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L’MCT è utile per le psicosi?

Lo studio di Ishikawa e collaboratori (2020) ha valutato l’efficacia di un training metacognitivo (MCT) in 50 pazienti giapponesi con schizofrenia, disturbo schizotipico e disturbi deliranti (ICD-10), proponendo uno studio controllato randomizzato per testare l’efficacia sui sintomi positivi della versione più recente ed estesa dell’MCT.

 

I disturbi legati alla schizofrenia sono una forma comune di psicosi. In episodi acuti, deliri e allucinazioni possono causare disconnessione dalla realtà, oltre a rappresentare un rischio per la durata della vita, di 14,5 anni inferiore rispetto alla media (Hjorthøj et al., 2017).

Per il trattamento di questo spettro di disturbi l’utilizzo dei farmaci antipsicotici è comune, nonostante la loro efficacia sia stata dibattuta, in quanto anche gli antipsicotici di seconda generazione (o atipici) non hanno del tutto soddisfatto le alte aspettative iniziali (Kendall, 2011); per quanto riguarda i sintomi positivi (deliri e allucinazioni), la farmacoterapia antipsicotica atipica appare appena migliore dei placebo, e le ricadute si verificano in circa un quarto di tutti i pazienti (Leucht et al., 2003, 2009).

Diversi approcci psicologici, in particolare di stampo cognitivo-comportamentale (CBT), sono stati sempre più adottati come strategie complementari ai farmaci antipsicotici (Sivec & Montesano, 2012; Wykes et al., 2008).

Uno studio recente (Ishikawa et al., 2020) ha valutato l’efficacia di un training metacognitivo (MCT) di 10 moduli recentemente sviluppato dall’University Medical Center Hamburg-Eppendorf in 50 pazienti giapponesi con schizofrenia, disturbo schizotipico e disturbi deliranti (ICD-10), proponendo uno studio controllato randomizzato per testare l’efficacia sui sintomi positivi della versione più recente ed estesa dell’MCT – che include anche due moduli sull’autostima e sullo stigma, due punti critici di questo disturbo (Sundag et al., 2015; Świtaj et al., 2015). I 50 pazienti sono stati assegnati in modo casuale al trattamento di routine (TAU) (n=26) o al trattamento TAU + MCT (n=24), della durata di dieci settimane.

I pazienti sono stati sottoposti a testistica in quattro diversi momenti: alla baseline, dopo sei settimane dall’inizio del trattamento, immediatamente dopo il trattamento e un mese dopo la fine del trattamento.

La Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS) (Kay et al., 1987) è stata utilizzata per misurare la sintomatologia psicotica positiva; il General Assessment of Functioning (GAF) (American Psychiatric Association, 2000) per la valutazione del funzionamento generale del paziente; il Cognitive Biases Questionnaire for psychosis (CBQp) (Peters et al., 2014) per la valutazione delle distorsioni cognitive; la Beck Cognitive Insight Scale (BCIS) (Beck et al. 2004) per la misurazione dell’insight; il Beck Depression Inventory version 2 (BDI-II) (Beck et al., 1996) per la valutazione dei sintomi depressivi; il 5-Level EQ-5D (EQ-5D-5 L) (van Hout et al., 2012) per la valutazione della qualità di vita.

Dai risultati della ricerca si è visto che i partecipanti al gruppo TAU+MCT hanno mostrato maggior beneficio rispetto a quelli del gruppo TAU per quanto riguarda i sintomi positivi (specialmente i deliri) dopo il trattamento, cosa che si è mantenuta nel follow-up a un mese dopo.

Maggior beneficio è stato riscontrato anche per quanto riguarda il funzionamento generale e, parzialmente, sui bias cognitivi. Nessuna differenza significativa per quanto riguarda i livelli di insight, i sintomi depressivi e la qualità della vita.

Questi risultati sono importanti non solo per la ricerca al servizio della pratica clinica, che non deve mai smettere di cercare soluzioni più efficaci per i problemi psicopatologici, ma anche perché supportano l’ipotesi che un modello (meta)cognitivo occidentale possa essere efficace anche per una cultura non occidentale (Ishikawa et al., 2017).

 

Come percepisco le mie emozioni quando indosso la mascherina: embodied cognition ed implicazioni terapeutiche

Tutti noi, di questi tempi, conosciamo la sensazione di disagio nell’indossare la mascherina, obbligatoria per la protezione dal CoVid-19.

 

Molte riflessioni sono state fatte sulle ricadute che il volto coperto può avere nelle relazioni interpersonali. Sappiamo che si possono capire al meglio le emozioni dell’altro se ne vediamo il viso completo, tramite il sistema dei neuroni specchio, che di fronte ad una persona con la bocca coperta siamo meno abili nel distinguere le sue emozioni, in particolare la gioia ed il disgusto e che il blocco del proprio mimetismo facciale diminuisce l’accuratezza nella comprensione delle emozioni altrui.

Ma cosa accade alle nostre emozioni quando la loro espressione somatica è parzialmente ostacolata dall’utilizzo delle mascherine?

Secondo l’embodied cognition noi conosciamo il mondo attraverso il nostro corpo, con il corpo possiamo agire sulle nostre cognizioni e sugli stati mentali ed i cambiamenti della postura e della mimica facciale incidono sulla nostra percezione. In particolare, secondo la Facial Feedback Hypothesis, il movimento dei muscoli del viso comunica ciò che proviamo non solo agli altri ma anche a noi stessi. Tornando a Charles Darwin: amplificare o inibire l’espressione di un’emozione incide sulla sua intensità percepita della stessa.

Gli studi condotti sull’argomento, in cui ai partecipanti era stata indotta meccanicamente un’inibizione dell’espressione emotiva, per esempio tenendo una penna in bocca o bloccando alcuni muscoli del viso attraverso l’iniezione di una tossina botulinica, hanno dato risultati concordanti con l’ipotesi precedente.

Unendo l’esperienza clinica, gli studi citati e le sensazioni personali, possiamo ragionevolmente supporre che la mascherina sul viso possa essere conside­rata un impedimento fisico alla piena espressione facciale delle emozioni, con tutte le conseguenze che ne derivano. Con il viso parzialmente coperto possiamo trovare maggiori difficoltà a comprendere quali emozioni stiamo provando e possiamo percepirle meno intense.

Se questo fenomeno è facilmente superabile nei soggetti sani, che probabilmente lo compensano in modo spontaneo, maggiori difficoltà possono trovarsi in persone affette da disturbi di personalità, guidate tipicamente da schemi interpersonali disfunzionali, con una forte componente affettiva incarnata spesso poco consapevole. In ogni caso, che sia per il fenomeno dell’embodied cognition, per le difficoltà di comprensione dell’emozione altrui a causa del viso coperto o per i disagi dovuti al senso di “stranezza” nell’indossare una maschera di fronte al proprio terapeuta, è necessario ripensare alle terapia vis à vis in studio tenendo conto della presenza delle mascherine.

Come possiamo aiutare il paziente in terapia a superare questa impasse?

Molti psicoterapeuti hanno optato per la psicoterapia online, per motivi di sicurezza e per ovviare alla restrizione del setting causata dalle mascherine. Quando questo non è possibile e scegliamo di lavorare in studio, occorre compensare con interventi diretti al setting, alla relazione ed alle tecniche corporee. Per chi ancora usa la scrivania può essere il momento di spostarsi sulle poltrone, per avere una visione completa del corpo dell’altro e della sua postura, che compensa in parte la mancanza di informazioni provenienti dalla parte inferiore del viso.

La gestualità tutta italiana nel parlare ci viene in aiuto, enfatizzando la comunicazione di ciò che proviamo e talvolta lasciando poco spazio all’interpretazione!

Gli interventi sulla relazione possono essere ancora più incisivi. Occorre verbalizzare molto ciò che proviamo, chiedere frequenti feedback sulle emozioni del paziente, aiutandolo a spostare l’attenzione dal ragionamento alle emozioni. La terapia dovrebbe essere sempre più calda e vivace.

Utilizzare le tecniche corporee ci aiuta sempre, a maggior ragione in queste circostanze: se induciamo in immaginazione un’emozione, possiamo aiutare il paziente a percepirla, nominarla, individuare le sensazioni somatiche ad essa correlate e memorizzarle per favorirne il riconoscimento anche al di fuori dello studio.

Probabilmente l’uso delle mascherine ci porterà a cambiare abitudini e a spostare la nostra attenzione sulla parte superiore del volto altrui, restituendo agli occhi il valore di “specchio dell’anima”, in attesa di poter rivedere il viso completo dei nostri pazienti e poter mostrare il nostro in completa sicurezza.

 

Musicoterapia, “arte effimera” ed efficace al tempo del coronavirus

Mi sono chiesta: cosa scelgo? Aspettare la fine del lockdown perché non si può fare musicoterapia senza la presenza della persona, senza la risonanza corporea suscitata dal pianoforte a coda, o mi metto in gioco, ricerco modalità nuove?

 

Il segreto della musica risiede tra la vibrazione di chi suona e il battito del cuore di chi ascolta (Gibran)

Effimero…. Dal latino ephemĕrus a sua volta derivato dalle due parole greche sopra e giorno, significa “che dura un solo giorno”.

Niente è più effimero della musica, non si tocca, non si vede… si ascolta, si suona, ma ogni accordo, ogni singolo suono dura anche meno di un istante per lasciare il posto a quello successivo. Eppure nella fusione di tanti singoli attimi sonori nascono musiche capaci di commuoverci, cioè di smuoverci dentro, di farci sorridere, piangere, sognare, sperare, pregare, amare…

L’arte effimera si fonda sul principio che ciò che conta è il percorso di creazione, il tempo, la durata, l’azione stessa di far nascere qualcosa di unico a partire, magari, da pochi elementi.

Torno con il pensiero alla mia infanzia. Adoravo preparare giochi. Disponevo le mie bambole o le mie barbie secondo l’ordine che avevo immaginato; quando ero un po’ più grande, le vestivo e curavo nei particolari. Oppure costruivo casette, allestivo negozi di frutta e verdura, e così via, ma poi quando tutto era pronto, cadeva l’interesse e non giocavo più. Quando sono diventata mamma ho giocato tanto con le mie bambine. Ricordo che anche con loro trasformavamo il divano in una tana, una casetta tutta per loro, oppure costruivamo con i lego abitazioni per i loro pupazzetti. Poi al momento di iniziare il gioco sentivo quella strana noia che avvertivo da bambina. Mi sono chiesta tante volte il perché. Poi ho capito che ciò che mi affascinava era il percorso, era l’azione creativa in sé, prima ancora del risultato e dell’effettiva possibilità di “usare” il materiale preparato.

Nella mia professione di musicoterapeuta sperimento quotidianamente l’arte effimera della musica. Musicoterapia è arte della comunicazione.

Musica, arte, comunicazione, tre termini che si richiamano l’un l’altro nel senso di un agire comune che scaturisce dal suono, dalla musica, perché la musica è dentro l’uomo prima ancora che esserne una sua produzione, per creare un dialogo, un ponte di collegamento, per superare chiusure, per sondare profondità emotive inesplorate, per scoprire o riscoprire la gioia di vivere.

Ma tutto ciò avviene a condizione che la musicoterapeuta sappia creare un dialogo sonoro con l’altro, che sappia leggere e tradurre in suoni non solo la sua corporeità, ma la persona nella sua interezza, e che lo sappia fare in modo bello e autentico. L’improvvisazione comunicativa è pienamente arte effimera. Ciò che conta non è la produzione musicale in sé, ma ciò che scaturisce dal suonare osservando e osservare suonando, come diciamo in gergo stretto. Più la musica rispecchia il bambino come “partitura vivente”, più è bella, perché anche i gesti più scoordinati, la voce più sgraziata, o i silenzi più tenebrosi, possono diventare musica che, attraverso la risonanza corporea (il bambino è seduto o sdraiato sul pianoforte a coda) fa convibrare il suo corpo e suscita in lui emozioni.

In questo tempo di isolamento ho scelto di essere vicina alle famiglie che seguo in musicoterapia proponendo loro una videochiamata settimanale (Fig. 1). Consapevole da subito che senza la presenza concreta, reale, del bambino avrei incontrato tanti limiti direi strutturali, non mi sono fatta abbattere, né da dall’impossibilità di avere il piccolo sul pianoforte, né dall’impossibilità di donargli una musica di qualità (il suono che arriva è talvolta molto metallico).

Musicoterapia cambimento degli interventi durante il periodo di lockdown Imm 1

Fig. 1: Videochiamata tra la musicoterapeuta e le famiglie

Credo che ogni situazione di vita possa insegnarci qualcosa. E ora, dopo qualche settimana di sperimentazione in questo senso, posso dire che sto imparando tanto.

E’ una gioia per me rivedere i volti cari dei bambini di settimana in settimana, e mi sto rendendo conto che è sempre più un momento atteso, non solo da loro, ma anche dalle loro famiglie. La mamma di Andrea (tutti i nomi sono inventati) ha raccontato che il bambino, quando veniva a terapia, esultava di gioia all’ultima curva, prima di parcheggiare l’auto. Quel posto noto, era per lui il segnale che l’ora di musica era finalmente arrivata. Ora accade la stessa cosa con il telefono. Quando la mamma chiama Andrea perché sta squillando il telefono per la videochiamata, lui grida di gioia, proprio come faceva in auto, un attimo prima di scendere.

Le attività proposte ai bambini sono molto varie, come è variegato il mondo famigliare che incontro al di là dello schermo. Ci sono famiglie che si preparano al momento e li trovo seduti al tavolo, papà, bimbo/a, mamma pronti a giocare, cantare, suonare insieme. C’è chi tira fuori dagli armadi piccoli strumenti musicali e chi li costruisce con gusto e fantasia, chi usa oggetti di recupero (pentole che diventano tamburi, pennarelli che fungono da legnetti), chi ha preparato immagini con le filastrocche del nostro repertorio.

Anch’io sto imparando. All’inizio pensavo di fare una chiamata di un paio di minuti. Ho organizzato un orario con una telefonata ogni quarto d’ora. Ben presto mi sono resa conto che quindici minuti sono un soffio. I bambini ascoltano, cantano, suonano, le famiglie sono coinvolte. Scaduto il tempo, davvero effimero, troppo fugace, sono sollevate, ma un poco dispiaciute. Ecco allora che ad alcuni ho proposto di fare telefonate di mezz’ora.

Si è reso necessario pensare e creare materiale da inviare in modo che i bambini, a seconda dell’età e del loro livello possano avere tra le mani spartiti adatti alle loro capacità, filastrocche illustrate, foto degli strumenti musicali che usiamo solitamente per il gioco del riconoscimento dei timbri sonori. Sì, perché forse è difficile crederlo, ma anche questo è possibile fare attraverso e nonostante il telefono.

Ah, dimenticavo, quelli di cui ho parlato sono bambini con autismo, sindromi genetiche, ipovisione, ritardi cognitivi e del linguaggio, paralisi cerebrali infantili….

Qualche volta riesco a dedicare un po’ di tempo anche ai genitori, al termine del nostro incontro virtuale, quando i bimbi ormai sono stanchi e soddisfatti.

Ritorno alla definizione di Musicoterapia come arte della comunicazione. Sto facendo terapia attraverso le videochiamate? Probabilmente no, ma non è questo il mio problema. Sto comunicando? Sicuramente sì, in modo nuovo. Se nel farsi carico della terapia c’è spesso anche la rottura degli schemi del bambino per favorire la sua apertura alla novità che la musica porta in sé e quando diventa dialogo, credo che la prima a rompere i propri schemi, in questo caso sono stata io.

Mi sono chiesta: cosa scelgo? Aspettare la fine di questo lungo periodo perché non si può fare musicoterapia senza la presenza della persona, senza la risonanza corporea suscitata dal pianoforte a coda, o mi metto in gioco, mi apro al nuovo, ricerco modalità nuove e diverse per comunicare con i miei piccoli pazienti e farlo in modo artistico, bello, divertente, per spezzare l’isolamento, per rompere la solitudine, per farmi sentire vicina a tante famiglie?

Ecco allora che una telefonata apparentemente effimera diventa speranza, attesa, rompe la routine, è occasione di confronto, di continuità, di condivisione. Dura pochi minuti, ma ciò che lascia è duraturo ed ha un valore profondo. Certo non mancano le criticità perché vivere l’incontro attraverso lo schermo può essere più frustrante per alcuni bambini e sicuramente più faticoso per i genitori che devono coinvolgersi in prima persona per creare una sorta di cassa di risonanza che favorisca il coinvolgimento del proprio bambino.

Ma purtroppo in questo momento non abbiamo altre possibilità. Dopo qualche settimana di sperimentazione ho chiesto ai genitori come vivono questa nuova modalità di incontro.

Qui di seguito la testimonianza di alcuni di loro.

Scrivono i papà di due bimbi di 7 e 6 anni con autismo: “Questi dieci, quindici minuti diversi della giornata e della settimana servono molto a Nicola (tutti i nomi sono inventati) e gli fanno più che bene perché ti vede [si rivolge a me] e sente la tua voce, oltre che il suono del pianoforte. Questo momento difficile che tutti noi stiamo passando, lo è particolarmente per lui e per i bimbi con difficoltà simili. Il relazionarsi è uno dei problemi principali per loro…qualsiasi relazione intraprendano in questo momento è un toccasana”.

Le terapie musicali con Paola, durante la “clausura”, si sono dimostrate di grande aiuto per Giorgio, gli hanno permesso di spezzare le interminabili giornate in casa. Inoltre l’incontro, anche se breve, ha una sua ritualità: ascoltiamo Paola suonare con la figlia Dolce sentire in una loro registrazione per arpa e violoncello, Giorgio la riconosce e comincia ad aspettare la chiamata. Lui non è sempre attento ma una volta terminato l’incontro virtuale, intona da solo le canzoni della lezione. È una bella esperienza che apprezziamo e ci aiuta molto”.

Anche la mamma di Riccardo risponde alla mia domanda di commentare questo nuovo corso di sedute online.

Dopo tanti anni di musica con Paola, Riccardo ha fatto tanti progressi e iniziato a fare cose impensabili. Poi l’interruzione di tutto e il tutti a casa! […] Durante la prima videochiamata si è emozionato molto, poi ha sentito il suono del pianoforte e le note delle canzoni che conosce…. Per lui non è facile ascoltare, guardare Paola, cantare e seguire lo spartito con le note musicali. Ma si diverte.

In questi mesi sto imparando proprio dal mio bambino che se anche io cerco di mettere in fila tutto per dargli più opportunità e permettergli di fare tutte le esperienze a lui possibili, a volte la realtà può sorprenderci e anche negli imprevisti più impensabili, c’è nascosta una possibilità. In fondo nella mia vita Riccardo è stato ed è, nonostante tutto, un imprevisto meraviglioso!”.

Aggiunge la mamma di Elisa (sindrome di Rett, 14 anni) “In questi anni, con l’aiuto della musicoterapia e di Paola, siamo riusciti ad avere miglioramenti a livello respiratorio, di motricità fine e comunicativo. In questo periodo difficile, quando siamo stati costretti a sospendere tutte le terapie, devo essere sincera, sono entrata in crisi, la paura di vedere Elisa regredire mi spaventava, ma la proposta di fare musicoterapia tramite videochiamate mi ha allettata. Elisa è sembrata da subito entusiasta e felice nel vedere Paola, così abbiamo allungato la durata dell’incontro a mezz’ora. Un altro aspetto molto divertente è la collaborazione della sorella Nadia di 8 anni. Lei dice che è molto contenta di poter interagire con la sorella e di poterla aiutare. In quei trenta minuti la trova più tranquilla e si rende conto che Elisa è felice di suonare e condividere questo momento con lei”.

Scrive la mamma di Lorenzo, 16 anni, con problemi visivi: “Per noi è molto bello mantenere il ritmo delle attività con Lorenzo. In questo periodo faticoso per tutti, stiamo mantenendo un minimo di routine settimanale. Lorenzo ha accolto bene questa modalità di lezione, anche se per lui è faticoso mantenere la concentrazione e fa un po’ di fatica a capire la gestione degli spartiti musicali inviati. Comunque aspetta con ansia l’incontro con Paola… la cosa che notiamo è che dopo l’incontro canticchia le canzoni e rimane coinvolto dalla musica ancora per un’oretta. Lorenzo mi ha detto che gli piace molto la lezione fatta così perché vede Paola e canta le note. Però gli manca il pianoforte!

Molti ancora sono gli scritti giunti a me dalle famiglie, questi sono stati scritti per condividere con il lettore un percorso inventato in questo duro tempo di isolamento per non lasciare sole le famiglie e mantenere il contatto con i bambini.

Concludo con il pensiero della mamma di Roberto, 6 anni con autismo.

Una piccola finestra sulla vita di prima… Le videochiamate aiutano il mio bambino a capire che il mondo di prima non è sparito. Le persone con le quali abbiamo intrecciato relazioni ci sono e le possiamo vedere. Proviamo anche a fare le cose che facevamo prima insieme… la relazione si ricostruisce… la musica fa da ponte tra noi… lontani, ma vicini”.

Con queste parole così profonde e così vere, ritorno con il pensiero alla frase iniziale di Gibran: “Il segreto della musica risiede tra la vibrazione di chi suona e il battito del cuore di chi ascolta”.

Ho ascoltato quel battito, ho sentito il dolore e l’insofferenza di genitori e bambini chiusi nelle loro case e ho reagito, reinventandomi la seduta di musicoterapia, e adattandone modi e contenuti ad ogni singola situazione. E i frutti di questa scelta non mancano!

Così oggi vedo e sento la forza e la bellezza di quel segreto… anche a distanza!

 

La scienza e la vita ordinaria. Dall’emergenza covid all’etica dell’intervento psicologico

La scienza è risultata uno fra i tanti fattori nel gioco di una realtà multidimensionale, accanto a quello politico, sociale, economico.

 

E’ ormai chiaro a tutti: la scienza ha mostrato i suoi confini e la sua natura post-positivista. Eravamo nel ‘post’ già da tanto tempo, ora è apparso evidente ai più. Non si tratta di sterili e inessenziali – alla vita ordinaria – questioni epistemologiche sul concetto di scienza e sui suoi procedimenti, sul rigore logico dei suoi metodi, ma di ricollocare il suo tassello nella casella appropriata, ricordare che essa non è solo materia da laboratorio sperimentale ma fattore fondamentale a governo della nostra vita concreta.

L’esperienza drammatica del covid-19 lo ha imposto brutalmente, ce lo ha messo davanti agli occhi come una allucinazione che non può essere negata, più reale di qualsiasi realtà avremmo potuto ‘allucinare’. Ma nessuno scandalo. Quando si afferma o si sente dire: “Lo dice la scienza”, “Lo dimostra la scienza”, innanzitutto, non si può dimenticare che essa non è un monolite, e, in secondo luogo, che il concetto stesso di scienza è andato evolvendosi continuamente nel corso della storia. Dalla concezione dimostrativa, di tradizione aristotelica a quella descrittiva di Bacone e Newton dell’osservazione empiristica dei fatti, a quella popperiana di autocoreggibilità e via proseguendo. Attraverso un itinerario lungo e tortuoso, oggi la scienza vera sa che non può arrogarsi una pretesa di garanzia assoluta e, quando lo fa, può raggiungere vette grottesche e schernevoli; sa che i passi che fa sono sempre provvisori e smentibili.

Quello che ci ha insegnato la pandemia è che la scienza è una continua ricerca, produzione di fonti, ipotesi da vagliare. E ha mostrato quanto sia faticoso questo percorso. La creatività e l’operosità scientifica rappresentano il volano della ricerca e della tensione a scoprire nuove vie e vincenti soluzioni. Questo suo essere stata catapultata dall’empireo della certezza assoluta alla quotidianità sempre mutevole del dibattito pubblico ha prodotto una certa confusione, non solo di ruoli, ma anche dei limiti del sapere scientifico stesso, della sua apparente inadeguatezza a risposte univoche e immediate, spesso tra interessi in collisione e litigiosi.

La scienza è risultata uno fra i tanti fattori nel gioco di una realtà multidimensionale, accanto a quello politico, sociale, economico. Ovvero, di dimensioni umane. Il centro del dibattito deve ritornare prepotentemente a porre l’accento sull’uomo, cui tutte queste discipline sono funzionali. E’ quello che con termine ‘tecnico’ si usa chiamare etica, il riconoscimento del valore della persona nelle sue caratteristiche intrinseche ed essenziali. Il concetto di ‘etica’ si riferisce al comportamento umano nelle fattispecie concrete degli eventi che accadono e che ‘impongono’ la scelta di una azione deontologica. In questo senso il concetto di scienza si incontra con quello di etica, nella misura in cui il sapere – costruito per tentativi ed errori – può essere messo al servizio del bene comune. La figura dello psicologo, nella sua natura più essenziale, rappresenta colui che si rende umanamente disponibile a mettere al servizio della salute delle persone il proprio sapere, fatto di teorie e strategie tese al sostegno psicologico delle medesime. Diventa sempre più evidente, soprattutto in questa fase successiva alla crisi pandemica, che l’aiuto dello psicologo può risultare fondamentale: ‘può’ non nel senso di una validità probabile del supporto prestato, quanto al riconoscimento della sua efficacia ed accettazione della sua necessità (in situazioni emergenziali come quella che stiamo vivendo) da parte delle persone cui si propone l’aiuto. Questo passaggio dell’accettazione si fonda sulla considerazione mai data per scontata che il lavoro psicologico è un lavoro (percorso) eminentemente personale: la sua validità è oggettiva in sé, ma ha bisogno della consapevolezza della persona circa la sua pertinenza ed utilità alle sue problematiche. E’ il principio della libertà, cui sempre deve essere ricondotta la scelta di iniziare un percorso terapeutico. Iniziarlo è il risultato di una decisione, innanzitutto intima, strettamente connessa alla motivazione personale, fondamentale per il cambiamento. Si tratta del principio cardine di qualsiasi lavoro basato sulla libertà dell’individuo. Troppo spesso il terapeuta si ritrova investito di una responsabilità che appartiene al paziente: sulla durata della terapia, sui suoi costi, sulla sua efficacia, sulla guarigione pretesa. Non si deve invece dimenticare che un percorso psicologico si riferisce ad una conoscenza che non è quella delle scienze matematiche o mediche: prendo un farmaco perché ho mal di testa e il farmaco, senza il mio coinvolgimento, mi fa cessare il dolore (e in verità non sempre); non si riferisce alla misurazione di una funzione tra due variabili.

E’ una conoscenza di un dinamismo dinamico che è la persona, che si riferisce non tanto e non solo ad un aspetto specifico e particolare del mio corpo (anche se spesso l’entry point per un percorso psicologico è il sintomo) ma all’intera mia persona, che soffre e si ammala non solo fisicamente, ma anche nella espressione di una emotività e affettività che provocano uno squilibrio dell’intero organismo.

Una situazione drammatica come quella della pandemia ha mostrato in tutta la sua evidenza quanto ciò che emerge nel mondo reale ci determina, ci ‘costringe’ a certi comportamenti, ci muove inconsciamente in certe direzioni anche nella nostra vita onirica, mostrandoci una angoscia pervasiva, nonostante i nostri sforzi di sedarla. Molte ricerche e studi in questo periodo (quella del King’s College di Londra – sulla correlazione tra eventi stressanti e disturbi del sonno, o quella dell’Università di Harvard – sulla frequenza di incubi e sogni fobici durante la pandemia) hanno messo in evidenza le conseguenze inconsapevoli della percezione di non libertà e di costrizione relative alla nuova situazione di isolamento vissuto durante la fase del lockdown, le cui conseguenze non svaniscono con la semplice riapertura dei confini dei nostri spazi. Anzi, forse proprio tale apertura può far emergere i limiti che noi stessi percepiamo ancora dentro di noi: i confini oggettivi sono eliminati, ma quelli soggettivi rimangono in piedi, forse rafforzati dalle nostre dinamiche antiche.

Allora qual è il lavoro ‘etico’ che necessita in questa situazione? Come porvi rimedio? Certamente non eludendo il problema, non avendo timore di chiedere aiuto, partendo dalla consapevolezza che quello che abbiamo vissuto è un momento unico, non ci saremmo mai immaginati di viverlo, ma soprattutto è un evento comune, siamo tutti coinvolti. Questo rende meno ‘autoreferenziale’ il malessere soggettivo, meno ‘paranoico’ il riferimento delle circostanze come inevitabilità per la mia persona.

Soprattutto ora che vi è l’inizio di un ritorno alla normalità, anche lavorativa, è importante non sottovalutare lo stress legato alle dimensioni connesse alla ripresa delle attività. La psicologia è in grado di dare una risposta adeguata alle nuove angosce legate al vissuto esperito in queste nuove situazioni. Quando si parla della professione dello psicologo/psicoterapeuta ci si riferisce inevitabilmente a due dimensioni: a quella umana, la sensibilità e disponibilità del professionista come persona, e a quella tecnica, ossia l’insieme di strumenti e tecniche messe in campo dal professionista per porre e proporre il suo aiuto a favore dell’intera dimensione del benessere della persona. Non si dimentichi che il concetto stesso di salute è definito dall’OMS come quello stato di benessere psico-fisico e sociale, non esaurendosi semplicisticamente nella assenza di malattia o infermità di sorta. C’è inoltre un aspetto legato alla sensazione di perdere il controllo, da molti vissuto drammaticamente, come sta emergendo spesso dalla pratica clinica. Le certezze messe in discussione durante la pandemia, anche quelle scientifiche circa la natura del virus, possono aver precipitato l’individuo in un deserto di sabbie mobili dove le verità controllate e date per assodate sono state percepite improvvisamente come destabilizzanti il consueto equilibrio.

Ecco perché è importante affrontare un lavoro di consapevolezza, perché anche nelle situazioni meno controllabili si possa imparare quella resilienza tanto citata: il poter riemergere attraverso e grazie alle risorse personali, il cui primo passo è una conoscenza delle proprie dinamiche, dei significati dei propri vissuti e delle angosce correlate.

Tutto questo non può essere un lavoro che la persona fa da sola, almeno non sempre. E’ fondamentale la consapevolezza circa il fatto che, come professionista, lo psicologo può dare supporto attuando strategie pensate appositamente per la singola persona (perché il virus è uno ma il modo di vivere le paure ad esso connesse sono del tutto soggettive) e ricorrendo ad una profilassi adeguata alle situazioni concrete. Le strategie e le tecniche proposte dal professionista sono realmente in grado di contenere l’ansia, di lavorare sui sintomi cercando di svelarne i contenuti di significato che spesso possono affiorare e svelare alla persona stessa i suoi pattern ripetitivi di comportamento disfunzionale. Si possono sfruttare, infine, gli aspetti positivi che sono stati messi in evidenza durante il lockdown, come la possibilità di una diffusione di strumenti di aiuto a distanza, che consentono a tutti di scegliere un professionista anche non fisicamente vicino, creandosi una opportunità (restando nel proprio spazio, conosciuto e confortevole) che forse in tempi normali non avrebbe pensato di sfruttare. Ci possono essere (come dimostra la pratica clinica) dei vantaggi anche nella terapia online, con un setting terapeutico del tutto personalizzato e portato al paziente, che può fare emergere dinamiche diversamente nascoste.

Bodyfulness. La pratica della consapevolezza somatica (2020) di Christine Caldwell – Recensione del libro

Nel volume Bodyfulness – La pratica della consapevolezza somatica, l’autrice Christine Caldwell, manifesta sin dalla creazione di questo nuovo termine, il desiderio di mettere in primo piano un aspetto non realizzato del potenziale umano.

 

La bodyfulness inizia a svilupparsi quando prestate attenzione a ciò che la vostra forma fisica sta facendo o sperimentando, anche se si tratta di azioni familiari.. lavorate osservando semplicemente il vostro corpo in attività respingendo l’impulso a spiegare o a giudicare quello che state facendo o a pensare a qualcos’altro”.

Partendo dall’osservazione del corpo, nella sua forma e funzionamento, la terapeuta propone di lavorare a partire da otto principi quali: oscillazione, equilibrio, cicli di retroazione, conservazione dell’energia, disciplina, cambiamento e sfida, contrasto della novità, associazioni ed emozioni.

Il testo procede con la trattazione delle funzioni corporee che passano attraverso i quattro processi di respiro, percezione, movimento e relazione. E’ dall’esplorazione di tali processi che nelle ricerche teoriche ed esperienziali dell’autrice, diviene possibile aumentare la consapevolezza e la partecipazione dell’azione. Consapevolezza non considerata quale funzione mentale bensì quale processo sensoriale e motorio.

La filosofia, la psicologia e la teoria sociale collegate alla bodyfulness si snodano attraverso i capitoli e allo stesso tempo vi invitano a fermarvi e riflettere o fare esperienza diretta del vostro corpo e dei suoi movimenti, delle sue sensazioni, del suo respiro e delle sue relazioni con gli altri corpi”.

Il volume procede nel considerare i processi corporei esplorati in precedenza, in relazione alla comunità di appartenenza, e come le esperienze vissute o impedite contribuiscano alla costruzione della nostra eredità.

Il volume offre inoltre esercizi autonomi e non strutturati che possono essere integrati liberamente, una volta appresi nella quotidianità, ed altri afferenti ad un capitolo specifico e tratti da tradizioni esistenti, che hanno lo scopo di aiutare a ristabilire una vita somaticamente consapevole.

La sezione finale del libro contiene fonti, dettagli tecnici, curiosità e risorse riguardo tematiche, personaggi e pratiche da cui il libro ha tratto ispirazione teorica e pratica.

 

Covid-19: Acceptance and Commitment Therapy e il dolore per la perdita delle persone care – Report dal webinar della Dr.ssa Oppo

Il ciclo di lezioni proposto da Studi Cognitivi, per approfondire gli aspetti della sofferenza psicologica emersi in seguito all’emergenza Covid-19, continua con il webinar del 12 maggio, condotto dalla Dr.ssa Oppo.

 

The risck of love is loss and the price of loss is grief. (Hilary Stanton Zunin)

L’argomento trattato è particolarmente delicato: il lutto e il dolore che ne consegue.

Per quanto la morte sia un aspetto universale della vita degli esseri umani, spiega la docente, questa porta con sé sempre aspetti e sfumature profondamente personali e unici. Il lutto si manifesta come la risposta ad un evento stimolo, una perdita, e comporta reazioni emotive (come tristezza, angoscia), fisiche (per esempio una stretta al petto) e comportamentali in termini di pensieri (comportamenti interni) ed azioni.

Cosa trasforma il lutto in un lutto complicato? Cosa ci aiuta a distinguere una risposta fisiologica da una risposta che necessita un’attenzione dal punto di vista terapeutico?

Una variabile cruciale è il tempo. La Dr.ssa Oppo spiega come il lutto “non passi mai”: continuiamo a sentire il dolore con la stessa intensità, quello che con il tempo cambia è la frequenza e la durata con cui ci troviamo a viverlo. Appena dopo una perdita il dolore è sordo, arriva e permane. Se questo vissuto non si modifica nel tempo per frequenza e durata deve scattare un campanello d’allarme.

In tutte le culture del mondo si nota una ritualità nell’accompagnare il defunto e i suoi cari: esistono diverse manifestazioni con la stessa funzione lenitiva. Ma cosa succede se il processo naturale del lutto s’inceppa?

L’ACT distingue due tipi di dolore:

  • il dolore pulito: parte ineliminabile dell’esperienza dell’essere umano;
  • il dolore sporco: quello che provoca sofferenza.

Alcuni aspetti molto comuni che ci fanno scivolare verso il dolore sporco e che rischiano di inceppare un meccanismo naturale sono i messaggi malevoli che invalidano il nostro vissuto emotivo. Frasi come “pensa positivo”, “prendi uno Xanax”, “concentrati su qualcos’altro” lasciano intendere che ciò che si sta provando non va bene, che non se ne può parlare, e così il dolore diventa un tabù.

  L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è un approccio terapeutico che usa processi di accettazione e mindfulness e processi di impegno e cambiamento comportamentale per produrre maggiore flessibilità psicologica (Hayes). La flessibilità psicologica è un’abilità per affrontare le sfide che la vita ci porta, un repertorio di comportamenti, simile al coping. Può essere appresa e insegnata. È la capacità di essere aperti, presenti alle proprie esperienze interne e sensibili al contesto, mentre ci si impegna a fare cose che per noi hanno importanza ed azioni concrete verso i valori personali.

All’interno del modello della flessibilità psicologica il contesto costituisce un elemento centrale. La docente spiega, infatti, che per capire cosa mi sta accadendo devo dargli un nome, dignità, devo dargli dei confini, deve essere riconoscibile; non per costringerlo all’interno di un’etichetta, ma per conoscerlo.

Figura 1 – Il modello della flessibilità psicologica.

La Dr.ssa Oppo ha mostrato alcuni processi della flessibilità psicologica che possono essere implicati nel lutto complicato:

  1. Disengaged: allontanarsi da cosa ha senso per noi, la sensazione che nulla abbia più significato, la mancanza di azioni impegnate, azioni con un profondo valore personale (come andare a trovare una persona a noi cara anche se si è molto stanchi). È come se l’individuo perdesse la vitalità, come se non riuscisse a vedere altro che la sua sofferenza: non si sente ingaggiato, non è propositivo, non ha uno scopo.
  2. Combattere con le proprie esperienze interne: sentirsi intrappolati nei propri pensieri (fusione), faticare a credere che la persona cara non ci sia più (negazione), attuare un evitamento esperienziale (con strategie covert e overt) per non sentire le proprie esperienze interne.
  3. Mancanza di presenza: la mente è intrappolata nel passato o nel futuro, per cui non si riesce a vivere nel momento presente. In terapia bisogna partire da questo aspetto, perché se il paziente non è nel presente non si accorgerà di quello che gli succede intorno, l’intervento del terapeuta non avrà senso, non verrà colto. Come notare la mancanza di presenza? Per esempio quando il paziente è perso nello story telling  (“da quando mio marito è morto, è morta una parte di me”, “non sono più quello di prima”). È una situazione simile ai sintomi dissociativi.

Il modello Hexaflex (modello della flessibilità psicologica o modello ad esagono) mostra i processi da promuovere.

Figura 2 – I processi da promuovere nel modello Hexaflex

La parte centrale, in grigio, comprende i due processi di AWARE (presenza):

  • Contatto con il momento presente: può essere raggiunto con l’uso di strategie che si servono dei 5 sensi (per esempio la respirazione, la propriocezione).
  • Sé come contesto: spesso di fronte a una perdita si tende a dare delle definizioni assolute di sé, come “prima ero così …”, “sono finito”, “sono vedovo”, “sono orfano”, che non lasciano spazio ad altro ed implicano una funzione evocativa di profonda sofferenza. È importante riportare il paziente a una dimensione in cui esista più di un punto di vista, in cui esistano tante parti di sé con una voce propria. Bisogna attuare un allargamento di prospettiva, riscoprire un sé indipendente da valutazioni, che si osserva nel qui ed ora.

La parte a sinistra, in rosso, mostra i due processi di OPEN (apertura):

  • Accettazione: capita che le persone di fronte a un lutto minimizzino, dicendo frasi del tipo “non è successo niente”, “non sono l’unico che ha perso una persona cara”, mettendo in atto un evitamento esperienziale.
  • Defusione cognitiva: descrive la situazione in cui la persona crede letteralmente ai propri pensieri, “non riesco a credere che non lo vedrò più”, si chiude e si irrigidisce.

La parte a destra, in verde, mostra i due processi di ENGAGE (impegno):

  • Valori.
  • Impegno nell’azione.

Questi ultimi due processi presuppongono la riscoperta della propria vitalità e il coinvolgimento del paziente in attività che abbiano per lui un significato, che rispecchino un valore personale.

La docente spiega come nei colloqui che si effettuano durante le prime fasi del lutto l’unica cosa che si può fare è “stare con quello che c’è”. Tutto è ammesso, tutto vale. Si validano le emozioni, si dà spazio e dignità a quel dolore, che magari non trova spazio altrove. Si iniziano ad applicare tecniche per stimolare specifici processi solamente in un secondo momento, partendo sempre dal lavoro sul contatto con il momento presente.

 

Teoria della perdita di vigilanza e caratteristiche di chi soffre di attacchi di panico notturni

Più della metà di chi soffre di disturbo di panico sperimenta anche attacchi di panico (AP) notturni (Smith, 2019).

 

Il DSM-5 classifica gli attacchi di panico notturni entro la più ampia categoria degli attacchi di panico inaspettati, che cioè si verificano indipendentemente da fattori situazionali scatenanti (APA, 2013). Gli attacchi di panico notturni presentano gli stessi sintomi di quelli diurni, ma avvengono nella fase di passaggio dal sonno più leggero a quello più profondo (Craske & Rowe, 1997). Ciò significa che chi sperimenta attacchi di panico notturni si sveglia nel mezzo di un attacco di panico (Craske & Rowe, 1997).

Soffrire di panico notturno può comportare la tendenza a evitare l’addormentamento, per timore di svegliarsi in uno stato di panico. Pertanto, alcune conseguenze degli attacchi di panico notturni sono l’insonnia e la deprivazione di sonno (Craske & Tsao, 2005). Diverse possibilità sono state esplorate per comprendere cosa differenzi chi ha solo attacchi di panico diurni da chi li prova anche nel sonno. Secondo la teoria della paura di perdita di vigilanza (the fear of loss of vigilance theory; Tsao & Craske, 2003), chi soffre di panico notturno teme le situazioni in cui si riduce l’attenzione prestata agli stimoli circostanti, come negli stati di ipnosi, nei momenti di relax e, appunto, durante il sonno. Infatti, in tali situazioni può essere più difficile proteggersi da eventuali minacce.

Smith, Albanese, Schmidt e Capron (2019) hanno espanso la teoria della paura di perdita di vigilanza, cercando di delineare ulteriormente quali caratteristiche siano specifiche di chi ha attacchi di panico notturni. Gli autori hanno ipotizzato che le persone che soffrono di AP notturni manifestino maggior intolleranza dell’incertezza, cioè facciano più fatica a sostenere situazioni imprevedibili e incerte. Questo perché avrebbero più timore che durante la notte possa accadere un evento imprevisto, come un attacco cardiaco o un disastro naturale, a cui non sarebbero pronte a reagire.

Inoltre, chi soffre di panico notturno potrebbe avere una maggior tendenza a sentirsi responsabile di causare del male, tendenza che può anche essere intesa come incapacità di prevenire un danno. Quindi potrebbe avere maggior timore di non essere in grado di proteggersi da eventuali minacce durante il sonno.

Infine, una maggior sensibilità all’ansia, in particolare rispetto alla tendenza a interpretare sensazioni corporee sgradevoli come più pericolose di quanto siano, potrebbe essere peculiare di chi ha attacchi di panico notturni.

Per verificare queste ipotesi, Smith e colleghi (2019) hanno condotto uno studio su un campione di individui di età compresa tra i 18 e i 79 anni. Il campione è stato diviso in tre gruppi: persone con attacchi di panico sia notturni che diurni, persone con attacchi di panico solo diurni e controlli, cioè persone senza attacchi di panico.

I partecipanti hanno completato dei questionari self-report rispetto alle tre dimensioni prima citate: intolleranza all’incertezza (Intolerance of uncertainty scale, IUS-12; Carleton et al., 2007); responsabilità di causare del male (sottoscala ‘responsabilità di causare del male’ della Dimensional Obsessive Compulsive Scale, DOCS; Abramowitz et al., 2010) e sensibilità all’ansia (Anxiety sensitivity index-3, ASI-3; Taylor et al., 2007).

I risultati indicano che sia chi soffre di attacchi di panico esclusivamente diurni, sia chi soffre di attacchi di panico anche notturni, ha ugualmente timore delle situazioni di incertezza. Tuttavia, in aggiunta a questo, chi soffre di attacchi di panico notturni si sente anche meno capace di agire in situazioni imprevedibili.

Inoltre chi soffre di attacchi di panico notturni teme maggiormente di essere incapace di prevenire eventi dannosi e quindi di proteggersi dalle loro spiacevoli conseguenze. Un’ipotesi che la ricerca futura potrebbe testare è che la preoccupazione di non aver fatto il possibile per proteggersi sia connessa all’ipervigilanza notturna. L’ipervigilanza notturna infatti si traduce in comportamenti come dormire con le luci accese o assicurarsi ripetutamente che porte e finestre siano chiuse prima di andare a letto.

Un dato curioso è che chi soffre di attacchi di panico notturni risulta essere più sensibile all’ansia, ma non rispetto alle sensazioni corporee come ipotizzato, bensì rispetto alla componente sociale. Ossia, chi ha attacchi di panico notturni sembra preoccuparsi di più del giudizio o rifiuto altrui. Ciò potrebbe significare che chi ha attacchi di panico notturni teme che una persona con cui dorme possa notare e giudicare negativamente le proprie difficoltà legate al sonno. Un’altra possibilità, che andrebbe ulteriormente studiata, è che chi sperimenta attacchi di panico notturni abbia anche problematiche di ansia sociale.

Oltre a supportare la teoria della perdita di vigilanza, i risultati di questo studio forniscono un contributo allo sviluppo di trattamenti per intervenire sugli attacchi di panico notturni. Ad esempio, lavorare sul timore di essere incapaci di reagire in situazioni di minaccia inaspettate potrebbe rappresentare un importante aiuto per contrastare l’insorgenza di attacchi di panico notturni.

MSAD: lo studio longitudinale che da 26 anni si occupa del Disturbo Borderline di Personalità

Il MSAD ha permesso nel corso degli anni di osservare e descrivere molti aspetti dei pazienti con BPD. Lo studio ha cercato sia di cogliere le peculiarità della patologia, sia di analizzare i soggetti al di là del loro disturbo, esplorandone le esperienze, lo stile di vita, l’ambiente di riferimento e le caratteristiche personali.

Francesca Frigerio – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) ha ricevuto un’attenzione crescente negli anni a causa dell’aumento della sua diffusione all’interno della popolazione, della menomazione sociale che ne deriva e del grande utilizzo da parte di questi pazienti dei servizi di salute mentale (Zanarini et al. 2005).

Durante il tirocinio post-lauream ho avuto l’occasione di lavorare per 6 mesi all’interno del laboratorio diretto dall’Ed.D. Mary Zanarini, esponente di spicco nel panorama psicologico e professore universitario presso l’Harvard Medical School a Boston. All’interno di questo contesto, ho potuto osservare da vicino il suo lavoro e partecipare al progetto di ricerca MSAD (McLean Study of Adult Development), uno dei primi studi con l’obiettivo di descrivere il decorso e l’outcome del Disturbo Bordeline di Persoalità.

Questo progetto nasce nel 1992 grazie al lavoro dell’Ed.D Mary Zanarini e dei suoi colleghi e collaboratori nella cornice del McLean Hospital a Belmont (Massachusetts, USA), polo ospedaliero di riferimento per la facoltà di medicina dell’Università di Harvard. Si tratta di uno studio longitudinale della durata di 26 anni che ha coinvolto 362 soggetti: 290 che soddisfacevano i criteri per il Disturbo Borderline di Personalità e 72 che soddisfacevano i criteri per un altro Distrurbo di Personalità (OPD). Il campione iniziale è stato selezionato dal bacino di pazienti che sono stati ricoverati nella struttura ospedaliera tra marzo del 1991 e dicembre 1995 (Morey et al. 2000).

Per essere ammessi alla ricerca i soggetti dovevano soddisfare alcuni criteri d’inclusione: avere un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, una diagnosi per un disturbo di Asse II (DSM-III-R), un Q.I. maggiore di 71, parlare fluentemente inglese e non presentare una storia o una sintomatologia riconducibile a un disturbo organico, un disturbo dello spettro della Schizofrenia o un Disturbo Bipolare I (Morey et al. 2000). Nel corso degli anni, la maggior parte dei partecipanti ingaggiati alla baseline si é prestata con cadenza biennale alla raccolta dati. Il tasso di abbandono e le interruzioni causate da morte accidentale o suicidio non sono stati particolarmente elevati (più del 70% dei partecipanti ha completato lo studio) (Temes et a., 2019).

Negli anni i soggetti sono stati testati tramite una batteria composta da questionari autosomministrati ed eterosomministrati, pensata ad hoc per studiarne la vita, le caratteristiche personali e l’andamento della patologia. La batteria, infatti, includeva strumenti che avevano lo scopo di raccogliere dati:

  • anamnestici e demografici – i.e. BIS (Baseline Information Schedule), AHI (Abuse History Interview);
  • riguardanti la psicopatologia – i.e. SCID-I (Structured Clinical Inter- view for DSM-III-R Axis I Disorders), DIB-R (Revised Diagnostic Interview for Borderlines), DIPD-R (Diag- nostic Interview for DSM-III-R Personality Disorders);
  • sanitari e sul funzionamento generale – i.e., MHSUI (Medical History and Services Utilization Interview), GAF (Global Assessment of Functioning);
  • riguardo l’affettività – i.e., PAS (Positive Affect Scale), DAS (Dysphoric Affect Scale) – , il funzionamento cognitivo – i.e., DIB-R, DES (Dissociative Experiences Scale) – e le caratteristiche personali – i.e., NEO-FFI (Five-Factor NEO Inventory of Personality), DSQ (Defense Style Questionnaire) (Zanarini et al. 2005; Frankenburg & Zanarini, 2004).

Gran parte delle analisi effettuate alla baseline avevano l’obiettivo di indagare il ruolo degli eventi di vita avversi nell’eziopatogenesi del BPD. Da queste ricerche è emerso che la gravità delle violenze sessuali subite in età infantile e di altre forme di abuso e di trascuratezza può giocare un importante ruolo nella severità sintomatologica e nella menomazione del funzionamento psicosociale, tipica dei pazienti con BPD (Zanarini et al. 2002). L’abuso sessuale non è né necessario né sufficiente per lo sviluppo del disturbo, ma le esperienze avverse precoci, in particolare la trascuratezza da parte dei caretakers di entrambi i sessi, sembrano rappresentare fattori di rischio significativi (Reich et al. 1997).

All’interno dello studio, una speciale attenzione è stata data alla comorbilità del BPD con altre psicopatologie, sia appartenenti all’Asse I che II del DSM-III-R. In particolare, rispetto alla comorbilita con patologie di Asse I, si é notato che il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) sembra comunemente, ma non universalmente, associato al BPD, in contrasto con l’idea che la patologia Borderline non fosse altro che un PTSD cronico. I Disturbi Alimentari sono risultati piu comuni nelle donne, mentre i Disturbi da Uso di Sostanze negli uomini. I Disturbi d’Ansia e quelli dell’Umore, invece, sembrano equamente presenti all’interno della popolazione di pazienti con BPD (Zanarini et al. 1998).

Per quanto riguarda la comorbilita con i disturbi di Asse II, è emersa una relazione particolarmente stretta tra il BPD e i disturbi del cluster ansioso. Inoltre, sembra essere presente una differenza importante tra i generi: sebbene le frequenze dei Disturbi Evitante e Dipendente di Personalità fossero simili, i Disturbi Paranoide, Passivo-aggressivo, Narcisista e Antisociale di Personalità risultavano essere molto più comuni all’interno della popolazione maschile (Zanarini et al. 2018).

Il grande bacino d’informazioni ottenuto dai 24 anni di follow-up ha anche permesso di analizzare l’evoluzione della patologia e i cambiamenti nelle aree di vita dei soggetti presi in esame. Sono molti, infatti, gli aspetti analizzati nella maggior parte dei follow-up per potere di monitorare l’andamento in modo continuo, come i fattori predittivi dell’ottenimento della guarigione (recovery) dal BPD. Nello studio, per recovery si definisce un periodo di follow-up di almeno 2 anni durante il quale i pazienti non soddisfacevano più i criteri per la diagnosi di DBP e mostravano buon funzionamento psicosociale e professionale. Nel corso di 20 anni, nei quali solo il 39% dei pazienti con BPD ha ottenuto il recovery rispetto al 73% del campione di controllo (OPD), sono state individuate 5 variabili che sembrano essere predittive di un eccellete guarigione: un QI più alto, un’infanzia sufficientemente serena, una buona storia professionale negli adulti, bassi tratti di nevroticismo (neuroticism) ed alti tassi di piacevolezza (agreeableness). I risultati di queste ricerche suggeriscono che la completa guarigione è difficile da raggiungere per i pazienti con BPD, anche nel lungo periodo (Zanarini et al. 2006).

Il MSAD ha anche affrontato alcuni tra i temi più delicati riguardanti questa patologia, come il rischio suicidario e i gesti autolesivi. Dopo 24 anni, il numero di pazienti con BPD deceduti in seguito a un atto suicidario era molto più alto rispetto a quello dei soggetti con OPD (5,9% vs 1,4%). I ricercatori hanno riscontrato, inoltre, che le persone con BPD sono generalmente più a rischio di una morte prematura rispetto alla popolazione di controllo, infatti, anche il numero di morti non suicidarie superava di molto quello dei pazienti con OPD (14,5% vs 5,5%). Il rischio di suicidio e morte non suicida in soggetti con BPD sembra essere sproporzionatamente più elevato nei soggetti che non hanno raggiunto la guarigione (recovery) (Temes et al. 2019).

Per quanto riguarda i gesti autolesivi, invece, il 91% del campione di pazienti con BPD presi in esame ha riportato una storia di automutilazioni, distribuendosi in modo abbastanza lineare rispetto all’età d’esordio di queste pratiche (il 32,8% prima dei 12 anni, il 30,2% tra 13 e 17 anni e il 37% dopo i 18 anni). Analizzando più approfonditamente i dati ottenuti dai soggetti, è emerso come i pazienti con un esordio infantile di atti autolesivi sembrano riportare più episodi, una costanza nel tempo e un numero maggiore di metodi utilizzati per l’automutilazione rispetto ai soggetti che hanno iniziato queste pratiche in adolescenza o in età adulta (Zanarini et al. 2006).

A temi più classici si è alternata l’esplorazione di aspetti più originali e meno trattati del disturbo, come la frequenza di utilizzo di servizi per la salute mentale, le malattie croniche associate o la qualità del sonno. Rispetto a quest’ultimo argomento, dopo aver mostrato la possibile associazione tra l’assenza di disturbi del sonno e lo stato di recovery dei pazienti con BPD (Plante et al. 2013), i ricercatori si sono concentrati sui pensieri e gli atteggiamenti disfunzionali rispetto al dormire. Dall’analisi dei dati raccolti sembra che i pazienti con BPD non recovery presentino un tasso significativamente più alto di cognizioni maladattive legate al sonno rispetto ai soggetti che hanno raggiunto uno stato di guarigione (Plante et al. 2013).

Il MSAD ha permesso nel corso degli anni di osservare e descrivere molti aspetti dei pazienti con BPD, cercando sia di cogliere le peculiarità della patologia, che di analizzare i soggetti al di là del loro disturbo, esplorandone le esperienze, lo stile di vita, il contesto in cui sono inseriti e le caratteristiche personali. Le analisi sull’ampio campione sono state effettuate per 26 anni, generando una sequenza di fotografie che hanno dato la possibilità di monitorare l’andamento di molti aspetti in modo continuo. Inoltre, il MSAD ha offerto molti spunti di riflessione, utili per approfondire le caratteristiche prese in esame o per studiarne di nuove.

 

Dungeons and Dragons tra empatia e assorbimento

Che abilità sono implicate mentre si gioca a Dungeons and Dragons? Come mai e in che misura si è soliti giocare un primo personaggio molto simile a noi stessi? Perché col passare del tempo si diventa più bravi a fare del roleplay? Quanto questa attività è impegnativa dal punto di vista cognitivo?

 

Nell’esperienza degli autori di questo articolo alcuni fenomeni legati alle partite di Dungeons and Dragons sono piuttosto ricorrenti e, dato anche le nostre competenze come dottori in scienze psicologiche, ci è sembrato opportuno affrontare in maniera più scientifica certi aspetti su cui abbiamo avuto modo di confrontarci fra di noi in primo luogo. Ad esempio: come mai e in che misura si è soliti giocare un primo personaggio molto simile a noi stessi? Perché e in che misura col passare del tempo si diventa più bravi a fare del roleplay? Quanto questa attività è impegnativa dal punto di vista cognitivo? Che abilità sono implicate mentre si gioca a D&D? Perché alcune persone sembrano avere più difficoltà ad “entrare nel meccanismo” rispetto ad altre? Che cosa implica un ribaltamento (o anche solo un cambiamento) delle dinamiche fra i giocatori dentro e fuori una partita di D&D?

Questi, e molti altri dubbi ci hanno spinto a condurre una piccola ricerca nella letteratura anche solo per soddisfare la nostra curiosità e guardare al gioco che tanto amiamo con occhio anche critico oltre che benevolo. Tuttavia, prima di addentrarci nel focus di questo articolo, conviene chiarire qualche termine e porsi altre domande…

Ma cos’è questo D&D?

Dungeons & Dragons (D&D) è un Role-Playing Game (RPG), ovvero un gioco cooperativo, di improvvisazione, strutturato e una forma libera di “storie interattive” (Phillips) che hanno luogo nell’immaginazione dei partecipanti, generalmente radunati ad un tavolo mentre usano carta e penna per tenere traccia di eventi e fare annotazioni personali.

I giocatori si trovano dunque in un ambiente immaginario condiviso in cui possono interpretare un personaggio-protagonista che può essere anche molto diverso da loro (un po’ come se diventassero degli attori per certi versi), di questo personaggio scelgono quindi aspirazioni, caratteristiche di personalità, storia pregressa e ne plasmano il destino attraverso le scelte che compiono durante la storia esposta dal Dungeon Master (o game-master).

Il Dungeon-Master (DM) è solitamente una sorta di narratore che descrive l’ambiente che circonda gli altri giocatori, spesso è chiamato a descrivere l’esito delle azioni o degli eventi scatenati dai giocatori così come ad interpretare tutti i Personaggi Non Giocanti (NPC) con cui il gruppo di giocatori ha a che fare.

Ma cosa c’entra tutto ciò con la psicologia?

Negli ultimi 30 anni c’è stata una crescita enorme per quanto riguarda l’industria dei giochi (Global Games Market Report, 2015), sia quelli da tavolo, sia quelli che coinvolgono mezzi tecnologici che permettono la comunicazione a distanza (ovvero internet). Si può dire che essi hanno avuto e continuano ad avere un forte impatto sulle persone ed è quindi interessante interrogarsi su come sia questo “impatto” e se ci sia qualcosa da cui imparare da questo fenomeno.

In merito a D&D e ai giochi RPG (o MMORPG quando si tratta di parlare di quelli che avvengono online, tramite computer o console), la psicologia si è affacciata ad essi con numerose domande sugli effetti che possono avere sui giocatori. Prima di passare al tema principale di questo articolo è opportuno quindi dare una sbirciata ad altri temi importanti che lo riguardano e che toccano molto da vicino la psicologia.

Andando molto a ritroso e parlando di evoluzione, oltre che di etologia, è interessante notare come gli esseri umani non siano gli unici a inscenare certi tipi di comportamenti o a prestarsi a giochi di “finzione” dove ci sono ruoli più o meno definiti (Owens and Steen 2001). Senza scomodare leoni adulti che si fingono abbattuti quando morsi dai loro cuccioli, un esempio più prossimo all’esperienza di tutti i giorni riguarda ad esempio la posizione di gioco assunta dai cani (zampe anteriori poggiate al terreno e posteriori molto alzate, come a mostrare il sedere) che invita l’altro a intraprendere una serie di attività solitamente innocue in cui spesso a turni si rincorre o si viene rincorsi. Questa modalità di gioco in realtà darebbe l’opportunità di sperimentarsi e fare pratica di abilità molto importanti legate alla sopravvivenza, così come di stimolare il cervello anche solo attraverso i famosi neuroni specchio (Rizzolatti et al., 1998) che sono delle cellule cerebrali che si attivano involontariamente quando vediamo un’azione compiuta da altri, piuttosto che quando la intraprendiamo noi stessi. Questi stessi neuroni specchio a loro volta sono coinvolti in apparati che non si differenziano per attività legate agli RPG (o MMORPG), alla recita in un film, o all’immaginare le emozioni di un personaggio di D&D (Lieberoth, 2013). Infatti il cervello recluta questi network neurali evoluti per fare (o per fare esperienza di) queste cose nella vita reale, il che potrebbe essere anche una ragione del perché guardare un film o una fiction potrebbe portare ad un incremento di abilità come l’empatia, la comprensione e la capacità di assumere la prospettiva degli altri (Mar et al., 2009; Kaufman and Libby, 2012).

Prendendo in considerazione quanto detto e inserendolo nel contesto della pratica clinica e di alcuni tipi specifici di terapie (se non di scuole di pensiero in merito alla terapia in generale), può diventare centrale la possibilità di mettere in scena (anche solo attraverso l’immaginazione) quelle che possono essere le situazioni dolorose di una persona o le sue paure, specie quando si è in un luogo sicuro in cui affrontarle.

Un esempio concreto di tipi di terapia legate alla “messa in scena” possono essere infatti ritrovate nello Psicodramma (in cui i partecipanti esplorano emozioni e vissuti personali attraverso la drammatizzazione teatrale) o come tecnica tipica di una terapia della Gestalt (in cui vi è la considerazione della persona come un “tutto” e vi è anche una grande considerazione del non-verbale), dove ad esempio ne “la sedia vuota” si invita il paziente ad immaginare un interlocutore a cui parlare e da cui ricevere anche risposte, o addirittura nella tecnica espressiva dell’”esagerazione e sviluppo”, dove si dà il compito di esagerare e ripetere un certo tipo di gesto, suono o azione compiuti dal paziente.

Senza soffermarci troppo su questi aspetti aggiungiamo solo che l’esplorare i propri problemi, senza subire le conseguenze di fare un “errore”, o il riuscire a fermarsi e il non farsi coinvolgere dalle dinamiche/emozioni/reazioni che portano a conseguenze nefaste, ha un valore indubbiamente ampissimo che certamente merita una descrizione che va ben oltre lo scopo di questo articolo.

In base a quanto riassunto finora, appare chiaro dunque quante potenzialità abbia il mondo di Dungeons & Dragons, dove sin già dalla creazione del personaggio il giocatore ha la possibilità di esplorare nuovi modi di essere e mettere l’accento su alcuni aspetti di sé stesso più che altri, o anche interagire con le persone che lo circondano in maniera diversa rispetto al solito, aprendo le porte quindi a possibilità che difficilmente si permetterebbe di darsi.

La creazione di personaggi che agiscono e pensano in maniera differente rispetto al proprio (fatto che nell’esperienza degli autori di questo articolo si verifica praticamente tutte le volte che si gioca a D&D, anche solo a causa del fatto di essere inseriti in un contesto diverso dalla propria realtà) contemporaneamente necessita e stimola la capacità di comprendere modi di agire, motivazioni, emozioni, credenze, fino anche ad interpretazioni di cosa ci possa essere nella mente di qualcuno diverso da noi, costrutto che in psicologia può essere assumibile e riassunto nei termini di Teoria della mente, definibile come l’abilità di riflettere sugli stati mentali, sulle credenze, sui desideri e le intenzioni, così come la capacità di comprendere gli stati mentali per spiegarsi e predire il comportamento degli altri (Apperly, 2012). E se ciò è vero per i giocatori-protagonisti della storia, lo è ancora di più per il DM che nel corso di una singola sessione di gioco potrebbe ritrovarsi ad interpretare più di un personaggio (a seconda delle interazioni sociali che i protagonisti vogliono intraprendere durante la partita) moltiplicando quindi il livello di concentrazione (e di difficoltà) per tenere a mente stati mentali di individui diversi non solo dal loro “attore”, ma anche fra loro stessi.

D&D vs Empatia e Assorbimento

Andando nel cuore del tema principale di questo articolo, uno studio che tratta direttamente dei livelli di empatia degli individui che si impegnano nei giochi di ruolo è quello di Rivers et al. (2016), nel quale gli autori ipotizzano come il giocare assiduamente un personaggio possa portare all’incremento delle “perspective taking skills” (abilità di assumere prospettive altrui) da parte dei giocatori, in quanto essi devono alterare il proprio punto di vista rispetto alla realtà per meglio interpretare il personaggio che stanno giocando.

Lo strumento da loro utilizzato per l’analisi delle capacità empatiche dei partecipanti è stato il Davis IRI (1983, 1994); tale questionario richiede di rispondere ad ogni domanda tramite una scala likert a 5 punti con i quali si esprime il grado di accordo o disaccordo su quanto la frase sia rappresentativa della propria persona o esperienza. Il questionario è così suddiviso nelle seguenti sottoscale:

  • Fantasy: la quale indica la tendenza a trasporre se stessi nei sentimenti e nelle azioni di personaggi fittizi di libri, film e spettacoli (con domande del tipo: “Quando leggo una storia o un romanzo interessanti immagino come mi sentirei se gli eventi della storia stessero accadendo a me”);
  • Emphatic concern: la quale indica i sentimenti di simpatia e preoccupazione riguardo gli altri (“Mi descriverei come una persona dal cuore tenero”);
  • Perspective taking: la tendenza ad adottare spontaneamente il punto di vista degli altri (“Quando sono arrabbiato con qualcuno, solitamente cerco di mettermi nei suoi panni per un po’ di tempo”);
  • Personal distress: riguardante i sentimenti di ansia e disagio provati in situazioni interpersonali (“Tendo a perdere il controllo durante le emergenze”).

Come accennato precedentemente, gli autori ipotizzano inoltre come l’interpretare un personaggio per lunghi periodi di tempo possa avere effetto anche sulle capacità del giocatore di essere completamente assorbito della propria esperienza di gioco, supportando questa ipotesi col fatto che chi possiede alti livelli di assorbimento sia anche più incline a fare esperienza di particolari tipi di assorbimento empatico o interpersonale con personaggi presenti in libri, film e spettacoli teatrali.

Gli autori riportano come tale caratteristica sia rintracciabile nelle persone che si perdono nelle esperienze dei personaggi con cui si identificano. Tale tipo di assorbimento interpersonale sembra inoltre legato ad un alto grado di apertura alle esperienze.

Il secondo questionario utilizzato nello studio analizzato di Rivers et al. (2016) è quindi il Tellegen Absorption Scale (TAS), che si prefigge di misurare i livelli di assorbimento nei giochi di ruolo con risposte del tipo vero/falso. Il questionario è stato quindi costruito in modo da indagare l’assorbimento concettualizzato come una disposizione ad andare incontro ad episodi di totale attenzione i quali richiedono l’utilizzo totale delle proprie risorse rappresentazionali (rappresentazioni di percezioni, di idee, di azioni etc.).

Conclusioni

Spesso e volentieri si ha una visione del giocatore medio di D&D come di una persona “isolata nel suo mondo”, lontana da aspetti sociali ed emotivi della vita reale, forse senza nemmeno una grande comprensione delle dinamiche fra persone o della realtà che lo circonda.

In realtà in base ai risultati dello studio sopra menzionato si evince una tendenza che favorisce la teoria degli autori, i quali hanno trovato come i partecipati abbiano ottenuto una media superiore a quella della popolazione generale per quanto riguarda le sottoscale riguardanti l’empatia, senza che vi fosse alcuna differenza tra uomini e donne partecipanti allo studio. Inoltre è emerso come la variabile “assorbimento” (analizzata dal questionario TAS) sia in correlazione ed associata a livelli di empatia maggiori.

Quindi, al contrario dello stereotipo del ragazzo con la “testa fra le nuvole” o “chiuso nel suo mondo”, un più alto coinvolgimento da parte dei giocatori potrebbe essere ciò che contribuisce o è necessario per sviluppare quelle stesse abilità empatiche discusse finora.

Vogliamo infine ricordare che D&D e terapia sono cose ben distinte, nonostante abbiano punti in comune e affinità (sotto alcuni punti di vista), il loro scopo è assai dissimile. Mentre la terapia si occupa di malessere psichico o difficoltà riscontrate nella vita quotidiana, D&D si prefigge piuttosto come un mezzo di intrattenimento e (aggiungeremmo) ritrovo sociale. Ad ogni modo il partecipare a sessioni di D&D sembra essere un’attività da incoraggiare in quanto sembra mostrare di avere effetti positivi molteplici, tra cui quello che riguarda i livelli di empatia dei partecipanti.

Gli autori di questo articolo vi invitano dunque ad armarvi di D20 (dado a 20 facce per giocare a D&D), lasciandovi con questa citazione:

The use of this game as an adjunct to therapy can allow patients an opportunity to explore their mental dungeons and slay their psychic dragons

L’uso di questo gioco come un’aggiunta alla terapia può dare ai pazienti un’opportunità di esplorare i loro dungeon mentali e uccidere i loro draghi psichici (Blackmon, 1994).

 

La gestione dello stress nell’Emergenza Covid-19: emozioni ed isolamento – Report dal webinar del Dott. Mazzoni

Il quinto intervento, organizzato da Studi Cognitivi per approfondire alcuni aspetti psicologici relativi all’emergenza Covid-19, ha avuto come protagonista il Dr. Mazzoni.

 

Il webinar, tenutosi l’08 maggio, ha esplorato le modalità di gestione dello stress e di regolazione delle emozioni nel contesto di isolamento. La lezione è stata chiara ed esauriente: sono stati proposti gli argomenti in modo dettagliato, arricchiti da riferimenti tratti dalla letteratura e da molti esempi in merito all’esperienza clinica del docente.

Il Dr. Mazzoni ha iniziato il suo intervento ripercorrendo le fasi della pandemia e dell’emergenza sanitaria. In passato ci siamo già confrontati con avvenimenti critici, legati alla diffusione di un virus (SARS), alla guerra (Vietnam), al terrorismo (11 settembre), o a catastrofi naturali (terremoto di L’Aquila). Questi eventi hanno messo a dura prova intere comunità e, grazie alle relative ricerche e testimonianze, ci possono dare alcuni spunti per comprendere meglio lo stato psicologico attuale e creare nuovi protocolli d’intervento. Il contesto del Covid-19, tuttavia, si sta rivelando per certi aspetti unico, a partire dalle misure preventive messe in atto, una tra tutte la quarantena e il conseguente isolamento.

La psicologia dell’emergenza ci viene in aiuto nello studiare, prevenire e trattare gli aspetti psichici, emotivi e comportamentali legati ad eventi critici; la sua applicazione, infatti, è rivolta a situazioni non ordinarie. Nasce con l’idea di superare l’attenzione esclusiva al corpo per occuparsi anche delle ferite psichiche, altrettanto profonde e gravi.

L’evento critico, da cui scaturisce lo stato di emergenza, si pone al di là della gamma di esperienze ordinarie a cui l’individuo è abituato e per questo sfida le sue capacità di fronteggiamento, mettendo in crisi i suoi meccanismi di coping. Il soggetto, infatti, può percepire un senso di vulnerabilità, una mancanza di controllo e un forte senso di minaccia. Ogni persona reagisce a suo modo, cercando di gestire il disagio con le strategie che usa abitualmente. La notizia del lockdown, nel caso del Covid-19, ha suscitato senso d’impotenza, terrore e in alcuni casi la fuga; ha fatto realizzare a una buona parte della popolazione la gravità della situazione. L’impatto è stato sul singolo, ma anche sulle comunità, dalle più piccole (come la famiglia) alle più grandi (come le regioni).

Le testimonianze arrivate dalla Cina mostrano gli effetti della pandemia, evidenziando un aumento di sintomi psicologici e psicopatologici, come depressione, ansia, disturbi del sonno e disturbo da stress post traumatico. L’Italia sta sperimentando in prima persona l’impatto del Covid-19 e delle risposte allo stress legate alla pandemia. Si possono riscontrare sia effetti fisiologici (per esempio, iperarousal o ipoarousal), sia psicologici (per esempio, sensazione di irrealtà o dissociazione).

Tutte le persone coinvolte in questa situazione straordinaria stanno affrontando a loro modo i cambiamenti e stanno sperimentando una normale gamma di emozioni in risposta all’emergenza, come rabbia, ansia, tristezza, paura e colpa, declinate in varie forme. È importante, spiega il Dr. Mazzoni, individuare tempestivamente i soggetti più a rischio di sviluppare un PTSD o un significativo disagio dovuto a un mancato adattamento. Gli interventi di psicologia dell’emergenza, infatti, hanno uno scopo preventivo e si muovono verso i pazienti, senza aspettare che siano questi ultimi a cercare aiuto dopo aver già sviluppato una sintomatologia. Su questa linea sono stati creati numeri verdi e una rete di sevizi online. Nel processo di intervento si è rivelato fondamentale non solo offrire supporto psicologico, ma anche fornire informazioni, psicoeducazione e strategie di gestione dello stress e delle emozioni. Un esempio sono i chiarimenti forniti rispetto alle misure di prevenzione del contagio, che hanno avuto l’effetto di aumentare il senso di sicurezza.

Cosa si può fare, quindi, per affrontare i cambiamenti e le nuove necessità legate alla pandemia?

Prima di tutto è importante mobilizzarsi:

  • Tornare alla prevedibilità, tramite la creazione di una routine quotidiana in base alle nostre nuove necessità.
  • Mobilitare il corpo, attivarsi.
  • Cercare di regolare i pensieri (lasciando andare quelli negativi e catastrofici), le emozioni (riconoscendole e accettandole) e i comportamenti.
  • Restare connessi con i propri familiari e amici. Il supporto della comunità dopo e durante le guerre e i disastri naturali si è sempre rivelato fondamentale. La situazione di isolamento rende difficile una connessione, ma tramite gli strumenti tecnologici è possibile rimanere in relazione, continuando a “fare parte del gruppo”.
  • Osservare il nostro andamento: emozioni e pensieri.
  • Mantenere, quando è possibile, il contatto fisico.
  • Crearsi uno spazio e dei momenti di privacy.
  • Guardare al futuro, usando questo periodo come un’opportunità esistenziale, senza sprecare il tempo a nostra disposizione: interrompere vecchie abitudini, sviluppare le nostre idee, dare spazio alla creatività e progettare il nostro futuro.

Il docente ha inoltre mostrato un intervento per la gestione dello stress diviso in fasi, ricordando come in casi di PTSD sia invece necessario un trattamento mirato.

  • Fase 1: raccolta delle informazioni legate alla situazione tramite un colloquio. È importante in prima battuta dare più attenzione ai comportamenti e alla prospettiva della persona. Se è necessaria una valutazione più “obiettiva”, possono essere utili strumenti come BDI-II, BAI, SCL-90-R, SCID I, …
  • Fase 2: descrizione del metodo e degli obiettivi di trattamento e psicoeducazione sull’evento critico, sul trauma e sulle emozioni implicate. Bisogna tenere sempre conto di chi si ha davanti e adattare l’intervento a bambini, adolescenti, coppie, …
  • Fase 3: insegnamento di tecniche di gestione emotiva, come quelle di rilassamento, da usare a casa di fronte agli stimoli che mettono paura.
  • Fase 4: riscoperta di strategie funzionali usate in passato o insegnamento di abilità di coping immaginative (per esempio immaginare un luogo piacevole) e di nuove skills comportamentali (per esempio tramite la DBT o il problem solving).
  • Fase 5: insegnamento di tecniche per bloccare i pensieri ricorrenti e disturbanti, per “non coltivare il rumore ma lasciare andare”, come tecniche di mindfulness.
  • Fase 6: ristrutturazione cognitiva, per esempio con lo scopo di aumentare la tolleranza alla frustrazione e diminuire la minaccia percepita.
  • Fase 7: mettere in pratica delle tecniche apprese nelle situazioni quotidiane legate a stati di ansia e paura.

Alla fine del suo intervento, il Dr. Mazzoni ricorda come dall’esperienza del Covid-19 non ci si devono aspettare esclusivamente conseguenze negative. Infatti, si potrebbe trasformare questa situazione, di per sé avversa e dannosa, in un’opportunità di crescita postraumatica, un periodo in cui scoprire risorse, possibilità, capacità, in cui aumentare il proprio senso di resilienza. Ognuno deve trovare il suo significato nella pandemia e negli aspetti ad essa legati. Si possono sviluppate delle dimensioni di crescita individuale, relazionale, gruppale e persino una nuova filosofia di vita.

 

Alzheimer e demenze, malati e caregiver: un progetto di sostegno attraverso dei video online – Comunicato Stampa

Comunicato stampa

Un progetto sociale propone una vasta quantità di video-pillole online che contengono informazioni utili, consigli pratici, supporto e orientamento dedicati non solo alle persone affette da patologie neurovegetative, ma soprattutto a chi si occupa di loro.

 

Firenze, 1 Luglio 2020

La Società Ricreativa L’Affratellamento di Ricorboli, in collaborazione con il Quartiere3 del Comune di Firenze, presenta e promuove un progetto di “Sostegno per malati, famiglie e caregiver di patologie neurovegetative”, attraverso “pillole in video” a cura della dottoressa Anna Finocchietti (psicologa e psicoterapeuta) e Associazione MeMo.

Il programma, presentato su internet in conference call, prevede 2 video a settimana, da Luglio a Settembre 2020, si sviluppa on-line su Internet (e canali social del Teatro Affratellamento – Facebook e YouTube) da martedì 7 Luglio, ereditando le abilità e il metodo in remoto a cui le famiglie e i caregiver di malati di Alzheimer ed altre malattie neurovegetative hanno dovuto far ricorso per necessità durante il recente lockdown. per l’emergenza sanitaria per COVID-19.

Un progetto sociale di servizio realizzato dal teatro Affratellamento, in collaborazione con il Q3, che propone una folta serie di video-pillole con informazioni utili, consigli pratici, supporto e orientamento, dedicati non solo ai malati, saranno messi a disposizione su internet rivolgendosi soprattutto a chi si occupa delle persone che soffrono.

I brevi video sono stati realizzati dalla stessa curatrice dott.ssa Anna Finocchietti, dalla dottoressa Irene Mosele, psicologa e referente dell’aerea cognitiva dell’Associazione MeMo e da Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie e referente dell’aerea motoria della stessa associazione.

Un progetto che dimostra che il Teatro Affratellamento Resiste, pur gravemente colpito economicamente dall’azzeramento della parte finale della Stagione di eventi e iniziative ed è sempre rimasto vivo e attivo, nel segno di “Cultura è Solidarietà” attraverso altre varie iniziative on-line.

Inoltre, nonostante non sia stato in condizione di ripartire pienamente il 15 giugno, rinviando a dopo l’Estate la ripresa dal vivo delle iniziative, l’Affratellamento anche in questo caso invita tutti a seguire, condividerlo e sostenerlo. Grazie.

Per maggiori informazioni >> visita il sito ufficiale dell’iniziativa.

 

Programma / Playlist video:

  • martedì 7 luglio 2020: Essere caregiver, prendersi cura di un malato di demenza – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 10 luglio 2020: Pillole sulle demenze: quali sono, come si manifestano, a chi riferirsi per la diagnosi e l’attivazione della rete di trattamento – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 14 luglio 2020: Il bisogno di sollievo e la richiesta di aiuto – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 17 luglio 2020: I benefici dell’attività motoria nel trattamento delle demenze – a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 21 luglio 2020: Chiedere aiuto: quali ostacoli – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 24 luglio 2020: Tecniche di stimolazione cognitiva nel trattamento delle demenze – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 28 luglio 2020: Le emozioni e il loro ruolo nella relazione di cura – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 31 luglio 2020: Esercizi motori per stimolare le persone con demenza – a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 4 agosto 2020: Comunicare con il malato di demenza – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 7 agosto 2020: 5 suggerimenti pratici per la gestione quotidiana di una persona con demenza – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 25 agosto 2020: Parlare all’IO sano nell’Alzheimer e demenze – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 28 agosto 2020: Suggerimenti per allenare la memoria – attività di prevenzione alle demenze – a cura di dottoressa Irene Mosele, psicologa.
  • martedì 1 settembre 2020: Vita quotidiana – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 4 settembre 2020: Esercizi per mantenere il corpo allenato – attività di prevenzione alle demenze a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 8 settembre 2020: Prendersi cura di sé – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.
  • venerdì 11 settembre 2020: Il rilassamento muscolare progressivo – a cura di Elena Armaroli, dottoressa in scienze motorie.
  • martedì 15 settembre 2020: Riflessioni conclusive – a cura di dottoressa Anna Finocchietti, psicologa e psicoterapeuta.

 

Anna Finocchietti svolge attività libero professionale con orientamento cognitivo-comportamentale presso STUDIO40 nel Q3. Didatta del corso di specializzazione in psicoterapia presso la Scuola Cognitiva di Firenze. Con un gruppo di lavoro di Studi Cognitivi di Milano, impegnati nella clinica, nella ricerca e nella didattica, sta lavorando ad un protocollo per intervento cognitivo-comportamentale con caregiver di malati di Demenze. Membro del Consiglio Direttivo del Circolo Teatro L’Affratellamento dove ha iniziato il progetto di sostegno caregiver attraverso incontri informativi con la collaborazione del Q3. La personale esperienza di caregiver è stata la motivazione per un impegno di aiuto che integri testimonianza e strumenti professionali.

MeMo è un’associazione che svolge attività di prevenzione e promozione del benessere psicofisico durante l’intero arco di vita. Le attività di potenziamento cognitivo e motorio e di socializzazione a cura di Irene Mosele (psicologa) ed Elena Armaroli (dottoressa in scienze motorie) sono rivolte principalmente all’anziano sano e/o con decadimento cognitivo o demenza, al bambino e all’adulto sano o con disabilità. L’associazione è promotrice di diversi progetti di prevenzione del decadimento cognitivo, in collaborazione con il Comune di Firenze, Bagno a Ripoli e Impruneta, e di un programma di stimolazione cognitiva e motoria in gruppo per persone con decadimento cognitivo e Alzheimer che si svolge presso “Il Porto” nel Q3, “Officina della memoria”.

 

Il movimento #metoo ed il potere dei social media

I social media si confermano come nuovo mezzo per dichiarare l’abuso subito; molte donne hanno postato di aver trovato il coraggio di raccontarsi grazie alle testimonianze altrui e al movimento MeToo.

 

L’abuso sessuale è un evento ancora troppo diffuso nella società e colpisce le donne a prescindere dal background e dal paese di provenienza (World Health Organization, 2014). Infatti circa il 25% delle donne afferma di avere avuto un contatto non voluto con un uomo nel corso della propria vita (Black et al., 2011), confermando l’allarmante dato secondo cui le donne corrono un alto rischio di essere vittime di abuso sessuale, soprattutto laddove la loro condizione sia resa più vulnerabile per via di fattori individuali, come la giovane età, la presenza di disabilità, ed il tipo di lavoro e ambienti frequentati (Hoxmeier, 2016).

Nonostante questo tema sia sempre più discusso e oggetto della sensibilità pubblica, molto spesso le testimonianze delle donne non vengono credute, ed il senso di colpa e la paura possono portare a mantenere nascosto quello che è successo, cercando di cancellare l’accaduto, che però continua a persistere nelle vite delle vittime, provocando problematiche individuali, come maggior depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico, dipendenze, oltre che una maggior vulnerabilità per le malattie fisiche (Tjaden & Thoennes, 2006), con ripercussioni anche sulle relazioni interpersonali e sul funzionamento in ambito lavorativo.

Tuttavia, il movimento MeToo, fondato dall’attivista americana Tarana Burke nel 2006 e diventato poi dilagante nel mondo dei social media con l’hashtag #metoo a partire dal 2017, ha dato vita ad un’ondata di testimonianze degli abusi subiti. Infatti, a partire dall’esempio di donne note e conosciute nel mondo dello spettacolo, milioni di persone hanno postato le loro esperienze sui loro social network e ricevuto supporto dalla community, e, volendo approfondire i racconti emersi, il presente studio (Alaggia & Wang, 2020) si propone di indagare 171 post sui social media relativi all’abuso sessuale, subito come episodio singolo o ripetuto, vissuto in età infantile o adulta, da parte delle donne.

I risultati mostrano innanzitutto che i social media si confermano come nuovo mezzo per dichiarare l’abuso subito, in quanto le testimonianze altrui donano la forza necessaria a fare altrettanto, senza paura di essere giudicate o emarginate. Molte sono state le donne che hanno postato di aver trovato il coraggio di raccontarsi grazie al movimento MeToo ‘Sono stata violentata per quasi un anno da un professore mentre ero alla scuola di specializzazione’ (Utente Twitter 81) e di aver seguito l’esempio di persone famose ‘Lady Gaga, mi sento forte abbastanza da raccontare la violenza subita, mi hai aiutato così tanto con le tue parole su questo argomento, grazie a te posso andare avanti ed iniziare a raccontare la mia storia’ (Utente Reddit 23).

Inoltre, è stato messo in luce che molte donne che non sapevano o non ricordavano di essere state violentate, grazie alle informazioni ricevute dalla televisione, dai notiziari e dal movimento MeToo, hanno potuto prendere consapevolezza riguardo agli eventi vissuti e precedentemente normalizzati.

Ancora, si è rilevato che i motivi principali per cui le donne solitamente non parlano dei propri abusi sono la paura di non essere credute ‘Non l’avevo mai detto a nessun altro… perché le vittime di abuso sono costantemente incolpate per quello che è successo e messe a tacere quando provano a parlare’ (Utente di Reddit 12), i sentimenti di vergogna pervasivi ‘Faccio ancora fatica ad affrontarlo, ma non ne parlo mai perché mi vergogno di ammettere di essere una vittima di stupro’ (Utente di Twitter 12), la paura del giudizio degli altri e delle conseguenze delle loro azioni ‘Ero anche ad un punto nella mia vita in cui non potevo sopportare mentalmente di essere stuprata e per di più di perdere un amico. Il mio cervello ha in qualche modo inventato una situazione in cui tutto andava bene e io lo volevo’ (Utente di Reddit 21), oltre alla non sicurezza dell’entità dell’abuso ‘Ho detto a mio marito delle molestie che avevo vissuto prima che ci incontrassimo, e lui è stato piuttosto sorpreso perché non gliel’avevo mai detto. Quando ero giovane le accettavo e basta’ (Utente Twitter 6).

In aggiunta, è stato trovato che queste donne generalmente hanno ricevuto risposte positive e supportive. Tuttavia in alcuni casi non sono state credute e l’entità della gravità della situazione è stata sottovalutata quando sono state considerate responsabili in parte dell’accaduto, per esempio per via del fatto che erano risultate provocanti e potenzialmente disponibili agli occhi dell’aggressore, oppure perché non hanno rifiutato esplicitamente le proposte sessuali ricevute, in quanto sotto l’effetto dell’alcool o di altre sostanze.

Allo stesso modo, risposte contraddittorie sono emerse dai professionisti legali, poiché in alcuni casi le testimonianze non sono state accolte e non sono stati attuati provvedimenti per evitare che altri episodi si potessero ripetere.

In conclusione, la facilità e la libertà con le quali i social media permettono di comunicare, sono risultate di grande aiuto per moltissime donne, che hanno colto l’opportunità di affrontare e superare questo trauma, dimostrando grande forza e determinazione.

Parafilia: la sessualità atipica

Le descrizioni della parafilia possono essere collegate alla pressione sociale e agli ideali presenti nella società. Molte delle definizioni viste, infatti, sono basate su deviazioni rispetto all’idea di normalità che la società ha assegnato al sesso.

Andrea Goldoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Che cos’è la parafilia?

I ricercatori hanno adottato definizioni diverse del termine parafilia (Moser, 2011). Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione – DSM 5 (APA, 2013) la parafilia è definita come un interesse sessuale intenso e persistente verso stimoli che deviano dalla stimolazione genitale o dai preliminari condotti con partner sessualmente maturi e consenzienti.

La World Health Organization (1992) classifica le parafilie come un comportamento sessuale preferenziale abituale e impulsivo, ma non le considera un problema a meno che non sia presente disagio psicologico o effetti deleteri. Kafka (1997, 2003) le ha descritte come un fenomeno caratterizzato da un’alterazione delle preferenze sessuali, da compromissione della propria volontà e da un aumento dei comportamenti legati al desiderio sessuale. Kaplan e Krueger (2010) affermano che sono strettamente legate all’ipersessualità perché gli individui che presentano una parafilia hanno caratteristiche simili a chi presenta dipendenza sessuale, come fantasie sessuali molto frequenti e una particolare intensità del desiderio e dei comportamenti sessuali. Fisher, Kohut, Gioacchino e Fedoroff (2013) le inquadrano come interessi sessuali persistenti, non convenzionali e problematici. Importante è la visione di Arrigo e Purcell (2001), che affermano che la parafilia possa essere inserita in un continuum: da un lato ci sono interessi non convenzionali ma non dannosi per sé e per gli altri, dall’altro forme più gravi che possono comprendere masturbazione compulsiva e ricorso a droghe ed alcool come facilitatori.

Queste definizioni, seppur diverse, descrivono la parafilia come una preferenza sessuale alternativa, caratterizzata da fantasie sessuali frequenti e da un intenso interesse legato a contenuti non tradizionali, che deviano dalla tipica stimolazione genitale o dai preliminari erotici. Esistono numerose parafilie, ma tutte hanno in comune gli elementi descritti.

Il nucleo della parafilia è costituito quindi da interessi sessuali e fantasie non convenzionali o alternativi, che vengono particolarmente enfatizzati dall’individuo (Kaplan, Kruegar, 2010).

Non tutte le definizioni scientifiche considerano la parafilia come un problema, piuttosto lo diventa nel momento in cui è presente un disagio significativo o delle compromissioni nelle diverse aree di vita. Kafka (1997) sostiene che le parafilie possono diventare un problema nel momento in cui la compromissione della volontà che le caratterizza impedisce all’individuo di scegliere come e quando soddisfare il proprio desiderio. Fisher et al. (2013) affermano che le difficoltà sorgono nel momento in cui sono legate a comportamenti come abuso di pornografia e aggressioni sessuali.

Quando la parafilia diventa un disturbo?

Non è ancora stato trovato un accordo su una solida definizione che distingua una parafilia da un disturbo parafilico. Moser (2010) afferma che tale distinzione sia non valida, e che in pratica abbia poco senso. Wakefield (2011) sostiene che la distinzione tra un individuo che ha una parafilia e uno affetto da disturbo parafilico sia in parte collegata a motivazioni legali, in quanto faciliterebbe l’inquadramento dei reati a sfondo sessuale.

Le descrizioni della parafilia possono essere collegate alla pressione sociale e agli ideali presenti nella società. Molte delle definizioni viste, infatti, sono basate su deviazioni rispetto all’idea di normalità che la società ha assegnato al sesso, ma in realtà è difficile inquadrare quale tipo di comportamento sessuale possa essere effettivamente inquadrato come parafilico. (Stewart, 2012). Tale fenomeno ha reso il comportamento sessuale atipico vulnerabile allo stigma sociale, e lo ha precluso dallo studio scientifico. Le persone, infatti, potrebbero temere che le proprie compagne, i propri amici o le altre persone appartenenti al loro gruppo sociale possano scoprire le loro preferenze sessuali, cosa che li porterebbe alla condanna e al rifiuto sociale (Moser, Kleinplatz, 2006).

Allo stesso modo, gli individui che hanno una parafilia potrebbero credere di essere affetti da un disturbo psichiatrico, pensando che le loro condotte non rientrino nella normalità. Ma cos’è la normalità?

Strong e Devault (1988) dividevano la normalità sessuale in quattro categorie: statistica (la normalità è definita dal numero di persone nella popolazione generale che praticano l’attività), biologica (la normalità è definita dalla presenza di comportamenti collegati alla funzione biologica, come la riproduzione), psicologica (la normalità è definita dall’assenza di stati mentali negativi come ansia, colpa e frustrazione) e morale (la normalità è definita dal contesto culturale o storico).

Tale suddivisione comporta non pochi problemi: ad esempio, la categoria biologica afferma che gli atti sessuali normali sono solo quelli che hanno un incentivo biologico, come la riproduzione. Se ci dovessimo basare su essa, qualsiasi comportamento sessuale che devi dalla penetrazione vaginale potrebbe essere considerato come anormale. Allo stesso modo, secondo la categoria statistica, un comportamento potrebbe essere classificato come non normale solo perché è portato avanti da un numero di persone non significativo.

Kite (1990) ha cercato di risolvere questo problema somministrando un questionario composto da 30 item agli studenti universitari, per identificare ciò che consideravano un comportamento sessuale normale. Gli studenti hanno affermato che ciò che è normale è difficile da definire, e ciò che è considerato normale da un individuo potrebbe essere considerato anormale da un altro. In più, gli studenti hanno riferito che normale corrisponde a qualsiasi atto in cui i membri di una coppia si sentano a loro agio. Se una coppia considera un comportamento sessuale come piacevole, allora quel particolare comportamento è normale agli occhi della coppia. Infine, per gli studenti è normale qualunque comportamento che non provochi a un individuo sentimenti di colpa.

Il disturbo parafilico nel DSM-5

Per soddisfare i criteri clinici per uno dei disturbi parafilici presenti nel DSM-5, ci dev’essere stato un periodo di almeno sei mesi durante il quale sono occorse fantasie sessuali intense e ricorrenti. In più, i disturbi parafilici creano un disagio clinicamente significativo o deterioramenti in aree importanti di funzionamento, come quelle sociali o lavorative, attraverso fantasie, desideri o comportamenti. Il DSM-5 identifica i seguenti disturbi parafilici:

  • Disturbo esibizionistico – Gli individui diagnosticati con disturbo esibizionistico sperimentano un’eccitazione sessuale ricorrente e intensa esponendo i propri genitali a una persona che non se lo aspetta, generalmente in un ambiente pubblico.
  • Disturbo feticistico – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante dall’uso di oggetti inanimati o una concentrazione altamente specifica su parti del corpo non genitali. Gli specificatori per il disturbo feticistico includono parti corporee, oggetti inanimati o altro.
  • Disturbo frotteuristico – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante dal toccare o dallo strusciarsi su una persona che non se lo aspetta, generalmente in un contesto pubblico affollato, come una metropolitana.
  • Disturbo pedofilico – Gli individui diagnosticati con disturbo pedofilico presentano fantasie sessuali ricorrenti e intense, bisogni sessuali, e comportamenti legati all’attività sessuale con ragazzi in età prepuberale o con bambini, generalmente sotto i 13 anni di età. Gli specificatori includono l’esclusività, che indica che il soggetto è in grado di sperimentare eccitazione sessuale esclusivamente dai bambini, e la non esclusività, che indica che il soggetto è in grado di sperimentare eccitazione sessuale anche da adulti o da individui della stessa età. Altri specificatori indicano se il soggetto sia attratto dal sesso maschile, femminile o da entrambi.
  • Disturbo da masochismo sessuale – Eccitazione sessuale intensa e ricorrente derivante dall’atto di essere umiliati, picchiati, legati o fatti soffrire in altro modo. In alcuni casi, lo specificatore di asfissiofilia è usato per descrivere gli individui che ottengono eccitazione sessuale dalla limitazione della propria respirazione.
  • Disturbo da sadismo sessuale – Eccitazione sessuale intensa e ricorrente derivante dall’infliggere sofferenza fisica o psicologica a un altro individuo, o dal torturarlo. Generalmente, gli individui con questa diagnosi traggono piacere dall’infliggere dolore agli altri e ottengono piacere ed eccitazione sessuale da questi atti.
  • Disturbo da travestitismo – Gli individui affetti da disturbo da travestitismo sperimentano un’eccitazione sessuale intensa e ricorrente derivante dal cross-dressing, ovvero dall’indossare indumenti che appartengono al sesso opposto. Gli specificatori per questo disturbo indicano se sia presente un feticismo diretto a tessuti, materiali o indumenti o se sia presente autoginefilia, ovvero eccitazione derivante da pensieri o immagini in cui ci si immagina come appartenenti al sesso opposto.
  • Disturbo voyeuristico – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante dall’osservazione di individui nudi, intenti a svestirsi, o intenti in un rapporto sessuale, a loro insaputa.
  • Disturbo parafilico con altra specificazione – Questa diagnosi di disturbo parafilico è riservata a quegli individui che possiedono le caratteristiche sintomatologiche appartenenti al disturbo, che causano un disagio clinicamente significativo ma che non rispondono ai criteri di nessuno dei disturbi sopraelencati. Tale diagnosi è utile al clinico che desidera comunicare la specifica ragione che spinge a non inserire il quadro sintomatologico in uno dei precedenti disturbi.
  • Disturbo parafilico senza specificazione: E’ riservata ai quadri clinici che non ricadono nei disturbi precedentemente elencati, ma offre al clinico la possibilità di non comunicare le ragioni per le quali non possa ricadere nelle diagnosi precedenti.

Una diversa prospettiva

Nel 2010 Blanchard ha proposto una revisione della definizione di parafilia che tenesse conto del comportamento pre-coitale, ovvero dei preliminari sessuali. A differenza della parafilia, il concetto di preliminare sessuale sembra avere una definizione comune. Per preliminare si intende la stimolazione erotica o le azioni sessuali che precedono la penetrazione, come baci, tocchi, carezze. (Palladini, 2012). I preliminari sessuali tuttavia non conducono necessariamente al rapporto sessuale completo, e la loro definizione non li limita ad azioni stereotipiche o convenzionali.

La definizione di preliminare sessuale è molto utile per inserire la parafilia in un continuum che può aiutare a discernere il livello di gravità e di compromissione a cui porta. Lo studioso utilizza quattro esempi per descrivere il concetto:

  • Individuo A: Tende ad utilizzare il proprio feticcio (o focus parafilico) come un preliminare, prima di arrivare alla penetrazione e all’orgasmo.
  • Individuo B: Tende a utilizzare il proprio feticcio (o focus parafilico) sia durante i preliminari che durante la penetrazione e l’orgasmo.
  • Individuo C: Tende a essere sessualmente eccitato e a raggiungere l’orgasmo tramite il suo focus parafilico, invece di utilizzare un rapporto sessuale.
  • Individuo D: E’ incapace di raggiungere l’eccitazione sessuale a meno che non parta dal proprio focus parafilico.

E’ facile osservare come gli individui A e B utilizzino il focus parafilico come una preferenza, che non compromette lo svolgimento di un rapporto sessuale, mentre gli individui C e D potrebbero sperimentare una grave compromissione delle relazioni sentimentali e sessuali a causa delle loro fantasie.

Eziologia della parafilia

La letteratura ha provato a spiegare le origini della parafilia tramite una concettualizzazione psicoanalitica o attraverso il modello comportamentale del condizionamento. Wiederman (2003) riporta che la prospettiva psicoanalitica assume che l’individuo che sperimenta una parafilia potrebbe aver sperimentato un abuso sessuale o un trauma perpetuato dai caregivers durante l’infanzia; tale trauma può compromettere la sua capacità di costruire e mantenere relazioni sane e intime con gli altri. Perciò, per soddisfare le sue pulsioni sessuali, potrebbe rivolgersi ad altri metodi, o traendo piacere da un oggetto inanimato (dando origine al feticismo) o tramite relazioni caratterizzate da uno squilibrio di potere tra i partner (che si tradurrebbe nel masochismo o nel sadismo sessuale). Secondo la prospettiva comportamentale, la persona che ha una parafilia potrebbe essere venuta a contatto con un particolare stimolo nelle prime esperienze sessuali, tipicamente durante la masturbazione, che potrebbe essersi legato in maniera condizionata all’eccitazione e all’orgasmo. (Wiederman, 2003; Durand, Barlow, 2013). Tale stimolo, differente dalla norma culturale sessuale, potrebbe essere stato presente nell’ambiente quotidiano, e perciò l’individuo potrebbe essere stato esposto a esso frequentemente. Le fantasie sessuali non convenzionali potrebbero essere state quindi fissate tramite comportamenti sessuali ripetuti (come la masturbazione), attraverso il rinforzo positivo derivante dalle sensazioni piacevoli legate all’orgasmo.

Tuttavia, questi concetti teorici possono spiegare solamente lo spostamento d’interesse verso stimoli non genitali, che corrisponde al primo criterio del DSM-5. Non spiegano il criterio di disagio clinicamente significativo, non facendo luce sulla motivazione che spinge alcune parafilie a non causare difficoltà personali e problematiche nella relazione con gli altri, rispetto alle forme più gravi. Infatti, anche se gli individui possono trarre piacere elicitando un comportamento sessuale alternativo, la motivazione per tradurlo in un comportamento socialmente deviante, che spesso comporta un rinforzo negativo nella forma di punizioni, non è chiaramente spiegata all’interno del modello comportamentale (Wiederman, 2003). Secondo Joannides (2012), alcuni soggetti potrebbero sentire più eccitazione sessuale nei momenti in cui vi sarebbe l’obbligo di sopprimerla, come un luogo pubblico. La problematica quindi sarebbe relativa al controllo degli impulsi, non all’accettabilità sociale dello stimolo sessuale.
La formazione di una parafilia quindi non conduce necessariamente a comportamenti disfunzionali, ma la sua problematicità dipende dalla presenza o meno di situazioni e atteggiamenti dannosi che derivano da essa.

Perché le persone non scaricano l’app Immuni – Psicologia Digitale

L’app Immuni ci aiuta ad individuare possibili contatti a rischio eppure ci sono ancora molti dubbi e un atteggiamento di scetticismo e preoccupazione e, sebbene garantisca il pieno rispetto dei diritti dei consumatori e l’anonimato, sono ancora pochi gli utenti che l’hanno scaricata: si stima solo 8 su 100.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 11) Perché le persone non scaricano l’app Immuni

 

Quando la paura non è abbastanza

La pandemia ci ha travolti; questi mesi hanno avuto un impatto molto profondo sulla quotidianità e su tutti gli aspetti di vita: lavoro, relazioni, progetti. Ci siamo trovati di fronte a qualcosa di enorme e di incognito, un virus di cui tuttora sappiamo poco. Sappiamo che una cura non esiste e che c’è ancora da stare molto attenti; sappiamo che i sacrifici degli scorsi mesi ci hanno aiutato a rendere meno drammatica la situazione e gli esiti, a limitare i danni; sappiamo che c’è ancora tanto da fare e che sta a noi, tutti noi, proseguire sulla strada giusta, seguire le direttive sanitarie più aggiornate e fare del nostro meglio tutti i giorni per evitare che si creino situazioni a rischio. La paura l’abbiamo toccata con mano, non è passato tanto da quando l’appuntamento fisso era alle 18 per il bollettino della Protezione Civile. Ed ora che siamo qui, dopo tutto questo, attenti ad inforcare mascherina e guanti anche solo per andare a portare fuori il cane, la paura è più controllata ma serpeggia ancora fra noi.

Se fossimo solo degli esseri razionali adotteremmo ogni misura disponibile per preservarci, compreso utilizzare un’app che ci dice se siamo venuti in contatto con persone positive; cosa ci rende invece così poco propensi a scaricare l’app Immuni? Perché non abbiamo la stessa cura e attenzione verso i nostri dati e la nostra privacy quando si tratta di altri siti, app, piattaforme, che hanno ben altri scopi?

I dati, il nuovo petrolio

Nel settore del digital si dice che i dati siano il nuovo petrolio: grazie a strumenti sempre più sofisticati si può arrivare a conoscere davvero molte cose su chi naviga su Internet. E tutti noi siamo online. In realtà però, fatta eccezione per servizi che necessitato di chiedere informazioni personali esplicite (come nome, cognome, mail), di norma a nessuno interessa la reale identità di un utente, i dati devono essere big data quindi grandi numeri aggregati perché siano significativi. Allora ancora una volta, come mai siamo così preoccupati di scaricare Immuni?

Perché siamo così propensi a cedere i nostri dati: il paradosso della privacy

Siamo disposti a cedere a Facebook Inc. (che, ricordiamo, possiede tra le altre cose anche Whatsapp e Instagram, e perfino Giphy) ogni giorno tutti i nostri dati, incluse foto (anche di minori), video, messaggi, audio, spostamenti, interessi. Certamente, in forma anonima e aggregata, ma chi ha letto tutte le condizioni di privacy? Non è un mistero che questi dati siano una ricchezza: è sulla base di questi che viene erogata la pubblicità che noi tutti vediamo. Sembra pervasivo e lo è. Del resto è un servizio gratuito gestito da un’azienda privata per cui una fonte di remunerazione dovrà pur averla. Ma noi siamo disposti a farlo; la domanda è: perché?

Le persone, anche se si dichiarano preoccupate e interessate riguardo la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali, li rivelano in cambio di piccole ricompense, molte delle quali sono intangibili, come riconoscimento e attenzione dei pari come accade nei social network. La dicotomia fra atteggiamento e comportamento viene definita in letteratura ‘privacy paradox’ o meglio ‘information privacy paradox’ quando si riferisce specificatamente a raccolta, archiviazione, elaborazione e diffusione dei dati personali. I primi studi risalgono al 2001 quando Brown individua per la prima volta un paradosso: le persone che intervista esprimono preoccupazione rispetto alla privacy eppure allo stesso tempo effettuano acquisti online cedendo di fatto dati personali in cambio di sconti.

Secondo Acquisti (2004) questo avviene perché siamo soggetti al bias della gratificazione immediata. Le nostre scelte non sono pienamente razionali e ponderate, ma spesso guidate almeno in parte da bias: secondo il suo modello, barattiamo senza pensarci troppo i nostri dati con un vantaggio immediato, che sia materiale o immateriale come lo sconto su un prodotto, il riconoscimento sociale, risparmiare tempo con operazioni online. Non fa differenza quanto siano sensibili i dati condivisi (certo c’è differenza tra il divulgare l’età o l’indirizzo di casa): le persone danno un peso maggiore ai benefici attesi piuttosto che ad eventuali rischi.

Ci sono poi delle azioni che gli utenti fanno e che ritengono più che sufficienti a tutelarsi. Per esempio, utilizzo di pseudonimi o la limitazione dell’accesso ai propri contenuti a una cerchia più ristretta di contatti. Vengono definite Privacy-Protective Responses (IPPRs) (Son and Kim, 2008) tutte quelle misure adottate per aumentare la propria privacy online come per esempio rifiutarsi di dare informazioni; inserire informazioni false; rimuovere alcune informazioni personali; disinstallare o non utilizzare app e servizi; far presente attivamente alle aziende coinvolte le perplessità e insicurezze circa la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali.

Un altro aspetto spesso non considerato è il contesto. Gli individui percepiscono diversamente il cedere la stessa identica informazione se si trovano in un negozio fisico di fronte a un commesso, in uno store online o nello studio di un ricercatore. Ancora, le informazioni personali sono tante, con diversi livelli di ‘sensibilità’ e con diversi usi: c’è differenza tra il dire la propria età o la propria email, il proprio indirizzo o il numero della carta di credito. Le persone lo sanno e attribuiscono valori diversi a informazioni diverse. Dati come posizione, stato di salute, cronologia di navigazione, età e peso sono trattati in modo diverso dalle persone, così come diversi sono i rischi: minacce sociali (come bullismo e stalking) o usi non trasparenti (come la vendita dei dati a terze parti) sono visti in maniera diversa.

Perché non scarichiamo Immuni

L’app Immuni è stata progettata e sviluppata con grande impegno e trasparenza. Sul sito sono disponibili tutte le informazioni necessarie per comprendere il funzionamento e l’utilizzo che si fa dei dati raccolti, che, come leggiamo, in realtà non vengono raccolti: nome, cognome, data di nascita, numero di telefono, indirizzo email, posizione e movimenti non vengono tracciati.

Addirittura, si può accedere al codice e ad altri dettagli molto tecnici. Il funzionamento si basa sull’assegnazione di codici casuali che permettono il match nel caso in cui si venga a contatto con una persona positiva, in modo da prendere le precauzioni e le misure necessarie. Sta ai singoli prima di tutto scaricarla, poi in caso segnalare la propria positività e in caso qualcuno sia venuto in contatto con noi (e abbia scaricato l’app, chiaramente!) riceverà una notifica.

A pensarci, ogni giorno lasciamo online molti più dati e molto più sensibili per fare cose molto meno rilevanti, come svagarsi sui social network. Stiamo vivendo un periodo storico eccezionale in cui la nostra libertà è fortemente limitata, con tutto quello che ne consegue anche a livello economico. Anche se siamo passati a misure molto meno restrittive, rimane il timore che la situazione possa nuovamente degenerare e la presenza di nuovi focolai non è certo rassicurante. E allora come mai Immuni è stata accolta con tanta ritrosia e così poche persone l’hanno scaricata?

Il paradosso della privacy risponde a questa domanda. Le persone non hanno nessun beneficio immediato dallo scaricare l’app, per avere informazioni dettagliate su come funziona bisogna essere molto motivati (e anche tecnici!) e alcuni bias influenzano la decisione. Pensiamo all’euristica dell’affetto. Come tutte le euristiche, si tratta di una scorciatoia di pensiero che consente alle persone di prendere decisioni e risolvere i problemi in modo rapido ed efficiente, ma come funziona? Nell’euristica dell’affetto l’emozione del momento influenza le decisioni e viene utilizzata per valutare rischi e benefici. Se i sentimenti verso un’attività sono positivi, allora le persone hanno maggiori probabilità di giudicare i rischi bassi e i benefici alti. D’altra parte, se i sentimenti verso un’attività sono negativi, è più probabile che percepiscano i rischi come alti e i benefici bassi.

Stiamo parlando di un’app che nasce, serve ed è legata ad un contesto di forti sentimenti negativi: paura, rabbia, tristezza, ansia. Nell’immediato, non offre alcun beneficio. Informazioni tecniche sono difficilmente interpretabili ai più. 
Non stupisce quindi che Immuni sia uno strumento poco utilizzato e visto con diffidenza. La ricerca in psicologia sociale ci ha ampiamente confermato che l’uomo non è ‘uno scienziato’ quando si tratta di fare delle scelte, anche quando deve valutare i rischi; forse però sarebbe il caso di riprendersi un po’ di quella razionalità e fare delle scelte consapevoli.

 


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Dalla prevenzione alla promozione del benessere

L’attuale concetto di salute comporta il superamento della prevenzione in favore di un’ottica che enfatizza la promozione della salute e la valorizzazione della persona: cultura, scuola e persona sono inscindibili (Guido & Verni, 2006).

 

In tutto il mondo occidentale e quindi anche in Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, sono cambiate le condizioni di vita e di benessere; infatti, si è assistito ad un miglioramento del benessere economico, sono aumentate le scoperte della medicina che a livello terapeutico e diagnostico hanno contribuito all’eliminazione di alcune malattie, e c’è stato uno sviluppo di interventi di prevenzione (De Piccoli, 2016).

In pochi anni si è passati da uno stato di salute di tipo arcaico (caratterizzato da un’alta percentuale di malattie infettive e malattie provocate da malnutrizione) ad uno stato di salute di tipo moderno (patologie cardiologiçhe e tumorali, dovute a stili di vita poco sani, tra cui: stress, cattive abitudini alimentari, inquinamento, sedentarietà etc.) (Ibidem).

Il concetto di salute viene definito in due modalità differenti. Secondo la prima definizione, che viene attribuita al modello biomedico, la salute viene considerata un’assenza di malattia, intesa quest’ultima come uno stato di default, che non ammette gradi, oppure essere entro certi limiti di tolleranza.

La seconda definizione, invece, viene attribuita al modello olistico, fa riferimento a concetti positivi, tra cui il concetto di benessere, felicità, raggiungimento dei propri obiettivi, realizzazione del proprio potenziale, non alienazione dal proprio corpo, etc.

In quest’ultimo caso si deve fare riferimento a due visioni diverse, nelle quali il concetto di salute è declinabile in modo positivo.

In primo luogo, il concetto di salute non dev’essere inteso come una mancanza di qualcosa, di solito la malattia, ma deve individuare piuttosto dei requisiti effettivi e operativi della salute.

Ad esempio, essere in salute potrebbe significare essere in grado di compiere svariate attività (lavorare, realizzare i propri scopi vitali, etc).

In secondo luogo ci si può riferire ad una vera e propria concezione positiva, in relazione alla quale la salute rappresenterebbe una situazione di optimum, ovvero un ideale che tiene conto della possibilità di ottimizzare la condizione di un individuo, in relazione non solo alla dimensione biologica, fisiologica, e psicologica, ma anche a fattori eterogenei, quali gli scopi e i valori personali e/o culturali, il ruolo sociale o la prospettiva fenomenologica del soggetto (Morandi Corradini, 2019).

Questa condizione è mutevole, infatti viene rappresentata lungo un continuum che va da uno stato di salute ad uno stato di malattia e il soggetto può avvicinarvisi o allontanarvisi dalle stesse.

Un concetto di salute che è stato ed è oggetto di dibattito è quello espresso nella Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

In questo caso la nozione di salute non solo viene definita facendo riferimento a caratteristiche positive, ma viene anche concepita in un senso ideale: non ci si accontenta di raggiungere un qualche livello minimo o uno stato di default, ma si aspira all’aggettivo completo, al raggiungimento di un buon stato di optimum. Quest’ultima definizione ha portato a diverse critiche, in quanto nessuno potrebbe affermare di essere in salute (Morandi Corradini, 2019).

Anche la psicologia ha dato un contributo per quanto riguarda gli studi sul benessere, in particolare una branca della psicologia: la psicologia positiva. Gli studi si articolano in due diverse prospettive (Ryan & Deci, 2001): la prospettiva edonica e la prospettiva eudaimonica.

La prima analizza il benessere soggettivo (SWB = subjective well-being) e lo riconduce principalmente alla dimensione affettiva (presenza di emozioni positive ed assenza di emozioni negative) e alla soddisfazione di vita (Diener, Kahneman, & Schwarz, 1999).

La seconda prospettiva invece si riferisce al “benessere psicologico” (PWB = psychological well-being) e lo riferisce fondamentalmente all’auto-realizzazione (considerata come attualizzazione delle potenzialità, risorse e predisposizioni individuali), alla costruzione di significati e alla condivisione di obiettivi (Ryff & Keyes, 1995; Keyes & Haidt, 2003).

A partire da questi studi è possibile affermare che la salute non corrisponde al risultato di scelte individuali, separate dal contesto sociale, perché (come affermato in precedenza) la salute non prende in considerazione gli aspetti biomedici, ma raggruppa e coinvolge anche gli aspetti inerenti l’esistenza, richiamando, dunque, le politiche sociali ad intervenire non solo in termini sanitari (De Piccoli, 2016; Sanità, 1986).

Le politiche sociali per intervenire hanno elaborato degli interventi di prevenzione nel contesto sociale (Cristini & Santinello, 2012); per prevenzione si intende l’adozione di una serie di comportamenti per potersi cautelare da un male futuro.

In generale, la prevenzione allude ad ogni attività volta ad impedire pericoli e mali sociali di varia origine (Dionisotti & Bembo, 1966).

Quando si elaborano interventi di prevenzione, da un lato gli interventi sono basati sull’improvvisazione e sulle sensazioni che si sentono in quel momento (senza seguire schemi preordinati); dall’altro, invece, si adotta un atteggiamento di rigido determinismo in cui si pensa che si possa trovare una formula che può essere applicata in diversi contesti, ottenendo gli stessi risultati (Cristini & Santinello, 2012).

Nel primo caso si otterranno interventi che saranno originali e progettati ad hoc, tuttavia si potrebbe correre il rischio di realizzare interventi di scarsa qualità, in termini di efficienza ed efficacia.

Nel secondo caso, tutta l’attenzione sull’utilizzo di un pacchetto di prevenzione preconfezionato e sul rigore metodologico, a prescindere dalle caratteristiche degli attori interessati e del contesto in cui viene realizzato l’intervento; il rischio, in questo caso, è quello di perdere di vista le peculiarità distintive dei soggetti, la realtà di vita e le differenti prospettive e di conseguenza proporre pacchetti di prevenzione che non possono essere realizzati in modo efficace.

Un corretto intervento preventivo dev’essere in grado di mischiare entrambi i due modi di operare: evitare, quindi, l’adozione di metodologie preconfezionate ed utilizzare strategie preventive basate sull’immaginazione ed infine, creare dei programmi ad hoc che si adattino alle necessità locali.

Per creare dei programmi di prevenzione è importante sapere su cosa farla (per esempio, prevenire il consumo di sostanze), le ragioni per cui si intende intervenire e con chi si vuole intervenire (ad esempio con gli insegnanti, i genitori, etc.).

Le ragioni per cui viene intrapreso un progetto di prevenzione sono molteplici: una potrebbe essere dovuta al fatto che spesso i servizi non riescono ad individuare in modo tempestivo ed adeguato i giovani che vivono situazioni di disagio e di malessere (Cristini & Santinello, 2012).

Per avviare gli interventi preventivi, uno dei passi più importanti è quello di individuare i fattori di rischio; ovvero quelle caratteristiche o quelle condizioni che aumentano il rischio di sviluppare un disagio o una problematica.

Tra i fattori di rischio è possibile annoverare:

  • I fattori di rischio ambientali: tutti quegli stimoli ambientali che possono arrecare problematiche;
  • I fattori di rischio individuali o intrapersonali: corrispondono a tutte le caratteristiche di personalità o altre variabili psicologiche che possono aumentare i rischi di mettere in atto comportamenti problematici o far sviluppare dei disagi;
  • I fattori di rischio micro-ambientali: caratteristiche e influenze di contesti in cui l’individuo si trova in contatto indiretto (ad esempio la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari etc.);
  • I fattori di rischio macro-ambientali: caratteristiche della comunità con cui l’individuo è in contatto in modo indiretto, ma che esercita una qualche influenza (ad esempio il quartiere, la città o il Paese, etc.).

Tuttavia la sola prevenzione non è sufficiente per individuare e prevenire i rischi, per cui si è passati al concetto di promozione dei fattori di protezione e delle abilità che sono presenti nell’individuo (Cristini & Santinello, 2012).

L’attuale concetto di salute comporta, infatti, il superamento della prevenzione in favore di un’ottica che enfatizza la promozione della salute e la valorizzazione della persona: cultura, scuola e persona sono inscindibili (Guido & Verni, 2006).

Per promozione si intende un processo attraverso il quale l’individuo è in grado di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla (Sanità, 1986).

Promuovere la cultura della salute significa far prendere coscienza al soggetto delle proprie scelte, aiutarlo a prendere una decisione e a far sì che salute e benessere diventino veri e propri stili di vita (Guido & Verni, 2006).

Tornando alla prima definizione che è stata esposta in precedenza, per fattori di protezione si intendono quelle condizioni o caratteristiche che incrementano le possibilità di adattamento, di mantenere o incrementare uno stato di benessere e di salute e riducono la possibilità di sviluppare un disagio o mettere in atto comportamenti problematici (Cristini & Santinello, 2012).

Tra i fattori di protezione è possibile annoverare:

  • I fattori di protezione ambientali, le persone o le caratteristiche ambientali che possono aiutare l’individuo ad evitare determinati comportamenti;
  • I fattori di protezione individuali, le caratteristiche personologiche o i tratti di personalità che possono aiutare l’individuo ad evitare determinai comportamenti (Cristini & Santinello, 2012).

Prevenzione e promozione sono entrambe utilizzate in ambito psicosociale; tuttavia i due concetti si differenziano. Le principali differenze possono essere ricondotte all’obiettivo che si intende raggiungere con gli interventi, alla definizione di benessere e alla relativa importanza posta ai risultati di sviluppo positivi o negativi.

Gli interventi preventivi intervengono sui fattori di rischio, per ridurre la probabilità che il soggetto sviluppi un disturbo o un comportamento disfunzionale; gli interventi di promozione, invece, aumentano i comportamenti tesi al miglioramento del benessere e non si pongono in modo primario e specifico la prevenzione di un disturbo specifico (Ibidem).

Infine, negli interventi di prevenzione si pone enfasi sui disturbi o problemi che si devono prevenire, ovvero sui cosiddetti risultati di sviluppo negativo. Negli interventi di promozione del benessere e dello sviluppo positivo si pone enfasi sui cosiddetti risultati di sviluppo positivi e sulla condizione di benessere generale (Cristini & Santinello, 2012).

 

Psicoterapia online ai tempi del Coronavirus: cosa rimane dell’esperienza

Può uno spostamento di setting mettere in discussione l’efficacia psicoterapeutica? Non si tratta di stabilire se le terapia via Skype sia giusta o sbagliata, ma se si possa considerare questa modalità percorribile, in funzione del proprio modo di figurare il mondo.

 

…tutte le nostre percezioni attuali sono aperte alla discussione e riconsiderazione (…) persino i più ovvi accadimenti della vita di ogni giorno potrebbero mostrarsi totalmente trasformati se fossimo sufficientemente inventivi da costruirli in maniera diversa. (G.A. Kelly)

 

In tempi di pandemia, alle professioni è richiesto un alto grado di adattabilità: smart working, lezioni on line, psicoterapie via skype. In qualità di psicoterapeuta, formata sulla base della psicologia dei costrutti personali, è stato immediato il ricordo delle prime letture durante gli anni di specializzazione. George Kelly, inventore della PCP, si recò presso le aree rurali del Kansas negli anni ‘30 con la sua Clinica psicologica itinerante, in compagnia di quattro studenti, offrendo colloqui ad adulti e bambini.

Ben altro tipo di spostamento è richiesto a noi terapeuti di oggi: dallo studio alla modalità online. Tale evento ha determinato un cambiamento relativo all’esperienza sia nella vita del cliente che nella vita del terapeuta. Per ragioni relative alle distanze e agli spostamenti, fino ad oggi, le psicoterapie online dipendevano dalle necessità dei clienti. La pandemia, per chi seguiva un percorso in presenza fisica dello psicoterapeuta, ha implicato una scelta: sospendere le sedute, proseguire con gli incontri vis à vis, affacciarsi alla possibilità di una seduta attraverso una videochiamata. Compito dello psicoterapeuta, comprendere il proprio ruolo in questa fase di cambiamento.

Può uno spostamento di setting mettere in discussione l’efficacia psicoterapeutica?

Se intendiamo il setting come un luogo sicuro all’interno del quale si svolga una relazione,

in cui tutto ciò che avviene è confidenziale e distinto dal resto delle normali attività e relazioni interpersonali (Cionini, 2001, p.21),

la psicoterapia via Skype può continuare a garantire un senso di sicurezza e di unicità della relazione. Il terapeuta, laddove scelga di svolgere le sedute all’interno della propria abitazione, ricercherà quel grado di isolamento che gli era consentito dentro lo studio, l’assenza di elementi personali che possano turbare la neutralità del setting. Se intendiamo la relazione terapeutica come un rapporto di partnership fra due persone che si pongono come obiettivo il benessere del cliente, un’alterazione del setting che mantenga lo stesso livello di privacy,  la stessa vivacità della seduta, quel giusto livello di coinvolgimento emotivo, non modifica i fattori principali che rendono possibile la riuscita di una psicoterapia.

Che dire allora di chi ha preferito sospendere le sedute? O di chi abbia scelto gli incontri attraverso la videochiamata pur continuando a prediligere la seduta vis à vis? A quali riflessioni invitano i terapeuti che hanno lamentato una fatica durante questo passaggio?

Le scelte e i vissuti andrebbero guardati non tanto in termini di autocritica, ma all’interno di una possibilità di comprensione. Non si tratta di stabilire se le terapia via Skype sia giusta o sbagliata, ma se si possa considerare questa modalità percorribile, in funzione del proprio modo di figurare il mondo.

Alcuni colleghi potrebbero lamentare il fatto che non solo mancano i corpi – il video, nella postura, nei gesti, nelle espressioni, nei movimenti, li restituisce parzialmente – mancano anche quei passaggi che forse sono propedeutici all’incontro: uscire di casa, viaggiare e pensare alla seduta, vedere i gestori del bar, o i commessi del negozio di fianco prima di suonare il campanello. Qualcuno potrebbe obbiettare che anche se all’interno di una seduta via Skype è possibile stabilire la “giusta distanza” attraverso lo stile registico adottato, è più difficile ricreare quella relazione fra i corpi, fatta di spostamenti, modi di gesticolare, di distanze che assume molti significati nella stanza della terapia. Significati che non permeano necessariamente la mente del terapeuta ad un alto livello di consapevolezza, ma che costituiscono parte importante dell’intero processo terapeutico.

Se è vero che la scelta di mostrare tutto il busto o solo il viso canalizza la comunicazione, quello che emerge forse, è che non mancano i corpi, perché sono riprodotti dal video, manca la relazione tra questi. Le implicazioni della diffusione del virus sull’attività psicoterapeutica sono state numerose. Ciò che ha reso questa esperienza unica infatti è l’improvviso cambiamento di stile di vita di cliente e terapeuta, che al di là delle differenze di età, di genere e di esperienza si sono trovati a vivere una realtà eccezionalmente simile. E hanno vissuto e guardato a quella realtà con occhi uguali e diversi. Se il valore di una psicoterapia si costruisce principalmente su una relazione “ortogonale”, ortogonale perché diversa dalle relazioni precedenti e diversa in un modo specifico che è particolarmente funzionale a quel tipo di persona, allora ciò che risulta fondamentale è mantenere la qualità della relazione indipendentemente dalla scelta effettuata (sospendere gli incontri o continuarli attraverso il video). In un momento storico sociale in cui è minacciato il nostro modo di stare nel mondo e con gli altri è bene che l’alleanza terapeutica non vada incontro a nessun tipo di minaccia. Sarebbe opportuno, invece, che il terapeuta avesse addirittura la possibilità di anticipare la scelta fatta dal cliente sulla base della conoscenza dello stesso, in modo tale da non trovarsi ad essere particolarmente sorpreso.

Sappiamo quanto sia importante per svolgere il mestiere di psicoterapeuti il fatto di avere una vita ricca, in termini di interessi, relazioni significative, curiosità, attività, incontri. Tutto ciò si è reso più difficile durante il lockdown e le persone, terapeuti compresi, si sono impegnate in uno sforzo teso a ricostruire un mondo ricco in tempi rapidi.

Un’altra difficoltà che potrebbe aver accompagnato la vita delle persone è che prima della pandemia molti di noi vivevano affidandosi ad un alternarsi di pensiero logico e pensiero narrativo. L’ansia vissuta, il senso di minaccia, la riduzione del numero di narrazioni (minor numero di contatti, di incontri, di conversazioni, di visioni) potrebbero, nel loro insieme, aver potenziato l’esperienza logica a sfavore di quella narrativa, generando cambiamenti significativi all’interno della vita vissuta: quel giusto avvicendarsi di allentamento e restringimento, di pensiero logico e narrativo colora infatti in modo positivo la qualità dell’esperienza.

Tornando alla relazione terapeutica, non si può non considerare però che le scelte effettuate dai clienti in questa circostanza possono aver dato luce a diverse opportunità: arricchire la conoscenza di sé sulla base della scelta effettuata (perché non mi connetto e quali aspetti di me spiegano questa scelta), sperimentare l’assenza della psicoterapia e restituire un significato alla funzione della stessa nella propria vita, fare invece esperienza di nuovi aspetti di sé nella comunicazione attraverso il video, cogliere nella relazione online caratteristiche interessanti.

Fra le numerose domande: se lo psicoterapeuta fa ricorso all’interpretazione, a un intervento, all’adozione di tecniche, per favorire nel cliente una comprensione di sé che abbia via via un effetto discrepante tale da favorire un movimento, in che modo questo è ancora possibile in assenza dell’intercorporeità? Ci si chiede quindi in che modo sia possibile riprodurre a distanza, chiusi in stanze diverse, quella possibilità di fantasticare il cliente, di visualizzare quelle letture che favoriscono una rinarrazione. Intuizione, coraggio e creatività possono appartenere al terapeuta in un percorso che implica distanza fisica?

In Il costruttivismo in psicologia e in psicoterapia – Il caleidoscopio della conoscenza, Chiari (2016), racconta come dal suo punto di vista il caleidoscopio sia una fra le metafore migliori per rappresentare la complessità della conoscenza. La stessa immagine può rivelarsi utile per spiegare la molteplicità delle strade che la psicoterapia può percorrere in tempi di lockdown, senza perdere i presupposti che la contraddistinguono sul piano teorico e professionale.

 


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Paura del buio – CBT vs ACT

Uno studio recente ha paragonato l’efficacia della Terapia Cognitivo-Comportamentale e dell’Acceptance and Commitment Therapy in un campione di bambini con alti livelli di ansia e paura del buio.

 

Anche se parte del normale sviluppo (Muris et al., 2001), approssimativamente il 20% dei bambini soffre di paure notturne e problemi legati al sonno (Gordon et al., 2007), senza prevalenza a livello di genere (Meltzer et al., 2009). Nei bambini di 8-12 anni a cui è stata diagnosticata una fobia specifica, la paura del buio è il tipo di fobia più diffuso (Simon & Bögels, 2009). Chi soffre questo tipo di fobia sperimenta in genere gravi sintomi di paura e ansia prima di andare a letto e durante tutta la notte (Lewis et al., 2015).

La paura del buio è anche associata a un aumento del rischio di futuri problemi di ansia e depressione (Essau et al., 2000; Pine et al., 2001).

La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è attualmente considerata il trattamento standard per i disturbi legati alle fobie e all’ansia ed è stata efficacemente utilizzata anche con i bambini (Kendall, 1994; Kendall & Hedtke, 2006; Ollendick et al., 2009; Simon et al., 2011). Negli ultimi anni, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è stata proposta come un intervento cognitivo-comportamentale alternativo alla CBT classica per trattare i problemi legati all’ansia (Arch & Craske, 2008; Hayes et al., 2006; Powers et al., 2009). La differenza tra le due è che, mentre la CBT ha come target terapeutico il contenuto delle cognizioni, l’ACT stimola i pazienti ad avere un atteggiamento più favorevole verso i loro pensieri, portandoli ad accettarne il contenuto (Arch & Craske, 2008; Hayes et al., 2006).

Siccome non sono stati fatti ancora paragoni tra le due terapie – a livello esclusivamente cognitivo – su un campione di bambini, uno studio recente (Simon et al., 2020) ha paragonato l’efficacia di queste due terapie in un campione di bambini con alti livelli di ansia, focalizzandosi sugli aspetti cognitivi legati alla paura del buio.

Per fare ciò sono stati reclutati in Belgio 43 bambini con alti livelli di ansia delle scuole elementari. La loro età era compresa tra 8 e 12 anni e sono stati divisi in due gruppi per un training di 30 minuti di ristrutturazione cognitiva CBT (n = 21), oppure di accettazione ACT (n = 22). Il livello legato alla paura del buio è stato misurato – prima e dopo l’intervento – con una Visual Analogue Scale, così come anche sono stati misurati la tolleranza al buio (accertata empiricamente con una prova di permanenza al buio di massimo tre minuti), il livello di comprensione dell’intervento e di divertimento legato a questo.

Dai risultati si è riscontrato che la paura del buio nei bambini – nonostante la durata del training di soli 30 minuti – è diminuita notevolmente sia con l’intervento CBT, sia con quello ACT, sebbene il gruppo CBT abbia riportato una diminuzione maggiore rispetto a quello ACT.

Non ci sono state differenze invece nei livelli di tolleranza al buio e di divertimento percepito durante l’intervento.

Il livello di comprensione dell’intervento è stato significativamente più alto nel gruppo CBT rispetto a quello ACT. Tuttavia, in contrasto con i risultati di alto divertimento, il livello di comprensione è stato abbastanza modesto per i bambini in entrambi i gruppi.

La ristrutturazione cognitiva della CBT sembrerebbe portare a risultati più favorevoli che l’accettazione della ACT per i bambini di questa fascia d’età. Una possibile spiegazione per questo potrebbe anche essere che la CBT si mostra più adatta dell’ACT nei casi di interventi particolarmente brevi. In ogni caso, a livello clinico, i bambini ansiosi di 8-12 anni possono beneficiare di un intervento esclusivamente cognitivo (CBT o ACT), anche quando non sono offerti esercizi comportamentali (come l’esposizione).

 

Ansia esistenziale e personalità nei giovani adulti

Porsi delle domande circa il senso della vita accomuna tutti gli esseri umani. Tuttavia, alcune persone possono essere particolarmente angosciate rispetto a questi temi, che più volte sono stati trattati anche nell’arte e nel cinema.

 

Alcune persone quindi sperimentano quella che viene definita ansia esistenziale. L’ansia esistenziale è l’apprensione che si prova quando si percepisce la vita come vuota e priva di significato. L’ansia esistenziale riguarda anche la preoccupazione che nasce attorno a riflessioni sul fato, sulla morte e sul senso di colpa (Shumaker, Killian, Kole, Hruby e Grimm, 2017).

Shumaker e colleghi (2017) hanno argomentato che i tratti di personalità possono influenzare la tendenza a provare ansia esistenziale. Specificamente, hanno ipotizzato che un alto livello di nevroticismo, uno dei tratti di personalità presenti nel modello dei Big Five (McCrae e Costa, 2007), sia associato a una maggior sperimentazione dell’ansia esistenziale. Un livello elevato di nevroticismo è associato con bassa stabilità emotiva e con la tendenza a sperimentare facilmente emozioni negative, anche di fronte a piccoli stress (Barnhofer e Chittka, 2010).

Inoltre, sebbene tutti tendiamo a confrontarci con il bisogno di dare un senso alla nostra esistenza, questa necessità può essere particolarmente intensa per gli adolescenti e i giovani adulti. Infatti, in questa fascia di età, seppur con delle specificità che distinguono adolescenti e giovani adulti, si è impegnati nella formazione della propria identità, nel cercare di capire chi si è e che obiettivi ci si vuole porre per il futuro (Lancini, 2019). Per questo, i ricercatori hanno utilizzato un campione di studenti universitari di età compresa tra i 18 e i 25 anni.

I partecipanti hanno completato una serie di questionari per misurare l’ansia esistenziale (Existential Anxiety Questionnaire, EAQ; Meaning of Life Questionnaire), i tratti di personalità (Neo – Five-Factor Inventory 3), la presenza di sintomi depressivi (Beck Depression Inventory – II) e di sintomi ansiosi (Beck Anxiety Inventory).

Tutti i partecipanti hanno riportato di avere almeno in minima parte preoccupazioni di natura esistenziale, confermando che l’ansia esistenziale è un fenomeno universale. Tuttavia, i punteggi dell’Existential Anxiety Questionnaire indicano che alcuni giovani adulti la sperimentano in modo particolarmente intenso.

Come ipotizzato, gli studenti con un elevato nevroticismo sono quelli che sperimentano ansia esistenziale in misura maggiore. In particolare, la sottodimensione del nevroticismo più fortemente correlata con l’ansia esistenziale è l’auto-consapevolezza o auto-coscienza, che a sua volta è associata a timidezza e sentimenti di inferiorità e colpa. Gli autori riportano che giovani adulti caratterizzati da questi tratti di personalità spesso si presentano in terapia riportando un’alta motivazione per la propria realizzazione, insieme a sentimenti di disprezzo verso sé stessi, al bisogno di fare le cose sempre in modo corretto e a un rigido codice morale che lascia poco spazio alla compassione verso sé stessi.

I giovani adulti appena descritti possono rappresentare una popolazione a rischio per lo sviluppo di ansia esistenziale e di sintomi depressivi, ansiosi e suicidali. Per questo sarebbe importante integrare i risultati qui presentati con ulteriori dati. Sarebbe utile ad esempio estendere il campione a giovani adulti che non frequentano l’università. Sarebbe inoltre opportuno effettuare uno studio longitudinale, per poter trarre conclusioni di natura causale. Approfondire questi risultati è importante perché, nell’esercizio dell’attività clinica, riconoscere la presenza di tratti di personalità che possono più probabilmente associarsi ad ansia esistenziale permette di agire in termini preventivi.

 

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