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L’ansia nella pandemia: l’impatto psicologico ed emotivo sulla comunità e sul singolo individuo – VIDEO del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

Analizzando le teorie e valutando la storia attuale è possibile dedurre come l’impatto psicologico di una pandemia, e della conseguente quarantena, possa essere rilevante. Pubblichiamo per i nostri lettori il video di un webinar sull’argomento.

 

Negli ultimi decenni si è assistito allo sviluppo della cultura della prevenzione e della cura delle persone coinvolte in eventi emergenziali. Questa innovazione costituisce una diretta conseguenza del confronto con accadimenti causati dalle forze distruttive della natura e/o dall’inaffidabilità delle nuove tecnologie create dall’uomo. Ogni evento scaturito da queste circostanze costituisce un’emergenza, che dal punto di vista psicologico viene descritta come una situazione in cui l’individuo si confronta con un evento inaspettato e imprevedibile che richiede una rapida attivazione al fine di garantirne la sopravvivenza.

Analizzando le teorie e valutando la storia attuale è possibile dedurre come l’impatto psicologico di una pandemia, e della conseguente quarantena, possa essere rilevante. Le emozioni hanno un ruolo fondamentale nella definizione dei comportamenti di ognuno affinché possano essere definiti come adattivi e funzionali, a patto che queste non riescano a minare la stabilità del soggetto.

Attraverso l’applicazione di specifiche tecniche di indagine e percorsi psicoterapeutici è possibile individuare le caratteristiche specifiche della sintomatologia manifestata allo scopo di incrementare le abilità e le risorse personali.

Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar, organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila, sul tema dell’ansia nella pandemia.

 

L’ANSIA NELLA PANDEMIA:
L’IMPATTO PSICOLOGICO ED EMOTIVO SULLA COMUNITÀ E SUL SINGOLO INDIVIDUO

Guarda il video integrale del webinar:

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HIPPO – Recensione dell’app che migliora la qualità delle relazioni – Psicologia Digitale

La app HIPPO è stata creata da Performance Mind, società di management consulting che, messi insieme team di sviluppatori, designer e psicologi, dopo mesi di ricerca e di test, ha realizzato la prima app per promuovere il capitale sociale e valorizzare la qualità delle interazioni.

PSICOLOGIA DIGITALE– (Nr. 19) HIPPO – Recensione dell’app che migliora la qualità delle relazioni

 

È lo stesso Massimiliano Baiocco, fondatore di Performance Mind e ideatore di HIPPO, a spiegarmi la nascita dell’idea e la messa a terra del progetto. Si definisce uno “human digital farmer”, ovvero una persona (prima ancora che un imprenditore) che possiede il rigoroso atteggiamento del buon contadino che, attraverso un paziente lavoro di semina, sa che otterrà il suo raccolto; sono i semi della fiducia quelli che Baiocco vuole piantare grazie al suo lavoro di formatore e ad HIPPO.

#wetrustyou: verso l’economia della fiducia

Nata da un’intuizione di oltre tre anni fa, HIPPO (Help Improve Permanently Positive Organisation) ha come obiettivo quello di creare un contesto che favorisca e promuova la collaborazione, la condivisione, la trasparenza e l’inclusività. Il fine ultimo è generare un’economia della fiducia.

Perché è così importante la fiducia? Soprattutto nei contesti aziendali, l’assenza di fiducia si traduce in mancanza di trasparenza, di un dibattito sano e costruttivo, di confronti in cui ci si sente liberi di esprimersi. Assenza di fiducia vuol dire anche scarso impegno: il singolo individuo non in accordo con delle scelte si sentirà meno in dovere di portarle avanti ed impegnarsi nei compiti, si sentirà meno responsabilizzato e porrà poca attenzione ai risultati focalizzandosi di più sulla riuscita dei suoi obiettivi individuali.

iNudge, le spinte gentili

Come trasmettere fiducia? Attraverso gli iNudge, un sistema di 18 rinforzi in 4 aree (motivazione, credibilità, capacità, risultati) di due tipi: di conferma e rafforzativi. Gli iNudge sono spunti, suggerimenti ‘gentili’ che possiamo donare e ricevere dai nostri contatti.

È importante sottolineare che non hanno una valenza giudicante né sono indicatori di performance. Lo scopo è aumentare la consapevolezza di se stessi e migliorare così i comportamenti quotidiani: infatti per ogni risposta viene richiesta una motivazione per dare spazio alla riflessione e alla condivisione. Nel pratico, vuol dire che alla fine di un appuntamento, una riunione, una telefonata, possiamo donare e ricevere degli iNudge ed esprimere cosa abbiamo provato durante l’interazione così come possono fare gli altri.

H-Shaped Model

L’insieme del comportamento di utilizzo e delle interazioni sulle 4 aree genera un profilo individuale. I 4 cardini sono la motivazione che si riferisce a direzioni ed obiettivi che ci poniamo, a cosa spinge e motiva le nostre azioni; la credibilità che fa riferimento ad integrità e coerenza e nel perseguire i propri valori e convinzioni; la capacità e le competenze; i risultati, ovvero la dimostrazione tangibile di ciò che abbiamo fatto.

Le specifiche di ogni singolo profilo vanno ad alimentare un grafico a forma di H. Il team ha definito H-Shaped Model questo modello che rappresenta ogni persona sulle quattro dimensioni; è in corso di registrazione il brevetto internazionale.

Far guidare l’uomo dall’uomo

HIPPO è stata creata e funziona secondo logiche basate su neuroscienze ed economia comportamentale (la stessa Teoria dei Nudge deriva proprio dagli economisti Thaler e Sustein, 2009). Tramite il sistema degli iNudge viene creato un H-Shaped Model che, combinando le 4 aree di motivazione, credibilità, capacità, risultati e l’uso della app, determina un profilo personale di ogni utente con le aree di forza e quelle di crescita.

In tutte le fasi della creazione è stata posta molta cura all’aspetto del feedback per evitare di cadere in valutazioni o giudizi per rimanere nello spirito di donare e ricevere delle ‘spinte gentili’, degli spunti per migliorare.

HIPPO è un bell’esempio di tecnologia come abilitatrice e promotrice di miglioramento: permette di andare oltre gli algoritmi e portare al miglioramento di sé stimolando l’autoconsapevolezza e la crescita collettiva.

 

“Le guide di Headspace – meditazione”: un viaggio in otto puntate dentro se stessi

Le guide di Headspace – meditazione è composta da otto episodi di circa venti minuti ciascuno, strutturati in una parte iniziale in cui viene introdotto un tema su cui lavorare mediante la meditazione, a cui segue un breve esercizio di meditazione guidata.

 

In una serata trascorsa su Netflix, solitamente, ricerchiamo un’esperienza di intrattenimento, conoscenza o riflessione attraverso l’immersione in una storia e un luogo, reali o immaginari, esterni a noi.

Le guide di Headspace – meditazione propone un’esperienza differente, un viaggio ambientato in luogo reale, molto vicino, ma spesso inesplorato: la nostra mente. Questa serie tv, uscita su Netflix nel 2021, conduce passo a passo i suoi spettatori in esperienze di meditazione guidata.

Headspace è una società fondata nel 2010 da Andy Puddicombe e Richard Pierson con lo scopo di offrire training di meditazione guidata e mindfulness attraverso piattaforme digitali.

Andy Puddicombe ha alle spalle un percorso di formazione come monaco buddista; con Headspace si prefigge l’obiettivo di diffondere i benefici della meditazione a un pubblico vasto, restando fedele agli insegnamenti ricevuti e alle tecniche acquisite nella sua formazione. Richard Pierson, co-fondatore e finanziatore della società, lo ha aiutato a trasformarla in un business di successo.

Le guide di Headspace – meditazione è composta da otto episodi della durata di circa venti minuti ciascuno, strutturati in una parte iniziale in cui viene introdotto un tema su cui lavorare mediante la meditazione, a cui segue un breve esercizio di meditazione guidata. La narrazione e l’esercizio sono accompagnati da una veste grafica curata ed evocativa.

Il tema di ogni puntata è illustrato da A. Puddicombe attraverso metafore apprese nel suo percorso di formazione come monaco, attraverso aneddoti personali o relativi a persone a cui ha insegnato la pratica meditativa. Inoltre riporta informazioni e risultati tratti dalla ricerca scientifica a sostegno dei benefici della meditazione sulla salute mentale.

Di seguito, una breve rassegna dei contenuti e delle pratiche meditative che troverete in ciascun episodio, personalmente “testati”.

Inizialmente sono spiegati gli assunti alla base della pratica meditativa, come abilità mentale basata su un allenamento regolare. Meditare non richiede di modificare l’attività mentale, né di esercitarsi a scacciare pensieri ed emozioni come invadenti occupanti del mondo interno, come ospiti indesiderati che ostacolano la possibilità di dormire, di concentrarsi o di rilassarsi.

La meditazione insegna a trasformarsi in uno spettatore presente, accogliente e non giudicante della propria attività mentale; la presa di distanza che si ottiene conduce a uno stato di calma e alla sensazione di sentirsi a proprio agio con se stessi.

L’esercizio proposto è una meditazione guidata basata sull’attenzione focalizzata sul respiro.

Il secondo episodio si intitola: ‘Come lasciar andare’. A. Puddicombe propone una tecnica di visualizzazione in cui, senza sforzo, ci si focalizza su un luogo piacevole e sulle sensazioni che ne scaturiscono. Lo scopo è di sentirsi più leggeri, raggiungere uno stato mentale di rilassamento profondo che va in direzione opposta alla tendenza a rimanere aggrappati alla cose (eventi, pensieri, sentimenti).

La terza puntata, ‘Come innamorarsi della vita’, spiega come esperire e coltivare quotidianamente sentimenti di apprezzamento e gratitudine abbia un influsso sul benessere psichico e sul senso soggettivo di felicità. La tecnica proposta si chiama ‘meditazione riflessiva’ e si basa sulla ricerca di opportunità per riflettere sulla natura preziosa della vita in relazione a semplici cose e attività di tutti i giorni.

Il quarto episodio offre una meditazione guidata per gestire lo stress e l’ansia attraverso una tecnica chiamata ‘annotazione’. Essa aiuta ad affrontare la sensazione di sentirsi sopraffatti dai propri pensieri e di essere in ansia non per eventi o situazioni, ma per il fatto stesso di provare ansia. La tecnica proposta ha lo scopo di cambiare il rapporto con pensieri ed eventi ansiogeni; si basa sull’esperienza universale che, durante qualsiasi esercizio di meditazione, la mente divaga. La tecnica dell’‘annotazione’ richiede la pacata ammissione che la mente si è allontanata dall’esercizio per spostarsi su preoccupazioni, impegni, ricordi, situazioni, per poi tornare alle prescrizioni della meditazione. La ripetizione e l’allenamento a questi movimenti mentali fornisce la rivelazione trasformativa che ‘noi non siamo i nostri pensieri’ e che possiamo sempre prenderne distanza e non farci invadere da essi.

Nella quinta puntata, ‘Come essere gentili’, Puddicombe sottolinea quanto viviamo prigionieri del giudizio, di una continua tensione tra il modo in cui le cose appaiono e il modo in cui, secondo noi, dovrebbero essere. La tecnica meditativa proposta si chiama ‘gentilezza amorevole’; ha lo scopo di liberarsi dal giudizio e dal risentimento verso se stessi e verso gli altri e di aiutare a coltivare qualità come la gentilezza e la compassione.

Il sesto episodio tocca un argomento spinoso: l’uso della meditazione per gestire il dolore. Propone la tecnica della scansione corporea, un’analisi delle zone del corpo rilassate o in cui si prova disagio, con lo scopo di cambiare la propria prospettiva sul dolore e di prendere le distanze da esso.

Anche la settima puntata della serie è incentrata su un tema ‘scottante’: la gestione della rabbia. Puddicombe sottolinea quanto nella vita tendiamo a evitare tutto ciò che ci fa star male e a ricercare ciò che ci fa star bene, ma anche quanto la focalizzazione esclusiva su noi stessi e sulla felicità individuale tenda a ‘rimpicciolire’ la mente. Propone una tecnica chiamata ‘compassione attiva’, che permette di passare dall’incolpare gli altri, alla volontà proattiva di vedere l’altro felice; di trasformare la nostra rabbia nei confronti dell’altro e di provare a mettere la felicità altrui sullo stesso piano della propria.

L’ultimo episodio, ‘Come sfruttare il proprio potenziale illimitato’, invita a riflettere sull’idea che, per sentirsi sereni, si è convinti che tutti i tasselli della propria vita (sentimentale, lavorativa, sociale) dovrebbero funzionare in un (spesso non meglio definito) modo soddisfacente. Ma nella pratica, si è spesso prigionieri di aspettative, limiti, copioni autoimposti che impediscono di sfruttare il proprio ‘potenziale illimitato’. Questo concetto espresso da Puddicombe non è facile da afferrare; lo definisce come un senso di fiducia che si può tradurre sia in una pace interiore che in un agire sul mondo. Esso si coltiva attraverso la tecnica del ‘rilassamento consapevole’, una delle più difficili, poichè richiede la capacità di rilassarsi senza concentrarsi su nulla di specifico, di essere uno spettatore cosciente della propria mente e delle sue dinamiche.

Le guide di Headspace – meditazione è una serie TV che permette un primo approccio alla meditazione alla portata di chiunque sia curioso rispetto all’argomento.

Chiaramente, non permette di lavorare su disturbi psicopatologici conclamati, né di diventare autodidatti nella meditazione.

La meditazione è complessa, non è adatta a tutti, e, come sottolineato in ogni episodio, dà dei risultati solo se allenata costantemente. Inoltre, farsi insegnare le pratiche della meditazione da un professionista rinforza e struttura l’apprendimento, perché permette di condividere le reazioni, le sensazioni, il proprio funzionamento mentale mentre si medita nel contesto di un rapporto di fiducia e accettazione, e di sviluppare un atteggiamento analogo verso se stessi.

Per chi invece ha già svolto un training di meditazione, la serie rappresenta un utile e piacevole esercizio di ‘mantenimento’ delle abilità acquisite.

 

ANDY PUDDICOMBE – ALL IT TAKES IS 10 MINDFUL MINUTES – GUARDA IL VIDEO:

 

Exergames in terapia

Se confrontati ai videogiochi tradizionali, gli exergames coinvolgono vari tipi di aspetti motivazionali, come feedback visivi e uditivi sulla performance, che rendono l’esercizio molto interattivo, divertente e soddisfacente. 

 

Fra i benefici presi in considerazione abbiamo una migliorata motivazione all’esercizio fisico (che è stato a più riprese considerato come utile nel miglioramento di molti sintomi, fra i quali quelli appartenenti al quadro depressivo), condizione fisica, e abilità cognitive. Fra gli interventi digitali, annoveriamo anche la terapia cognitiva basata su internet e le psicoterapie computerizzate. La tipologia di exergames presenti sul mercato varia enormemente, per cui ogni elemento specifico va analizzato come efficace non in tutti gli scenari, ma solamente in alcuni per i quali risulta più indicato. Secondo la definizione della “American College of sports Medicine”, i criteri per definire un valido exergame sono i seguenti: coinvolgere giochi legati alla tecnologia, i partecipanti devono avere un coinvolgimento fisico attivo che vada al di là del semplice uso delle mani.

In uno studio chiamato: “Effect of Exergame on Depression: A Systematic Review and Meta-Analysis” di Jinhui Li, Yin-Leng Theng, and Schubert Foo (2015), gli autori hanno condotto una meta-analisi su articoli legati agli effetti degli exergames sulla depressione. Dai risultati si evincono alcune considerazioni. Gli exergames si rivelano utili nel trattamento della depressione in modo similare ad altri esercizi fisici. Si sono rivelati più utili nel trattamento degli anziani rispetto a quello degli adulti. Mentre negli adulti la depressione si sviluppa a seguito di eventi negativi legati al lavoro e alle relazioni, negli anziani è maggiormente legata a problematiche fisiche e all’isolamento sociale. Dato che gli exergames promuovono sia il benessere fisico sia le interazioni sociali, risulterebbero spiegati i risultati ottenuti. Il tempo di somministrazione degli exergames è risultato inversamente proporzionale ai benefici. Somministrazioni più brevi generavano risultati migliori.

Exergames e depressione

Nel 2010 viene pubblicato un articolo chiamato “Exergames for Subsyndromal Depression in Older Adults: A Pilot Study of a Novel Intervention” di Rosenberg e colleghi (2010), in cui gli autori hanno analizzato l’impatto positivo degli exergames sulla depressione subsindromica (SSD). Allo studio hanno partecipato 19 soggetti anziani con SSD, i quali dovevano utilizzare gli exergames per 12 settimane. I risultati vennero analizzati al termine delle 12 settimane e in uno studio di follow-up dopo 20-24 settimane. L’86% dei partecipanti iscritti ha completato l’intervento di 12 settimane. C’è stato un significativo miglioramento dei sintomi depressivi, della qualità della vita e delle prestazioni cognitive, ma non della salute fisica. Non ci sono stati eventi avversi di rilievo, e il miglioramento della depressione è stato mantenuto al follow-up. La bassa percentuale di drop-out ha fatto pensare agli autori che gli exergames potrebbero essere uno strumento efficace per combattere i sintomi depressivi nelle persone anziane. In primo luogo perché gli exergames sono ampiamente disponibili e possono essere utilizzati in casa, attenuando le variabili ambientali che ostacolano l’esercizio fisico. Inoltre, gli exergames sono progettati per aumentare la soddisfazione per l’attività fisica; gli exergames dunque possono contrastare la diminuzione del piacere dell’esercizio fisico, che può essere particolarmente rilevante per coloro che soffrono di depressione.

Exergames e autismo

Inizieremo a trattare questo argomento partendo dalla ricerca di Samantha L. Finkelstein, Andrea Nickel, Tiffany Barnes, Evan A. Suma, nell’articolo: “Astrojumper: Designing a Virtual Reality Exergame to Motivate Children with Autism to Exercise” (2010).

I bambini con autismo trovano beneficio dall’attività motoria, tuttavia è difficile motivarli ad effettuare attività fisica. Per intervenire sulla motivazione, gli autori hanno provato ad introdurre l’utilizzo degli exergames, in particolare di Astrojumper. Un gioco basato sulla realtà virtuale, creato per coprire le esigenze dei bambini autistici. Durante il gioco, degli oggetti si muovono verso il giocatore in uno spazio virtuale, mentre quest’ultimo deve usare i propri movimenti per evitare di entrare in collisione con questi oggetti. I disturbi dello spettro dell’autismo coinvolgono problemi nel controllo motorio, un interesse verso la tecnologia ed i videogames, e spesso tendono ad essere attratti da una ristretta gamma di interessi. I problemi nel relazionarsi agli altri riducono le possibilità per questi bambini di partecipare ad attività motorie e sportive, aumentando la probabilità di diventare sedentari e di presentare un quadro di obesità.

Gli autori del gioco introdurranno la possibilità di registrare e monitorare gli indici corporei come il battito cardiaco, e incentivare l’attività dando dei bonus nel punteggio quando il battito rientra nel range auspicato per una ottimale attività fisica. Svolgere l’attività in un ambiente 3D controllato, evita che i bambini affetti da autismo vengano distratti da elementi non coerenti con gli scopi dell’attività, dato che queste persone sono particolarmente vulnerabili alla distraibilità.

Nel 2014 viene pubblicato un articolo di Hilton e colleghi (2014), nel quale gli autori hanno analizzato l’impatto degli exergames sui deficit motori e delle funzioni esecutive che sono spesso presenti nelle persone affette da autismo. Da questo studio è risultata una forte correlazione tra il miglioramento relativo alle funzioni esecutive e quello relativo alle abilità motorie: in particolare, i partecipanti hanno aumentato la loro velocità media di reazione ed è stato osservato anche un miglioramento significativo nelle funzioni esecutive della memoria di lavoro e della metacognizione. I partecipanti hanno riferito di essersi sentiti motivati nel prendere parte allo studio, soprattutto per via della facilità e rapidità di utilizzo dell’exergame. La soddisfazione riportata da questo campione sembra allinearsi anche allo stato d’animo riferito dai soggetti dello studio di Rosenberg e colleghi, e potrebbe rappresentare una buona motivazione per includere protocolli exergames nel trattamento sia dei disturbi dell’umore, sia dei disturbi dello spettro autistico.

Exergames come terapia per il Parkinson

Il morbo di parkinson causa delle problematiche motorie, specialmente per i movimenti volontari, e in alcuni casi deficit cognitivi che non emergono in compiti semplici ma si evidenziano man mano che il compito diventa più complesso (in particolare in memoria e funzioni esecutive). Attualmente si sta discutendo sulla possibilità che un allenamento cognitivo unito ad uno fisico possano portare dei benefici sul PD (Parkinson Disease), sui sintomi attuali e nella prevenzione del declino successivo. Gli exergames sembrano essere una ottima possibilità di offrire a questi pazienti un approccio che integra allenamento cognitivo e fisico. Per trattare questo argomento prenderemo in esame l’articolo: “Recent advances in rehabilitation for Parkinson’s Disease with Exergames: A Systematic Review” di Augusto Garcia-Agundez e colleghi (2019). I risultati di questo studio mostrano un miglioramento delle abilità motorie conseguente all’uso degli exergames. Le conclusioni principali mostrano come questo tipo di riabilitazione sia sicuro, efficace, e in alcuni casi migliore rispetto alle tradizionali terapie riabilitative. Gli exergames permettono di seguire la terapia nel proprio ambiente domestico, e di monitorare i pazienti a distanza. Non è emerso però quale tipologia di exergame sia stata più efficace nello specifico. Come spunti per future ricerche, gli autori suggeriscono che sarebbe utile implementare dei sensori che monitorino il tremore delle mani o il battito cardiaco. Emerge inoltre quanto sia importante progettare un intervento il più possibile mirato alle esigenze del paziente.

Exergames e demenza

L’efficacia delle terapie farmacologiche sulla demenza è ad oggi limitata, motivando la ricerca ad esplorare la validità di terapie non farmacologiche, ad esempio la stimolazione cognitiva, interventi comportamentali ed esercizio fisico. Alcuni studi hanno dimostrato l’efficacia degli esercizi fisici sulla prevenzione del declino cognitivo, sul rafforzamento delle capacità cognitive, e sul mantenimento di capacità che permettano uno stile di vita indipendente dal supporto altrui (e.g. Angevaren, Aufdemkampe, Verhaar, Aleman, & Vanhees, 2008; Colcombe & Kramer, 2003). Ci sono evidenze che mostrano come una combinazione di esercizio fisico e motorio mirato ad attivare specifici domini cognitivi, possa portare ad un miglioramento delle capacità cognitive. A dispetto dei miglioramenti che questo tipo interventi producono, l’aderenza a questi programmi di allenamento, specialmente all’interno di strutture istituzionali, è molto scarsa. I deficit psico-fisici legati alla demenza portano i pazienti ad uno stile di vita sedentario, riducendo gradualmente la qualità e la quantità di attività motoria e rendendo una motivazione verso quest’ultima estremamente necessaria, per evitare la decaduta in questo circolo vizioso. Gli exergames rappresentano in questo scenario un possibile strumento di motivazione ad intraprendere esercizi stimolanti a livello fisico e cognitivo. Alcune ricerche hanno mostrato effetti positivi degli exergames su funzioni fisiche, cognizione, e funzionamento psicosociale(gli exergames spesso coinvolgono la partecipazione di altri giocatori) (Chao et al., 2015; Laufer, Dar, & Kodesh, 2014; Miller et al., 2014; Molina, Ricci, de Moraes, & Perracini, 2014; Schoene et al., 2014; Skjæret et al., 2016). Altre aree cognitive che sembrano ottenere benefici dagli exergames sono: cognizione globale, compiti visuospaziali (Yamaguchi, Maki, & Takahashi, 2011), attenzione e umore (Weybright, Dattilo, & Rusch, 2010).

Nonostante questi risultati incoraggianti, le ricerche sopra citate mostrano dei punti deboli, in particolare la mancanza di un’adeguata misurazione follow-up. Per sopperire a questa problematica, Stefanie Wiloth e colleghi (2017) hanno effettuato una ricerca usando un particolare strumento di allenamento interattivo chiamato Physiomat, utilizzato in particolare in compiti complessi di equilibrio. Il programma di intervento si è basato sul controllo cognitivo-motorio durante un programma di allenamento di gruppo per 10 settimane (1,5 ore, due volte a settimana) con un massimo di sette partecipanti. Includeva una formazione basata sul gioco utilizzando Physiomat, una formazione dual-task (camminare e contare) e apprendimento motorio. Prima di effettuare gli esercizi veri e propri, veniva somministrato un semplice training sull’utilizzo dello strumento ai partecipanti. Il principio di funzionamento di Physiomat si basa sul consentire movimenti di flessione, inclinazione e rotazione stando in piedi su una piattaforma. Questa costruzione produce uno speciale sequenza di movimento tridimensionale (sagittale, frontale, e livello trasversale).

Durante la ricerca, il gruppo di intervento veniva affiancato da un gruppo di controllo, al quale sono stati somministrati esercizi generici di attività fisica. I risultati mostrano un significativo aumento in tutti i domini motori e cognitivi nei partecipanti al gruppo di intervento.

Mostrano inoltre che l’allenamento con gli exergames è fattibile e altamente efficace nei pazienti affetti da Demenza, producendo miglioramenti sostanziali e sostenibili in attività specifiche riguardanti prestazioni cognitive motorie. Emerge anche un trasferimento di effetti positivi a compiti motori e cognitivi non allenati nello specifico durante l’allenamento, ed un mantenimento dei risultati anche dopo che si è concluso l’allenamento.

In sintesi, questo studio fornisce delle prove sul fatto che il metodo di allenamento specifico per la demenza presentato migliora le prestazioni cognitive-motorie nelle persone con demenza che va da un grado lieve a moderato.

Migliora le prestazioni sportive al ritmo della musica

La ricerca scientifica sugli effetti della musica nello sport ha individuato 5 funzioni specifiche alle quali è stato attribuito il potere di influenzare le performance degli atleti: dissociazione, sincronizzazione, controllo dell’eccitazione, acquisizione di abilità motoria e raggiungimento della trance agonistica.

 

Molto spesso capita di vedere sportivi che si isolano con le cuffiette prima di una gara, di una partita di calcio o durante un allenamento. Non è solo un modo per rendere più piacevole un momento di attesa o di sforzo fisico: diverse ricerche hanno dimostrato che la musica aiuta a migliorare le prestazioni, aumenta il controllo dei movimenti, carica, rilassa, distrae.

Si tratta di musica motivazionale, qualcosa in grado di modificare i sentimenti di una persona, trasformando la tristezza in felicità e la noia in determinazione.

Uno dei maggiori esperti in questo settore è Costas Karageorghis, professore di psicologia dello sport & dell’esercizio alla Brunel University, in Gran Bretagna. Le sue ricerche, pubblicate sul Journal of Sport & Exercise Psychology, lo hanno portato a definire l’uso della la musica nello sport paragonabile a quello di una droga legale. Ma vediamo più nel dettaglio in che modo questi studi hanno riscontrato che la musica può influenzare le prestazioni sportive.

La ricerca scientifica

La ricerca scientifica sugli effetti della musica nello sport si è sviluppata intorno agli anni 90 ed ha individuato 5 funzioni specifiche alle quali è stato attribuito il potere di influenzare le performance degli atleti, sia durante le competizioni che nelle sessioni di allenamento. Si tratta di dissociazione, sincronizzazione, controllo dell’eccitazione, acquisizione di abilità motoria e raggiungimento della trance agonistica.

La dissociazione consiste nell’effetto prodotto dalla musica di distrarre dalla sensazione di fatica e dalla percezione degli sforzi che si stanno compiendo contribuendo a creare uno stato d’animo positivo, allontanando tensioni e paure legate al risultato. Da notare che questo effetto è stato riscontrato solo nel caso di sforzi di media o bassa intensità. Dove lo sforzo è maggiore, la percezione della fatica supera l’effetto della musica che crea comunque un contesto più piacevole, contribuendo ad un maggior benessere dell’atleta.

La sincronizzazione dei battiti e del tempo della musica che si ascolta, con la successione di movimenti ripetitivi tipici di sport quali corsa, ciclismo, sci di fondo, è in grado di migliorare il rendimento dell’attività dando più regolarità al movimento, rendendolo più efficiente e prolungando la resistenza. Fornendo dei riferimenti temporali, consente all’atleta di ottimizzare la sua spesa energetica.

Il controllo dell’eccitazione deriva dal fatto che la musica altera l’eccitazione psicologica, in particolare attraverso il ritmo. Può essere utile sia per stimolare e dare la carica in vista dell’obiettivo da raggiungere, sia per calmare l’ansia, consentendo di raggiungere uno stato mentale ottimale.

L’acquisizione di abilità motorie è di particolare efficacia nei bambini, migliora la coordinazione e consente di acquisire nuove e più complesse abilità motorie, stimola il movimento e rende l’apprendimento più divertente.

Questi elementi concorrono al raggiungimento della trance agonistica ossia quel momento nel quale l’atleta sente in misura minore la fatica e produce una prestazione al di sopra dei suoi livelli abituali.

Gli effetti che l’ascolto della musica può determinare sulle prestazioni sportive ci risultano ancora più evidenti se pensiamo che in alcuni sport, come maratona e ciclismo, si è vietano l’utilizzo degli auricolari durante le gare considerandoli paragonabili all’effetto ottenuto con l’uso di sostanze dopanti.

Importante è scegliere la musica giusta

Per arrivare a questi risultati è importante la scelta della musica. Come abbiamo visto, alcune attività sportive, che possiamo definire più ripetitive, si prestano in modo particolare ad essere accompagnate dalla musica. Inoltre ci sono sport in cui l’ascolto è inteso in modo individuale e altri in cui la musica serve alla squadra per creare spirito di gruppo e sincronizzare i movimenti.

La scelta deve cadere su una musica che risulti gradita e che abbia un tempo ed un ritmo che rispecchino il tipo di attività da svolgere. Spesso si ricorre a vere e proprie playlist create appositamente per seguire un circuito di allenamento con ritmi veloci e volume più alto nei momenti in cui lo sforzo si prevede più intenso, e musiche più lente a volume più basso nei momenti di recupero.

Se utilizzate come abituali compagne di allenamento, queste playlist diventano conosciute agli atleti che sono in grado di anticiparne il flusso sonoro migliorandone ulteriormente l’effetto.

La playlist perfetta dovrebbe quindi contenere questi elementi: essere gradita all’atleta, risultargli familiare, trasmettere forza ed energia, essere in sintonia con i movimenti che si devono compiere, contenere valori edificanti e associabili allo sport quali il superamento dei limiti, lavoro e disciplina associati al trionfo.

 

Psicoanalisi e consenso: libertà e controllo sociale ai tempi del coronavirus

Le misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19 hanno imposto una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia.

 

Angoscia e pandemia

La pratica clinica della psichiatria territoriale mi ha spesso portato a contatto con pazienti molto preoccupati per le malattie contagiose. In questi casi il lavaggio delle mani diventa un rituale defatigante, la disinfezione di luoghi od ambienti occupa via via gran parte della giornata, ma la serenità non ritorna, la sicurezza sfugge, le energie profuse si esauriscono senza offrire alcun conforto.

Il partner, i familiari, spesso anche il paziente stesso, avvertono le pratiche di purificazione come ridondanti ed assurde e chiedono aiuto. La società ed il sistema sanitario offrono risorse professionali. Una costellazione emotiva (contagio/infezione/purificazione) viene cioè configurandosi su un piano culturale e scientifico come un comportamento irragionevole, manifestazione di una implicita follia. Le diagnosi formulate dai clinici includono senza dubbio quelle di fobia e di ipocondria.

L’angoscia legata al contatto interumano ha sempre avuto un ruolo rilevante nelle culture umane. Nelle civiltà primitive o semplicemente arcaiche il contatto con determinati oggetti, situazioni o membri della società (il tabù degli antropologi, cfr. Douglas 1966) comportava un pericolo di tipo rituale. Nella cultura indiana il contagio rituale è incardinato alla gerarchie delle caste. Qualsiasi contatto con le caste inferiori produce una inevitabile e pericolosa impurità.

Nel corso della storia europea la rappresentazione culturale dell’impurità si è modificato profondamente. Il cristianesimo medioevale l’ha riformulata prevalentemente nei termini di un contatto sessuale impuro. L’acqua delle antiche purificazioni è stata sostituita dai riti della penitenza, non raramente caratterizzati da altrettanto evidenti componenti magiche e da un carattere di coattività.

Nelle società moderne il pericolo rappresentato dal contatto ha spesso assunto le forme di un pericolo infettivo. La paura del contagio promosso da ipotetici untori si è periodicamente sostituita alla interazione sessuale come paradigma della minaccia. Nel suo capolavoro Manzoni ci ha insegnato come le folle siano sempre pronte a scatenarsi contro minoranze innocenti, ogni qual volta la salute e la sopravvivenza fisica siano in pericolo.

Oggi, appunto, l’umanità si confronta di nuovo, dopo vari decenni, con una malattia contagiosa gravata da significativa morbilità e mortalità, soprattutto nei soggetti anziani. E la paura cresce senza sosta. Epidemiologi, opinione pubblica, media e governo si rincorrono chiedendo provvedimenti sempre più restrittivi della libertà personale.

Cresce l’ostilità tra i cittadini. Anziane pensionate non mancano di apostrofare i rari passanti rispetto al corretto uso della mascherina; agguerrite commesse dettano precise disposizioni igieniche a consumatori attoniti; cittadini zelanti denunciano alle forze dell’ordine ipotetiche violazioni delle prescrizioni governative; i giovani più dotati di competenze informatiche non esitano ad esporre alla gogna mediatica innocenti runner o bambini indisciplinati.

Senza dubbio l’agente della SARS COVID-19 ha determinato una trasformazione culturale profonda e radicale. Le misure di contenimento dell’epidemia hanno imposto una rarefazione delle relazione umane che non ha precedenti nella nostra storia. I problemi sociali ed economici che attanagliano il nostro paese sono pressoché scomparsi dal dibattito politico, mentre la ricchezza pubblica è stata profusa senza risparmio nel tentativo, peraltro non riuscito, di arrestare il progredire della pandemia.

Come ha osservato il noto filosofo della politica Giorgio Agamben (2018), l’epidemia da coronavirus ha rapidamente configurato uno stato di eccezione di fronte al quale le stesse garanzie costituzionali sono apparse come assolutamente irrilevanti, preoccupazioni superflue per giuristi perditempo. Libertà, giustizia sociale, esperienza religiosa – i valori guida attorno a cui si è organizzata la nostra collettività e per i quali sono stati versati fiumi di sangue  – hanno perso improvvisamente qualsiasi importanza.

La paura ha assunto una centralità assoluta nell’immaginario collettivo della società contemporanea. Si è rapidamente affermata l’idea che tutta la struttura sociale e l’organizzazione economica debbano essere riformulate esclusivamente in funzione del controllo del contagio.

Come nelle società primitive, contatto, contagio e paura sono ritornati al centro dell’immaginario collettivo. Le angosce ipocondriache sono traboccate dal recesso in cui il pensiero moderno le aveva relegate. Le parti fobiche della personalità hanno preso il controllo della cultura contemporanea.

Così, nelle società avanzate del XXI secolo l’ipocondria diviene pensiero ufficiale, anzi pensiero unico, e inquietanti guardiani della rivoluzione esigono dagli organi della pubblica sicurezza scrupolosi interventi censori contro ogni forma di dissenso.

I dissidenti sono stati oggetto di una feroce campagna mediatica che li associa esplicitamente agli intellettuali di area neonazista. Se questi ultimi si affannano a negare le dimensioni della persecuzione degli ebrei durante il nazismo, anche gli oppositori dello stato di eccezione sanitario sarebbero negazionisti, quindi evidentemente folli o malati.

In questo contesto alcuni settori della psicoanalisi organizzata hanno preso una posizione precisa. Hanno puntato il dito contro i dissidenti. Hanno proposto che la psicoanalisi abbandoni la sua tradizionale posizione di neutralità per assumere un ruolo attivo accanto ai tradizionali dispositivi del potere e della repressione del dissenso.

Gli psicoanalisti – osserva Austin Ratner (Ratner & Gandhi, 2020), consulente esterno della APA – hanno oggi il compito di garantire il consenso delle masse ai provvedimenti sanitari, con buona pace della neutralità analitica.. E in Italia molti psicoanalisti mediaticamente visibile si sono schierati. Massimo Recalcati (“I  paradossi della tirannia sanitaria” La Stampa, martedì 13 ottobre 2020) denuncia il rischio di quella che definisce una “sottovalutazione della dimensione clinico-epidemica del virus”. Gli oppositori del potere sarebbero solo degli  immorali ”libertini” incapace di tollerare i limiti che la saggezza delle istituzioni sa porre ad una sfrenata libertà.

In una intervista per la rete televisiva La7 Umberto Galimberti non esita a chiamare gli oppositori pazzi deliranti. “Coi pazzi non è facile ragionare. Si può persuadere chi nega la realtà che la realtà è differente? Molto difficilmente” – mentre dalle pagine del Sole 24 ore Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi invitano i colleghi psicoanalisti a fare fronte comune contro ogni forma di dissenso rispetto alla gestione della pandemia.

Lingiardi e Giovanardi non hanno dubbi: l’opposizione ai provvedimenti sanitari fa “aumentare il numero di contagi e decessi per coronavirus” ed è espressione di un funzionamento mentale primitivo, dominato dal meccanismo di difesa del diniego. La psicoanalisi dovrebbe pertanto uscire dal suo secolare ritiro e divenire “forza di cambiamento sociale” articolandosi con gli organi della sanità pubblica per rieducare e liberare dalle proprie nevrosi lo sparuto drappello dei dissidenti.

Il presidente Thanopulos della SPI mostra certo, nel suo recente contributo per l’Huffington Post, una posizione più equilibrata. Immagina una psicoanalisi che rimane in una posizione clinica, pronta a trattare le forme di diniego che impedirebbero di riconoscere la gravità del pericolo incombente ma anche gli eccessi fobici ed ipocondriaci che il clima pandemico potrebbe suscitare in soggetti predisposti.

Salute mentale e controllo sociale

Come è potuto accadere questo scivolamento? Come è possibile che la psicoanalisi si proponga oggi come utile strumento per la gestione del consenso? Per rispondere a questa domanda dobbiamo ripercorrere rapidamente la storia dei rapporti tra professionisti e prassi della salute mentale, da un lato, e controllo della devianza, dall’altro.

Possiamo iniziare il nostro excursus nel 1321. In quell’anno fonti vicine al re di Francia iniziarono a diffondere documenti che attestavano l’esistenza di un pericoloso complotto internazionale, supportato sul piano  finanziario e tecnologico dai grandi stati islamici del mediterraneo e forse dell’ebraismo internazionale. Il progetto era quello di rovesciare i sovrani legittimi dei regni cristiani ed instaurare una nuova forma di governo. Gli inquirenti non avevano dubbi sui protagonisti dell’azione sovversiva: persone ai margini della società, e particolarmente pericolose perché malate e quindi potenzialmente contagiose. Il papa non potè opporsi all’evidenza e diede via libera alle autorità civili. L’eccidio dei lebbrosi cominciò nel giugno dello stesso anno in varie città. La folla indignata partecipava attivamente all’azione repressiva, aderendo con entusiasmo alle sollecitazioni delle autorità, e se queste tardavano la strage aveva inizio senza attendere né giudice né balivo (Ginzburg, 2017, pp. 5-28).

Naturalmente, il massacro rimase incompleto. I lebbrosi superstiti furono però definitivamente reclusi in istituzioni specializzate. Foucault (1961) ci ha insegnato che la follia verrà ad occupare nel XVI secolo proprio quegli spazi di marginalizzazione e controllo che la lebbra recedendo aveva restituito alla società civile.

Come psichiatri sappiamo bene che la follia rappresenta da sempre uno spettro inquietante per la società, che viene percepita da gran parte dei cittadini come un’oscura minaccia a cui occorre porre un qualche rimedio. La narrazione della psichiatria ufficiale usa celebrare Philippe Pinel come il liberatore dei folli perché nel 1795 liberò dalle catene i soggetti affetti da malattia mentale e li sottrasse al controllo ed alla rieducazione dell’Hospital General o delle workhouses, dove era rinchiusa una variegata moltitudine di devianti senza alcun criterio di differenziazione o di trattamento. Tuttavia, l’opera di Franco Basaglia negli anni ‘50 e ‘60 ha mostrato con grande chiarezza come nell’Ospedale Psichiatrico medicalizzato le finalità di controllo sociale e segregazione fossero del tutto prevalenti rispetto alle limitate possibilità della cura.

Non possiamo affrontare in questa sede il problema del rapporto tra prassi psichiatrica e controllo sociale nel mondo contemporaneo, ma è del tutto evidente che in occidente la psichiatria svolge da sempre una funzione di controllo dei comportamento. Oggi, di fronte all’emergenza pandemica viene chiesto qualcosa di più, una sorta normalizzazione ideativa: non solo il rispetto delle norme sociali, ma la piena ed incondizionata adesione ai modelli ed ai valori proposti delle istituzioni.

Del resto, anche questa finalità più ambiziosa non è certo una novità per i servizi di salute mentale, basti pensare al ruolo svolto dalle istituzioni psichiatriche della Russia Sovietica nella repressione del dissenso (Van Voren, 2010). Nel contesto sovietico la risposta al dissenso si muoveva storicamente lungo due binari paralleli: quello giuridico e quello sanitario.

Da un lato i dissidenti erano perseguiti secondo il codice penale: l’art. 70 del Codice Penale Sovietico del 1958 prevedeva il reato di “Disordini e propaganda antisovietica”. Ad esso si aggiunse nel 1967 l’art 190-I “Disseminazione di notizie notoriamente false che diffamano il sistema politico e sociale dell’unione sovietica”.

Tuttavia, accanto ad una massiccia repressione poliziesca, il controllo del dissenso si avvaleva di strumenti sanitari. Una proporzione molto rilevante e numericamente più consistente di dissidenti veniva qualificata come portatrice di disturbi mentali e reclusa nelle istituzioni psichiatriche. Sul piano psicopatologico l’opposizione ideologica al regime veniva qualificata come delirio di riforma, su quello diagnostico veniva utilizzata l’etichetta di schizofrenia latente.

Nella società più perfetta del mondo l’opposizione al potere non poteva che essere una follia. In un discorso pubblicato dalla Pravda il 24 maggio del 1950 Khrushchev dichiarava:

Ci possono essere malattie, malattie mentali in certe persone in una società comunista Evidentemente sì. Se è così […] Di coloro che iniziano a propagandare l’opposizione al comunismo su questa base, possiamo dire chiaramente che il loro stato mentale non è normale

Il parallelismo con la severa posizione propugnata da Galimberti mi sembra davvero innegabile. Nella Russia sovietica violenza e segregazione erano strumenti abituali per garantire il consenso. Ora sono di casa anche tra noi, nella società più sana di sempre.

Qualche chiarimento

La propaganda, non meno della pubblicità, sa fare un uso sapiente del linguaggio. La ricerca psicoanalitica richiede perciò una grande precisione terminologica. Prima di proseguire la nostra esplorazione sul ruolo della psicoanalisi nella nostra contemporaneità pandemica è quindi necessario qualche chiarimento.

Il termine Diniego, traduzione letterale dell’inglese Denial, non consente di differenziare due meccanismi di difesa molto diversi: la Negazione ed il Disconoscimento. Per evitare gravi fraintendimenti è perciò necessario fare ricorso alla terminologia tedesca, così come fu usata da Freud nelle sue opere.

La Negazione (cfr. Die Verneinung, Freud, 1925) è un meccanismo di difesa dell’Io. Sottrae un contenuto alla coscienza negandolo esplicitamente. Freud offre il seguente classico esempio: “Sie fragen, wer diese Person im traum sein kann. Die Mutter ist es nicht” (“Voi chiedete chi possa essere questa persona nel sogno. Non è la mamma”, ibidem, p. 11)

La negazione opera dunque sui contenuti dell’inconscio, non sulle informazioni provenienti dalla realtà. Non sembra in alcun modo associabile al dissenso sanitario.

Il concetto di Disconoscimento o Verleugnung fu introdotto da Freud nel 1923 (Die infantile Genitalorganisation) e precisato nel 1927 (Fetischismus). Implica il rifiuto del soggetto di riconoscere una realtà disturbante od il vero significato di una percezione. Ad esempio, in Fetischismus Freud menziona due pazienti che si rifiutano di riconoscere la morte del padre.

Il Disconoscimento è un meccanismo di difesa molto primitivo che nelle sue forme più conclamate può essere osservato nelle psicosi e nelle perversioni. Il meccanismo del disconoscimento si riferisce a realtà fattuali e universalmente condivise, non a convinzioni politico-ideologiche o religiose. Non può dunque essere invocato per spiegare il dissenso dai trattamenti sanitari o più in generale la sfiducia nelle istituzioni pubbliche.

E’ appena il caso di accennare al Negativismo Schizofrenico, curiosamente chiamato in causa sui social dall’eminente collega Antonello Sciacchitano. Il Negativismo Schizofrenico è un sintomo della schizofrenia. Consiste nel rifiuto di eseguire gli ordini dell’esaminatore. E’ quindi un sintomo della volontà e non del pensiero o della cognizione.

Veniamo infine al Negazionismo della Shoah a cui con sorprendente superficialità diversi alfieri della psicoanalisi rieducativa riconducono qualsiasi opposizione ai provvedimenti sanitari. Il Negazionismo della Shoah è un’ideologia propugnata da intellettuali neonazisti. Si propone di negare le dimensioni dello stermino degli ebrei perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Dal punto di vista psicoanalitico si tratta di una strategia interpersonale con importanti componenti sadiche, che mira a ferire gli avversari politici ed ideologici nei loro valori più sacri. Non può esser considerata un meccanismo di difesa.

Come possiamo descrivere in modo realistico i movimenti che si oppongono all’ideologia securitaria? Quale terminologia può apparire appropriata? Il nocciolo dell’opposizione sanitaria è senza dubbio il Dissenso rispetto alla rappresentazione prevalente del fenomeno epidemico e alle soluzioni imposte dai media e dalle istituzioni politiche e sociali. Il Dissenso è l’atteggiamento di chi dissente dall’ideologia dominante di una determinata società.

In ogni epoca storica i cittadini tendono ad aggregarsi attorno a poli opposti: luterani e cattolici, fascisti e antifascisti, patrioti e reazionari clericali, stalinisti e dissidenti democratici, e, oggi, libertari e allineati con l’ideologia sanitaria. Tali polarizzazioni sociali possono essere spiegate in termini psicoanalitici come espressione di meccanismi di scissione e proiezione delle proprie angosce sull’avversario.

Per quanto riguarda in particolare gli oppositori, i dissidenti rispetto alle politiche governative e all’organizzazione sociale prevalente, non si può escludere un’identificazione masochistica. Questo è ben evidente nelle forme più estreme del dissenso: i cristiani che affrontavano il martirio, gli eroi del risorgimento, Solzhenitsyn nel Gulag o Catone che sceglie la morte piuttosto che rinunciare alla libertà.

Nel prossimo paragrafo cercheremo di formulare un modello più articolato che ci aiuti a comprendere la specifica spaccatura che si è creata nella nostra società e la violenza per ora solo verbale con cui si confrontano i due schieramenti.

Virus biologici e virus emotivi

Cosa è successo all’uomo contemporaneo? Come può un’intera società ammalarsi di paura? Può la psicoanalisi contribuire a comprendere i cambiamenti che la pandemia ha determinato nella nostra vita e lo straordinario consenso che l’ideologia del distanziamento sociale ha incontrato in gran parte dell’ecumene?

Gli studi e le esperienze di Wilfred Bion (1961) durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno illuminato in modo straordinariamente originale i comportamenti regressivi nei gruppi. Quando un gruppo attraversa un momento di difficoltà ed impotenza regredisce a modalità di funzionamento primitive in cui lo scambio emotivo e la ricerca della verità sono sostituti da pregiudizi e imperativi categorici. Bion chiama questa configurazione assunto di base. Sotto questo punto di vista l’invasione dello spazio sociale da parte di un irresistibile sentimento di paura può essere associato nella terminologia di Bion all’assunto di base di attacco e fuga, in cui le fantasie inconsce condivise nel gruppo sono annichilite da un generale sentimento di minaccia.

Nelle viscere della società contemporanea si cela dunque un pericolo enigmatico ed inquietante. Cosa terrorizza l’uomo moderno? Perché minacce socialmente altrettanto o forse ancor più gravi, come il terrorismo, l’inquinamento atmosferico od il cancro non hanno un impatto sulla vita emotiva delle collettività minimamente paragonabile a quello di una malattia infettiva? Quale oscura risonanza può evocare un virus respiratorio nell’immaginario occidentale?

Per rispondere a queste domande occorre anzitutto ricordare che il moderno si è costituito attorno ad una ben precisa opzione epistemologica: l’adozione ormai plebiscitaria di un materialismo estremo. Ciò ha inevitabilmente comportato una marcata sottovalutazione delle esperienze emotive e del loro ruolo nelle società umane e nella vita degli individui. In particolare, il dolore connesso con le esperienze di separazione è stato ed è oggetto di una negazione particolarmente accanita.

Ora, il ciclo della vita comporta un inevitabile carico di dolore emotivo. La crescita implica più o meno traumatiche separazioni. L’invecchiamento compromette i ruoli familiari e sociali degli adulti. Anche nella società ipermedicalizzata degli antibiotici, dei vaccini e dei trapianti, la malattia e la morte restano implicite nella condizione umana e lasciano una inevitabile scia di sofferenza nella famiglia e nella comunità.

Proprio attorno a queste esperienze di lutto e separazione la cultura contemporanea ha tentato di costruire un muro impenetrabile, ricorrendo a massicci meccanismi di negazione. Ha isolato e sterilizzato la morte dentro contenitori ospedalieri. Ha nascosto i cadaveri in remoti forni crematori.

Sappiamo tutti quale impatto abbiano avuto queste strutture culturali sulle misure di contenimento del coronavirus. Del resto il distanziamento tra le generazioni, ma anche all’interno della coppia, che caratterizza in modo così evidente la società contemporanea, è iniziato molto prima che i virologi evocassero lo spettro del contagio intrafamiliare.

La progressiva e ormai definitiva affermazione della famiglia nucleare e il diffondersi del modello celibatario permanente riflettono la paura e il disagio nei confronti delle relazioni interpersonali intense, e rappresentano una risposta estrema ai conflitti interpersonali e coniugali.

Eppure non è possibile alcuna interazione umana senza un significativo scambio di emozioni: gioie ma soprattutto dolori. I contatti che avvengono nella coppia e nella famiglia, non trasmettono solo virus, ma anche un inevitabile carico di ansia, dolore, conflitti e paure. Ecco il contagio che atterrisce veramente l’uomo contemporaneo: le emozioni che si generano nell’interazione interpersonale.

Ma da questo contagio non può difenderci nessuna, per quanto accurata, misura di sicurezza, nessuna mascherina chirurgica con o senza valvola. Dalla fatica delle relazioni interpersonali può liberarci definitivamente solo l’autismo più assoluto. O la morte.

Lo psicoanalista e la libertà

La psicoanalisi nasce in aperta contrapposizione al moralismo ipocrita dell’Europa puritana. Freud fu sempre convinto che l’energica opposizione incontrata dalla psicoanalisi nella cultura a lui contemporanea dipendesse proprio dalla libertà con cui aveva saputo esplorare la sessualità umana. Anche oggi la psicoanalisi è la disciplina ed il luogo dove ha voce chi non ha voce, dove l’inconscio acquisisce un insperato diritto di parola. La psicoanalisi è disciplina eversiva.

Al di là delle posizioni di ciascuno nella realtà tragica in cui siamo immersi credo sia fondamentale ricordare sempre che il lavoro psicoanalitico necessita una rigorosa posizione di neutralità rispetto alle vicende sia cliniche che sociali. In Tatbestabdsdiagnostik und Psychoanalyse (1906) Freud spiegò come la psicoanalisi sia una scienza sui generis del mondo interno, cioè dei desideri e delle rappresentazioni che popolano l’inconscio del paziente. La psicoanalisi non ha alcuna competenza rispetto alla verifica della realtà fattuale. Non può dare ragione o torto ad alcuna posizione politica o ideologica.

Freud osservava che la psicoanalisi è mossa dall’amore per la verità (1937, p. 94). Tuttavia la verità psicoanalitica non è mai quella oggettiva, quella con la V maiuscola, è sempre e solo una verità soggettiva, o meglio diadica, che ciascuna coppia analista-paziente costruisce in un faticoso percorso. E per raggiungere questa verità lo psicoanalista è chiamato a non abbandonare mai una posizione di rigorosa neutralità rispetto all’oggetto della propria indagine. Non c’è dubbio: lo psicoanalista non potrà mai mettere le proprie competenze professionali al servizio di alcuna ideologia o modello sociale, per quanto prezioso per la collettività, senza tradire la propria etica professionale.

 

I fattori che ostacolano e favoriscono la Mindfulness in pazienti con Disturbo Bipolare

Il disturbo bipolare (BD) è un disturbo dell’umore grave e cronico caratterizzato da ricorrenti episodi depressivi, (ipo) maniacali e/o episodi misti.

 

Il disturbo bipolare si associa ad alti livelli di stress psicologico (Davis e Kurzban 2012), auto-colpevolizzazione (Valtonen et al. 2007), ideazione suicidaria (Valtonen et al. 2005) e una scarsa qualità della vita (Pascual-Sánchez et al. 2019). Oltre agli interventi psicosociali e farmacologici esistenti, c’è un crescente bisogno di ulteriori interventi per aiutare questi pazienti ad affrontare la loro malattia, per ridurre il rischio di ricaduta e per migliorare il benessere sociale e psicologico e la qualità della vita (Farkas 2007).

La Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) potrebbe essere un promettente intervento per questa tipologia di pazienti per la riduzione dei sintomi depressivi residui, delle difficoltà attentive, dei problemi di regolazione emotiva, il benessere psicologico, l’effetto positivo e il funzionamento psicosociale (Deckersbach et al. 2012). Implica la pratica dell’essere presenti “nel momento” e un atteggiamento di accettazione non giudicante. La MBCT è stata sviluppata per ridurre le ricadute in persone con una storia di disturbo depressivo maggiore (Segal et al. 2002), ed è efficace nel ridurre il rischio di ricadute e recidive (Kuyken et al. 2016). Precisamente, migliora il riconoscimento, il decentramento e il disimpegno da schemi di pensiero ruminativi, sviluppando meta-consapevolezza e auto-compassione (Segal et al. 2012). Inoltre, sembra essere promettente nell’aiutare i pazienti a far fronte a gravi malattie mentali, come il BD (Lovas e Schuman-Olivier 2018). Nello specifico, Una recente revisione sistematica ha dimostrato un effetto positivo della MBCT su ansia, sintomi depressivi residui, regolazione dell’umore e riduzione dei sintomi maniacali in persone con BD (Lovas e Schuman-Olivier 2018). Nonostante la crescente ricerca sull’efficacia della MBCT nel BD, ci sono solo pochi studi che indagano la fattibilità, le barriere e i facilitatori che le persone con BD sperimentano partecipando alla MBCT.

A questo scopo, Hanssen e colleghi (2020) hanno condotto uno studio qualitativo su pazienti ambulatoriali (N=16) (Silverman et al. 2013). Questi sono stati formati sulla MBCT per la depressione ricorrente, adattata alle esigenze di pazienti con disturbo bipolare: è stata inclusa una parte psico-educazionale sui sintomi (ipo)maniacali e depressivi; lo spazio di respiro della durata di 3 min è stato anticipato e ripetuto più spesso nel programma; i possibili partner sono stati coinvolti nella sesta sessione; infine, gli esercizi di movimento sono stati ripetuti più frequentemente (Hanssen et al. 2019). La formazione consisteva in 8 sessioni settimanali di 2,5 ore, più un giorno di riposo. Inoltre, i partecipanti sono stati istruiti a praticare 45 minuti al giorno gli esercizi di mindfulness guidati e a completare gli homework in un Workbook. Il training era condotto da un insegnante qualificato in coppia con un infermiere specializzato nella cura delle persone con BD. Entro 3 mesi dal completamento della MBCT, i partecipanti sono stati invitati a partecipare a un’intervista individuale faccia a faccia. Prima di iniziare le interviste, la Altman Self-Rating Mania Scale (ASRM) (Altman et al. 1997) e il Quick Inventory of Depressive Symptomatology-Self Report (QIDSSR) (Rush et al. 2003) sono stati somministrati per verificare la presenza di sintomi (ipo)maniacali e depressivi. L’intervista semi-strutturata era composta da domande del tipo “nella sua esperienza, quali cose le hanno reso più facile partecipare alla formazione? E quali gliel’hanno reso più difficile?”.

L’analisi dei dati ha identificato quattro grandi categorie di facilitatori e barriere percepite: (1) formazione, intesa come setting, (luogo, spazio, tempo), contenuto (fisico, sessione, materiali, compiti a casa), insegnante e gruppo di pari; (2) fattori psicosociali, inteso come parenti stretti, contatti sociali, tempo libero e lavoro; (3) caratteristiche personali, inteso come personalità; e (4) disturbo bipolare, inteso come sintomi (ipo)maniacali e depressivi. I risultati hanno mostrato che la maggior parte dei (sotto)temi agisce sia come facilitatore che come barriera, solo alcuni hanno agito unicamente come barriera.

Tra i fattori facilitanti vi erano: una buona accessibilità al training; un’ambiente naturale e tranquillo e la presenza di materiali, precisamente la presenza della cartella di lavoro; la sesta sessione, in cui vi partecipavano partner o parenti stretti; la respirazione e la camminata consapevole; l’adozione di un approccio flessibile da parte degli insegnanti a seconda dello stato d’animo attuale dei partecipanti, pronti a fornire eventualmente un supporto aggiuntivo; il fatto che l’insegnante fosse ben informato sul BD; i compiti a casa come parte della formazione sono stati considerati utili, anche se la maggior parte ha riferito che fossero eccessivi; la formazione fatta in gruppo ha stimolato il supporto tra pari, favorendo un atteggiamento di apertura e di sicurezza, inoltre il fatto che ogni partecipante riconoscesse i propri problemi negli altri è stato motivo di conforto.

Riguardo agli aspetti psicosociali, facilitante è stato il supporto pratico e mentale ricevuto dai parenti stretti: l’assunzione di più compiti da parte loro così da lasciare che il partecipante si impegnasse di più nella formazione, il ricordare al paziente di svolgere gli homework, o semplicemente l’assunzione di un atteggiamento non giudicante nei confronti della MBCT. Altri facilitatori sono stati il sostegno emotivo nel modo di condividere l’entusiasmo e l’esperienza positiva con la mindfulness da parte di amici e conoscenti (contatti sociali), il fatto di avere abbastanza tempo a disposizione per partecipare alla formazione, l’assunzione di una mentalità positiva, ovvero avere un’aspettativa positiva nei confronti della mindfulness, o addirittura non avere alcuna aspettativa. Coscienziosità, curiosità, perseveranza e prendersi cura di se stessi erano facilitatori per quanto riguarda il sottotema personalità. Infine, facilitanti sono stati i momenti di formazione fissati quotidianamente sempre alla stessa ora, così come il giorno di riposo. Quest’ultimo risultato è stato inaspettato, in quanto gli insegnanti ritenevano che il giorno di riposo sarebbe stato troppo lungo per i pazienti bipolari, a causa dei problemi di attenzione e concentrazione indipendenti dal loro stato d’animo (Wingo et al. 2009). Al contrario, i partecipanti hanno riferito che la giornata di pausa li ha aiutati ad approfondire la loro pratica di meditazione e a comprendere di più i loro modelli comportamentali.

Tra i fattori – barriera troviamo: il luogo in cui avviene, ovvero se era interno o vicino all’ospedale ricordava ai partecipanti i ricoveri precedenti; la scarsa grandezza del luogo in cui avveniva la formazione, responsabile dell’essere troppo vicini agli altri partecipanti, la mancanza di pulizia e di luce; l’assenza di severità dell’insegnante riguardo ai compiti e alla partecipazione; disinteresse dei membri della famiglia, nei confronti del training; la mancanza di tempo dei partecipanti da dedicare alla formazione; il lavoro; l’assunzione di una mentalità negativa o erronea (es. pregressa credenza che tale pratica coincidesse con il rilassamento); la considerazione della mindfulness come un qualcosa di isolato dal resto della propria vita. Per quanto riguarda le caratteristiche personali, tra le barriere sono state riportate la tendenza a pensare piuttosto che a fare, l’incapacità di concentrarsi e la repressione dei sentimenti (es. un partecipante ha riferito di usare la formazione come una fuga dai sentimenti). Anche la difficoltà nel prendersi del tempo per se stessi e rilassarsi, la mancanza di perseveranza e di auto-accettazione hanno reso più difficile per i partecipanti frequentare il corso.

Infine, è emerso che i sintomi depressivi hanno agito da barriera durante il training, soprattutto a causa della mancanza di energia, concentrazione e diminuzione della motivazione, suggerendo che durante questa fase le persone con BD potrebbero aver bisogno di un supporto aggiuntivo (es. aiuto per svolgere gli homework). La presenza di sintomi (ipo)maniacali attuali, invece, può agire sia come facilitatore che come barriera. Probabilmente perché i sintomi (ipo)maniacali esistono su un ampio spettro con diversi livelli di compromissione e gravità (American Psychiatric Association 2013): quando i pazienti si trovano all’estremità bassa dello spettro maniacale, durante il quale sperimentano una maggiore energia e concentrazione, ma nessuna compromissione funzionale, potrebbero essere più motivati a praticare la mindfulness. D’altra parte, quando le persone con BD sono all’estremità superiore dello spettro maniacale e hanno difficoltà di concentrazione, potrebbero avere più difficoltà a fare gli esercizi. Infine, l’umore eutimico può agire sia come un facilitatore durante la MBCT, sia come una barriera: i partecipanti sentono meno urgenza di praticare la mindfulness quando non sperimentano alcun sintomo dell’umore. Pertanto, la MBCT è assolutamente attuabile in pazienti con disturbo bipolare, a patto che venga utilizzato un approccio flessibile e sensibile alle oscillazioni dell’umore di questi pazienti.

 

Ricordo di Roberto Lorenzini

Ci ha lasciato tristemente, oggi per me che scrivo e ieri per voi amici e amiche che leggerete raccolti, Roberto Lorenzini. Roberto è stato una figura fondante di quel cognitivismo clinico italiano così caratteristicamente interessato e quasi avvinto alla storia personale dei pazienti.

Non tra i primissimi come Guidano e Liotti ma tra i primi, egli fu uno dei maggiori. Insieme a Sandra Sassaroli applicò i costrutti personali di Kelly e la teoria dell’attaccamento di Bowlby al disegno dei Cattivi Pensieri -titolo di uno dei suoi più bei libri- che sempre ammalano la vita dei pazienti. Riesaminò le quattro organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti del 1983 in tre più economici stili di conoscenza e, così ribattezzate, le rese più combaciate con la razionalità dell’architettura del cognitivismo di Aaron T. Beck. Non si limitò a togliere come lo scultore ma seppe anche aggiungere come il pittore, aggiungendo -sempre insieme a Sandra Sassaroli- alla quaterna guidaniana e liottiana del fobico così inadeguato alla vita, dell’ossessivo sempre colpevole, del depresso profondamente non amato e del dappico disperso e indefinito una nuova dimensione: lo stile di conoscenza ostile, aprendo così -per primissimo con Sassaroli e non solo tra i primi questa volta- già nel 1987 l’esplorazione degli aspetti aggressivi del paziente e precedendo in questo Perris, Semerari, Liotti e Dimaggio che solo in seguito si sarebbero interessati al paziente cosiddetto difficile.

Spesso è stato notato come fosse avvenuto al tempo della generazione di Lorenzini l’ingresso di questo nuovo paziente dalla sensibilità irritabile e aggressiva nelle stanze dei terapeuti e probabilmente fu Roberto a osservare questo nuovo personaggio. Grazie a lui possiamo inquadrare con più precisione nel tempo questo avvento: dopo il 1983 ma prima del 1987, quando Lorenzini e Sassaroli ne scrissero nel loro primo classico, la Paura della Paura. O forse la memoria tradisce e l’intuizione apparve nei Cattivi Pensieri del 1992? Forse l’affetto induce ad anticipare l’innovazione di Roberto? Purtroppo, non c’è tempo per controllare stasera e in ogni caso la data posticipata non toglierebbe la primazia.

La sua opera raggiunse la fioritura nel 1995, quanto pubblicò Attaccamento, Stili di conoscenza e Disturbi di Personalità in cui fuse insieme -ancora una volta insieme a Sandra Sassaroli- questi tre concetti, sui quali a lungo aveva meditato, in una forma definitiva. In quel libro -che non fu del tutto apprezzato da Liotti (com’era inevitabile e giusto che fosse, dato che diversamente quei due maggiori vedevano il mondo e la conformazione della mente ma noi che assistemmo alla tenzone non ne fummo del tutto felici poiché “Vorremmo sempre che i nuovi amici conoscessero i vecchi; / siamo feriti quando l’uno o l’altro si mostra freddo / e c’è del sale negli affetti del cuore”)- in quel libro conoscenza e personalità trovarono il loro finale radicamento in una relazione di attaccamento che però si scandiva in una più razionale relazione di apprendimento, secondo la visione di Lorenzini e Sassaroli, e probabilmente in quell’intarsio razionale si annidava il nodo che aveva irritato la sensibilità emotiva di Liotti, generando la sua collera non sempre ben contenuta. Infine, uscì nel 2000 la Mente Prigioniera che fu la traduzione clinica del modello di Lorenzini e Sassaroli e insieme fu il loro ultimo sforzo congiunto.

Poi si separarono. Sassaroli svoltando verso il funzionalismo dei processi, interessandosi al rimuginio (concetto col quale Sassaroli molto ha insegnato), Lorenzini volteggiando tra le teorie naif del paziente -ovvero i modi personali del paziente di spiegarsi il suo malessere e che raccontò in saporiti casi clinici che pubblicò assiduamente su State of Mind-, le esplorazioni dei deliri psichiatrici i più folli ma sempre visti con occhio cognitivo -in compagnia questa volta di Brunella Coratti (in questo elogio funebre non si può non calcare questa di Roberto non diffusa capacità, rarissima nella sua generazione, di saper lavorare cameratescamente con le donne)- e un finale ritorno a un certo emozionalismo liottiano maturato in un casuale eppure destinato incontro finale tra i due: Liotti e Lorenzini si ritrovarono nelle corsie di un Ospedale che ospitava quelle loro severe rispettive malattie che tanto tormentarono i loro ultimi anni e che li hanno portati via, a breve distanza l’uno dall’altro. Fruttuoso fu quell’incontro che, se la memoria non tradisce, maturò una loro congiunta pubblicazione, solitaria e finale.

Non sarebbe tuttavia completa questa rievocazione se non parlassimo dell’umorismo di Roberto Lorenzini, questo folletto che rallegrava le notti di mezza estate dei congressi di psicoterapia come un Puck o ravvivava come un Cherubino le folli giornate di quegli stessi congressi. Molti ricordano il suo salace e boccaccesco umore di puer aeternus che si alternava a una malinconia di senex libidinosus (a ogni età Roberto non poteva esimersi dall’esprimere il suo lato boccaccesco) ma disincantato e disilluso. Forse un po’ troppo disilluso, a dire il vero, forse un po’ troppo proclive nei suoi ultimi giorni a una saggezza clinica pessimisticamente insofferente di qualsiasi regolazione, i famigerati protocolli respinti con orrore: ma va bene così. Chiudiamo recitando i versi iniziali della poesia già prima accennata, poesia sugli amici che ci lasciano, versi fin troppo adatti al triste momento:

 

Ora che in casa siamo quasi sistemati
nominerò gli amici che non possono cenare con noi
accanto al fuoco di torba dentro l’antica torre
e dopo aver chiacchierato fino a tardi, arrampicarsi
su per la stretta scala a chiocciola per andare a dormire.
Scopritori di verità dimenticate
o semplici compagni della mia giovinezza, tutti,
tutti stanotte ho nel pensiero, perché sono morti.

 

(William Butler Yeats “In memoria del Maggiore Robert Gregory” in “I cigni selvatici a Coole”, BUR, Rizzoli, 1989)


Sandra Sassaroli e Roberto Lorenzini
Sandra Sassaroli e Roberto Lorenzini
Roberto Lorenzini e Sandra Sassaroli
Roberto Lorenzini e Sandra Sassaroli (Intervista del 2014)

Bianco e nero, un viaggio verso la donna

La donna per secoli è stata colpita in quanto appartenente al “sesso debole”; le violenze venivano approvate dall’intera società nelle varie epoche e periodi storici. La rivoluzione è possibile e dovrebbe iniziare a livello educativo, nel cercare di capire quali idee e modi di pensiero passiamo ai nostri figli.

 

La società è da sempre in lotta continua con sé stessa, ma, a prescindere da questo continuo dinamismo, su certi argomenti che pure sono continuamente richiamati da fatti di cronaca, non c’è quasi mai nulla di nuovo sotto il sole. Questo perché i cambiamenti, facilmente, avvengono in superficie, lasciando escluse le profondità. La società, nel suo intimo, può cambiare, ma non certo a passi galoppanti, l’essere umano, prima, ha bisogno di mordere la nuova realtà che si va a costruire, per poi poterla ingoiare, digerire e infine assorbire, solo in un secondo tempo. Un infante appena nato ha bisogno di cure costanti per uno sviluppo ottimale e la nostra specie è ben rappresentabile sotto la forma di un “infante perenne”, che ha bisogno di continui stimoli culturali per mettere in discussione le idee e i pensieri già acquisiti e già trasformati in abitudine.

Quest’epoca, come ogni altra, deve affrontare almeno qualcuno di questi “demoni”, di questi stati inerziali del pensiero, che ci trasciniamo da tempo; uno di questi, per giunta particolarmente attuale, è il maschilismo.

Tanto è stato scritto per una donna, se non per “la donna”: fiumi di lettere e poesie, dove essa o era angelo o tentazione, ispirazione o ignoranza e distrazione. Stereotipi portati avanti sino allo sfinimento, un gesto creativo ribaltato negli esiti che trasforma il nulla in realtà col peggiore dei risultati possibili.

Vittime che attraversano l’intero corso della storia, in ogni ambito, da quello religioso a quello letterario e artistico, ma anche quello politico, donne che, a dispetto della memoria a loro concessa, non hanno mai avuto il diritto di esistere in modo indipendente, ma solo coesistere, in quanto appoggiate o affiancate da qualche figura maschile.

I miti soffiano anche da altri punti cardinali: se la donna non ha autonomia e capacità di per sé stessa è però necessariamente “buona, e gentile”, premurosa, quasi benedetta dall’istinto materno, una costante questa potentissima, da non renderla nemmeno lontanamente paragonabile ad un uomo e tantomeno, quindi, poterla portare a volere e desiderare ciò che, secondo un “razzismo” parallelo è invece considerato uno standard per l’universo maschile.

In poche parole: se non corrisponde a qualità positive, ma stereotipate, o se non diviene posseduta da “potenze negative” (solitamente legate alla sfera sessuale), simbolo di sventura, la donna è sempre dipendente dalla mascolinità: di nuovo, lontano da costruzioni ideali, non esiste la donna in quanto essere concreto, vivo e soprattutto unico.

O tentatrice, o donna “angelicata”.

Tutti questi schemi di giudizio, nei quali le donne vengono incastrate, ci vengono insegnati fin da piccoli. Sono pochi coloro che si soffermano sull’educazione data alle persone di ambo i sessi (cosa che contribuisce alla percezione delle differenze di genere) fin dalla tenera età, in modo da notare come essa crei contrasti culturali che, sempre, necessitano di lotte dure e faticose nel tentativo di risolverli o almeno di contenerli.

La donna, per secoli è stata colpita, picchiata, nascosta, denigrata, emarginata in quanto appartenente al “sesso debole”; violenze che venivano approvate dall’intera società nelle varie epoche e periodi storici, perché no, la colpa non sta solo nel maschio (quando violento), ma anche (soprattutto?) nella donna!

Un genere descritto in extremum, o santa o puttana, un bianco e nero senza sfumature, dove tutto ciò che rimane, in mezzo a questa cascata di toni macabri, diventa piatto e spietato.

Il non riconoscimento verso la suddetta figura purtroppo è presente anche nei dizionari, quelli che la cultura, letteralmente, la fanno; cultura che, però, a volte non è solo ciò che illumina e segna il passo, così come viene recepita e immagazzinata nelle nostre memorie, ma che finisce col rappresentare anche la faex dell’umanità.

Solo pochi mesi fa Maria Beatrice Giovanardi diede inizio ad una petizione contro il prestigioso Oxford Dictionary ove i sinonimi della parola donna riportavano le testuali parole: zoccola, puledra, cagna, chiedendo l’eliminazione di queste offese, o “retaggi sessisti” se vogliamo usare parole di gergo più altolocato. L’iniziativa raccoglie in breve tempo 30.000 firme, cambiando così la storia: un dizionario prestigioso cambia alcune delle sue (lesive, in questo caso) definizioni, ed insieme a lui anche Google, Yahoo, Bing.

L’autrice esclama

[…] mi sono accorta che, a differenza di altri testi, Oxford Dictionary avvicinava il sostantivo a sinonimi dispregiativi, che descrivono la donna come un peso o come una poco di buono.

Battaglia, questa volta vinta, ma la guerra?

Nelle scuole, nel resto del mondo, la situazione è apparentemente invariata rispetto a prima.

Ne è testimonianza la storia della Tik Toker Italiana Raissa Russi, che, in una trasmissione, affronta la tematica della violenza verso le donne, nel suo caso anche verso le bambine. A 13 anni viene chiamata dal preside e le viene suggerito di non fare “la mignottina”, questo in quanto, per la direzione scolastica, lei era “troppo esuberante”, e questo avrebbe invitato i ragazzi ad allungare le mani.

Tutto ebbe inizio da una pacca sul sedere e, ovviamente, la colpa era di lei che l’aveva suo malgrado ricevuta: “se l’era cercata”. Lei veniva rimproverata e i ragazzi giustificati con le testuali parole: “maschietti”, “stupidini”, “furbetti”.

Nel 2020 una maestra viene licenziata perché un uomo diffonde le sue foto nuda che lei gli aveva mandato quando si frequentavano. Anche in questo caso la colpa è sua: lei non doveva, l’uomo (invece) è fatto così. Va capito.

Le statistiche offrono dati poco consolanti, da ogni angolo del mondo, di come durante il lockdown, il numero di episodi correlati a queste forme di violenza, invece che diminuire sia aumentato. Una giovane ragazza è stata uccisa dal compagno, con la “colpa” di aver portato il Covid a casa: lei, futuro medico, non doveva permettersi di andare a lavorare nelle strutture preposte al trattamento dei casi di Covid. Un uomo, anche in questo caso, decide cosa è buono e giusto per una donna.

La violenza non è solo fisica, anzi, in tanti casi è subdola, psicologica, fatta da uomini che eliminano ogni amicizia della propria compagna, ritenendo tutte le frequentazioni di lei alla stregua di persone dannose, se dello stesso sesso, o intenzionate solo “a provarci”, se del sesso opposto. Così che l’oggetto d’amore rimanga una proprietà unica del compagno e della sua “virilità”.

Se facciamo un viaggio addietro nella storia noteremo quanto anche alcune figure femminili, benché famose, abbiano sempre avuto poco peso e poche menzioni: la loro fama era non di rado legata e subordinata alla presenza di una figura maschile.

Già Cleopatra non veniva descritta come una grande regina dai suoi contemporanei, ma piuttosto come una puttana, disprezzo che però non coinvolge gli uomini con i quali ebbe a che fare: loro erano uomini, giustificati agli occhi dei popoli e della storia non si sa per quale merito specifico. Lucrezia Borgia venne denigrata e calpestata, con appellativi come “strega”, “colei che usava veleni” e mai elogiata per la sua cultura e intelligenza.

Anche Maria Maddalena venne associata alla figura della prostituta, un “bullismo” che tocca quindi anche le figure sacre, se di sesso femminile.

Tornando al presente, giusto poche settimane fa, la modella italiana Paola Turani ha fatto notare nel suo profilo instagram un articolo di TGCOM24 dal titolo: Sofia Richie fa la “maialina” in riva all’oceano. Maialina.

La modella Sofia Riche era in vacanza alle Bahamas alla baia di Pig Beach, in cui notoriamente compaiono e sono ben accetti dei maialini selvatici. Fin qui tutto ok. Peccato che, all’interno dell’articolo, si trovi una foto che ritrae la giovane ragazza, in compagnia di un’amica, vicino proprio a dei porcellini. I problemi cominciano con la descrizione della scena operata dal “giornalista” di turno, scena descritta con queste parole:

le due ragazze si divertono a giocare con loro dentro e fuori dall’acqua, come due vere maialine.

Dopo aver condannato il gesto vergognoso su Instagram con l’aiuto dei suoi follower e della sua influenza l’articolo è stato cambiato con tanto di doverose, quanto tardive scuse.

Purtroppo, non è la prima volta che simili scritti sopravvivano al buon senso degli editori, anzi, con lo stesso principio, quante volte è capitato che un uomo non accetti che la compagna faccia la modella (se le foto sono nudo o semi nudo ancora peggio!) e quante volte la frase che immancabilmente, come da fotocopia, accompagna questo modo di pensare è la medesima?

Se una donna fa foto nuda non ha rispetto per il suo corpo, figurati per il proprio partner, una donna che vale poco o nulla.

Concetto spesso ripetuto, non a caso, in contesti di fondamentalismo religioso, a prescindere dalla religione seguita.

Anche il vestiario femminile viene immancabilmente messo in discussione, tanto nelle cronache giornalistiche quanto nei discorsi che possiamo sentire a tutti i livelli della società. Facilmente la donna, se troppo coperta, è imbarazzata, sottomessa ad una religione o, come si sente comunemente dire, “suora”.

Viceversa, se questa si scopre è troppo esuberante, provocante, libertina, insomma… “puttana”. Usare i termini che vengono usati comunemente, per quanto offensivi, rende meglio l’idea.

Sono ormai noti a tutti casi in cui donne in minigonna che hanno subito violenze sono state incolpate o il loro vestito è stato considerato un’attenuante per la violenza subita, persino in tribunale.

Sono diffusi anche modi di pensare in cui la bellezza della donna deve essere nascosta, o perché la bellezza è considerata tentatrice o perché l’uomo che frequentano la considera a stregua di sua proprietà privata, insieme alla donna che se la porta addosso. Un’auto con relativa carrozzeria, insomma.

Sempre a tema, possiamo facilmente notare come, spesso, la descrizione delle donne parta dal loro modo di vestire, anche se si parla di eventi prestigiosi.

“Che vestito di classe”, “stile glamour, elegante”, “con che stile risalta le sue curve”.

Per l’uomo invece si parla piuttosto delle sue parole o della sua performance, di questi aspetti legati all’abbigliamento, invece, molto raramente.

È una disuguaglianza anche questa. La donna è bella. L’uomo soprattutto è capace.

Si passa da un estremo all’altro con la costante di non considerare la donna come ente autonomo in grado di fare scelte consapevoli.

La donna è vissuta come simbolo di purezza e verginità, paragonandola alle figure sacre o, se se ne allontana l’esatto opposto.

Ma quali conseguenze psicologiche nella donna in seguito a maltrattamenti verbali, fisici ed emotivi?

Gli effetti fisici sono tra i più evidenti, dalla lesione alla morte. La violenza fisica può portare con sé insonnia, dolore cronico, problemi alla salute, anche nella sfera riproduttiva. Le donne che subiscono violenza domestica hanno un alto tasso di aborti spontanei, anche perché la gravidanza spesso coincide con l’inizio o con un peggioramento della violenza.

Gli effetti della violenza psicologica sono più difficilmente individuabili, specie ad uno sguardo superficiale, e, al tempo stesso, anche molto difficili da portare con sé. Troviamo depressione, panico, ansie, fobie e stress. Elementi questi che possono spingere una persona verso il suicidio, persona che, per reggere la situazione nella quale è compressa, sovente inizia ad abusare di sostanze, fra cui spiccano per frequenza: alcool, droghe “leggere” e “pesanti”, ma soprattutto tranquillanti e antidolorifici.

Le donne che non hanno subito direttamente violenza fisica, ma piuttosto psicologica, si sentono sovente fallite e presentano bassa autostima: si sentono impotenti e provano sensazioni di inutilità. Rivivono le situazioni dolorose attraverso flashback di ricordi, cosa che porta con sé tanta difficoltà di concentrazione. Perdono la fiducia in loro stesse, vedono il comportamento del proprio partner come qualcosa che si meritano, come un qualcosa di cui hanno bisogno per essere educate, perché loro “non capiscono” e quindi devono dipendere dal partner, come se questi fosse una specie di insindacabile “guru”.

Anche se subiscono un annullamento della loro persona (cosa che è in tutto e per tutto una vera e pesante forma di violenza) non riescono più ad avere una visione anche solo minimamente oggettiva di quello che stanno passando.

Incapaci ormai di riconoscere i danni subiti dalla loro persona queste donne non smettono di cadere in un abisso in cui verranno sempre più costrette al silenzio o a dover assecondare, come verità assoluta, tutto ciò che il partner afferma.

Partner da cui, per “ricompensa”, verranno oltretutto sempre colpevolizzate.

Frasi tipiche di queste situazioni sono: “se sei arrivata qui è grazie a me”, “ho annullato tutto per te” .

Anche l’intimidazione è un elemento molto usato nel tentativo di controllare la propria partner, con frasi come: “ti mollo perché questo comportamento non va bene”.

Se una donna ha figli non si sentirà adatta a prendersi cura di loro e a proteggerli, in quanto ha sviluppato una dipendenza dal partner e si sente l’anello debole della famiglia, questo spiega come mai, in tanti casi di cronaca, in cui il marito abusa della figlia o del figlio, la moglie si riduca al silenzio e alla negazione dei fatti.

Come capire la violenza?

Ci sono delle costanti che vanno considerate in molte situazioni psicologiche per capire se si sta agendo correttamente. E anche nel caso di violenze di tipo fisico o psicologico queste possono rappresentare una via di uscita.

La prima è chiedersi se le proprie abitudini sono cambiate. Se la risposta fosse sì, allora bisognerebbe chiedersi se ciò abbia portato ad un benessere psicologico maggiore o inferiore.

Sono cose difficili da valutare, ci si può porre delle domande come “sono felice?”, “mi sento libera?”, “mi sento giudicata?”, “Ho paura delle reazioni degli altri?”.

Se qualcosa non va queste domande possono darci però qualche indizio per iniziare a capirlo.

Un’altra domanda da porsi è “sono isolata?”, “ho una serie di persone con cui mi sento libera di parlare e confidarmi, pur non sentendone per forza la necessità costante?” “Non ho paura dei giudizi quando esprimo cose che mi riguardano?” Attenzione ai campanelli di allarme. Se la risposta a queste domande è no può dipendere o dalla tossicità della relazione che sto vivendo o dalla negatività delle persone che ho intorno per cui non si deve perdere il collegamento con il proprio benessere, per non trarre conclusioni sbagliate.

Se il peso della situazione subita è troppo elevato è necessario il supporto psicologico di un professionista.

Facciamo la rivoluzione?

Spesso si sente dire questa frase, anche perché la società quando sente il peso di una situazione ha necessità di darsi una “scossa”. Sinceramente condivido che su alcune cose non ci possano essere mezze misure, è al cento per cento vero uno slogan che, per fortuna, sta aumentando rapidamente condivisone e diffusione: “Basta violenza sulle donne!”. Il problema è come arrivarci.

È vero, è necessario un cambiamento radicale perché, come ho cercato di illustrare, la violenza è presente a diversi livelli e in diverse forme e siamo talmente abituati ad essa che non tutti ce ne rendiamo conto e ci passiamo sopra senza notare nulla.

Un solo numero riferito alla realtà odierna per rendere idea di quanto sia diffuso il fenomeno della violenza.

Nel periodo marzo giugno 2020, con il lockdown per la pandemia le chiamate al numero antiviolenza 1522 secondo l’istat sono aumentate del 119,6% passando da 6.956 a 15.280.

Giusto cercare di rimediare a un male duro da sopportare, ma ci sono dei ma. Il femminismo è sovente caduto in banalizzazioni e in grandi slogan che non sono stati efficaci per cambiare le cose. Probabilmente, oggi, non bisogna più essere né femministi, né maschilisti.

Non è questione di primeggiare, ma di garantire l’uguaglianza laddove ancora non c’è. La vera rivoluzione si fa a livello educativo, nel cercare di capire quali idee e modi di pensiero passiamo ai nostri figli. Sicuramente le donne dovranno fare la rivoluzione delle idee, cioè del sentirsi libere di esprimerle nella loro vita, da quando sono bambine a quando crescono, senza sentirsi assoggettate o timorose e trovando nella società intorno a loro la stessa volontà.

Di donne che hanno portato grandi idee ed esempi ce ne sono state tantissime, ma se ancora oggi questa disuguaglianza condiziona le nostre vite è perché non siamo ancora stati in grado di colorare, con lo stesso vigore con cui esaltiamo le idee, gli stili educativi che potrebbero portarci al cambiamento.

Né bianco, né nero. Ma un mondo variopinto da diverse tinte, portate da donne e uomini liberi.

 

Obesità: quando l’assunzione di cibo da attività ludica diventa patologica. Verso nuove prospettive diagnostiche e di intervento

I trattamenti tradizionali per la cura dell’obesità si focalizzano unicamente sui fattori biologici, tralasciando i fattori psicologici coinvolti che ostacolano il mantenimento della perdita di peso a lungo termine. Il trattamento rivolto all’obesità dovrebbe integrare attività fisica, correzione alimentare e intervento psicoterapico.

 

  Un importante contributo per il trattamento dell’obesità viene dato dall’integrazione tra correzione alimentare e psicoterapia. I metodi tradizionali, orientati alla sola correzione alimentare, risultano infatti inefficaci nel lungo termine per mantenere il dimagrimento, esponendo la persona a importanti ripercussioni sul piano fisico e psichico. Risulta necessario valorizzare maggiormente l’intervento anche sul piano psicologico per far fronte a questa problematica.

Definizione di obesità

L’obesità è una malattia cronica corrispondente a un eccesso di massa grassa, che ha conseguenze dannose sulla salute delle persone. Ha un’eziologia multifattoriale: è legata a fattori genetici, metabolici, psichici e sociali che condizionano e sostengono il quadro clinico (Società italiana di Chirugia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche [SICOB], 2011).

La condizione di obesità può essere definita in base al calcolo dell’indice di massa corporea (BMI= peso/altezza2 con peso in kg e altezza in metri). Con un BMI ≥ 30 KG/m2 si è in condizione di obesità. Le complicazioni legate all’obesità riguardano l’apparato respiratorio, cardiovascolare, con importanti limitazioni anche sul piano della mobilità articolare oltre che sul piano sociale e psicologico (Ciangura et al., 2009)

Il tema dell’obesità è quanto mai attuale e le spese sostenute per ridurne gli effetti sono diventate ormai di rilievo, questo è dato anche dal fatto che si continua ad intervenire su questa particolare condizione unicamente dal punto di vista nutrizionale, tralasciando invece gli aspetti psicologici che vi sono implicati.

Condotte alimentari disfunzionali

Nella società occidentale dei nostri giorni, l’assunzione di cibo non è più legata al semplice scopo di nutrirsi per sopperire bisogni fisiologi primari, bensì l’alimentazione ha assunto connotazioni molto diverse, è legata a scopi ricreativi, ludici e molto spesso viene utilizzata in maniera impulsiva per far fronte a stati emotivi disfunzionali dati ad esempio da ansia o depressione o per alleviare lo stress.

Fin dall’infanzia, il cibo viene associato a forme di premio, si apprende quindi ad utilizzarlo per scopi anche diversi rispetto alla mera soppressione della fame, il cibo cosi assume una componente simbolica, ad esso sono associate diverse emozioni. Questo modus operandi risulta però disfunzionale, poiché può comportare un eccesso di introito calorico con conseguenza dell’aumento del peso ponderale comportando difficoltà alla persona che ne soffre anche sul piano sociale, relazionale e spesso anche lavorativo.

Gli stili alimentari delle persone obese, possono essere visti lungo un continuum che parte da condotte non patologiche, fino a veri e propri disturbi alimentari. Tra le condotte alimentari non patologiche che comportano e che mantengono lo stato di obesità troviamo:

  • Grazing: ovvero una masticazione continua, dovuta ad una serie di spuntini a base di cibi grassi e dolciumi. Tra i vari alimenti assunti in questa condotta alimentare troviamo ad esempio molti snack calorici che vengono esposti in vista nei vari supermercati. I dolciumi hanno effetto di sollievo su stress ed umore negativo.
  • Iperfagia prandiale: consiste in un’alimentazione eccessiva, a pasto o fuori pasto, in maniera consapevole, e ciò la distingue dalle abbuffate patologiche di cui parlerò in seguito.
  • Salto dei pasti: è una condotta utilizzata occasionalmente dalle persone obese, che tentano di controllare il peso, che però non risulta funzionale, in quanto fa giungere al pasto successivo con ancora più fame, introducendo così calorie in eccesso. (Badussi, et al., 2011).

Per quanto riguarda invece una condotta alimentare patologica in cui l’obesità molto spesso può presentarsi come conseguenza, è quella delle abbuffate, caratteristiche del Binge Eating Disorder (disturbo da alimentazione incontrollata). Il BED rientra tra i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, categoria presente nel DSM-5. Gli episodi di abbuffata consistono in un’ingestione di cibo smisurata, che avviene in solitudine e sono seguite da forte senso di colpa, imbarazzo e forte perplessità sul mutamento del proprio fisico da parte della persona. (American Psychiatric Association (2013).

Queste sono modalità di consumare alimenti che possono comportare obesità, in particolare se la persona non svolge attività fisica, che consente di consumare calorie ed è geneticamente predisposto all’obesità, questa infatti ha un’importante componente ereditaria. Le ricerche riportano infatti come i fattori genetici siano responsabili in almeno il 70% dei casi (Molinari & Castelnuovo, 2011).

Perché si può essere propensi a mangiare tanto?

Il cibo ha importanti effetti neurobiologici. In particolare, lo “junk food” (cibo spazzatura) stimolerebbe il sistema di ricompensa nel nostro cervello, provocando sensazione di benessere esattamente come succede con l’assunzione di alcune sostanze stupefacenti. Il cibo spazzatura, ovvero tutto quel cibo ad alto contenuto calorico, attivando il sistema di ricompensa fa sì che venga rilasciato il neurotrasmettitore dopamina che consente di provare piacere. Il cibo spazzatura, provocando un rilascio notevole di dopamina rispetto ad alimenti maggiormente salutari e con ridotto contenuto calorico fa sì che il nostro cervello percepisca uno squilibrio e ne rimuova i recettori per riportare l’omeostasi. La persona per provare il medesimo livello di piacere, dovrà necessariamente mangiare maggiori quantitativi di cibi calorici, la conseguenza di questo comportamento sarà quindi, in chi è predisposto, l’aumento di peso (Gunnars, 2019).

Il cibo può diventare una strategia di coping disfunzionale per sopperire alcuni stati emotivi negativi come potrebbero essere ansia, depressione e stress.

Il ruolo dello psicologo nel trattamento dell’obesità

Secondo le ricerche, più del 90% delle persone in sovrappeso finisce per autocommiserarsi perché non riesce a mantenere il peso perduto a seguito di una dieta: dopo un iniziale entusiastico successo, il peso perduto viene recuperato, esponendo la persona a vivere questa situazione come un fallimento personale. Le diete, in particolare, espongono al rischio di quella che viene definita “sindrome dello yo-yo” ovvero fasi alterne di aumento e perdita di peso. Regimi alimentari eccessivamente restrittivi inducono ad un circolo vizioso: da un’eccessiva restrizione alimentare, si passa inevitabilmente ad una perdita di controllo sull’alimentazione. Questo genera senso di colpa e frustrazione nella persona che ritenterà di fronteggiare il problema ripetendo la restrizione alimentare. Da questo si evince come mente e corpo non sono entità separate e vi è necessità di intervenite su entrambi i fronti per risolvere questa problematica. (Alleri, Ruocco, 2017).

Le linee guida riportano come sia fondamentale un trattamento di tipo multidisciplinare per il trattamento dell’obesità che coinvolga diverse figure professionali, tra cui lo psicologo. Tuttavia, i tentavi di cura dell’obesità risentono ancora di una notevole impronta di tipo medico/chirurgica ed il ruolo dello psicologo resta mal definito in quest’ambito. Il lavoro dello psicologo viene limitato in particolare nella fase di valutazione, come avviene ad esempio nella fase pre operatoria per i pazienti candidati alla chirurgia bariatrica. I dati in letteratura riportano inoltre come siano coinvolti importanti processi cognitivi che influenzano la perdita dipeso ed il suo mantenimento, tali processi influenzano in particolare la capacità di mantenere uno stile di vita attivo ed un’alimentazione caratterizzata da alimenti salutari. Si evince come fare leva solo sulla forza di volontà della persona, nel processo della perdita di peso non risulta sufficiente e può condurla a stati di profondo malessere emotivo. Risulta quindi riduttivo la sola educazione alimentare per promuove l’importanza di un’alimentazione sana o la sola motivazione a svolgere attività fisica quotidiana, vi è necessita quindi di integrare l’intervento con la psicoterapia per poter gestire al meglio e sul lungo termine, questa problematica (Calugo et al., 2020).

Una risposta ci viene data dalla CBT

I trattamenti tradizionali per la cura dell’obesità, risultano unicamente focalizzati sul tentativo di controllo dei fattori biologici e tralasciano invece i fattori psicologici che vi sono coinvolti e che ostacolano il mantenimento della perdita di peso a lungo termine. Il trattamento rivolto all’obesità dovrebbe invece integrare attività fisica, correzione alimentare e intervento psicoterapico. La CBT-O è la psicoterapia cognitivo comportamentale specifica per il trattamento dell’obesità e prevede un intervento integrato da parte di un’equipe multidisciplinare.

Le ricerche in particolare dimostrano come pazienti obesi sottoposti alla CBT-O in trattamento residenziale, hanno raggiunto una perdita di peso del 15% dopo 12 mesi senza tendenza a riprendere peso a distanza di 6-12 mesi. Riportando quindi come sia fondamentale lavorare su tutti i fattori che sono implicati in questa particolare condizione (Dalle Grave et al., 2020).

Attraverso la CBT-O si incoraggia il paziente a diventare attore attivo del proprio processo di cura e oltre. L’intervento va oltre alla correzione alimentare, andando a modificare i processi cognitivi e gli stati emotivi del paziente che ostacolano la perdita di peso ed il mantenimento del dimagrimento, con l’obiettivo di dare dei benefici a lungo termine alla persona. Questa psicoterapia si distingue da altri trattamenti perchè sposta l’enfasi dall’aspetto fisico all’importanza della salute fisica, raggiungibile solo con uno stile di vita salutare ed inoltre il focus dell’intervento non è solo sulla modificazione del peso, che è soggetto, come detto in precedenza, anche a variabili biologiche e quindi non controllabili, ma allo stile di vita. La CBT-O si svolge mediante moduli specifici, gestiti da un’equipe multidisciplinare composta da medico, dietista, psicologo e fisioterapisa. Il paziente viene inizialmente educato a monitorare la propria alimentazione e le variazioni di peso, a seguire verrà modificata la sua alimentazione e imparerà a gestirla autonomamente, verrà sostenuto ad intraprendere uno stile di vita attivo. La CBT-O si prefigge inoltre di sostenere il paziente ad affrontare gli ostacoli alla perdita di peso o eventuale insoddisfazione per i risultati ottenuti, fattori che possono riportare la persona ad uno stato di malessere. La terapia ha lo scopo di far giungere il paziente alla fase di mantenimento del peso perso con uno stato mentale di soddisfazione tale che gli consentirà di mantenere i risultati raggiunti.

Questo intervento si differenzia dai metodi prescrittivi classici che vedono la persona impegnarsi in attività fisica e diete mettendo in campo la sola forza di volontà. I metodi prescrittivi, inoltre, vengono molto spesso percepiti dalla persona come coercitivi, vissuti in maniera non positiva non consentendo di ottenere così risultati duraturi (Dalle Grave, n.d.).

In conclusione

Le difficoltà sul piano psicologico per la persona che soffre di obesità, emergono in particolare quando vi è il confronto con i canoni estetici della società occidentale, in cui vi è l’esaltazione del fisico perfetto che rientra nei criteri della magrezza. La società moderna propone inoltre alimenti ad alto contenuto calorico e di facile e veloce reperibilità da un lato e l’esaltazione di un fisico perfetto dall’altra. Due poli opposti che possono facilmente entrare in contrasto e generare malessere.

L’insoddisfazione corporea porta spesso ad attuare dei regimi alimentari ristretti, che molto spesso falliscono nel loro scopo, riportando la persona al peso iniziale con l’aggiunta degli interessi (Zucchetti e Cipriano, 2017).

L’intervento sul piano psicologico deve porre attenzione anche al fatto che la persona possa aver subito dei traumi legati allo stigma sociale o che possa aver sperimentato numerosi fallimenti legati alle diete, come solitamente avviene. La psicoterapia risulta quindi un metodo fondamentale per il trattamento dell’obesità (Cuppini, Matteini, 2005).

Un tema ancora aperto su cui riflettere è quello della rivalutazione dell’obesità all’interno del DSM: al momento questa condizione non rientra come categoria diagnostica a sé stante ma può tuttavia presentarsi con preoccupazione e non accettazione del proprio aspetto fisico, generando uno stato di profondo malessere che merita maggiore attenzione (OPL, 2017).

 


 

 

Overdose da videogiochi: conseguenze sul benessere del minore

L’internet gaming disorder (dipendenza da videogiochi) è sempre più diffuso e le sue conseguenze, riportate da bambini, preadolescenti e adolescenti, possono essere fisiche, cognitive, relazionali, economiche ed emotive.

 

Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco; tutt’al più può essere la riproduzione obbligata di un gioco… il bambino e l’animale giocano perché ne hanno diletto, e in ciò sta la loro libertà. (Huizinga; 1946)

All’interno del suo Homo Ludens, Huizinga (1946) definisce l’attività del giocare come libera, spontanea, finalizzata al divertimento; di tale pensiero si potrebbe contestare che, se totalmente libero e privo di regole, il gioco potrebbe trasformarsi in qualcosa di caotico. A distanza di quasi un secolo dalla pubblicazione dell’opera di Huizinga, piuttosto che chiedersi se un gioco/videogioco comandato possa essere considerato iocus, ci si potrebbe chiedere se un gioco/videogioco che assume il controllo del giocatore, sia finalizzato al ludus o sia piuttosto una “trappola”.

Anche se ideati con lo scopo di intrattenere e divertire i giocatori, negli ultimi anni i videogiochi sono stati oggetto di numerose critiche, in quanto possibili generatori di dipendenza.

È necessario distinguere due differenti tipologie di dipendenza: quella da sostanza (tradizionale) e da non sostanza (new addiction o nuova dipendenza).

La prima si basa sull’abuso di sostanze psicoattive (neurodeprimenti e/o psicostimolanti), mentre la seconda, sotto un’altra veste, ma non per questo meno innocua, porta gli individui a dipendere da condotte socialmente accettabili, o per lo meno legali: si pensi allo Shopping Compulsivo, alla Dipendenza Affettiva, alla Dipendenza da Sport o da Lavoro, alla Dipendenza da Internet (Internet Addiction Disorder) e alla Dipendenza da Videogiochi (Internet Gaming Disorder).

Quest’ultima, dunque, rientra all’interno dell’archivio delle new addiction, anche se in maniera ufficiosa.

L’OMS ha già inserito il Gaming Disorder nella bozza dell’ICD-11, nella sezione delle Dipendenze Comportamentali, mentre il DSM-5 ha introdotto nella sua terza sezione, assieme al Gioco d’Azzardo Patologico, anche la Dipendenza da videogiochi (Esposito, Serra, Guillari, Simeone, Sarracino, Continisio, Rea; 2020).

L’introduzione di tale categoria diagnostica nel DSM però, potrebbe abbassare la credibilità dei disturbi psichiatrici in generale, non essendo l’Internet Gaming Disorder ufficialmente riconosciuto come disturbo (Petry, O’Brien; 2013); tuttavia è un problema emergente per la salute pubblica (Esposito, Serra, Guillari, Simeone, Sarracino, Continisio, Rea; 2020).

La Dipendenza da Videogioco si caratterizza per l’utilizzo eccessivo e persistente di Internet, o semplicemente di un dispositivo che non necessita la connessione Internet (personal computer, tablet, smartphone), per giocare online/offline (Feng, Ramo, Chan, Bourgeois; 2017); essendo una condizione clinica che necessita ulteriori approfondimenti, i criteri diagnostici per l’Internet Gaming Disorder sono stati formulati prendendo come riferimento quelli del Gioco d’azzardo patologico, del Disturbo da uso di sostanze e del Disturbo del controllo degli impulsi.

Secondo gli standard DSM-5, almeno 5 su 9 tra i seguenti criteri diagnositici devono essere presenti, per un periodo di 12 mesi, per porre diagnosi:

  • Preoccupazione eccessiva riguardo al gioco su Internet;
  • Sintomi di malessere quando non si gioca o quando si è impossibilitati a giocare (astinenza);
  • Tolleranza, ovvero necessità di aumentare il tempo impiegato a giocare;
  • Tentativi numerosi, vani e infruttuosi di ridurre il gioco su Internet;
  • Perdita di interesse nello svolgimento di attività prima piacevoli;
  • Uso eccessivo dei giochi nonostante la consapevolezza delle problematiche psicosociali che comporta;
  • Utilizzo dell’inganno sulla quantità di tempo impiegata a giocare;
  • Utilizzo del gioco per allontanare uno stato d’animo negativo;
  • Mettere a rischio relazioni, lavoro e opportunità formative a causa del gioco su Internet.

Sono numerose le controversie riguardo i criteri proposti per la diagnosi, oltre a quelle riguardanti la denominazione del quadro clinico. Una delle critiche principali è quella mossa da King e Delfabbro, i quali sottolineano che il criterio della preoccupazione riguardo al gioco non dovrebbe essere valutato in termini di tempo, ma di contenuto cognitivo (Kiraly, Griffiths, Demetrovics; 2015). Un altro criterio diagnostico messo in discussione è l’uso dell’inganno riguardo al tempo speso a giocare: nella maggior parte dei casi, il gioco si svolge a casa del giocatore, quindi quest’ultimo non potrebbe mentire totalmente sulla quantità di tempo di gioco. Inoltre, i soggetti che vivono da soli, non avrebbero bisogno di mentire a nessuno. Un’ulteriore fonte di confusione sta nel fatto che l’acronimo IGD (Internet Gaming Disorder), comprende sia la Dipendenza da Videogioco online che offline; ciò è certamente fuorviante, in quanto la denominazione IGD esclude i giochi offline per definizione, ma nello stesso tempo li include.

I tassi di prevalenza per la Dipendenza da Videogioco differiscono nei vari contesti culturali e sono influenzati dagli strumenti utilizzati per la valutazione (Han, Kim, Bae, Renshaw, Anderson; 2015), dall’ambiente familiare, dai fattori psicosociali e dalla presenza di altre sindromi in comorbilità.

I risultati delle indagini fino ad ora svolte, hanno identificato le seguenti stime di prevalenza: 9% a Singapore, 8,5% negli USA, 1,7 % in Germania, 4,6 % in Ungheria, 4,1% in Norvegia, 0,6% in Spagna, 1% nei Paesi Bassi, 1,3% in Romania, 1,8% in Islanda, 2% in Polonia, 2,5 % in Grecia (Kiraly, Griffiths, Demetrovics; 2015). In Italia invece, i tassi di prevalenza si aggirano attorno allo 0,5% della popolazione, soprattutto adolescenziale.

Nonostante c’è chi sostenga che non ci siano prove sufficienti per considerare l’Internet Gaming Disorder un vero e proprio disturbo mentale, sono numerosi i minori che, a causa di un utilizzo eccessivo dei videogiochi, riportano una compromissione del loro funzionamento globale.

Le conseguenze riportate da bambini, preadolescenti e adolescenti con Internet Gaming Disorder possono essere distinte in fisiche, cognitive, relazionali, economiche ed emotive.

Le problematiche fisiche più frequenti sono dolore agli occhi, secchezza oculare, mal di testa, stanchezza, dolore alle articolazioni, fluttuazioni di peso, incuria della propria igiene personale, alterazione nell’evoluzione della prensione corretta di penne e matite, mal di schiena (Kiràly, Griffiths, Demetrovics; 2015), affaticamento mentale, alterazione dei ritmi sonno-veglia causati dall’utilizzo di dispositivi portatili prima di andare a dormire. La luce proveniente dagli schermi di smartphone e tablet stimola la retina, a seguito di tale stimolazione, si riduce la secrezione di melatonina (ormone del sonno); minore è la concentrazione di melatonina in circolo nell’organismo, maggiore è la difficoltà ad addormentarsi. La perdita di sonno, a lungo andare, comporterà delle conseguenze negative a cascata, tra cui maggiore affaticabilità fisica, difficoltà di attenzione e concentrazione, difficoltà mnemoniche e calo del rendimento scolastico. Il principale fattore di mantenimento dell’alterazione dei ritmi sonno-veglia, quindi, è la possibilità di poter utilizzare a letto i dispositivi digitali, in quanto portatili (Wong, Mo, Potenza, Chan, Lau, Chui, Pakpour, Lin; 2020).

I soggetti con Internet Gaming Disorder lamentano Sindrome da tunnel carpale e Sindrome testa-collo (Adamczyk; 2019). La prima è il risultato di uno squilibrio muscolare, dovuto all’utilizzo eccessivo dello smartphone o del tablet e si caratterizza per dolori al polso, mano e dita, mentre la seconda è causata dalla flessione prolungata in avanti e dall’alterazione della lordosi cervicale naturale. Tra i disturbi muscoloscheletrici conseguenti all’utilizzo eccessivo dei videogiochi, rientra anche la tendinite stenosante radiale, caratterizzata dall’infiammazione dei tendini della mano a causa della continua ripetizione di un gesto (si pensi al movimento continuo dei tasti del joystick della play-station).

In merito alle conseguenze relazionali, l’Internet Gaming Disorder compromette i rapporti interpersonali: progressivamente, il giocatore sostituisce le relazione del mondo offline, con le relazioni tra personaggi virtuali, all’interno del mondo videoludico. È come se il gamer sviluppasse un attaccamento alla propria identità online (avatar), percepita come estensione del sé, come amico intimo (King, Delfabbro; 2014). Secondo Caplan, i videogiocatori patologici preferirebbero le interazioni sociali online in quanto crederebbero di essere più al sicuro, rispetto alle relazioni sociali vis à vis. Ovviamente, i minori che dedicato un tempo eccessivo a giocare online/offline, hanno meno tempo per l’interazione con i pari: l’isolamento sociale, quindi, è una conseguenza dell’IGD.

Non meno problematiche sono le conseguenze economiche, considerando che alcuni dei nuovi videogames richiedono l’acquisto di gadjet per aumentare la probabilità di vincere, portando i gamers a spendere somme elevate di denaro online (Hawi, Samaha, Griffiths; 2018).

Infine, riguardo la sfera affettiva e psicologica, i minori con Internet Gaming Disorder sono più irritabili, ansiosi, depressi e riportano maggiore livelli di distress psicologico, se confrontati con i pari senza IGD.

Riassumendo, l’utilizzo eccessivo e persistente dei videogiochi online e/o offline, è in grado di determinare uno stato di malessere fisico, psicologico, cognitivo e relazionale nel videogiocatore; tuttavia, la sola visione del videogioco come strumento diseducativo e generatore di malessere, è alquanto riduttiva.

I videogames sono dei validi strumenti utilizzati per il potenziamento delle abilità attentive e mnemoniche, per lo sviluppo di abilità empatiche e per la stimolazione della creatività nel videogiocatore.

Si pensi a Brain Training, videogioco che propone una serie di esercizi mnemonici, attentivi, di aritmetica, oltre a quesiti di Sudoku.

Un altro ambito in cui i videogiochi vengono impiegati in modo vantaggioso, è quello scolastico: Immune Attack, ad esempio, è stato ideato per far comprendere, agli studenti delle scuole superiori, il funzionamento del sistema immunitario (Triberti, Argenton; 2019).

In ambito terapeutico, invece, i videogiochi con grafica 3D, in grado di suscitare emozioni complesse come stupore e meraviglia, vengono utilizzati con i pazienti oncologici e psichiatrici per rendere più serena l’ospedalizzazione.

Il problema, dunque, non è l’uso dei videogiochi, ma “l’overdose” degli stessi.

 

Emozioni virali. Le voci dei medici dalla pandemia (2020) di Luisa Sodano – Recensione del libro

Emozioni virali è stato scritto a partire da un’idea nata in un gruppo Facebook e raccoglie storie autografe di medici che giorno dopo giorno, durante i primi mesi della pandemia del 2020, scrivevano le proprie impressioni, riflessioni, confidenze, paure…quasi come se fosse un diario di guerra.

 

…Un libro necessario ora a poche settimane dai fatti, ma anche per il futuro, per chi, fra 10 o 50 anni, vorrà sapere cosa sia successo in Italia nel primo semestre del 2020

così recita la prefazione a Emozioni Virali di Camillo Il Grande, e oggi, in piena terza ondata nel 2021, leggerne l’implicito ottimismo mette i brividi.. perché se è vero che alcuni passi avanti fondamentali sono stati fatti, è anche vero che la nostra vita è ancora travolta dalla sconvolgente presenza del virus e la pandemia non è ancora finita.

Emozioni Virali è una bottiglia del naufrago, abbandonata tra le onde del web giorno dopo giorno, destinata a portare lontano dall’isola deserta i messaggi da un mondo a sé dove solo operatori sanitari e pazienti sono ammessi ma anche, appunto, isolati.

Il libro raccoglie racconti autografi dei medici che giorno dopo giorno, durante i primi mesi della pandemia del 2020, scrivevano le proprie impressioni, riflessioni, confidenze, paure.. quasi un diario di guerra, caratterizzato dall’emozione e dall’urgenza di portare fuori dalle mura dell’ospedale la testimonianza di ciò che avveniva all’interno, le storie dei pazienti con cui con poche armi combattevano per la guarigione, la frustrazione dell’impotenza, l’esaltazione delle vittorie e la stanchezza di chi improvvisamente temeva per sé e per i propri famigliari, eppure lavorava senza sosta perché perdere significava perdere delle vite.

L’autenticità di questi racconti ne fortifica l’impatto, l’umanità di chi scrive mettendo in campo le proprie emozioni rende la lettura coinvolgente, veicolando ciò che di più prezioso in quei mesi abbiamo avuto, il senso di unione, di appartenenza, di fare fronte comune.

Capitolo dopo capitolo si entra in punta di piedi in tanti reparti, dall’ostetricia alla rianimazione, dalla geriatria alle molte medicine convertite da un giorno all’altro in reparti covid e si seguono le storie di tanti pazienti e operatori, storie di resilienza e di intraprendenza, di abnegazione e di coraggio e anche di paura.. storie che solo così sono sgattaiolate al di fuori delle mura invalicabili degli ospedali che ancora oggi ammettono la presenza di poche persone e racchiudono malati e operatori nel tentativo di contenere i contagi.

Altri racconti invece descrivono la guerriglia urbana, quella con poche armi, in solitudine, negli ambulatori di medicina territoriale, nelle visite domiciliari che nessuno sapeva come fare, alle prese con protocolli in continuo cambiamento, a volte discussi prima nel gruppo facebook o nei messaggi tra colleghi e solo dopo ratificati in abbozzi di linee guida condivisi per poi venire cambiati nuovamente, nell’affannosa ricerca di indicazioni evidence based che ancora oggi non abbiamo.

Una testimonianza tragicamente ancora attuale, ma anche un monito per chi è chiamato a decidere per gli altri e a garantire per tutti con le sue scelte. Ci sono state tante vittime, e ci sono stati tanti operatori sanitari che hanno perso la vita sul posto di lavoro ed è necessario fare tesoro di quanto abbiamo imparato da questa tragedia, rettificare e rafforzare le aree di fragilità che sono emerse affinchè si combatta, ma potendo pensare che è stato fatto tutto ciò che si poteva per valorizzare, rinforzare, sostenere il nostro sistema sanitario, così prezioso.

I proventi dei diritti d’autore sono devoluti ai sanitari vittime della pandemia e già questa è un’ottima ragione. Ma leggere questo libro significa comprendere un pezzo in più, farsi attraversare dalle emozioni, a volte commoventi a volte struggenti, e poi uscirne fuori più forti, motivati e uniti.

 

Il coraggio della sensibilità: Anche fragile – Rubrica Psico-canzoni

Elisa nel brano Anche fragile racconta un po’ di sé e di un tratto del viaggio intrapsichico dell’essere umano. Il dialogo descritto è quello tra la parte più sensibile di sé e quella più impenetrabile. 

Psico-canzoni – (Nr.10) Il coraggio della sensibilità: Anche fragile

 

Anche fragile è una delle tante canzoni di Elisa che possono prestarsi ad una lettura psicologica. Può sembrare un discorso fatto ad una persona cara, ma in questo caso verrà presentato come un dialogo tra due parti di sé.

Ancor più che una conversazione, il brano sembra essere un monologo dalla parte più fragile di sé a quella più forte, laddove forte e fragile sembrano avere l’accezione rispettivamente di impenetrabile e sensibile.

E piangiamo insieme che non piangi mai e non nasconderti con le battute non mi allontanare

è la miglior descrizione che si possa fare di impenetrabile, perché dove la scorza è tanto dura al fine di proteggersi, rende impossibile il passaggio a qualsiasi emozione o persona, persino a se stessi. La parte forte sembra essere tanto impermeabile, da non sentire nemmeno la vitalità che trasmette una goccia di pioggia, perché non può essere toccata. Quando la protezione diviene così marcata si rischia di creare una caverna che ripara dal mondo esterno così da non permettere il contatto con esso che renderebbe possibile vivere piuttosto che sopravvivere.

La parte più sensibile nel brano di Elisa sembra arrivare in soccorso di una forza pericolosa, anche per rendere meno letale il tallone di un semi-dio qualora se ne scoprisse l’esistenza. Permettere alla parte più fragile di emergere e di esprimersi concede paradossalmente all’essere umano la possibilità di non essere un bersaglio facile alla prima uscita dalla caverna. Così la parte apparentemente più delicata è quella più coraggiosa perché esce dalla caverna dove è possibile dire

voglio impegnarmi e salvare un pezzo di cuore, io non vivo senza sogni e tu sai che è così

donando alla parte più rigida la flessibilità che permette la sopravvivenza nel mondo esterno.

Io un confine non lo so vedere. Sai che non mi piace dare un limite, un nome alle cose, lo trovi pericoloso

mostra un altro limite della scorza dura. Per mantenersi al sicuro e proteggersi da entità pericolose bisogna posizionare sassi enormi nelle possibili vie di fuga della caverna. Questi massi sono limiti molto pesanti che evitano lo scontro con l’impossibilità di tenere tutto sotto controllo, ma anche di accedere alla vitale confusione umana.

Pur notando una resistenza della parte impenetrabile

e non nasconderti con le battute non mi sconcentrare,

la parte più permeabile la esorta:

stiamo a vedere dove possiamo arrivare e ridiamo insieme che ridiamo sempre, sempre, sempre che non basta mai, mai, mai.

La parte apparentemente più fragile si mostra essere ancora la più coraggiosa, poiché è quella che chiede all’altra di trasformare la risata da elemento protettivo a mezzo d’incontro.

La forza spesso viene associata all’impermeabilità, mentre la possibilità di bagnarsi sotto la pioggia alla fragilità. Quanta forza, intesa come coraggio, ci vuole invece per uscire a bagnarsi, rischiando un malanno, ma sentendo appieno ogni singola goccia piuttosto che rimanere sotto l’ombrello e privarsi della percezione dell’acqua sulla pelle? Quanto è instabile un sistema che regge su una parvenza di controllo? Le caverne e gli ombrelli sono utili se si sceglie quando usarli, senza che diventino un modus vivendi. Per vedere il Sole fuori è necessario spostare il masso, riuscendo a dire a se stessi:

e perdonami se sono forte sì ma poi sono anche fragile.

 

ANCHE FRAGILE – Guarda il video del brano:

 

“Finisco la videocall e mi alleno!”: come sono cambiati l’esposizione agli schermi e l’esercizio fisico durante la pandemia di COVID-19 e quali gli effetti sulla salute psicofisica

In molti paesi del mondo sono state adottate misure di distanziamento fisico per rallentare la diffusione del COVID-19 e ciò ha comportato la chiusura diffusa di frontiere, scuole e attività commerciali.

 

Questo drastico allontanamento dalla normalità ha portato a un repentino cambiamento nelle routine quotidiane, mettendo alla prova le nostre capacità di adattamento alla situazione.

Molte persone sono state costrette a lavorare da remoto e ad evitare superflui spostamenti fuori casa, riducendo i contatti con gli altri al minimo indispensabile. Ciò che è noto è che le misure di allontanamento fisico sono fondamentali per limitare la trasmissione del virus (Chu et al., 2020), ma quello che forse non tutti sanno è che restrizioni prolungate possono portare a una diminuzione delle opportunità di fare attività fisica all’aperto e ad un incremento nell’utilizzo di dispositivi tecnologici (Chen et al., 2020), ai quali può conseguire un aumento di malessere, ansia, depressione ed altre psicopatologie (Brooks et al., 2020). Uno studio svolto in Canada durante il periodo di confinamento tra Marzo ed Aprile 2020, ha rivelato che rispetto al 2018 meno abitanti avevano valutato positivamente la propria salute mentale (Findlay & Arim, 2020). Questo sta a significare che, con l’avvento della pandemia, meno persone reputavano la propria salute come complessivamente buona rispetto alla consuetudine pre-COVID-19. Inoltre, molti avevano riferito un aumento degli stati d’ansia riguardo alla propria salute e a quella degli altri (Statistics Canada, 2020).

A cosa può essere riconducibile il decremento della valutazione positiva della propria salute mentale? Una sperimentazione svolta durante il lockdown ha formulato delle ipotesi per rispondere a queste domande. L’obiettivo dello studio di Colley, Bushnik e Langlois era quello di indagare i cambiamenti nel rapporto con le tecnologie e nelle abitudini relative all’attività fisica durante la pandemia (Colley et al., 2020). Nello specifico, gli sperimentatori hanno osservato i mutamenti nelle abitudini relative al tempo trascorso davanti a schermi di dispositivi tecnologici e la loro relazione con la salute nei partecipanti al Canadian Perspectives Survey Series (CPSS). I 4.524 partecipanti hanno informato gli autori dello studio rispetto al loro svolgimento di esercizio fisico all’aperto o al chiuso, e riguardo l’aumento, il mantenimento, o la diminuzione del loro uso di internet, TV e videogiochi. I partecipanti hanno anche riferito la loro salute generale e mentale auto-percepita.

In merito al tempo trascorso davanti agli schermi, il 65% degli uomini e il 62% delle donne hanno valutato la propria salute mentale e generale come molto buona o eccellente a seguito di un mantenimento o una diminuzione del tempo trascorso davanti alla TV, dato rilevante in confronto al 57% degli uomini e il 43% delle donne con salute complessiva molto buona che aveva invece aumentato il tempo trascorso a guardare la TV durante il lockdown. Per ciò che concerne l’utilizzo di internet per motivi di lavoro, videochiamate o passatempo, il 61% delle donne che aveva diminuito o mantenuto lo stesso tempo di utilizzo dei dispositivi prima e durante la pandemia riteneva di avere una salute eccellente, rispetto al 44% che ne aveva aumentato il consumo. Lo stesso discorso è valso per i videogiochi. È stato mantenuto un livello di salute mentale molto buono o eccellente nel 63% degli uomini e nel 52% delle donne che avevano mantenuto o diminuito il tempo dedicato ai videogiochi. La percentuale di uomini e donne che aveva riferito di avere una salute mentale eccellente nonostante l’aumento del tempo trascorso sui videogiochi era rispettivamente solo del 48% e 29% (Colley et al., 2020). Per quanto riguarda l’esercizio fisico, dalla ricerca è emerso che il 54% delle donne che faceva esercizio all’aperto riferiva una salute mentale molto buona o eccellente, numero maggiore rispetto a coloro le quali si allenavano al chiuso (41%). Anche per ciò che concerne la salute complessiva percepita dalla persona, i numeri sono in linea con i dati fin ora mostrati. La percentuale di donne che ha riferito di avere una salute complessiva molto buona o eccellente poiché svolgeva attività all’aperto era infatti del 75%, numero molto maggiore rispetto al dato relativo a coloro che svolgevano attività fisica in casa (49%) (Colley et al., 2020).

Secondo analisi più approfondite, la quantità di persone che aveva riportato una salute mentale e complessiva molto buona o eccellente era maggiore in chi non aveva aumentato il tempo davanti agli schermi e aveva svolto esercizi fisici all’aperto rispetto a chi aveva impiegato maggior tempo davanti a 2 o 3 tipi di schermo e faceva esercizio al chiuso.

Questo studio mirava, tra le altre cose, ad evidenziare la necessità di spazi aperti, pubblici o privati, in cui svolgere attività fisica in sicurezza. Qualora non dovessimo essere nelle condizioni per farlo, è bene ricordare che, anche se svolta in casa, l’attività fisica può essere ugualmente salutare e rinvigorente: un toccasana per la salute fisica e mentale. Inoltre, è importante sottolineare che per alcuni tipi di professionisti è indispensabile utilizzare lo schermo del proprio computer per molte ore al giorno per motivi lavorativi. Ciò che è importante tenere a mente è che è consigliabile impiegare il resto del tempo svolgendo delle attività che limitino quanto più possibile l’utilizzo di altri dispositivi elettronici, come smartphone, tablet e TV.

È impossibile prevedere quando la pandemia COVID-19 si placherà. Infatti, è molto probabile che le misure di distanziamento fisico saranno ancora parte della nostra vita per il futuro prossimo. Ma, alla luce dello studio qui riportato, sappiamo che l’attività fisica è importante per una buona salute psicofisica e che una vita sana il più possibile lontana dagli schermi è davvero vitale durante i periodi di reclusione. In conclusione, limitare il tempo trascorso sui dispositivi tecnologici e mantenere l’abitudine di fare esercizio, specialmente all’aperto, può promuovere una migliore salute mentale e generale durante i periodi di distanziamento fisico.

 

Ansia in gravidanza: accogliere la sofferenza emotiva e promuovere il benessere – VIDEO del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

Studi scientifici hanno dimostrato come la gravidanza sia un periodo delicato, ad alto rischio per l’insorgenza di disturbi psicologici come in particolare di disturbi d’ansia. Pubblichiamo per i nostri lettori il video del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

 

La gravidanza è una fase di cambiamenti fisiologici e psicologici importanti e, per tale motivo, è sia un momento di gioia sia una fase di vita ad alta vulnerabilità psichica. Studi scientifici dimostrano infatti che questo è un periodo ad alto rischio per l’insorgenza di disturbi psicologici come in particolare di disturbi d’ansia.

Per di più, nell’attuale momento storico di emergenza da Covid-19, i vissuti di ansia possono risultare per le donne in maternità ancora più spiacevoli e di difficile gestione, al punto da alterare il benessere psicofisico delle stesse e di riflesso del bambino.

Lo scopo del webinar è stato quello di evidenziare le difficoltà emotive e gli interventi da poter attuare per aiutare la donna ad affrontare con serenità questo importante momento di vita, limitando così la sofferenza e le sue conseguenze a livello individuale, nella relazione d’attaccamento con il bambino, e nel sistema familiare.

Il webinar è stato condotto dalla Dott.ssa Federica Aloisio, pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

ANSIA IN GRAVIDANZA: ACCOGLIERE LA SOFFERENZA EMOTIVA E PROMUOVERE IL BENESSERE

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Il Mandala come simbolo di espressione del Sé – La funzione delle figure mandaliche secondo Carl Gustav Jung

Il mandala è un diagramma geometrico, disposto simmetricamente intorno ad un centro, in forma di un quadrato inscritto in un cerchio o viceversa. La struttura del mandala è intrisa di significati simbolici universali nella misura in cui le varie parti di cui si compone hanno una precisa valenza metaforica. 

 

Il quadrato rappresenta un tempio, dimora della divinità alla quale il mandala è dedicato, nel quale si aprono quattro porte “protettrici della coscienza” poste in corrispondenza dei quattro punti cardinali.

Il cerchio rappresenta un simbolo universale che raffigura il cosmo, la creazione e la ciclicità delle cose. Forme e disegni circolari si trovano in natura, nelle costruzioni architettoniche, nei rituali e nelle religioni di ogni epoca.

A partire dalle epoche primordiali nella storia dell’uomo, antichissimi luoghi di culto sono costruiti in forma circolare: il sito neolitico di Stonehenge composto da enormi megaliti, i disegni rupestri, le  strutture sacre caratteristiche delle civiltà Mesopotamiche, ziqqurat, raffiguranti sia il cosmo che la storia della creazione. Presso alcune popolazioni anche le grotte erano dei luoghi di culto che rappresentavano l’incontro tra il cielo e la terra.

Il significato rituale e simbolico associato al mandala che, in virtù della sua forma circolare rappresenta “il cerchio eterno” della ruota della vita, si caratterizza come un filo conduttore che accompagna la storia dell’umanità.

La parola stessa mandala che in sanscrito significa cerchio-orbita-disco è divenuta di uso comune nel Buddhismo per indicare un disegno che raffiguri simbolicamente il cosmo.

In India e in Tibet i mandala rivestono da sempre una funzione importante nella vita religiosa nella misura in cui esprimono dei complessi concetti filosofici e religiosi e rappresentano degli ausili alla meditazione.

La potente funzione evocativa e simbolica delle figure mandaliche venne identificata dallo Psicologo del “profondo” Carl Gustav Jung quale “archetipo universale” che si può rivelare nei sogni, nelle visioni e nelle rappresentazioni pittoriche di ogni cultura come espressione dell’inconscio collettivo.

In particolare, viene riconosciuto a Jung il merito di aver introdotto l’utilizzo del mandala in ambito terapeutico nella Psicologia contemporanea come strumento di individuazione del Sé.

Nel corso di un periodo di profonda crisi personale, Jung si dedicò ad un intenso e significativo viaggio di esplorazione interiore durante il quale iniziò a disegnare spontaneamente sul proprio taccuino delle figure circolari che riflettevano il proprio stato d’animo in un dato momento.

Tali disegni, espressione spontanea dei moti inconsci, favorivano un cambiamento sul piano psicologico contribuendo a realizzare una trasformazione interiore.

Jung scoprì in seguito che tali figure circolari erano dei mandala che identificò come l’espressione inconscia del proprio Sé. Egli osservò:

il Sé mi appariva come la monade che io sono e che è il mio mondo. Il mandala rappresenta questa monade e corrisponde alla natura microcosmica dell’anima.

Secondo la visione junghiana l’archetipo del Sé, nel quale si unificano tutti gli aspetti consci e inconsci della psiche, costituisce il punto culminante del processo di individuazione lungo il percorso che l’individuo compie per realizzare la propria personalità.

Il mandala favorisce la concentrazione dell’energia psichica sul Sé, la conciliazione tra i poli psichici opposti e aiuta a ristabilire l’equilibrio degli estremi favorendo l’espressione del nucleo essenziale dell’anima nella sua intima conciliazione e totalità.

L’elaborato simbolismo che caratterizza le rappresentazioni mandaliche e il loro utilizzo nella Psicologia contemporanea a partire dagli studi di Jung, ci porta alla pratica di uno strumento creativo che risulta funzionale nel tracciare percorsi di auto-scoperta e auto-guarigione.

L’azione di disegnare o colorare un mandala può favorire l’ascolto della propria voce interiore, la focalizzazione sul proprio sé e la realizzazione di un ordine interno. Attraverso quelle dimensioni inconsce che guidano spontaneamente l’individuo nella scelta delle forme e dei colori di un mandala si può giungere alla percezione della propria totalità.

Dedicare del tempo al disegno di un mandala, in linea con le forme simmetriche e armoniche che lo caratterizzano e che rimandano ad un nucleo centrale, favorisce un’azione di riequilibrio e di centratura producendo un effetto psicologico di stabilizzazione e orientando l’individuo verso il proprio centro e la propria auto-coscienza.

Il Mandala produce altresì effetti benefici sulla psiche nella misura in cui riduce l’ansia e rafforza la concentrazione consentendo di esprimere pensieri sentimenti ed emozioni su un piano di osservazione acritica e di benevola accettazione del proprio Sé.

Dedicare del tempo ad un mandala significa creare un proprio spazio sacro, un luogo protetto e un centro all’interno del quale focalizzare le proprie energie favorendo un percorso di esplorazione di se stessi, di guarigione e di crescita personale.

La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia. (C.G. Jung)

 

Adler e il complesso di superiorità

Per comprendere il complesso di superiorità occorre riferirsi al principio di base della psicologia individuale, il pensiero antitetico, ovvero quella modalità di percezione che si basa sugli opposti (alto/basso, forte/debole, maschile/femminile), il cui massimo esponente si rivede in Alfred Adler

 

Definizione

Con l’espressione “complesso di superiorità” (Adler, 2012) si fa riferimento ad una forma di complesso contraddistinta da un eccesso di autostima e da un’ancestrale valutazione di sé come superiore e più importante rispetto agli altri. La condizione descritta tende a palesarsi in diversi contesti e circostanze.

Il termine “complesso” affonda le sue radici nella parola latina “complexus” e fa riferimento ad un concetto caratterizzato da vari elementi. Parallelamente, in psicologia si definisce “complesso” l’esito finale derivante dalla commistione di una serie di sentimenti, pensieri, emozioni, comportamenti ecc. espressi in maniera cosciente o meno, in grado di condurre il soggetto ad avere la certezza di possedere o non possedere determinate qualità; la suddetta certezza non è soggetta a cambiamento mediante il ragionamento logico.

Il complesso di superiorità nella storia

Al fine di comprendere il complesso in questione occorre riferirsi al principio di base della Psicologia individuale, il pensiero antitetico, ovvero quella modalità di percezione che si basa sugli opposti (alto/basso, forte/debole, maschile/femminile), il cui massimo esponente si rivede in Alfred Adler (Adler, 1997).

L’espressione “complesso di superiorità” fu coniata da Adler, psichiatra, psicoanalista, psicologo e psicoterapeuta austriaco. Egli fece di questo semplice concetto uno dei pilastri della sua scuola di psicologia individuale agli albori del ‘900 (Monbourquette, 2016). Formulò il suddetto concetto a partire dal suo esatto opposto, ovvero dal complesso di inferiorità. A tal proposito egli dirà:

Noi dobbiamo ricordare naturalmente, che la parola complesso unita a inferiore e superiore rappresenta semplicemente una condizione esagerata del senso d’inferiorità e dell’aspirazione alla superiorità. Se guardiamo alle cose in questo modo si toglie il paradosso apparente di due tendenze contraddittorie esistenti nello stesso individuo. È ovvio che in quanto sentimenti normali l’aspirazione alla superiorità e il sentimento d’inferiorità siano complementari. Noi non aspireremo a essere superiore e ad aver successo se non si sentisse una certa carenza nella condizione presente. (Adler, 2012)

Infatti, seppur paradossalmente, i due complessi si identificano come le due facce di una stessa medaglia. Secondo Adler, fin dall’infanzia, l’essere umano prova un senso di inferiorità, che può protrarsi per tutta la vita (Monbourquette, 2016). Questo sentimento, assolutamente normale nell’infanzia, può trasformarsi in un vero e proprio complesso in età adulta se l’individuo, a causa delle carenti condizioni educativo-ambientali, non riesce a liberarsi di questa percezione negativa di sé. Secondo l’approccio di Adler, al fine di compensare gli effetti dirompenti del complesso in questione, l’uomo cerca di sviluppare uno smisurato senso di superiorità: più si sente schiacciato dal suo complesso di inferiorità, più sogna onnipotenza e dominio (Monbourquette, 2016).

In secondo luogo, l’aspirazione alla superiorità va intesa come una gara che l’individuo bandisce con sé stesso per raggiungere la perfezione, ovvero un’illusione del tutto ideale umanamente irraggiungibile (Adler, 1997).

Il complesso di superiorità e di inferiorità oggi

Partendo dalla formulazione del padre della psicologia individuale il complesso di superiorità si è evoluto e radicato all’interno della società, spingendo gli individui che ne soffrono a sentirsi sempre “migliori” degli altri, qualsiasi cosa facciano e con chiunque abbiano a che fare. Sebbene questo modo di fare possa indurre l’interlocutore a sentirsi inferiore, l’esigenza celata di colui che parla risponde alla necessità di colmare il proprio latente complesso di inferiorità (ammesso che abbia senso in questo contesto parlare di superiore ed inferiore). Risulta a questo punto evidente e netto collegamento che si instaura tra il complesso di superiorità e quello di inferiorità.

Pertanto, dinanzi a coloro che sentono l’esigenza di mostrare quanto “sappiano più di noi”, siano più lungimiranti o interessanti, e il cui unico scopo è quello di far sentire inadeguato l’interlocutore, occorre pensare che dietro questi agiti si nasconde un enorme senso di inadeguatezza e di non essere mai abbastanza, insomma il famoso complesso di inferiorità. Quest’ultimo arriva ad essere talmente grande che l’individuo potrebbe non considerare, neanche per un momento, di avere un problema; tant’è che l’individuo in questione tende a “risolvere” il problema compensandolo con il suo opposto, ovvero la sua falsa, spietata e apparente sicurezza.

Urge ricordare che di per sé

Il sentimento di inferiorità non è una malattia, è piuttosto uno stimolo per una salutare e normale aspirazione per lo sviluppo, ma, tale condizione diviene patologica solo quando il senso d’inadeguatezza sopraffà l’individuo e, lontano così dallo stimolarlo verso l’attività utile, lo rende depresso e incapace di sviluppo. (Adler, 2012)

Le cause

Le cause in grado di determinare l’insorgenza del complesso di superiorità in bambini e adolescenti sono varie e diversificate, ascrivibili all’area dell’ambiente familiare in cui il soggetto vive, dei contesti nei quali è inserito, di alcune connotazioni individuali, nonché il contesto socio-culturale. Tra le maggiori cause si annovera: tratti caratteriali eccessivamente introversi, subire eccessive aspettative o eccessive critiche da parte dei genitori, scarsi risultati scolastici e sportivi, bassa statura o altre particolarità fisiche, scarso successo nelle dinamiche relazionali e amicali, avere genitori narcisisti, subire atti di bullismo, avere genitori che hanno collezionato numerosi insuccessi e trasmesso ai figli la convinzione di essere migliori degli altri…

Conclusione

In sintesi, sia l’eccesso che la mancanza di autostima non sono mai indice di buona autostima, poiché si configurano entrambi come modi disfunzionali e rigidi di fronteggiare e gestire la bassa autostima del soggetto. Nel caso di complesso di superiorità ci troviamo dinanzi ad un meccanismo di iper-compensazione, in cui l’individuo sente la necessità di reputarsi superiore e migliore degli altri per rimediare alla sua scarsa autostima, pertanto si impone sugli altri come Super Uomo; nel caso di complesso di inferiorità il soggetto fa uso di un meccanismo di resa in cui “se accetto e ammetto la mia inferiorità, posso rassegnarmi al mio inevitabile destino”.

Colui che gode di un’autostima equilibrata non sentirà l’esigenza di affermarsi sugli altri o sottomettersi a questi ultimi, ma sarà semplicemente sé stesso consapevole dei propri limiti e delle proprie risorse.

 

Serious game e disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività

I serious game costituiscono esperienze interattive che possono avere l’aspetto e/o la struttura di un gioco, ma il cui scopo ultimo è quello di informare, educare o generare consapevolezza verso una tematica. Quale ruolo possono avere nel trattamento del disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività?

 

Il disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività (DDAI; attention deficit hyperactivity disorder, ADHD) è tipico dell’età infantile ed è considerato un disturbo del neurosviluppo. Questo disturbo è caratterizzato, sul piano clinico, dalla triade sintomatica: disattenzione, impulsività e iperattività motoria. Il DDAI è un disturbo pervasivo, che interferisce funzionalmente in ambito scolastico, sociale e lavorativo, che rimane costante nel tempo (Cassano, 2015). La disattenzione è caratterizzata, a livello comportamentale, da una difficoltà nel mantenere l’attenzione e l’organizzazione, divagazione dal compito, mancata perseveranza; tutte queste componenti non sono dovute da atteggiamenti di sfida o da una mancanza di comprensione. L’iperattività implica un’eccessiva attività motoria, anche in momenti in cui è inappropriata, o un eccessivo dimenarsi, tamburellamenti o loquacità. L’impulsività si verifica con azioni affrettate che avvengono nell’immediato senza una fase di premeditazione (APA; 2013). Il bambino, quindi, non è in grado di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da perseguire e delle richieste dell’ambiente (Vicari e Caselli, 2017). Secondo il DSM 5 (2013) si manifesta in maniera più frequente nella popolazione maschile con un rapporto di 2:1. Studi sulla popolazione mostrano che il DDAI si manifesta nella maggior parte delle culture con circa il 5% dei bambini coinvolti. Per poter avere un quadro clinico accurato è necessario che molti dei sintomi del DDAI si manifestino prima dei 12 anni, poiché questo è una patologia prettamente infantile. Ciononostante, è difficile stabilire a ritroso il suo preciso momento d’esordio. Inoltre, è richiesto che le caratteristiche del disturbo siano riscontrabili in più contesti, quali scuola, casa, lavoro ecc. (APA; 2013). I bambini con DDAI sono soggetti che presentano un alto rischio di utilizzo e di abuso di sostanze, di comorbilità con altri disturbi mentali, di autolesionismo e di mettere in atto comportamenti di tipo criminale (Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020).

Serious game

I serious game (o giochi seri) costituiscono esperienze interattive che possono avere l’aspetto e/o la struttura di un gioco (Botte, Matera and Sponsiello, 2009) ma il cui scopo ultimo è quello di informare, educare o generare consapevolezza verso una tematica. Ciò che li distingue dai videogiochi normali è la componente ludica che nei serious game costituisce un aspetto secondario (Repetto and Catalano, 2016).

Un serious game richiede delle caratteristiche:

  • Il videogioco deve mirare a specifici obiettivi educativi o condurre il player (giocatore) a un determinato messaggio.
  • La progressione del gioco è una conseguenza del raggiungimento degli obiettivi prefissati.
  • La creazione di un serious game coinvolge sia l’educatore/divulgatore che l’azienda che si occupa di sviluppare il gioco. Queste due parti devono collaborare in modo tale che il gioco rispecchi il contenuto educativo pensato (Repetto e Catalano, 2016).

In conclusione, i serious game sono progettati per insegnare, tramite uno strumento ludico, una vasta gamma di concetti e competenze che possono essere utilizzati al di fuori dell’ambiente virtuale.

I serious game sono stati impiegati per la prima volta nel 2002 dall’esercito americano. Ad oggi, sono impiegati nell’ambito dell’istruzione terapeutica e sanitaria, nella prevenzione e nel trattamento di varie condizioni mediche. La “cognitive load theory” sostiene che inserendo gradualmente compiti sempre più difficoltosi, creando un’interfaccia semplice e amichevole questi fattori contribuiscono a mantenere un livello elevato di attenzione (Zayeni, Raynaud e Revet, 2020).

Una delle strategie fondamentali che utilizzano molti serious game è la “gamificazione” (Gamification), ossia una tecnica che promuove il cambiamento comportamentale e l’impegno da parte degli utenti. Questa tecnica viene utilizzata specialmente negli interventi di e-Health (Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020). Il suo scopo è quello di agevolare l’instaurarsi di un interesse attivo da parte dei player, ovvero di coinvolgerli, per modificare i comportamenti (Petruzzi, 2015). Sembrerebbe che nei bambini gli effetti premiatori dei videogiochi siano rilevanti per incrementare l’aderenza di quest’ultimi Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020).

Stato dell’arte

Punti emersi da alcuni studi:

  • Una revisione sistematica della letteratura di studi sperimentali ha osservato che i videogiochi possono migliorare il regolamento delle emozioni (Villani, Carissoli, Triberti et al., 2018).
  • Alcuni giochi possono essere utilizzati per insegnare elementi/argomenti scolastici. Questi possono essere impiegati per agevolare l’acquisizione di competenze matematiche, come ad esempio la soluzione dei problemi, oppure fornire alcune nozioni di storia, usando ad esempio “Assassin’s Creed” (Bos, Wilder, Cook et al., 2014; Karsenti, Bugmann e Parent, 2019).
  • Il più delle volte molti giochi richiedono delle competenze ed un’alta tolleranza alla frustrazione, questo perché la maggior parte dei livelli vengono ripetuti finché non vengono acquisite le competenze necessarie (Olson, C. K., 2010).
  • Una meta-analisi afferma che i videogiochi d’azione rafforzano fortemente i domini dell’attenzione superiore e della cognizione territoriale (Bediou, Adams, Mayer et al.,  2018).
  • I giochi sembrano essere particolarmente adeguati alla popolazione dei giovani, questo è dovuto al fatto che diverse componenti presenti nei  giochi corrispondono allo stile di apprendimento dei «nativi digitali» che sono cresciuti intorno ai computer, ai videogiochi e a Internet (Prensky, 2001).

I serious game implicati nel disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività

Alcuni studi epidemiologici hanno mostrato che circa un quarto dei bambini in tutto il mondo occidentale hanno una o più condizioni croniche, è quindi fondamentale che possano apprendere conoscenze adeguate in merito alle loro condizioni di salute e sviluppino adeguate competenze per autogestirsi. Un approccio alternativo, recente, basato sui videogiochi può essere utilizzato come mezzo per migliorare le competenze e le conoscenze mediche, strumento per le cure mediche, la terapia e la gestione delle malattie (Charlier et al., 2015).

Molti studi, come ad esempio quello condotto da Barnes e Prescott (2018), hanno evidenziato come i bambini con disturbi psicologici possano beneficiare di strategie fondate sui videogiochi. Inoltre, strumenti di valutazione e interventi terapeutici in generale basati sui videogiochi si sono mostrati utili ed efficaci nella diagnosi e nel trattamento del DDAI. Oltre a questa patologia i videogiochi sono stati impiegati con successo anche con il disturbo dello spettro autistico (ASD), disturbo che molte volte è in comorbilità al DDAI. I videogiochi sono in grado di aumentare fattori come la partecipazione e la motivazione. Nonostante, i videogiochi sembrano costituire un utile risorsa essi non possono essere considerati come unico mezzo di trattamento. In aggiunta, la ricerca di novità è una componente forte di questo disturbo e il fatto di dover mantenere un impegno a lungo termine può risultare problematico per un bambino con DDAI (Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020). Una revisione sistematica condotta da Zayeni, Raynaud e Revet nel 2020 afferma che

i serious game possono ora essere considerati un’associazione innovativa o alternative nel trattamento e prevenzione di disturbi di depressione e di ansia e di bambini, adolescenti, ma anche nel trattamento dell’ ADHD e dell’ ASD.

Per concludere, a mio avviso, i serious game potrebbero essere un’utile risorsa, ma il fatto di non godere di una base empirica forte, unita alla presenza di alcune limitazioni, richiede ulteriori ricerche per dimostrare la loro efficacia.

 

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