analisi di episodi passati concentrandosi su come la persona avrebbe potuto comportarsi diversamente). Molteplici studi scientifici hanno dimostrato che la ruminazione prolunga e intensifica l’umore depresso, avendo pertanto un effetto sulla disregolazione emotiva.

La ruminazione rabbiosa, invece, si concentra sull’analisi e rievocazione di eventi riguardanti principalmente rifiuto, offese subite, ingiustizie o provocazioni sociali e ha come effetto il consolidamento della memoria e la generazione di emozioni molto simili a quelle sperimentate in quel determinato episodio (just yesterday experience). Conseguentemente la ruminazione prolunga e intensifica l’esperienza di rabbia, aumenta la probabilità di mettere in atto risposte aggressive e consuma le risorse adibite all’autocontrollo, infatti se inizialmente la persona cerca di controllarsi per non trasformare la rabbia in un comportamento aggressivo, nell’episodio successivo tenderà a esplodere per un evento anche lieve; questo rappresenta il passaggio che spiega il collegamento tra disregolazione emotiva e disregolazione comportamentale.

In sintesi, l’ambiente invalidante e la predisposizione biologica favoriscono lo sviluppo di una sensibilità emotiva che può diventare disregolata quando si attiva il circolo vizioso con la ruminazione. In questi casi il comportamento disregolato può sia servire per interrompere il circolo riducendo l’emozionalità sia rappresentare l’esito di un processo che riduce le risorse necessarie per l’autocontrollo.

Compreso questo circolo, è necessario indagare le motivazioni che spingono una persona a ruminare, consistenti nelle credenze metacognitive, vale a dire conoscenze implicite o esplicite coinvolte nell’attivazione, monitoraggio, correzione e interruzione dell’elaborazione cognitiva. Tali credenze possono essere positive, se si considera la ruminazione come una soluzione e non un problema, o negative, se si considerano i propri stati interni come pericolosi, la propria mente come difettosa e la ruminazione come un processo fuori dal proprio controllo. Il principio su cui si basa la terapia metacognitiva, pertanto, è che agendo sulle credenze metacognitive si è in grado di ridurre la ruminazione e conseguentemente anche la disregolazione, favorendo la messa in atto di alternative comportamentali più funzionali.

Durante il seminario viene approfondito il modello Libet (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) che non rappresenta un modello di terapia, ma un’indagine sulle modalità di funzionamento dei pazienti, nato dalla necessità logica di un modello di formulazione del caso. Serve per condividere con il paziente le ipotesi del suo funzionamento e permette di monitorare l’andamento della terapia. Alcuni pazienti, infatti, tendono a considerare normale il proprio funzionamento anche quando li danneggia, probabilmente perchè tale funzionamento si è sviluppato in circostanze in cui appariva utile. La disfunzionalità è insita nella sua rigidità poichè al mutare delle circostanze la persona non è in grado di distanziarsene, rendendolo dannoso.

La Libet parte dagli aspetti evolutivi, nel tentativo di rispondere alla domanda “dove hai imparato a comportarti così?” prende in considerazione l’ostilità dell’ambiente familiare e/o sociale e il mancato soddisfacimento dei bisogni personali che spinge l’individuo ad apprendere strategie disfunzionali con lo scopo di proteggersi da un ambiente considerato pericoloso. Tuttavia, utilizzate in maniera continuativa tali strategie diventano piani di vita automatizzati che impediscono al paziente di discriminare tra contesti e di imparare che le emozioni non sono stati terrifici da cui è necessario proteggersi.

I concetti cardine della Libet sono i temi, ovvero iperfocalizzazioni attentive sulla minaccia appresa in età evolutiva, le credenze di meta-controllo, consistenti nel sistema di idee rigide sull’intollerabilità e pericolosità dei temi, e i piani, vale a dire l’insieme di strategie di protezione messe in atto per evitare l’emergere del tema.

Nella concettualizzaizone Libet si individuano tre temi: il tema dell’insicurezza personale (nato da un’esperienza di minaccia al senso di sicurezza che porta il bambino a considerarsi fragile e debole), il tema del disamore e dell’inadeguatezza (genitori inadeguati che non forniscono al bambino strategie per affrontare il mondo rendendolo inefficace e ansioso oppure genitori freddi e distanti che non mostrano interesse o rifiutano apertamente il bambino, facendogli provare sentimenti di vuoto, inutilità e tristezza) e il tema dell’indegnità (genitori presenti ma fortemente critici ed esigenti dal punto di vista prestazionale o morale che portano il bambino a ritenersi inferiore, incapace e sbagliato).

Nel tentativo di non entrare in contatto con i propri temi dolorosi gli individui possono utilizzare tre tipologie di piano: prudenziale (basato sul monitoraggio della minaccia e il ritiro da situazioni potenzialmente pericolose tramite evitamenti), prescrittivo (basato sul rimuginio e controllo del tema per prevenire e prevedere la minaccia tramite perfezionismo e rigidità comportamentale) e immunizzante/anestetizzante (basato sull’ignoranza della minaccia tramite comportamenti aggressivi o autogratificanti, i quali permettono l’insorgenza di emozioni intense che vanno a ipercompensare gli stati spiacevoli).

Nel momento in cui si assiste alla rottura di un piano di protezione rigido emergono i sintomi reattivi di sofferenza psichica che potrebbero spingere il paziente a cercare aiuto. Difatti, i piani possono rompersi per esaurimento, determinato dalla fatica e dai costi di mantenimento del piano, o per invalidazione a causa di eventi di vita come il fallimento o l’abbandono. In particolare, il piano prudenziale si invalida quando la realtà pone delle imposizioni che impediscono di fatto il ritiro o la fuga; il piano prescrittivo viene invalidato quando il progetto ideale (as esempio di controllo assoluto o approvazione totale) fallisce; il piano immunizzante, invece, si invalida nel momento in cui l’individuo acquisisce consapevolezza sul proprio funzionamento. In un’ottica di trattamento, si può lavorare per ridurre i sintomi, modificare i piani, rendere maggiormente accettabili i temi o combinare questi diversi obiettivi.

Secondo il modello cognitivo classico i disturbi di personalità dipendono da esperienze dolorose precoci, problematiche relazionali e difficoltà a fidarsi degli altri. Tali esperienze unite a una predisposizione genetica si cristallizzano in credenze centrali, ovvero definizioni di sé che descrivono il proprio modo di stare al mondo e di relazionarsi agli altri. Anche se negative (ad esempio indifeso, non amato, senza valore), le credenze centrali danno un sollievo emotivo momentaneo, ma a lungo termine diventano un ostacolo per la crescita e lo sviluppo personale. Ciò che media la relazione tra credenze centrali e comportamenti sono le credenze intermedie basate su regole e condizioni quali “dovrei..” o “se..allora..”; i comportamenti conseguenti, invece, corrispondono a strategie di fronteggiamento e comportamenti di sicurezza che l’individuo utilizza per gestire, anche se in maniera disfunzionale, le proprie credenze.

La terapia cognitiva-comportamentale (CBT), basata sull’individuazione e modifica delle credenze centrali, è risultata come il trattamento più efficace tra le psicoterapie per i disturbi d’ansia, tuttavia molteplici studi scientifici hanno evidenziato che sia efficace anche per i disturbi di personalità, anche se non più efficace delle altre psicoterapie poichè le credenze centrali disfunzionali non sono più solamente definizioni di sé, ma si riferiscono anche agli altri e alle relazioni.

Dopo la terapia cognitiva classica, si manifesta la svolta processuale che sposta il focus dal contenuto dei pensieri disfunzionali all’atteggimento verso tali pensieri. Un atteggiamento sano verso i propri pensieri, infatti, è quello di non dare loro troppa attenzione perchè la loro funzione è quella di ragionevole allerta, non di giudizio catastrofico su di sé. Un atteggiamento disfunzionale, invece, è rappresentato dal pensiero rimuginativo in cui si dà molta importanza ai pensieri negativi e li si usa per giudicare se stessi e gli altri. Difatti il modello S-REF (Self Regulatory Executive Function) di Wells spiega la psicopatologia in termini di stati rimuginativi retti da credenze positive e negative sul rimuginio.

Lo scopo della Libet pertanto è quello di condividere con il paziente un’ipotesi sulla sua sofferenza prestando attenzione ai temi per lui intollerabili (riformulazione delle credenze centrali) e ai piani necessari e incontrollabili che utilizza (riformulazione delle strategie di fronteggiamento). Perciò il tema non è solo un errore di valutazione di se stessi, ma una sensibilità dolorosa appresa in infanzia, mentre il piano non è solo un errore di comportamento, ma una valutazione di condotta che privilegia il sollievo emotivo a breve termine a danno del contatto con la realtà.

Applicando il modello S-REF e Libet ai disturbi di personalità è emerso che il rimuginio è principalmente di tipo rabbioso e l’emozione di rabbia viene percepita non solo come egosintonica, ma anche come “giusta”. Tali caratteristiche possono comportare delle difficoltà di alleanza terapeutica poichè, mentre le credenze del paziente ansioso sono egodistoniche (ossia gli causano stress e disagio), quelle del paziente con disturbo di personalità vengono considerate giuste e coerenti con la propria immagine. Inoltre, relativamente ai piani è possibile distinguere la tipologia di credenze sottostanti che, nel caso dei piani prescrittivi e prudenziali sono credenze di incontrollabilità (negative) mentre nel caso dei piani immunizzanti sono credenze di utilità e necessità (positive). Queste credenze di utilità rendono ulteriormente dolorosa la condivisione del tema con i pazienti con disturbo della personalità dato che nel piano immunizzante utilizzano le emozioni intense, come la rabbia, per anestetizzare il tema doloroso.

 

Guarda il video integrale del seminario:

 

Il rischio di burnout negli operatori presso i servizi per minori in condizione di disagio

Secondo numerosi autori, il burnout è una sindrome multi-dimensionale in cui coesistono tre elementi, individuati a partire dal lavoro della Maslach: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e mancata realizzazione personale.

 

Numerosi studi hanno dimostrato come il burnout coinvolga maggiormente le professioni d’aiuto, dove le eccessive richieste emotive dell’utenza possono portare ad un’esorbitante fatica mentale del lavoratore, un trattamento meccanicistico dell’utente e una percezione di diminuzione della capacità di riuscire nel lavoro.

Maslach (1992) definisce il burnout come una forma di stress interpersonale che comporta il distacco dall’utente, causato dalla continua tensione emotiva dovuta al contatto con persone che presentano una richiesta di aiuto. Il burnout si configura come una sindrome multi-dimensionale (Maslach et Leiter, 2002), le cui tre componenti sintomatiche sono: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale. La prima componente è rappresentata dalla sensazione di essere emotivamente inaridito e di sentirsi esaurito dal proprio lavoro. Il contatto continuo con emozioni stressanti finisce per logorare il soggetto, renderlo vuoto, con minori energie. La seconda componente, la depersonalizzazione, è intesa come distacco e indifferenza nei confronti sia del lavoro che dell’utente a cui viene rivolto il proprio servizio. Tale atteggiamento consente al soggetto di proteggersi al fine di evitare i coinvolgimenti emotivi imposti dalla situazione professionale. Nella terza dimensione, la ridotta realizzazione personale è descritta come una sensazione di inadeguatezza nello stabilire un rapporto di aiuto efficace con gli utenti, nonché da insoddisfazione lavorativa e sfiducia nelle proprie competenze (Maslach et Leiter, 2002).

La sindrome di Burnout: gli studi

Tale sindrome è particolarmente diffusa nelle professioni socio-sanitarie, la cui caratteristica peculiare è proprio quella di essere continuamente sottoposti a richieste di aiuto sentite come necessarie, urgenti, che impongono risposte immediate e puntuali ai bisogni dell’utenza (Baiocco et al.,2004).

In letteratura, sono state identificati due principali fattori di incidenza sul burnout: variabili personali e variabili relative al contesto lavorativo (Schaufeli etBuunk, 2015). In primo luogo, l’insorgenza e gli effetti del burnout possono essere, infatti, modulati dalle modalità individuali di reagire a situazioni stressanti e di gestire gli eventi. Le strategie di coping, ad esempio, che comprendono sia le decisioni e le azioni adottate da un individuo di fronte a un evento stressante, sia le emozioni a esse connesse, sembrano essere particolarmente implicate nello sviluppo del burnout (Carmona et al.2006). Il senso di autoefficacia, inoltre, è in grado di influenzare la risposta ad eventi negativi (Bandura, 1993). Diversi studi sullo stress lavorativo, hanno mostrato che un basso senso di autoefficacia (inteso come la convinzione di poter svolgere adeguatamente il proprio compito) è associato a maggiore disagio psicologico e a minore realizzazione personale (Borgogniet al, 2013). Alta autoefficacia percepita è stata riportata in letteratura come fattore di protezione del burnout e predittore di maggiore impegno lavorativo (Shoji et al, 2016). In secondo luogo, i fattori ambientali e le problematiche connesse all’organizzazione del lavoro svolgono un ruolo cruciale nel determinare l’insorgenza del burnout (Cherniss, 1986). Infatti, l’operatore è costretto a misurarsi, ogni giorno, non solo con i problemi degli utenti, ma anche con una serie di difficoltà che possono nascere all’interno dello stesso ambiente di lavoro (Maslach,Schaufeli etLeiter,2001). In questo ambito, l’attenzione degli studi si è rivolta soprattutto alla distribuzione dei compiti, al sovraccarico lavorativo, al clima relazionale dell’organizzazione, alla retribuzione economica e dalla carriera (Maslach, Schaufeli et Leiter,2001).

Premesse dello studio

Lo studio ha analizzato le relazioni esistenti tra burnout, strategie di coping, senso di autoefficacia e contesto lavorativo, all’interno delle strutture che si occupano dell’assistenza a minori in condizione di disagio. Tali strutture sono molto eterogenee e coinvolgono diverse tipologie di professionisti (come assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio-sanitari), impegnati nel comprendere le specifiche necessità dei minori e realizzare un percorso educativo fuori dal contesto familiare, al fine di ripristinare equilibri e abilità, superare disagi psico-fisici e socio-relazionali. Da un lato, è fondamentale che il lavoratore partecipi emotivamente alla relazione di aiuto instaurata con l’utente; dall’altro, deve riuscire a operare una differenziazione tra il proprio vissuto e quello altrui (Sӧderfeldt et al, 1995).

Verrà indagata l’incidenza delle diverse strategie di coping e del senso di autoefficacia sulle sotto-componenti del burnout individuate nel modello della Maslach (Maslach e Leiter, 2002), ovvero depersonalizzazione, esaurimento emotivo e realizzazione personale. Inoltre, dato il gran peso attribuito dalla letteratura ai fattori dell’ambiente organizzativo (Maslach, Schaufeli e Leiter, 2001; Maslach e Leiter, 2002), verrà indagato il ruolo che le difficoltà oggettive (orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro, carenza formazione personale, carenza risorse) e le difficoltà soggettive (presenza di conflitti, sovraccarico lavorativo, rapporti tra colleghi e dinamiche all’interno dell’equipe, disattenzione alle motivazioni del personale, carenza coinvolgimento del personale) riscontrate sul lavoro possono esercitare sull’insorgenza del burnout.

Metodo

Per la misurazione del burnout è stato utilizzato il Maslach Burnout Inventory (MBI) ideato da Maslach e Jackson. Il questionario è costituito da 22 item, in base ai quali il soggetto deve valutare la frequenza e l’intensità con cui sperimenta sintomi, affetti e stati emotivi connessi con il suo lavoro. Il test mira a valutare i tre profili che definiscono la sindrome: esaurimento emotivo, depersonalizzazione, realizzazione personale. A ciascuna domanda l’intervistato assegna un valore secondo la scala Likert da 0 a 6, che va da “qualche volta l’anno” sperimento queste reazioni a “tutti i giorni”.

Per la rilevazione degli stili di coping è stato utilizzato Il Coping Orientations to ProblemE xperienced – Nuova Versione Italiana (COPE-NVI) (Sica e al, 2008).

Il questionario è costituito da 60 item e valuta con quale frequenza il soggetto mette in atto, nelle situazioni difficili o stressanti, un particolare processo di coping. Le possibilità di risposta sono quattro, da «di solito non lo faccio» a «lo faccio quasi sempre». I 15 diversi meccanismi di coping presi in considerazione dal questionario sono raggruppati e relativi ai seguenti domini specifici: sostegno sociale, attitudine positiva, orientamento al problema, orientamento trascendente.

Per la misurazione dell’autoefficacia personale è stata usata la Scala di autoefficacia percepita nella gestione di problemi complessi (Farnese et al. 2007).

Il questionario è costituito da 24 item e valuta il senso di autoefficacia dei soggetti nella gestione di esperienze di vita problematiche, al quale è stato chiesto di rispondere in riferimento al contesto professionale indagato. La modalità di risposta è su scala Likert a 5 punti (da 1 = “per nulla capace” a 5 “del tutto capace”). La scala si compone di quattro sotto-dimensioni (maturità emotiva, finalizzazione dell’azione, fluidità relazionale, analisi del contesto) sintetizzabili in un unico costrutto definito come “autoefficacia percepita”.

Per la misurazione dei fattori che caratterizzano il contesto lavorativo, è stato creato un questionario ad-hoc che consiste in 13 item suddivisi in fattori oggettivi e soggettivi.

I fattori oggettivi comprendono: orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro e sovraccarico lavorativo (eccesso di energie, sacrifici richiesti al personale), carenza formazione o aggiornamento del personale, carenza risorse o attrezzature per lo svolgimento dei compiti, carenza coinvolgimento del personale. I fattori soggettivi comprendono: presenza di conflitti tra i colleghi, rapporti con superiori/dirigenti, complessità di lavoro, mancanza chiarezza nei compiti da svolgere, disattenzione alle motivazioni del personale. Il questionario consente di valutare ciascun fattore su una scala Likert a 4 punti, con modalità di risposta che vanno da “per nulla” a “molto”. Le prime due domande riguardano prettamente la soddisfazione lavorativa del singolo operatore.

Campione

Hanno partecipato allo studio 60 professionisti operanti all’interno di strutture familiari ed educative per minori. Le caratteristiche descrittive del campione sono riportate in Tabella 1.

Il 60% del campione lavora in comunità alloggio e il 40% in centri diurni polifunzionali, tutti collocati sul territorio della provincia di Salerno. Le comunità alloggio consistono in comunità familiari per un servizio residenziale e offrono forme di accoglienza continuativa (diurna e notturna) a soggetti prevalentemente non autosufficienti. In tali strutture vengono accolti un massimo di 8 minori, di età pari o superiore agli 11 anni, preferibilmente omogenei per sesso. I centri diurni polifunzionali, sono servizi semiresidenziali che forniscono forme di accoglienza di tipo diurno, quindi un’assistenza di tipo temporanea e parziale. Possono essere accolti contemporaneamente non più di 50 minori di età superiore ai 5 anni, prioritariamente residenti nel quartiere o nel Comune.

Procedura

I partecipanti sono stati informati dell’obiettivo dello studio, della durata del compito e della possibilità di non dare il proprio consenso a partecipare alla ricerca. Dopo aver letto e firmato il consenso informato per la partecipazione allo studio, hanno compilato i questionari nel giorno stabilito in accordo con i responsabili delle strutture. A ciascun partecipante è stato garantito l’anonimato. Il progetto di ricerca è stato approvato dal Comitato etico del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi Luigi Vanvitelli. Il tempo di compilazione è stato di circa 15 minuti.

Analisi statistiche

Allo scopo di valutare l’impatto delle variabili personali sul burnout, in un primo gruppo di analisi sono stati utilizzati tre diversi modelli di regressione lineare (con metodo forward) utilizzando ciascuna sottoscala del burnout come variabile dipendente. In tutti i modelli, sono state inserite come variabili indipendenti i punteggi ottenuti sui diversi stili di coping, l’autoefficacia percepita ed il genere.

Allo scopo di valutare l’impatto delle variabili legate al contesto lavorativo sul burnout, in secondo gruppo di analisi sono stati utilizzati tre diversi modelli di regressione lineare, uno per ciascuna sottoscala del burnout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo e realizzazione personale) utilizzate come variabile dipendente, inserendo le variabili oggettive e soggettive relative al contesto lavorativo come variabili indipendenti. Le analisi sono state svolte mediante il software SPSS (IBM SPSS Statistics, Version 21, Armonk, NY:IBM Corp.).

Risultati

Dato il duplice scopo del lavoro, nel valutare il ruolo delle variabili personali e lavorative, il primo gruppo di analisi che segue, risponde alla domanda sulle variabili personali mentre il secondo risponde alla domanda sulle variabili lavorative.

Variabili personali: ruolo delle strategie di coping e del senso di autoefficacia sul burnout

Come mostrato in Tabella 1, dai risultati sull’esaurimento emotivo, il modello estratto indica un effetto significativo (F(2,57) = 7.99; p=.001; R2= .219) dell’orientamento al problema e del sostegno sociale. In particolare, l’orientamento al problema presenta una relazione negativa con l’esaurimento emotivo, tale che ad un aumento di questa strategia di coping corrisponde una diminuzione dell’esaurimento emotivo (Fig 1-A). Il sostegno sociale, invece, presenta una relazione positiva, tale che al suo aumentare, aumenta anche l’esaurimento emotivo (Fig 1-B). Tutte le altre variabili non hanno mostrato un effetto significativo (p>.05).

Come mostrato nella Tabella 2, dai risultati sulla realizzazione personale, il modello estratto indica un effetto significativo (F(2, 57)= 5.279; p=.008; R2=.156) dell’autoefficacia percepita e dell’orientamento trascendentale. In particolare, l’autoefficacia percepita mostra una relazione positiva con la realizzazione personale (Fig 1-C), mentre l’orientamento trascendentale mostra una relazione negativa con la realizzazione personale (Fig 1-D). Tutte le altre variabili non hanno mostrato un effetto significativo (p>.05).

Dai risultati sulla depersonalizzazione, nessuna variabile considerata nel modello statistico riporta un’influenza significativa (p>.05).

Contesto lavorativo: ruolo delle difficoltà oggettive e soggettive dell’ambiente di lavoro sul burnout

I risultati su tutte le sottodimensioni del burnout (esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale) hanno indipendentemente mostrato un’incidenza significativa delle variabili oggettive e nessuna incidenza delle variabili soggettive. Nella Tabella 3 è mostrato l’effetto significativo, dove sia per l’esaurimento emotivo (F(2, 57)= 7, 286 ; p=.002; R2=.204), che per la depersonalizzazione (F(2, 57)=8.235; p=.001; R2=.224) si evidenzia una relazione positiva tra le due variabili, tale per cui all’aumentare delle difficoltà oggettive corrisponde un aumento delle due sottodimensioni del burnout (Fig. 2-A e 2-B). La realizzazione personale (F(2, 57)= 2.675; p=.078; R2=.086 ) mostra invece una relazione negativa, ad indicare che all’aumentare delle difficoltà oggettive essa si riduce (Fig. 2-c).

Le relazioni tra le dimensioni del burnout e le strategie di coping rivelano che l’utilizzo di strategie di orientamento al problema è associato a minore esaurimento emotivo (Fig 1-A). L’uso di tale strategia può infatti essere utile ad elaborare ed intraprendere attività mirate al superamento del problema e alla gestione dello stress, inibendo ogni altra azione interferente (Sica e al, 2008). Nel caso del presente studio, in cui gli operatori hanno la possibilità, seppur limitata, di controllo delle condizioni lavorative complesse e stressanti, l’uso di tali strategie probabilmente consente di aiutare a raggiungere un maggiore adattamento e benessere psicologico.

I risultati del presente studio riportano che la strategia di coping che mira al sostegno sociale è associata positivamente con l’esaurimento emotivo (Fig 1-B). Affidarsi esclusivamente al sostegno sociale potrebbe, infatti, rinforzare una certa passività da parte dell’individuo. Questa ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che sia il sostegno sociale che l’orientamento trascendentale sono visti come modalità passive di gestione dell’ansia e delle preoccupazioni (per una rassegna, si veda Chiri et Sica, 2007), che può risultare poco efficace nel lungo termine. Se nelle strategie di coping funzionali, come l’orientamento al problema, vi è una tendenza a gestire attivamente gli eventi critici o stressanti, la definizione del sostegno sociale è inquadrata come strategia emozionale, volta alla ricerca di comprensione, sostegno morale, rassicurazioni, sfogo emotivo dei propri sentimenti.

Si è evidenziata una relazione positiva tra l’autoefficacia percepita e la realizzazione personale (Fig 1-C). In generale, elevati livelli di controllo personale del lavoro, risorse interne e senso di competenza comportano un maggiore livello di benessere. L’alto senso di efficacia nel lavoro sociale (Golia etPedrazza, 2014) è legato al benessere personale e al conseguente riscontro di alte prestazioni e di soddisfazione lavorativa. Le relazioni con gli utenti, soprattutto nei servizi per i minori, possono essere spesso soddisfacenti e gratificanti per le sfide complesse che si ritrovano ad affrontare, e possono apportare un senso di realizzazione personale (Papadaki et Papadaki, 2006).

Per strategia di coping volta all’orientamento trascendentale si intende il cercare aiuto o conforto nella religione. La relazione negativa emersa tra l’orientamento trascendentale e la realizzazione personale (Fig 1-D) si può considerare in linea con le ricerche sulle modalità passive di gestione dello stress riportate in precedenza (Chiri et Sica, 2007). Tale strategia, infatti, non è sufficiente da sola a garantire una condizione di benessere personale (Sica et al, 2008). Le strategie di coping funzionali per la risoluzione dei problemi, piuttosto che l’affidarsi al controllo esterno (ad esempio, al fato o alla religione), sono cruciali per la capacità di gestire lo stress e consentire al soggetto di sentirsi capace e realizzato nella propria vita lavorativa.

I risultati sulle difficoltà oggettive legate al contesto lavorativo hanno evidenziato un impatto su tutte le sotto-componenti del burnout prese in esame nel presente studio. I fattori oggettivi analizzati comprendevano item relativi agli orari e ritmi lavorativi, retribuzione, squilibri nei carichi di lavoro e sovraccarico lavorativo, ecc. In particolare, come mostrato nella Figura 2, all’aumentare delle difficoltà oggettive, aumentano l’esaurimento emotivo e la depersonalizzazione, e diminuisce il senso di realizzazione personale. Studi precedenti (Maslach et Leiter, 2008), hanno dimostrato la relazione tra l’intensità dello stress sul lavoro e il rischio di burnout professionale. Gli operatori che svolgono la professione in contesti complessi, quali le strutture familiari, non si limitano all’erogazione di un servizio ma spesso ne vengono coinvolti globalmente. Qualora l’organizzazione trascura l’investimento emotivo ed umano del servizio, l’operatore ne resta deluso nelle aspettative, sperimentando senso di demotivazione che influisce notevolmente sul suo entusiasmo iniziale. A conferma di ciò, nel loro studio Lin et al (2016) hanno sottolineato che alcune caratteristiche del lavoro (quali domanda di lavoro elevata, basso controllo, cattiva cultura organizzativa e mancanza di comunicazione, collaborazione e risorse) risultano essere fattori predittivi di burnout. Nell’ambito delle professioni sociosanitarie, in particolare, l’aumento della depersonalizzazione e dell’esaurimento emotivo correla negativamente con la soddisfazione degli utenti nel ricevere cure e supporto (Vahey et al., 2004). Lo squilibrio nel carico del lavoro, con conseguente sovraccarico ed eccessivo dispendio di energia, sacrificio spesso ritenuto necessario per rientrare nei tempi previsti dalle organizzazioni, si è visto essere associato con un progressivo logoramento e sviluppo di burnout (Maslach e Leiter, 2002).

 

Eroi dietro le mascherine: i medici volontari nei reparti Covid, tra paure e coraggio – Intervista al Dott. Enrico Russolillo

Spesso sono stati descritti come eroi, semi-dei la cui forza e il cui coraggio salvano uomini, personaggi centrali di una storia che diventa memoria collettiva di un popolo. Non stiamo parlando di Eracle o Enea, e neanche di Spiderman, stiamo parlando dei medici volontari che hanno scelto di aiutare il sistema sanitario al limite del collasso durante il periodo più critico dell’emergenza Covid-19.

 

Descritti spesso in questi termini, si è rischiato di mettere in ombra quel lato squisitamente umano che accompagna una scelta così importante, come quella di salvare vite. Quel lato umano fatto di sofferenza, rinunce e dubbi, ma che allo stesso tempo è la forza propulsiva dell’aiuto dato ai pazienti affetti da coronavirus. La filosofia greca ci aiuta a capire. Platone scriveva: “Non esiste uomo tanto codardo che l’amore non renda coraggioso e trasformi in un eroe.”

E a capire può aiutarci anche l’intervista al Dottor Enrico Russolillo, medico cardiologo dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, partito come volontario per la Protezione Civile per dare il suo supporto al reparto di Medicina Covid dell’Ospedale di Rivoli, in Piemonte.

Intervistatrice (I): Dottor Russolillo, cosa l’ha spinto a proporsi come medico volontario per tre settimane durante l’emergenza Covid?

Dottor Enrico Russolillo (ER): L’idea, ribadita dal bando, di essere utile in un momento difficile, e la voglia di essere “dove le cose accadono veramente”.

I: Molte persone considerano voi medici alle prese con questa emergenza come degli eroi. Lei si rappresenta in questo modo, in termini di coraggio e forza?

ER: Non esagererei, non parlerei di “eroe”, posso però dire che essere considerato una sicurezza per gli altri, una persona su cui si può fare affidamento, mi inorgoglisce molto.

I: Una volta iniziato il suo operato di medico nell’Ospedale di Rivoli, ha riscontrato delle differenze tra le sue aspettative e la realtà che si è trovato ad affrontare?

ER: Giunto a Rivoli, pensavo di essere assegnato al Pronto Soccorso, invece mi hanno affidato una Medicina Covid. Mi aspettavo quindi di fare diagnosi ma mi sono ritrovato a dover gestire (curare è una parola grossa) i pazienti ricoverati, con diagnosi già fatta. Credevo anche di trovare molto meno personale medico, e in un primo momento ero stupito che avessero chiesto rinforzi: poi ho visto che molti colleghi non riposavano da quasi un mese, e che hanno iniziato a farlo dopo il nostro arrivo. Mi è dunque stato molto chiaro quanto ci fosse bisogno della nostra presenza. Inoltre stiamo parlando di un reparto messo su ad hoc per questa emergenza, quindi molti colleghi erano specializzati in settori diversi e si davano il cambio a rotazione.

I: Ci sono stati aspetti organizzativi del vostro team che hanno reso più difficile il lavoro?

ER: Come dicevo, il fatto che il team fosse raccogliticcio e incostante è stato un problema per i primi giorni. Una volta però imparate le procedure dell’ospedale, noi volontari siamo stati fondamentali per la gestione del reparto. Questo ovviamente ha creato anche qualche difficoltà con alcuni colleghi del posto, con i quali è stato meno facile la collaborazione.

I: Come è stato lavorare con colleghi con cui non aveva mai collaborato prima?

ER: Non particolarmente difficile. Avevamo tutti lo stesso scopo, e parlavamo una lingua comune; è anche vero che, come dicevo sopra, alcuni colleghi (per fortuna molto pochi), non li ho trovati molto cooperativi. Nonostante questi aspetti di gruppo siamo riusciti nella gestione ottimale del reparto.

I: Quali sono state le rinunce più pesanti che ha dovuto fare in questo periodo di volontariato?

ER: Io vivo solo con i miei gatti, non lasciavo la famiglia né rischiavo di infettarla, quindi non è stato terribile. Mi è sicuramente pesato lasciare il reparto dove lavoro a Napoli, che però non era coinvolto in un lavoro di emergenza Covid. Sapevo che sarei stato più utile per le strutture sanitarie più colpite (e mi è stato anche fatto un po’ pesare da parte di alcuni colleghi).

I: Come descriverebbe il rapporto con i pazienti che ha assistito?

ER: Come sempre, se si vuole si riesce a trasmettere fiducia e calore ai pazienti ricoverati. Con maschere, tute ed occhialoni bisogna volerlo tanto, perché è una condizione di lavoro che rischia di aumentare le distanze tra medico e paziente. Nonostante la maggiore formalità nei rapporti che ho percepito con le persone che vivono al nord, lo sforzo comunicativo mio e dei miei colleghi è stato utile in questa situazione, soprattutto se si pensa al fatto che sono pazienti soli e che non possono ricevere visite dai familiari: alcuni pazienti si sono decisamente affezionati.

I: Ci sono stati momenti in cui ha dubitato di quello che stava facendo?

ER: Ancora dubito delle terapie che abbiamo utilizzato, che mi sono apparse inadeguate sul momento dato il numero elevato di morti, e che per la maggior parte si sono dimostrate inefficaci dopo studi rigorosi. Dopo qualche giorno di permanenza, con tanti pazienti che perdevamo nonostante i nostri sforzi, ho vissuto momenti di profonda impotenza e di sconforto, questo credo sia valso anche per i miei colleghi.

I: Ha avuto paura?

ER: Ho avuto momenti in cui sono stato preso dalla paura di infettarmi, sensazione aggravata dal pensiero che “me l’ero andata a cercare”.

I: Che impatto hanno avuto le morti a cui ha dovuto assistere, e a quali risorse ha dovuto attingere per gestire il carico emotivo che ne è derivato?

ER:  Mi sentivo un monatto, non un medico, è stato terribile, le terapie funzionavano nella metà dei casi (o i pazienti guarivano da soli, più probabilmente). Il fatto di dividere l’alloggio con uno dei colleghi volontari mi ha permesso di parlarne insieme, e di farci forza a vicenda, anche nella rassegnazione derivante dalla percezione dei nostri limiti. Inoltre, le telefonate serali con mio figlio hanno contribuito molto al mio equilibrio…non a caso è uno psicologo

I: Ci sono stati dei ricordi del suo passato, professionale e non, che le sono stati di aiuto nel suo lavoro?

ER: Sì, quando per la prima volta dovetti rianimare un paziente che stava morendo, e invece di scoppiare in lacrime ed abbandonarmi mi feci forza e divenni oggettivo, razionale, ed efficace. Da allora (avevo 22 anni appena) questo meccanismo scatta sempre nelle situazioni difficili.

I: In queste settimane ha mai sentito il bisogno di essere lei stesso aiutato?

ER: Sì, più di una volta. Come dicevo c’era mio figlio Luigi Alessandro ad aiutarmi. Non sono abituato a chiedere aiuto, e in quei giorni mi facevo forza da solo, poi Luigi Alessandro ha capito che ero in difficoltà ed è stato più presente. Mi ha fatto molto bene parlare con lui.

I: Che importanza ha ricoperto il supporto sociale, come ad esempio quello di amici e parenti, nei momenti di difficoltà?

ER: E’ importante, molto, sentire esplicitamente che chi ami, o chi condivide le tue stesse competenze, ti è vicino. Purtroppo alcuni colleghi li ho sentiti emotivamente distanti, e questo mi ha ferito molto, ma la famiglia, molti pazienti, e il personale non medico dell’ospedale mi sono stati molto vicini, ho ricevuto manifestazioni di stima ed apprezzamento anche da persone sconosciute. Molte pazienti anziane si preoccupavano della mia incolumità: credo di essere stato incluso in rosari, preghiere e novene!

I: È da poco terminato il suo mandato e ha fatto ritorno a casa, che emozioni ha provato e quali pensieri ha fatto al suo rientro?

ER: È stato molto strano, la città era vuota ma io mi sentivo ancora in guerra, soprattutto i primi giorni dal mio rientro. Volevo tornare a lavorare nel mio ospedale, spinto soprattutto dal desiderio di continuare a dare il mio contributo e dal pensiero di aver lasciato soli i miei colleghi. Purtroppo mi sono stati imposti 14 giorni di quarantena e sono stato costretto a rientrare in ospedale solo successivamente. Questa pausa “imposta”, però, mi ha fatto bene in realtà: ho avuto modo di ripensare con calma a questa esperienza ed ho smesso, piano piano, di pensare alle persone morte come una ferita personale.

I: Un episodio per lei molto positivo di queste tre settimane trascorse in ospedale?

ER: Quando le pazienti A. e D., vedendomi, mostravano molta contentezza. Quando sono risultate guarite ci siamo fatti svariati selfie.

I: Qual è la cosa che le ha dato più soddisfazione?

ER: In Covid c’è poca soddisfazione medica, ma dimettere il piccolo C. (83 anni per 1,55 m di altezza), sulla cui guarigione non avrei scommesso un euro, è stata una gioia, ma non mi sono sentito artefice della sua ripresa. Ho però imparato tecniche e terapie nuove, e sono riuscito ad intrecciare nuovi rapporti con colleghi sconosciuti in un ambiente nuovo.

I: Cosa vorrebbe consigliare ad un medico o ad un infermiere che sta per entrare in un reparto d’urgenza?

ER: In un reparto di malattie infettive, a non sentirsi mai abbastanza protetto, ed essere maniacale nell’indossare le protezioni e nel rispettare le regole di sicurezza. Fatto ciò, bisogna smettere di aver timore e cercare di pensare positivamente, cioè credere che il proprio intervento sia utile: l’ho spesso ripetuto anche a me stesso.

I: C’è qualcosa che sente che questa esperienza le ha insegnato?

ER: Per prima cosa, non pensare che tutti i sentimenti patriottici, così come quelli ippocratici, siano automaticamente condivisi. Ho poi avuto modo di toccare con mano quanto sia fondamentale difendere e aiutare la sanità pubblica e, infine, ho capito che è necessario per noi operatori sanitari restare aperti emotivamente: durante questa mia esperienza nel reparto Covid ho offerto ancor prima che la medicina, moltissima empatia.

 

L’importanza del riconoscimento delle emozioni degli altri nelle interazioni interpersonali

Un recente studio (Israelashvili, Oosterwijk, Sauter, & Fischer, 2019) si propone di esplorare l’associazione tra capacità di differenziare le proprie emozioni ed abilità di riconoscere le emozioni negli altri, attraverso due indagini collegate.

 

Il riconoscimento delle emozioni altrui è un elemento fondamentale nelle interazioni sociali, in quanto permette all’individuo di rispondere in modo adeguato alle esigenze e richieste altrui in base allo stato emotivo di chi abbiamo di fronte. La capacità di differenziazione emotiva, anche detta granularità emotiva, si riferisce all’abilità di usare un linguaggio emotivo appropriato e di differenziarlo in base alla situazione specifica (Smidt & Suvak, 2015), per cui si è in grado di nominare l’emozione che si sta provando in modo corretto, oltre a saper riconoscere le emozioni altrui.

La ricerca ha suggerito diversi fattori in grado di spiegare la formazione dell’abilità del riconoscimento emotivo ed ha preso in considerazione innanzitutto il ruolo dell’empatia, sostenendo che più è grande la preoccupazione per gli stati emotivi degli altri, maggiore è l’attenzione ai segnali sociali da essi inviati, e più elevata è l’accuratezza del riconoscimento emotivo (Lauren & Hodges, 2009). Un altro aspetto esaminato è stato la mimica, intesa come simulazione delle emozioni viste nell’altro (Oberman, Winkielman, & Ramachandran, 2007), la quale tuttavia non è risultata avere associazioni significative con il riconoscimento emotivo (Hess, & Fischer, 2013). Infine, sono stati valutati gli aspetti cognitivi collegati all’empatia, intesi come conoscenza delle emozioni e più nello specifico del vocabolario in grado di dare forma alle emozioni altrui (Barrett, 2012), e Izard e i suoi colleghi (2011), sono arrivati alla conclusione che il linguaggio gioca un ruolo cruciale nella regolazione emotiva e nell’abilità di riconoscere le emozioni.

A partire da queste premesse, e considerando che molto spesso la consapevolezza delle proprie emozioni è stata messa in relazione all’adeguatezza del riconoscimento delle emozioni altrui, il presente studio (Israelashvili, Oosterwijk, Sauter, & Fischer, 2019) si propone di esplorare l’associazione tra capacità di differenziare le proprie emozioni ed abilità di riconoscere le emozioni negli altri, attraverso due indagini collegate.

Nel primo studio, a 399 studenti universitari di psicologia, attraverso l’Emotion Differentiation (ED; Erbas et al., 2014) è stato chiesto di dare un nome alle loro reazioni emotive in seguito all’esposizione ad una serie di stimoli presentati e, successivamente, attraverso l’Amsterdam Emotion Recognition Test (AERT; Wingebenbach, Ashwin, & Brosnan, 2016), è stato chiesto di valutare 24 foto di intensità emotiva crescente, rilevando un’associazione positiva tra le variabili esaminate.

Nel secondo studio sono state replicate le analisi condotte precedentemente, ma all’interno di un campione più rappresentativo, formato da numerose nazionalità, fasce d’età, e background culturali. Inoltre i 245 partecipanti, contattati attraverso una piattaforma di ricerca online, sono stati sottoposti a stimoli emotivi più differenziati rispetto a quelli del campione precedente, e i risultati ottenuti hanno confermato quelli del primo studio.

In conclusione, possiamo dire che i dati confermano le ricerche precedenti secondo cui è presente un’associazione significativa tra le variabili indagate, ma la novità rispetto agli studi passati, è aver riconosciuto che gli individui sono in grado di riconoscere le emozioni non solo dei propri partner (Erbas et al, 2016), ma di tutti coloro che incontrano, e l’aver considerato questa abilità come base del funzionamento interpersonale, e non solo come fattore protettivo dallo stress, dalla sperimentazione delle emozioni negative e dallo sviluppare una psicopatologia (Barrett, 2004).

 

Disturbo d’Ansia Sociale: un caso clinico concettualizzato secondo il modello LIBET

Da un punto di vista nosografico Andrea soffre di Ansia Sociale; adesso che si trova da solo in una città nuova questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta diventando un problema per lui e ha deciso di intraprendere un percorso di terapia.

 

Andrea (nome di fantasia) ha 20 anni, ha sempre vissuto in campagna, ma si è appena trasferito in città per iscriversi all’università. Contrariamente alle aspettative, la sua classe è composta ‘solo’ da una ventina di studenti. ‘Ed è quello il problema!‘ Sospira. ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece è tutto diverso! Siamo pochi, tutti parlano tra loro…Ci sono continuamente quei lavori di gruppo in cui bisogna per forza parlare, chiedere, dire la propria opinione…e io non so che dire, sto zitto, oppure balbetto…! E’ un incubo, ho ansia continuamente!’

Andrea si descrive come un ragazzo molto timido. Non è preoccupato per la sua preparazione, è un ragazzo studioso, vuole fare bene e se si impegna di solito riesce ad ottenere degli ottimi risultati. Il dramma arriva quando è costretto a prendere la parola di fronte agli altri. In quei momenti Andrea si sente malissimo: arrossisce, suda, le sue mani tremano e sente la bocca secca. Tempo fa è toccato a lui fare una presentazione davanti a tutti ed è stato terribile. Aveva studiato tantissimo ed era molto preparato, ma quando si è alzato in piedi per parlare …’Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare il tono…che vergogna! Mi tremava la voce e mi sono impappinato…Ho fatto la figura dell’idiota totale, quando sono tornato a casa ero veramente triste, schifato da me stesso, sono stato triste per una settimana‘.

Andrea è in ansia anche nei momenti informali, quando le persone chiacchierano tra di loro. ‘Vorrei fare amicizia, ma sono troppo in ansia, loro si conoscono già tutti e io ho paura di sembrare stupido e imbranato‘. Quando è costretto a interagire con qualche compagno, per evitare di impappinarsi spesso cerca di decidere prima che cosa dire e se lo ripete nella mente ‘per essere preparato‘, ma finisce che perde tantissimo tempo a pensare cosa dire, rischia di distrarsi e non riesce mai a sentirsi tranquillo. Quando qualcuno a lezione gli rivolge la parola, si sente molto a disagio, perché non sa che dire e teme ‘di dire stupidaggini‘. Per evitare che accada, cerca di non incrociare lo sguardo con nessuno e rimane sempre in disparte. Il problema è che poi si sente molto solo. In città non ha amici. ‘Non parlo mai con nessuno durante la settimana…è dura‘. Mentre ne parla, sembra molto triste.

Anche da bambino si è sempre sentito impacciato e nervoso nelle situazioni di gruppo, quando c’erano persone che non conosceva bene. Aveva avuto qualche problema di inserimento scolastico alle elementari, ma grazie ad una maestra molto dolce era riuscito ad ambientarsi nella classe, in cui comunque c’era anche suo cugino, con cui era cresciuto insieme. Non ha molti amici al suo paese, ma quei pochi con cui ha stretto un legame sono davvero buoni amici e con loro Andrea riesce ad essere se stesso. Inoltre è molto legato ai suoi cugini e a suo fratello minore, e ‘prima questo bastava! Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione!‘.

Adesso che si trova da solo in una città nuova, però, questa ‘eccessiva timidezza’, come lui stesso la descrive, sta davvero diventando un problema. Quando sa di avere una presentazione o un lavoro di gruppo, Andrea inizia a stare male una settimana prima. Non riesce a fare a meno di pensare che farà una figuraccia terribile come l’ultima volta; sente lo stomaco chiuso e la sera non riesce ad addormentarsi. E se il professore gli facesse qualche domanda davanti a tutti e lui non sapesse cosa rispondere? Andrea cerca di essere sempre perfettamente preparato, studiando fino a tardi e prendendo pagine di appunti. Il problema è che a volte non riesce a concentrarsi con tutti questi pensieri…anzi, ultimamente fa molta fatica a studiare, solo guardare i libri gli mette ansia. E se non riesce a studiare bene il pomeriggio, come può andare a lezione rischiando di essere interrogato? Gli altri sembrano sempre così preparati e sicuri di sé… L’ultima volta non ce l’ha fatta, non si è presentato il giorno del laboratorio di gruppo, fingendo di essere malato..

Da quel momento è andata sempre peggio. Ha cominciato ad evitare tutti i luoghi dove potrebbe incontrare i compagni dell’università o i professori. Andare a mensa, ad esempio, è molto difficile, soprattutto perché bisogna passare davanti ad un sacco di persone per andare a sedersi. Finisce per stare tutto il tempo chiuso in camera a studiare, ma si sente molto solo e triste, teme di non riuscire a finire l’università, di dover tornare in campagna con questo fallimento marchiato a fuoco sulla fronte.

Da un punto di vista nosogafico, Andrea soffre di Disturbo d’Ansia Sociale, conosciuto anche come Fobia Sociale, riportato nel DSM 5 (APA, 2013) nel capitolo dei Disturbi d’Ansia. I sintomi chiave per cui è possibile fare diagnosi sono i seguenti:

  • A. Paura o ansia marcata nei confronti di una o più situazioni sociali, in cui la persona è esposta al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme che agirà in un modo imbarazzante e umiliante o che i suoi sintomi d’ansia verranno giudicati negativamente
  • B. L’esposizione alla situazione temuta provoca quasi sempre ansia o paura
  • C. La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla minaccia reale data dalla situazione sociale e relativamente al contesto socio-culturale
  • D. Le situazioni temute vengono evitate oppure vengono sopportate con intensa ansia e paura
  • E. La paura, l’ansia o l’evitamento causano un distress clinicamente significativo o una riduzione del funzionamento nell’area sociale, occupazionale o in altre aree importanti di funzionamento
  • F. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e in genere durano 6 o più mesi.
  • G. La paura, l’ansia o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad es. droghe, farmaci) o a una condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale.

Alla SCID II (First, Williams, Karg, & Spitzer, 2017) l’intervista sui disturbi di personalità secondo il DSM 5, Andrea sembra avere dei tratti evitanti, ma non un vero e proprio disturbo. Infatti tende a sentirsi inadeguato e a temere il rifiuto da parte degli altri, però è stato in grado, nel corso della vita, di stringere legami profondi in cui non si sente escluso, ma appartenente.

Seguendo il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment), sviluppato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (Sassaroli, Caselli, Ruggero, 2016), è possibile ragionare sul caso clinico in termini di temi dolorosi e piani semi-adattivi.

Il tema doloroso rappresenta la vulnerabilità emotiva di ciascun individuo, formatasi nel corso della vita e data dalla focalizzazione attentiva su alcuni stati mentali negativi associati a esperienze evolutive percepite come dolorose e intollerabili. Più lo stato mentale associato al tema doloroso viene considerato come intollerabile, più l’individuo cerca di stare lontano da esso tramite strategie semi-adattive, dette piani, che comprendono l’evitamento, il controllo e l’iper-compensazione o modifica forzata del proprio stato mentale.

Il tema doloroso si può indagare partendo da un episodio recente che la persona riporta come significativo. L’episodio scelto è il momento in cui Andrea si è bloccato di fronte alla classe durante la sua esposizione. L’abbiamo indagato più o meno come segue:

A. Avevo la testa vuota, non capivo nulla. Ho letto gli appunti, per fortuna, ma parlavo a bassa voce e qualcuno mi ha detto di alzare la voce..
T. Che emozione hai provato in quel momento?
A. Una grandissima vergogna
T. Cosa hai pensato di te?
A. Che stavo facendo la figura dell’idiota totale, dell’incapace sfigato
T. Com’è un incapace sfigato?
A. Uno scemo, un debole…uno che non sa stare al mondo
T. E se gli altri pensano questo, che succede di negativo?
A. Che nessuno mi considererà alla pari, mi scanseranno tutti. Nessuno vuole avere a che fare con uno sfigato così, nemmeno io vorrei
T. Qual è per te la cosa peggiore dell’essere sfigato?
A. Che non sarò mai alla pari degli altri, verrò sempre scansato dai professori..dai compagni…verrò sempre considerato inferiore
T. Come ti senti se pensi queste cose?
A. Molto triste e mi vergogno

Abbiamo ragionato a lungo se si trattasse di un tema di indegnità piuttosto che di inadegutezza/disamore. Nel primo caso si tratta di una sensazione profonda di inferiorità e disprezzo verso il sé, nel secondo caso la persona si sente rifiutabile, potenzialmente non amata e non riconosciuta nonostante i propri sforzi, priva di valore. L’emozione più spesso associata al tema dell’indegnità è la vergogna, mentre l’inadeguatezza/disamore può avere più a che fare con la tristezza. Inoltre il tema inadeguatezza/disamore, secondo il modello LIBET, può derivare da una storia evolutiva caratterizzata da genitori freddi e distanzianti, che non sono stati in grado di esprimere affetto e apprezzamento, oppure essi stessi insicuri e iperprotettivi, che non hanno permesso un’adeguata esplorazione del mondo e delle proprie capacità. Invece il tema dell’indegnità è in genere associato a genitori apertamente critici e sprezzanti, normativi e invalidanti.

E’ possibile esplorare la storia evolutiva del paziente partendo dall’episodio emotivamente saliente sopra riportato e andare indietro nel tempo, aiutando il paziente a ricordare se ci siano stati momenti in cui si è sentito in quel modo o ha pensato le stesse cose di sè nella sua adolescenza e infanzia.

T. Ti ricordi se ti sei già sentito in questo modo prima? Ad esempio, quando eri un adolescente?
A. Alle medie ci fu un episodio molto brutto. Dovevamo andare in gita, ma il mio migliore amico si era rotto un braccio e non poteva venire..Panico! Io con chi sarei stato in camera? O seduto accanto nel bus? Nessun altro mi avrebbe voluto con sé, si erano già organizzati tutti. Mi sentii proprio triste e umiliato. Non sarei voluto andare, ma mio padre mi obbligò. Anche se poi il professore decise con chi sarei stato, fu molto brutto, perchè sapevo che i miei compagni avrebbero preferito che io non fossi in camera con loro. Oppure anche nell’ora di ginnastica, ad esempio, che eravamo più classi insieme…io non la volevo mai fare e spesso mi facevo fare la giustificazione da mia madre. Il fatto è che ero scelto sempre per ultimo, perché negli sport sono imbranato. Mi sentivo l’ultimo degli ultimi.

Andando ancora indietro nel tempo, ci soffermiamo sui ricordi delle elementari.

A. I primi giorni sono stati un disastro, me lo ricordo ancora. Ero terrorizzato all’idea della scuola, degli altri bambini. Io giocavo solo coi miei cugini e mio fratello, non ero abituato. Stavamo in campagna, non avevo mai visto tutti quei bambini sconosciuti tutti insieme. Mia madre era molto preoccupata per me. Anche lei è molto timida, ha sempre vissuto in campagna, sta sempre con le stesse persone e non le piace quando deve parlare con estranei. Il primo giorno di scuola era molto spaventata, temeva di non trovare la strada, di arrivare tardi, si vergognava perchè le altre mamme erano cittadine, noi invece eravamo contadini, venivamo da un paesino di campagna…Continuava a dire che era difficile guidare per quella strada, di comportarmi bene, di parlare con la maestra e fare bella figura…

Dai racconti emerge dunque la figura di una madre a sua volta molto ansiosa e preoccupata, impacciata ed inibita nei rapporti sociali, non in grado di gestire le emozioni del figlio.

Il padre invece viene descritto come un uomo autoritario, di poche parole, molto dedito al lavoro in campagna e poco presente a casa, spesso apertamente svalutante nei confronti del figlio.

A. Era stato lui a decidere di mandarmi alla scuola in città. Diceva che dovevo diventare bravo per avere un buon lavoro. Non mi ha mai fatto un complimento, quando riportavo i voti buoni annuiva, una volta che ho preso un’insufficienza, alle superiori, mi disse scuotendo la testa che era molto deluso e che forse era stato un errore farmi fare il liceo, che era una scuola troppo difficile per me. Sentivo che aveva molte aspettative su di me, lui avrebbe tanto voluto studiare ma non aveva potuto, avevo sempre paura di deluderlo. Anche con le ragazze. Ogni tanto mi chiedeva perchè non avessi una fidanzata. – Alla tua età è normale avere una fidanzata, tutti ce l’hanno – si vedeva che era proprio preoccupato per me… deluso, proprio deluso sembrava. Sembrava triste per me. Una volta che non volevo andare ad una festa, lo sentii dire a mia madre: -Tuo figlio è un codardo -, aveva proprio una voce triste.
T. E tu come si sei sentito?
A. Mi sono vergonato, ho pensato che avesse proprio ragione.

Abbiamo deciso di condividere con il paziente la descrizione del tema dell’indegnità, che ci sembrava calzante a causa di un forte senso di inferiorità quasi senza scampo (se non forse essere ‘bravo’ all’università) e di quella profonda vergogna che non permette nemmeno di intravedere la speranza di un giudizio più benevolo da parte degli altri. Il paziente ha accolto questa ipotesi con sorpresa e diffidenza iniziale, poi con sollievo e commozione, come talvolta accade quando si scopre che un nostro dolore non è solo nostro, ma condivisibile e universale.

Secondo il modello LIBET, è utile ragionare anche in termini di piani, ovvero strategie abituali e egosintoniche che il paziente ha imparato ad usare nel corso della vita per stare lontano dal proprio tema doloroso. I piani sono più o meno rigidi, generalizzati e pervasivi, e sebbene durante il corso della vita abbiano avuto una funzionalità adattiva, ad un certo punto sono diventati disfunzionali proprio perchè utilizzati in maniera automatizzata e pervasiva anche in condizioni di bassa minaccia.

Nel corso dei colloqui, emerge che Andrea sembra utilizzare due piani: quello prudenziale, ovvero fondato sull’evitamento, e quello prescrittivo, ovvero fondato sul controllo.

Il piano più antico di Andrea sembra essere quello prudenziale, appreso dalla madre e portato avanti nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza senza, in fondo, troppi problemi. A scuola aveva suo cugino, a casa suo fratello e altri cugini e ‘questo bastava‘: ‘Non mi interessava giocare con gli altri, avevo sempre loro a disposizione‘.

Le prime rotture del piano prudenziale avvengono a causa di interventi esterni: l’obbligo da parte del padre ad andare in gita scolastica, ad esempio, o le volte in cui era costretto a partecipare all’ora di ginnastica. Poi arriva l’università, fonte di tante speranze, e qui c’è davvero la rottura del piano: non è più possibile evitare, come Andrea sperava! ‘Io mi immaginavo che all’università saremmo stati in tanti, in tantissimi, e che avrei potuto studiare tranquillamente per conto mio, senza tanti problemi. Invece…‘. Ma per Andrea è importante non fallire all’università. Che fare?

Quando non è possibile evitare, Andrea sembra perseguire il piano prescrittivo. Ad esempio, quando Andrea ci racconta che cerca di prepararsi ed imparare a memoria cosa dire durante un incontro o se interpellato, sta cercando di ‘controllare’ che l’evento temuto, ovvero l’umiliazione, la ‘figuraccia’ e la conseguente esclusione sociale non si verifichino. Lo fa nel modo che conosce: con l’impegno e la programmazione, proprio come fa quando studia per gli esami! Infatti Andrea è sempre stato un ottimo studente! In ambito scolastico la strategia prescrittiva ha sempre funzionato; nell’ambito sociale invece non sempre è una buona idea. Infatti Andrea non si tranquillizza, non riesce a ricordarsi bene cosa voleva dire e rimane costantemente preoccupato di essere ‘preso alla sprovvista’. E alla fine, nonostante la sua impeccabile e forsennata preparazione, la presentazione davanti alla classe va male.

Poiché in questo caso il piano prescrittivo non ha funzionato, Andrea torna, di nuovo, ad evitare: le situazioni, le persone, i luoghi, i lavori di gruppo. Evita la mensa, così come evitava le lezioni di ginnastica al liceo; evita gli sguardi, se ne rimane in disparte. Questa strategia, sebbene gli risparmi l’ansia e la vergogna, adesso lo rende triste, perché lo fa sentire escluso e inadeguato e rischia di mandare all’aria la sua carriera universitaria, su cui si fonda l’unica possibilità di ‘riscatto’ possibile: essere bravo, emergere, far felice il padre che non aveva potuto studiare. I costi del piano prudenziale sono diventati troppo elevati.

Data questa concettualizzazione, sarà possibile nel corso della terapia lavorare su temi e piani da un punto di vista non solo di contenuto, ma anche di processo. Dal punto di vista del tema, sarà possibile lavorare sulla polarizzazione attenzionale che rende il tema doloroso assolutamente condizionante e centrale nella vita dell’individuo, e sulla sua intollerabilità, ovvero su quanto il paziente valuti intollerabile il dolore associato al tema.

Dal punto di vista dei piani, invece, potremo lavorare in termini di necessità/utilità e di incontrollabilità, rendendo piano piano le strategie di Andrea più flessibili da un punto di vista metacognitivo e di conseguenza comportamentale.

Darwinismo neuronale. L’impatto paradossale delle neuroscienze nella ricerca e nella pratica psicologica

Lo sviluppo delle neuroscienze ha subito un’enorme accelerazione negli ultimi dieci anni. Sono molte le applicazioni pratiche che hanno beneficiato di queste nuove scoperte scientifiche.

 

Queste implicazioni hanno avuto l’ulteriore merito di suggerire nuove ipotesi di lavoro, nella riflessione teorica ed epistemologica da una parte e nello sviluppo di nuove tecniche di intervento in medicina e psicologia, dall’altra.

In questo articolo vorrei riassumere l’intuizione geniale di Gerald Edelman, premio Nobel per la medicina nel 1972 per le sue ricerche sugli anticorpi, conosciuta come Teoria della selezione dei gruppi neuronali, e le implicazioni teoriche ed euristiche di questa teoria nell’ambito della ricerca in psicologia. Il primo elemento da analizzare è, senza dubbio, l’approccio che Edelman ha utilizzato nell’affrontare il tema della formazione e del funzionamento dell’attività cerebrale, dall’embrione fino all’età adulta, approccio che lo stesso ha mutuato dalle ricerche nel campo dell’immunologia che gli valsero il premio Nobel per la medicina, come già accennato. In sintesi, egli si oppose all’idea prevalente nel mondo scientifico secondo la quale gli anticorpi del sistema immunitario dei vertebrati si formano come conseguenza e adattamento alle caratteristiche dell’antigene al quale devono rispondere; significherebbe, cioè, assumere che l’antigene contenga le informazioni necessarie alla formazione di un anticorpo corrispondente che si modellerà sulla base proprio delle informazioni contenute nell’antigene stesso. Questo modo di interpretare il meccanismo cellulare della risposta del sistema immunitario viene definito istruzionismo, interpretazione alla quale Edelman oppone l’idea di selezione o selezionismo. Questo secondo modo di vedere consiste proprio in un principio popolazionistico darwiniano, per il quale nello smisurato numero di anticorpi già presenti nell’organismo, alla comparsa di un antigene di qualunque genere e tipo, l’organismo risponde selezionando gli anticorpi più adatti ed efficaci perché vicini alle caratteristiche chimiche della molecola da combattere, come detto anticorpi già presenti nel corpo, i quali prolifereranno e si rafforzeranno proprio in seguito a questo meccanismo di selezione somatica.

L’intuizione di Edelman fu che questo principio potesse valere per ogni sistema biologico, compreso lo sviluppo cerebrale e sinaptico; dunque anche il cervello è un sistema di riconoscimento selettivo? Secondo la Teoria della selezione dei gruppi neuronali certamente sì. Infatti, con buona pace dei positivisti più irriducibili, la selezione somatica, già di natura epigenetica quindi, inizia nella fase embrionale, attraverso la formazione di gruppi neuronali che, scaricando simultaneamente, si cablano insieme costituendo una mappa individuale (repertorio primario), sempre diversa da individuo a individuo, perfino nel caso di gemelli omozigoti. A questo punto è facile comprendere come l’esperienza e l’interazione con l’ambiente produrranno nel neonato configurazioni sinaptiche individuali non riconducibili al dettato genetico, attraverso un lavoro selettivo di rafforzamento o indebolimento dei gruppi neurali funzionali ad una migliore risposta adattiva, rappresentata da modelli operativi interni sani o dissociati a seconda dell’adeguatezza delle cure primarie disponibili (repertorio secondario). Ma vediamo, allora, più da vicino qual è il meccanismo all’opera nella selezione somatica; il concetto ed il termine che riassume questa complessa competenza delle cellule nervose cerebrali utilizzato da Edelman è rientro. Significa qualcosa di diverso e di più rispetto al semplice concetto di retroazione o feedback; si tratta di un meccanismo complesso e sofisticato che più che un mero scambio di segnali che dall’esterno modificano l’interno, consiste nella formazione di circuiti cosiddetti rientranti che rappresentano il modo costruttivo di cui dispone il nostro cervello per comunicare soprattutto con sé stesso. Gli stimoli esterni, quindi, producono una successiva elaborazione a livello neurale, come una sorta di auto-organizzazione (individuale) del cervello stesso, che rafforzerà quegli scambi incessanti di connessioni sinaptiche (cicliche, ad anello piuttosto che lineari) che si affermeranno, attraverso una scarica simultanea, come quelle più adeguate a rispondere all’esigenza di adattamento, selettivamente orientata.

In questo senso il rientro assomiglia ad una proprietà emergente che scaturisce dalle intrinseche qualità auto organizzative del cervello stesso. I nuclei dinamici che si formano dall’attività dei circuiti rientranti, poi, dimostrano come sia la funzionalità in uscita ad orientare l’intero meccanismo e non l’anatomia, poiché le mappe rientranti globali che formano appunto i nuclei dinamici, sempre variabili, connettono neuroni distanti tra loro oltre che differenti per funzione specifica.

Neuroscienze il darwinismo neuronale tra ricerca e pratica psicologica Fig 1

Fig .1 (da Edelman G., Più grande del cielo, Torino, Einaudi, 2004, p.38). Tre campi o mappe separati le cui connessioni producono in tempi differenti una risposta in uscita (output) funzionalmente uguale. 

Quello che conta maggiormente rispetto a questo traffico di connessioni rientranti che si rafforzano e si indeboliscono a seconda delle necessità adattive che ne condizionano lo scambio reciproco è la conseguenza finale del processo, cioè il fatto che in particolari circuiti ed in particolari configurazioni di mappe, anche lontane anatomicamente tra loro, i neuroni scaricano simultaneamente, sono sincronizzati indipendentemente dalla regione anatomica della loro collocazione.

Il chiasmo consiste quindi nel fatto che cellule diverse (aggregati neurali) possono svolgere ed assolvere la medesima funzione così come un medesimo nucleo dinamico può svolgere funzioni differenti in momenti diversi.

Neuroscienze il darwinismo neuronale tra ricerca e pratica psicologica Fig 2

Fig. 2 (da Edelman G., Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Cortina, 2007, p. 25). Sono evidenziate le reciproche connessioni tra le regioni talamo-corticali e tra varie regioni della corteccia. Le reciproche connessioni integrano e sincronizzano le attività di diverse specifiche mappe neurali.

Il cervello dimostra di essere un generatore di diversità; il nostro autore ha coniato a proposito un curioso acrostico, appunto God (generator of diversity), per evidenziare la caratteristica strutturale fondamentale alla base della teoria della selezione dei gruppi neuronali.

L’incontro con i segnali che provengono da un mondo sconosciuto, non ancora categorizzato e dunque ambiguo, produce e facilita l’amplificazione differenziale di quelle particolari configurazioni che meglio si adattano a rispondere alla sfida dell’adattamento, a tutti i livelli ed in ogni fase dello sviluppo, per tutta la vita dell’individuo.

Molto interessante in questa descrizione delle proprietà delle mappe rientranti è la constatazione che non esisterebbe alcun centro regolatore superiore che coordini le attività neurali responsabili di una particolare funzione; piuttosto è proprio l’attività stessa di sincronizzazione di gruppi di neuroni di diverse aree e regioni cerebrali che aprono vie e configurazioni determinate sotto la spinta delle connessioni rientranti che produce la conseguente risposta adattiva e funzionale che corrisponderà agli infiniti possibili stati di coscienza e vissuti soggettivi, coscienti appunto, ma anche inconsci, secondo uno schema francamente inesauribile relativamente a qualsiasi criterio normativo quantitativo e tassonomicamente controllabile.

Allora cosa si evince e quali sono le conseguenze di queste nuove conoscenze scientifiche per quanto riguarda la ricerca in psicologia? Se dal versante di una delle scienze considerate dure, hot (rispetto alle scienze umane, soft) arrivano considerazioni di tipo olistico e non causale-riduttivo, secondo quindi una epistemologia non deterministica, cosa dovremmo pensare rispetto alle scienze psicologiche? La ricerca di uno statuto scientifico dignitoso nasce con la psicologia stessa, se pensiamo che la prima cattedra di psicologia in una facoltà scientifica risale all’università di Ginevra nel 1891 con Theodore Flournoy, come ricostruito dal fondamentale lavoro di Sonu Shamdasani nella sua storia sulla nascita della psicologia moderna (in Italia per il primo corso di laurea in psicologia dovremo aspettare il 1978). Un’ambizione legittima e comprensibile che, tuttavia, paradossalmente, insieme alla ricerca (a volte tristemente spasmodica) di validazione oggettiva ed inoppugnabile scientificità, conduce verso l’inevitabile collocazione delle teorie e delle pratiche psicologiche nell’ordine delle scienze umane, lungo quella linea che rappresenta un continuum ininterrotto al cui termine ci sono le scienze naturali. In questo senso l’affondo finale, che chiude la partita definitivamente, arriva proprio dalla scienza più oggettiva e matematicamente coerente possibile, la fisica. Sappiamo come la fisica delle particelle contemporanea, se da una parte produce delle previsioni e delle applicazioni pratiche e tecnologiche mai così precise ed accurate nella storia della conoscenza umana, dall’altra si sottilinea come l’impianto teorico e concettuale della meccanica quantistica è di tipo probabilistico, olistico, non deterministico. Il paradosso è impegnativo dal punto di vista della filosofia della scienza ma, nello stesso tempo, illumina rispetto a quale predisposizione dobbiamo assumere noi psicologi di fronte sia al lavoro di ricerca e di indagine, sia di fronte all’interpretazione ed alla cura dei pazienti. La virata, nell’ultimo decennio, verso una sempre maggiore attenzione agli aspetti relazionali della terapia rispetto alle storiche precedenti guerre di religione tra i vari approcci teorici, nelle psicoanalisi, nelle psichiatrie, nelle psicologie tout court, mi sembra rappresenti un aspetto molto incoraggiante ed euristicamente costruttivo di procedere sulla strada della conoscenza in una materia e disciplina così particolare poiché occupa, unica tra tutte, un posto, al tempo stesso, privilegiato e problematico, nel quale il soggetto e l’oggetto della ricerca, coincidono.

Concludo la riflessione epistemologica, citando le ricerche svolte presso la University College of London (Karmiloff-Smith, Johnson), ricerche che si collocano in quell’area di studi di psicologia evoluzionista che hanno avuto inizio intorno agli anni 90 del secolo scorso e che rappresentano una integrazione e superamento della dicotomia storica tra innatismo e comportamentismo, o, ancora meglio, tra una concezione della mente del neonato come tabula rasa (l’empirismo inglese di John Locke) che attribuisce all’ambiente ed all’esperienza l’intera responsabilità ed incidenza sullo sviluppo del bambino e, viceversa, una concezione della mente del bambino dotata di strutture innate e programmate a svolgere determinati compiti, una volta che l’ambiente e l’esperienza le avessero attivate. Proseguendo gli studi sugli stadi evolutivi di Piaget, la psicologia ad orientamento evoluzionista postula, secondo gli autori, che il contenuto innato della mente infantile consista principalmente in inclinazioni iniziali e predisposizioni attentive, in grado di attivare l’apprendimento.

In questo senso il codice genetico (molto ridotto come numero rispetto alle aspettative iniziali, 30mila geni contro i 100mila attesi) non può contenere l’informazione necessaria a spiegare l’enorme complessità dello sviluppo cognitivo umano, né l’infinita variabilità del comportamento; qualunque predisposizione derivata dal codice genetico non solo necessita dell’interazione con l’ambiente per prendere forma ma, soprattutto, va considerata come la predisposizione a formare rappresentazioni interagendo sia con il mondo esterno che con il mondo interno, e certamente non come l’esistenza di rappresentazioni innate già presenti nel cervello stesso.

Le rappresentazioni allora non sono già presenti nel codice genetico, piuttosto i geni si dimostrano essere dei catalizzatori garanti di un processo più che detentori di un contenuto preesistente, questa è la differenza. Gli psicologi evoluzionisti sottolineano come la componente innata sia limitata al meccanismo di focalizzazione dell’attenzione in un certo modo, sarebbe solo questo il vincolo, un algoritmo privo di contenuto che vincola e direziona semplicemente in che modo emergerà l’attenzione e la percezione a livello precoce e primitivo. Morton e Johnson hanno condotto in questo senso degli esperimenti sui neonati dimostrando come la capacità di riconoscimento del volto umano rispetto ad altri stimoli da parte dei neonati sia innata; hanno denominato questo meccanismo non acquisito Conspec, per sottolineare la caratteristica attribuibile all’intera specie umana che, tuttavia, si limita alla tendenza a prestare attenzione genericamente a volti umani senza riconoscerne peculiarità e differenze; infatti la capacità di discernere e distinguere per esempio il volto della madre da quello del padre dipende dall’apprendimento ed emerge qualche settimana più tardi e dipende dal Conspec solo nella misura in cui rappresenta un ampliamento di ciò che esso assicura, cioè che il bambino presti attenzione ai volti umani.

Non esiste quindi una particolare immagine predeterminata nella mente del neonato ma, come abbiamo visto, la tendenza innata a girarsi ed essere attratto da qualsiasi volto umano rispetto ad altre immagini che si presentino nel campo visivo. Si tratta di un riflesso sensomotorio privo di intenzionalità e di comprensione di significato, il cui substrato biologico risiederebbe nelle strutture sottocorticali che semplicemente vincolerebbero la risposta percettiva e attentiva nel modo che abbiamo visto. A livello corticale, invece, gli autori indicano come le rappresentazioni non siano prespecificate e predeterminate, poiché hanno bisogno ed emergono dalle interazioni complesse tra cervello e ambiente e dal rapporto reciproco tra aree cerebrali interne.

In questo senso i principi di auto organizzazione e di emergenza prevalgono nell’interpretazione dello sviluppo mentale rispetto a concezioni deterministiche e innatiste in senso forte.

 

I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi

Gli studi hanno mostrato come, anche in assenza di gravi forme di privazione materiale, le cure istituzionali precoci siano associate ad un più alto rischio di problemi esternalizzanti e dell’attenzione rispetto ai bambini non-istituzionalizzati cresciuti in famiglia.

Il presente contributo è l’ultimo di una serie di tre articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata effettuata una disamina generale della situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Nel secondo articolo sono state invece presentate le principali ricerche sull’argomento, i cui risultati verranno oggi illustrati nell’articolo che segue.

 

Gli studi che hanno utilizzato la scala di valutazione CBCL hanno riscontrato evidenze simili: i minori deistituzionalizzati hanno mostrato più alti livelli di problemi comportamentali, in particolare disturbi esternalizzanti (comportamento aggressivo e trasgressione di regole) e disturbi dell’ attenzione, rispetto ai minori non adottati.

Una forte correlazione positiva è stata riscontrata anche tra l’età al momento dell’adozione ed i problemi comportamentali, manifestati in particolare dal gruppo degli adolescenti (12-18 anni).

Gli studi hanno quindi mostrato come, anche in assenza di gravi forme di privazione materiale, le cure istituzionali precoci siano associate ad un più alto rischio di problemi esternalizzanti e dell’attenzione rispetto ai bambini non-istituzionalizzati cresciuti in famiglia e che il tasso di problemi comportamentali aumenta significativamente con l’età al momento dell’adozione, in particolare per i bambini esposti a deprivazione istituzionale per più di 18 mesi a partire dalla nascita.

I bambini “late adopted” tendono a mostrare più difficoltà internalizzanti/esternalizzanti, disturbi del pensiero, dell’attenzione e del comportamento sociale rispetto ai coetanei “early adopted”.

Raaska e colleghi, dopo aver dimostrato la più alta incidenza di difficoltà di apprendimento nei minori adottati (33, 2% rispetto al 10% della popolazione generale), hanno individuato le variabili che spesso risultano associate a tali deficit.

Oltre all’età al momento dell’adozione, il genere e il paese d’origine, essi hanno trovato un ultimo fattore compromissivo, rappresentato dal numero di istituti cambiati: sotto l’aspetto scolastico, infatti, i bambini che sono stati trasferiti da un istituto all’altro, risultano svantaggiati rispetto a chi era rimasto in un unica struttura per l’intera durata dell’istituzionalizzazione.

I piu compromessi nelle abilità scolastiche sono risultati i minori provenienti dagli istituti dell’Est Europa e dall’Africa e i soggetti di sesso maschile. Al contrario, le femmine e i minori provenienti da istituti asiatici hanno mostrato più alti livelli di adattamento e performances scolastiche significativamente superiori.

L’obiettivo ultimo dello studio era quello di valutare in quale misura le difficoltà scolastiche fossero ricollegabili a disturbi dell’attaccamento quali RAD (Reactive Attachment Disorder) e DSED (Disinhibited Social Engagement Disorder): l’associazione è risultata fortemente significativa. Considerando che i disturbi dell’attaccamento compaiono in età prescolare, lo studio permette di focalizzare l’attenzione sui bambini a rischio ancora prima dell’ingresso scolastico.

Anche lo studio di Wiik, coerentemente con la letteratura precedente (Beverly et al.2008, Gunnar et al. 2007, Kreppner et al 2001), ha mostrato che il 23% dei bambini post istituzionalizzati presenta sintomi di ADHD e che soprattutto i bambini con storie istituzionali prolungate, valutati dagli otto agli undici anni, sono a rischio di sviluppare il disturbo.

Negli anni, diversi altri studi sul tema dell’istituzionalizzazione hanno confermato tale relazione ed hanno riscontrato la presenza di un disturbo più specifico, identificabile come inattention/ overactivity (tradotto dagli autori con il termine inattenzione-iperattività I/O), che si genera proprio da questa precoce esperienza di vita (Goldfarb, 1945; Taylor, 1994; Ames, 1997; Fisher et al., 1997; Rutter e ERA Study Team, 1998, 2001; Kreppner, O’Connor e Rutter, 2001; Roy, Rutter e Pickles, 2000, 2004).

È stata anche posta l’attenzione sulla difficile reversibilità del disturbo in adolescenza, a fronte delle precoci alterazioni neurobiologiche evidenziate da tali soggetti (Stevens et al., 2007). Rutter e colleghi (1998) hanno sottolineato, però, che se l’adozione è stata precoce e la qualità delle cure offerte della famiglia adottiva è stata buona, è possibile diminuire l’entità del disturbo.

Lo studio di Wiik ha anche mostrato che il rischio di ADHD dipende più dalle esperienze precoci dei bambini che dal loro paese d’origine: la persistenza di problemi di attenzione anni dopo l’adozione fornisce supporto per l’ipotesi che disattenzione e impulsività possano essere parte della sindrome post-istituzionale (Kreppner et al., 2001).

Una delle scoperte piu importanti sul tema dell’istituzionalizzazione è probabilmente rappresentata dall’importanza rivestita dalle interazioni con i cargivers. Nel 2007, Smyke e colleghi hanno infatti messo in luce una forte correlazione tra la quantità e la qualità delle interazioni e lo sviluppo cognitivo e le competenze dei bambini. Tuttavia, per la natura dei dati, non e possibile determinare se i bambini più compromessi abbiano richiesto meno attenzioni o se le scarse cure abbiano portato a tali ritardi.

Entrambe le direzioni possono plausibilmente essersi verificate nel tempo: i bambini che ricevono una migliore qualità assistenziale possono utilizzare le loro interazioni con i caregivers per guadagnare una più complessa conoscenza dell’ambiente e del proprio ruolo al suo interno, raggiungendo maggiori competenze.

I risultati possono comunque essere ritenuti affidabili poiché sono stati esclusi dal campione sperimentale i soggetti con gravi handicap (sindrome alcolica fetale o grave paralisi cerebrale). L’osservazione delle videoregistrazioni ha mostrato che spesso i bambini in istituto non avevano a disposizione un caregiver che soddisfacesse i loro bisogni e che non erano coinvolti in interazioni, conversazioni con i pari o giochi creativi.

In questo studio la qualità dell’interazione e delle cure da parte del caregiver è risultata altamente correlata con tre delle sfere evolutive considerate: quoziente di sviluppo (developmental quotient, DQ), comportamenti adattivi e competenze, mentre la percentuale di tempo in istituto soltanto alla sfera dei comportamenti problema. Ciò dimostra che il semplice fatto del risiedere in un istituto è meno potente del micro-ambiente costituito da ogni bambino con il proprio caregiver di riferimento.

Non sorprende che i bambini più grandi, in questo studio come nei precedenti, abbiano mostrato un più alto livello di deterioramento cognitivo rispetto ai più piccoli: questo è compatibile con l’idea, ampiamente provata, che la capacità cognitiva si deteriori con il progredire dell’assistenza istituzionale.

E’ importante sottolineare che questi risultati confermano quanto e già stato riscontrato nei precedenti 50 anni in vari studi riguardanti le caratteristiche dello sviluppo di minori cresciuti in istituto.

Considerazioni conclusive

Il radicale cambiamento di ambiente che avviene quando la profonda deprivazione istituzionale precede l’adozione crea un “esperimento naturale” che puo essere utilizzato per testare le ipotesi sugli effetti della deprivazione precoce.

Questo articolo ha posto l’attenzione su alcuni studi che hanno osservato comportamento e apprendimento dei bambini adottivi, mettendo in luce come alcuni fattori possano influenzarne lo sviluppo cognitivo e comportamentale.

I fattori analizzati, correlati con diversi gradi di adattamento nel periodo successivo all’adozione, sono:

  • l’istituzionalizzazione (Hoksbergen et al. 2004; Smyke et al.2007; Merz e McCall, 2010; Raaska et al.2011; Wiik et al.2011);
  • l’età al momento dell’adozione (Hoksbergen et al. 2004; Smyke et al. 2007; Merz e McCall, 2010; Raaska et al.2011; Wiik et al. 2011);
  • il numero di istituti cambiati nel periodo precedente all’adozione (Raaska et al. 2011);
  • la quantità/qualità di interazioni con i caregivers (Smyke et al.2007);
  • il genere ed il paese d’origine (Raaska et al.2011);

I risultati delle ricerche analizzate forniscono un forte supporto all’idea che l’esposizione alle cure istitutive, specialmente se per un periodo di tempo superiore ai 18 mesi, sia profondamente incisiva sullo sviluppo dei bambini. Gli studi presi in considerazione hanno mostrato una più alta incidenza per i bambini post-istituzionalizzati di disturbi:

  • esternalizzanti (Audet et al. 2006, Hoksbergen et al. 2004; Merz e McCall, 2010);
  • dell’attenzione (Hoksbergen et al. 2004; Merz e McCall, 2010; Wiik et al. 2011);
  • dell’apprendimento (Silver, 1969; Raaska et al.2011);
  • dell’attaccamento (RAD e DSED) (Raaska et al.2011);
  • del comportamento sociale (Smyke et al.2007);

Queste alterazioni sembrano essere dovute all’inadeguata qualità delle cure, intesa come: disequilibrio nel rapporto numerico tra bambini ed educatori, eccessivo turnover del personale, scarse stimolazioni tattili, visive e uditive, rari e mal diretti momenti d’interazione sociale tra adulti e bambini, impossibilità di sperimentare momenti di calore, rare opportunità di gioco libero tra coetanei e di scoperta libera o guidata dell’ambiente.

Viene confermato quanto già sostenuto da una prospettiva interdisciplinare evolutiva: è all’interno di una relazione stabile, calorosa ed empatica che il bambino acquisisce le abilità indispensabili per un sano sviluppo psico-fisico (Monti et al.2010). A tale proposito, gli interventi improntati al miglioramento delle istituzioni dovrebbero costituire il fine ultimo delle ricerche, in quanto tali istituzioni non sembrano destinate a scomparire molto presto (Smyke et al. 2007).

Per migliorare la condizione di vita all’interno degli istituti, è possibile prendere in considerazione alcuni interventi. A livello del microsistema, ovvero delle relazioni a due (bambino-adulto), si potrebbe diminuire il rapporto numerico tra bambini ed operatori e disincentivare il turnover del personale, rendendo più facile l’instaurarsi di una relazione preferenziale. Sarebbe auspicabile, inoltre, formare gli operatori delle strutture sull’importante ruolo che essi stessi rivestono nella crescita dei bambini e su come svolgere le proprie mansioni mettendo al centro il minore. Infine, sarebbe opportuno permettere ai minori di prendere parte ad attività sportive o di altro genere, che possano aumentare il loro senso di autoefficacia, stimolando la socializzazione tra pari (Cyrulnik e Malaguti, 1999).

In ultimo, per implementare le risorse a livello del macro-sistema, sarebbe opportuno lavorare al fine di costruire una comunità resiliente grazie anche all’informazione e alla divulgazione degli effetti negativi sullo sviluppo infantile di tali contesti, per poter arrivare a delle vere e proprie modificazioni delle politiche sociali (Emiliani, 2004).

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

 

 

Nomofobia – Psicopatologia e stile di vita

Nell’ultimo decennio l’utilizzo quotidiano dello smartphone è cresciuto in maniera esponenziale: secondo il Pew Research Center (2019), la maggioranza degli americani (81%) e il 96% dei giovani adulti (18-29) sono possessori di almeno uno smartphone.

 

Nonostante i vantaggi e le comodità che gli smartphone assicurano, quando il loro utilizzo diventa eccessivo questi possono impattare negativamente sullo stile di vita delle persone, portando a una dipendenza che può avere effetti fisici, psicologici, comportamentali, sociali e affettivi (Gezgin & Çakir, 2016).

Nel particolare, l’uso eccessivo dello smartphone può causare nomofobia (“no phone phobia”): ossia l’ansia, il disagio e lo stress causati alla persona quando non ha il proprio smartphone a disposizione (King, 2013).

Essendo un campo emergente, la letteratura esistente (Kriswanto et al., 2018; Nath, 2018; Shen et al., 2020) – che pur indica una correlazione positiva tra nomofobia e problemi di salute – è ancora limitata. In uno studio recente (Gonçalves et al., 2020) si è deciso di indagare la relazione tra nomofobia, stile di vita e sintomi psichici. Per fare ciò sono stati reclutati 495 studenti dell’Università di Braga (Portogallo), dell’età compresa tra 18 e 14 anni, con il solo criterio di inclusione di possedere uno smartphone.

I partecipanti alla ricerca sono stati sottoposti alla seguente testistica: il Nomophobia Questionnaire (NMP-Q; Yildirim & Correia, 2015) per la determinazione del livello di nomofobia; il Brief Symptom Inventory (BSI; Derogatis & Melisaratos, 1983) per la valutazione self-report della sintomatologia psichica; il FANTASTIC Lifestyle questionnaire (Wilson et al., 1984) per la valutazione delle abitudini individuali.

Dai risultati dello studio si è riscontrata una correlazione positiva tra la nomofobia e la sintomatologia psicopatologica: nello specifico, la nomofobia è risultata associata a sintomi da somatizzazione, sintomi ossessivo-compulsivi, sensibilità interpersonale, sintomi ansiosi, sintomi depressivi, ostilità, ideazione paranoide e psicoticismo. Inoltre, sensibilità interpersonale e sintomi ossessivo-compulsivi – così come il numero di ore di utilizzo al giorno dello smartphone – sono stati identificati come forti predittori della nomofobia, come già confermato in letteratura per quanto riguarda la sintomatologia ossessivo-compulsiva (Lee et al., 2018).

La nomofobia si è dimostrata indipendente rispetto al genere o all’età delle persone e, sorprendentemente, anche rispetto allo stile di vita, suggerendo la pervasività del ruolo che lo smartphone ha oramai occupato nella vita dei giovani – perlomeno in Portogallo.

Fattori protettivi sono stati riscontrati in livelli superiori di educazione e migliori relazioni con famiglia e amici, oltre alla maggiore attività fisica.

Ulteriore ricerca sarà necessaria in futuro per meglio indagare un fenomeno che è ancora agli inizi, così come sarà necessario investire nell’educazione per un utilizzo salutare degli smartphone.

 

I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi

Poiché anche l’adozione internazionale, pur senza il periodo di ricovero in istituto, può essere considerata un evento traumatico, dividere i bambini adottati e quelli adottati post-istituzionalizzati permette di verificare con maggiore chiarezza gli effetti delle cure istitutive precoci indipendentemente dall’adozione.

Il presente contributo è il secondo di una serie di tre articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata effettuata una disamina generale della situazione attuale relativa agli orfanotrofi e agli istituti per minori. Presenteremo oggi le principali ricerche sull’argomento, i cui risultati verranno poi illustrati nel terzo e ultimo articolo.

 

I principali studi su questo tema fanno riferimento all’adozione internazionale, cioe l’adozione di un minore il cui stato di abbandono e di adottabilità sia stato dichiarato dalle autorità competenti di un Paese estero. I bambini sono stati valutati sotto diversi aspetti. Nel caso della valutazione dei comportamenti problematici (disturbi esternalizzanti ed internalizzanti), i questionari utilizzati più frequentemente sono quelli della Child Behavior Checklist. Queste schede valutative fanno parte del Sistema di valutazione su base empirica di T. Achenbach e possono essere considerate ottimi strumenti per una prima valutazione globale del comportamento.

Uno degli importanti lavori di ricerca che hanno utilizzato la Child Behavior Checklist è quello di Merz e McCall (2010). Questi ricercatori hanno osservato i problemi comportamentali di 342 bambini e ragazzi dai 6 ai 18 anni, adottati da istituti russi di San Pietroburgo. Tali istituti fornivano adeguate risorse fisiche, ma scarse cure ed attenzioni da parte dei caregivers. I bambini in queste istituzioni potevano, infatti, fruire di sostegno medico, nutrimento, sicurezza, igiene, giocattoli e attrezzature, ma sono stati esposti ad un alto turnover di caregivers, scarse interazioni e bassi livelli di stimolazione psicosociale (Kossover, 2004). L’obiettivo dello studio di Merz e McCall era quello di dimostrare che, anche in assenza di grave deprivazione materiale, l’istituzionalizzazione precoce fosse associata ad un maggiore rischio di problemi comportamentali, in particolare in caso di esposizione prolungata alle cure istitutive (superiore ai 18 mesi a partire dalla nascita). I bambini del gruppo PSD (psycho-socially deprived), adottati in età compresa dai 5 ai 60 mesi, avevano dai 6 ai 18 anni al momento della valutazione. I loro risultati sono poi stati confrontati con quelli di bambini non adottati, nati nel paese adottivo (Stati Uniti) e cresciuti con la famiglia biologica.

Sono diverse le ricerche che hanno utilizzato lo stesso questionario: è possibile confrontare gli stessi parametri in studi simili a quello di Merz e McCall (Audet et al. 2006; Hoksbergen et al. 2004), condotti in istituzioni rumene. Anche in queste ricerche, l’obiettivo principale era quello di verificare gli effetti della deprivazione istituzionale; per questa ragione il gruppo di confronto non deprivato (ND) era composto da gruppi rappresentativi di bambini nati nei paesi adottivi (Paesi Bassi e Canada). La principale variabile associata agli scarsi risultati nella compilazione del questionario è risultata essere l’età al momento dell’adozione, un dato generalmente correlato con la durata dell’istituzionalizzazione. Poiché molti genitori non ottengono informazioni precise riguardo al tempo speso in istituto dal proprio figlio, l’età al momento dell’adozione è un dato che puo essere riportato in maniera più accurata (Hawk età al. 2010).

Gli studi già presentati di Merz e McCall (2010) e Hoksbergen (2004), insieme a quello condotto da Gunnar (2007), sono stati particolarmente attenti a questa variabile, ed hanno confrontato bambini adottati precocemente con bambini adottati più tardi. L’importanza di queste ricerche è data dall’esclusione della variabile adozione: l’attenzione viene posta esclusivamente sulla durata del ricovero in istituto. Mentre il confronto precedente prendeva in considerazione bambini adottati e coetanei non adottati, queste ricerche hanno posto l’attenzione soltanto su bambini adottivi, dividendo i campioni in “early adopted” e “late adopted” per verificare con piu chiarezza l’esistenza di una correlazione tra la durata e gli effetti dell’istituzionalizzazione. Il limite tra “early” e “late” varia a seconda dei diversi autori: Hoksbergen (2004) definisce “late adopted” i bambini adottati dopo i sei mesi, Merz e McCall (2010) hanno posto il limite a diciotto mesi, mentre Gunnar (2007) a ventiquattro mesi. I bambini cresciuti in contesti istituzionalizzati hanno, di norma, fatto esperienza di un elevato numero di caregivers diversi, le cui attenzioni sono state spesso scarse e mal dirette (Monti et al.2010). Una volta allontanati dagli istituti e affidati ad una famiglia, essi sono sovrarappresentati nei servizi di salute mentale e di educazione speciale del loro nuovo paese (Juffer & van Ijzendoor 2005; Miller et al. 2009). Diversi studi hanno dimostrato che le loro performances scolastiche rimangono inferiori rispetto a quelle dei compagni, con un rinvio ai sevizi di educazione speciale doppio rispetto ai pari non adottati (12,8% vs 5,5%) (van Ijzendoorn & Juffer 2006).

I mediatori psicologici che potrebbero ricollegare queste difficoltà accademiche alla deprivazione precoce sono rappresentati dai disturbi dell’attaccamento: RAD (Reactive Attachment Disorder) e DSED (Disinhibited Social Engagement Disorder), caratterizzati da modelli di comportamento presentati sia da bambini cresciuti in istituto che da bambini maltrattati. Il DSM IV (APA, 2000) presentava due sottotipi del disturbo RAD: quello inibito e quello disinibito, caratterizzati nel primo caso da mancanza di interazione sociale e assenza di rapporti di attaccamento, e nel secondo caso da rapporti di attaccamento superficiali e diretti non selettivamente anche ad estranei.

Una recente modifica apportata nel DSM 5 (APA, 2013) parla di RAD per definire il sottotipo inibito e di DSED (Disinhibited Social Engagement Disorder) per descrivere il sottotipo disinibito: in entrambi i casi si tratta di comportamenti sociali inappropriati. I soggetti con DSED, in particolare, presentano risposte comportamentali indifferenziate con i diversi adulti, si allontanano facilmente con sconosciuti e non si appoggiano ai genitori neanche nei momenti di difficoltà (Rutter et al. 2007). Uno studio condotto in Inghilterra su bambini adottati provenienti dalla Romania ha mostrato una netta correlazione tra questo sottotipo indiscriminato e l’utilizzo di servizi di educazione speciale o deficit cognitivi (ibidem).

Una ricerca di grande importanza, specialmente per l’ampiezza del campione di soggetti studiati (395 bambini adottivi), è stata svolta in Finlandia nel 2011 (Raaska et al. 2011). Questi ricercatori hanno voluto osservare se le difficoltà di apprendimento riscontrate nell’ampio campione di bambini adottati fossero associabili a sintomi di RAD o DSED. Essi hanno utilizzato un altro questionario per la valutazione delle difficoltà di apprendimento: il Five to Fifteen (FTF) (Kadesjo et al. 2004; Trillingsgaard et al. 2004), indirizzato in parte ai genitori e in parte ai bambini stessi. Tale scheda valutativa comprende 181 affermazioni connesse a problemi comportamentali e dello sviluppo, raggruppate in otto categorie: memoria, apprendimento, linguaggio, funzioni esecutive, abilità motorie, percezione, abilità sociali e problemi emozionali/del comportamento. In una validazione precedente, la categoria dell’apprendimento nel FTF era correlata con il quoziente intellettivo generale ottenuto con la scala WISC III (Wechsler Intelligent Scale For Children) (Kadesjo , Trillingsgaard et al. 2004). Per la valutazione della sfera affettiva, non essendo ancora disponibile un questionario validato, è stato chiesto ai genitori di rispondere ad affermazioni come “si allontana spesso con sconosciuti”, “si ritira dal contatto”, “e troppo attaccato ad uno dei genitori”, “non cerca conforto in situazioni stressanti”. I genitori adottivi, in Finlandia, ricevono moltissime informazioni ed un’ampia formazione prima di ottenere la possibilità di adottare e tendono a riportare accuratamente i comportamenti dei loro bambini adottivi: per questa ragione, i dati possono essere considerati affidabili (Raaska età al. 2011).

Lo studio è particolarmente significativo perché, oltre alla percentuale di tempo in istituto, considera altri fattori: il genere, il numero di istituti cambiati e il continente d’origine dei soggetti (Asia, Africa, Sud America ed Est Europa). Dallo studio emergono, quindi, le caratteristiche peculiari del bambino che può, con più probabilità, necessitare di servizi di educazione speciale: i risultati sono particolarmente utili se si pensa all’importanza degli interventi precoci in ambito educativo. Un ulteriore esito negativo, frequente nei bambini deistituzionalizzati ed associato a numerose altre problematiche, è il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD).

Wiik e colleghi (2011) ne hanno studiato l’incidenza in un campione di bambini adottivi provenienti da diversi paesi del mondo (Russia, Ucraina, Slovacchia, Cina, India e Filippine) mettendo in luce la possibile associazione tra l’insorgenza di questo deficit e le precoci esperienze di caregivers multipli (Hodges e Tizard, 1989; Haddad e Garralda, 1992). Lo studio di Wiik è rilevante in particolare per la gestione del campione: in questo caso, per isolare le variabili e verificare il ruolo delle cure istitutive, i bambini sono stati divisi in tre gruppi: (1) non adottati, (2) adottati non istituzionalizzati (provenienti da situazioni di affido temporaneo) e (3) deistituzionalizzati.

Poiché anche l’adozione internazionale, pur senza il periodo di ricovero in istituto, può essere considerata un evento traumatico, dividere i bambini adottati e quelli adottati post- istituzionalizzati permette di verificare con maggiore chiarezza gli effetti delle cure istitutive precoci indipendentemente dall’adozione.

Lo studio di Smyke e colleghi (2007) aveva infine l’obiettivo di dimostrare l’importanza del ruolo dei caregivers durante il periodo di ricovero istitutivo. Essi rappresentano gli adulti di riferimento e si puo plausibilmente ritenere che, per la maggior parte dei bambini in istituto, rappresentino le persone più importanti, in particolare nel primo periodo di vita. Tuttavia, i turni di lavoro stressanti, l’elevato numero di orfani e l’alto tasso di turnover fanno in modo che non sempre riesca ad instaurarsi un rapporto affettivo tra adulto e bambino. Smyke ed il suo gruppo di collaboratori, osservando serie di videoregistrazioni dei caregivers sul posto di lavoro, hanno studiato la quantità e la qualità delle interazioni con i bambini a loro affidati, per verificare se coloro che ricevevano piu attenzioni ed erano coinvolti in più interazioni presentassero un migliore stato di sviluppo cognitivo (scala di valutazione Bayley, 1993) ed affettivo (Infant Toddler Social Emotional Assessment, Carter et al. 2003). In particolare, sono state prese in considerazione cinque aree di sviluppo: crescita fisica, sviluppo cognitivo, espressione emotiva, competenze e comportamenti. I soggetti esaminati, 208 neonati e bambini in età compresa tra 5 e 31 mesi al tempo della valutazione, provenivano da tutte le sei istituzioni di Bucarest: lo studio può quindi essere considerato rappresentativo dell’assistenza istituzionale in Romania.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

1- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – Una panoramica sulla situazione attuale – Pubblicato su State of Mind il 21 Luglio 2020
2- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I principali studi – Pubblicato su State of Mind il 22 Luglio 2020
3- I bambini adottati dopo l’istituto: gli effetti della deprivazione precoce sul loro sviluppo – I risultati dei principali studi – Pubblicato su State of Mind il 23 Luglio 2020

 

L’espressione delle emozioni nella depressione e schizofrenia

Berembaum e Oltmanns (1992) hanno preso in esame un campione di pazienti con diagnosi di schizofrenia e depressione ed hanno esaminato le espressioni facciali in risposta alla visione di filmati.

 

L’uomo utilizza due forme di comunicazione: logica ed analogica. Il linguaggio verbale rientra nella prima categoria, quindi si serve della parola per comunicare ed è solitamente una forma comunicativa di cui abbiamo consapevolezza e che frequentemente adattiamo in base al contesto in cui ci troviamo. La comunicazione analogica si riferisce invece a quel tipo di linguaggio che riguarda i movimenti del corpo e la mimica del volto (cinesica), la posizione del corpo nello spazio (prossemica), le variazioni della voce (paralinguistica) ed il contatto fisico (aptica). Circa il 70% delle informazioni che emergono in un dialogo sono indizi non verbali; gli indici a cui porgiamo più frequentemente attenzione, durante una conversazione, sono inerenti alla mimica facciale.

Uno strumento descrittivo di nota fama ed utilizzo nello studio delle espressioni facciali è il Facial Action Coding System sviluppato da Ekman e Friesen nel 1978. Il FACS è ritenuto il più importante manuale di codifica di movimenti del volto, prendendo in esame i movimenti muscolari che portano a modifiche espressive facciali chiamate Action Unit (AU). Le AU classificate nella seconda edizione (2002) sono 41, è doveroso specificare che non vi è una relazione biunivoca tra queste ed i muscoli facciali poiché lo stesso muscolo può contribuire alla formazione di più AU e la stessa può essere costituita da muscoli diversi. Nel manuale vengono descritte le intensità delle unità di azione in funzione di 5 lettere (A,B,C,D,E) che indicano una intensità crescente; le AU vengono inoltre classificate anche per asimmetria, descritta con la lettera L (sinistra) e R (destra), in base al lato del volto dove l’emozione viene espressa; alcune delle AU più frequenti sono esposte in TAB 1.

Depressione e schizofrenia studi sull espressione delle emozioni Tab 1

TAB. 1: Facial Action Coding System 

In campo clinico e sperimentale sono stati numerosi gli studi che hanno preso in esame la gestualità e la modulazione espressiva delle emozioni in disturbi psicopatologici, inoltre l’attenzione al comportamento non verbale rappresenta un importante fattore all’interno della relazione terapeutica, permettendo di focalizzarsi e prendere in considerazione particolari aspetti che emergono durante il dialogo. In letteratura particolare interesse è stato rivolto all’analisi di tali aspetti in soggetti con depressione e schizofrenia.

In uno studio (Steimer-Krause, 1990) è stata presa in esame l’espressività emotiva in pazienti schizofrenici durante un dialogo con un interlocutore e, tramite FACS, è stata osservata una diminuzione del repertorio e della frequenza di espressioni facciali; nello specifico è stata evidenziata una significativa riduzione delle AU 1,2,4,6,7 che si manifestano nella parte superiore del volto, mentre la parte inferiore non subiva modifiche. Le AU sopra evidenziate sono caratteristiche di espressioni quali la sorpresa e paura, ma anche parte fondamentale dell’accompagnamento al discorso, per enfatizzare frasi e mantenere l’attenzione dell’interlocutore attraverso i cosiddetti gesti illustratori (gesti non verbali che accompagnano e scandiscono il discorso). La mancanza o riduzione di questi durante un dialogo contribuisce ad una sensazione di minor interesse nella discussione e maggior distacco emotivo da quanto viene espresso verbalmente. Lo studio ha dimostrato che la riduzione degli illustratori si riverberava indirettamente sulla gestualità degli interlocutori, portandone una diminuzione anche in quest’ultimi.

Una riduzione dell’espressività nella parte superiore del volto analoga a pazienti schizofrenici è stata riscontrata anche in uno studio (Heller, 1994) che ha preso in esame soggetti depressi, dividendo il campione in pazienti che avevano tentato il suicidio e non. Durante il colloquio, nel parlare di intenzioni suicidarie con i pazienti del primo gruppo, è emersa una riduzione delle AU 1,2,4 che, come sottolineato prima, servono a sostenere l’esposizione; inoltre i pazienti tendevano ad evitare il contatto visivo con il clinico mentre parlavano delle loro esperienze.

Per quanto concerne invece le differenze inter-diagnostiche, Berembaum e Oltmanns (1992) hanno preso in esame un campione di pazienti con diagnosi di schizofrenia e depressione ed hanno esaminato le espressioni facciali in risposta alla visione di filmati. Lo studio ha evidenziato una maggiore riduzione dell’espressività facciale nei pazienti schizofrenici rispetto ad i pazienti con depressione, nonostante i resoconti self report sulle emozioni provate fossero simili; gli autori commentano questo dato spiegando che la riduzione dell’espressività potrebbe essere legata a caratteristiche mimiche di questi pazienti piuttosto che ad una reale diminuzione dell’esperienza emotiva.

Gaebel (2004) ha evidenziato inoltre che l’ipo-mimia nei soggetti depressi e schizofrenici sarebbe imputabile alla minore intensità e frequenza dei segnali illustratori AU 1,2,4 (quindi alzare ed aggrottare le sopracciglia) rispetto ai controlli sani. Non sono state trovate invece differenze tra pazienti depressi, schizofrenici e controlli nella modalità di espressione di AU 14 (sorriso asimmetrico), AU 17 (corrugamento del mento) e AU 20 (stiramento delle labbra verso il basso) che solitamente rimandano ad emozioni negative, sebbene i soggetti sani tendano ad esibirle in frequenza minore.

Sempre in riferimento al confronto tra le precedenti categorie diagnostiche, Trémeau e colleghi (2005) non hanno evidenziato particolari differenze nelle emozioni facciali tra gruppi di pazienti depressi e schizofrenici, dove i primi sembrano essere leggermente più espressivi, tranne che nelle emozioni positive, in linea con Berembaum e Oltmanns (1992). In letteratura tale dato sembra essere confermato da un altro studio (Ekman & Rosenmberg, 2005), dove in risposta a filmati divertenti i pazienti depressi esprimevano meno gioia e più rabbia e disprezzo in risposta a stimoli negativi.

In conclusione, dalla letteratura emerge come entrambe le categorie diagnostiche, seppure con modalità diverse, esibiscano una riduzione del repertorio facciale, inerente maggiormente la parte superiore del viso; emerge anche una tendenza generale ad esprimere in forma minore espressioni di felicità alla presenza di stimoli positivi ed a presentare in frequenza maggiore emozioni negative, quali disgusto e disprezzo (Bergman, 2012).

All’interno della stessa categoria diagnostica è emersa anche un’alterazione dell’espressività direttamente proporzionale alla gravità del disturbo, quindi una maggiore frequenza di emozioni quali tristezza e disgusto nei soggetti con depressione maggiore rispetto ai soggetti con depressione minore (Ekman, Matsumoto & Friesen, 2005) ed una ipo-mimia più marcata, oltre che una maggiore frequenza di emozioni negative espresse, in pazienti schizofrenici ospedalizzati rispetto ad ambulatoriali (Steimer-Krause, 1990).

 

Essere un carattere – Recensione del libro di Christopher Bollas

Essere un carattere è un testo complesso, a tratti spigoloso da leggere per i forti richiami psicoanalitici soprattutto nella terminologia, ma che certamente offre uno spaccato interessante di diverso orientamento e spunti di riflessione che non possono che arricchire il lettore. 

 

Il filo conduttore è l’esperienza di sé e di come ognuno di noi investa di un proprio significato nel corso della propria vita diversi oggetti in maniera inconsapevole, ma che vanno man mano a comporre il proprio senso di sé, la propria ‘storia psichica’. Questi oggetti tornano anche nella terapia, dove paziente e terapeuta usano tali elementi, portandoli man mano a consapevolezza per creare nuove trame di sé, nuovi significati per allargare la propria esperienza personale.

La prima parte del libro si sofferma sull’esperienza del Sé e illustra come ciascuno di noi, nel corso della vita e nelle diverse esperienze che può sperimentare, attribuisca ad oggetti diversi differenti significati personali che vanno man mano a comporre il proprio mondo interno e i propri modelli interni che delineeranno il proprio ‘carattere’. L’autore riprende e mantiene per tutto il testo il riferimento al lavoro onirico freudiano come modello appunto di tutto il lavoro inconscio di attribuzione di significato verso i più disparati oggetti, così come nel sogno, riprendendo la lettura freudiana, vengono travestite situazioni paradossali di significati nascosti. E tali oggetti e i loro significati contribuiscono alla formazione del ‘carattere’, unico per ognuno e gonfio di complessità: ‘Troviamo sempre oggetti che disperdono il Sé oggettivante in soggettività elaborate […]’ (p. 8) e questi oggetti diventano ‘un vocabolario dell’esperienza del Sé‘ (p. 18); ciascun oggetto scelto diventa rappresentativo e indicativo di differenti ‘tipi psicologicamente distinti di esperienza di sé‘ (p. 21) e parlano di noi e diventano espressione del nostro essere e della nostra storia che si compone man mano dei nostri oggetti interiorizzati.

Ed è proprio di tale complessità che il terapeuta (o analista, per rimanere fedeli all’orientamento dell’autore) si occupa con il paziente in terapia, nel sottile lavoro di portare man mano su un piano di sempre maggiore consapevolezza il mondo interno del paziente. ‘Un’analisi’ dice l’autore, ‘è un processo creativo svolto da due soggettività che lavorano a compiti che si sovrappongono […]’ (p. 70).

Un concetto viene ben delineato, torna nel testo e val la pena di essere sottolineato, ed è quello del ‘Sé semplice’ e del ‘Sé complesso’: la semplicità dell’esperire, dello stare, dell’esserci nell’esperienza così com’è; e la complessità della meta riflessione su quanto esperito, sul pensare l’esperienza, la traduzione dall’esperienza vissuta a quella pensata, il passaggio dall’immediato al sedimentato, dal vissuto all’integrazione che man mano aggiunge strati di complessità attorno al nostro senso di noi, alla nostra soggettività.

La seconda parte è una sezione tematica, dove l’autore riprende alcuni dei principi esposti e illustra diverse ed estreme esperienze di sé. Si parla di esperienze estreme, come l’autolesionismo, dove viene descritto il tagliarsi come atto di sollievo da contenuti persecutori; l’età innocente, che può anche rivelarsi violenta e a volte finisce per essere negata; o ancora le dinamiche relazionali edipiche, dove l’autore ripercorrendo la tragedia di Sofocle ne ripercorre il senso e la complessità. L’autore poi allarga e si sposta su temi di natura sociale quali la mentalità autoritaria, nel suo estremo agito del genocidio nelle sue diverse forme; o il concetto di coscienza generazionale e di cultura collettiva, che si sceglie i propri significati; qualsiasi sia la generazione di appartenenza, in essa ciascuno si riconosce, anche e soprattutto attraverso gli oggetti scelti come sigle della coscienza generazionale di quel dato periodo; questi oggetti ‘inconsciamente interpretano la visione che queste persone hanno della loro esperienza di luogo e di tempo‘ (p. 213) e ogni persona trova un proprio equilibrio rispetto ad un movimento identitario collettivo che crea uno spazio potenziale per allargare l’esperienza di Sé. ‘Ogni nuova generazione‘ dirà l’autore, ‘è un periodo di intensa vita soggettiva, un periodo in cui il Sé semplice si sente parte di un processo collettivo che lo trasporta con sé‘ (p. 211).

Questi ultimi sono tutti capitoli che rappresentano spunti nuovi, chiavi di lettura diverse, lenti psicoanalitiche che aprono riflessioni nuove e prospettive che si allontanano dalla propria, riportando nuove conoscenze.

Essere un carattere ci fa tornare sulla soggettività, su quell’unicità che ciascuno di noi ha, crea e difende. Quella preziosità che la terapia ravviva e aiuta a far scoprire al paziente, se ancora opaco a se stesso.

I 7 pilastri della mindfulness – Report dell’evento online del 10 giugno 2020

In vista dell’uscita del nuovo libro I 7 pilastri della mindfulness, la casa editrice Vallardi ha organizzato una sessione di mindful eating via Zoom.

 

Mindfulness: accettare se stessi così come si è‘. Così l’autrice Maria Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta, ha iniziato il suo intervento, raccontando i benefici che lei stessa ha sperimentato seguendo regolarmente questa pratica.

Ma che cos’è la mindfulness?

Il fondatore di questo metodo è Jon Kabat-Zinn, un biologo statunitense di origine indiana. Traendo ispirazione dai testi del buddhismo antico e dalla tradizione yogica indiana, Kabat-Zinn propone un modo semplice di meditare, attraverso brevi esercizi e momenti di autoconsapevolezza. Questi esercizi, che durano da pochi minuti a sessioni di un’ora circa, sono finalizzati a indirizzare l’attenzione direttamente su ciò che stiamo vivendo, piuttosto che vagare tra pensieri e aspettative.

Questa modalità di procedere – spiega l’autrice del libro – produce presenza mentale‘, un atteggiamento di consapevolezza che emerge quando si presta attenzione, in maniera non giudicante, al momento presente.

Dai primi anni Duemila a oggi, la mindfulness è stata validata come protocollo scientifico, e un gran numero di pubblicazioni, studi e ricerche, ne hanno documentato gli effetti anche in diverse situazioni patologiche. ‘È particolarmente efficace nel trattamento della depressione, dei disturbi alimentari e delle dipendenze patologiche‘, così risponde la dott.ssa Toro alla mia domanda su quali pazienti ne traggono particolare giovamento, ‘ma negli ultimi anni si sta sviluppando un interessante campo di applicazione, mi riferisco al trattamento del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) in età evolutiva‘.

Passiamo così al momento esperienziale. Dal momento che la maggior parte dei protocolli mindfulness ha inizio con la riproposizione di un gesto quotidiano, in cui vengono usati i cinque sensi, l’autrice ha proposto ai partecipanti dell’evento zoom ‘la pratica dell’uvetta’ (presente all’interno del testo, con file audio della versione standard scaricabile dal sito).

Per la pratica sono servite due piccole porzioni di cibo da mangiare a nostro gradimento (biscotti, cioccolatini o fragole) e un ambiente tranquillo.

L’autrice ci ha invitato a osservare la prima porzione di cibo, focalizzandoci sulle sue qualità visive, esplorandone ogni parte come se lo vedessimo per la prima volta. Passandolo poi tra le dita ci è stato chiesto di avvicinarlo al naso e inspirare il suo odore, per poi portarlo accanto a un orecchio, stringerlo e ascoltare che tipo di suono producesse. Portandolo poi verso la bocca e appoggiandolo sulle labbra abbiamo focalizzato la nostra attenzione su come reagisse il nostro corpo, se si attivassero o meno le ghiandole salivari. Un esercizio di consapevolezza, quindi, sulle sensazioni tattili, visive, olfattive e uditive legate all’esperienza del cibo, per poi passare infine al gusto, masticando lentamente e cogliendo a pieno il gusto prima di deglutire.

Ora ripeti l’esperienza con l’altro pezzetto di cibo‘ continua l’autrice ‘come è diversa! Concludi congratulandoti con te stesso per aver dedicato questo tempo al benessere!‘.

 

Siamo vicini a trovare nuove terapie per rallentare il decorso dell’Alzheimer?

L’obbiettivo di un recente studio è quello di comprendere quali cellule siano colpite nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, così da sviluppare in seguito terapie che ne rallentino il decorso. 

 

I neuroscienziati specializzati in cellule staminali dell’Università di Lund in Svezia hanno sviluppato un modello di ricerca che consente di studiare i neuroni dell’ippocampo umano, le cellule cerebrali colpite principalmente dalla malattia di Alzheimer. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Stem Cell Reports (Pomeshchik et al., 2020).

Nella malattia di Alzheimer l’ippocampo, una struttura del cervello che regola la motivazione, l’emozione, l’apprendimento e la memoria, è gravemente colpito. Tuttavia, a causa dell’impossibilità di analizzare il tessuto ippocampale, a meno che non sia post mortem, non è possibile per i ricercatori comprendere quali siano gli eventi primordiali che portano alla disfunzione cellulare e al conseguente danno neuronale nel paziente. L’obbiettivo per i ricercatori in questione è quello di comprendere quali cellule siano colpite nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, così da sviluppare in seguito terapie che ne rallentino il decorso. I ricercatori di Lund sono riusciti a generare strutture 3D simili ai tessuti ippocampali, partendo da cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), chiamate sferoidi ippocampali (HS). Gli sferoidi sono presenti nei cosiddetti neuroni granulari (Pomeshchik et al., 2020).

Nella maggior parte delle specie vertebrate, compresi gli esseri umani, i nuovi neuroni granulari vengono generati nel corso della vita attraverso un processo chiamato neurogenesi e si ritiene che contribuiscano alla formazione della memoria. Il nuovo metodo sviluppato dagli scienziati consentirà di aumentare la produzione di neuroni dell’ippocampo per studiare la neurogenesi umana e, soprattutto, esaminare come le cellule dell’ippocampo, inclusi i neuroni granulari e la glia di supporto, vengono alterate nelle fasi iniziali della malattia. Infatti, tramite questa metodologia sono in grado di generare giovani cellule cerebrali ed esaminare i primi cambiamenti patogeni così da ottenere preziose informazioni sullo sviluppo e la progressione delle malattie cerebrali (Pomeshchik et al., 2020).

I ricercatori hanno anche usato l’HS per esaminare la disfunzione cellulare nella malattia di Alzheimer e, più precisamente, in che modo la patogenesi cellulare differiva tra gli individui. Hanno generato HS da pazienti con estrema sintomatologia – un tipico paziente Alzheimer portatore di una mutazione nel gene della proteina precursore dell’amiloide e un individuo atipico con una rara mutazione nel gene della presenilina 1 e in seguito hanno esaminato la patologia cellulare.

È interessante notare che, nonostante esibissero alcune importanti caratteristiche comuni, le HS dei due geni mutati differivano in molte altre caratteristiche, il che rifletteva in qualche modo la gravità dei loro sintomi (Pomeshchik et al., 2020).

Gli HS possono essere usati per capire come le cellule dell’ippocampo si generano e maturano nel tempo. Possono anche essere usate per esaminare se la neurogenesi è influenzata negli HS generati da pazienti con lesioni dell’ippocampo rispetto ai soggetti di controllo. L’analisi degli HS può rivelare quali disfunzioni cellulari si verificano precocemente nella malattia e se sono identici o diversi tra i pazienti portatori di forme familiari o idiopatiche, inoltre possono essere sfruttati per sviluppare trattamenti su misura per sottogruppi di pazienti e per capire perché alcuni trattamenti potrebbero essere utili o meno (Pomeshchik et al., 2020).

Recentemente sono stati utilizzati gli sferoidi ippocampali per esaminare l’effetto di un gene chiamato NeuroD1, l’espressione virale mediata del NeuroD1 è stata sufficiente per aumentare il livello di geni sinaptici, i cui livelli sono influenzati dalla malattia di Alzheimer, i ricercatori affermano che migliorare la trasmissione sinaptica sarà la chiave per risolvere la cognizione compromessa nella malattia di Alzheimer (Pomeshchik et al., 2020).

 

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