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Dilatazione del tempo depressivo: la concezione del tempo in soggetti depressi

La dilatazione del tempo è un rallentamento temporale ben consolidato, percepito da parte dei soggetti nell’esperienza consapevole. Questo fenomeno può essere sperimentato dalle persone affette da depressione.

 

Nella teoria della relatività, Einstein (1920) osserva come il tempo sembra scorrere più lentamente in determinate contingenze: la “dilatazione del tempo” è stata coniata nel campo della fisica (Kent, Van Doorn & Klein, 2019). Nel campo psicologico, la dilatazione del tempo non viene misurata in intervalli di secondi, minuti o ore, bensì viene misurata in termini di

velocità o rallentamenti percepiti individualmente con il passare del tempo. (Kent, Van Doorn & Klein, 2019)

È noto come la depressione sia in grado di influenzare la percezione in generale e la percezione del tempo (Bech, 1975; Dilling & Rabin, 1967; Hawkins et al., 1988; Mezey & Cohen, 1961). Alcuni ricercatori si sono focalizzati sulla valutazione compromessa del tempo da parte di soggetti depressi (Bech, 1975; Bschor et al., 2004; Aneto & Rabin, 1967; Gallagher, 2012; Kornbrot, Msetfi & Grimwood, 2013), mentre altri hanno evidenziato come il tempo “passa più lentamente” quando si è depressi (Kent, Van Doorn & Klein, 2019; Kitamura & Kumar, 1982; Stanghellini et al., 2017; Thönes & Oberfeld, 2015). Questo effetto è noto come “dilatazione del tempo depressivo” ed è un rallentamento temporale ben consolidato, percepito da parte dei soggetti nell’esperienza consapevole (Kent, Van Doorn & Klein, 2019; Thönes & Oberfeld, 2015).

Thönes e Oberfeld (2015) hanno misurato la percezione del tempo nella depressione attraverso una scala analogica visiva: quest’ultima ha un continuum che parte da “molto veloce” a “molto lento”. Secondo il modello della percezione del tempo “dell’orologio interno” (Allman et al., 2014; Burle & Casini, 2001; Treisman, 1963; Zakay & Block, 1995), dilatazione e accelerazione possono essere interpretate grazie a due fattori che contribuiscono alla durata percepita (Glicksohn, 2001), cioè la 1) “dimensione” delle unità di tempo e il 2) “numero” di unità di tempo percepite (Kent, Van Doorn & Klein, 2019). In sostanza, si presume che la durata percepita sia un multiplo di questi due fattori (Kent, Van Doorn & Klein, 2019).

Un fenomeno curioso è come la percezione di unità del tempo più grandi sia vissuta in modo rallentato (come se il tempo scorresse più lentamente), mentre la percezione di unità di tempo più piccole richiedono più tempo per essere percepite (come se il tempo scorresse più velocemente; Kent, Van Doorn & Klein, 2019). Nella depressione, il passaggio dalla dilatazione e all’accelerazione del tempo implica che le unità fluiscono più rapidamente, oppure diventano più piccole man mano che gli intervalli di tempo si allungano (Kent, Van Doorn & Klein, 2019).

Nonostante le persone depresse vivano il tempo come lento, Kent e colleghi (2019) hanno svolto una meta analisi per osservare come mai le persone depresse riescono a sovra produrre brevi durate di tempo e a sotto produrre durate di tempo più lunghe. Escludendo due studi su sei, Kent e colleghi (2019) hanno osservato l’accelerazione del tempo in soggetti depressi: il tempo soggettivo accelera (1 secondo circa) dalla dilatazione iniziale alla successiva accelerazione all’interno della memoria di lavoro (con una durata di circa 30 secondi). Gli autori suggeriscono come l’effetto dell’accelerazione si verifichi a causa della congruenza dell’umore tra lunghi intervalli, noia e depressione: questa congruenza dell’umore porta al richiamo automatico di memorie autobiografiche intrusive a lungo termine, memorie negative e non specifiche che sono state utilizzate per giudicare gli intervalli dall’esperienza precedente (Kent, Van Doorn & Klein, 2019). Nonostante gli studi revisionati siano pochi, questa metanalisi fornisce la spiegazione di un potenziale legame tra il giudizio soggettivo in persone depresse e l’esperienza del tempo accelerato all’interno dello stesso modello esplicativo (Kent, Van Doorn & Klein, 2019).

 

Il Principe Harry sarà Chief Impact Officer di una Start Up che si occupa di coaching e benessere mentale

Il Duca del Sussex, ai più noto come Principe Harry, trova lavoro in Silicon Valley: sarà Chief Impact Officer della Start Up BetterUp, che si occupa di coaching e assistenza per il benessere mentale.

 

Il Principe Harry non assumerà un ruolo manageriale ma fornirà input su quelle iniziative che includono decisioni di strategia di prodotto e contributi di beneficienza, oltre a sostenere pubblicamente iniziative di promozione sociale relative alla salute mentale.

Nata nel 2013, la StartUp BetterUp si pone l’obiettivo di fornire ai suoi clienti un modo per rafforzare la forma fisica e mentale, nonché sviluppare il potenziale personale e professionale grazie all’aiuto di coach esperti. La StartUp consente all’abbonato, previa compilazione di alcune informazioni personali, di iniziare un percorso online con un esperto.

Il principe Harry, che non ha mai nascosto al pubblico di aver vissuto momenti difficili, è da sempre impegnato nella promozione del benessere mentale. Proprio a tal proposito, sul sito di BetterUp dichiara:

Quello che ho imparato nella mia vita è il potere di trasformare il dolore in uno scopo.

Durante il mio decennio nell’esercito, ho imparato che non abbiamo solo bisogno di costruire la resilienza fisica, ma anche la resilienza mentale. E da allora, la mia comprensione di cosa significhi resilienza – e come possiamo costruirla – è stata plasmata dalle migliaia di persone ed esperti che ho avuto la fortuna di incontrare e da cui ho imparato.

Nel ricoprire il ruolo di Chief Impact Officer di BetterUp, obiettivo del Principe Harry sarà quello di stimolare l’opinione pubblica sulla salute mentale, promuovendone prima di tutto la difesa e la consapevolezza.

Dopo essere stato protagonista, non molti giorni fa, di innumerevoli polemiche dovute alla discussa intervista rilasciata a Oprah Winfery, non possiamo che sperare che il suo ruolo e la sua visibilità, al di là delle notizie da tabloid, possano davvero aiutare a sensibilizzare le persone a un tema così importante quale la salute e il benessere mentale.

Ansia o depressione? Quando le preoccupazioni generano sconforto – VIDEO del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

Nei casi in cui l’ansia viene valutata come un segno di fragilità o debolezza personale è possibile che oltre a questo tipo di reazione emotiva si aggiunga anche uno stato di tristezza – Il webinar di Studi Cognitivi L’Aquila.

 

Quando vengono vissute delle esperienze di preoccupazione verso un obiettivo personale è possibile sperimentare un’attivazione emotiva di tipo ansiosa che ostacola il suo raggiungimento. Se questo tipo di reazione emotiva viene valutata come un segno di fragilità o debolezza si può ipotizzare che oltre allo stato iniziale di ansia si andrà ad aggiungere un’emozione di tristezza. Anche se quello che inizialmente non ci stava aiutando erano le nostre preoccupazioni, la tristezza che si è venuta a generare diventa il primo problema sul quale bisogna intervenire prima di poter gestire l’ansia.

Attraverso l’utilizzo di tecniche di monitoraggio è possibile elicitare i pensieri che generano gli stati ansiosi e allo stesso tempo le valutazioni che facciamo su di essi, che ci conducono alla tristezza, permettendo di fare ordine e avere una situazione più chiara di cosa ci sta accadendo.

L’obiettivo del webinar è stato quello di mostrare i processi cognitivi che, a partire da un’emozione di ansia, possono generare tristezza e cosa fare in questo tipo di situazione. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

ANSIA O DEPRESSIONE? QUANDO LE PREOCCUPAZIONI GENERANO SCONFORTO

Guarda il video integrale del webinar:

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Paralisi del sonno: aspetti neurofisiologici e interpretazioni del fenomeno nella cultura popolare

La paralisi del sonno è un fenomeno al quale, in diversi contesti culturali, sono stati attribuiti vari significati – spesso di tipo sovrannaturale – che ancora oggi è possibile ritrovare in alcune credenze popolari.

 

Si tratta di un’esperienza che per le sue caratteristiche ha ispirato da sempre leggende e racconti di gnomi, spiriti o altre spaventose presenze in grado di prendere possesso del corpo durante il sonno fino a paralizzarlo (Piazzi, 2019).

La paralisi del sonno ha una frequenza diffusa nella popolazione generale e si manifesta con uno stato di immobilità nel passaggio dal sonno alla veglia, o dalla veglia al sonno. Può essere accompagnata da esperienze allucinatorie che possono interessare tutti i canali sensoriali: allucinazioni uditive come udire un rumore di passi o delle voci nella stanza, sensazioni tattili, allucinazioni riguardanti la percezione visiva di figure umane o ombre che si avvicinano al soggetto provocando reazioni di terrore (Jalal et al., 2020b). Proprio questo aspetto ha fatto sì che si diffondessero una serie di credenze che hanno descritto la paralisi del sonno come un evento scatenato da circostanze misteriose al limite del paranormale.

In una review riguardante la paralisi del sonno nei racconti del folklore, de Sá e Mota-Rolim (2016) hanno messo in evidenza l’impatto che la cultura può avere sul modo in cui questo evento biologico viene interpretato. Nel loro studio vengono passate in rassegna diverse descrizioni del fenomeno provenienti da paesi anche molto distanti tra loro, ma che richiamano elementi comuni. Ad esempio, in alcune zone del Canada l’esperienza della paralisi del sonno viene attribuita ad un incantesimo lanciato da uno sciamano in grado di indurre l’immobilità del soggetto causandogli allucinazioni visive di una presenza dalla forma indefinita. In Giappone si dice che il responsabile di una simile esperienza sia uno spirito vendicativo che tenta di soffocare i propri nemici durante il loro sonno. E ancora, nella cultura Nigeriana sarebbe un demone dalle fattezze femminili ad attaccare durante il sonno provocando uno stato di paralisi. In un’ottica più contemporanea, alcuni hanno associato la paralisi del sonno ai rapimenti alieni riferendo anch’essi l’incapacità di muoversi durante il risveglio accompagnata dalla visione di figure extraterrestri.

Anche in Italia non mancano le descrizioni di personaggi spaventosi che minacciano la persona mentre giace indifesa nel sonno. In Abruzzo, ad esempio, molti si riferiscono all’esperienza della paralisi del sonno come all’attacco di una creatura con intenzioni malvagie chiamata Pandafeche. Il suo nome deriva dalla parola “fantasma”, ma i racconti della tradizione locale ne forniscono diverse rappresentazioni che la descrivono a volte come una strega, altre come lo spirito di una persona defunta o una creatura simile ad un gatto (Jalal et al., 2020b). Se in alcune zone di Italia la paralisi del sonno viene definita come l’attacco della Pandafeche, in Turchia si fa riferimento ad una creatura chiamata Karabasan capace di causare la paralisi mentre il soggetto sta per svegliarsi o per passare dalla veglia al sonno. Sebbene non ci sia una descrizione univoca riguardante l’aspetto di questa creatura, sappiamo che il suo nome deriva dalle parole “kara” (= nero) e “basmak” (= sopraffare, premere), (Jalal et al., 2020a) che richiamano la percezione di pesantezza e di essere oppressi da qualcosa o qualcuno tipica della paralisi del sonno. Nel folklore brasiliano si tramanda la leggenda della Pisadeira, un’anziana donna dalle lunghe unghie e dalla capigliatura trasandata che si nasconde in agguato sui tetti per poi attaccare le proprie vittime schiacciandone il petto e impedendogli di respirare. In alcune varianti della leggenda, la Pisadeira indossa un cappuccio rosso; se la sua vittima riuscirà a sottrarglielo, essa perderà la propria forza e gli concederà di esprimere qualunque desiderio (de Sá e Mota-Rolim, 2016).

Se un tempo le cause di questi episodi venivano attribuite a fenomeni arcani che sfuggivano alla comprensione dell’uomo e talvolta venivano trattate come vere e proprie possessioni demoniache, oggi conosciamo le basi neurofisiologiche di questo evento. Infatti, la paralisi del sonno risulta essere molto comune. Essa può presentarsi in maniera isolata oppure in associazione con la narcolessia (Stefani e Högl, 2020) o altre condizioni mediche e/o psichiche. Ciascun episodio rende impossibile al soggetto muoversi, per cui la persona si ritrova in uno stato di semi-coscienza, a metà tra il sonno e la veglia, ma paralizzata e incapace di parlare. Si può immaginare quanto questa esperienza – soprattutto quando si verifica per la prima volta – possa suscitare vissuti di ansia e intensa paura. Gli episodi possono durare da pochi secondi a qualche minuto, ma per chi lo vive in prima persona quello della paralisi del sonno può essere percepito come un tempo molto più lungo che porta con sé ogni volta un forte senso di inquietudine. Ma oggi sappiamo che durante il sonno REM il nostro cervello – tramite la corteccia cerebrale – ci permette di sognare, mentre vi sono altre strutture che, comunicando con i motoneuroni spinali responsabili del movimento, innescano una paralisi che ci impedisce di eseguire con gesti e movimenti ciò che stiamo sognando, proteggendoci così dai pericoli a cui potremmo essere esposti se agissimo le scene oniriche nella realtà. Dunque la paralisi del sonno non è altro che un fenomeno indotto dalla mancata sincronizzazione tra i meccanismi che regolano la fase di veglia e la fase REM del sonno (Piazzi, 2019).

In altre parole, l’atonia che durante il sonno REM paralizza il corpo dalla testa ai piedi, è dovuta al fatto che durante questa fase alcuni pattern di attivazione neuronale sono molto simili a quelli presenti durante lo stato di veglia; il che è in linea con il fatto che i nostri sogni più vividi e ricchi di contenuti emotivi si manifestano proprio durante questo periodo. Nei casi in cui il risveglio avviene mentre questo stato di immobilità è ancora attivo, si verifica un episodio di paralisi del sonno. Per quanto riguarda la spiegazione dei fenomeni allucinatori, questi potrebbero derivare dai contenuti onirici che il soggetto si trova a sognare nel momento di passaggio tra il sonno e la veglia. Le allucinazioni che si presentano in occasione del risveglio o dell’addormentamento vengono chiamate rispettivamente allucinazioni ipnopompiche e ipnagogiche (Jalal e Ramachandran, 2017).

Alcuni fattori associati alla comparsa di questi episodi possono essere una scarsa qualità del sonno – sonno disturbato o interrotto – il lavoro su turni, o dormire in posizione supina. Inoltre, episodi di questo fenomeno sembrano essere comuni in soggetti con una storia di trauma o PTSD; anche condizioni quali ansia sociale, disturbo d’ansia generalizzatao e disturbo di panico sono spesso riscontrabili in soggetti che sperimentano la paralisi del sonno, sebbene non sia stata accertata una relazione di causalità tra questi disturbi e gli episodi di paralisi. Esistono inoltre alcune personalità che sembrerebbero maggiormente predisposte a questa esperienza, come quelle con tratti più marcati di dissociazione, credenze paranormali o una maggiore tendenza immaginativa, ma anche in questo caso il nesso di causalità è poco chiaro (Sharpless, 2016).

Attualmente, l’unico sistema di classificazione che consente l’inquadramento diagnostico della paralisi del sonno è l’International Classification of Sleep Disorders (ICSD)-3, nel quale troviamo tra le parasonnie un disturbo denominato Recurrent Isolated Sleep Paralysis (RISP); i criteri diagnostici prevedono la presenza di episodi multipli di paralisi del sonno associati a disagio clinicamente significativo – come ansia e/o paura associate al sonno (ibidem).

Bisogna ricordare che, seppure poco piacevole, la paralisi del sonno è un’esperienza alquanto comune che non necessariamente si presenta in associazione con altre condizioni patologiche e non sempre soddisfa i criteri per essere riconosciuta come un vero e proprio disturbo. Quando si ha a che fare con alterazioni del normale ciclo sonno-veglia, c’è però da considerare che alla base possono esserci delle abitudini scorrette che influenzano negativamente la qualità del risposo notturno. Nella società moderna in particolare, un cambiamento nelle abitudini di riposo può essere indotto da vari fattori quali l’avanzamento della tecnologia – con il conseguente abituale utilizzo di numerosi dispositivi elettronici – l’esposizione a ritmi di vita frenetici e ritmi di lavoro sempre più incalzanti. In un simile contesto socioculturale si è certamente più suscettibili di andare incontro ad alterazioni del sonno con ripercussioni potenzialmente significative sul benessere fisico e psicologico (Shochat, 2012).

 

Fearless: la sindrome di Urbach-Wiethe

La Sindrome di Urbach-Wiethe rappresenta una tipologia di anestesia emotiva, con forti implicazioni sulla natura difensiva e dunque evolutiva, della nostra emozione primaria più antica: la paura.

 

Erano gli anni intorno al 2000 e nel mio tempo libero seguivo spesso una serie di documentari emessi dalla nota emittente televisiva statunitense ‘Discovery Channel’, il tema era la mente ed in uno dei tanti episodi veniva trattata l’emozione della paura.

Puntate interessanti descrittive di tutte le tematiche riguardanti questa emozione primaria, dalla fisiologia, con al centro il ruolo dell’amigdala, ai vari temi riguardanti la psicopatologia, primo fra tutti il ben noto PTSD (Disturbo da Stress Post Traumatico).

Quello che fece breccia nella mia mente fu però la descrizione di una patologia con importanti implicazioni neuropsichiatriche, la Sindrome di Urbach-Wiethe.

La puntata raccontava di una giovane ragazza che, a Parigi, salita in cima alla torre Eiffel si sporgeva per vedere la città senza minimamente riconoscere il pericolo legato all’altezza.

L’assenza di timore per le situazioni di pericolo era presente anche in molte altre manifestazioni della sua vita (ragni e serpenti non la intimorivano) (Willyard, 2010) cosicché, dopo accurate indagini mediche, le era stato diagnosticato un disturbo genetico che comprometteva il funzionamento dell’amigdala, quella struttura a forma di mandorla che dalla parte più profonda del lobo temporale si attiva in presenza di un evento che percepiamo come pericoloso: in lei l’emozione della paura era completamente assente.

La Sindrome di Urbach-Wiethe (detta anche proteinosi lipoide) è una rara malattia genetica la cui descrizione risale a due medici viennesi di inizio novecento, da cui prende il nome, uno otorinolaringoiatra e l’altro dermatologo. La sindrome infatti è caratterizzata da manifestazioni sistemiche dovute al deposito anormale di lipidi e proteine nei tessuti che portano allo sviluppo di manifestazioni otorinolaringoiatriche, quali la raucedine fino alle difficoltà respiratorie, e a manifestazioni cutanee, con assottigliamento della cute fino a lesioni cicatriziali (sono caratteristiche le lesioni a papula presenti sulle palpebre) (Parida, Misra & Agarwal, 2015).

Dal punto di vista neurologico, la malattia colpisce varie zone cerebrali con la possibilità di sviluppare sintomatologia epilettiforme con presenza di crisi convulsive generalizzate; peculiare è la compromissione delle aree cerebrali temporali, in particolar modo della regione amigdaloidea (Conti & Arnone, 2015)

Al momento una terapia specifica non è stata individuata e viene impostata una terapia a base di antibiotici e corticosteroidi al fine di contrastare gli aspetti legati alla sintomatologia sistemica.

Per quanto riguarda la sintomatologia neuropsichiatrica, caratterizzata da aspetti legati alla totale inconsapevolezza dell’emozione della paura, che rendono il soggetto facile preda di comportamenti a rischio, al momento attuale l’unico trattamento individuato è quello di tipo cognitivo grazie al quale si aiuta il paziente a riconoscere e modificare il comportamento in alcune situazioni potenzialmente pericolose (Feinstein et al., 2013)

Ultimamente la ricerca sembra aver individuato nella somministrazione di anidride carbonica una possibile fonte di stimolo alla sensazione della paura in questi soggetti, ma i risultati sono ancora controversi (Thornton et al., 2008).

La Sindrome di Urbach-Wiethe è interessante in quanto lega aspetti legati alla cognizione ad aspetti più propriamente di carattere neurologico nella cornice più ampia della malattia; ne scaturiscono riflessioni di carattere generale: tale sindrome rappresenta, in definitiva, una tipologia di anestesia emotiva con forti implicazioni sulla natura difensiva e dunque evolutiva della nostra emozione primaria più antica.

Vivere senza paura è dunque possibile? O ci espone ad incidenti ed insidie che fanno parte del nostro vivere quotidiano? L’assenza della paura comporta un appiattimento dal punto di vista emotivo? Quali sono le implicazioni dal punto di vista della socialità?

Queste ed altre domande trovano al momento difficile risposta in quanto la sindrome è una malattia estremamente rara, con una prevalenza maggiore tra la popolazione sudafricana di origine nordeuropea, e perciò è difficilmente indagabile.

Unico dato che sembra certo è che non comporti significative variazioni sulla curva della mortalità nella popolazione affetta anche se, chi ne è affetto, può andare incontro progressivamente ad una forma di alterazione del comportamento di tipo degenerativo simile all’autismo (Lynn et al., 2010).

 

Il Digital Learning e l’utilizzo di tecnologia e videogiochi per favorire l’apprendimento – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Una delle sessioni pomeridiane della seconda giornata dell’European Conference on Digital Psychology è stata dedicata al Digital Learning, l’apprendimento digitale, con gli interventi della Dott.ssa Angela Cattoni, il Dott. Andrea Cioffi e il Dott. Andrea Facoetti.

 

La Dott.ssa Cattoni (Imm. 1), con un intervento dal titolo Let’s play and learn! The use of gamification in education to improve children’s abilities and motivation, ha presentato gli effetti di applicazioni gamificate sul miglioramento della motivazione e delle abilità di letto-scrittura in bambini con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Punto di partenza è una considerazione sull’importanza del gioco come esperienza universale e come una delle principali modalità attraverso le quali il bambino può apprendere: il gioco può arricchire l’apprendimento a tutte le età, rendere gli utenti attivi, partecipi, creativi, promuove un miglior concetto di sé e di autoefficacia ed è caratterizzato da piacevolezza, rendendo le attività coinvolgenti e divertenti.

Digital Learning la tecnologia per favorire l apprendimento Report ECDP Imm 1

Imm. 1 Dott.ssa Angela Cattoni

Nell’ultimo decennio si è assistito ad un aumento degli studi sulla gamification, termine che indica l’utilizzo di elementi di gioco in contesti non di gioco, sia analogici che digitali; la gamification offre l’opportunità di proporre attività coinvolgenti tramite dispositivi mobili apprezzati dagli utenti, ma permette anche di progettare strumenti personalizzati che rispondano alle esigenze dell’utente. Le ricerche fino ad ora condotte hanno dimostrato che l’applicazione della gamification in aula o negli interventi riabilitativi porta al soddisfacimento dei bisogni di relazione, di competenza e di autonomia, sottostanti alla motivazione intrinseca.

L’obiettivo principale dello studio presentato dalla Dott.ssa Cattoni è stato quello di valutare l’efficacia della gamification su motivazione, coinvolgimento e potenziamento delle abilità di letto-scrittura in termini di rapidità e accuratezza in bambini di età compresa tra 8 e 10 anni a sviluppo tipico e con disturbi specifici dell’apprendimento, in particolare dislessia evolutiva e/o disortografia, confrontando questo training con un training carta e matita.

Per quanto riguarda i risultati preliminari della ricerca si è osservato un miglioramento statisticamente significativo in buona parte degli indici di lettura e scrittura dopo le sessioni di training e i risultati suggeriscono che i software non abbiano un’efficacia significativamente maggiore rispetto al training carta e matita. Si riscontra un generale entusiasmo per le attività proposte, che si mantiene sopra la media. Le app gamificate sembrano quindi avere un’efficacia sulle prestazioni degli studenti equiparabili agli esercizi tradizionali carta e matita: entrambe le metodologie sono valide e possono essere utilizzate una in supporto all’altra integrandole. In particolare, l’uso della gamification in classe può permette di ricevere immediatamente un feedback rispetto alla performance, di avere delle consegne dettagliate e precisi obiettivi da raggiungere personalizzabili e soprattutto la possibilità di apprendere dai propri errori. Per quanto riguarda la pratica clinica i professionisti possono monitorare in tempo reale l’andamento di bambini e ragazzi anche nelle esercitazioni a casa e continuare a revisionare il percorso di apprendimento integrandolo e modificandolo. In un periodo come questo, di didattica digitale integrata e difficoltà di alcune famiglie di recarsi nello studio clinico, questi strumenti possono essere un aiuto fondamentale.

L’intervento successivo, Enjoy your learning: Trend and emerging models for digital learning, è stato tenuto dal Dott. Cioffi (Imm. 2), che ci ha fatto riflettere su come sia possibile oggi affrontare la tematica dell’apprendimento in un contesto sociale ed economico caratterizzato da una digital transformation sempre più diffusa. Il quesito da cui parte è come sia possibile progettare attività formative coinvolgenti, di impatto e di semplice fruizione. Spesso la didattica tradizionale è incentrata sui contenuti più che sulle modalità di apprendimento; a partire da queste osservazioni è nata l’idea di riflettere sulla smart education, in cui entra in gioco l’utilizzo delle tecnologie per guidare l’innovazione didattica. In un modello di smart education viene messo al centro lo studente, si mira a creare insieme e condividere nuove forme di conoscenza per facilitare un’intelligenza collettiva e una maggiore partecipazione; prendere il buono degli ambienti tecnologici e portarli in contesti non di gioco è un modo per abbattere le barriere all’apprendimento e riuscire a promuovere un livello costante di attenzione e partecipazione. Non è sufficiente però l’introduzione delle tecnologia, ma è necessario un nuovo approccio alla didattica, che tenga in considerazione almeno due pilastri fondamentali: l’apprendimento attivo e quello partecipativo, cioè coinvolgere gli studenti in attività, far fare loro progetti e attività che implichino uno sforzo cognitivo per stimolare il pensiero critico oltre a coinvolgerli in comunità fisiche o virtuali, tutti aspetti questi che aumentano l’engagement in aula e l’apprendimento delle soft skills fondamentali anche nel mondo del lavoro.

Digital Learning la tecnologia per favorire l apprendimento Report ECDP Imm 2

Imm. 2 Dott. Andrea Cioffi

Seguono alcuni cenni al mondo delle imprese sottolineando l’importanza di allinearsi ai trend della digital transformation, soprattutto con riferimento al mondo del lavoro. I modelli organizzativi stanno tendendo al work life integration e quindi anche i modelli di apprendimento devono tendere al work-learning integration cioè un apprendimento fluido, diffuso, non vincolato a una visione rigida del tempo e dello spazio.

L’intervento si conclude sottolineando come oggi sia possibile “rendere la formazione un’attività attrattiva, non da promuovere, ma in grado di attrarre. Per farlo è necessario integrare metodologie, strumenti e tecnologie per la didattica per rendere l’esperienza di apprendimento coinvolgente, di impatto e al tempo stesso di semplice fruizione”.

Il Dott. Facoetti (Imm. 3) ha condotto il terzo intervento, Enriched environment to promote plasticity in neurodevelopment disorders: A lesson from action video games.

Digital Learning la tecnologia per favorire l apprendimento Report ECDP Imm 3

Imm. 3 Dott. Andrea Facoetti

Spesso viene posta l’attenzione sugli aspetti negativi dei videogiochi, ma gli studi presenti in letteratura evidenziano effetti positivi come ad esempio quelli di trattamenti riabilitativi che utilizzano i videogiochi per migliorare le abilità di lettura. Gli studi presentati dal Dott. Facoetti hanno coinvolto un campione con dislessia evolutiva. Meccanismo fondamentale per la lettura è quello dell’attenzione, un complesso meccanismo di filtro che il nostro cervello applica sul mondo per selezionare le informazioni rilevanti e bloccare quelle che non ci servono in quel momento e che risulta fondamentale per apprendere sia l’ortografia che la fonologia.

Ci si è quindi interrogati su come sia possibile migliorare l’attenzione e, già dagli anni ’90, diversi lavori dimostravano che alcuni tipi di videogiochi, gli action videogames, erano in grado di migliorare l’attenzione; il videogioco infatti è un ambiente in cui l’utente deve percepire ed elaborare l’informazione e rispondere agli stimoli.

Per quanto riguarda nel dettaglio l’utilizzo dei videogiochi nella dislessia, è stato dimostrato come l’utilizzo di action videogames porti ad un miglioramento delle capacità attentive rispetto a videogiochi di altro tipo e, aumentando le capacità attentive, si riscontra un miglioramento in quelle di lettura: è presente un effetto cross modale per cui si osserva un miglioramento nelle capacità uditive fonologiche.

Tuttavia, non è sufficiente l’utilizzo dei videogiochi per ottenere un miglioramento, ma è importante che il bambino riesca ad impegnarsi nel gioco in modo attivo allenando così i meccanismi attenzionali.

Parte dell’intervento ha riguardato anche i risultati ottenuti in un campione con discalculia in cui è stato rilevato un miglioramento delle capacità visuo-attentive connesso all’utilizzo di questo tipo di videogiochi.

Quindi attraverso una serie di esperimenti è stato mostrato come un programma riabilitativo basato su action videogames sia in grado di migliorare le abilità di lettura nella dislessia evolutiva e le abilità matematiche in bambini con discalculia.

In conclusione gli action videogames sono in grado di promuovere la plasticità neurale a breve e lungo termine anche nei disturbi del neurosviluppo e possono essere utilizzati come strumenti di riabilitazione e prevenzione innovativi.

 

Prevedere un reato è possibile? XLAW tecnologia all’avanguardia si pone come modello predittivo di illeciti di tipo predatorio

Uno studio accademico partenopeo ha dato origine ad una nuova tecnologia tramite la quale è possibile prevedere una percentuale di illeciti a stampo predatorio come i furti, gli scippi, le rapine, i borseggi e reati simili, grazie all’utilizzo di un modello di analisi automatica di intelligenza artificiale che ha permesso lo sviluppo del programma predittivo XLAW.

 

Lo studio, condotto dal Professore Di Gennaro ed altri collaboratori, si pone come innovativo nel panorama italiano nel settore della sicurezza urbana e dell’analisi criminale, rientrando in settori di studio come la criminologia, la sociologia criminale, la vittimologia e il crime mapping.

Contestualizzando, per analisi criminale si intende quel processo che ha per oggetto lo studio di eventi criminosi, indagando sul chi, come, quando e dove del loro effettuarsi nell’ottica di trovare delle connessioni tra l’evento reato, l’autore e il luogo dell’atto criminoso per fini di prevenzione sulla commissione di reati (Aramini, 2002). Esistono principalmente due tipi di analisi criminale: quello di stampo psicologico dinamico chiamato profiling e l’altro più scientifico chiamato crime mapping.

La prima si incentra maggiormente sullo studio delle dinamiche che portano a commettere un reato, stilando un profilo del presunto criminale che verrà confrontato con le informazioni derivanti dall’analisi criminale del reato commesso che includono la scena del crimine, il movente, il modus operandi e lo stato mentale del presunto colpevole al momento della commissione del reato. L’obiettivo di questa analisi è quello di aiutare a migliorare la comprensione del caso assumendo che l’autore del reato abbia un determinato modello di comportamento nel momento in cui commette un crimine che si proietta anche in alcune caratteristiche della scena del crimine (Jackson, Bekerian, 1997; Turvey, 1999). Solitamente questo tipo di analisi viene ad essere utile per crimini di tipo efferato come gli omicidi.

La seconda si basa su inferenze statistico-geografiche utili a prevenire reati a carattere predatorio come quelli contro il patrimonio (furto, rapina, scippo etc.) (Ummarino, 2013). Nello specifico si utilizzano dei software GIS (Geographic Information System) che aiutano a produrre mappe georeferenziate della distribuzione dei reati.

Semplificando tramite questi software si ha modo di vedere attraverso la costruzione di mappe virtuali quali reati sono stati commessi, dove sono stati commessi e quanti ce ne sono stati in una determinata area.

Il modello XLAW si avvicina di più alla seconda tipologia di analisi criminale e, grazie alla fusione delle teorie psicologiche derivanti dal crime mapping con quelle derivanti dall’intelligenza artificiale del machine learning, ha sviluppato una tecnologia che è in grado di prevedere una buona percentuale di crimini a stampo predatorio. Questo modello parte da studi sui fenomeni della devianza urbana risalenti alla fine degli anni ’90 per giungere allo sviluppo della tecnologia predittiva XLAW nel 2003, anno di partenza per la sperimentazione di tale tecnologia in sei città italiane con la conclusione della validazione di tale strumento nel 2019 da parte del Dipartimento di Pubblica Sicurezza Direzione Centrale Anticrimine.

Gli obbiettivi raggiunti nella sperimentazione del protocollo di XLAW sono stati i vantaggi in termini di riduzione degli illeciti di tipologia predatoria, la valorizzazione della prestazione degli operatori nel controllo del territorio, l’economicizzazione del consumo del carburante dei mezzi di pattuglia e l’impatto positivo nella percezione della fiducia del cittadino nei confronti delle forze dell’ordine.

Le criticità di questo modello previsionale sono legate al fenomeno del displacement ossia allo spostamento del fenomeno criminale causato da provvedimenti di previsione e dal 10/20% di probabilità che la macchina non anticipi l’evento criminoso.

In conclusione, il modello previsionale adottato in questo studio apre le porte ad una possibilità di riduzione dei crimini di tipo predatorio, rispondendo in parte all’interrogativo che è stato posto in questo articolo: è possibile prevedere i reati? La risposta ai lettori e agli esperti al settore.

 

Prendersi cura di un anziano fragile. Guida pratica per il caregiver familiare (2020) di Giulia Avancini – Recensione del libro

Il libro Prendersi cura di un anziano fragile, scritto con un linguaggio semplice e diretto, è dedicato a chiunque si occupi di un caro o di un assistito anziano nella condizione che il titolo definisce fragile.

 

Laddove ci siano condizioni di malattia debilitante che modificano la qualità di vita di un soggetto anziano, si modificano non solo il ruolo e le funzionalità di vita di quel paziente, ma anche l’assetto familiare e di quotidianità che ruota attorno a lui. Si affaccia così sulla scena, affianco all’anziano, un co-protagonista ugualmente importante: il caregiver ovvero colui che se ne occupa. I caregiver, il più delle volte, sono familiari oppure operatori sanitari o ancora assistenti domestici che vivono giorno dopo giorno la nuova scenografia che la malattia ha deciso di inscenare.

Prendersi cura di una persona fragile introduce inevitabilmente difficoltà quotidiane complicando le vite di tutti, in particolare del caregiver che si ritrova costretto a districarsi tra impegni di lavoro, vita personale e doveri di cura. Se poi il caregiver è un figlio o un familiare a ciò si aggiunge la fatica emotiva di gestire emozioni e sentimenti alle volte contrastanti quali la stanchezza, la rabbia per la situazione, il senso di colpa per alcuni pensieri che possono sopraggiungere e la responsabilità nei confronti di un ruolo acquisito.

Il volume della Avancini dunque pone i riflettori proprio su questa figura, non certo per risolvere ed eliminare le difficoltà che possono presentarsi in quanto, come chiarisce bene l’autrice, non può esistere una soluzione univoca e indiscutibile, quanto piuttosto per aiutare a individuare diverse soluzioni alle situazioni fornendo una “cassetta degli attrezzi” personale.

Suddiviso in 7 capitoli, il libro si apre introducendo il concetto di caregiving e di altri termini chiarendone le definizioni e le caratteristiche. Gli inglesismi inevitabili che si ritrovano nel capitolo iniziale vengono tradotti al meglio e resi secondo un linguaggio chiaro e accessibile. Questo primo capitolo fornisce la spiegazione teorica e la visione di diverse autrici nonché la presentazione di alcuni dati statistici italiani. Per quanto potrebbe sembrare di difficile comprensione, la presentazione quasi da manuale ha lo scopo di offrire una consapevolezza profonda del ruolo e dell’importanza che esso ricopre per giungere agli elementi fondamentali di quella che viene definita “cura autentica”.

I capitoli successivi affrontano da un lato la dimensione psicologica ed emotiva del caregiver cercando di far affiorare, attraverso esercizi specifici, la consapevolezza di bisogni personali e di emozioni prevalenti, dall’altro invece si sofferma su questioni maggiormente burocratiche e organizzative (luoghi di vita, gestione delle finanze, poteri decisionali). La caratteristica esperenziale-pratico è predominante nel volume: l’autrice propone diversi esercizi di riflessione personale e consigli utili per organizzare al meglio vari aspetti della quotidianità fornendo schemi e tabelle preimpostate.

Il capitolo finale, dedicato alla gestione della situazione con i più piccoli (figli, nipoti o parenti in età infantile), è meritevole di riflessioni. Attraverso una visione empatica e attenta l’autrice fornisce spunti utili per spiegare la nuova condizione ai più piccoli rendendoli partecipi del cambiamento inevitabile.

Prendersi cura di un anziano fragile fornisce istruzioni passo a passo e consigli pratici correlati da esempi di casi reali per meglio chiarire i diversi concetti; a tratti assume quasi le sembianze di un manuale che fornisce spiegazioni sulla metodologia di attivazione e i costi di diversi servizi. Il glossario finale fornisce un dizionario essenziale per districarsi all’interno di termini e abbreviazioni con cui si viene a contatto.

Compatto nel volume, di lettura scorrevole e con consigli pratici da applicare, aiuta il caregiver, o chiunque si occupi di assistenza, a trovare una propria dimensione di benessere percepito, facilita la relazione con la persona fragile conducendo a una gestione funzionale della quotidianità all’interno di una nuova dimensione del ciclo di vita di entrambi i protagonisti.

 

La clinica e l’economia comportamentale verso un obiettivo comune: la prevenzione del suicidio

La prevenzione del suicidio ha dinanzi a sé innumerevoli ostacoli, come la scarsa tendenza alla ricerca di un trattamento e la discutibile accuratezza dei metodi di auto-rivelazione (King et al., 2015).

 

Al fine di poter superare le suddette problematiche, l’utilizzo di strategie e tecniche proprie dell’economia comportamentale potrebbe rappresentare una soluzione.

Una tecnica definita nudge consente di indirizzare – o spingere gentilmente – le persone verso scelte più virtuose e meno soggette a distorsioni sistematiche. Ad esempio, il suo utilizzo ha consentito l’aumento dei risparmi per la pensione (Carroll et al., 2009) e le vaccinazioni contro l’influenza (Milkman et al., 2011).

Nell’utilizzo di tale tecnica, spesso si ricorre all’uso di norme sociali al fine di poter correggere la disinformazione ed influenzare un cambiamento (Cialdini, 2003). Si ritiene che le norme sociali abbiano un forte impatto sul comportamento, in quanto gli esseri umani possiedono un forte desiderio di piacere agli altri e di essere socialmente accettati (Cialdini &Goldstein, 2004). Il problema è che, a causa di tale bisogno, i singoli vengono spesso influenzati inconsapevolmente da pregiudizi cognitivi e dalla paura dello stigma (Barney et al., 2006), che impediscono al soggetto di segnalare comportamenti altrui socialmente inaccettabili.

Poiché si è visto che l’esposizione a norme sociali influisce sulle azioni future (Perkins, 2002), è plausibile che il loro utilizzo possa aumentare la ricerca di aiuto per comportamenti e pensieri legati al suicidio (Suicide-related thoughts and behaviors-STB).

La Item Count Technique (ICT; Droitcour et al., 1991), invece, è una procedura di interrogazione indiretta che viene usata per stimare la proporzione di persone che manifestano un comportamento culturalmente sensibile (Droitcour et al., 1991). Questa tecnica propone a un gruppo di persone una breve lista di item che non contiene il comportamento target, chiedendo loro di riferire quante affermazioni sono vere (es. “Sono stato triste e turbato, almeno una volta nell’ultimo anno”); ad un secondo gruppo vengono proposti gli stessi item e un ulteriore item riguardante il comportamento sensibile (es. “Hai mai pensato di ucciderti?”; Karlan&Zinman, 2011). Una meta-analisi ha evidenziato che, attraverso l’utilizzo di tale tecnica, i partecipanti erano più propensi a palesare la presenza del comportamento target (Holbrook&Krosnick, 2010).

Le strategie di framing, invece, vengono utilizzate per presentare un’opzione, mettendo in evidenza determinati aspetti che, inevitabilmente, influenzano l’attrattività verso la suddetta (Tversky e Kahneman, 1981). Il loro utilizzo potrebbe migliorare la diffusione di informazioni sulla prevenzione del suicidio ma, attualmente, ciò non è ancora avvenuto. Ci sono diverse ragioni per cui tali materiali potrebbero non essere utilizzati, una delle quali è lo stigma che circonda i STB (Barney et al., 2006). Per questo motivo, effettuare attività di prevenzione del suicidio, senza esplicitare che siano indirizzate a quest’ultimo ma direzionandole verso fattori di rischio connessi ad esso, eppure meno stigmatizzati, come l’ansia (Cougle et al., 2009), potrebbe contribuire ad aumentare i comportamenti di ricerca del trattamento per il comportamento target. Inoltre, l’uso di strategie di framing può aiutare a diminuire gli effetti del bias di ottimismo, ovvero la tendenza degli esseri umani a sottovalutare le loro possibilità di rischio. Dunque, poiché le persone percepiscono che gli altri sono a più alto rischio di STB e hanno più probabilità di avere bisogno di aiuto, questi individui potrebbero essere più disposti a essere esposti a un intervento allo scopo di aiutare gli altri piuttosto che se stessi (Sharot, 2011).

Nonostante le strategie nate in seno all’economia comportamentale abbiano esercitato un considerevole impatto in diversi campi, la salute mentale e, nello specifico, la prevenzione del suicidio non ha ancora utilizzato queste tecniche.

Bauer e colleghi (2019) hanno dunque condotto tre studi pilota con l’obiettivo di dimostrare l’efficacia di tali strategie nell’ambito della salute mentale.

Nel primo studio, essi hanno ipotizzato che gli individui che avrebbero ricevuto un “nudge” in una e-mail che li avrebbe informati di un intervento di salute mentale online gratuito per ridurre un fattore di rischio comunemente citato per il suicidio – ansia – avrebbero accettato di partecipare all’intervento con una frequenza maggiore rispetto a coloro i quali avrebbero ricevuto una e-mail senza il “nudge”. Nel secondo studio, è stato ipotizzato che gli individui che sarebbero stati sottoposti ad un metodo di interrogazione indiretta (TIC), avrebbero fornito una stima più ampia dell’ideazione suicidaria nell’anno passato, rispetto a coloro a cui sarebbe stato chiesto direttamente. Rispetto all’ultimo studio, i ricercatori hanno ipotizzato che gli individui a cui avrebbero chiesto se fossero interessati ad acquisire competenze per aiutare coloro i quali attraversano una crisi suicidaria, avrebbero accettato più spesso di partecipare a tali interventi rispetto a coloro a cui sarebbe stato chiesto se fossero stati interessati a possedere le competenze per aiutare sé stessi durante una crisi suicidaria.

I risultati emersi dal primo e dal terzo studio si sono dimostrati coerenti con quanto ipotizzato. Difatti, il primo ha dimostrato che la semplice presentazione di norme ingiuntive e descrittive sull’accettabilità sociale e l’efficacia del trattamento professionale legato al suicidio ha aumentato l’impegno rispetto al fattore di rischio associato al suicidio (cioè l’ansia). Allo stesso modo, il terzo studio ha dimostrato che la presentazione di risorse online per la prevenzione del suicidio come un mezzo per aiutare qualcun altro, che potrebbe essere vittima di STB, ha aumentato il coinvolgimento rispetto a quando sono stati presentati come un modo per aiutare sé stessi. Rispetto al secondo studio, nonostante i risultati non abbiano mostrato alcuna differenza statistica tra i metodi di segnalazione diretta e indiretta, si è visto che i dati raccolti online in forma anonima utilizzati abitualmente per le variabili relative al suicidio sono probabilmente veritieri, accurati e molto meno influenzati da bias di desiderabilità sociale.

In sintesi, i risultati di tre studi pilota suggeriscono che le strategie di stampo economico- comportamentale potrebbero essere tecniche valide per aumentare il comportamento di ricerca del trattamento e la diffusione delle competenze di prevenzione del suicidio, nonché raccogliere tassi di prevalenza più accurati.

 

Radical Open DBT: trattamento per i disturbi dell’ipercontrollo – L’ottavo episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema dell’ottavo incontro è stato il trattamento per i disturbi dell’ipercontrollo con la Radical Open DBT, discusso dalla Dott.ssa Alessia Offredi.

RADICAL OPEN DBT
TRATTAMENTO PER I DISTURBI DELL’IPERCONTROLLO:

Lectio Magistralis con D. Freeman: virtual reality in the assessment, understanding and treatment of mental health disorders – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Quando parliamo di realtà virtuale o artificiale rispetto a quella fisica e concreta siamo proprio sicuri che è evidente la separazione di significati? E per il nostro cervello tale distinzione (fisico/virtuale) è sempre chiara?

 

Introduzione

Possiamo parlare di intelligenza artificiale e intelligenza naturale certi di comprendere che si tratti nel primo caso di macchine, nel secondo di esseri umani; ma quando parliamo di realtà artificiale o virtuale rispetto a quella fisica e concreta siamo proprio sicuri che, come nella circostanza appena descritta, è evidente la separazione di significati? E per il nostro cervello tale distinzione (fisico/virtuale) è sempre chiara?

Il processo per cui la realtà virtuale (un’olonimia di quella fisica) si realizza in esplicito è analogo a quello implicito per cui la realtà si forma dall’immagine mentale.

Nelle rappresentazioni abbiamo una peculiarità unica: con le immagini sperimentiamo un presente percepito, un passato ridato, un futuro da costruire.

Per quanto concerne il passato avviene per merito di “condizionamenti”, per cui le immagini sono catturate dal pathos, dalle impressioni. È un condizionamento nell’esistenza umana, ciò che Dewey, denominò «situazione» che consiste nella fusione tra il principio personale di ogni essere umano e il complesso dei dati biologici e ambientali. Ciò significa che ciascuno, nel formarsi, sviluppa un sistema personale di immagini che condiziona la sua identità.

La questione diventa più complessa se consideriamo le parole di J.F.Herbart in cui

la vita reale è un intreccio di rappresentazioni

e, in questa sede, possiamo affermare che, per il nostro cervello, tale intreccio coincide con le rappresentazioni virtuali o artificiali dei dispositivi tecnologici, con quelle della realtà concreta e con le rappresentazioni di ciò che siamo in grado di immaginare (costruire cose o luoghi mai visti) o ricordare…comprese le distorsioni (in ogni situazione “ricordiamo il ricordo”).

Il trattamento terapeutico con la Realtà Virtuale (RV) è possibile non già da una intrinseca proprietà enigmatica della macchina, ma dalla particolarità del nostro cervello di “non distinguere tra una realtà immaginata ed una concretamente vissuta”, o meglio, solo una piccola porzione (il lobo frontale) ci suggerisce che “il virtuale non è reale”, ma si tratta di una vocina in mezzo ad un bouquet di voci (la parte restante del nostro cervello) grida il contrario! Possiamo dire che si tratti di una realtà “chiara e confusa” (conscio/inconscio) allo stesso tempo…

Altresì, una seconda questione, riguarda i principi superiori fino a quelli inferiori della mente umana, il trauma (e.g. uno stupro) o particolari patologie del mentale (e.g. paranoia) non sono altro che “abitudini intellettive contratte”, con il ripetersi continuo dello stesso processo, ad infinitum. Ed è inutile aggiungervi che, in una simile visione, non c’è posto alcuno per il libero arbitrio poiché, il nostro sistema (mente-corpo) che nel tentativo di accordarsi, diverge.

La RV ha il vantaggio del “distacco” dal plasma alimentatore totale (il corpo) e il vantaggio di salvaguardare la proprietà fisica mediante quella mentale.

Indebolire la «présentification», ovvero disassimilizzare e sostituire vecchie abitudini è possibile se consideriamo che queste ultime sono “estese” nell’ambiente.

La RV permette una “dissolvenza” organica per cui la mente nell’immaginare, vive.

Applicazioni della RV in ambito terapeutico

Questa personale sintesi segue la eco delle parole di Daniel Freeman pronunciate nella sua Lectio Magistralis alla European Conference on Digital Psychology:

le nostre menti si estendono nel computer e uno dei modi in cui lo facciamo è attribuibile all’utilizzo di questi strumenti; li usiamo come aiuti della memoria. Così il mondo è “accoppiato” con la nostra mente. Come ci comportiamo è influenzato enormemente da queste connessioni ed in quest’ultime che risiede anche la nostra salute mentale. Quando si parla di connessioni ci si riferisce agli ambienti (lavorativo, familiare, amicale, etc.). Il problema principale nella terapia dei disordini psicologici è che la cura non viene effettuata nell’ambiente in cui la persona genera comportamenti disabilitanti: bere alcolici nel bar; sospettare di qualcuno quando siamo insieme a tante persone (paranoia); aver paura dei luoghi chiusi (claustrofobia) e così via. Sono disagi che avvengono in relazione al contesto in cui ci troviamo.

Daniel Freeman - Foto

Molto promettente l’utilizzo della RV, secondo Freeman, per “guidare” e operare con il paziente in quell’ambiente.

Quando immergiamo l’individuo in quest’ultimo egli sente, percepisce e pensa in base a quell’ambiente. La questioni ha radici, certamente, in una delle scoperte più grandi della psicologia sociale: molti dei nostri comportamenti sono stabiliti in base all’ambiente in cui ci troviamo.

Una duttilità assimilatrice del contesto che la realtà virtuale può cogliere e riprodurre fedelmente: far coincidere la cura (identità del trattamento) nell’ambiente in cui si esprimono le alterazioni comportamentali con “l’incantesimo” dell’esperienza immersiva-interattiva in cui consegue un nuovo apprendimento che verrà migrato nell’ambiente reale.

Dato che la migliore terapia per alcuni casi, afferma Freeman, è

far entrare il paziente nel contesto in cui ha paura e fargli capire che è al sicuro.

Freeman si riferisce in particolar modo al trattamento della paranoia (‘quando pensi che altri individui vogliano farti del male’) in cui può risultare difficile anche per il terapeuta capire – o prendersi la responsabilità – che tali pensieri non siano reali.

L’immersione nella RV potrebbe “smascherare” questo autoinganno, dacché, se il paziente percepisce qualcuno vicino a sé come una minaccia, il pensiero non sarà autentico (considerando che i parametri per formulare questo scenario sono oggettivamente “neutri”).

Tuttavia uno dei potenziali problemi nell’utilizzo di questa metodica è che egli abbia delle resistenze in merito al kit utilizzato per la RV, ovvero che presenti una paranoia nei confronti di  questi strumenti.

Variabili sotto controllo con la RV

Tratti distintivi della paranoia possono essere la bassa autostima: la persona si sente separata dagli altri che percepisce come “diversi”. Una variabile dell’autostima è la statura dell’individuo. Statura e autostima hanno una correlazione positiva (per approdonfimenti Viciullo, 2014).

Nella RV, come in ogni metodo sperimentale, possiamo manipolare delle variabili in modo da osservare in che modo viene modificato il fenomeno osservato. Per fare un esempio, nel caso della paranoia (variabile indipendente) possiamo modificare, per mezzo della RV, l’altezza dell’individuo per poi notare quali effetti genera sulla sua paranoia.

Conclusioni

Da questa interessante lectio magistralis possiamo dire che gli “ambienti influiscono enormemente sul nostro stato psicologico”.

La RV ha prodotto – per disturbi come l’acrofobia o la paranoia – risultati clinici  migliori di quanto ci si aspetterebbe da una terapia face-to-face (Freeman, 2018).

Fattore aggiuntivo è che i pazienti sono stati disponibili ad essere sottoposti a quelle simulazioni – tramite l’utilizzo della RV – che suscitavano stati ansiogeni; erano coscienti che le simulazioni non  sarebbero state reali, ciononostante l’apprendimento ha portato a evidenti effetti positivi comportamentali sul mondo reale (per una rassegna: Freeman, 2019).

 

Le Organizzazioni di Significato Personale: tra psicopatologia e adattamento

Le organizzazioni di significato personale rappresentano una modalità di costruzione del proprio senso di unicità e individualità a partire dall’esperienza soggettiva. Sono come dei filtri che ci fanno essere più sensibili ad alcune emozioni, condizioni, e favoriscono la formazione di temi narrativi che guidano la costruzione di significato della realtà.

 

Il costrutto di “organizzazione di significato personale” ricopre un ruolo centrale nell’edificio teorico del cognitivismo cosiddetto post-razionalista (Picardi et al., 2004).

Guidano (1987, 1991) postula che le nostre esperienze, fatte di informazioni provenienti dal mondo esterno, rappresentano stimoli che la mente deve interpretare e a cui deve attribuire un significato.

Il Sé viene considerato come un processo in continuo svolgimento, che prende originariamente forma all’interno della relazione primaria di attaccamento, la quale fornisce una sorta di impalcatura che guida lo sviluppo dell’identità personale nella matrice socio-culturale di appartenenza […] Nella riflessione su di sé, nella quale continuamente si riordina il flusso di esperienza in modo coerente con i principi che regolano la propria organizzazione di significato personale, emerge un senso di sé unitario che si estende dal passato alle aspettative future, con le caratteristiche di unicità, coesione e continuità. (Picardi et al., 2004)

Le Organizzazioni di Significato Personale rappresentano una modalità di costruzione del proprio senso di unicità e individualità a partire dall’esperienza soggettiva. Sono come dei filtri attraverso cui avvertiamo maggiormente alcune emozioni piuttosto che altre, siamo più sensibili ad alcune condizioni e costruiamo dei temi narrativi che guidano la costruzione di significato della realtà.

Quando le esperienze hanno una connotazione emotiva troppo intensa per le proprie ridotte capacità di regolazione emozionale, o risultano troppo discrepanti rispetto al senso di Sé, il senso di coesione può risultare alterato e l’organizzazione può irrigidirsi. Può, di conseguenza, diventare difficile attribuire significato a ciò che ci succede e possono manifestarsi tratti patologici di personalità o sintomi psicopatologici i quali, pur nelle varie specifiche configurazioni, mantengono più o meno inalterato il loro rapporto con il nucleo centrale dell’organizzazione di significato personale.

Guidano (1991) identifica quattro principali configurazioni di organizzazione del significato personale:

  1. Organizzazione Depressiva
  2. Organizzazione Fobica
  3. Organizzazione tipo Disturbi Alimentari Psicogeni (DAP)
  4. Organizzazione Ossessiva.

Questo modello iniziale è stato elaborato sulla base dell’osservazione delle singole organizzazioni in condizioni psicopatologiche. Successivamente il focus si è spostato sui processi di regolazione e di costruzione dell’identità, perdendo il connotato psicopatologico e assumendo un carattere più generale (Nardi & Capecci, 2007).

L’organizzazione depressiva diventa, in quest’ottica, distanziante, l’organizzazione fobica diventa controllante, l’organizzazione DAP diviene contestualizzata, e infine invece di organizzazione ossessiva si parla di organizzazione normativa.

Uno strumento per indagare le organizzazioni di significato personale è il MQOP – Mini Questionario sulla Organizzazione Personale (Nardi et al., 2012). Il Questionario è stato costruito con l’obiettivo di indagare la chiusura organizzazionale principale (Inward – messa a fuoco dall’interno o Outward – messa a fuoco dall’esterno), e prevede 4 differenti scale di punteggi, relativi a ciascuna OSP, per un totale di 20 item (Arimatea et al., 2009). La “misurazione” dell’organizzazione è stata progettata utilizzando un numero identico di domande per ciascuna OSP. Dalla scala con punteggio maggiore viene ricavata l’organizzazione di significato personale. Il questionario indaga gli aspetti più significativi della personalità; tuttavia per la complessità dei processi di sviluppo e mantenimento del significato personale, il test non può sostituire la valutazione clinica.

In maniera semplificata, generica e sicuramente non esaustiva, le caratteristiche delle 4 OSP possono essere così sintetizzate:

  • Organizzazione Depressiva

L’organizzazione distanziante, e il costrutto correlato di stile di personalità tendente a disturbi depressivi, caratterizza individui che avvertono la solitudine come condizione esistenziale, con un diffuso timore di perdita in diverse circostanze. Hanno un forte senso di inettitudine e di non amabilità, amabilità che ritengono possibile raggiungere solo impegnandosi fortemente. Si riscontra prevalentemente in individui con uno stile di attaccamento evitante (Picardi et al., 2004)

  • Organizzazione Fobica

L’organizzazione controllante, e il costrutto correlato di stile di personalità tendente a disturbi fobici, si riferisce a individui che sviluppano un senso di sé tendenzialmente fragile, che hanno una spiccata attenzione verso segnali fisici e sensoriali, colti con immediatezza. Nascondo un senso latente di debolezza, hanno un forte bisogno di controllo e ricercano protezione nei legami interpersonali, vissuti, d’altro canto, anche come costrittivi e vincolanti (Picardi et al, 2004).

  • Organizzazione Dappica

L’organizzazione contestualizzata, e il costrutto correlato di stile di personalità tendente a disturbi alimentari psicogeni, caratterizza individui il cui nucleo centrale è rappresentato da un senso di Sé indefinito, che tendono a conformarsi alle richieste del contesto, per via di un latente senso di inadeguatezza, bisogno di ottenere consenso e approvazione,paura del giudizio altrui, con alternanza di atteggiamenti estremamente accondiscendenti o oppositivi (Picardi et al., 2004).

  • Organizzazione Ossessiva

L’organizzazione normativa, e il costrutto correlato di stile di personalità tendente a disturbi ossessivi, caratterizza individui che costruiscono il senso di Sé su un sistema astratto di regole e sulla capacità di adeguare il proprio comportamento alle regole stesse. Il senso di discrepanza tra il proprio sé e il sistema di regole genera attivazione emotiva. Si tratta di individui che necessitano di mantenere il controllo sui propri stati emotivi rifugiandosi in intellettualizzazioni e ragionamenti logici. Bassa è l’intolleranza dell’incertezza e del dubbio (Picardi et al., 2004).

È utile ricordare che la classificazione di un soggetto in una categoria non va intesa come una diagnosi psicopatologica, né permette di prevederne comportamenti, scelte o motivazioni. Tali descrizioni, inoltre, non possono rispondere alla molteplicità e complessità di modi attraverso cui un’organizzazione possa manifestarsi in soggetti differenti.

Piuttosto, l’obiettivo è favorire l’individuazione di principi che regolano i processi di formazione e articolazione dell’identità personale e la comprensione delle difficoltà soggettive di regolazione, di articolazione emozionale e il potenziamento delle abilità individuali (Picardi et al., 2004).

 

Pieces of a Woman, quando una donna si sgretola – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Diversamente dagli altri episodi, in questo viene proposta l’analisi del film “Pieces of a woman” di Netflix. Questo film propone una riflessione sulla maternità, sulla perdita di un figlio e sull’ambivalenza della forza e della fragilità materna che può essere riassunta in una parola: umanità.

Moms – (Nr.11) Moms – Pieces of a Woman, quando una donna si sgretola

 

Dal 7 Gennaio 2021 è presente nella piattaforma Netflix il film Pieces of a woman di Kornél Mundruczò, dove i “pezzi di donna” vengono interpretati in modo emozionante dalla talentuosa attrice Vanessa Kirby.

La storia raccontata è quella di Martha, una donna che vive a Boston con il compagno Sean. Insieme aspettano una bambina e quando arriva il giorno del parto qualcosa non va come previsto. Attraverso un’intensa scena realizzata tramite un realistico piano sequenza è possibile immedesimarsi nell’aspettativa coinvolgente di due genitori, nell’intensità del loro legame nel momento della sofferenza fisica della donna, nell’estrema gioia nell’abbracciare la figlia appena nata e nell’altrettanta profonda disperazione nel vederla lasciare la vita davanti ai loro occhi dopo pochi istanti. Inizia così prima per la coppia, poi per Martha rimasta sola, l’elaborazione di uno dei lutti che nella vita non sempre e con molta difficoltà può essere elaborato.

Il momento della nascita è molto delicato, poichè il bambino è costretto a separarsi dal cordone ombelicale che gli dava la certezza dell’unione con la madre e al contempo la madre non ha più l’illusoria certezza di poter proteggere il figlio, tenendolo dentro di sé. Martha dunque si trova faccia a faccia con l’impossibilità di proteggere la figlia proprio nel momento in cui una madre tenta di preservare dai pericoli il suo cucciolo in modo ancor più attento perché appena uscito dal suo grembo. A questo senso di impotenza si associa il dolore dilaniante della perdita della persona su cui aveva riposto le aspettative più alte di amore e tenerezza.

Sbattuto di fronte a tanta sofferenza l’essere umano può scegliere diverse strade e quella che sceglie Martha è un viale segnato dai bordi della negazione e dell’impassibilità di fronte all’accaduto.

Durante il percorso perde il compagno Sean, che sceglie di scappare fisicamente dal dolore, fuggendo a Seattle. Sempre più isolata, Martha inizia a coltivare i semi di mela. Non casualmente la pelle della figlia profumava proprio di mela.

Solo quando vede per la prima volta la foto che Sean le ha scattato con la bambina appena dopo il parto, Martha si trova inevitabilmente davanti ai sentimenti che ha nutrito e che nutre ancora nei confronti di quell’essere così piccolo ma tanto speciale che l’ha fatta divenire l’essere più forte e al contempo più fragile del pianeta: una madre.

Il riconoscimento delle proprie emozioni le permette di entrare appieno nel dolore da cui cercava di proteggersi e il viaggio all’interno di questa sofferenza così reale le permette di perdonare dapprima l’ostetrica a cui era stata affidata per il parto, poi la madre che tanto l’aveva fatta sentire inadeguata e infine se stessa, così umana da non poter scegliere se salvare o meno la sua stessa figlia.

Martha ci insegna che solo entrando nel dolore della perdita, possono nascere alberi pieni di frutti. E così trova la forza di tornare a vivere generando più avanti un’altra splendida bambina.

Il cordone separa i genitori dai figli fisicamente, ma non esiste un genitore che non porti il figlio o l’assenza di esso dentro di sé a vita e così non esiste un figlio che non porti i genitori o l’assenza di essi con sé a vita. Se c’è assenza è perchè in un qualche tempo e in qualche modo c’è stata presenza. Un vaso rotto ieri non può tornare come prima, ma quei pezzi, prima frantumati poi riassemblati, formeranno le cicatrici che rendono il vaso quello che è oggi.

 

PIECES OF A WOMAN – Guarda il trailer del film:

 

La mente in musica: come reagisce il cervello all’ascolto della musica (2021) di Annalisa Balestrieri – Recensione del libro

Quando ascoltiamo la musica si attivano entrambi gli emisferi cerebrali e questo consente di trarre beneficio per aspetti diversi: miglioramento della memoria, del senso del ritmo e della motricità da un lato e potenziamento di immaginazione e creatività dall’altro.

 

Dal titolo del libro ci si aspetterebbe una disamina di tipo neurologico e neuropsicologico delle basi cerebrali responsabili della percezione e dell’elaborazione di una traccia musicale. In realtà l’autrice non si limita assolutamente a questo: le informazioni più “tecniche” si ritrovano nel corso della lettura insieme ad una attenta valutazione molto più ampia di tipo storico, sociale e culturale.

L’inclinazione alla musica, quella che Oliver Sacks definisce “musicofilia”, sembra quasi una caratteristica innata dell’essere umano. La musica esercita su tutti noi un grande potere, a priori dal fatto che ci definiamo appassionati o meno e il suo ruolo si esplica anche in modo differente nei diversi momenti della vita.

La musica già durante la gravidanza stimola la formazione delle strutture cerebrali del feto, facilita l’ampliamento della rete neuronale, l’accesso alla memoria e non di meno crea un legame emotivo tra la madre e il bambino. In età infantile le ninne nanne servono a far rilassare il bambino andando a dimostrare come si sia già formata una traccia mnestica sonora relativa alla voce della madre. Ma è nell’età adolescenziale che forse si crea un legame veramente forte tra musica e personalità che persisterà per tutta la vita. In questa età, come riferisce l’autrice, la musica serve sia a livello emotivo che sociale. Aiuta a costruire una realtà in cui rifugiarsi, dà un grande aiuto per confrontarsi con delle emozioni assolutizzanti ed estremizzate che l’adolescente non è ancora in grado di comprendere fino in fondo da solo. E la musica riesce a dare una voce a quei pensieri nuovi, alle paure che affiorano, fungendo quindi da calmante naturale. Fa sentire compresi e allo stesso tempo aiuta anche un certo “decentramento” per osservare e valutare quella stessa emozione e quella situazione dall’esterno.

Dal punto di vista sociale aiuta l’adolescente ad identificarsi in un gruppo, consente di comunicare con i propri coetanei e a crearsi un proprio spazio esterno alla famiglia; inoltre suonare all’interno di un complesso musicale può favorire processi identificativi e migliorare le dinamiche interattive. A questo proposito non bisogna neanche sottovalutare gli effetti benefici che si possono avere dall’imparare a suonare uno strumento musicale che saranno sia cognitivi che, per l’appunto, sociali.

E che dire della musica nella terza età? Tra le sue molteplici funzioni ci sono quelle di favorire il rilassamento, incoraggiare l’esercizio fisico ma soprattutto quello di valorizzare la memoria facendo riaffiorare ricordi e le emozioni ad essi associati. Proprio questo è uno dei rapporti più interessanti da scandagliare, quello tra musica, ricordi ed emozioni.

Innanzitutto dobbiamo precisare che è più facile richiamare alla mente degli avvenimenti che abbiano anche un connotato emotivo; eventi che hanno un forte impatto su di noi creano delle connessioni più forti e quindi risultano più accessibili alla memoria. Visto che la musica è così legata alle emozioni, è facile dire che l’ascolto di una particolare canzone possa far riaffiorare il ricordo dell’evento e il suo correlato emozionale. Tale forte connessione è anche anatomicamente giustificata; i cosiddetti lobi “musicali” sono i lobi temporali, sede anche di importanti strutture legate alla memoria (per esempio l’ippocampo) e alle emozioni (sistema limbico). Quando ascoltiamo la musica si attivano entrambi gli emisferi cerebrali: se l’emisfero sinistro è deputato ad un’analisi più di tipo semantico, per esempio con l’analisi del significato delle parole, quello destro invece si occupa del riconoscimento della melodia e della componente emozionale. L’attivazione di entrambi gli emisferi consente di trarre beneficio per aspetti diversi: miglioramento della memoria, del senso del ritmo e della motricità da un lato e potenziamento di immaginazione e creatività dall’altro.

Come spesso accade, sono le anomalie di funzionamento che ci fanno capire e scoprire i meccanismi alla base di diversi processi. La stimolazione elettrica di alcune aree del lobo temporale può indurre una persona a sentire una particolare musica o melodia; ma non solo, spesso in concomitanza a quel particolare suono viene anche evocata un’immagine e, nello specifico, un ricordo. Se secondo Wilfred Penfield queste immagini fossero casuali e senza un particolare significato, in realtà sappiamo che i nostri pensieri nascondono degli speciali significati molto più profondi che però emergono solo dopo un’attenta analisi ed elaborazione. Molto esplicativo a questo proposito è un caso clinico che ci presenta Oliver Sacks nel libro L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Una notte la signora O’C. aveva fatto un sogno molto vivido in cui si rivedeva bambina e allo stesso tempo sentiva le canzoni irlandesi della sua infanzia. Tuttavia, anche dopo il risveglio, continuava a sentire persistentemente le stesse canzoni come se qualcuno le stesse trasmettendo alla radio. Effettivamente l’EEG mostrò che la signora aveva degli attacchi a livello dei lobi temporali, dei piccoli infarti; la risoluzione di questi attacchi, portò via anche le sue canzoni. Da un punto di vista personale e psicologico, l’esperienza è stata definita dalla signora O’C. come uno dei momenti più salutari e più felici della sua vita. Infatti la signora non ricordava consapevolmente quegli eventi della sua infanzia; questa “reminiscenza” epilettica aveva portato a galla una vera e propria esperienza inconscia, un evento che seppur escluso dalla coscienza, era rimasto sedimentato e aveva lasciato un segno duraturo e significativo. Siamo quindi davanti ad una memoria implicita, non verbalizzabile proprio perché non consapevole, che non può essere rimossa ma che può essere resa manifesta e influenzare il futuro e i sentimenti. Questo insorgere improvviso di ricordi ed emozioni, associati ad eventi sensoriali, ci conferma quindi l’affascinante legame di natura “proustiana” tra mente e memoria.

La musica ha effetti benefici sul corpo e i meccanismi attraverso i quali agisce sono molteplici. L’impulso sonoro che arriva alla corteccia uditiva (localizzata nel lobo temporale) innesca una serie di meccanismi di trasmissione sinaptica che portano al rilascio di un neurotrasmettitore come la dopamina. Questo provoca effetti sul tono dell’umore, sul battito cardiaco e sulla pressione sanguigna. Non solo, la somministrazione di musica può modulare anche l’attività del GnRH (fattore di rilascio delle gonadotropine) andando per esempio ad avere un impatto su alcuni casi di amenorrea ipotalamica funzionale, molto spesso legata allo stress e quindi a livelli elevati di cortisolo.

Dunque la musica può avere una funzione terapeutica; non stupisce quindi come la musicoterapia sia uno strumento ormai validato nel trattamento di diversi disturbi e di come possa aiutare condizioni anche di tipo degenerativo come la malattia di Alzheimer, le sindromi frontali e i parkinsonismi. Uno dei campi in cui è maggiormente utilizzata è il trattamento dei Disturbi dello Spettro Autistico: in questo caso la comunicazione, impossibile se intesa nella sua classica accezione linguistica, è possibile grazie ai ritmi del suono.

Dietro una canzone, dietro la musica, non ci sono solo delle note, delle melodie, delle parole, c’è qualcosa di molto più complesso che, come la musica stessa, non può essere espresso semplicemente tramite il linguaggio verbale. “Il mondo dietro una canzone” scriveva Thomas Mann. E la cosa più affascinante è che ognuno di noi vedrà sempre un mondo diverso dietro ogni singola canzone. Ma allo stesso tempo il nostro mondo sarà sempre in grado di mettersi in contatto con quello di qualcun altro attraverso questo particolare linguaggio che sembra non avere regole fisse. La musica può avere allora la grande forza di avvicinare e mettere in contatto più di qualunque gesto o qualsiasi parola.

Non rimane quindi che augurare a tutti buon ascolto….ops, buona lettura!

 

ADHD e difficoltà emotive: quale relazione?

Sembra che rispetto all’ADHD da solo, la sua co-occorrenza con problemi emotivi è associata a una maggiore compromissione sociale, un funzionamento accademico più povero, un maggior rischio di disturbi psichiatrici, abuso di sostanze e tentativi di suicidio.

 

Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è un disturbo comune del neurosviluppo caratterizzato da un pattern persistente di disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferisce con il funzionamento e lo sviluppo (American Psychiatric Association, 2013). L’ADHD si presenta tipicamente con disturbi psichiatrici in comorbilità tra cui una serie di problemi relativi alla sfera emotiva (Erskine et al., 2016). Essi sono influenzati da fattori genetici e ambientali (American Psychiatric Association, 2013). Gli studi hanno riportato che l’ADHD e i problemi emotivi co-occorrono nell’infanzia (Chen et al, 2015; Rydell, Taylor, & Larsson, 2017) per tutta l’adolescenza e fino alla prima età adulta (Chen et al., 2015; Michelini, Eley, Gregory, & McAdams, 2015). Rispetto all’ADHD da solo, la sua co-occorrenza con problemi emotivi è associata a una maggiore compromissione sociale, un funzionamento accademico più povero, un maggior rischio di disturbi psichiatrici, abuso di sostanze e tentativi di suicidio (Rydell et al., 2017). Le ragioni della co-occorrenza di ADHD e problemi emotivi rimangono, tuttavia, poco chiare. Le persone con ADHD possono sperimentare problemi emotivi a causa di fattori di stress psicosociali associati all’ADHD, tra cui genitori severi, fallimento accademico e problemi con i coetanei (Meinzer, Pettit, & Viswesvaran, 2014). Inoltre, i sintomi di problemi emotivi come la mancanza di motivazione o la percezione della minaccia potrebbero influenzare le difficoltà di concentrazione, l’irritabilità e l’irrequietezza (Daviss, 2008; Fraser, et al., 2018). Potrebbe anche essere che i sintomi ADHD comportino problemi emotivi più tardi nella vita. Studi precedenti hanno dimostrato che i bambini e gli adolescenti con ADHD sono a maggior rischio di depressione e ansia successive (Eyre et al., 2019). Tuttavia, gli studi longitudinali precedenti non hanno testato l’ipotesi che i problemi emotivi potrebbero predire lo sviluppo di ADHD, in quanto i sintomi precoci non trattati relativi alla sfera emotiva potrebbero sfociare in disattenzione e impulsività, fino allo sviluppo successivo di sintomi ADHD. Lo scopo della presente ricerca longitudinale era quello di approfondire le associazioni tra i sintomi ADHD e problemi emotivi dall’infanzia e fino alla giovane età adulta. Nello specifico, è stato testato se: (1) i sintomi dell’ADHD comportassero più tardi problemi emotivi durante l’infanzia e viceversa; (2) se ci fosse una specificità dell’associazione, esaminando separatamente i sintomi di disattenzione e iperattività-impulsività; (3) tale associazione risentisse dell’influenza genetica e ambientale.

I partecipanti erano membri dell’Environmental Risk (E-Risk) Longitudinal Twin Study, che segue lo sviluppo di una coorte di nascita di 2.232 bambini britannici. Il campione E-Risk è stato costruito nel 1999-2000, quando 1.116 famiglie con gemelli dello stesso sesso di 5 anni d’età hanno partecipato alle valutazioni homevisit. Le visite a domicilio di follow-up sono state condotte quando i bambini avevano 7 anni, 10, 12 e 18 anni. Le visite a domicilio all’età di 5, 7, 10 e 12 anni includevano valutazioni con i partecipanti e le loro madri (o chi si prendeva cura di loro). L’ ADHD e i sintomi emotivi sono stati valutati a 5, 7, 10 e 12 anni di età usando i rapporti delle madri e degli insegnanti: le madri sono state intervistate faccia a faccia, mentre le insegnanti hanno risposto per posta. Entrambe le categorie di informatori hanno valutato ogni item come “non vero” (0), “un po’ o qualche volta vero” (1) o “molto vero o spesso vero” (2). I sintomi erano riferiti ai 6 mesi precedenti. I sintomi dell’ADHD sono stati valutati utilizzando 18 item riguardanti la disattenzione (ad esempio “è disattento, si distrae facilmente”) e l’iperattività-impulsività (ad esempio “è molto irrequieto, ha difficoltà a stare seduto a lungo”, “è impulsivo, agisce senza pensare”), coerenti con il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV, American Psychiatric Association, 1994). I problemi emotivi sono stati valutati usando la Child Behavior Checklist for mothers (Achenbach, 1991a) e la Teacher’s Report Form (Achenbach, 1991b). La scala dei problemi emotivi è la somma delle sottoscale Withdrawn e Anxious/Depressed, che includono item come “piange molto”, “ritirato”, “non si fa coinvolgere dagli altri” e “si preoccupa”.

Dai risultati emerge, in primo luogo, che i sintomi dell’ADHD sono predittivi dell’insorgenza di problematiche emotive, sia nella tarda infanzia che nella prima età adulta. Ciò può, inoltre, essere spiegato da fattori genetici. Poiché queste due tappe evolutive coinvolgono importanti cambiamenti biologici, sociali ed emotivi, al punto da aumentare la probabilità di insorgenza di problematiche di salute mentale, è importante considerare cosa comporta l’associazione tra i sintomi di ADHD e le difficoltà emotive. La ricerca ha evidenziato che, nonostante questa associazione abbia continuità nel tempo, era leggermente più debole durante il passaggio alla giovane età adulta, nello specifico per i sintomi della depressione a 18 anni d’età. Questo può indicare che i problemi emotivi emergenti post-puberali hanno una diversa natura evolutiva rispetto all’esordio precoce. Dai risultati è, inoltre, emerso che i fattori genetici spiegano interamente l’associazione tra i sintomi precoci di ADHD e la successiva insorgenza con i problemi emotivi: la genetica gioca un ruolo predominante nella sovrapposizione longitudinale tra ADHD e problemi emotivi fino alla prima età adulta. Tuttavia, questi risultati non escludono possibili influenze da fattori ambientali. Gli effetti cumulativi delle difficoltà legate all’ADHD e le circostanze ambientali negative, innescate da queste, potrebbero portare alcuni giovani con ADHD a sviluppare problemi emotivi (Daviss, 2008). C’è un crescente numero di prove che suggeriscono che la cognizione, il temperamento e il comportamento dei bambini influenzano la risposta e la reazione degli altri nei loro confronti (Stern et al., 2018; Wertz et al., 2016). Il comportamento impegnativo dei bambini con ADHD, tra cui l’irrequietezza e l’impulsività, potrebbe provocare reazioni negative da parte degli altri (ad esempio, abusi). Esperienze negative che, a loro volta, possono portare allo sviluppo di difficoltà emotive come l’ansia e la depressione. L’ambiente può influenzare l’associazione tra ADHD e problemi emotivi attraverso l’interazione gene-ambiente: i bambini con ADHD possono avere una propensione genetica a reagire in modo eccessivo o essere troppo sensibili agli aspetti negativi dell’ambiente, così come possono avere difficoltà a regolare stress e frustrazione, e avere risorse limitate per far fronte ad ambienti debilitanti. Questo, a sua volta, può portare allo sviluppo di problemi emotivi come l’ansia e la depressione. Infine, la ricerca ha evidenziato la presenza di associazione tra problemi emotivi con entrambi i domini dei sintomi di ADHD. Tuttavia, sembra che con il passaggio alla giovane età adulta, queste associazioni si diversificano: tra iperattività-impulsività nell’infanzia e sintomi di depressione nella giovane età adulta. Una possibile spiegazione è che i sintomi di iperattività-impulsività nell’infanzia potrebbero determinare esiti funzionali peggiori e influenzare l’insorgenza di un disturbo depressivo nella giovane età adulta.

 

Relazioni tossiche: non solo narcisismo e dipendenza affettiva – VIDEO dal Webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Il webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre ha avuto lo scopo di fornire un’ampia panoramica sui vari aspetti di personalità che possono portare a instaurare e mantenere relazioni tossiche.

 

Negli ultimi tempi vi è un grande interesse riguardo alle tematiche della dipendenza affettiva e delle relazioni con persone narcisiste. Molti sono i libri di auto-aiuto pubblicati, i gruppi sui social e le pagine di divulgazione che affrontano l’argomento che, però, viene spesso trattato in modo incompleto, concentrando l’attenzione sulle singole problematiche.

In questo webinar si è cercato di fornire una panoramica più ampia, che prendesse in considerazione i vari aspetti di personalità che possono portare a instaurare e mantenere relazioni tossiche, incastrandosi con determinati aspetti dell’altra persona e portando così a dei copioni che tendono a ripetersi. L’obiettivo del  webinar è stato quello di arrivare alla consapevolezza che, se poco o nulla è in nostro potere per cambiare le altre persone, è possibile invece lavorare su quegli aspetti di noi che ci rendono vulnerabili a relazioni che ci fanno male.

L’incontro è stato condotto dalle dott.sse Sylvia Schifano e Marta Ferrari

RELAZIONI TOSSICHE: NON SOLO NARCISISMO E DIPENDENZA AFFETTIVA

Guarda il video del webinar:

 

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Artificial intelligences and psychological well-being: a tool for the psychologist of tomorrow – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Il relatore, Dott. Tommaso Ciulli, illustra la propria esperienza di ricerca nell’ambito di uno studio messo a punto dall’Università di Trento. Esso si colloca all’interno di un programma scientifico più vasto, condotto a livello europeo: il progetto Co-Adapt, basato su strumenti di intelligenza artificiale (IA).

 

Nel generale contesto del processo di invecchiamento della popolazione, Co-Adapt è un progetto volto a migliorare il benessere psicologico e la qualità della vita delle persone nella loro delicata fase di cambiamenti biologici e di mutamenti esterni – quali la tecnologia – imposti dal tempo.

Più specificatamente, l’obiettivo del progetto è offrire alle persone che lavorano e stanno invecchiando un supporto costante da remoto per monitorarne lo stato di salute e/o l’evoluzione di una terapia in corso. Ma anche per aiutare in età matura a gestire lo stress all’interno del contesto lavorativo e sociale e rimanere attivi.

E Therapy il passaggio della psicoterapia al virtuale Report ECDP Imm 2

In psicoterapia, già con la ICT e specifiche APPs sono stati raggiunti ragguardevoli traguardi in tre macroaree: le persone (ad esempio, riguardo al dropout), la società (ad esempio, lo stigma sociale), i servizi (ad esempio, riguardo all’adeguatezza delle risorse e ai livelli dei costi). Infatti, l’ICT ha permesso una maggiore accessibilità ai servizi e un abbattimento dei loro costi, nonché un decremento nel dropout. I benefici delle APPs si concretizzano nella possibilità di raggiungere milioni di persone; nei costi nulli o, comunque, molto bassi; nell’accessibilità lungo tutto l’arco della giornata; nel data collection.

Ma non è tutto oro quel che luccica. Le APPs presentano degli svantaggi: sono prefigurate, e quindi hanno una bassa possibilità di profilare gli utenti; spesso non vi sono dei professionisti dietro queste APPs; poche presentano una robusta evidenza scientifica; di frequente i professionisti non vengono neppure coinvolti nella loro progettazione; esse, sebbene in grado di collezionare dati, non permettono ai professionisti di sfruttarli utilmente, un problema questo collegato alla scalabilità.

Il connubio fra APPs e IA supera molti di questi problemi e arricchisce notevolmente la cassetta degli attrezzi in dotazione ai professionisti/psicoterapeuti. Nell’ambito del progetto Co-Adapt, l’Università di Helsinki ha formulato dei criteri per aiutare i lavoratori appartenenti a diverse categorie (colletti bianchi e non) ad affrontare sotto il profilo psicologico il proprio lavoro (vengono scandagliate quattro caratteristiche fondamentali: Environment, Adaption, Habit, Awarness).

Con il progetto Co-Adap, i ricercatori hanno creato una macchina di IA in grado di aiutare l’utente/paziente: si tratta dell’agente artificiale “Conversional Agent” (CA), un agente conversazionale in grado di interagire e dialogare con la persona e di riconoscerne gli stati di disagio. Esso è costituito da due componenti: un’APP e un dispositivo indossabile – un braccialetto o un anello – in grado di misurare alcuni parametri fisiologici dell’utente da cui rilevare segnali che indicano uno stato di ansia, di stress, di umore basso.

Il progetto è articolato in otto fasi; tuttavia, il Covid ne ha rallentato la marcia e si è appena conclusa la seconda. Ma com’è noto, da uno shock – quale appunto quello pandemico – nascono opportunità e sfide cui far fronte. La sfida Covid ha dunque messo alla prova la macchina artificiale.

Ma è necessario soffermarci sugli aspetti cruciali e problematiche di cui soffre ancora il progetto Co-Adap: la sicurezza, i risvolti etici, la bassa intelligenza del Conversional Agent. I progressi prospettici fanno sì che il CA, oltre a capire lo stato d’animo dell’utente-paziente e a rivolgergli delle domande, sarà in grado di instaurare una maggiore proficua interazione. Sarà in grado anche di fornire suggerimenti al paziente, basati sulle indicazioni del terapeuta. Inoltre, sarà in grado di fornire degli alert al terapeuta mediante la frequenza dell’uso dei termini, gli argomenti (per esempio, le relazioni con i colleghi), i toni del paziente.

A parere di chi scrive, ci confrontiamo con frontiere affascinanti, con l’apertura a sfide sempre più elevate, con creatività sempre più sofisticate. Tuttavia, il rapporto tra il CO e il paziente manca di quella granularity che possa suggerire determinati segnali al professionista con una adeguata accuratezza ed efficienza (forse anche nel futuro).

 

In-quadro le parole. Storia di una resilienza dislessica (2020) di Ivano Domenico Felaco – Recensione del libro

In-quadro le parole racconta, tramite la voce del paziente, l’esperienza vissuta in terapia. Una breve storia, ironica e toccante che evidenzia gli sforzi di due uomini nel dare un senso nuovo alla storia del paziente.

 

Il piccolo libro scritto da Ivano Domenico Felaco è un omaggio di un paziente al suo terapeuta.

E’ un racconto breve, ironico, toccante. E’ scritto in modo semplice e a tratti divertente, soprattutto nella descrizione del contesto ospedaliero e di come il terapeuta, con formazione psicoanalitica, si sforzi di dare al paziente un senso anche alle inevitabili defaiance istituzionali… Il testo è intervallato dalle foto di alcune opere dell’autore perché Felaco è un’artista: di professione, dipinge e tatua.

Il terapeuta a cui è dedicato il libro è Nello Viparelli, psichiatra, psicoterapeuta familiare (curatore del volume: Tra vita e girovita, recensito su State of Mind).

E’ la storia di una psicoterapia tutto sommato breve, avvenuta in un contesto pubblico, l’Ospedale Cotugno di Napoli, ma che ha rivestito una grande importanza per il paziente. Infatti, durante una seduta, è il professionista a porre per la prima volta al paziente la diagnosi di dislessia. Si tratta di una rivelazione, uno squarcio liberatorio per Felaco, che riesce a mettere in fila e a dare un senso nuovo ad una serie di episodi significativi della sua vita, a partire dagli insuccessi scolastici nell’infanzia.

Ma non è solo questo. Dal libro si capisce che paziente e terapeuta si piacciono, si sono simpatici da subito, per quanto apparentemente molto diversi. Felaco è pieno di tatuaggi, barba lunga, stile più che alternativo. Viparelli ha i modi aristocratici, è discreto, parla a bassa voce, possiede un’eleganza “british”, può mettere a soggezione. Eppure, per qualche motivo che riguarda la misteriosa alchimia degli incontri tra esseri umani, tra loro scatta qualcosa. Questi due personaggi che si sono incontrati un po’ per caso, in quanto la moglie dell’artista è una psicologa, ex allieva di una Scuola di terapia familiare ove è transitato Viparelli, danno vita a un rapporto terapeutico intenso, nonostante sia durato poche sedute (qui c’è una grande lezione per i terapeuti più giovani: come si possa fare tanta qualità pur con poca quantità). La disponibilità del terapeuta è esemplificata anche dalla scelta di visionare insieme al paziente alcuni video da lui selezionati per chiarire meglio cosa sia la dislessia. La terapia affronta nodi cruciali della vita del paziente, non a caso, innanzitutto il rapporto con il padre.

Il debito di gratitudine del paziente verso il terapeuta diventa ancor più forte quando il paziente scopre stupito che il proprio terapeuta è seriamente ammalato. Lo vede dimagrire, ma l’impegno professionale non si riduce. Ivano è sinceramente stupito di quanto Nello continui a dedicarsi a lui, a prestargli attenzione. Il suo impegno professionale non cede di un millimetro. Ivano è commosso dalle attenzioni che uno sconosciuto gli dedica. E’ un’esperienza rara. Gli viene quasi voglia di dire al terapeuta di fermarsi, di pensare a se stesso, a cose più importanti di lui.

Non posso negare che l’emozione che ho provato nel leggere il libro è sicuramente legata anche, ma non solo, dalla conoscenza diretta di uno dei due protagonisti.

Io sono il terapeuta della porta accanto. Ho infatti lavorato per anni al Cotugno, proprio nella stanza attigua a quella di Nello Viparelli. Conoscevo la sua saggezza e la sua bravura. Conoscevo la sua scelta di andare avanti, di lavorare fino in fondo: era una scelta meditata, che teneva conto del rispetto per la propria famiglia.

Il paziente racconta la sua gratitudine verso il proprio terapeuta. Forse non sa quanto anche noi dobbiamo molto ai nostri pazienti. Sicuramente l’impegno generoso di Nello lo ha aiutato a vivere meglio, ad essere intenso fino in fondo, a ricercare profondità e senso esistenziale per lui e per gli altri.

Ringrazio profondamente Ivano Felaco per aver scritto con il cuore questo libro. Ci aiuta a far rivivere la lezione di Nello Viparelli. Che manca, manca molto, alla sua famiglia, ai suoi amici, ai suoi pazienti, ai suoi colleghi.

E’ davvero una lettura consigliata.

 

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