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Emozioni virali. Le voci dei medici dalla pandemia (2020) di Luisa Sodano – Recensione del libro

Emozioni virali è stato scritto a partire da un’idea nata in un gruppo Facebook e raccoglie storie autografe di medici che giorno dopo giorno, durante i primi mesi della pandemia del 2020, scrivevano le proprie impressioni, riflessioni, confidenze, paure…quasi come se fosse un diario di guerra.

 

…Un libro necessario ora a poche settimane dai fatti, ma anche per il futuro, per chi, fra 10 o 50 anni, vorrà sapere cosa sia successo in Italia nel primo semestre del 2020

così recita la prefazione a Emozioni Virali di Camillo Il Grande, e oggi, in piena terza ondata nel 2021, leggerne l’implicito ottimismo mette i brividi.. perché se è vero che alcuni passi avanti fondamentali sono stati fatti, è anche vero che la nostra vita è ancora travolta dalla sconvolgente presenza del virus e la pandemia non è ancora finita.

Emozioni Virali è una bottiglia del naufrago, abbandonata tra le onde del web giorno dopo giorno, destinata a portare lontano dall’isola deserta i messaggi da un mondo a sé dove solo operatori sanitari e pazienti sono ammessi ma anche, appunto, isolati.

Il libro raccoglie racconti autografi dei medici che giorno dopo giorno, durante i primi mesi della pandemia del 2020, scrivevano le proprie impressioni, riflessioni, confidenze, paure.. quasi un diario di guerra, caratterizzato dall’emozione e dall’urgenza di portare fuori dalle mura dell’ospedale la testimonianza di ciò che avveniva all’interno, le storie dei pazienti con cui con poche armi combattevano per la guarigione, la frustrazione dell’impotenza, l’esaltazione delle vittorie e la stanchezza di chi improvvisamente temeva per sé e per i propri famigliari, eppure lavorava senza sosta perché perdere significava perdere delle vite.

L’autenticità di questi racconti ne fortifica l’impatto, l’umanità di chi scrive mettendo in campo le proprie emozioni rende la lettura coinvolgente, veicolando ciò che di più prezioso in quei mesi abbiamo avuto, il senso di unione, di appartenenza, di fare fronte comune.

Capitolo dopo capitolo si entra in punta di piedi in tanti reparti, dall’ostetricia alla rianimazione, dalla geriatria alle molte medicine convertite da un giorno all’altro in reparti covid e si seguono le storie di tanti pazienti e operatori, storie di resilienza e di intraprendenza, di abnegazione e di coraggio e anche di paura.. storie che solo così sono sgattaiolate al di fuori delle mura invalicabili degli ospedali che ancora oggi ammettono la presenza di poche persone e racchiudono malati e operatori nel tentativo di contenere i contagi.

Altri racconti invece descrivono la guerriglia urbana, quella con poche armi, in solitudine, negli ambulatori di medicina territoriale, nelle visite domiciliari che nessuno sapeva come fare, alle prese con protocolli in continuo cambiamento, a volte discussi prima nel gruppo facebook o nei messaggi tra colleghi e solo dopo ratificati in abbozzi di linee guida condivisi per poi venire cambiati nuovamente, nell’affannosa ricerca di indicazioni evidence based che ancora oggi non abbiamo.

Una testimonianza tragicamente ancora attuale, ma anche un monito per chi è chiamato a decidere per gli altri e a garantire per tutti con le sue scelte. Ci sono state tante vittime, e ci sono stati tanti operatori sanitari che hanno perso la vita sul posto di lavoro ed è necessario fare tesoro di quanto abbiamo imparato da questa tragedia, rettificare e rafforzare le aree di fragilità che sono emerse affinchè si combatta, ma potendo pensare che è stato fatto tutto ciò che si poteva per valorizzare, rinforzare, sostenere il nostro sistema sanitario, così prezioso.

I proventi dei diritti d’autore sono devoluti ai sanitari vittime della pandemia e già questa è un’ottima ragione. Ma leggere questo libro significa comprendere un pezzo in più, farsi attraversare dalle emozioni, a volte commoventi a volte struggenti, e poi uscirne fuori più forti, motivati e uniti.

 

Il coraggio della sensibilità: Anche fragile – Rubrica Psico-canzoni

Elisa nel brano Anche fragile racconta un po’ di sé e di un tratto del viaggio intrapsichico dell’essere umano. Il dialogo descritto è quello tra la parte più sensibile di sé e quella più impenetrabile. 

Psico-canzoni – (Nr.10) Il coraggio della sensibilità: Anche fragile

 

Anche fragile è una delle tante canzoni di Elisa che possono prestarsi ad una lettura psicologica. Può sembrare un discorso fatto ad una persona cara, ma in questo caso verrà presentato come un dialogo tra due parti di sé.

Ancor più che una conversazione, il brano sembra essere un monologo dalla parte più fragile di sé a quella più forte, laddove forte e fragile sembrano avere l’accezione rispettivamente di impenetrabile e sensibile.

E piangiamo insieme che non piangi mai e non nasconderti con le battute non mi allontanare

è la miglior descrizione che si possa fare di impenetrabile, perché dove la scorza è tanto dura al fine di proteggersi, rende impossibile il passaggio a qualsiasi emozione o persona, persino a se stessi. La parte forte sembra essere tanto impermeabile, da non sentire nemmeno la vitalità che trasmette una goccia di pioggia, perché non può essere toccata. Quando la protezione diviene così marcata si rischia di creare una caverna che ripara dal mondo esterno così da non permettere il contatto con esso che renderebbe possibile vivere piuttosto che sopravvivere.

La parte più sensibile nel brano di Elisa sembra arrivare in soccorso di una forza pericolosa, anche per rendere meno letale il tallone di un semi-dio qualora se ne scoprisse l’esistenza. Permettere alla parte più fragile di emergere e di esprimersi concede paradossalmente all’essere umano la possibilità di non essere un bersaglio facile alla prima uscita dalla caverna. Così la parte apparentemente più delicata è quella più coraggiosa perché esce dalla caverna dove è possibile dire

voglio impegnarmi e salvare un pezzo di cuore, io non vivo senza sogni e tu sai che è così

donando alla parte più rigida la flessibilità che permette la sopravvivenza nel mondo esterno.

Io un confine non lo so vedere. Sai che non mi piace dare un limite, un nome alle cose, lo trovi pericoloso

mostra un altro limite della scorza dura. Per mantenersi al sicuro e proteggersi da entità pericolose bisogna posizionare sassi enormi nelle possibili vie di fuga della caverna. Questi massi sono limiti molto pesanti che evitano lo scontro con l’impossibilità di tenere tutto sotto controllo, ma anche di accedere alla vitale confusione umana.

Pur notando una resistenza della parte impenetrabile

e non nasconderti con le battute non mi sconcentrare,

la parte più permeabile la esorta:

stiamo a vedere dove possiamo arrivare e ridiamo insieme che ridiamo sempre, sempre, sempre che non basta mai, mai, mai.

La parte apparentemente più fragile si mostra essere ancora la più coraggiosa, poiché è quella che chiede all’altra di trasformare la risata da elemento protettivo a mezzo d’incontro.

La forza spesso viene associata all’impermeabilità, mentre la possibilità di bagnarsi sotto la pioggia alla fragilità. Quanta forza, intesa come coraggio, ci vuole invece per uscire a bagnarsi, rischiando un malanno, ma sentendo appieno ogni singola goccia piuttosto che rimanere sotto l’ombrello e privarsi della percezione dell’acqua sulla pelle? Quanto è instabile un sistema che regge su una parvenza di controllo? Le caverne e gli ombrelli sono utili se si sceglie quando usarli, senza che diventino un modus vivendi. Per vedere il Sole fuori è necessario spostare il masso, riuscendo a dire a se stessi:

e perdonami se sono forte sì ma poi sono anche fragile.

 

ANCHE FRAGILE – Guarda il video del brano:

 

“Finisco la videocall e mi alleno!”: come sono cambiati l’esposizione agli schermi e l’esercizio fisico durante la pandemia di COVID-19 e quali gli effetti sulla salute psicofisica

In molti paesi del mondo sono state adottate misure di distanziamento fisico per rallentare la diffusione del COVID-19 e ciò ha comportato la chiusura diffusa di frontiere, scuole e attività commerciali.

 

Questo drastico allontanamento dalla normalità ha portato a un repentino cambiamento nelle routine quotidiane, mettendo alla prova le nostre capacità di adattamento alla situazione.

Molte persone sono state costrette a lavorare da remoto e ad evitare superflui spostamenti fuori casa, riducendo i contatti con gli altri al minimo indispensabile. Ciò che è noto è che le misure di allontanamento fisico sono fondamentali per limitare la trasmissione del virus (Chu et al., 2020), ma quello che forse non tutti sanno è che restrizioni prolungate possono portare a una diminuzione delle opportunità di fare attività fisica all’aperto e ad un incremento nell’utilizzo di dispositivi tecnologici (Chen et al., 2020), ai quali può conseguire un aumento di malessere, ansia, depressione ed altre psicopatologie (Brooks et al., 2020). Uno studio svolto in Canada durante il periodo di confinamento tra Marzo ed Aprile 2020, ha rivelato che rispetto al 2018 meno abitanti avevano valutato positivamente la propria salute mentale (Findlay & Arim, 2020). Questo sta a significare che, con l’avvento della pandemia, meno persone reputavano la propria salute come complessivamente buona rispetto alla consuetudine pre-COVID-19. Inoltre, molti avevano riferito un aumento degli stati d’ansia riguardo alla propria salute e a quella degli altri (Statistics Canada, 2020).

A cosa può essere riconducibile il decremento della valutazione positiva della propria salute mentale? Una sperimentazione svolta durante il lockdown ha formulato delle ipotesi per rispondere a queste domande. L’obiettivo dello studio di Colley, Bushnik e Langlois era quello di indagare i cambiamenti nel rapporto con le tecnologie e nelle abitudini relative all’attività fisica durante la pandemia (Colley et al., 2020). Nello specifico, gli sperimentatori hanno osservato i mutamenti nelle abitudini relative al tempo trascorso davanti a schermi di dispositivi tecnologici e la loro relazione con la salute nei partecipanti al Canadian Perspectives Survey Series (CPSS). I 4.524 partecipanti hanno informato gli autori dello studio rispetto al loro svolgimento di esercizio fisico all’aperto o al chiuso, e riguardo l’aumento, il mantenimento, o la diminuzione del loro uso di internet, TV e videogiochi. I partecipanti hanno anche riferito la loro salute generale e mentale auto-percepita.

In merito al tempo trascorso davanti agli schermi, il 65% degli uomini e il 62% delle donne hanno valutato la propria salute mentale e generale come molto buona o eccellente a seguito di un mantenimento o una diminuzione del tempo trascorso davanti alla TV, dato rilevante in confronto al 57% degli uomini e il 43% delle donne con salute complessiva molto buona che aveva invece aumentato il tempo trascorso a guardare la TV durante il lockdown. Per ciò che concerne l’utilizzo di internet per motivi di lavoro, videochiamate o passatempo, il 61% delle donne che aveva diminuito o mantenuto lo stesso tempo di utilizzo dei dispositivi prima e durante la pandemia riteneva di avere una salute eccellente, rispetto al 44% che ne aveva aumentato il consumo. Lo stesso discorso è valso per i videogiochi. È stato mantenuto un livello di salute mentale molto buono o eccellente nel 63% degli uomini e nel 52% delle donne che avevano mantenuto o diminuito il tempo dedicato ai videogiochi. La percentuale di uomini e donne che aveva riferito di avere una salute mentale eccellente nonostante l’aumento del tempo trascorso sui videogiochi era rispettivamente solo del 48% e 29% (Colley et al., 2020). Per quanto riguarda l’esercizio fisico, dalla ricerca è emerso che il 54% delle donne che faceva esercizio all’aperto riferiva una salute mentale molto buona o eccellente, numero maggiore rispetto a coloro le quali si allenavano al chiuso (41%). Anche per ciò che concerne la salute complessiva percepita dalla persona, i numeri sono in linea con i dati fin ora mostrati. La percentuale di donne che ha riferito di avere una salute complessiva molto buona o eccellente poiché svolgeva attività all’aperto era infatti del 75%, numero molto maggiore rispetto al dato relativo a coloro che svolgevano attività fisica in casa (49%) (Colley et al., 2020).

Secondo analisi più approfondite, la quantità di persone che aveva riportato una salute mentale e complessiva molto buona o eccellente era maggiore in chi non aveva aumentato il tempo davanti agli schermi e aveva svolto esercizi fisici all’aperto rispetto a chi aveva impiegato maggior tempo davanti a 2 o 3 tipi di schermo e faceva esercizio al chiuso.

Questo studio mirava, tra le altre cose, ad evidenziare la necessità di spazi aperti, pubblici o privati, in cui svolgere attività fisica in sicurezza. Qualora non dovessimo essere nelle condizioni per farlo, è bene ricordare che, anche se svolta in casa, l’attività fisica può essere ugualmente salutare e rinvigorente: un toccasana per la salute fisica e mentale. Inoltre, è importante sottolineare che per alcuni tipi di professionisti è indispensabile utilizzare lo schermo del proprio computer per molte ore al giorno per motivi lavorativi. Ciò che è importante tenere a mente è che è consigliabile impiegare il resto del tempo svolgendo delle attività che limitino quanto più possibile l’utilizzo di altri dispositivi elettronici, come smartphone, tablet e TV.

È impossibile prevedere quando la pandemia COVID-19 si placherà. Infatti, è molto probabile che le misure di distanziamento fisico saranno ancora parte della nostra vita per il futuro prossimo. Ma, alla luce dello studio qui riportato, sappiamo che l’attività fisica è importante per una buona salute psicofisica e che una vita sana il più possibile lontana dagli schermi è davvero vitale durante i periodi di reclusione. In conclusione, limitare il tempo trascorso sui dispositivi tecnologici e mantenere l’abitudine di fare esercizio, specialmente all’aperto, può promuovere una migliore salute mentale e generale durante i periodi di distanziamento fisico.

 

Ansia in gravidanza: accogliere la sofferenza emotiva e promuovere il benessere – VIDEO del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

Studi scientifici hanno dimostrato come la gravidanza sia un periodo delicato, ad alto rischio per l’insorgenza di disturbi psicologici come in particolare di disturbi d’ansia. Pubblichiamo per i nostri lettori il video del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

 

La gravidanza è una fase di cambiamenti fisiologici e psicologici importanti e, per tale motivo, è sia un momento di gioia sia una fase di vita ad alta vulnerabilità psichica. Studi scientifici dimostrano infatti che questo è un periodo ad alto rischio per l’insorgenza di disturbi psicologici come in particolare di disturbi d’ansia.

Per di più, nell’attuale momento storico di emergenza da Covid-19, i vissuti di ansia possono risultare per le donne in maternità ancora più spiacevoli e di difficile gestione, al punto da alterare il benessere psicofisico delle stesse e di riflesso del bambino.

Lo scopo del webinar è stato quello di evidenziare le difficoltà emotive e gli interventi da poter attuare per aiutare la donna ad affrontare con serenità questo importante momento di vita, limitando così la sofferenza e le sue conseguenze a livello individuale, nella relazione d’attaccamento con il bambino, e nel sistema familiare.

Il webinar è stato condotto dalla Dott.ssa Federica Aloisio, pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

ANSIA IN GRAVIDANZA: ACCOGLIERE LA SOFFERENZA EMOTIVA E PROMUOVERE IL BENESSERE

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Il Mandala come simbolo di espressione del Sé – La funzione delle figure mandaliche secondo Carl Gustav Jung

Il mandala è un diagramma geometrico, disposto simmetricamente intorno ad un centro, in forma di un quadrato inscritto in un cerchio o viceversa. La struttura del mandala è intrisa di significati simbolici universali nella misura in cui le varie parti di cui si compone hanno una precisa valenza metaforica. 

 

Il quadrato rappresenta un tempio, dimora della divinità alla quale il mandala è dedicato, nel quale si aprono quattro porte “protettrici della coscienza” poste in corrispondenza dei quattro punti cardinali.

Il cerchio rappresenta un simbolo universale che raffigura il cosmo, la creazione e la ciclicità delle cose. Forme e disegni circolari si trovano in natura, nelle costruzioni architettoniche, nei rituali e nelle religioni di ogni epoca.

A partire dalle epoche primordiali nella storia dell’uomo, antichissimi luoghi di culto sono costruiti in forma circolare: il sito neolitico di Stonehenge composto da enormi megaliti, i disegni rupestri, le  strutture sacre caratteristiche delle civiltà Mesopotamiche, ziqqurat, raffiguranti sia il cosmo che la storia della creazione. Presso alcune popolazioni anche le grotte erano dei luoghi di culto che rappresentavano l’incontro tra il cielo e la terra.

Il significato rituale e simbolico associato al mandala che, in virtù della sua forma circolare rappresenta “il cerchio eterno” della ruota della vita, si caratterizza come un filo conduttore che accompagna la storia dell’umanità.

La parola stessa mandala che in sanscrito significa cerchio-orbita-disco è divenuta di uso comune nel Buddhismo per indicare un disegno che raffiguri simbolicamente il cosmo.

In India e in Tibet i mandala rivestono da sempre una funzione importante nella vita religiosa nella misura in cui esprimono dei complessi concetti filosofici e religiosi e rappresentano degli ausili alla meditazione.

La potente funzione evocativa e simbolica delle figure mandaliche venne identificata dallo Psicologo del “profondo” Carl Gustav Jung quale “archetipo universale” che si può rivelare nei sogni, nelle visioni e nelle rappresentazioni pittoriche di ogni cultura come espressione dell’inconscio collettivo.

In particolare, viene riconosciuto a Jung il merito di aver introdotto l’utilizzo del mandala in ambito terapeutico nella Psicologia contemporanea come strumento di individuazione del Sé.

Nel corso di un periodo di profonda crisi personale, Jung si dedicò ad un intenso e significativo viaggio di esplorazione interiore durante il quale iniziò a disegnare spontaneamente sul proprio taccuino delle figure circolari che riflettevano il proprio stato d’animo in un dato momento.

Tali disegni, espressione spontanea dei moti inconsci, favorivano un cambiamento sul piano psicologico contribuendo a realizzare una trasformazione interiore.

Jung scoprì in seguito che tali figure circolari erano dei mandala che identificò come l’espressione inconscia del proprio Sé. Egli osservò:

il Sé mi appariva come la monade che io sono e che è il mio mondo. Il mandala rappresenta questa monade e corrisponde alla natura microcosmica dell’anima.

Secondo la visione junghiana l’archetipo del Sé, nel quale si unificano tutti gli aspetti consci e inconsci della psiche, costituisce il punto culminante del processo di individuazione lungo il percorso che l’individuo compie per realizzare la propria personalità.

Il mandala favorisce la concentrazione dell’energia psichica sul Sé, la conciliazione tra i poli psichici opposti e aiuta a ristabilire l’equilibrio degli estremi favorendo l’espressione del nucleo essenziale dell’anima nella sua intima conciliazione e totalità.

L’elaborato simbolismo che caratterizza le rappresentazioni mandaliche e il loro utilizzo nella Psicologia contemporanea a partire dagli studi di Jung, ci porta alla pratica di uno strumento creativo che risulta funzionale nel tracciare percorsi di auto-scoperta e auto-guarigione.

L’azione di disegnare o colorare un mandala può favorire l’ascolto della propria voce interiore, la focalizzazione sul proprio sé e la realizzazione di un ordine interno. Attraverso quelle dimensioni inconsce che guidano spontaneamente l’individuo nella scelta delle forme e dei colori di un mandala si può giungere alla percezione della propria totalità.

Dedicare del tempo al disegno di un mandala, in linea con le forme simmetriche e armoniche che lo caratterizzano e che rimandano ad un nucleo centrale, favorisce un’azione di riequilibrio e di centratura producendo un effetto psicologico di stabilizzazione e orientando l’individuo verso il proprio centro e la propria auto-coscienza.

Il Mandala produce altresì effetti benefici sulla psiche nella misura in cui riduce l’ansia e rafforza la concentrazione consentendo di esprimere pensieri sentimenti ed emozioni su un piano di osservazione acritica e di benevola accettazione del proprio Sé.

Dedicare del tempo ad un mandala significa creare un proprio spazio sacro, un luogo protetto e un centro all’interno del quale focalizzare le proprie energie favorendo un percorso di esplorazione di se stessi, di guarigione e di crescita personale.

La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia. (C.G. Jung)

 

Adler e il complesso di superiorità

Per comprendere il complesso di superiorità occorre riferirsi al principio di base della psicologia individuale, il pensiero antitetico, ovvero quella modalità di percezione che si basa sugli opposti (alto/basso, forte/debole, maschile/femminile), il cui massimo esponente si rivede in Alfred Adler

 

Definizione

Con l’espressione “complesso di superiorità” (Adler, 2012) si fa riferimento ad una forma di complesso contraddistinta da un eccesso di autostima e da un’ancestrale valutazione di sé come superiore e più importante rispetto agli altri. La condizione descritta tende a palesarsi in diversi contesti e circostanze.

Il termine “complesso” affonda le sue radici nella parola latina “complexus” e fa riferimento ad un concetto caratterizzato da vari elementi. Parallelamente, in psicologia si definisce “complesso” l’esito finale derivante dalla commistione di una serie di sentimenti, pensieri, emozioni, comportamenti ecc. espressi in maniera cosciente o meno, in grado di condurre il soggetto ad avere la certezza di possedere o non possedere determinate qualità; la suddetta certezza non è soggetta a cambiamento mediante il ragionamento logico.

Il complesso di superiorità nella storia

Al fine di comprendere il complesso in questione occorre riferirsi al principio di base della Psicologia individuale, il pensiero antitetico, ovvero quella modalità di percezione che si basa sugli opposti (alto/basso, forte/debole, maschile/femminile), il cui massimo esponente si rivede in Alfred Adler (Adler, 1997).

L’espressione “complesso di superiorità” fu coniata da Adler, psichiatra, psicoanalista, psicologo e psicoterapeuta austriaco. Egli fece di questo semplice concetto uno dei pilastri della sua scuola di psicologia individuale agli albori del ‘900 (Monbourquette, 2016). Formulò il suddetto concetto a partire dal suo esatto opposto, ovvero dal complesso di inferiorità. A tal proposito egli dirà:

Noi dobbiamo ricordare naturalmente, che la parola complesso unita a inferiore e superiore rappresenta semplicemente una condizione esagerata del senso d’inferiorità e dell’aspirazione alla superiorità. Se guardiamo alle cose in questo modo si toglie il paradosso apparente di due tendenze contraddittorie esistenti nello stesso individuo. È ovvio che in quanto sentimenti normali l’aspirazione alla superiorità e il sentimento d’inferiorità siano complementari. Noi non aspireremo a essere superiore e ad aver successo se non si sentisse una certa carenza nella condizione presente. (Adler, 2012)

Infatti, seppur paradossalmente, i due complessi si identificano come le due facce di una stessa medaglia. Secondo Adler, fin dall’infanzia, l’essere umano prova un senso di inferiorità, che può protrarsi per tutta la vita (Monbourquette, 2016). Questo sentimento, assolutamente normale nell’infanzia, può trasformarsi in un vero e proprio complesso in età adulta se l’individuo, a causa delle carenti condizioni educativo-ambientali, non riesce a liberarsi di questa percezione negativa di sé. Secondo l’approccio di Adler, al fine di compensare gli effetti dirompenti del complesso in questione, l’uomo cerca di sviluppare uno smisurato senso di superiorità: più si sente schiacciato dal suo complesso di inferiorità, più sogna onnipotenza e dominio (Monbourquette, 2016).

In secondo luogo, l’aspirazione alla superiorità va intesa come una gara che l’individuo bandisce con sé stesso per raggiungere la perfezione, ovvero un’illusione del tutto ideale umanamente irraggiungibile (Adler, 1997).

Il complesso di superiorità e di inferiorità oggi

Partendo dalla formulazione del padre della psicologia individuale il complesso di superiorità si è evoluto e radicato all’interno della società, spingendo gli individui che ne soffrono a sentirsi sempre “migliori” degli altri, qualsiasi cosa facciano e con chiunque abbiano a che fare. Sebbene questo modo di fare possa indurre l’interlocutore a sentirsi inferiore, l’esigenza celata di colui che parla risponde alla necessità di colmare il proprio latente complesso di inferiorità (ammesso che abbia senso in questo contesto parlare di superiore ed inferiore). Risulta a questo punto evidente e netto collegamento che si instaura tra il complesso di superiorità e quello di inferiorità.

Pertanto, dinanzi a coloro che sentono l’esigenza di mostrare quanto “sappiano più di noi”, siano più lungimiranti o interessanti, e il cui unico scopo è quello di far sentire inadeguato l’interlocutore, occorre pensare che dietro questi agiti si nasconde un enorme senso di inadeguatezza e di non essere mai abbastanza, insomma il famoso complesso di inferiorità. Quest’ultimo arriva ad essere talmente grande che l’individuo potrebbe non considerare, neanche per un momento, di avere un problema; tant’è che l’individuo in questione tende a “risolvere” il problema compensandolo con il suo opposto, ovvero la sua falsa, spietata e apparente sicurezza.

Urge ricordare che di per sé

Il sentimento di inferiorità non è una malattia, è piuttosto uno stimolo per una salutare e normale aspirazione per lo sviluppo, ma, tale condizione diviene patologica solo quando il senso d’inadeguatezza sopraffà l’individuo e, lontano così dallo stimolarlo verso l’attività utile, lo rende depresso e incapace di sviluppo. (Adler, 2012)

Le cause

Le cause in grado di determinare l’insorgenza del complesso di superiorità in bambini e adolescenti sono varie e diversificate, ascrivibili all’area dell’ambiente familiare in cui il soggetto vive, dei contesti nei quali è inserito, di alcune connotazioni individuali, nonché il contesto socio-culturale. Tra le maggiori cause si annovera: tratti caratteriali eccessivamente introversi, subire eccessive aspettative o eccessive critiche da parte dei genitori, scarsi risultati scolastici e sportivi, bassa statura o altre particolarità fisiche, scarso successo nelle dinamiche relazionali e amicali, avere genitori narcisisti, subire atti di bullismo, avere genitori che hanno collezionato numerosi insuccessi e trasmesso ai figli la convinzione di essere migliori degli altri…

Conclusione

In sintesi, sia l’eccesso che la mancanza di autostima non sono mai indice di buona autostima, poiché si configurano entrambi come modi disfunzionali e rigidi di fronteggiare e gestire la bassa autostima del soggetto. Nel caso di complesso di superiorità ci troviamo dinanzi ad un meccanismo di iper-compensazione, in cui l’individuo sente la necessità di reputarsi superiore e migliore degli altri per rimediare alla sua scarsa autostima, pertanto si impone sugli altri come Super Uomo; nel caso di complesso di inferiorità il soggetto fa uso di un meccanismo di resa in cui “se accetto e ammetto la mia inferiorità, posso rassegnarmi al mio inevitabile destino”.

Colui che gode di un’autostima equilibrata non sentirà l’esigenza di affermarsi sugli altri o sottomettersi a questi ultimi, ma sarà semplicemente sé stesso consapevole dei propri limiti e delle proprie risorse.

 

Serious game e disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività

I serious game costituiscono esperienze interattive che possono avere l’aspetto e/o la struttura di un gioco, ma il cui scopo ultimo è quello di informare, educare o generare consapevolezza verso una tematica. Quale ruolo possono avere nel trattamento del disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività?

 

Il disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività (DDAI; attention deficit hyperactivity disorder, ADHD) è tipico dell’età infantile ed è considerato un disturbo del neurosviluppo. Questo disturbo è caratterizzato, sul piano clinico, dalla triade sintomatica: disattenzione, impulsività e iperattività motoria. Il DDAI è un disturbo pervasivo, che interferisce funzionalmente in ambito scolastico, sociale e lavorativo, che rimane costante nel tempo (Cassano, 2015). La disattenzione è caratterizzata, a livello comportamentale, da una difficoltà nel mantenere l’attenzione e l’organizzazione, divagazione dal compito, mancata perseveranza; tutte queste componenti non sono dovute da atteggiamenti di sfida o da una mancanza di comprensione. L’iperattività implica un’eccessiva attività motoria, anche in momenti in cui è inappropriata, o un eccessivo dimenarsi, tamburellamenti o loquacità. L’impulsività si verifica con azioni affrettate che avvengono nell’immediato senza una fase di premeditazione (APA; 2013). Il bambino, quindi, non è in grado di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da perseguire e delle richieste dell’ambiente (Vicari e Caselli, 2017). Secondo il DSM 5 (2013) si manifesta in maniera più frequente nella popolazione maschile con un rapporto di 2:1. Studi sulla popolazione mostrano che il DDAI si manifesta nella maggior parte delle culture con circa il 5% dei bambini coinvolti. Per poter avere un quadro clinico accurato è necessario che molti dei sintomi del DDAI si manifestino prima dei 12 anni, poiché questo è una patologia prettamente infantile. Ciononostante, è difficile stabilire a ritroso il suo preciso momento d’esordio. Inoltre, è richiesto che le caratteristiche del disturbo siano riscontrabili in più contesti, quali scuola, casa, lavoro ecc. (APA; 2013). I bambini con DDAI sono soggetti che presentano un alto rischio di utilizzo e di abuso di sostanze, di comorbilità con altri disturbi mentali, di autolesionismo e di mettere in atto comportamenti di tipo criminale (Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020).

Serious game

I serious game (o giochi seri) costituiscono esperienze interattive che possono avere l’aspetto e/o la struttura di un gioco (Botte, Matera and Sponsiello, 2009) ma il cui scopo ultimo è quello di informare, educare o generare consapevolezza verso una tematica. Ciò che li distingue dai videogiochi normali è la componente ludica che nei serious game costituisce un aspetto secondario (Repetto and Catalano, 2016).

Un serious game richiede delle caratteristiche:

  • Il videogioco deve mirare a specifici obiettivi educativi o condurre il player (giocatore) a un determinato messaggio.
  • La progressione del gioco è una conseguenza del raggiungimento degli obiettivi prefissati.
  • La creazione di un serious game coinvolge sia l’educatore/divulgatore che l’azienda che si occupa di sviluppare il gioco. Queste due parti devono collaborare in modo tale che il gioco rispecchi il contenuto educativo pensato (Repetto e Catalano, 2016).

In conclusione, i serious game sono progettati per insegnare, tramite uno strumento ludico, una vasta gamma di concetti e competenze che possono essere utilizzati al di fuori dell’ambiente virtuale.

I serious game sono stati impiegati per la prima volta nel 2002 dall’esercito americano. Ad oggi, sono impiegati nell’ambito dell’istruzione terapeutica e sanitaria, nella prevenzione e nel trattamento di varie condizioni mediche. La “cognitive load theory” sostiene che inserendo gradualmente compiti sempre più difficoltosi, creando un’interfaccia semplice e amichevole questi fattori contribuiscono a mantenere un livello elevato di attenzione (Zayeni, Raynaud e Revet, 2020).

Una delle strategie fondamentali che utilizzano molti serious game è la “gamificazione” (Gamification), ossia una tecnica che promuove il cambiamento comportamentale e l’impegno da parte degli utenti. Questa tecnica viene utilizzata specialmente negli interventi di e-Health (Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020). Il suo scopo è quello di agevolare l’instaurarsi di un interesse attivo da parte dei player, ovvero di coinvolgerli, per modificare i comportamenti (Petruzzi, 2015). Sembrerebbe che nei bambini gli effetti premiatori dei videogiochi siano rilevanti per incrementare l’aderenza di quest’ultimi Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020).

Stato dell’arte

Punti emersi da alcuni studi:

  • Una revisione sistematica della letteratura di studi sperimentali ha osservato che i videogiochi possono migliorare il regolamento delle emozioni (Villani, Carissoli, Triberti et al., 2018).
  • Alcuni giochi possono essere utilizzati per insegnare elementi/argomenti scolastici. Questi possono essere impiegati per agevolare l’acquisizione di competenze matematiche, come ad esempio la soluzione dei problemi, oppure fornire alcune nozioni di storia, usando ad esempio “Assassin’s Creed” (Bos, Wilder, Cook et al., 2014; Karsenti, Bugmann e Parent, 2019).
  • Il più delle volte molti giochi richiedono delle competenze ed un’alta tolleranza alla frustrazione, questo perché la maggior parte dei livelli vengono ripetuti finché non vengono acquisite le competenze necessarie (Olson, C. K., 2010).
  • Una meta-analisi afferma che i videogiochi d’azione rafforzano fortemente i domini dell’attenzione superiore e della cognizione territoriale (Bediou, Adams, Mayer et al.,  2018).
  • I giochi sembrano essere particolarmente adeguati alla popolazione dei giovani, questo è dovuto al fatto che diverse componenti presenti nei  giochi corrispondono allo stile di apprendimento dei «nativi digitali» che sono cresciuti intorno ai computer, ai videogiochi e a Internet (Prensky, 2001).

I serious game implicati nel disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività

Alcuni studi epidemiologici hanno mostrato che circa un quarto dei bambini in tutto il mondo occidentale hanno una o più condizioni croniche, è quindi fondamentale che possano apprendere conoscenze adeguate in merito alle loro condizioni di salute e sviluppino adeguate competenze per autogestirsi. Un approccio alternativo, recente, basato sui videogiochi può essere utilizzato come mezzo per migliorare le competenze e le conoscenze mediche, strumento per le cure mediche, la terapia e la gestione delle malattie (Charlier et al., 2015).

Molti studi, come ad esempio quello condotto da Barnes e Prescott (2018), hanno evidenziato come i bambini con disturbi psicologici possano beneficiare di strategie fondate sui videogiochi. Inoltre, strumenti di valutazione e interventi terapeutici in generale basati sui videogiochi si sono mostrati utili ed efficaci nella diagnosi e nel trattamento del DDAI. Oltre a questa patologia i videogiochi sono stati impiegati con successo anche con il disturbo dello spettro autistico (ASD), disturbo che molte volte è in comorbilità al DDAI. I videogiochi sono in grado di aumentare fattori come la partecipazione e la motivazione. Nonostante, i videogiochi sembrano costituire un utile risorsa essi non possono essere considerati come unico mezzo di trattamento. In aggiunta, la ricerca di novità è una componente forte di questo disturbo e il fatto di dover mantenere un impegno a lungo termine può risultare problematico per un bambino con DDAI (Peñuelas-Calvo, Jiang-Lin, Girela-Serrano et al., 2020). Una revisione sistematica condotta da Zayeni, Raynaud e Revet nel 2020 afferma che

i serious game possono ora essere considerati un’associazione innovativa o alternative nel trattamento e prevenzione di disturbi di depressione e di ansia e di bambini, adolescenti, ma anche nel trattamento dell’ ADHD e dell’ ASD.

Per concludere, a mio avviso, i serious game potrebbero essere un’utile risorsa, ma il fatto di non godere di una base empirica forte, unita alla presenza di alcune limitazioni, richiede ulteriori ricerche per dimostrare la loro efficacia.

 

Pazienti psicotici e condotte aggressive: le correlazioni

Solitamente i pazienti affetti da psicosi non sono violenti, ma se si confrontano con la popolazione generale hanno una maggiore probabilità di manifestare condotte aggressive (Volavka, 2008).

 

Laddove si evidenziano le condotte violente, esse sono dirette prevalentemente verso i propri familiari e verso gli operatori sanitari (Faay e al., 2020). I comportamenti ostili nei confronti dell’alterità sono inversamente proporzionali alla percezione della qualità della vita. In pratica, essi decrescono man mano che migliora la qualità della vita dei pazienti psichiatrici.

Le condotte violente sono state correlate con l’impoverimento dei rapporti sociali, che sovente si instaura nei pazienti affetti da psicosi (Lahera e al., 2015). In aggiunta, alcune peculiarità quali il sesso maschile, le condizioni economiche disagiate, l’uso della cannabis (Witt e al., 2013; Moulin e al., 2018), che caratterizzano alcuni pazienti psicotici, predispongono all’incremento delle condotte violente. Inoltre, alcuni soggetti psicotici, che manifestano tendenze suicide, un’impulsività marcata e fasi di eccitazione maniacale, hanno maggiori probabilità di sviluppare comportamenti violenti (Witt e al., 2014).

Alcune criticità, che si sono verificate durante il periodo infantile, possono incrementare nell’età adulta i comportamenti aggressivi e violenti nelle persone a cui è stata diagnosticata una sindrome schizofrenica. Infatti, l’aver subito abusi fisici e sessuali nell’età evolutiva può implementare la tendenza alla violenza (Swanson e al., 2006; Bosqui e al., 2014). In aggiunta, difficoltà nelle relazioni sociali con deficit delle abilità sociali durante l’infanzia e l’adolescenza possono aumentare le condotte violente negli adulti psicotici (Fresán e al., 2004).

Nei pazienti psicotici, che hanno dei comportamenti aggressivi nei confronti dell’alterità, si trovano con una certa costanza una serie di tentativi di suicidio. Questa constatazione conduce all’ipotesi che esiste una stretta correlazione fra aggressività verso se stessi e aggressività verso gli altri (Witt e al., 2013; Witt e al., 2014). Alla base di questa aggressività ci sarebbe, probabilmente, una spiccata tendenza all’impulsività.

Una recente ricerca (Faay e al., 2020) ha seguito per 6 anni 1119 pazienti ai quali era stata diagnosticata una sindrome psicotica. Solo il 2,8% dei soggetti monitorati ha messo in evidenza dei comportamenti aggressivi. Di questa percentuale, lo 0,8% si è reso responsabile di azioni che hanno messo in pericolo l’incolumità altrui e l’1,8% è stato protagonista di maltrattamenti verso persone del proprio entourage. I comportamenti violenti nei confronti dell’alterità sono stati più frequenti nei soggetti che hanno manifestato un’ideazione suicidaria e sono di sesso maschile. Si sono resi responsabili di maltrattamenti gli individui che nella loro infanzia hanno subito un abuso o sono stati oggetto di trascuratezza genitoriale.

In conclusione, i pazienti psicotici hanno una bassa probabilità di sviluppare comportamenti violenti. Tale condotte appaiono più frequenti nei soggetti che manifestano una spiccata impulsività, presentano un’ideazione suicidaria, hanno una qualità della vita scadente con scarse frequentazioni sociali e mostrano una tendenza alla maniacalità. Inoltre, la tendenza all’aggressività viene implementata da alcune caratteristiche socio – demografiche, quali il sesso maschile e le condizioni economiche disagiate. Frequente è l’associazione dei comportamenti violenti con alcune peculiarità presenti nella storia di vita, quali l’essere stati oggetto di abuso durante l’infanzia, l’aver avuto difficoltà sociali nel periodo adolescenziale e il provenire da una famiglia inadeguata.

 

Mindful Parenting. Per costruire una relazione consapevole con i nostri figli (2020) di Susan Bogels – Recensione del libro

Alzi la mano chi non ha ancora sentito parlare di mindfulness. Ora alzi la mano chi, tra quelli che leggono, è un genitore che non hai mai pensato almeno una volta di avere bisogno, magari in una giornata frenetica, di cinque minuti per sé in totale calma. 

 

Essere genitori è una delle sfide più grandi della vita, se chiedessi a un genitore di descrivere il proprio ruolo sicuramente riceverei un racconto fatto di felicità e emozioni positive ma anche di giornate frenetiche, di scuola e di compiti e di impegni sportivi, in poche parole di quotidianità. In questa normalità della vita ci sono anche emozioni (legittime) quali lo stress e la paura della responsabilità che il ruolo genitoriale ricopre in riferimento al legame che ogni giorno costruisce con i propri figli.

Di mindfulness, legami genitore-figli e di come rispondere in maniera funzionale alle emozioni che incombono parla il libro Mindful Parenting di Susan Bolges, edito da Enrico Damiani editore e curato nella versione italiana da Nicoletta Cinotti, che firma l’introduzione al volume raccontando con uno stile personale ed empatico il proprio incontro con la mindfulness durante l’adolescenza del figlio.

Olandese di nascita, l’autrice del libro, Susan Bolges, dedica parte della prefazione e dell’introduzione al volume a spiegare come la mindfulness le abbia cambiato la vita professionale e privata. Genitore, psicoterapeuta e ricercatrice sviluppa nel corso degli anni il programma Mindful Parenting interamente dedicato ai genitori, dalle otto sessioni di questo protocollo traggono ispirazione gli undici capitolo del libro.

Un volume che spiega il valore della pratica all’interno delle interazioni personali con uno stile accessibile dedicato a genitori, nonni, educatori o a chiunque abbia a che fare con le relazioni e i legami che da queste nascono. Ma in che modo possiamo applicare la mindfulness al nostro essere genitori? Secondo l’autrice la consapevolezza mindful può aiutare a vivere il ruolo genitoriale scevro da sentimenti quali paura e frustrazione che attivano, in certi casi, risposte eccessive. Tali risposte condizionate deriverebbero da quelli che il testo definisce “genitore esigente” e “genitore punitivo” che, interiorizzati a nostra volta dalla relazione con i nostri genitori, agiscono come schemi mentali automatici influenzando il rapporto con i figli e fanno vivere il nostro ruolo da mamma e papà come stressante. In quest’ottica il programma Mindful Parenting può aiutarci ad essere maggiormente consapevoli del nostro modo di reagire e conseguentemente della nostra immagine da genitori.

Il libro presenta undici capitoli e invita ad affrontarne uno a settimana avviando una sorta di programma. Non esiste mindfulness senza pratica, ecco perché dopo la parte teorica di ogni capitolo che aiuta a comprendere l’intento delle sessioni, troviamo una serie di esercizi accompagnati da tracce audio (direttamente scaricabile dal sito dell’editore) per provare quanto finora appreso. L’intero libro propone diverse pratiche da sperimentare alcune anche insieme ai nostri figli, perché di questo si sta parlando.

I capitoli iniziali introducono alle diverse meditazioni con uno stile accogliente, il lettore si può immedesimare nei racconti personali dell’autrice richiamando alla mente esperienze personali vissute. Affrontate le diverse pratiche, l’autrice propone la creazione di un programma settimanale personale per permettere di decidere in autonomia quanto e quando praticare. Sul finire del volume la riflessione si eleva ancora di più, viene infatti chiesto al lettore di pianificare in che modo introdurre quanto ormai appreso all’interno della quotidianità propria e della famiglia.

Dopo averlo svolto di settimana in settimana paragonerei Mindful Parenting a un sentiero di montagna da percorrere passo dopo passo sentendo la fatica ma godendosi il viaggio per scoprirsi ogni giorno di più esploratori di sé e godere poi alla fine della nuova consapevolezza conquistata e di ciò che il cammino ha lasciato in noi. Nota di merito per l’appendice finale che oltre a proporre alcuni consigli mindful nella vita da genitori, offre utili informazione sulla diffusione di questo programma nel panorama italiano: suggerisce infatti il modo di trovare i diversi professionisti formati, informa sulle modalità per diventare istruttore e cita l’Associazione Family Connections di Genova che si occupa di diffondere la conoscenza del Disturbo Borderline di personalità e grazie alla quale si è diffuso il programma Mindful Parenting.

Per concludere, Mindful Parenting è un ottimo volume grazie anche all’egregio lavoro svolto dalla curatrice italiana, un’unione di ricerca scientifica ed esperienza personale che apre le porte a una riflessione ampia, e al tempo stesso propria di ognuno, riguardante il carico emotivo che accompagna l’essere genitori che pare sia, come si dice, il mestiere più difficile del mondo.

 

Resilienza, attivazione e disregolazione emotiva: quali implicazioni nell’insonnia?

L’insonnia è uno dei più frequenti disturbi del sonno (Darien, 2014) che colpisce circa un terzo della popolazione adulta.

 

Trattandosi di una problematica che compromette il funzionamento individuale e che provoca alti costi diretti ed indiretti per il sistema sanitario, (Léger & Bayon, 2010; Damien Léger et al., 2014), è stata classificata dal DSM-5 come condizione indipendente, spesso in comorbilità con malattie mentali e fisiche (Damien Léger et al., 2014).

La letteratura ha studiato i meccanismi coinvolti nello sviluppo e nel mantenimento dell’insonnia, che secondo il modello 3P (Spielman, Caruso, Glovinsky, 1987) si suddividono in fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.

Mentre i fattori predisponenti sono antecedenti l’insonnia e costituiscono una vulnerabilità, quelli precipitanti, con cui interagiscono, ne aumentano il rischio e sono rappresentati dagli eventi stressanti di vita.

Gli aspetti di mantenimento della patologia, sono un’elevata attivazione cognitiva e fisiologica in risposta allo stress (Bonnet & Arand, 2010). Infatti, il fattore stressante precipitante, comporta iperattivazione tra coloro che sono normalmente più reattivi; interrompendo e compromettendo repentinamente il normale riposo (Bonnet & Arand, 2010).

La resilienza, etichettata come capacità di superare in modo adattivo lo stress mantenendo un normale funzionamento psicologico e fisico (Masten, 2007), si sviluppa dall’esperienza individuale e costituisce nel quadro dell’insonnia, un fattore di tratto o predisponente (DiCorcia & Tronick, 2011).

Bassi livelli di resilienza correlano con disregolazione emotiva e difficoltà nella risposta allo stress (Britt et al., 2016), che comportano maggiore vulnerabilità ad eventi stressanti e suscettibilità a disturbi psichiatrici (Wu et al., 2013).

Inoltre, una bassa resilienza tra coloro con insonnia, oltre a contribuirne lo sviluppo, rischia di cronicizzare tale condizione interagendo con la reattività del sonno legata allo stress, la disregolazione e l’attivazione emotiva (aspetti che ne favoriscono il mantenimento).

Lo studio di Palagini et al. (2018) ha confrontato 58 individui con insonnia e 38 senza insonnia valutandone la resilienza, la reattività del sonno legata allo stress, l’attivazione nella fase di addormentamento e la regolazione delle emozioni, monitorando la presenza di ansia e dei sintomi depressivi associati.

In seguito, ha testato se tra coloro aventi insonnia una bassa resilienza fosse associata a reattività del sonno ed attivazione emotiva elevata, aspetti che a loro volta potevano contribuirne allo sviluppo ed al suo mantenimento.

I soggetti con insonnia riportavano maggiore reattività nel sonno nella fase di addormentamento e, sebbene non soddisfacessero i criteri per un disturbo d’ansia o depressivo, hanno mostrato una variabilità sintomatologica, coerentemente con il fatto che l’insonnia è altamente in comorbidità con queste condizioni (Harvey, 2008).

Inoltre, similmente alle indagini precedenti, chi soffriva di insonnia aveva livelli più bassi di resilienza e maggiori difficoltà nella regolazione delle emozioni rispetto a chi dormiva bene (Baglioni et al., 2010).

In accordo con la letteratura, bassi livelli di resilienza tra questi individui correlavano con una maggiore reattività del sonno legata allo stress al netto di ansia e depressione, oltre che iperattivazione cognitiva e somatica in fase di addormentamento e disregolazione emotiva, coerentemente con indagini precedenti (Baglioni et al., 2010). Queste associazioni non sono emerse tra coloro che dormivano bene.

Nel dettaglio, chi dormiva bene riportava livelli più elevati di resilienza, mentre coloro che soffrivano di insonnia mostravano maggiori difficoltà nella capacità di pianificazione orientata agli obiettivi, di organizzare il tempo e la routine, oltre che difficoltà nel pianificare in anticipo e formulare obiettivi chiari.

Una bassa resilienza predispone all’insonnia in quanto rende scarsamente adattabili allo stress, aumentando la reattività del sonno a causa della situazione stressante vissuta come ingestibile, che a sua volta porta ad un aumento della risposta fisiologica ed emotiva. Alla base c’è una difficoltà nella regolazione emotiva ed un’attivazione che provocano maggiore arousal in fase di addormentamento, perpetuando l’insonnia.

Inoltre, una scarsa capacità di adattarsi alle difficoltà della vita è anche il fattore di mantenimento dell’insonnia, poiché favorisce la disregolazione emotiva e l’iperattivazione in fase di addormentamento.

Le difficoltà nella regolazione emotiva, agivano come mediatore nella relazione tra fattori predisponenti di tratto (bassa resilienza) e fattori di stato che perpetrano l’insonnia (come l’attivazione cognitiva in fase di addormentamento), mettendo in luce una complessa interazione tra i fattori di rischio riscontrata anche in letteratura (Baglioni et al., 2010).

Da parte dei clinici, poter valutare tali elementi di vulnerabilità è prioritario in quanto consente di individuare quei soggetti più a rischio, che possono beneficiare di strategie di prevenzione e di intervento precoce per l’insonnia e le sue condizioni di comorbilità. Ad esempio, l’incremento della resilienza potrebbe prevenire l’insorgenza di psicopatologie indotte dallo stress, tra cui l’insonnia stessa.

Inoltre, considerare gli aspetti di regolazione emotiva, strettamente implicati con la capacità di far fronte allo stress in modo adattivo (Britt et al., 2016), rende necessario un trattamento mirato alla componente affettiva, da integrare a quello standard per l’insonnia.

 

Covid 19: i risvolti psicologici sulla popolazione e sulla psicoterapia. Accettazione, resilienza e malessere generalizzato – Editoriale di Cognitivismo Clinico

Pubblichiamo con piacere l’editoriale dell’ultimo numero della rivista Cognitivismo Clinico. Nell’articolo Giuseppe Femia presenta i contributi che tutti possono scaricare gratuitamente dai seguenti siti (come anche i numeri arretrati):

Si tratta di un numero speciale dedicato alla pandemia e che ha per titolo: Covid 19: i risvolti psicologici sulla popolazione e sulla psicoterapia. Accettazione, resilienza e malessere generalizzato.
Il numero contiene inoltre un articolo speciale di particolare di interesse scritto da  Francesco Mancini e Guyonne Rogier che illustra “Le linee guida per il trattamento psicologico del disturbo ossessivo compulsivo”.

 

Il numero monografico di Cognitivismo clinico che presentiamo (n. 2 dicembre 2020) vuole contribuire ad indagare l’impatto che la pandemia da SARS-CoV-2 (COVID-19) e le conseguenti misure di isolamento sociale hanno avuto sia sui professionisti della salute mentale che sui pazienti. Come riportano i dati in letteratura (Giallonardo et al., 2020), l’impatto della pandemia sulla salute mentale della popolazione mondiale è, o potrebbe divenire, inevitabilmente negativo (Rajkumar, 2020). Pertanto, appare rilevante indagarne gli effetti anche nel nuovo contesto delle psicoterapie online, oltre che nelle strutture di cura.

Nel primo contributo di Perdighe, Brasini, Giacomantonio et al., l’accento è posto sui fattori potenzialmente protettivi per fronteggiare l’impatto psicologico ed esistenziale della pandemia: l’accettazione di un evento negativo straordinario, intesa come capacità di far rientrare l’evento nella propria rappresentazione dell’ordine naturale delle cose. La spiegazione che soggettivamente, e come comunità, si è in grado di darsi di un evento di tale portata – come vendetta della natura che si ribella all’uomo, come complotto ordito da un gruppo di malvagi, come espressione di un piano divino o come, appunto, rientrante nel flusso naturale degli eventi, quindi legato all’epidemiologia e alla virologia. Dunque, la spiegazione individuale che ciascuno formula riguardo l’epidemia modifica l’impatto dell’evento avverso sulla vita psichica degli individui. A riguardo è noto come la mancata accettazione degli eventi avversi possa giocare un ruolo nel mantenimento della sofferenza psicopatologica.

Il secondo contributo di Femia, Federico, Ciullo et al. approfondisce le strategie di coping messe in atto nel contesto pandemico in relazione ai tratti personologici. In particolare, l’accettazione e l’evitamento, posti ai poli di un continuum ideale, appaiono fattori cruciali nel favorire o meno lo sviluppo e la persistenza della sofferenza psicologica e delle manifestazioni sintomatiche. Un funzionamento caratterizzato da tratti di affettività negativa e tratti di distacco insieme a strategie di coping di evitamento, negazione e conflitto, appaiono correlati all’insorgenza e all’aggravamento della sintomatologia ansiosa e di un generale assetto emotivo che non consente di fronteggiare questo evento in modo funzionale e adattivo.

Il successivo contributo di Attili è uno studio svolto nella popolazione medico-sanitaria e nei pazienti affetti da COVID-19 alla luce della teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1979). I modelli mentali dell’attaccamento individuali possono fare da “diatesi da stress”; secondo l’Autrice, l’attivazione parallela dei Sistemi di Difesa, Attaccamento e Accudimento, determina una condizione di natura stressogena. Nello specifico, viene evidenziato come coloro che hanno un modello di attaccamento insicuro, rispetto a coloro che hanno invece avuto un’esperienza di attaccamento connotata da sicurezza e protezione, rischiano di sviluppare maggiori sintomi di ansia e malessere psicologico e, dunque, si mostrano maggiormente vulnerabili rispetto a quei fenomeni di facile riscontro in manifestazioni da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD).

Il quarto contributo di Femia, Gragnani, Federico et al. raccoglie i punti di vista dei terapeuti e dei pazienti allo scopo di osservare il tema della psicoterapia online indagandone la qualità, l’autoefficacia percepita e le difficoltà legate al setting online, evidenziandone limiti e vantaggi. Ciò che emerge è che l’essere stati costretti dalla pandemia a questo notevole cambiamento di setting ha sollevato difficoltà sia nei pazienti che nei terapeuti, dove per questi ultimi le preoccupazioni riguardo all’autoefficacia percepita rispetto all’intervento e alla qualità della comunicazione con i propri pazienti, non è solo ascrivibile ad una maggiore o minore familiarità con i device tecnologici o con l’esperienza di terapia online pregressa, ma è legata a doppio filo col pregiudizio e le credenze al negativo dei pazienti circa il setting online, che sembrano avere un’influenza sulla percezione della qualità degli interventi erogati in questa modalità. Lo studio però non manca di sottolineare come i dati rimandino vantaggi tali da poter pensare il setting online non solo come funzionale alla gestione dell’emergenza, ma anche come possibile alternativa al setting standard, senza ovviamente escludere o sostituire l’osservazione clinica in presenza.

Nei due successivi contributi di Amadei, Bucci, Benetta et al. e di Arcuri, Castellani, Pellegrini et al. si approfondisce il tema dell’impatto della pandemia e delle conseguenti misure di isolamento sociale nel personale sanitario. I primi (Amadei et al.) spiegano come a fronte di una attivazione ansiosa legata alla continua e maggiore esposizione al virus, con tutto il correlato di responsabilità cui le persone che svolgono professioni di aiuto sono state esposte, si è osservato un basso rischio di burnout e minori livelli di alessitimia, contrariamente a quanto si potesse intuitivamente pensare. Dunque, partecipare attivamente all’emergenza sanitaria sembra avere contribuito al mantenimento di un maggiore senso di efficacia, nonostante la maggiore esposizione allo stress lavorativo e ai rischi psicofisici. I secondi (Arcuri et al.), mettono invece in luce come l’intervento basato sull’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes et al.,1999), che ha lo scopo di aiutare ad accettare ciò che è fuori dal proprio controllo personale, ha mostrato nella popolazione di operatori sanitari che hanno partecipato allo studio, una riduzione dei sintomi ansiosi e depressivi, fino alla loro completa remissione. È fondamentale, quindi, continuare a sottolineare come, per le professioni di aiuto, siano essenziali tempi e spazi di attenzione alle necessità del singolo operatore, al fine di imparare a non contrastare gli eventi, ma ad accettarli volgendo lo sguardo ai propri valori, tanto più se sollecitati da un contesto pandemico così doloroso e complesso.

Il contributo di Cazzola, Castegnaro, Buscaglia et al. amplia l’indagine e la concentra sui vissuti sia dei pazienti che dei componenti dell’équipe multidisciplinare dell’Unità Funzionale per i Disturbi dell’Alimentazione (U-DA) della Casa di Cura “Villa Margherita” di Arcugnano: appare indispensabile non solo ripensare tutti i livelli di cura per patologie gravi come i DA, ma anche migliorare i protocolli di cura e la formazione degli operatori coinvolti.

Segue la proposta di Battagliese, Ledda, Attilia et al., vale a dire un’indagine sui comportamenti maladattativi nella popolazione generale, che sottolinea e conferma come la situazione pandemica, in particolare il primo lock-down, abbia contribuito all’emergere di comportamenti disadattativi, poco salutari, che potrebbero essere letti come potenziali fattori di rischio per possibili effetti negativi sulla salute mentale a lungo termine. L’aspetto preventivo appare dunque necessario e da potenziare, al fine di contenere e gestire in modo funzionale i rischi che il confinamento sociale ha comportato e comporterà per la salute mentale.

Chiudiamo questo numero dedicato agli effetti psicologici della pandemia da COVID-19 offrendo due ulteriori contributi. Mancini e Rogier forniscono, come intervento conclusivo di questa ricca monografia, una panoramica dettagliata circa le Linee Guida internazionali (NICE e APA) esistenti nel trattamento psicoterapeutico del DOC, a cui fare riferimento al fine di offrire al clinico, sulla base delle più influenti evidenze empiriche, una sintesi pragmatica e clinica circa i diversi trattamenti di elezione per i pazienti con DOC, vale a dire il gold standard: la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) che si basa essenzialmente su tecniche di tipo comportamentale quali ad esempio l’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP). Inoltre, viene ribadita l’importanza di promuovere un trattamento combinato sia di tipo psicoterapeutico che farmacologico e forniti suggerimenti circa la gestione delle recidive e la fine del trattamento. Non si trascura la soggettività di ciascun caso al fine di fornire procedure terapeutiche pensate ad hoc per ogni paziente; ad esempio, viene discussa la necessità di fornire sedute di ERP a domicilio nei casi di DOC in cui il soggetto è compromesso al punto tale da non poter uscire dalla propria abitazione, o in quei casi gravi in cui si potrebbe proporre un trattamento intensivo di tipo domiciliare, o coinvolgere un convivente nei casi di DOC resistente alla terapia TCC, oltre che ribadire l’importanza di far partecipare i familiari all’interno del trattamento del DOC in età evolutiva, soprattutto con lo scopo di agire sui fattori di mantenimento che questi possono involontariamente promuovere. Al contempo appare necessario collocare questo contributo nella più ampia cornice di riferimento riguardante gli effetti psicologici della pandemia sulla salute mentale. Si sottolinea infatti un significativo aumento nella popolazione generale dei comportamenti a connotazione ossessiva e compulsiva in aggiunta a livelli elevati di preoccupazione, ansia e vissuti di tipo depressivo.

Per tale ragione, appare necessario leggere tale contributo in riferimento all’attuale situazione legata al COVID-19, che proprio sui pazienti con DOC potrebbe avere avuto e avere in futuro (tema questo controverso) un impatto del tutto peculiare, elicitando alcuni temi salienti di tale disturbo nella più ampia popolazione, quali il disgusto, la paura del contagio, il controllo e la temuta responsabilità.

Infine, Giuseppe Nicolò recensisce il libro “CBT Case Formulation as Therapeutic Process”, curato da Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli, in cui il concetto fondamentale riguarda la condivisione della formulazione del caso quale strumento che consente di gestire vari aspetti del processo psicoterapeutico, aumentando anche le capacità metacognitive del soggetto e la consapevolezza circa il proprio funzionamento e disagio.

Una vita degna di essere vissuta (2021), il nuovo libro di Marsha Linehan – Recensione di Giovanni M. Ruggiero

Una vita degna di essere vissuta racconta la storia di Marsha Linehan e del suo percorso di guarigione, e forse di redenzione, che la portò a cercare di aiutare le persone nella sua stessa condizione, persone con una sofferenza mentale estrema, quella autolesiva, e a rischio di suicidio.

 

Il primo insegnamento dell’autobiografia personale, professionale e intellettuale di Marsha Linehan Una vita degna di essere vissuta proviene dalla sua forma, che è appunto quella dell’autobiografia. La Linehan ci dice che ogni sapere proviene dall’esperienza e che, come scriveva Nietzsche, tutto è biografia. Inizia come una smisurata confessione. Che investe il lettore con violenza imprevedibile: la storia di Marsha Linehan è una storia di sofferenza inaudita, in cui la protagonista ha sfiorato la pazzia, quella vera, quella da manicomio. Come racconta essa stessa, Linehan cadde nella tarda adolescenza in un gravissimo stato depressivo accompagnato da comportamenti estremamente autodistruttivi, come lanciarsi ripetutamente sul pavimento da una sedia o il tagliarsi la pelle delle braccia: nello stato di sofferenza emotiva in cui versava, il dolore dell’urto brutale del corpo e perfino delle ossa sulle superfici dure era un sollievo. Per questa strada Marsha Linehan finì per essere ricoverata in strutture psichiatriche manicomiali e ci rimase per 26 mesi, rischiando davvero l’internamento definitivo.

Per fortuna lo schivò. Fortuna sua ma anche nostra, perché da quel momento iniziò un percorso di guarigione, e forse di redenzione data l’affascinante vena mistica, sia cristiana che non, che accompagna la vita di questa autrice. Redenzione che la portò a cercare di aiutare gli altri che si trovavano nella sua condizione, la sofferenza mentale estrema, quella autolesiva e a rischio di suicidio. Redenzione che passa per pubbliche confessioni già prima di questo libro: note sono le stigmate che Linehan si porta addosso, le cicatrici dei tagli e delle bruciature che marcano il suo corpo.

A questo punto l’autobiografia da personale si tramuta in professionale e intellettuale. Attenzione, però: non si perde nulla dell’aspetto personale, sempre presente. Linehan continua a confidarci i suoi sentimenti, i suoi stati più intimi, le sue relazioni di amicizia e d’amore, i suoi problemi. Linehan, com’è noto, intraprese il percorso comportamentale, formandosi con Jerry Davison e Marvin Goldfried. Questa impronta non la ha mai persa, e ha improntato tutto il suo sviluppo successivo, che comportamentale è rimasto. Colpisce come in questa evoluzione Linehan non abbia avuto mai nulla a che fare con il cognitivismo standard di Beck, la cui impostazione sembra da lei più che lontana: estranea. Gli interventi di Linehan sono tutti focalizzati sulla modificazione comportamentale e vedremo che, anche quando aggiungerà la dimensione mentale, essa sarà tutta informata a una gestione dei processi mentali come eventi interni in grado di influenzare ed essere influenzati. In Linehan, da brava processualista, i pensieri sono fenomeni dotati di effetti contestuali e non di significati essenziali profondi e in quanto tali vanno valutati, in base alle loro mere conseguenze pratiche e non in base a un’essenza intrinseca. È una concezione che deve molto al pragmatismo di Dewey e ancor prima a quello di Pierce.

Il comportamentismo della Linehan è però qualcosa che va oltre il comportamento esterno e si focalizza sui processi mentali. Il suo può considerarsi uno dei primi di quei modelli processualisti di terza onda, anche se esso li precede di alcuni anni e non ne fa parte storicamente. Rimane però ad essi fortemente imparentato. Come tutti i processualismi, questo modello rappresenta una sorta di ritorno al funzionalismo comportamentista e, anzi lo è in una forma più accentuata o, forse, più prossima alle origini non essendosene mai allontanata.

Vediamo così la Linehan raccontarci come negli anni, pescando nella letteratura psicoterapeutica funzionalista, rielaborò decine e decine di interventi funzionalisti in abilità mentali e comportamentali di gestione delle situazioni avversive, le ben note skills che hanno fatto la fortuna di quel modello, la terapia dialettico comportamentale o DBT (Dialectical Behavioral Therapy). Sovrapposte a quegli interventi, alle skills, nelle quali il confine tra mente e comportamento è sempre più fine e impalpabile e in questo si percepisce tutta la radice funzionalista della Linehan, vi era poi un modello del funzionamento mentale semplice e comprensibile al limite della divulgazione eppure per nulla rozzo. Si tratta del ben noto modello della mente saggia, della mente razionale e della mente emotiva. Questo modello teorico esemplifica bene come il passaggio da uno schema come quello di Beck focalizzato sui contenuti cognitivi, le credenze sul sé, a un modello che invece rappresenta la mente in termini di funzioni. Tra queste funzioni quelle più importanti sono quelle regolative e metacognitive, quelle in cui le informazioni, i contenuti di Beck, sono regolate a un secondo livello e utilizzate in vista di scopi esistenziali. La mente saggia, al di là di un certo sapore naive di questo termine, rappresenta quella funzione regolativa per eccellenza che per la Linehan è carente nel paziente suicidario (che è il paziente che davvero interessa alla Linehan e nel quale vi è più sostanza clinica che nella diagnosi di disturbo di personalità borderline con il quale la DBT è stata associata) e che va rafforzata attraverso un vero e proprio addestramento per apprendimento delle abilità. Un esempio di queste abilità, che la Linehan denomina usando degli acronimi che ne facilitano la denominazione, è il noto D.E.A.R. M.A.N., abilità interpersonale con la quale i pazienti imparano in sette passi -uno per ognuna delle lettere dell’acronimo: Describe, Express, Assert, Reinforce, Mindful, Appear, e Negotiate- a esprimere i loro bisogni e i loro disaccordi con il prossimo senza cedere alla conflittualità. In questa commistione tra addestramento pratico e modello agile e comprensibile delle funzioni regolative della mente risiede il segreto del successo della DBT di Linehan. Non basta. Linehan ci racconta anche le difficoltà della sua carriera e i problemi organizzativi del mettere su una ricerca su pazienti così complessi, illuminando come questi aspetti pratici abbiano confluito nella ricerca e viceversa, proprio perché ciò che rende difficile la cura di questi pazienti è proprio la loro scarsa collaborazione e quindi le difficoltà organizzative che pongono diventano oggetto di analisi. E così via.

Man mano che il racconto prosegue incontriamo infine la spiritualità e la meditazione che sono un po’ il coronamento delle abilità regolative più funzionali incontrate precedentemente. Il livello comportamentale, nella visione pragmatica della Linehan, arriva alla spiritualità attraverso la meditazione in ogni sua forma compresa la mindfulness, meditazione che può essere definita la forma più consapevole di comportamento mentale. E intanto proseguono anche le confessioni sulla vita quotidiana di Marsha Linehan e sulle persone con le quali ha a che fare, a volte trovando una parziale conciliazione -ad esempio con sua madre- a volte accettando l’inevitabilità di certe incomprensioni. In questo continuo alternarsi di esperienze cliniche, nozioni scientifiche e confessioni personali risiede il fascino del libro e il suo insegnamento.

 

La CBT-E per i disturbi alimentari – L’ottavo episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’ottavo episodio della serie dedicato alla CBT-E per i disturbi alimentari.

 

LA CBT-E PER I DISTURBI ALIMENTARI

La verità che si cela dietro a un sorriso: la depressione in gravidanza

Il presente articolo è finalizzato ad individuare, dopo un breve inquadramento diagnostico dei disturbi dell’umore, le caratteristiche della depressione postnatale, quale fenomeno che si presenta in una specifica fase della vita di una donna.

Manuela Tedeschi e Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitva e Ricerca Milano

 

Nell’ambito della depressione post-partum, sono infatti presenti un’ampia gamma di sintomatologie sia di natura cognitiva ed emotiva, che neurovegetative di tipo più lieve. Le relative terapie si pongono in un ambito sia di stampo psicoterapeutico che farmacologico. Di seguito verrà approfondita la terapia cognitivo-comportamentale, prendendo in considerazione l’ambiente ecologico della persona, data la rilevanza delle componenti esterne come elemento di condizionamento di tale patologia. Trattandosi di una patologia correlata a molti fenomeni propri della nostra epoca, lo studio della depressione, ed in particolare di specifiche transizioni critiche come la gravidanza, è materia di crescente interesse.

I disturbi dell’umore: breve introduzione e definizione

La depressione è una patologia dell’umore, caratterizzata da fattori biologici, sociali, emotivi e psicologici che emergono nelle esperienze personali di vita fino alla compromissione di tutte le funzioni vitali e di relazione. La depressione è caratterizzata da un profondo doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto-rimproveri e auto-ingiurie, culminanti nell’attesa dolorante di una punizione (S. Freud, 1980). L’esistenza del depresso è affiancata da correlati fisici oltre che cognitivi, quali: stanchezza e scarsa energia, problemi di insonnia, apatia, tristezza, mancanza di appetito o in caso contrario un notevole aumento di appetito, rallentamento psicomotorio oppure agitazione psicomotoria.

Questa situazione fu rappresentata da Eugenio Montale come “Il male di vivere”, laddove si percepisce che niente è come si vorrebbe, non c’è soluzione a questo dolore presente e non si riesce a dare un significato alla propria esistenza.

Ciò che differenzia questa patologia dalla normale sensazione di tristezza, che la maggior parte delle persone prova in qualche momento della vita, sono l’intensità e la durata dei sintomi correlata ad una modificata percezione del mondo e della propria esistenza, che porta ad un’incapacità di sostenere le relazioni sociali e le attività quotidiane.

Ippocrate, con la teoria umorale, fu il primo medico a concepire la depressione come una malattia, descrivendola come un’alterazione della bile nera, uno dei quattro umori corporali (bile nera, bile gialla, flegma e sangue). In passato la depressione ebbe una “interpretazione prevalentemente organica con relative prescrizioni dietetiche e un’interpretazione demoniaca”, seguita da interpretazioni diagnostiche di stampo psicodinamico dal 1500 sino al 1952, anno della pubblicazione del manuale nosografico per i disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of MentalDisorders- DSM-I) dell’Associazione statunitense degli Psichiatri.

Nell’ultima edizione di tale manuale (DSM-5), la caratteristica comune della depressione è la presenza di umore triste, vuoto o irritabile, accompagnato da modificazioni somatiche e cognitive che incidono in modo significativo sulla capacità di funzionamento dell’individuo (American Psychiatric Association, 2013).

I criteri diagnostici comprendono 5 (o più) dei seguenti sintomi durante un periodo di due settimane:

  • almeno uno dei sintomi è umore depresso e/o perdita di interesse o piacere;
  • significativa perdita di peso o aumento di peso (oppure diminuzione/aumento dell’appetito);
  • insonnia o iperinsonnia;
  • agitazione o rallentamento psicomotorio;
  • faticabilità o mancanza di energia;
  • sentimenti di autosvalutazione, di colpa eccessivi o inappropriati;
  • ridotta capacità di pensare, di concentrarsi o indecisione;
  • pensieri ricorrenti di morte, ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, tentativo di suicidio o un piano specifico per commettere suicidio.

Specifiche transizioni critiche: la depressione in gravidanza

Come la depressione può essere connotata come il “male di vivere”, così anche la depressione postnatale si declina in un vissuto emotivo che crea sofferenza, con caratteristiche simili al disturbo dell’umore, ma che spesso passa come invisibile agli occhi degli altri.

Da fuori, guardando dentro
Vedi un sorriso, e tutto va bene
Però se osservi un po’ più da vicino
Scopri il dolore in cui vivo.
[…]
Perché avete così paura di sentire
La verità che si cela dietro al mio sorriso?
Ho bisogno che capiate
Che mi ascoltiate un attimo. (Sherri Hardy, 1996)

Sherri Hardy, l’autrice della poesia ci mostra come poter comprendere la depressione postnatale da un punto di vista di una madre che ha sofferto di questo male invisibile e che spesso non viene visto.

La gravidanza rappresenta un cambiamento unico nella vita di una donna. I profondi cambiamenti biologici, intrapsichici e relazionali che caratterizzano la gravidanza, il parto e i mesi immediatamente successivi alla nascita del bambino possono mettere alla prova l’equilibrio e il benessere della donna, chiamata a ridefinire la propria identità anche attraverso il completamento di un processo di separazione e individuazione della propria madre, iniziato durante l’infanzia e mai completamente concluso (Saita, 2010). Questa transizione critica può scatenare una serie di disturbi dell’umore.

La depressione post-partum costituisce un problema di grande rilievo sociale, difatti circa il 15% delle madri presenta sintomi riconducibili a un disturbo depressivo maggiorenei mesi successivi al parto. Durante la gravidanza e nei primi mesi successivi alla nascita del bambino sono frequenti le reazioni emotive di carattere depressivo, che possono andare dalla semplice disforia post-partum o maternity blues fino alle vere e proprie depressioni post-partum.

Il maternity blues rappresenta una condizione di accentuata vulnerabilità che la madre può avvertire nei giorni immediatamente successivi al parto e che tende a risolversi spontaneamente nell’arco di 7-10 giorni. Si tratta di una forma lieve e transitoria di ipersensibilità, ma estremamente diffusa: infatti l’80% delle donne mostra una certa instabilità emotiva nelle prime due settimane dopo il parto. Fragilità emotiva, facilità al pianto, oscillazione del tono dell’umore ed iper-reattività agli stimoli ne costituiscono i sintomi caratteristici (Saita, 2010). Questa condizione transitoria che fa riferimento allo stato di malinconia (“blues”) è dovuta ad una combinazione tra il cambiamento nei livelli ormonali, l’esaurimento fisico mentale ed emotivo, nonché alla privazione del sonno tipica della genitorialità di un neonato. Secondo alcuni autori, forme gravi di maternity blues costituirebbero un fattore di rischio per l’insorgenza della depressione post-partum (Beck, 1996).

La psicosi puerperale è un fenomeno più raro (ne soffrono 1-2 donne su 1000) e si presenta in una manifestazione decisamente più grave rispetto alla lieve forma della maternity blues, in quanto la prima ha un esordio più acuto, che si manifesta solitamente nei primi 15 giorni dopo il parto, esibendo una sintomatologia di tipo psicotico. Gli episodi infatti tendono a presentare una certa gravità: compaiono confusione mentale, incoerenza ed elementi deliranti collegati alla maternità. Da una parte le madri tendono a manifestare sul versante depressivo senso di colpa e inadeguatezza nei confronti del proprio ruolo, mentre su quello espansivo vi è un’attribuzione grandiosa della maternità (Saita, 2010).

La depressione post-partum (PPD o postnatale) si colloca nel mezzo, in quanto a gravità, tra il maternity blues e la psicosi puerperale. La depressione post-partum si può anche presentare in forme più lievi (depressione minore) tra le quali si ritrovano un esaurimento fisico, irritabilità, diminuzione dell’appetito, riduzione del desiderio sessuale, insonnia, sintomi somatici di varia natura (3-6 mesi dopo il parto); oppure in forme più severe che, presentando una sintomatologia più persistente, può essere associata a confusione e avere un esordio acuto (Saita, 2010).

Circa il 10/20% delle donne si ammala di depressione post-partum. Questa condizione può manifestarsi durante la gravidanza o nelle settimane successive al parto e comporta un vissuto personale caratterizzato da: sentimenti di tristezza, ansia e/o colpa; senso di inutilità; pensieri sul suicidio e sulla morte; difficoltà di concentrazione e nel prendere le decisioni; sintomi neurovegetativi come disturbi del sonno e dell’appetito; mancanza di interessi e di energia (Milgrom, 1999).

Vi sono una molteplicità di fattori che concorrono nell’insorgenza di tale disturbo:

  • privazione del sonno ed esaurimento fisico ed emotivo;
  • fattori biologici e ormonali dovuti ad un calo dei livelli di estrogeni e progesterone;
  • fattori cognitivi come l’auto-svalutazione, il senso di delusione e di insoddisfazione;
  • ed infine psicosociali, come la giovane età, il basso status socioeconomico oppure eventi di vita stressanti.

Per quando riguarda i fattori di rischio psicosociali vi sono differenti variabili che incidono sull’insorgenza di questa patologia: il cambiamento del ruolo della donna nella sfera sociale, problemi di coppia, sostegno sociale inadeguato, fattori di personalità, locus of control esterno e pensiero negativo disfunzionale, umore durante la gravidanza tendente all’ansia, all’ostilità e/o alla depressione, storia personale di depressione, temperamento del bambino, esperienze infantili ed aspettative sociali rispetto alle gioie della maternità.

Il ruolo del marito in questo momento è cruciale, poiché consiste nel fornire un supporto emotivo e una base di sicurezza alla moglie, aiutandola a superare le difficoltà che si presentano. Questo supporto fornito dal marito protegge la moglie dal rischio di sviluppare una sintomatologia depressiva.

La gravidanza rappresenta un periodo di profondi cambiamenti per la donna, non solo a livello fisico ma anche psicologico: alcune donne hanno difficoltà ad accettare lo stato sperimentando sentimenti contrastanti di felicità e paura, di preoccupazione per ciò che le attende. Queste reazioni sono piuttosto diffuse e condivise, ma non sono sempre espresse dalla futura madre nel timore di sentirsi diversa e considerata inadeguata per il suo ruolo futuro (Milgrom, 1999).

Entrano quindi in gioco fattori cognitivi.

Tra i pensieri irrazionali più tipici che caratterizzano questa fase di vita, ritroviamo il sentirsi inadeguata nella cura del bambino, pensare di essere mogli e madri incapaci, non riuscire a provare emozioni verso il bambino, ed infine credere di non essere in grado di concentrarsi sulle cose quotidiane che hanno a che fare con l’interazione madre-bambino (riconoscimento dei bisogni reciproci, sintonia emotiva, semplice cura dei genitori).

Olioff (1991) ha identificato tre temi cognitivi specifici delle donne che soffrono di depressione postnatale, che le differenziano dalla depressione che colpisce le donne in altre fasi della vita: in primo luogo la percezione di autoefficacia come madre, secondariamente l’autovalutazione delle proprie capacità materne, ed infine la vulnerabilità percepita del bambino.

Questo autore identificò tre differenti tipologie di depressione postnatale:

  • con presenza di contenuti cognitivi depressivi,
  • con presenza di schemi di pensiero distorti inerenti la maternità,
  • con presenza di ricorrenti episodi depressivi.

La depressione post-partum sembra quindi essere più debilitante della depressione che colpisce le donne in altre fasi della vita e durare di più, infatti circa il 50% delle madri sperimentano questa condizione sintomatica fino ai 2 anni del bambino (Dennerstein, 1986). Inoltre, chi soffre della depressione post-partum ha il doppio delle probabilità di sperimentare depressione nei cinque anni successivi (Cooper, 1995).

Trattamento con la terapia cognitivo – comportamentale

La psicoterapia ha come scopo principale il cambiamento: vuole fornire al paziente una diversa percezione degli eventi e la possibilità di ricollocarli in un’altra posizione, per avere una visuale diversa che comporta nuove opportunità.

La terapia cognitivo- comportamentale (CBT) è uno degli approcci più moderni delle psicoterapie, che tratta in particolare i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore. Dalle ricerche di Hollon et al. (2002) risulta che questo trattamento sia particolarmente efficace.

Nell’ottica di Aaron Beck, considerato il fondatore degli approcci cognitivisti classici, questa terapia è atta a modificare le modalità disadattive del pensiero. Il terapeuta cerca di aiutare il paziente depresso a cambiare le proprie opinioni riguardo a sé stesso e agli eventi che accadono, modificando le proprie aspettative, valutando la ragionevolezza dei propri pensieri automatici e sostituendoli con una più sensata interpretazione degli eventi. Il terapeuta istruisce il paziente ad individuare schemi di pensiero negativi che contribuiscono a perpetuare il suo stato di depressione (Kring, 2007).

Questo approccio si pone in modo direttivo nei confronti della persona, esso tenta di far individuare al paziente i suoi pensieri distorti, le emozioni disfunzionali ei comportamenti disadattivi, in modo tale da riuscire a prendere coscienza di questi fattori che determinano l’insorgenza di stati emotivi disturbanti, insegnando loro specifiche abilità per far fronte a situazioni stressanti (coping).

Le tecniche cognitive che funzionano anche per la depressione post-partum comprendono la ristrutturazione cognitiva, le procedure di autocontrollo e modalità per contrastare le distorsioni cognitive, aiutando a riconoscere il legame tra pensieri, sentimenti e comportamenti.

Secondo la teoria comportamentale, la depressione in generale è causata da un numero insufficiente di esperienze positive o fonti di rinforzo che la persona ha a disposizione. Perciò, facendo riferimento a queste teorie, vengono introdotte le seguenti tecniche per far fronte alla depressione post-partum:

  • aumentare la frequenza delle attività piacevoli e ridurre il numero degli eventi spiacevoli;
  • training per l’acquisizione delle abilità sociali, le quali influenzano l’umore;
  • incrementare le abilità di autocontrollo in quanto vi sono delle carenze nelle capacità di automonitoraggio, autovalutazione e autorinforzo;
  • potenziare abilità di problem-solving, le quali sembrano modificare la relazione tra stress e depressione;
  • ed infine sviluppare abilità di rilassamento, utili per gestire l’ansia, l’agitazione psicomotoria e l’insonnia (Milgrom, 1999).

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico con antidepressivi, si evidenzia un’efficacia nell’intervento sulla depressione. Tuttavia, a proposito dell’assunzione di farmaci durante la gravidanza o nel periodo dell’allattamento, le madri sembrano abbastanza restie ad assumere queste sostanze per quanto concerne l’effetto che i farmaci possono avere sul loro bambino se allattano al seno. In conclusione, il trattamento cognitivo-comportamentale sembra quindi essere una migliore alternativa e più accettata terapia rispetto a quella farmacologica (Milgrom, 1999).

Una donna che soffre di depressione post-partum ha bisogno di riguadagnare fiducia nelle sue capacità di madre, a volte deve lavorare per ricostruire il suo rapporto con il figlio. Dovrebbe sempre essere accolta, ascoltata, sostenuta e liberata da sentimenti di colpa e vergogna che questa sofferenza le ha causato, minando profondamente la sua autostima e l’immagine di sé stessa come donna e come madre.

 

Le 9 logiche in terapia breve: una guida all’intervento per i terapeuti

Attraverso un’accurata analisi della letteratura, Flavio Cannistrà e Micheal Hoyt hanno individuato 9 logiche sottostanti gli interventi di terapia breve, che possono aiutare i terapeuti a orientare i loro interventi e a utilizzare e prescrivere le tecniche più adatte.

 

Gli interventi attivi da parte del terapeuta sono alla base del processo delle terapie brevi (Cannistrà, Hoyt, 2020). Nel momento in cui il terapeuta breve – o meglio, qualsiasi terapeuta – assegna un compito o fa un determinato intervento durante la seduta, egli è sicuramente guidato dallo scopo di ottenere un effetto specifico attraverso quella data tecnica o intervento.

Cannistrà e Hoyt si sono interrogati sulla possibilità, per le tecniche di terapia breve, di rientrare in un limitato numero di scopi a cui esse possono condurre. La domanda che si sono posti è stata: “Quali sono le logiche (cioè le ragioni sottostanti) che guidano la scelta di una tecnica piuttosto che di un’altra?”. Il loro lavoro ha portato all’individuazione di 9 logiche sottostanti gli interventi di terapia breve.

Metodologia

Cannistrà e Hoyt hanno basato il loro lavoro sulla consultazione e lo studio della letteratura in terapia breve, ad esempio negli ambiti della terapia strategica modello MRI (Fisch et al., 1982; Watzawick et al., 1974), della terapia breve strategica (Nardone & Watzlawick, 1993) della terapia breve centrata sulla soluzione (de Shazer et al., 2007) e tecniche derivanti direttamente dagli studi di Milton Erickson. In principio sono state analizzate approfonditamente 77 tecniche (Cannistrà, 2019), ma il lavoro è tuttora in fieri e ad oggi si sono superate le 150.

I due autori hanno così individuato 9 diverse logiche a cui le varie tecniche afferiscono. Per ogni tecnica è stata individuata una “logica principale” e un’eventuale “logica secondaria”.

Le 9 logiche

Dopo averle presentate tramite la descrizione di un caso clinico (Cannistrà, 2019) e in una serie di conferenze, l’ultima sistematizzazione delle 9 logiche è stata pubblicata sul Journal of Systemic Therapies (Cannistrà & Hoyt, 2020). Di seguito riportiamo un’estrema sintesi di quest’ultima elaborazione.

  • Bloccare direttamente le azioni. L’obiettivo di questa logica è quello di interrompere direttamente uno o più comportamenti, tenuti dal cliente, che stanno perpetuando il problema. Si chiede direttamente – in maniera esplicita quindi – alla persona di smettere di fare una certa cosa, che sta mantenendo in vita il problema. Ad esempio, alla base di questa logica vi è la richiesta del terapeuta al paziente ipocondriaco di sospendere le visite mediche (Nardone, 1996)
  • Creare avversione. Scopo di questa logica è quello di indurre un’avversione del paziente verso un certo comportamento (o relazione, interazione, ecc.), ad esempio con lo scopo di bloccare indirettamente un comportamento, oppure con l’idea di indurre una nuova significazione concettuale. Rientrano in questa logica, a titolo esemplificativo, le ordalie (Haley, 1984; Hoyt, 2019), il cui proposito è per l’appunto rendere il comportamento sintomatico più spiacevole di quanto sia piuttosto interromperlo, oppure le ristrutturazioni di significati in senso appunto avversivo.
  • Creare consapevolezza. Questa logica è utile per aiutare il paziente a prendere consapevolezza di qualcosa, che sia un suo punto di forza o un atteggiamento problematico, senza necessariamente avere lo scopo di indurre a compiere o bloccare un determinato comportamento. A tal fine possono essere usate tecniche più dirette, come i complimenti per determinate capacità e competenze, o interventi più indiretti, come il ricorso a metafore, aforismi, storie.
  • Evocare nuove risorse. Questa logica comprende tecniche che conducono a creare o amplificare nuovi comportamenti e percezioni. Degli esempi sono la “domanda del miracolo” (de Shazer, 1988), che porta la persona a immaginare, descrivere ed eventualmente attuare uno scenario futuro desiderato, o tutte le tecniche “come se” (Watzawick, 1987), in cui si chiede appunto di attuare determinati comportamenti come se certe condizioni fossero in essere (ad es. comportarsi come se gli altri fossero gentili e cordiali con noi).
  • Incrementare per ridurre. Rientrano generalmente in questa logica tutti quegli interventi volti ad annullare un certo sintomo o comportamento problematico chiedendo al cliente di alimentarlo o perpetuarlo volontariamente. Le prescrizioni paradossali sono l’esempio più noto: ne è un esempio la tecnica della peggiore fantasia (Haley, 1985; Nardone e Watzlawick, 1993), in cui si chiede alla persona che soffre di attacchi di panico di aumentare in maniera arbitraria le sensazioni di ansia, ottenendo come risultato la riduzione di tali sensazioni.
  • Piccoli cambiamenti. Attraverso questa logica si cerca di risolvere il problema in maniera graduale, attraverso piccoli cambiamenti, minime variazioni o leggere violazioni nelle modalità di un singolo comportamento o di una serie di comportamenti: citando Haley (1982), “il piccolo cambiamento porta invariabilmente a uno più grande”. Questo tipo di logica viene in aiuto quando la richiesta del paziente è composta da diversi passaggi o quando un cambiamento troppo rapido o troppo grande potrebbe spaventarlo.
  • Rafforzare la relazione. In questa logica rientrano tutti quegli interventi che non intendono produrre direttamente un risultato terapeutico, ma che risultano essenziali per rafforzare la relazione con il terapeuta. Ne sono un esempio le domande costruite ad hoc per rimandare al paziente l’interesse del terapeuta nel condividere il processo di co-costruzione degli obiettivi e dei mezzi della terapia, o nell’assicurarsi di una reale comprensione dei suoi significati.
  • Spostare l’attenzione. Rientrano all’interno di questa categoria le tecniche che chiedono ai pazienti di compiere una certa azione in modo da distoglierli da un’attività disfunzionale. Un esempio è la tecnica del diario di bordo (Nardone e Watzlawick, 1993), secondo cui si chiede alla persona in stato di ansia acuta di compilare un diario in quell’esatto momento, spostando di fatto l’attenzione della persona dal controproducente monitoraggio dei parametri fisiologici a un compito totalmente diverso, consentendo il normalizzarsi delle risposte fisiologiche.
  • Esprimere ed elaborare. Questa logica viene seguita nei casi in cui una situazione di sofferenza si mantenga a seguito di una ritenzione emotiva (ad esempio, trattenere la rabbia come risposta abituale) o di una sua mancata elaborazione. Le tecniche che afferiscono a questa logica permettono di far emergere emozioni, sentimenti e cognizioni legate a quell’esperienza: ne è un esempio la tecnica di regrieving (Budman & Gurman, 1988), in cui alla persona che vive ancora intensamente la fase del lutto si chiede di ripercorrerne esperienze ed emozioni ad esso legato, ad esempio con manovre immaginative o con l’uso di oggetti connessi.

In che modo le 9 logiche possono rivelarsi utili?

Gli autori considerano le logiche come un “riduttore di complessità” del processo terapeutico: una mappa concettuale che favorisca una scelta più consapevole e pragmatica dell’intervento più appropriato per uno specifico paziente, o per un suo specifico problema, o per uno specifico momento della sua terapia.

 

Stili cognitivi e apprendimento

Un’interessante sfida per psicologi ed educatori è quella di variare lo stile di insegnamento, strutturare metodi di apprendimento e strumenti didattici che siano il più possibile personalizzati e vari, rispettando le caratteristiche individuali di ognuno e valorizzando punti di forza, talenti ed inclinazioni personali.

Definizione degli stili cognitivi

Per stile cognitivo s’intende la: “modalità di elaborazione dell’informazione che la persona adotta in modo prevalente, che permane nel tempo e si generalizza a compiti diversi”. (Boscolo, 1981)

È un modo di pensare preferito, ossia una propensione ad analizzare la realtà secondo i criteri ritenuti più funzionali e comodi (Sternberg, 1998).

Non si tratta di un’abilità, intesa come capacità e grado di bravura nello svolgere una determinata attività o compito, bensì della maniera attraverso cui un individuo tende e preferisce utilizzare le abilità di cui è dotato.

Non possediamo un unico stile cognitivo, bensì un profilo di stili di pensiero diversi.

Tipologie di stili cognitivi

Esistono diverse tipologie di stili cognitivi. Cornoldi et al. (Cornoldi et al., 2001) propongono la seguente suddivisione:

  • stile globale/analitico: chi ha uno stile globale predilige in primis una visione d’insieme di uno stimolo per poi spostarsi verso i particolari, mentre chi ha uno stile analitico privilegia la percezione dei dettagli che solo in un secondo momento vengono collegati al quadro di riferimento generale;
  • stile visuale/verbale: lo stile visuale si caratterizza per una propensione verso la rappresentazione visuo-spaziale ed iconica (es. immagini e schemi), mentre quello verbale per una preferenza per il codice linguistico e sonoro (es. esposizione orale e riassunti);
  • stile sistematico/intuitivo: il soggetto che adotta uno stile sistematico tende ad analizzare procedendo a piccoli passi in modo graduale, così da prendere in considerazione tutti i dettagli, mentre il soggetto che adotta uno stile intuitivo cerca di arrivare alla soluzione per prove ed errori, formulando delle ipotesi da confutare o confermare;
  • stile impulsivo/riflessivo: l’individuo impulsivo utilizza tempi decisionali brevi per svolgere un compito, mentre quello riflessivo ricorre a tempi decisionali più lunghi.

De Caroli (De Caroli, 2009) approfondisce altri stili di pensiero:

  • stile livellatore/puntualizzatore: i livellatori tendono a mescolare le nuove e le vecchie informazioni, condensando i contenuti già noti e le novità, mentre i puntualizzatori sono in grado di diversificare e mantenere distinti i vari elementi;
  • stile visuale/tattile: i soggetti con stile visuale si comportano da “spettatori” e presentano un approccio conoscitivo principalmente fondato sulle informazioni visive, mentre quelli con stile tattile partecipano più attivamente e mostrano un approccio che si basa sulla manipolazione;
  • stile innovatore/adattatore: gli innovatori sono aperti al cambiamento e sono favorevoli a sperimentare nuove soluzioni sfruttando le specifiche potenzialità del contesto, mentre gli adattatori sono più conformisti e preferiscono ricorrere a strategie già consolidate e utilizzate precedentemente;
  • stile convergente/divergente: l’individuo con stile convergente utilizza schemi di ragionamento lineari e convenzionali, mentre la persona con stile divergente si avvale di schemi più creativi e originali.

A Sternberg si deve la teoria dell’autogoverno mentale (Sternberg, 1998), nella quale le forme di governo tipiche della società umana, che secondo l’autore non esistono per caso ma sono lo specchio delle nostre menti, sono metaforicamente associate a vari stili di pensiero. La teoria di Sternberg si articola secondo 3 funzioni, 4 forme, 2 livelli, 2 sfere e 2 propensioni e suggerisce in totale 13 stili cognitivi:

  • stile legislativo: è tipico di quei soggetti che amano creare, progettare, decidere autonomamente e fare le cose a modo proprio;
  • stile esecutivo: gli individui con questo stile di pensiero preferiscono aderire alle regole indicate e ricevere istruzioni da seguire su cosa fare e come fare le cose;
  • stile giudiziario: è proprio di chi predilige giudicare, valutare, confrontare ipotesi ed esprimere opinioni;
  • stile monarchico: caratterizza quelle persone che sono trascinate da un’idea fissa e che rivolgono la propria attenzione ad un obiettivo per volta, perseguendolo con determinazione e portandolo a termine;
  • stile gerarchico: i soggetti gerarchici prendono in considerazione vari obiettivi, ma, nella consapevolezza che non tutti abbiano la stessa importanza, tendono a stabilire delle priorità, decidendo in modo organizzato e sistematico come collocare le proprie risorse;
  • stile oligarchico: è tipico di chi risulta motivato da vari obiettivi che vengono percepiti di uguale importanza;
  • stile anarchico: i soggetti con questo tipo di stile di pensiero rifiutano le regole e le procedure rigide e sono stimolati da vari obiettivi cui si approcciano in modo casuale;
  • stile globale: è proprio di coloro che preferiscono questioni ampie e astratte e vedono “la foresta piuttosto che gli alberi”;
  • stile analitico: caratterizza gli individui che amano i problemi concreti e che attenzionano i dettagli, vedendo prima “gli alberi rispetto alla foresta”;
  • stile interno: le persone interne sono tendenzialmente introverse e riservate e preferiscono lavorare da sole;
  • stile esterno: le persone esterne sono estroverse ed espansive e amano lavorare in gruppo;
  • stile radicale: contraddistingue coloro a cui piace andare oltre le regole vigenti e favorire il cambiamento;
  • stile conservatore: gli individui conservatori si conformano alle norme esistenti e cercano di mantenere la stabilità.

È importante sottolineare che nessuno stile di pensiero è migliore o peggiore rispetto agli altri, sono semplicemente diversi, ma tutti possono rivelarsi utili a seconda dei diversi compiti e contesti; è una questione di congruenza e compatibilità tra lo stile e le richieste dell’ambiente.

Per valutare gli stili cognitivi è possibile fare riferimento ai questionari presenti nei volumi Imparare a studiare 2 (Cornoldi et al., 2001) e Stili di Pensiero (Sternberg, 1998).

Stili cognitivi e apprendimento

Gli stili cognitivi influenzano notevolmente l’apprendimento e lo svolgimento di compiti, ecco perché è fondamentale tenerli in considerazione e non trascurarne il ruolo nel settore scolastico e in quello lavorativo.

In ambito lavorativo l’analisi degli stili cognitivi favorisce una più valida individuazione dei candidati che risultino maggiormente in grado a lungo termine di ricoprire un certo ruolo professionale o di svolgere una specifica mansione soddisfacendo le richieste di un’azienda, mentre in ambito scolastico ciò si traduce nel supportare gli studenti in modo appropriato: ad esempio aiutare il bambino con stile anarchico, insegnandogli l’autodisciplina, a incanalare in modo costruttivo e non distruttivo il suo potenziale creativo derivato dal suo mettere in discussione il sistema vigente, o guidare gli alunni oligarchici strutturando insieme a loro le priorità, o innestare l’argomento di interesse dei bambini monarchici in ciò che si vorrebbe che facessero, come consigliare a uno studente che ama lo sport e odia leggere un libro sullo sport, oppure prevedere attività di apprendimento sia individuale che di gruppo così da far sentire a proprio agio alunni con stile interno ed esterno. È importante variare lo stile di insegnamento, altrimenti se si usa un unico setting di lavoro si rischia di avvantaggiare alcuni alunni a discapito di altri.

Si tratta di una sfida ambiziosa per psicologi ed educatori, cui spetta il compito di strutturare metodi di apprendimento e strumenti didattici che siano il più possibile personalizzati e vari e non eccessivamente standardizzati e rigidi, affinché vi sia un incremento del rendimento complessivo stimolando interesse e motivazione, rispettando le caratteristiche individuali di ognuno e valorizzando punti di forza, talenti ed inclinazioni personali. Infatti, come scrive Pennac

ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. (Pennac, 2008)

 

“L’ultimo episodio e poi smetto”: l’incremento del Binge Watching durante la pandemia da Covid-19.

Con l’espressione “binge watching” si fa riferimento al consumo intenso e consecutivo degli episodi di una serie televisiva in una sola seduta (Pittman & Sheehan, 2015) e il periodo di isolamento determinato dal Covid-19 ha creato la condizione ideale per la diffusione di tale fenomeno. 

 

Al giorno d’oggi, i servizi di distribuzione online di film e serie televisive, come Netflix e Amazon Prime Video, costituiscono la principale fonte di intrattenimento. Difatti, queste piattaforme consentono ai loro utenti di poter accedere ai propri programmi favoriti in qualsiasi momento e indipendentemente dal luogo in cui si trovano.

Questo importante sviluppo dell’intrattenimento digitale ha dato vita ad un’autonomia quasi illimitata nella selezione e nel consumo di contenuti mediatici ma, allo stesso tempo, tale autonomia rischia di sfuggire di mano, andando drasticamente a modificare l’utilizzo di tali piattaforme.

Con l’espressione “binge watching” si fa riferimento al consumo intenso e consecutivo degli episodi di una serie televisiva in una sola seduta (Pittman & Sheehan, 2015) e, il periodo di isolamento determinato dal Covid-19, ha creato la condizione ideale per la diffusione di tale fenomeno.

Le società di distribuzione stanno investendo per realizzare serie tv che spingano le persone verso il binge watching e, difatti, per promuovere questo comportamento, spesso tutti gli episodi di una determinata stagione vengono rilasciati contemporaneamente (Umesh & Bose, 2019).

Diversi studi hanno dimostrato che l’intrattenimento mediatico può influenzare il benessere degli utenti sia positivamente che negativamente (Reinecke & Oliver, 2017). Naturalmente tali effetti variano a seconda del contenuto mediatico e della sua modalità di utilizzo.

Nell’attuale situazione pandemica, in cui le persone vivono in un totale stato di stallo che comporta un decremento delle attività ludiche, alcuni autori (Dixit et al., 2020) hanno ipotizzato che vi fosse stato un aumento del fenomeno del binge watching. Essi si son proposti di indagare come fosse dunque cambiata la frequenza di utilizzo delle piattaforme di distribuzione online, quali fossero state le eventuali motivazioni e, ancora, se gli utenti avessero avvertito delle ripercussioni dovute all’evoluzione di questo fenomeno.

Lo studio in questione è stato condotto su un campione della popolazione generale di quattro paesi del sud-est asiatico. Nello specifico, all’indagine hanno preso parte 548 partecipanti, con un’età media di 32 anni, a cui è stato richiesto di completare un sondaggio online.

I risultati hanno mostrato che, mentre prima del dilagarsi della pandemia, il tempo medio trascorso dagli utenti su queste piattaforme era di circa 1-3 ore al giorno; durante il lockdown, il 73,7% degli intervistati si è mostrato concorde nel riportare un considerevole incremento del fenomeno di binge watching, sottolineando come il tempo medio trascorso dinanzi al computer sia esponenzialmente salito a 3-5 ore o più.

Questo fenomeno ha avuto considerevoli ripercussioni sulla qualità di vita sei soggetti. Alcuni hanno riportato di aver sperimentato disturbi del sonno, altri hanno perso il lavoro e il 28 % dei partecipanti ha riferito di aver vissuto situazioni conflittuali con i propri conviventi, proprio a causa del tempo trascorso sulle piattaforme di distribuzione online.

Rispetto alle motivazioni esplicitate, si è evinto che la maggior parte dei partecipanti è stata spinta dal desiderio di sfuggire alla noia, mentre alcuni hanno riferito di averlo utilizzato come un metodo per alleviare lo stress percepito e superare il senso di solitudine. Quanto appena detto ha portato gli autori ad assimilare il fenomeno del binge watching ad un meccanismo di coping disfunzionale. Difatti, è possibile che le persone stiano tentando di sopprimere determinate sensazioni spiacevoli elicitate dall’isolamento, attraverso la fantasia, l’immaginazione e lo svago generati dalle serie e dagli show televisivi (Lazarus & Folkman, 1984). Inoltre, bisogna tener conto del fatto che la costante disponibilità dei contenuti online determina una gratificazione immediata dei bisogni ma, allo stesso tempo, può compromettere altri obblighi ed esigenze (Reinecke, Hartmann, & Eden, 2014). Ricerche precedenti nel campo dell’intrattenimento mediatico hanno dimostrato che cedere al desiderio di trascorrere il tempo sui media, a costo di altri obiettivi o responsabilità, spesso genera un senso di colpa, ovvero un’autovalutazione negativa, innescata dalla contrapposizione tra il comportamento attuale (ad esempio, l’uso dei social-media) e gli standard personali, gli obiettivi e le responsabilità a lungo termine dell’individuo (Reinecke, Vorder & Knop, 2014; Panek, 2014).

Il senso di colpa, a sua volta, può ridurre il benessere percepito durante o poco dopo l’episodio visto (Reinecke, Hartmann, et al., 2014) ed avere, nel lungo termine, effetti negativi sul senso di soddisfazione personale, soprattutto se gli obiettivi, come ad esempio il rendimento scolastico, sono cronicamente trascurati, a causa dello scarso autocontrollo dei soggetti (Hofmann et al., 2014; Panek, 2014).

Dunque, più gli utenti trascorrono il tempo guardando serie tv consecutivamente, più possono correre il rischio di perdere il controllo sull’utilizzo dei media, dando origine a conflitti interiori, in quanto rimandano attività necessarie all’assolvimento di obiettivi a lungo termine, a favore delle gratificazioni a breve termine (Wagner, 2016).

Naturalmente, data la mancanza di autocontrollo dei soggetti e il successivo senso di colpa, si potrebbe assimilare il binge watching ad una vera e propria forma di dipendenza comportamentale ma, non essendovi ancora evidenze in merito, tale affermazione potrebbe apparire precoce. Ad ogni modo, le prove attualmente esistenti supportano la presenza di un’associazione tra il binge watching e i disturbi dell’umore, i disturbi del sonno, l’affaticabilità e la compromissione dell’autoregolazione (Zhang et al., 2017), dunque non è considerarsi come un fenomeno da sottovalutare.

Saranno dunque necessarie ulteriori ricerche, ma limitare tale comportamento potrebbe essere benefico e potrebbe prevenire lo sviluppo di una sintomatologia connessa ad uno stile di vita disfunzionale. Ulteriormente, sarà necessario indagare gli effetti a lungo termine del binge watching sulla popolazione generale, in quanto potrebbe fornire una migliore comprensione degli aspetti patologici connessi con tale comportamento.

 

Non saper smettere di odiare – L’ottavo episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.

 

NON SAPER SMETTERE DI ODIARE:

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