expand_lessAPRI WIDGET

Biomarcatori della Pedofilia: può la scienza riconoscere un pedofilo? 

L’attuale letteratura suggerisce come i biomarcatori possano essere degli strumenti potenzialmente utili non solo nel coadiuvare il clinico nella diagnosi, ma anche nel trattamento e nella valutazione del rischio nei soggetti pedofili.

 

Introduzione

Il Disturbo Pedofilico viene definito come “un’eccitazione sessuale ricorrente intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età)” (DSM-5, 2014, p.810). Inserito all’interno dei disturbi parafilici, il disturbo pedofilico risulta essere un argomento connotato da una forte sensibilità. Più generalmente, la pedofilia riguarda il marcato e persistente interesse sessuale per bambini prepuberi, come manifesto da fantasie, desideri, pensieri e comportamenti sessuali dell’individuo (Seto, 2009). Ad oggi rimane tuttavia largamente sconosciuta la prevalenza della pedofilia nella popolazione a causa della mancanza di studi epidemiologici su larga scala. Il DSM-5 (2014) stima una prevalenza attuale del disturbo nella popolazione maschile del 3-5%, tuttavia non basata su forti dati scientifici. Inoltre, restano ancora da chiarire i possibili fattori di rischio alla base dello sviluppo della pedofilia. Dalla letteratura emergono evidenze rispetto al fatto che l’aver subito abusi sessuali in età infantile possa comportare lo sviluppo di un interesse di tipo pedofilico (DSM-5, 2014; Nunes et al., 2013). Nunes e colleghi (2013) mostrano tuttavia come soltanto una minima percentuale delle vittime manifesti poi in età adulta questo disturbo. Proprio per la complessità e la mancanza di robuste evidenze riguardo alla pedofilia risultano particolarmente interessanti alcune recenti ricerche che sembrerebbero suggerire la possibilità di identificare uno o più biomarcatori per questo disturbo.

Si definisce biomarcatore una proprietà oggettivamente misurabile che funge da indicatore di processi biologici anomali e/o normali e il loro nesso con gli esiti clinici (Strimbu & Travel, 2010). In altre parole, è stata indagata la possibilità di riconoscere un pedofilo attraverso dei parametri oggettivi; se ciò fosse possibile, questo si tradurrebbe in un aiuto significativo per il clinico nell’identificazione di un interesse pedofilico. Tanto è vero che l’attuale letteratura suggerisce come i biomarcatori possano essere degli strumenti potenzialmente utili non solo nel coadiuvare il clinico nella diagnosi, ma anche nel trattamento e nella valutazione del rischio nei soggetti pedofili. Una recente review (Jordan, Wild, Fromberger, Muller & Muller, 2020) presenta e analizza i principali studi circa i potenziali biomarcatori della pedofilia, a partire da una concettualizzazione multifattoriale e complessa di quest’ultima.

Fattori genetici e neurobiologici

Considerando le influenze genetiche sulla pedofilia, uno studio riporta una probabilità significativamente più diffusa di incorrere in tale disturbo per i parenti di primo grado di pazienti con diagnosi conclamata, rispetto a parenti di primo grado di soggetti affetti da altre parafilie o depressione (Gaffney, Lurie & Berlin, 1984). La piccola dimensione del campione dello studio sopra citato (33 uomini) e la sua datazione non gli consentono un elevato grado di affidabilità, comunque suggerisce quanto l’interesse scientifico nei confronti di tale disturbo abbia radici ben lontane nel tempo. Ricerche più recenti hanno messo in relazione la prevalenza dell’uso della mano sinistra (handedness) o di entrambe ad interessi sessuali devianti (Bogaert, 2001). Tuttavia, nessuno tra questi elementi sembra godere di una solidità tale da porsi come substrato biologico determinante della pedofilia.

La letteratura si è espressa anche sul versante neurologico identificando come la pedofilia si accompagni a delle compromissioni delle capacità cognitive del soggetto: ridotto QI, attenuazione dell’attenzione e ridotta flessibilità cognitiva (Cantor et.al, 2004). A tal proposito delle ricerche hanno impiegato la tecnica del tracciamento oculare (eye-tracking) come mezzo per valutare le preferenze sessuali devianti. Tale tecnica consente, mediante il tracciamento dei movimenti oculari dell’individuo, di identificare gli stimoli visivi che maggiormente attirano la sua attenzione e verso i quali direziona lo sguardo. Grazie all’eye-tracking è possibile realizzare un effettivo monitoraggio oculare dell’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione di determinati stimoli, osservando, ad esempio, la dilatazione e la contrazione delle pupille, ricavandone informazione sui processi attenzionali.

Renaud et al. (2013) hanno implementato un disegno sperimentale che prevedeva la misurazione dei movimenti oculari in tre gruppi durante la presentazione di immagini che ritraevano bambini o adulti. Il primo gruppo era costituito da pedofili, il secondo da autori di reati sessuali non pedofili ed infine il terzo gruppo era di controllo. I risultati hanno mostrato come i pedofili, rispetto agli altri, abbiano riportato dei tempi di fissazione significativamente più lunghi per gli stimoli raffiguranti bambini. Altri autori hanno implementato un disegno sperimentale simile in cui i soggetti erano chiamati a risolvere un compito cognitivo e parallelamente a questo venivano loro presentati degli stimoli sessuali: immagini di bambini o adulti (Jordan et.al, 2016). I partecipanti per riuscire nel compito erano chiamati ad esercitare un buon controllo dell’attenzione. Si evince come quest’ultimo sia venuto meno nei soggetti pedofili in cui gli stimoli raffiguranti dei bambini erano molto distraenti.

A parere di chi scrive risulta centrale riportare alcune evidenze circa lo sviluppo della pedofilia come fattore acquisito a seguito di lesioni cerebrali soprattutto prima dei 13 anni che avrebbero sortito un effetto iatrogeno sullo sviluppo neurale (Blanchard, 2003). Ulteriori studi osservano una generale ipersessualità a seguito dell’insorgenza di tumori cerebrali, accompagnata da cambiamenti di personalità e/o impulsività (Burns & Swerdlow, 2003). Nell’eventualità in cui in tali soggetti sviluppassero un interesse di tipo pedofilo questo era da considerare come acquisito a seguito del tumore e collocato in un quadro di ipersessualità favorito dalla malattia. Le evidenze sin qui esposte rendono difficile trarre delle conclusioni definitive sui correlati neurali della pedofilia.

Ultimo, non per importanza, aspetto da analizzare sotto il profilo biologico è quello ormonale. Appartiene allo scibile comune la credenza che i pedofili siano connotati da concentrazioni più elevate di testosterone, ma la scienza dimostra che ciò non corrisponde al vero. Nonostante questo, il trattamento per abbassare il testosterone (TLT) viene utilizzato su soggetti pedofili riducendo l’attivazione delle aree cerebrali collegate alle funzioni sessuali, con l’intento di diminuire il loro desiderio sessuale (Shiffer et.al, 2009). Quanto appena constatato va a supportare il fatto che neanche sotto il profilo ormonale sia possibile risalire ad un biomarcatore.

Si ritiene utile illustrare alcune delle tecniche ad oggi implementate per studiare l’interesse di tipo pedofilico.

Pletismografia del pene (PPG)

Appare rilevante ricordare che la pletismografia del pene è ritenuta una tecnica d’elezione per valutare l’interesse pedofilico, tanto da essere indicata dal DSM-5 come un elemento diagnostico aggiuntivo della pedofilia. Tale tecnica rileva l’interesse di tipo pedofilo attraverso le variazioni di circonferenza e volume del pene in risposta a stimoli sessuali (che variano per età e sesso) (McPhail et al., 2019). In altre parole, di fronte all’immagine di un bambino/a il soggetto pedofilo, rispetto al teleiofilo, ovvero colui che è attratto da persone adulte, mostrerà una oggettiva e misurabile eccitazione genitale. Si vuole infine sottolineare che il ruolo della pletismografia del pene è di supporto alla diagnosi e che di certo non può sostituirla.

Risonanza magnetica funzionale

Un’ulteriore tecnica rivelatasi promettente nell’assessment di un interesse sessuale deviante è quella della risonanza magnetica funzionale, la quale permette la raccolta di informazioni emodinamiche, ovvero della circolazione sanguigna del cervello in risposta a stimoli sessuali, certamente più affidabili, rispetto a questionari self-report, nell’individuazione di un interesse pedofilico della persona. L’idea di base è che gli aspetti rilevanti degli stimoli sessuali siano elaborati in maniera preferenziale, catturando l’attenzione del soggetto in maniera più rapida e significativa (Spiering et.al, 2007). Nella review di Jacobs et al. (2020) viene discusso come per ovviare alla possibile manipolazione dei soggetti che osservano passivamente diversi stimoli di natura sessuale, siano utilizzati stimoli visivi subliminali, ovvero una presentazione di stimoli per un tempo inferiore ai 50 ms, ovvero un quantitativo di tempo insufficiente affinché lo stimolo venga percepito ad un livello consapevole.

Approcci comportamentali

Infine, con l’introduzione dei marcatori “bio-comportamentali” Loth ed Evans (2019) suggeriscono l’utilizzo di approcci comportamentali per la valutazione oggettiva dell’interesse sessuale deviante. Questa valutazione può essere ad esempio fatta attraverso misurazioni dei tempi di reazione, misure di precisione in compiti cognitivi o valutazioni di valenza ed eccitazione rispetto ad uno stimolo (Jordan et al., 2020). Jordan e colleghi (2020) spiegano come questi possano rappresentare dei promettenti strumenti “oggettivi” per il processo diagnostico, come ad esempio il tempo di visualizzazione, basato sul fatto che il soggetto tenda ad osservare per un tempo maggiore uno stimolo per lui/lei erotico rispetto ad uno non-erotico, tuttavia i risultati emersi dagli studi scientifici mostrano effetti ancora troppo piccoli o moderati. Nonostante ciò, è proprio il DSM-5 (2014) ad elencare il tempo di visualizzazione tra i marcatori diagnostici del disturbo pedofilico.

Conclusioni

E’ innegabile come il disturbo pedofilico eserciti un peso notevole all’interno della società anche e soprattutto per la sofferenza fisica e psicologica di chi ne è vittima. Indagini condotte in Europa mostrano che 18 milioni di bambini siano vittime di abusi sessuali, con una prevalenza del 9.6% (13.4% nelle bambine e 5.7% nei bambini) (WHO, 2013). D’altro canto, studiare i processi psico-fisiologici di coloro i quali sviluppano tale disturbo può condurre ad una conoscenza più approfondita di una patologia tanto complessa; ciò consentirebbe infatti di agire, laddove possibile, in termini preventivi così da limitare i danni. Da una disamina di quanto presente in letteratura, emerge come la ricerca abbia ancora molto da fare in tal senso e gli studi riguardo ai possibili biomarcatori sono ancora in fase esplorativa. Come si è ampiamente ribadito, i biomarcatori non sono altro che proprietà oggettivamente misurabili che fungono da indicatori di processi biologici anomali e/o normali e il loro nesso con gli esiti clinici (Strimbu & Travel, 2010). Al termine delle evidenze argomentate, in linea con la letteratura (Jordan et al., 2020), è importante sottolineare come nel caso del disturbo pedofilico sia più opportuno parlare di un biomarcatore composito, ovvero di più parametri che, solo se considerati nel loro insieme, potrebbero rivelarsi utili per diagnosi, valutazione del trattamento e prevenzione in soggetti pedofili.

Dal punto di vista diagnostico, come è stato precedentemente illustrato, emerge la considerevole utilità derivante dall’utilizzo di biomarker che possano oggettivamente discriminare un soggetto pedofilo da uno con interessi sessuali teleiofilici, così come risulterebbe certamente vantaggioso poter valutare l’andamento dei trattamenti e della terapia, nonché i loro progressi, positivi o negativi, tramite l’utilizzo dei biomarcatori. Per esempio, come spiegano Jordan e colleghi (2020), i tempi di reazione visiva (Visual Reaction Times, VRT), che permettono di misurare l’interesse sessuale rispetto a degli stimoli (es. immagini di bambini) sulla base del tempo di visualizzazione di essi, possono essere utilizzati per il monitoraggio dell’andamento della terapia in soggetti con interesse sessuale pedofilico: tempi di reazione visiva minori ad ogni follow-up indicherebbero l’effettiva diminuzione dell’interesse pedofilico, nonché un esito positivo del trattamento (per approfondimento si veda: Gray, Abel, Jordan, Garby, Wiegel & Harlow, 2015).

Per quanto concerne il versante preventivo, lo studio di un biomarcatore composito della pedofilia risulterebbe particolarmente utile nel supporto e monitoraggio di soggetti pedofili. Infatti, grazie alla rete si è assistito, soprattutto in tempi recenti, al dilagare di una molteplicità di materiali pedopornografici, facilmente accessibili e diffusi attraverso chat, social, ecc., così come è sempre più agevole l’accesso al dark web, nel quale, come riportato dalla cronaca, sono spesso scoperte numerose chat nelle quali vengono diffusi video di violenze sessuali ai danni di minori. Un articolo del 2004 (Malesky & Ennis, 2004) sottolinea come la partecipazione ad un forum per individui che condividono tendenze pedofiliche rinforzi il senso di appartenenza dell’individuo e la tendenza a normalizzare la percezione dei propri interessi sessuali devianti in quanto condivisi con altre persone. Gli autori suggeriscono inoltre un utilizzo limitato di comunità virtuali per individui con interessi sessuali devianti e soprattutto per individui autori di reati sessuali, prediligendo per questi individui un focus sullo sviluppo e il consolidamento di relazioni sociali adulte. Se grazie ad un biomarcatore composito fosse dunque possibile non solo diagnosticare e valutare gli esiti dei trattamenti in soggetti pedofili, ma anche prevenire la fruizione o il contributo alla diffusione di questo materiale e la normalizzazione di questi atti da parte di coloro che potrebbero tramutare in azioni il contenuto di ciò che osservano e condividono, è chiaro quale importante strumento questo rappresenterebbe nel prevenire i rischi che ne conseguono.

 

Psicoterapia e neuroscienze: uno spazio di integrazione. Il successo della psicoterapia mostrato da specifici cambiamenti a livello cerebrale

La persona in terapia, durante il colloquio, rielabora ed interiorizza i messaggi inviati dal clinico, consentendo così la modifica delle aree implicate nel malessere emotivo. Il terapeuta, grazie al suo lavoro, potrà quindi promuovere dei comportamenti più adattivi e stati emotivi funzionali.

 

L’efficacia di un trattamento psicoterapico può essere verificato tramite molti strumenti, tra questi troviamo ad esempio l’utilizzo di questionari. Tuttavia, possiamo vedere l’efficacia di una psicoterapia anche grazie a tecniche neurofisiologiche che consentono di osservare i cambiamenti sul piano neurobiologico che questo intervento comporta (Basile, n.d.).

L’integrazione tra psicoterapia e studi di neuroscienze ha consentito in particolare di mostrare in maniera concreta quali sono gli effetti della psicoterapia sul cervello umano (Del Corno & Lingiardi, 2010).

Buona parte dei comportamenti messi in atto dalle persone, sono frutto di apprendimenti nel corso di vita e tutto ciò che viene appreso, viene impresso in memoria provocando dei cambiamenti nel nostro cervello. Grazie agli studi di neuroimaging, tecniche che consentono di verificare l’attività cerebrale, è emerso come anche la psicoterapia si basa su queste dinamiche e quindi, quando funziona, va a modificare i circuiti neuronali implicati nelle psicopatologie. Attraverso la psicoterapia, possono essere fissate in memoria nuove esperienze, più funzionali ad uno stato di benessere. Il cambiamento si basa sull’ importante relazione che si instaura tra terapeuta e paziente (Lazzerini & Cammarata, 2015).

La psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale, in particolare, ha diversi studi in quest’ambito che ne supportano l’efficacia per svariate condizioni psicopatologiche, con effetti paragonabili a quelli degli psicofarmaci.

Che cos’è una psicoterapia?

Con il termine psicoterapia si indicano diverse tipologie di tecniche terapeutiche accomunate dall’obiettivo di intervenire sulla sofferenza umana utilizzando metodi e strumenti psicologici.

La pratica della psicoterapia diventa di interesse scientifico verso la fine dell’Ottocento, discostandosi da pratiche quali lo sciamanesimo, l’esoterismo e così via.

Grazie allo sviluppo scientifico di nuovi modelli psicologici, le tecniche psicoterapiche si sono sempre più diversificate e ad oggi vi sono numerosi approcci che consentono di spiegare ed intervenire sul malessere psicologico. La psicoterapia offre al paziente uno spazio relazionale in cui potrà beneficiare di tranquillità, protezione e comprensione. La persona in terapia potrà sentirsi libera da accuse e criticismi, avendo modo di esprimersi con il terapeuta in piena fiducia. Inoltre, durante la psicoterapia, il paziente potrà fare propri alcuni aspetti positivi del terapeuta, come ad esempio determinati atteggiamenti e qualità. Tutto ciò avviene in un contesto relazionale che è regolato da vincoli etici e professionali, come ad esempio tempistiche, luogo e modalità del colloquio. Tali condizioni sono utili per tutelare la relazione d’aiuto che si instaurerà tra le parti.

Ogni psicoterapia sarà caratterizzata da rapporti relazionali molto diversi da paziente a paziente.

Il rapporto che si instaura tra terapeuta e paziente è comunque sempre basato sulla reciprocità: da un lato, consente al paziente di imparare a stare bene, dall’altro, anche il terapeuta impara qualcosa dal proprio paziente e che può aiutarlo ad esempio a migliorarsi come professionista. (Bressi & Invernizzi, 2017).

Il colloquio come mezzo di accesso alla mente

La psicoterapia si concretizza con i colloqui tra terapeuta e paziente. Un colloquio è uno scambio di interazioni tra due soggetti, non è assimilabile ad una comune conversazione, poiché è finalizzato ad un obiettivo che viene concordato tra le parti. In particolare, in ambito psicologico, il colloquio è indirizzato a comprendere il malessere della persona che si rivolge al clinico e grazie al quale potrà condurlo ad uno stato di maggiore benessere (Del Corno & Lang, 2005).

Il colloquio in ambito psicoterapico si differenzia da altre tipologie di colloqui, come potrebbe essere il colloquio con il giudice o con un poliziotto, poiché è finalizzato a comprendere la realtà psichica della persona che si rivolge al clinico (Semi, 2019).

Il colloquio psicologico richiede specifiche competenze professionali per essere gestito ed è parte di un percorso generalmente più lungo, l’esito di un lavoro che gradualmente si raffina. Durante il colloquio si addensano elementi professionali e tecnici, elementi umani e relazionali, si riattivano vissuti e si elaborano trasformazioni. Non si esaurisce mai a fine seduta, poiché psicologicamente continua sia nella mente del paziente che ne conserva il ricordo attraverso immagini e sensazioni, sia nella mente del clinico che rielaborerà il materiale attraverso osservazioni ed ipotesi, riflettendo anche sul suo stesso comportamento (Di Giorgio, 2018).

Come la psicoterapia modifica il cervello

Per diverso tempo i risultati della psicoterapia sono stati studiati mediante osservazione dell’attenuazione dei sintomi, di alcune nuove abilità psicologiche e più in generale, del miglioramento del funzionamento sociale del paziente. Questo la distingue dall’utilizzo degli psicofarmaci il cui effetto è dato dal solo cambiamento biologico a livello cerebrale. Grazie all’avvento delle tecniche di neuroimaging funzionale è stato possibile osservare i cambiamenti dei sistemi cerebrali che la psicoterapia comporta (Karlsson, 2011).

Studi di neuroimaging sui disturbi d’ansia hanno evidenziato come i sintomi (ad esempio mani sudate, voce esitante, agitazione motoria) sono attivati da specifici circuiti neuronali che predispongono ad identificare un pericolo e a preparare il corpo ad agire. Inoltre, grazie a queste tecniche, si è potuto osservare come l’amigdala e la corteccia orbitofrontale siano deputate a mantenere in memoria i ricordi spiacevoli che le persone possono accumulare nel corso della vita.

Durante il colloquio di psicoterapia, per accedere alla sofferenza del paziente, il terapeuta si rappresenta mentalmente la situazione e solo grazie a ciò potrà aver luogo l’intervento psicoterapico. La comprensione della sofferenza del paziente viene fatta trasparire da parte del clinico mediante segnali sul piano emotivo e cognitivo. Se questo importante processo va a buon fine, il paziente interiorizza gli stimoli che gli giungono dal terapeuta in modo positivo, poiché si sentirà capito. Questo processo fa sì che riattivino ed inibiscano le aree cerebrali deputate al mantenimento dello stato di sofferenza. Durante il corso della psicoterapia, il paziente inizierà ad associare il miglioramento del suo malessere e le emozioni positive che prova, alla figura del terapeuta facendo sì che si attivino le aree celebrali della ricompensa o quelle deputate alla ricezione di stimoli relazionali positivi, ovvero quelle zone cerebrali che consentono di accedere ad uno stato di piacere e di provare benessere. In un percorso di psicoterapia, in cui la persona si senta accolta e protetta, il terapeuta potrà quindi offrire uno spazio per ridefinire le proprie difficoltà sul piano emozionale.

Studi sulla relazione tra bambino e caregiver, ovvero la figura che presta cure, riportano inoltre come uno stile di attaccamento sicuro sia correlato in maniera positiva ad una diminuzione dell’attivazione dei circuiti deputati alle reazioni di allarme e ad una maggiore attivazione delle aree connesse alla sensazione di gratificazione. L’attaccamento sicuro è infatti un legame speciale che si instaura tra bambino e figura di accudimento, in un contesto di affetto, cura e protezione ed è connesso ad emozioni positive. La psicoterapia potrà essere quindi un percorso volto a promuovere questo legame speciale, che consentirà al clinico di poter accedere alla sofferenza del paziente. (Del Corno & Lingiardi, 2010).

Le neuroscienze hanno scoperto anche un importante gruppo di neuroni che sono implicati nel processo di psicoterapia: i neuroni specchio. Questa è una categoria di neuroni che ci consente di dare significato alle azioni degli altri quando li stiamo osservando, consentendoci di attribuirvi emozioni e intenzioni e quindi risultano estremamente utili per consentirci di muoverci all’interno delle interazioni sociali. Nello specifico i neuroni specchio (mirror neurons) sono una categoria di cellule neurali che consentono alle persone di imitare un comportamento che viene eseguito da un’altra persona: vedere svolgere uno specifico comportamento attiva tali neuroni, il che consente di codificare quella determinata azione e successivamente, di imitarla. Questa categoria di neuroni è fondamentale anche nel riconoscimento delle emozioni di chi ci sta difronte, perché ne consentono la codifica attraverso il volto e ci fanno immedesimare nelle emozioni che la persona che abbiamo di fronte prova. Sono quindi fondamentali per provare empatia (Matarazzo & Zammuner, 2015).

Il buon esito del percorso di psicoterapia deriverebbe in particolare dai continui rispecchiamenti tra i sistemi dei neuroni specchio delle due persone coinvolte. La persona in terapia potrà rispecchiare l’empatia del clinico interiorizzando il suo atteggiamento: le emozioni negative verranno attenuate dall’atteggiamento positivo ed equilibrato dello psicoterapeuta consentendo così che vengano sbloccati nuovi circuiti cerebrali volti ad una migliore gestione della sofferenza emotiva (Del Corno & Lingiardi, 2010).

Grazie agli studi delle neuroscienze e allo sviluppo delle tecniche di neuroimaging è stato possibile quindi osservare concretamente cosa succede al nostro cervello durante un percorso di psicoterapia e quali cambiamenti provoca su questo, cosa che un tempo non era possibile.

Studi di neuroimaging sugli interventi della TCC

Per diverso tempo i trattamenti psicoterapici sono stati sottoposti a diverse critiche a causa della loro carenza di basi scientifiche, attualmente si sta assistendo ad un importante cambiamento in quest’ambito e alcuni orientamenti psicoterapici promuovono i propri interventi basandoli su studi che ne provano l’efficacia. In particolare, la psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale è il trattamento che vanta il maggior numero di studi, anche in ambito neuroscientifico, che ne supportano l’efficacia per svariate condizione psicopatologiche tra le quali spiccano in particolare depressione maggiore, disturbi d’ansia e disturbo ossessivo-compulsivo. (Del Corno & Lingiardi, 2010). Questa psicoterapia si muove appunto a livello cognitivo, con una ristrutturazione dei pensieri negativi della persona e dei comportamenti, con prescrizioni comportamentali.

In particolare, studi di neuroimaging su soggetti con fobia sociale e sottoposti allo stimolo di dover parlare in pubblico, dopo un percorso di terapia cognitivo comportamentale, hanno evidenziato una normalizzazione dell’attività dell’amigdala, zona cerebrale coinvolta nel mantenimento di questa psicopatologia, esattamente come avviene con il trattamento mediante psicofarmaci. La medesima efficacia si è riscontrata nei casi di fobia specifica a cui alle persone era chiesto di esporsi allo stimolo temuto; a seguito del trattamento, durante l’esposizione i pazienti risultavano avere una minor attivazione delle zone cerebrali implicate nelle fobie. Anche per quanto riguarda gli studi sul disturbo depressivo maggiore, dal punto di vista neurocerebrale sono emersi risultati che provano l’efficacia della TCC in relazione agli psicofarmaci, riportando risultati anche più duraturi nel tempo (Bellamoli et al., n.d.).

Uno studio condotto da Linden e collaboratori nel 2006 in quest’ambito, ha avvalorato l’efficacia degli interventi della terapia cognitivo-comportamentale. In particolare dai risultati è emerso come questa sia efficace nei casi di disturbo ossessivo-compulsivo. Attraverso l’utilizzo di neuroimaging funzionale è stata riscontrata una riduzione dell’attività del nucleo caudato destro, implicata nella genesi e mantenimento di questa condizione psicopatologica, in maniera analoga all’utilizzo degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), categoria di psicofarmaci utilizzati per la cura di questo disturbo (Linden, 2006).

In conclusione

La psicoterapia, grazie ai suoi interventi mediati da fattori comunicativi ed emotivi consente quindi di accedere ai circuiti cerebrali del paziente modificandone la conformità. La persona in terapia, durante il colloquio, rielabora ed interiorizza i messaggi inviati dal clinico consentendo così la modifica delle aree implicate nel malessere emotivo. Il terapeuta, grazie al suo lavoro, potrà quindi promuovere dei comportamenti più adattivi e stati emotivi funzionali.

Grazie a questi importanti studi nel campo delle neuroscienze, possiamo comprendere concretamente quali dinamiche consentono alle persone che si sottopongono alla psicoterapia, di uscire dallo stato di sofferenza e ricominciare a stare bene, mostrando inoltre come la psicoterapia sia un importante mezzo di cura che non genera effetti collaterali.

 

Corpi in trasformazione e ritiro sociale. Quanto il diniego dei cambiamenti puberali incide sull’isolamento in adolescenza

In alcuni casi, durante l’adolescenza, il corpo può diventare un inquietante estraneo che fa prepotentemente la sua comparsa sulla scena psichica e impegna la mente nella ricerca di senso rispetto a sensazioni, impulsi e fantasie fino a quel momento inedite.

 

Inevitabilmente, quando si parla di adolescenza, non possono essere ignorate le profonde trasformazioni di ordine fisico, relazionale e psichico che caratterizzano questo periodo dell’arco di vita e che coinvolgono profondamente l’adolescente, richiedendogli un lungo e delicato processo di elaborazione e simbolizzazione, la cui risoluzione, in una prospettiva evolutiva, è lo strutturarsi dell’identità da parte del soggetto.

La pubertà può dunque perturbare il sentimento di familiarità che l’adolescente, fino a quel momento, ha intrattenuto con sé stesso e cimentarne la stabilità identitaria raggiunta fino ad allora. Il corpo può, in alcuni casi, diventare un inquietante estraneo che fa prepotentemente la sua comparsa sulla scena psichica e impegna la mente nella ricerca di senso rispetto a sensazioni, impulsi e fantasie fino a quel momento inedite. Solo gradualmente si giunge alla costruzione di una rappresentazione del nuovo corpo dotato di sesso, momento in cui l’adolescente approda ad una immagine di sé come adulto, con una specifica identità di genere (Monniello, 2016).

Affinché l’adolescente riesca a simbolizzare e farsi una rappresentazione psichica dei mutamenti, è necessario che disponga di uno spazio mentale sufficiente a poter pensare il nuovo corpo. In alcuni casi, invece, le trasformazioni somatiche, le nuove sensazioni e fantasie sessuali, possono essere sentite come eccessivamente invasive e difficilmente integrabili. Possono prodursi così svariate difficoltà nel processo di mentalizzazione dei cambiamenti, che possono culminare nella negazione di questi e ad un ripudio del corpo.

Il diniego delle trasformazioni puberali può giungere fino alle forme estreme di dissociazione mente-corpo, caratterizzate non soltanto da una mancata rappresentazione mentale del sé fisico ma da un corpo sensorialmente muto e costantemente allontanato dalla realtà mentale (Ruggiero, 2019).

Quando si denotano queste problematiche è spesso possibile rintracciare, nella storia evolutiva dell’adolescente, una difficoltà genitoriale nel distinguere il proprio corpo da quello dell’allora neonato e a pensare al funzionamento corporeo del loro figlio, come diverso e separato dal proprio. Quando infatti vi è la tendenza da parte del genitore, a spiegare ciò che osservano nel proprio bambino, riferendosi al proprio funzionamento mentale e corporeo, vi è una pressione nel ragazzo a far suo quel determinato funzionamento, finendo così per scindere, senza avere la possibilità di elaborare e simbolizzare, quelli che invece sono aspetti differenti e originali del proprio funzionamento corporeo e mentale (Ruggiero, 2019).

Queste situazioni avvengono tipicamente all’interno di relazioni caratterizzate da uno stringente contratto narcisistico (Kaës, 2010) fatto di vincoli rigidi e forti idealizzazioni familiari in cui l’adolescente si ritrova bloccato. All’interno di queste dinamiche i genitori vivono il ragazzo come un prolungamento non differenziato di sé, minandone così l’acquisizione di capacità elaborative e simboliche soggettive necessarie perché l’adolescente svolga quello che Raymond Chan chiama “soggettivazione” (Chan, 1998), cioè un processo di differenziazione che coincide con la sensazione, da parte dell’individuo, di sentire di disporre di un corpo sessuato, di un proprio pensiero e di una propria modalità creativa e originaria di presenziare al mondo, il cui procedere comincia dall’appropriazione soggettiva dell’adolescente della propria motricità, sensorialità ed esperienza percettiva, che si attivano e arricchiscono con gli stimoli sensoriali puberali (Monniello, 2016).

Il quadro si fa ulteriormente complesso se si considera che in adolescenza, insieme all’affiorare delle pulsioni, c’è un riproporsi del complesso edipico.

L’aumento della forza e le effettive possibilità fisiche maturate con l’adolescenza, spaventano inconsciamente l’adolescente e lo inducono non solo ad allontanarsi dai genitori ma anche ad assumere su sé stesso quegli aspetti adulti e di responsabilità prima affidati alle figure genitoriali, rispetto la propria vita, la propria autonomia ed emancipazione. Tutto questo implica la necessità di uno scontro-confronto con i propri genitori i quali si oppongono e promuovono questa dinamica di responsabilizzazione in un modo non meno ambivalente dei  propri figli (Loewald, 1979).

Ma in contesti familiari invischianti, l’adolescente può non avere gli strumenti mentali per procedere in questo secondo processo di separazione e individuazione e perciò sentirsi non legittimato e paralizzato rispetto ad un processo che porterebbe a differenziarsi, avvertendo come sbagliati questi nuovi impulsi e sentendosi inadeguato e spaventato nel presentarsi così mostruoso agli occhi degli altri.

Il ragazzo che difensivamente attiva una dinamica dissociativa nei confronti dei cambiamenti in atto, finirà con l’avvertire di star subendo in maniera passiva queste trasformazioni e si porrà, rispetto ad esse, in un atteggiamento di remissione e isolamento, come una vittima il cui aguzzino, oltretutto, è il proprio corpo.

Il ritiro sociale può allora assumere, per l’adolescente, una valenza anestetizzante e difensiva nei confronti di quei vissuti conflittuali e angoscianti attivati da trasformazioni avvertite come troppo perturbanti e invasive.

L’isolamento, nei vari modi in cui va delineandosi, può esser categorizzato come un fenomeno ricercato oppure subito (Corsano et al., 2011).

L’isolamento subito si manifesta con l’emarginazione e la denigrazione di un ragazzo da parte del gruppo dei pari. Questa situazione ripropone e conferma il vissuto di passività avvertito dall’adolescente nei confronti dei mutamenti puberali a cui il proprio corpo è esposto, poiché è proprio in quei ragazzi con un difetto integrativo della relazione mente-corpo che si evincono maggiormente caratteristiche come goffaggine, meccanicità, disarmonia e sbadataggine (Monniello, 2016).  D’altro canto, le stesse vessazioni utilizzate dai gruppi dei pari altro non sono che una modalità per proiettare e allontanare da loro stessi quei sentimenti di estraneità e inadeguatezza a cui il loro stesso sé è sottoposto e di cui l’adolescente con più evidenti difficoltà integrative, diventa ricettacolo e capro espiatorio.

L’isolamento ricercato può invece configurarsi secondo modalità comportamentali e aspetti mentali diversi:

  • Un ritiro all’interno degli ambiti accademici. Questa declinazione coincide con quei casi in cui, a seguito della dissociazione mente-corpo, il sé psichico giunge a coincidere con la totalità del sé e il soggetto è dominato da un’estrema intellettualizzazione e razionalizzazione. Queste persone risultano particolarmente promettenti negli studi professionali e il successo ottenuto in tali ambiti permette loro di rinsaldare la propria autostima e senso di autoefficacia, che tuttavia si scontra con una difficoltà a relazionarsi col mondo e le altre persone.
  • Un rifugiarsi all’interno di mondi di fantasia fatti di videogiochi, film o serie tv. Il controllo dato dal riuscire a gestire ciò che accade nel gioco o sulle emozioni che si riescono a sperimentare a seconda del film o serie tv che si sceglie di guardare; la semplicità con cui è possibile variare o interrompere date emozioni, premendo semplicemente un tasto, permette all’adolescente di entrare in un’atmosfera onnipotente e di avere l’illusione momentanea di essere tornato a padroneggiare la realtà psichica e somatica. Questa modalità di ritiro, in particolare, può manifestarsi in quegli adolescenti in cui la rinuncia all’utilizzo di modalità difensive più infantili verso altre più adulte risulta più conflittuale e difficile.
  • Infine, possiamo osservare un ritiro sociale la cui funzione è creare uno spazio in cui isolarsi da quell’ambiente che impedisce il compito evolutivo dell’adolescenza. L’adolescente che, in maniera preconscia cerca l’isolamento con questo scopo, può sentire il bisogno di star solo per elaborare, riflettere su sé stesso, crearsi gradualmente un proprio pensiero e compiere delle scelte autonome (Corsano, 2003). Il soggetto cerca così di sperimentare un’autonomia nella presa di responsabilità della propria vita, facendosi carico delle proprie decisioni, sensi di colpa e conseguenze delle proprie azioni (Palmonari, 2011). Tuttavia, anche la traiettoria di questa terza modalità rimane di dubbia utilità poiché l’adolescente non ha ancora completato l’interiorizzazione dell’imago parentale che gli fornisce il supporto necessario ad un’autentica autonomia psichica (Cahn, 1998) e il ragazzo, così facendo, si trova a privarsi del confronto e rispecchiamento dato dallo sguardo genitoriale e dei pari che, in questo momento della sua vita, rivestono un ruolo centrale.

 

La Sindrome da alimentazione notturna e la sua relazione con il nevroticismo

La Sindrome da alimentazione notturna (Night Eating Syndrome-NES) è stata inserita, all’interno del DSM-5, nella categoria dei Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione non altrimenti specificati (American Psychiatric Association, 2013).

 

Essa è associata da una perdita di appetito al mattino, iperfagia serale, ingestioni notturne e disturbi del sonno e dell’umore (Runfola et al., 2014). Ulteriormente, può essere definita come il consumo di almeno il 25% dell’apporto calorico giornaliero dopo il pasto serale e/o il risveglio notturno, con ingestioni che si presentano almeno due volte a settimana.

Gli individui affetti da tale sindrome sono consapevoli delle loro abbuffate notturne e sperimentano un disagio e senso di colpa o, in casi più gravi, una compromissione del funzionamento, con segni e sintomi che perdurano per almeno tre mesi (Allison et al., 2010).

La Sindrome da alimentazione notturna, essendo associata ad un considerevole aumento dell’assunzione di cibo, determina un aumento indesiderato del peso e, di conseguenza, può condurre all’obesità (Gluck et al., 2011).

È bene specificare, però, che il fenomeno delle abbuffate notturne è associato anche ad una scarsa qualità del sonno (Yahia et al., 2017), ad un elevato umore negativo (He et al., 2018), alla dipendenza dal cibo (Nolan & Geliebter, 2016), alla cosiddetta “fame emotiva” (Nolan & Geliebter, 2012) ed ai disturbi da uso di sostanze (Lundgren et al., 2006).

Precedenti revisioni sistematiche hanno suggerito che anche il nevroticismo, ovvero quel tratto della personalità caratterizzato da una prevalenza di emozioni negative, insicurezza e vulnerabilità (Costa & McCrae, 1992), è positivamente associato alla sintomatologia connessa ai disturbi alimentari (Cassin & Von Ranson, 2005), nonché un fattore predisponente per lo sviluppo dei suddetti (Lilenfeld, Wonderlich, Riso, Crosby, & Mitchell, 2006). Tuttavia, nessuno studio empirico ha esaminato la possibile relazione tra nevroticismo e alimentazione notturna ma, sulla base dei risultati delle revisioni sistematiche, è possibile ipotizzare che il suddetto tratto possa essere un considerevole predittore delle abbuffate notturne.

A ciò va aggiunto che, secondo alcuni studi esiste una stretta relazione tra l’alimentazione notturna e il distress psicologico (He et al., 2018), una condizione che può comportare la manifestazione di sintomi depressivi e/o ansiosi (Préville, Boyer, Potvin, Perreault, & Légaré, 1992). Difatti, i pazienti affetti dalla sindrome da alimentazione notturna hanno ricondotto l’insorgenza di quest’ultima ad eventi di vita estremamente stressanti (Allison, Stunkard, & Thier, 2004). In occasione di tali avvenimenti, la “cascata” neuro-endocrinologica coordinata da cortisolo, insulina, grelina (ormone della fame) e leptina (ormone della sazietà), influisce sulle modalità di assunzione del cibo (Masih, Dimmock, Epel, & Guelfi, 2017). Allo stesso tempo, lo stress può alterare il sistema di attivazione della ricompensa, incrementando la ricerca di cibi “comfort” altamente appetibili e ricchi di grassi, in modo tale da poter ottenere una ricompensa da questi ultimi (Morris et al., 2015).

Un aspetto particolarmente rilevante nell’ambito della problematica dello stress e, dunque, del disagio psicologico, concerne le strategie di coping, ovvero quei meccanismi di difesa che l’individuo mette in atto per far fronte ad avvenimenti percepiti come stressanti o comunque ritenuti superiori alle proprie capacità (Lazarus & Folkman, 1984). Talvolta però, è possibile mettere in atto delle strategie di coping tentando di ridurre il disagio psicologico percepito, finendo però con mantenere – o rinforzare – le emozioni e le sensazioni fisiche negative (Umeh, 2004), dando vita a dei meccanismi di difesa disfunzionali.

Alcuni autori hanno scoperto che gli studenti universitari, che sperimentano livelli elevati di stress, hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti alimentari notturni, a causa dell’uso di strategie di coping disfunzionali (Wichianson et al., 2009).

Sulla base di quanto appena esposto, è stato ipotizzato che possa esistere una relazione tra nevroticismo ed alimentazione notturna e che questa relazione possa essere mediata dal distress psicologico e dalle strategie di coping disadattive.

Al fine di dimostrare tali ipotesi, un gruppo di ricercatori ha reclutato 578 studenti universitari con un’età media di 20 anni e un indice di massa corporea di 20,61 kg/m2.

Rispetto agli strumenti utilizzati, al fine di valutare il tratto del nevroticismo, ai partecipanti è stato somministrato il Revised Eysenck Personality Questionnaire Short Scale (Qian, Wu, Zhu, & Zhang, 2000) mentre, per quanto concerne la valutazione della sintomatologia connessa alla sindrome da alimentazione notturna, gli studenti hanno completato il Night Eating Questionnaire (Tu, Tseng, Chang, & Lin, 2017).

La Depression Anxiety Stress Scale (Gong, Xie, Xu, & Luo, 2010) e il Simplified Coping Style Questionnaire (Xie, 1998) sono stati utilizzati per stimare, rispettivamente, il distress psicologico e le strategie di coping maladattive.

I risultati ottenuti hanno mostrato che il nevroticismo era positivamente correlato al fenomeno delle abbuffate notturne e che questa relazione era mediata dal distress psicologico, ma non dal coping disadattivo.

La scoperta dell’esistenza di una relazione tra il nevroticismo e i comportamenti alimentari notturni è coerente con i risultati di studi precedenti che hanno mostrato un’associazione tra il suddetto tratto e altri comportamenti alimentari disordinati (Ferguson, Munoz, Winegard, & Winegard, 2012). Dunque, gli individui che presentano livelli più elevati di nevroticismo, che mostrano pertanto una considerevole variabilità dell’umore, ed una maggiore insicurezza, sono da considerarsi come soggetti maggiormente a rischio per quanto concerne lo sviluppo di comportamenti alimentari inadeguati, in cui rientrano le abbuffate notturne.

All’interno di tale relazione si inserisce l’effetto di mediazione svolto dal distress psicologico, che porta ad ipotizzare che l’associazione sopradescritta possa essere in gran parte spiegata dalla presenza di questa variabile, ma saranno necessari ulteriori studi al fine di verificare se possano esservi altri fattori che possano mediare l’associazione tra nevroticismo ed alimentazione notturna.

Ad ogni modo, i risultati emersi comportano delle considerevoli implicazioni dal punto di vista clinico. In primo luogo, la presenza di alti livelli di nevroticismo dei pazienti potrebbe fungere da campanello d’allarme rispetto alla messa in atto di comportamenti alimentari notturni.

In secondo luogo, la scoperta del ruolo di mediazione svolto dal distress psicologico potrebbe essere particolarmente significativo per la pianificazione del trattamento. Difatti, il distress psicologico risulta essere maggiormente suscettibile al cambiamento, anche attraverso interventi a breve termine (Deckro et al., 2002), rispetto al nevroticismo.

 

ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento (2021) A cura di Claudio Mencacci e Giovanni Migliarese – Recensione del libro

Il volume ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento è diviso in cinque parti, nella prima si affrontano l’eziologia e le manifestazioni sintomatologiche, nella seconda l’iter della valutazione diagnostica, nella terza la progettazione dell’intervento e nella quarta la comorbilità.

 

L’Attention Deficit and Hyperactivity Disorder (ADHD) descrive una modalità di funzionamento con esordio in età evolutiva che spesso permane, influenzando il soggetto in tutte le fasi della vita. Si caratterizza per una gestione problematica dell’attenzione che genera difficoltà e fallimenti e condiziona la qualità della vita di chi intrattiene il disturbo. Recenti studi epidemiologici attestano che questa sindrome si presenta in modalità eterogenee, impulsività, disorganizzazione, disattenzione, iperattività, disregolazione emotiva, possono variare da soggetto a soggetto e nello stesso individuo in momenti diversi, e colpisce circa il 2,8% della popolazione con età maggiore di diciotto anni.

Fare diagnosi per questi motivi non è semplice e sono necessarie una buona formazione e competenze specifiche. Il testo ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento si propone come riferimento per fornire indicazioni circa l’eziologia, le manifestazioni cliniche, la diagnosi e il trattamento.

Il volume è diviso in cinque parti, nella prima si affrontano i temi legati all’eziologia e alle manifestazioni sintomatologiche, nella seconda è trattato l’iter complesso della valutazione diagnostica, nella terza si prende in considerazione la progettazione dell’intervento, nella quarta si approfondisce la comorbilità, perché spesso nell’adulto il disturbo si trova sovrapposto ad altra psicopatologia, mentre l’ultima parte si apre agli sviluppi della clinica e della ricerca.

Il testo è stato scritto a più mani, e ogni capitolo può essere letto come un contributo autonomo all’interno di un’impostazione unitaria e organica. Gli autori hanno maturato una lunga esperienza sul tema.

L’obiettivo che si sono posti è quello di sviluppare un’attenzione scientifica sul disturbo e proporre il testo come un primo contributo di riferimento da cui partire per un’ampia riflessione.

Nel trarre le conclusioni, infatti, Mencacci e Migliarese sperano in una sempre maggiore partecipazione e coinvolgimento nelle esperienze innovative di trattamento legate alla sperimentazione di tecnologie bio-mediche e interventi psicologici personalizzati per permettere uno sviluppo rapido e coordinato della ricerca scientifica e della pratica clinica.

Il volume ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento tratta in modo accurato il disturbo con un’impostazione biologica, psicologica e sociale. Rappresenta un’ottima lettura per chi tratta l’ADHD sia in età evolutiva, sia nell’adulto nei servizi pubblici o in regime di libera professione.

Cognizione ed emozioni nell’invecchiamento

Si parla spesso di “paradosso dell’invecchiamento” intendendo quel fenomeno per cui, nonostante all’aumentare dell’età ci sia un deterioramento a livello fisico e cognitivo, la capacità di controllare l’esperienza e l’espressione delle emozioni funziona efficacemente e può addirittura migliorare.

 

L’avanzare dell’età porta con sé una serie di cambiamenti a livello fisico-sensoriale, cognitivo, sociale ed emotivo-motivazionale oltre che una forte eterogeneità: non tutti gli anziani sono uguali, ma vi è una notevole variabilità intra e interindividuale determinata dalle esperienze di vita, dalle opportunità educative avute, dal contesto familiare, dal tipo di lavoro svolto (De Beni & Borella, 2015). L’invecchiamento è, dunque, un fenomeno multidimensionale e multidirezionale in quanto le varie dimensioni che caratterizzano l’individuo seguono traiettorie differenti.

La risposta dell’anziano sano alla diminuzione dei propri ambiti di efficacia, spiegata dalle normali perdite fisiologiche e sensoriali dettate dall’età, è delineata dal modello SOC (Baltes & Baltes, 1990) secondo cui l’individuo è in grado di mantenere un adeguato livello di funzionamento per mezzo di tre processi: la selezione, l’ottimizzazione e la compensazione. Tramite la selezione restringe il proprio campo d’azione individuando degli obiettivi prioritari, per mezzo dell’ottimizzazione investe le proprie energie e adopera le risorse disponibili per raggiungere gli obiettivi prefissati e infine tramite la compensazione mette in atto strategie volte ad arginare i deficit.

Cambiamenti cognitivi

Per quanto riguarda i meccanismi cognitivi di base, l’età sembra avere un effetto diretto sulla memoria di lavoro o mediato da inibizione e velocità di elaborazione (Birren, 1959; Borella et al., 2008). È stato dimostrato, per esempio, che gli anziani hanno maggiore difficoltà a sopprimere informazioni e item attivati precedentemente ma che nel compito attuale non sono rilevanti, portando a una saturazione della memoria di lavoro (Hasher & Zacks, 1988).

Anche l’intelligenza subisce dei cambiamenti e in questo contesto è necessario far riferimento al modello bifattoriale dell’intelligenza di Horn e Cattell (1966), che distingue l’intelligenza fluida da quella cristallizzata. La prima, determinata biologicamente, è legata alla comprensione di nuovi dati, all’adattamento a nuove situazioni e problemi; la seconda, strettamente influenzate dalla cultura, è legata all’esperienza e alle conoscenze e capacità acquisite con essa. Questi due tipi di intelligenza nell’arco di vita seguono traiettorie ben distinte: la cristallizzata, misurata di solito con prove di vocabolario, rimane stabile con l’età, mentre la fluida, misurata con prove di ragionamento, tende a declinare.

Per quanto riguarda le prestazioni mnestiche, gli effetti legati all’età non sono uniformi ma alcuni sistemi di memoria ne risentono più di altri (De Beni & Borella, 2015). I sistemi più compromessi risultano essere la memoria di lavoro, la memoria prospettica, la memoria a breve termine visuo-spaziale e la rievocazione episodica (in quanto richiede un accesso consapevole o controllato alle informazioni), mentre la memoria a lungo termine, esplicita e implicita, risulta preservata. Bopp e Verhaeghen (2005) in una meta-analisi hanno evidenziato che le differenze tra giovani e anziani sono più accentuate in prove di memoria di lavoro rispetto a prove di memoria a breve termine poiché queste ultime richiedono, rispetto alle prime, il solo mantenimento passivo delle informazioni.

Questi cambiamenti possono essere spiegati a livello anatomico da una riduzione progressiva del volume cerebrale, un assottigliamento delle circonvoluzioni e allargamento dei solchi e ventricoli (De Beni & Borella, 2015). L’atrofia risulta essere specialmente a carico della corteccia prefrontale e parietale e dell’ippocampo, spiegando così i cambiamenti cognitivi, specie attentivi e mnesici (Raz, 2000). A ciò si aggiungono cambiamenti nelle strutture dendritiche, nella mielinizzazione delle fibre nervose e nella sintesi, produzione e ricaptazione di vari neurotrasmettitori, in particolar modo nelle vie dopaminergiche frontostriatali, la cui minore densità spiegherebbe nell’anziano l’aumento dei tempi di reazione.

Infine, bisogna considerare anche il ruolo della metamemoria, ovvero della metacognizione relativa alla memoria. Gli anziani sembrano, infatti, avere concezioni fatalistiche della dimenticanza e pessimismo verso le proprie capacità mnestiche (De Beni & Borella, 2015).

Le emozioni nell’invecchiamento

Riguardo alle emozioni, si parla spesso di “paradosso dell’invecchiamento” intendendo quel fenomeno per cui, nonostante all’aumentare dell’età ci sia un deterioramento a livello fisico e cognitivo, la capacità di controllare l’esperienza e l’espressione delle emozioni funziona efficacemente e può addirittura migliorare (Charles & Carstensen, 2003). A questo consegue il cosiddetto “effetto positività”, secondo cui gli anziani avrebbero la tendenza a prediligere ricordi positivi ai fini del loro benessere o a rielaborare vicende negative del passato in chiave positiva.

Tra i vari approcci teorici che trattano l’elaborazione emotiva nell’invecchiamento di particolare importanza è la teoria della Selettività Socioemotiva (Carstensen et al., 2003) secondo cui all’aumentare dell’età si riscontra una maggiore selettività nelle scelte e nelle relazioni sociali finalizzata alla soddisfazione emotiva. Secondo Carstensen e colleghi, con l’invecchiamento il tempo davanti a sé viene percepito come limitato per cui le proprie azioni sono guidate principalmente da obiettivi emotivi, volti a raggiungere la soddisfazione emotiva attraverso una regolazione della rete sociale incentrata su pochi contatti ma sicuri e familiari. Una serie di studi ha infatti dimostrato che giovani e anziani prediligono esperienze emotive diverse: i giovani mostrano una maggiore attenzione verso gli aspetti negativi di un evento (Baumeister et al., 2001) mentre gli anziani dimostrano maggior interesse per quelli positivi (Mather & Carstensen, 2005).

Cognizione ed emozione

Gli effetti della regolazione emotiva sugli anziani possono essere riscontrati anche in compiti cognitivi di tipo verbale. Un esempio è lo studio di Mammarella e colleghi (2013) che ha indagato le differenze di età tra giovani (20-33 anni), giovani-anziani (60-73 anni) e anziani-anziani (75-85 anni) in una versione affettiva del classico Working Memory Operation Span Test. Esso includeva parole neutre, negative e positive e i risultati hanno mostrato che le parole emotive possono compensare il declino correlato all’età quando è richiesta la memoria di lavoro. Infatti, in linea con gli studi precedenti, i giovani hanno avuto in generale una performance più elevata rispetto agli anziani (ad esempio, Borella et al., 2008), inoltre hanno mostrato un pregiudizio di negatività, ricordando più parole negative che positive. Il risultato più interessante è stato che tutti i partecipanti anziani hanno mostrato un pregiudizio di positività rispetto al gruppo più giovane in quanto hanno richiamato un maggior numero di parole positive rispetto alle neutre. Si è quindi concluso che stimoli emotivi possono influenzare le differenze legate all’età in un compito classico di memoria di lavoro.

Gli anziani presentano un effetto positività anche in altri compiti cognitivi di richiamo e riconoscimento di stimoli. In uno studio (Charles, Mather & Carstensen, 2003) giovani e anziani sono stati confrontati, dopo un compito di distrazione, sul richiamo del maggior numero possibile di stimoli visti in precedenza, distinguendoli da un insieme di nuovi e vecchi stimoli. Gli stimoli in questione erano immagini al computer positive, negative e neutre: il numero di immagini negative richiamate e riconosciute era diminuito rispetto alle neutre e positive con l’aumentare dell’età. Tali risultati sono quindi coerenti con la teoria della selettività socio-emotiva secondo cui ci sarebbe un maggiore investimento nella regolazione emotiva con l’aumentare degli anni.

Dunque, con l’invecchiamento si assiste a un normale declino fisico e cognitivo, che coinvolge principalmente la memoria di lavoro, rendendo più difficoltose molte attività quotidiane. Al contrario, la regolazione emotiva funziona efficacemente e può addirittura migliorare con l’età. Gli effetti del paradosso dell’invecchiamento sono riscontrabili anche in compiti cognitivi, come dimostrato dalla letteratura.

 

L’ acne in età adulta: un problema medico (ma non solo)

A tutti sarà certamente capitato, davanti allo specchio, di scorgere sul proprio volto una macchiolina rossa, sporgente. Che un’imperfezione (detta volgarmente “brufolo”) appaia, di tanto in tanto, è normale. Tuttavia, quando questa impurità si fa più diffusa, ci possiamo trovare di fronte ad un vero e proprio problema di acne.

 

L’acne, scientificamente classificata con il nome di “acne vulgaris”, è una condizione infiammatoria cronica della pelle che colpisce l’unità pilosebacea, ovvero il complesso costituito dalla ghiandola produttrice di sebo e dal follicolo pilifero (affossamento dell’epidermide in cui risiede il pelo). Si tratta di un disturbo comune della pelle – contraddistinto da comedoni, papule, pustole, noduli e cicatrici (Zaenglein et al., 2016) – che può essere scatenato o peggiorato da fattori sia endogeni (predisposizione genetica, concentrazioni ormonali,…) che esogeni (alimentazione, fumo, stress, mascherina COVID-19,…). Riguarda in particolar modo gli adolescenti ma non risparmia nemmeno gli adulti.

Acne in età adulta

Per ragioni ancora in parte sconosciute, negli ultimi venti anni l’acne è aumentata di frequenza anche in età adulta, fase della vita in cui si osserva una maggiore prevalenza di casi nelle femmine piuttosto che nei maschi (Dréno, Bagatin, Blume-Peytavi, Rocha, & Gollnick, 2018) ed in cui tale malattia cronica assume caratteristiche differenti rispetto alla giovinezza (ad esempio, lesioni infiammatorie più pronunciate su mento, mascella e collo e più punti bianchi che neri) (Dréno et al., 2013).

L’acne in età adulta può persistere dall’adolescenza oppure può esordire per la prima volta verso i 20-25 anni, fascia di età a cui la letteratura tende a ricondurre la sua insorgenza nella fase post-adolescenziale (Preneau, & Dréno, 2012). Risulta essere caratterizzata da un andamento cronico con ricadute frequenti (Dréno, 2015) e da una gravità solitamente di tipo lieve-moderato (Dréno et al., 2013). Sebbene non tenda alla severità, essa pare provocare maggiore stress nelle donne adulte che in quelle giovani (Dréno, Bagatin, Blume-Peytavi, Rocha, & Gollnick, 2018).

In queste ultime, diverse ricerche hanno rilevato la presenza di: depressione, ansia sociale, pensieri suicidari (Golchai, Khani, Heidarzadeh, Eshkevari, Alizade, & Eftekhari, 2010; Halvorsen, Stern,  Dalgard, Thoresen, Bjertness, & Lien, 2011), imbarazzo, compromessa immagine di sé, bassa autostima, frustrazione e rabbia (Magin, Adams, Heading, Pond, & Smith, 2006).

Che l’acne abbia conseguenze non solo sul fisico ma anche sul piano sociopsicologico è ormai dimostrato: le persone con acne soffrono tanto quanto i pazienti affetti da malattie sistemiche (diabete, asma, artrite,…) (Zeichner, 2013) e mostrano spesso un decremento nella produttività e nella performance (lavorativa o scolastica) (Tan, 2004). In letteratura, tuttavia, scarseggiano gli studi relativi all’impatto psicosociale dell’acne in età adulta (Altunay et al., 2020).

Effetti dell’acne in età adulta

L’acne in femmine post-adolescenti, benché venga presa poco in considerazione, appare colpire sempre di più: i ricercatori che analizzano i dati epidemiologici hanno registrato un notevole incremento in donne a partire dai 26 anni (Rocha, Sanudo, & Bagatin, 2017). Essa sembra talvolta essere resistente al trattamento (Dréno et al., 2013) e pare avere un maggiore impatto negativo sulla qualità della vita nelle femmine post-adolescenti piuttosto che adolescenti (Dréno, 2015).

In una ricerca che ha esaminato l’acne in differenti gruppi di età, i punteggi totali relativi alla qualità di vita (Quality of Life, QoL) peggioravano più la malattia durava nel tempo (Tan et al., 2008). In un’altra compiuta su un campione di 38 donne dai 26 ai 44 anni con un’acne lieve-moderata i punteggi all’Acne-Quality of Life (AQOL), strumento psicometrico specifico per l’acne, risultavano bassi in tutti i domini (Rocha, Sanudo, & Bagatin, 2017).

Tali risultati sono in accordo con gli studi finora esistenti e dimostrano che le lesioni dell’acne provocano nella fase di vita adulta importanti conseguenze psicosociali, che sorprendentemente non appaiono sempre correlare con il grado di intensità del disturbo stesso.

In uno studio multicentrico che ha coinvolto 213 pazienti adulte colpite da un’acne non grave e 213 controlli (individui senza alcun problema di pelle) provenienti da 13 Paesi europei, si è visto che i punteggi ad una scala per l’ansia e per la depressione (The Hospital Anxiety and Depressione Scale, HADS) non si legavano con la gravità o con la durata del disturbo dermatologico bensì con il livello di preoccupazione circa la malattia (Altunay et al., 2020).

In linea con ciò, vari ricercatori (Niemeier,  Kupfer, Demmelbauer-Ebner, Stangier, Effendy, & Gieler, 1998; Uslu, Sendur, Uslu, Savk, Karaman, & Eskin, 2008; Welp, & Gieler, 1990; Yazici et al., 2004) hanno constatato che le problematiche mentali non si associavano alla severità oggettiva dell’acne.

Quanto menzionato può significare, da una parte, che gli effetti psicologici dell’acne appunto non correlano necessariamente con la severità della malattia; dall’altra che, piuttosto che la gravità, potrebbero essere i fattori individuali (ad esempio, disturbi di personalità, temperamento, percezioni dell’immagine corporea,…) ad influire sulla sfera psicologica dei pazienti adulti con l’acne.

Alcuni studi supportano quest’ultima ipotesi. Sarkar (Sarkar, Patra, Mridha, Ghosh, Mukhopadhyay, & Thakurta, 2016) ha trovato che i disturbi di personalità (in particolare, il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, il disturbo evitante ed il disturbo borderline) erano presenti nel 29.2% di un campione di 65 pazienti con l’acne e che i pazienti con un disturbo di personalità mostravano più sintomi di ansia e di depressione. Ozturk (Ozturk, Orhan, Ozer, Karakas, Oksuz, & Yetisir, 2013) ha scoperto che alcune tendenze temperamentali (come quella a preoccuparsi e ad essere pessimisti) risultavano più frequenti nelle persone con l’acne piuttosto che nei controlli tanto che hanno suggerito di includere nel trattamento per i pazienti affetti da tale condizione cronica un assessment mirato sul temperamento e sulla personalità. E ancora, Turan (Turan, Turan, & Özbağcıvan, 2020) ha visto che i pazienti del suo campione, affetti da acne, mostravano punteggi significativamente più elevati alla scala che misurava le difficoltà nella regolazione delle emozioni (Difficulties in Emotion Regulation Scale, DERS) rispetto a 100 controlli sani.

Quest’ultima indagine non è stata effettuata su un campione di soggetti adulti, bensì su 96 ragazzi con acne, aventi dai 12 ai 17 anni. Nonostante ciò, essa depone a favore dell’ipotesi sopra menzionata. Ossia che, più della gravità del disturbo dermatologico in oggetto, a costituire per i pazienti un “carico” dal punto di vista psicosociale siano altre variabili. Tra queste, potrebbe esserci il deficit nella regolazione delle emozioni.

Secondo la ricerca scientifica, le difficoltà nella regolazione emotiva, oltre a rappresentare uno degli aspetti chiave dei disturbi di personalità, contribuiscono allo sviluppo ed al mantenimento dei disturbi mentali (ansia, depressione, panico, fobia sociale, disturbo da stress post-traumatico…). Di conseguenza, diversi studi riportano come promettente target transdiagnostico di trattamento e di prevenzione la focalizzazione sulla promozione delle abilità di regolazione delle emozioni (Turan, Turan, & Özbağcıvan, 2020).

Le indagini citate indicanti un nesso tra l’acne e la difficoltà a regolare le emozioni e tra l’acne e svariate altre psicopatologie, benché necessitino di approfondimenti in campioni di adulti e di fare maggiore chiarezza a fronte di alcuni risultati riportanti una correlazione tra la gravità dell’acne e la depressione e tra la severità dell’acne e l’ansia (Layton, Seukeran, & Cunliffe, 1997; Lukaviciute, Navickas, Navickas, Grigaitiene, Ganceviciene, & Zouboulis, 2017), sottolineano l’importanza di considerare nel trattamento dell’acne la presenza di eventuali disturbi concomitanti e di trasmettere ai pazienti abilità efficaci di regolazione delle emozioni.

Ignorare il link tra l’acne ed eventuali sintomi psicologici così come trascurare una possibile componente psichiatrica sottostante potrebbe infatti esitare proprio in una peggiore qualità di vita ed in sintomi di ansia e di depressione.

Questi ultimi, nel recente studio di Cengiz (Cengiz, & Gurel, 2020), risultavano associarsi positivamente con i punteggi alla DERS-16. I pazienti con acne presentavano inoltre, a differenza dei controlli, maggiori difficoltà nella regolazione emotiva che, a sua volta, prediceva la qualità della vita più della severità dell’acne stessa (nessuna correlazione significativa sussisteva, infatti, tra la gravità dell’acne ed i punteggi alla DERS-16).

Implicazioni terapeutiche

Trattare donne adulte con l’acne comporta non solo la gestione medica dei sintomi, ma anche un approccio olistico e comprensivo, che preveda innanzitutto uno screening psichiatrico così da fornire ai pazienti con una comorbilità psichiatrica ed una difficoltà a regolare le proprie emozioni appropriati medicamenti ed efficaci strategie psicoterapeutiche. Tra queste, le tecniche di rilassamento e di gestione dello stress potrebbero ottimizzare il trattamento della malattia del follicolo pilo-sebaceo.

 

L’aborto come scelta individuale e di coppia – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Nel dodicesimo episodio della serie tv Workin’ Moms, Anne, una delle protagoniste, decide di abortire quello che sarebbe stato il terzo figlio, la cui gravidanza era completamente inaspettata.

Moms – (Nr.13) L’aborto come scelta individuale e di coppia

 

 Interrompere una gravidanza non è una scelta facile. Richiede un tempo di elaborazione, che forse non si può condensare in tre mesi, ma che è tutto quello che una donna ha. La coppia e la rete sociale possono essere dimensioni di supporto per chi che si trova davanti a questa decisione così intima, soggettiva e delicata.

Nel maggio del 1978 è stata legalizzata in Italia la possibilità di ricorrere all’aborto fino al termine del terzo mese di gravidanza e del quinto per motivazioni di natura terapeutica. Da quel momento ogni donna italiana ha avuto la facoltà di scegliere della propria vita e di quella di suo figlio, senza doversi appellare a pratiche illegali e rischiose per la propria salute. Nonostante questo, la scelta di abortire resta una decisione emotivamente complessa.

Nel dodicesimo episodio della serie tv Workin’ Moms, Anne, una delle protagoniste, decide di abortire quello che sarebbe stato il terzo figlio, la cui gravidanza era completamente inaspettata. È interessante notare come la creatrice del telefilm Catherine Reitman si soffermi per diverse puntate sulla scelta prima di Anne e poi della coppia di cui fa parte.

Il processo che porta a preferire una strada anziché un’altra richiede un tempo di elaborazione che permetta un incontro tra sentire e pensare. Si basa su una valutazione interna dei vissuti intimi individuali e, nei casi in cui è presente, di quelli del partner.

Come si evince in alcuni episodi che precedono il dodicesimo, Anne in un primo momento resta sconvolta nell’appurare di essere nuovamente incinta dopo pochi mesi dall’ultimo parto, ma nonostante questo non prende subito in considerazione l’idea di abortire. Solo nel tempo, dopo essere stata costretta a rimanere ferma in seguito a delle perdite e prevedendo di trovarsi in difficoltà lavorativa, economica ed organizzativa rispetto alle due figlie inizia a prendere in considerazione l’idea.

La prima persona che Anne vuole avere accanto è la migliore amica Kate, da cui si fa accompagnare in un poliambulatorio. Una volta arrivata lì, scopre che alcune scelte è meglio non attuarle impulsivamente, per darsi la possibilità di digerirle. Kate è lì perchè incarna l’amica che non giudica, ma resta accanto nel pieno rispetto dell’altro.

Tornata dal poliambulatorio, Anne, racconta al marito Lionel dubbi, vissuti e perplessità, dividendo con lui il peso della decisione e dandogli lo spazio di cui ha bisogno per elaborarla. All’interno di una coppia funzionale alcune scelte vengono prese di comune accordo e/o le ragioni di un’eventuale scelta vengono comunicate prima di attuarla.

Le gravidanze possono essere indesiderate per motivazioni soggettive e ogni coppia, così i rispettivi individui al suo interno, ha il diritto di scegliere cosa sia meglio per se stessa, per il figlio che dovrebbe nascere ed eventualmente per quelli già nati. Il feto potrebbe essere un bambino con una madre e/o un padre che emotivamente, economicamente o per altri fattori non riescono ad adempiere al ruolo richiesto loro. Tre mesi rappresentano il giusto compromesso tra psiche e biologia, il tempo necessario dunque, anche se a volte non sufficiente, per vagliare e digerire le diverse opzioni.

L’aborto in alcuni casi è ancora un tabù, anche in alcune culture dove legalmente è permesso, e la negazione imposta può portare a gravi conseguenze psicologiche e fisiche per genitori e figli.

Workin’ Moms dona una possibilità di andare a fondo rispetto ad un argomento difficile e ad una scelta estremamente intima, non giudicabile, non trovandosi nei panni di chi la compie, e che necessita di tempo e di ascolto di sé e dell’altro.

Il ruolo della rete sociale e della dimensione di coppia vengono evidenziate laddove rappresentano una risorsa per una donna che si trova davanti ad una delle decisioni più difficili nella vita per sé e per l’essere umano di cui è inevitabilmente responsabile. Una madre sa cosa è meglio per sé e per il suo bambino, rispetto alle risorse che ha, anche se a volte vuol dire non vederlo venire al mondo.

Anne e Lionel appaiono come una coppia matura poiché davanti ad una decisione difficile scelgono di far leva sull’ascolto di se stessi e del partner, stringendosi la mano davanti all’incontro col vuoto dell’addio.

 

I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto (2021) di Eugenio Borgna – Recensione del libro

La relazione che cura. Nel libro I grandi pensieri vengono dal cuore Eugenio Borgna parla dello spirito che dovrebbe stimolare l’animo di psichiatri e psicologi, affinché si eserciti una scienza che sia naturale ma soprattutto umana.

 

Eugenio Borgna scrive dell’importanza della relazione, dell’ascolto e della capacità di immedesimazione, ingredienti indispensabili a lenire le sofferenze dell’uomo.

Nel libro I grandi pensieri vengono dal cuore Eugenio Borgna accompagna il lettore alla scoperta dei pilastri della psichiatria, intesa non solo come scienza medica, ma anche e soprattutto come scienza dell’uomo, disciplina dell’anima e dell’interiorità. Borgna si rivolge ai giovani e ai meno giovani, nell’intento di educare a una psichiatria ‘gentile’, nella quale risuonano le fondamenta umane, ancor prima di quelle farmacologiche e biologiche. Difatti, non è solo somministrando farmaci che si possono lenire le sofferenze. Il processo di cura deve passare attraverso relazione, dialogo, capacità di ascolto e di immedesimazione. È così che nelle pagine di quest’opera i tecnicismi lasciano spazio ad immagini, metafore e intrecci poetici. Il cuore diventa simbolo di una psichiatria portatrice di cura, capace di restituire dignità all’animo ferito. È solamente affacciandosi alla propria interiorità, aprendosi all’ascolto delle emozioni e delle intuizioni provenienti dal cuore, che lo psichiatra può dare significato alla vita degli altri. In quest’ottica la conoscenza intuitiva, così diversa da quella razionale, è portatrice di verità. “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non intende”, scriveva Pascal.

Borgna ci parla di come all’interno della relazione terapeutica non si possa non dare importanza alle parole, poiché è attraverso il dialogo, la comunicazione, che passa la cura. E allora come scegliere quelle giuste? Se la parola può essere curativa, parole sbagliate possono fare danni, scavando in ferite profonde che sanguinano. Il professionista della salute mentale dovrebbe armarsi di sensibilità e attenzione, selezionando di volta in volta parole prudenti, caute e gentili. Non esistono manuali che insegnano quest’arte, che non ha nulla a che fare con gli anni di studio e i titoli conseguiti. Quella della cura è una dote che certamente può essere allenata, ma affonda le sue radici in attitudini personali e in esperienze di vita. A tal proposito, Emily Dickinson scrive che non ci si può avvicinare a un cuore spezzato se non abbiamo sofferto. Borgna parla poi del pericolo delle troppe parole che, nella loro ridondanza, perdono di efficacia comunicativa, svuotandosi di significato. All’opposto, il silenzio può essere curativo. Tipicamente l’assenza di dialogo spaventa, spingendoci a colmare quel vuoto che solo all’apparenza ci separa dal nostro interlocutore. Nulla di più sbagliato, perché anche nel silenzio può esserci comunicazione. Gli sforzi dovrebbero essere piuttosto indirizzati a cogliere i significati che si celano dietro a timidi sguardi, pause e non detti, cadenzandone il ritmo. Si può essere molto vicini a un paziente che abbiamo in cura rimanendo in silenzio con lui, così come si può essere molto lontani scegliendo parole sbagliate. E’ un complesso gioco di equilibri in cui si avrà accesso alle verità di chi si affida alle nostre cure solo se avremo il coraggio di andare oltre all’interpretazione di comportamenti manifesti lasciandoci guidare dalle intuizioni. In questa altalena il tema del confine diventa fondamentale. Il professionista deve essere in grado di porsi alla giusta distanza dal suo paziente, creando legami che non invadano, ma che al contempo siano base sicura per costruire la relazione terapeutica.

Molti sono gli spunti di riflessione portati da Eugenio Borgna, che è stato capace di trattare tematiche di straordinario rilievo per chiunque si approcci alla psichiatria ricorrendo a parole semplici, di uso comune, senza impoverirne il significato. In ogni pagina traspare la passione di Borgna per la sua professione, un entusiasmo che l’autore spera possa essere contagioso per le nuove generazioni, a cui si rivolge con una tenera speranza. Il carattere del testo è tutt’altro che impersonale: il lettore divorerà le pagine in cui Eugenio Borgna ci permette di fare conoscenza di alcuni pazienti avuti in cura durante gli anni di lavoro nel manicomio di Novara.

I grandi pensieri vengono dal cuore si rivolge a tutti quei coraggiosi capaci di superare i tecnicismi che si ritrovano nei comuni manuali di scienza, la cui conoscenza è certamente necessaria ma non sufficiente ad esercitare una psichiatria che sia davvero al servizio delle persone che chiedono aiuto.

 

Incubi, terrori notturni, sonnambulismo… Quali trattamenti utilizzare per gestire le parasonnie?

Le parasonnie sono comportamenti anormali che si verificano durante il sonno. Si ritiene che i meccanismi neurobiologici alla base delle patologie siano da ricondurre ad una dissociazione tra veglia e sonno con comportamenti caratteristici di uno stato che succedono all’altro 

 

Possono essere associate a qualità del sonno compromessa, disfunzioni diurne e, occasionalmente, a comportamenti notturni violenti e dannosi. Esse sono solitamente classificate in base alla fase del sonno durante la quale si verificano, distinguendosi tra disturbi nella fase REM (ing. Rapid Eye Movements, Rapidi Movimenti Oculari), e in fase NREM (Non REM).

Le parasonnie NREM includono sonnambulismo, terrori notturni, risvegli confusionali, enuresi notturna e disturbi alimentari legati al sonno, mentre le parasonnie REM comprendono disturbo da incubi, disturbo del comportamento del sonno REM e paralisi del sonno isolata (APA, 2013).

Si ritiene che i meccanismi neurobiologici alla base delle patologie siano da ricondurre ad una dissociazione tra veglia e sonno con comportamenti caratteristici di uno stato che succedono all’altro (Ntafouli et al., 2020). Il funzionamento diurno degli individui con parasonnie è spesso compromesso: nella sintomatologia rientrano affaticamento, sonnolenza e sintomi neuropsichiatrici come ansia, depressione, sintomi ossessivi compulsivi, disturbi fobici e deficit cognitivi. Nei casi in cui i comportamenti notturni siano violenti e pervasivi, è consigliabile intervenire con delle terapie per limitarne la sintomatologia. Secondo recenti studi, le psicoterapie CBT (ing. Cognitive-Behavioral Therapy, terapie cognitivo-comportamentali) sono risultate davvero benefiche per le parasonnie, in quanto incentrate sulla riduzione dei classici fattori scatenanti come stress e ansia. In seguito, sono riportate le evidenze tratte dalla recente revisione di Ntafouli e colleghi sull’argomento, che racchiude brevi descrizioni di ogni disturbo del sonno e tecniche comportamentali (o CBT) risultate più efficaci per ciascuna tipologia di parasonnia (Ntafouli et al., 2020).

Parasonnie NREM:

Sonnambulismo:

È l’insieme di comportamenti che hanno solitamente inizio con un’attivazione durante il sonno e che culminano nel camminare in uno stato alterato di coscienza con una compromessa capacità di giudizio. Si verifica prevalentemente durante il primo terzo della notte.

Le strategie di gestione standard per questo tipo di disturbo includono:

  • risveglio programmato, consistente in un risveglio del soggetto circa 15-30 minuti prima dell’episodio previsto;
  • introduzione di misure di sicurezza, consistenti nella rimozione di oggetti potenzialmente pericolosi e taglienti dalla stanza, la chiusura delle finestre e la protezione dalle cadute;
  • rassicurazione dell’individuo colpito;
  • educazione all’igiene del sonno;
  • intervento CBT affiancato ad un protocollo di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) per la gestione dello stress.

Terrori notturni:

I terrori del sonno si verificano principalmente nella prima parte della notte e hanno durata compresa tra 30 secondi e 5 minuti. Durante l’episodio, l’individuo è solitamente amnesico e si sente confuso e stressato. Esiste un’associazione tra i terrori del sonno e i disturbi psichiatrici, infatti i soggetti colpiti tendono spesso a manifestare sintomi di ansia e depressione.

Tra le tecniche segnalate da recenti studi emergono:

  • creazione di un ambiente di sonno sicuro;
  • risveglio programmato;
  • rassicurazione dell’individuo colpito;
  • psicoterapie CBT e MBSR.

Risvegli Confusionali:

Essi sono caratterizzati da confusione mentale e insensibilità all’ambiente, che si verificano dal primo terzo fino alla prima metà del periodo di sonno. Tipicamente sono eventi brevi che, oltre alla confusione, possono includere disorientamento e sonnambulismo.

Trattamenti:

  • miglioramento dello stato dell’ambiente in cui si dorme;
  • misure di sicurezza all’interno della stanza;
  • massimizzazione della stabilità del sonno e dell’igiene del sonno.

Enuresi Notturna:

Questa parasonnia consiste in un rilascio involontario di urina durante il sonno notturno. La fisiopatologia potrebbe essere legata a tre fattori causali principali: eccessiva produzione di urina, iperattività vescicale e mancato risveglio in risposta alle sensazioni della vescica.

Tra i trattamenti comportamentali risultati efficaci per questa problematica spiccano:

  • ricompensa per le notti asciutte;
  • addestramento della vescica al controllo e alla ritenzione dei liquidi;
  • per il bambini, il lifting, procedimento in cui il caregiver solleva il bambino dal letto mentre dorme e lo accompagna in bagno, senza necessariamente svegliarlo.

Tra gli interventi più complessi, troviamo:

  • CBT per il trattamento di problematiche psicologiche correlate;
  • terapia dell’allarme per enuresi, che consiste in un sistema di allarme attivato dalla minzione che si concentra sul potenziamento dell’attivazione in risposta alla sensazione di vescica piena.

Disturbi alimentari legati al sonno:

Questi disturbi sono definiti dal parziale risveglio dal sonno per la consumazione di cibo. Si verificano solitamente entro le prime 3 ore dall’addormentamento, e gli episodi sono caratterizzati da una rapida ingestione di cibo, spesso molto calorico.

Dati recenti suggeriscono che un tipo di terapia risulta essere promettente:

  • la fototerapia, tecnica basata sull’utilizzo di lampade per esporre il soggetto ad una forte fonte luminosa in grado di contrastare la sintomatologia regolando i ritmi circadiani.

Parasonnie REM:

Disturbo da incubi:

Consiste nella ripetizione di vividi sogni spaventosi che portano al risveglio.

Tra i trattamenti psicologici suggeriti, troviamo:

  • Image Rehearsal Therapy, che mira a trasformare l’incubo in uno scenario positivo;
  • Exposure Relaxation and Rescripting Therapy, che si rivolge agli aspetti fisiologici, emotivi, comportamentali e cognitivi legati agli incubi;
  • terapia di auto-esposizione, che aiuta il paziente ad affrontare eventi stressanti con un’esposizione graduale ad essi;
  • trattamento del sogno lucido, che insegna a diventare lucidi nell’incubo attraverso specifici esercizi svolti durante il giorno;
  • EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing), che comporta una stimolazione sensoriale bilaterale durante l’elaborazione dell’evento traumatico, in questo caso, l’incubo.

Disturbo del comportamento del sonno REM:

Questo disturbo è caratterizzato da comportamenti anomali che si verificano durante il sonno accompagnati da sogni vividi e spesso spaventosi. I trattamenti concentrano il focus su:

  • limitazione della privazione di sonno;
  • cura di insonnia e disturbi respiratori nel sonno;
  • misure di sicurezza nell’ambiente del riposo.

Paralisi del sonno isolata:

Si verifica quando l’immobilità corporea della fase REM persevera nella veglia, generando incapacità di muoversi o parlare; è spesso accompagnata da inquietanti allucinazioni. Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di questa parasonnia, rientrano insonnia, stress, ansia, traumi e disturbi psichiatrici. Per il trattamento sono suggerite:

  • tecniche CBT incentrate sull’attenzione focalizzata;
  • rilassamento muscolare;
  • cambiamento della posizione e della durata del sonno.

In conclusione, la review del team di Ntafouli ha raccolto le principali tecniche di trattamento delle parasonnie, ma è auspicabile una maggiore ricerca sull’argomento per delineare nuove e specifiche terapie da utilizzare per questi particolari disturbi.

 

 

Le parole per raccontare ai bambini la salute mentale – I progetti dell’Associazione Contatto

Come raccontare ai bambini le problematiche di salute mentale dei genitori?

 

Come sostenerli nella comprensione dei momenti difficili della malattia, del percorso terapeutico e riabilitativo? Come promuovere il benessere dei bambini e dei loro genitori attraverso un intervento di narrazione?

L’Associazione Contatto per la promozione delle Reti Sociali Naturali tenta di dare una risposta concreta al mondo dell’infanzia che vive queste situazioni attraverso la proposta di un intervento di narrazione progettato ad hoc per spiegare ai bambini il problema del disagio psichiatrico e per sostenerli nei momenti complessi della malattia.

L’Associazione Contatto è impegnata sin dal 2004 in questo settore, promuove e favorisce percorsi di inclusione sociale e miglioramento della qualità della vita di persone affette da un disturbo psichico.

Nell’ambito di questa area di intervento ha realizzato il primo progetto italiano di prevenzione e promozione del benessere per i figli di genitori che vivono una situazione di malessere psichico.

La proposta si articola nella realizzazione di percorsi psico-educativi rivolti a genitori e figli tra cui la progettazione e lettura accompagnata di racconti creati con l’obiettivo di “offrire le parole” ai genitori e operatori per raccontare i problemi di salute mentale ai bambini e per favorire la comprensione della loro storia famigliare e delle difficoltà quotidiane vissute.

L’ipotesi del progetto individua nel sostegno informativo alla famiglia e ai bambini lo strumento per favorire la comprensione dei comportamenti di malessere e la gestione dei vissuti e delle emozioni che vivono nella loro quotidianità, proteggendoli dal disorientamento collegato al vuoto informativo, alle false credenze e, anche, alle emozioni provate verso se stessi e i genitori con particolare riferimento alla tristezza, al senso di colpa e alla paura.

All’interno di questo progetto sono stati scritti quattro racconti finalizzati a descrivere la storia famigliare o personale di quattro personaggi che vivono esperienze di malessere psichiatrico: Agata il Castoro, la mamma che pensava di essere un uccellino; Ottavio il Polpo, che non riusciva a smettere di mettere in ordine e classificare; Gerry il Camaleonte, che era così triste da non riuscire neanche a mangiare e proteggersi; Pino il  Pavoncino, che cambiava il colore della coda quando era molto arrabbiato o molto felice, forse troppo!

Le autrici in questo modo introducono il bambino nel tema della salute mentale descrivendo con parole e immagini suggestive e fantasiose il comportamento della persona che vive un disagio psichico: in particolare attraverso l’animazione di personaggi fantastici raccontano cosa può osservare un bambino che vive con un adulto che soffre di un malessere psichiatrico o cosa può vivere nelle dinamiche famigliari quotidiane, avvicinandosi con delicatezza ai temi della trascuratezza e del rischio del maltrattamento.

Ogni storia parte dalla descrizione del cambiamento del comportamento del protagonista (Agata, Ottavio, Gerry, Pino), per arrivare alla descrizione del disturbo e alla narrazione del percorso di riabilitazione soffermandosi sull’importanza della rete sociale di supporto e del percorso di cura.

Le splendide illustrazioni che accompagnano il testo sono uno strumento per aiutare il bambino a entrare nel racconto e confrontarsi con i vissuti dei diversi personaggi, ma anche con le soluzioni realizzate dai partner e della rete sociale per affrontare e gestire i momenti di difficoltà e crisi.

La rete di supporto alla famiglia e il percorso di cura sono descritti con parole e metafore suggestive che  catturano la fantasia dei bambini come la Psicanatra o il dott. Morsiconi esperto di “animali strani e originali” o gli amici che sostengono  e tutelano nel momento della sofferenza come Bollicina per il polpo Ottavio, Walter la cavalletta per Gerry il camaleonte.

Ogni storia termina con un messaggio di fiducia e speranza: è possibile gestire il problema grazie al sostegno sociale (Bollicina e Walter), al supporto psicologico (Psicanatra e il dott. Morsiconi) o, a volte, a un periodo in ospedale (Agata il Castoro) e a una gestione diligente delle cure farmacologiche.

Quattro storie per capire il malessere psichiatrico e per “dare le parole ai bambini” per parlare e confrontarsi  sui comportamenti e sulle emozioni della depressione, del disturbo compulsivo-ossessivo e in generale della salute mentale sia di chi li vive, sia di chi li osserva e ci convive.

Un progetto che lavora sulla potenza emotiva e cognitiva della narrazione e sul suo ruolo nei processi di prevenzione e di promozione del benessere delle famiglie e dei bambini che vivono queste particolari situazioni sociali.

Per ulteriori informazioni sul progetto e sulle risorse per affrontare questa tematica è possibile accedere al portale My Blue Box e reti sociali naturali.

 

Sindrome della capanna e Covid-19

La Sindrome della capanna, chiamata anche Sindrome del prigioniero, non è attualmente inserita nei principali sistemi nosografici usati in ambito psicologico e psichiatrico anche se, in tempi recenti, si è trasformata in un argomento di notevole interesse per la comunità scientifica, rivelandosi un’innovativa prospettiva di ricerca per il futuro.

 

La diffusione del Coronavirus, che nel 2020 ha prodotto una pandemia a livello globale, ha reso necessaria l’adozione di drastiche misure restrittive da parte di molti dei paesi coinvolti nel tentativo di tutelare il più possibile la salute dei cittadini e mantenere sotto controllo l’espansione di COVID-19. La popolazione ha vissuto l’esperienza di uno o più lockdown, che hanno dato origine ad una forma di isolamento “protettivo”, durante il quale le occasioni per uscire fuori dalla propria abitazione sono state limitate a favore di un aumento del tempo trascorso tra le mura di casa. Durante questo periodo di confinamento, che è durato anche svariate settimane a seconda dei casi e dei contesti, sono cambiati numerosi aspetti della nostra vita: abitudini, modalità di lavoro, didattica scolastica e universitaria e approcci relazionali. Ma cosa è accaduto quando, terminata la fase di lockdown, è stato possibile riprendere nuovamente contatto con l’esterno? Molti studiosi hanno introdotto il concetto di Sindrome della capanna.

Sindrome della capanna: che cos’è e come si manifesta?

La Sindrome della capanna, chiamata anche Sindrome del prigioniero, non è attualmente inserita nei principali sistemi nosografici usati in ambito psicologico e psichiatrico a causa della scarsità di significativi studi al momento presenti in letteratura, anche se, in tempi recenti, si è trasformata in un argomento di notevole interesse per la comunità scientifica, rivelandosi un’innovativa prospettiva di ricerca per il futuro.

La Sindrome della capanna si configura come uno stato di malessere

che si presenterebbe quando, a seguito di un protratto periodo di distacco dalla realtà, arriva il momento di riprendere contatto con il mondo esterno,

è una condizione di disagio che si può manifestare

all’idea di uscire nuovamente di casa dopo un periodo protratto di isolamento e distanziamento sociale. (Giunti Psychometrics, 2020)

I principali sintomi tipici della Sindrome della capanna (Senese, 2020) sono:

  • ansia
  • irritabilità
  • tristezza e angoscia
  • difficoltà di concentrazione
  • mancanza di energia e motivazione
  • sentimento di non appartenenza alla società
  • letargia

Si tratta di una condizione tendenzialmente temporanea che però, qualora si protragga per un periodo di tempo prolungato (oltre 3 settimane), può sfociare in patologie maggiormente gravi, quali depressione, attacchi di panico e disturbi di adattamento (Giunti Psychometrics, 2020).

Sindrome della capanna e COVID-19: qual è il collegamento?

I periodi di auto-quarantena cui la popolazione è stata sottoposta nei mesi precedenti (fase 1), nonché l’invito alla stessa ad uscire il meno possibile al fine di limitare la diffusione del Coronavirus, hanno contribuito ad aumentare nella gente la percezione della propria casa come garanzia di sicurezza e tranquillità. L’abitazione,

con le sue superfici disinfettate, è diventata un rifugio, un involucro protettivo dall’incertezza e dal pericolo del mondo esterno e dall’invisibile minaccia del virus. (Giunti Psychometrics, 2020)

Questa nuova quotidianità vissuta tra le mura domestiche si è cristallizzata di settimana in settimana come “normalità”. Così, quando, agli inizi della fase 2, i cittadini sono stati incoraggiati a riprendere le proprie precedenti consuetudini nel mondo esterno, sia pur nel rispetto delle norme di sicurezza anti-contagio, uscire da quella che era diventata una zona di comfort, per adattarsi ad una nuova routine, si è rivelato per alcuni fonte di disagio e disorientamento, corrispondente all’insorgenza della Sindrome della capanna. Nello specifico gli esperti ritengono che alla base di questa condizione vi sia una paura da parte delle persone di non riuscire o non volere affrontare questa convivenza forzata e stressante con il COVID-19 (Giunti Psychometrics, 2020).

Sindrome della capanna, Cabin fever e Agorafobia a confronto.

La Sindrome della capanna non è sinonimo di Cabin Fever, la quale è una condizione psicologica che ha caratterizzato maggiormente le prime settimane di lockdown e che rappresenta una reazione ad un isolamento o ad un confinamento che si protraggono per un periodo di tempo esteso (Fritscher, 2020). I principali sintomi della Cabin fever includono (Lucattini, 2020):

  • ansia
  • irritabilità claustrofobica
  • mancanza di motivazione
  • letargia
  • tristezza e angoscia
  • senso di solitudine
  • riduzione della pazienza
  • noia
  • alterazione della fame e del sonno

La Cabin fever, pertanto, si configura come una forma di disagio che insorge allorché un soggetto vive una condizione di confinamento e desidera riprendere il contatto con l’esterno, mentre nel caso della Sindrome della capanna l’individuo manifesta malessere all’idea di uscire nuovamente di casa dopo un periodo di ritiro.

La Sindrome della capanna differisce anche dall’Agorafobia, la quale secondo il DSM-5 rientra tra i disturbi d’ansia e può manifestarsi nelle seguenti situazioni:

  • essere fuori da soli
  • essere fuori in mezzo alla folla
  • trovarsi in luoghi aperti ed ampi
  • trovarsi in luoghi chiusi di dimensioni limitate
  • utilizzare mezzi pubblici

Dunque, mentre la Sindrome della capanna ha a che fare con la paura della convivenza forzata col Coronavirus e delle sue conseguenze sulla salute, l’Agorafobia riguarda il timore di provare un malessere e di non riuscire ad ottenere assistenza (Giunti Psychometrics, 2020).

Sindrome della capanna: come uscirne?

È possibile mettere in atto una serie di strategie (Giunti Psychometrics, 2020) per affrontare e superare la Sindrome della capanna:

  • non chiudersi in se stessi ma relazionarsi con gli altri: condividere emozioni e pensieri e ricevere dei feedback riduce la tensione e ci fa sentire meno soli;
  • allenarsi quotidianamente al cambiamento: modificare anche semplici azioni quotidiane così da migliorare la flessibilità, la resilienza e la capacità di adattamento;
  • esporsi al mondo esterno in modo graduale: inizialmente uscire per effettuare delle semplici passeggiate all’aria aperta o delle commissioni in luoghi familiari, anche rimanendo vicino casa e/o lasciandosi accompagnare da persone fidate;
  • svolgere degli esercizi di respirazione per favorire il rilassamento psicofisiologico;
  • non rimuginare su ciò che sarà: il futuro rappresenta per tutti un’incognita, perciò è meglio focalizzarsi e agire sul presente;
  • non avere timore o vergogna nel chiedere aiuto ad uno specialista (psicologo, psichiatra, psicoterapeuta): non c’è nulla di male nel formulare una richiesta d’aiuto al fine di migliorare la propria qualità di vita.

Naturalmente la Sindrome della capanna può riguardare varie situazioni (es. lungo ricovero, catastrofe naturale, condizioni climatiche), tuttavia risulta evidente come essa trovi terreno particolarmente fertile in un periodo storico come quello che stiamo vivendo attualmente, in cui, a causa della pandemia di COVID-19, sono molto frequenti le fasi di isolamento. Ciò consente di ipotizzare che una percentuale di popolazione abbia sviluppato e potrebbe sviluppare un tipo di malessere come quello fino ad ora descritto. È pertanto importante che i professionisti della salute mentale come psicologi, psichiatri e psicoterapeuti siano pronti ad intervenire sul territorio a supporto di quelle persone che ne hanno più bisogno.

 

Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) e Autismo: implicazioni future

Il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) e il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) condividono molte caratteristiche, tra cui i gesti autolesivi e i comportamenti suicidari. Quale effetto ha la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) nel prevenire questo genere di condotte in pazienti con ASD?

 

Molte persone con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) sono trattate con cure specialistiche a lungo termine. In questa popolazione, il comportamento suicidario rappresenta il sintomo di più difficile trattamento (Hedley, 2018; Segers, 2014) poiché, al momento, non esiste una terapia efficace documentata.

La terapia dialettico-comportamentale (DBT) è un programma di trattamento efficace per i comportamenti cronicamente suicidari e/o autolesionistici in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD) (Linehan, 1993). Gli studi RCT hanno infatti dimostrato l’efficacia della DBT in particolare nella riduzione dell’uso di alcol e/o di sostanze, dei comportamenti autolesivi e/o dei tentativi di suicidio, estendendone il suo utilizzo anche nel trattamento della dipendenza da sostanze (Dimeff & Linehan, 2008), della depressione, del PTSD (Bohus et al, 2020) e dei disturbi alimentari (Klein et al. 2013; Safer et al. 2010; Chen et al., 2015).

Uno studio promettente in fase di raccolta dei dati (Huntjens et al. 2020) ha esteso l’utilizzo della DBT al trattamento dei comportamenti anticonservativi e autolesionistici che si riscontrano frequentemente nei disturbi dello spettro dell’autismo.

Il background su cui poggia tale studio è che l’ASD e il BPD condividono molte caratteristiche, ossia: problemi nella regolazione delle emozioni (Samson et al. 2014), importanti problemi nelle relazioni interpersonali, disturbi dell’identità, impulsività, comportamenti suicidari ricorrenti e/o autolesionismo, instabilità affettiva dovuta ad una marcata reattività dell’umore, sentimenti cronici di vuoto, rabbia intensa o inappropriata o difficoltà a controllare la rabbia, ideazione paranoide correlata allo stress e incapacità di inibire vari impulsi, comportamenti o desideri (Fitzgerald, 2005)

Lo studio RCT di Huntjens et al. (2020), valuterà in primo luogo l’efficacia della DBT nel ridurre i comportamenti suicidari e/o autolesionistici.  Successivamente studierà l’efficacia della DBT rispetto al trattamento TAU (Treatment As Usual) nella riduzione degli stati ansiosi, nel migliorare le prestazioni sociali, nel ridurre la depressione e migliorare la qualità della vita, oltre che la sua utilità in termini di rapporto costi/benefici.

Il campione sarà costituito da centoventotto persone con diagnosi di autismo e comportamento suicidario e/o autolesionistico in associazione, reclutate da servizi di salute mentale specializzati e assegnate a due condizioni: 1) la condizione sperimentale DBT in cui i partecipanti avranno sessioni settimanali di terapia cognitivo-comportamentale individuale e una sessione di skills training di gruppo due volte a settimana per 6 mesi e 2) la condizione di controllo caratterizzata da un trattamento usuale che consiste in sessioni di terapia individuale settimanale di 30-45 minuti.

I criteri di inclusione nel campione saranno: età compresa tra 18 e 65 anni; criteri DSM-5 soddisfatti per il disturbo dello spettro autistico; presenza di ideazione suicidaria (punteggio SIDAS ≥ 21); livello di suicidio e/o comportamento autolesionistico valutato come grave sulla LPC; trattamento ambulatoriale. Tra i criteri di esclusione troviamo: QI <80; dipendenza da sostanze illecite e necessità di disintossicazione clinica; padronanza insufficiente della lingua olandese.

Poiché non ci sono dati empirici per guidare i professionisti nella riduzione del rischio suicidario nelle persone con ASD, è importante determinare se la DBT sia un intervento efficace per ridurre o prevenire l’ideazione e i tentativi di suicidio. Questo studio ha diversi punti di forza. Innanzitutto, è il primo studio clinico controllato randomizzato in singolo cieco per esaminare l’efficacia del DBT nelle persone con autismo e suicidio. Inoltre, la possibilità di generalizzare i risultati ottenuti è migliorata perché condotto nei servizi di salute mentale ordinari. Infine, il campione è relativamente ampio e bilanciato. Uno degli ostacoli principali sembrerebbe rappresentato dal reclutamento poiché alcuni terapisti potrebbero essere più riluttanti a raccomandare questo trattamento ai loro clienti. Un’altra limitazione è l’idoneità del terapeuta nel lavorare sia su pazienti autistici che a somministrare la DBT. Oltre a questo, le qualifiche dei terapisti TAU non sono chiare e il limite a 6 mesi della durata del trattamento DBT piuttosto che a 1 anno, come nel trattamento originale, potrebbe influenzare l’esito del trattamento stesso.

Il suicidio nelle persone con autismo rimane un fenomeno scarsamente compreso e poco studiato. Gli studi precedenti hanno sottolineato la necessità di ulteriori ricerche di approfondimento sull’efficacia delle strategie di prevenzione e degli interventi di trattamento allo scopo di trovare interventi utili nel prevenire il comportamento suicidario.

 

eSPORT e Internet Gaming Disorder: il confine tra gioco e dipendenza

I bambini e gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili a comportamenti a rischio e forme di dipendenza. Il tempo eccessivo trascorso giocando/impegnandosi in eSport può, difatti, influire considerevolmente sul loro apprendimento, sul benessere mentale e sullo sviluppo.

 

Negli ultimi due decenni giocare ai videogiochi è diventata un’attività popolare in tutto il mondo, al punto che esiste una percentuale di giocatori che ha fatto di questo momento ricreativo una vera e propria professione e trascorre ogni giorno molte ore a padroneggiare e a migliorare le proprie abilità (Bányai et al., 2019).

La sempre più diffusa disponibilità ed il successo dei giochi online e il crescente numero di appassionati, infatti, ha dato vita a competizioni virtuali, rendendo quello che era un passatempo ludico una pratica sempre più professionalizzata e per la quale serve allenarsi in maniera costante, al pari di qualsiasi disciplina atletica (Giunti, 2018).

Gli sport elettronici, anche definiti eSport, si riferiscono, pertanto, a forme di videogiochi agonistiche e organizzate che possono essere giocate individualmente o in squadra ed essere seguite dagli spettatori di persona o tramite servizi di streaming.

Con il progresso delle tecnologie digitali, c’è stato un aumento esponenziale in tutto il mondo della popolarità degli eSport e di conseguenza, un aumento considerevole del numero di tornei nazionali e internazionali con introiti monetari tali da garantire ai players una vera e propria possibilità lavorativa a tutti gli effetti (Brevers, King, & Billieux, 2020).

Ma è corretto paragonare gli eSports agli sport tradizionali?

Al momento, il ruolo e l’impatto degli eSport non sono chiari e riscuotono ancora molte polemiche.

Molti, infatti, non considerano queste nuove attività competitive come forme di sport poiché non è implicata nessuna prestazione fisica. Tra questi, il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) nel 2018 ha messo in dubbio la generale mancanza di atletismo e fisicità degli eSport, non ritenendo, di conseguenza, per il momento di inserire il gaming nelle discipline olimpiche.

Ma soprattutto, da non sottovalutare, si ritiene che la violenza, le esplosioni, le uccisioni e la discriminazione di alcuni dei giochi violino i valori olimpici (Chung et al., 2019).

Nonostante queste valutazioni è importante riconoscere che in queste attività sono necessarie capacità motorie raffinate e ad alta intensità, nonché una coordinazione occhio-mano rapida e accurata, paragonabile ad esempio a quella richiesta nel tiro con l’arco.

La preparazione fisica non è, quindi, totalmente esclusa nella riuscita degli eSport; se non si è allenati fisicamente ogni gesto è semplicemente più lento e meno efficiente. I giocatori d’élite dei giochi online sostengono, inoltre, che un alto livello di cooperazione, coordinamento e pensiero strategico sono componenti essenziali per vincere. Alla base di una prestazione di successo è indispensabile, dunque, non solo l’ottima conoscenza del gioco, ma un allenamento regolare e pianificato volto ad affinare soprattutto la capacità di pensare in maniera strategica, di prendere decisioni rapidamente e con intelligenza, di mantenere alta la concentrazione e di affrontare eventuali imprevisti e sconfitte; bisogna sapersi adattare agli avversari, comunicare in maniera efficace con i compagni di squadra, avere fiducia nelle proprie abilità e definire dei piccoli obiettivi da conseguire volta per volta (Chung et al., 2019).

Ma siamo sicuri che una preparazione costante di molte ore settimanali, in questo caso, faccia bene alla salute?

Negli ultimi anni c’è stata una crescente preoccupazione, anche da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), degli effetti che l’uso eccessivo di videogiochi comporta sia in termini di salute fisica che mentale.

Alcune ricerche evidenziano una sintomatologia varia che si esprime attraverso: stress, disturbi del sonno, problemi di vista, dolori muscoloscheletrici, lesioni da uso eccessivo, disturbi metabolici o aumento di peso, e altri problemi comportamentali (ad esempio, dipendenza, violenza, aggressività) (Yin et al., 2020).

Secondo alcuni clinici il crescente fenomeno degli eSport potrebbe promuovere pratiche di gioco disfunzionali e disagio psicologico, che potrebbe culminare in una vera e propria esperienza patologica.

Tra tutti, i bambini e gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili a comportamenti a rischio e forme di dipendenza. Il tempo eccessivo trascorso giocando/impegnandosi in eSport può, difatti, influire considerevolmente sul loro apprendimento, sul benessere mentale e sullo sviluppo.

Di fronte a questa evidenza, l’Oms ha voluto introdurre il Gaming disorder nell’ICD-11 all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze.

Il disturbo da gioco – gaming disorder (GD) – è caratterizzato da una perdita di controllo che comporta l’incapacità di regolare la durata delle sessioni di gioco o il contesto in cui si svolgono (Brevers,  King, & Billieux, 2020), con effetti deleteri anche negli altri ambiti di vita del soggetto. Anche nella quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5) compare una diagnosi molto simile.

L’ Internet Gaming Disorder (IGD) viene inserito, infatti, nel 2013 dall’American Psychiatric Association ed è spiegato attraverso nove criteri comportamentali. Si considera una condizione clinica l’uso persistente e ricorrente di internet per partecipare a giochi che porta ad una compromissione o disagio significativo per un periodo di almeno 12 mesi. L’individuo con tale diagnosi manifesta:

  1. Preoccupazione riguardo ai giochi su Internet
  2. Sintomi di astinenza quando viene impedito il gioco
  3. Tolleranza – bisogno di trascorrere crescenti quantità di tempo
  4. Tentativi infruttuosi di limitare la partecipazione
  5. Perdita di interesse verso i precedenti hobby e divertimenti
  6. Uso continuativo ed eccessivo dei videogiochi nonostante la consapevolezza dei problemi psicosociali
  7. Avere ingannato i membri della famiglia, i terapeuti o altri riguardo alla quantità di tempo passata giocando su Internet
  8. Uso dei giochi su internet per eludere o mitigare stati d’animo negativi
  9. Perdita di una relazione, un lavoro o un’opportunità formativa o di carriera a causa della partecipazione costante all’attività di gaming.

Alla luce di questi sintomi, il disturbo del gioco, pertanto, condivide molte caratteristiche con le dipendenze dovute a sostanze psicoattive e con il disturbo del gioco d’azzardo, nelle quali sono peraltro attivate aree cerebrali simili (Saunders et al., 2017).

Come superare allora il dualismo sport – disturbo?

L’attuale formulazione dei criteri proposti dal DSM 5 non sembra distinguere il gioco problematico dal gioco competitivo. Difatti, come è già stato affermato, attualmente gli eSport rappresentano una possibile carriera professionale al pari di altri sport fisici o altre attività lavorative. Ciò significa che, come in qualsiasi altro lavoro, è normale dedicare molto tempo per il raggiungimento di un obiettivo, a scapito anche di altri interessi e relazioni (Nielsen & Karhulahti, 2017).

Tuttavia, è importante ribadire che il successo non nasce da un impegno ostinato e improvvisato, anzi!

Come in qualsiasi sport, appunto, l’eccessivo sovrallenamento è sempre controindicato e controproducente. La preparazione deve essere misurata e graduale, frutto di una pianificazione attenta.

Il giocatore, soprattutto, non deve sentirsi solo nella sua attività e, specialmente agli inizi, non deve mai trascurarne la dimensione ludica e ricreativa che implica la disciplina.

Sulla base di queste ultime considerazioni si ritiene pertanto necessario un supporto emotivo e sociale da parte di esperti e della famiglia del player. Lo psicologo dello sport, in particolar modo ha il ruolo, infatti, non solo di promuovere tecniche di ottimizzazione della prestazione, ma di favorire il benessere dei soggetti implicati nell’attività sportiva e di individuare, eventualmente, segnali clinici.

Al fianco di un team desideroso non solo di vincere, le emergenti squadre e associazioni di eSport dovrebbero sostenere innanzitutto un’interazione tra i giocatori, non solo in modalità online.

Garantire una dimensione umana e reale dell’attività consentirà, difatti, una continuità interpersonale sia online che offline, volta ad assicurare allo stesso tempo un maggior affiatamento di squadra.

 

Corteggiamento romantico e molestie sessuali, qual è il confine?

Il confine tra corteggiamento romantico e molestie sessuali non è sempre chiaro (Mainiero & Jones, 2013). Ciò che passa come seduzione per una persona (ad esempio, chi fa un’avance romantica) può essere fastidioso, o peggio, per un’altra (ad esempio, chi riceve l’avance).

 

Una domanda chiave nei casi di molestie riguarda spesso come la vittima abbia risposto alle iniziali avances romantiche o sessuali del colpevole. In un mondo ideale, a chi riceve delle avances potrebbe bastare dire “no, grazie, non sono interessato” per fare in modo che l’approccio finisca lì. Tuttavia, ci sono molte ragioni per cui le vittime non rifiutano esplicitamente queste proposte indesiderate: preoccupazioni per le ripercussioni, sia professionali (Fitzgerald, Swan, & Fischer, 1995) che reputazionali (Perilloux & Buss, 2008); preoccupazioni che il proprio comportamento venga frainteso (Jensen & Gutek, 1982); dubbi sulla propria esperienza o interpretazione dell’evento (Gutek & Koss, 1993). A queste motivazione si aggiunge un altro aspetto fondamentale che impedisce il rifiuto di un’altra persona, aspetto che spesso viene classificato come banale: è imbarazzante e scomodo (Bohns, 2016). Questo disagio può manifestarsi in una varietà di modi, a seconda del contesto. Chi riceve delle avances romantiche spesso riferisce di sentirsi in colpa per aver rifiutato i pretendenti e di essere preoccupato/a di aver ferito i loro sentimenti (Joel, Teper, & MacDonald, 2014). Le vittime di molestie sessuali esplicite riferiscono di sentirsi spaventate e acquiescenti (Woodzicka& LaFrance, 2001, 2005). In entrambi gli scenari, chi riceve le avances alla fine si trova in una situazione scomoda, al punto che, come risultato di queste preoccupazioni, spesso trova più facile sorridere, ridere o ignorare un’osservazione sessuale inappropriata piuttosto che affrontarla (Woodzicka & LaFrance, 2001, 2005). Allo stesso modo, chi riceve delle avances romantiche indesiderate può comunicare il rifiuto indirettamente (Baumeister et al., 1993), o addirittura accettare le avances di corteggiatori poco attraenti (Joel et al., 2014), al fine di evitare il disagio di rifiutare qualcuno apertamente. Bohns e DeVincent (2019) hanno condotto due studi per indagare le preoccupazioni dei destinatari delle avance indesiderate, la percezione da parte dei corteggiatori di tali preoccupazioni e la loro capacità di riconoscere le varietà dei modi in cui i destinatari delle avances modificano i loro comportamenti per far fronte al disagio sperimentato nel rifiutare le avances: nel primo studio i ricercatori hanno sollecitato i ricordi di persone che hanno fatto tali esperienze, mentre nel secondo studio i partecipanti sono stati assegnati a caso a due diverse condizioni utilizzando vignette ipotetiche.

Il primo studio è stato condotto su studenti laureati in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica (STEM). Questo contesto è stato scelto perché, come mostrato dalla precedente letteratura, risulta più difficile per le donne ricoprire e mantenere posizioni lavorative in questo campo e, tra i fattori che rendono difficile questo obiettivo, vi è la presenza di comportamenti che inizialmente vengono scambiati per un corteggiamento romantico per poi degenerare in molestie sessuali (Blickenstaff, 2005; Jagsi et al., 2016; Roberts & Ayre, 2002; Servon & Visser, 2011; Settles, Cortina, Malley, & Stewart, 2006). Pertanto, è stato ritenuto un contesto idoneo a esplorare se i corteggiatori sottovalutano l’impatto emotivo delle loro avances sui “corteggiati”, così come se ci sono differenze di ruolo nell’apprezzare le potenziali conseguenze a valle di queste avances, in particolare quelle che potrebbero colpire sproporzionatamente le donne. I partecipanti sono stati reclutati tramite mail: dei 2.764 studenti a cui era stata inviata, 942 hanno risposto ad almeno una domanda, e 277 di essi hanno dichiarato di aver fatto delle avances a qualcuno che non era interessato all’interno del proprio settore, o sono stati oggetti di avances indesiderate da parte di qualcuno del proprio settore. Tutti i partecipanti hanno risposto a tre domande iniziali:

  1. E’ mai stato corteggiato romanticamente da qualcuno nel suo laboratorio, campo accademico o posto di lavoro accademico a cui non era interessato?
  2. Ha mai mostrato eccessivo interesse a qualcuno nel suo laboratorio, campo accademico o luogo di lavoro accademico che ha scoperto non essere interessato a lei?
  3. Ha mai sentito parlare di qualcuno (diverso da lei) che è stato importunato da qualcuno con cui lavorava nel suo laboratorio, campo accademico o luogo di lavoro accademico e a cui non era interessato?

Per ogni domanda, i partecipanti hanno anche riferito quante volte è successo. I partecipanti che hanno risposto in maniera affermativa hanno dovuto compilare un questionario con ulteriori domande a riguardo volte a indagare: (1) i dettagli dell’esperienza (come si sono verificate le avances o il rifiuto, il motivo della mancanza di interesse alla/della persona, la relazione tra le persone coinvolte); (2) quanto è stato difficile e scomodo per chi riceveva le avances rifiutare il corteggiatore; (3) le preoccupazioni dei “corteggiati” riferite alle ripercussioni professionali e sociali del rifiuto delle avances; (4) le conseguenze comportamentali a valle per chi riceveva le avances (ad es., se il “corteggiato” si è impegnato in comportamenti di evitamento e di reazione, se la sua produttività ne ha risentito).

Il secondo studio ha previsto la partecipazione di 400 soggetti divisi in due gruppi, a cui è stata assegnata, in maniera casuale, la lettura di una stessa vignetta in cui un collega chiede ad un altro collega single, sessualmente compatibile, di uscire per una cena romantica, dal punto di vista del corteggiatore o del “corteggiato”:

Immagina di essere romanticamente interessato a uno dei tuoi colleghi [sospetti che uno dei tuoi colleghi sia romanticamente interessato a te] e ti piacerebbe avere l’opportunità di conoscere meglio questa persona [e sta cercando di trovare un’opportunità per conoscerti meglio]. Sai che il tuo collega è [Sei] single e tu [e il tuo collega] avete orientamenti sessuali compatibili. Una sera state lavorando fino a tardi, e mentre state finendo, tu guardi il tuo collega [questa persona ti guarda], fai un respiro profondo e dici: “Posso portarti fuori a cena?” 

In entrambe le condizioni, dopo aver letto questa vignetta, ai partecipanti è stato detto che colui/colei che ha ricevuto l’avance non era interessato/a al corteggiatore ed è stato chiesto di rispondere a quattro domande: “Quanto sarà difficile per questa persona [tu] dire “no” alla tua [loro] richiesta di portarti fuori a cena?” e “Quanto [male, a disagio, in colpa] si sentirà questa persona [tu] dicendo “no” alla tua [loro] richiesta di portarla [tu] fuori a cena?” Infine, i partecipanti hanno indicato se avevano mai avuto un’esperienza come quella descritta e hanno riportato il loro sesso.

I risultati del secondo studio hanno confermato quelli del primo studio. Precisamente, da quest’ultimo è emerso che dell’intero campione di 942 partecipanti, il 22,8% ha riferito di essere stato corteggiato da qualcuno nel proprio ambito o laboratorio a cui non era interessato, il 14,3% ha riferito di aver corteggiato qualcuno nel proprio ambito o laboratorio che non era interessato a loro, e il 54,2% ha riferito di aver sentito che qualcuno nel proprio ambito o laboratorio è stato corteggiato da qualcuno a cui non era interessato. La maggior parte (88,2%) dei partecipanti, che hanno riferito di averci provato con qualcuno che non era interessato a loro, hanno indicato che è successo soltanto una o due volte. Nello specifico, le donne hanno assunto il ruolo di bersaglio con una frequenza nettamente superiore rispetto agli uomini. Analizzando le reali paure e ripercussioni comportamentali di chi ha ricevuto le avances e la percezione di essi da parte dei corteggiatori, è emerso che i bersagli rispetto a quanto percepito dai corteggiatori: hanno riportato più disagio nel rifiutare le avances indesiderate; hanno riferito di sentirsi obbligati ad assecondare le avances (23.2% dei “corteggiati” v/s 5.2% dei corteggiatori); hanno riferito di essere preoccupati per le ripercussioni professionali di un’eventuale risposta negativa e per ciò che un corteggiatore avrebbe detto di loro ad altre persone; hanno riferito di essersi impegnati in comportamenti di evitamento e di coping, legati alla produttività e alla ritenzione.

Pertanto, in generale, i destinatari delle avance hanno riportato più conseguenze comportamentali rispetto a quanto i corteggiatori si fossero immaginati. Inoltre, è emerso che le differenze di ruolo nella percezione delle conseguenze comportamentali sono il risultato del fallimento dei corteggiatori nel riconoscere la varietà di modi in cui i destinatari delle avances cambiano il loro comportamento per far fronte al disagio di rifiutare qualcuno. Infine, è emerso che per un corteggiatore indesiderato, l’aver avuto una precedente esperienza come bersaglio di avances non gradite influenzava i pensieri su quanto sia difficile per i destinatari di queste avance dire “no” (hanno valutato il disagio di dire “no” più alto rispetto a quei corteggiatori che non hanno fatto questa esperienza). Nello specifico, quest’ultimo risultato suggerisce che gli interventi progettati per favorire la presa di prospettiva potrebbero essere potenzialmente efficaci nel ridurre il bias egocentrico identificato dai in questi studi.

 

Separazioni conflittuali. Conflitto, demonizzazione e paradossi nella coppia in fase di separazione – Intervista agli autori del libro

Renzo Marinello e Davide Sacchelli sono gli autori del volume Separazioni conflittuali. Conflitto, demonizzazione e paradossi nella coppia in fase di separazione, Edra Edizioni. L’intervista di Marco Schneider.

 

Renzo Marinello è psicologo e psicoterapeuta sistemico-relazionale ad indirizzo narrativo costruttivista, opera presso un Consultorio Familiare dell’azienda sociosanitaria territoriale Fatebenefratelli-Sacco. È stato Responsabile dei Centri di Terapia Familiare e dei Poli di Mediazione Familiare dell’ASL Città di Milano, e ha ricoperto l’incarico di Presidente della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica (SIRTS). È docente in Master di terapia di coppia e, con una collega, ha elaborato un modello di consultazione terapeutica sulla crisi di coppia integrando approccio sistemico e approccio psicodrammatico. È autore di diversi articoli apparsi su riviste specializzate, alcuni dei quali dedicati al fenomeno delle separazioni conflittuali.

Davide Sacchelli è psicologo e psicoterapeuta e specialista in Counseling psicologico, lavora da tempo  nell’ambito dei servizi di Tutela Minorile della provincia di Milano come psicologo e come coordinatore di  équipes psico-sociali. È presidente di ASP – Associazione italiana Psicologi. Si occupa di formazione in  psicologia clinica, di terapia individuale, familiare e di coppia utilizzando un approccio sistemico ad indirizzo  socio-costruzionista. E’ didatta presso il CMTF – Centro Milanese di Terapia Familiare. Da alcuni anni si dedica allo studio del fenomeno delle conflittualità post-separative e dell’alienazione parentale.

In fase di redazione dell’intervista, fondamentale è stato il contributo di Irene Colombo, psicologa in formazione presso l’Università Bicocca di Milano.

Schneider: Buongiorno Renzo, buongiorno Davide, sono molto felice di discutere con voi del tema delle separazioni, con particolare riferimento a quelle più conflittuali, sia per la vostra esperienza su questo tema che per la recente pubblicazione del vostro libro. 

Inizio con il dire che parlare di famiglia oggigiorno significa sempre più parlare anche di separazioni coniugali, tanto che all’interno del ciclo di vita delle famiglie si è ormai pensato di inserire la “fase” della separazione. Oggi abbiamo percentuali di separazione coniugale che variano tra il 35 e il 40% in Italia mentre nei paesi del nord Europa la percentuale arriva addirittura all’80%, come ad esempio in Belgio. Alcuni studiosi dicono, secondo me a ragione, che esiste una correlazione positiva tra il livello di sviluppo industriale di un paese o di una società e le separazioni coniugali, nel senso che tanto più un paese è sviluppato industrialmente e culturalmente, tante maggiori sono le separazioni coniugali.  

Ne consegue quindi che in un paese “avanzato” è più “normale” separarsi. Ma è anche più semplice farlo? Separarsi fa parte davvero secondo voi di un processo fisiologico normale nella società in cui siamo inseriti? 

Marinello: Credo che se si vuole considerare la separazione come un processo normale, dobbiamo allora pensare al matrimonio come ad un contratto “a termine” mentre in realtà noi ci sposiamo con un progetto a lungo termine. Ciò spiega secondo me perché la separazione è molto spesso un processo difficile e doloroso. Le coppie oggi sono in qualche modo la sostituzione di quel sociale che manca (non c’è la comunità, non c’è la classe, non c’è la parentela) e quando si sfaldano è un problema importante.

Schneider: Separarsi è difficile in tutti i casi? 

Sacchelli: No, non direi in tutti i casi. Ci sono situazioni nelle quali dopo la separazione alcune persone riescono a ri-raccontarsi dentro ad una storia nuova. Molte altre però non riescono e rimangono ancorate alla storia precedente. In tutto ciò un concetto fondamentale è quello di identità: la relazione definisce l’identità delle persone e quando la relazione si interrompe, soprattutto in modo traumatico ed improvviso, le persone rischiano di avere una crisi, una frammentazione della propria identità.

Certamente la separazione porta sempre con sé una dose di stress, alla quale ciascuno reagisce in modo particolare. Credo dunque che sia difficile generalizzare mentre è più opportuno guardare al caso singolo.

Schneider: E’ certamente vero che la separazione coniugale è un evento fortemente stressante: le varie scale di valutazione la collocano tra gli eventi più stressanti per una persona. Concordo poi quando dite che ogni separazione ha variabili proprie e sul fatto che l’elemento più favorevole per superare bene una separazione sia la capacità di raccontare una nuova storia, rispetto al restare ancorati a vecchie narrazioni di sé dentro a storie vecchie. L’identità si recupera nelle nuove configurazioni relazionali, il senso di sé non si perde se si riesce ad evolvere. 

Sacchelli: Io parlerei proprio di “perdita di senso” nelle separazioni non elaborate e traumatiche. Quando si va incontro ad una perdita di senso si soffre e se non si riesce a ricostruire un nuovo senso si rischia di soccombere al dolore provato.

Aggiungo anche che una parte importante del senso che diamo alla nostra vita prima della separazione è legato ai figli; mai come oggi infatti le persone si riconoscono a livello identitario in qualità di genitori.

Marinello: Il legame con il figlio diventa l’ultimo legame assolutamente irrevocabile; il figlio è per sempre, e per questo è sempre più importante per l’identità.

Sacchelli: Teniamo conto che questo non vale solo per le donne: nasce l’idea dei “mammi”, padri che si occupano tanto dei figli ed instaurano un legame molto forte con loro. In alcuni casi, quando la concentrazione sul figlio diviene eccessiva, si arriva a vere e proprie situazioni di “schiavismo genitoriale”.

Schneider: Certo, i figli oggi sono per un verso sempre più centrali nella vita delle persone. Si dice che il figlio oggi debba “riuscire bene” perché questo rinforza l’autostima spesso fragile del genitore in tempi nei quali la famiglia come istituzione è in difficoltà. 

Marinello: Oggi i figli sono desiderati e per tutta la vita dovranno fare i conti con questo desiderio che li ha generati.

Schneider: Il forte desiderio genera aspettative, e questo non sempre è un bene. 

Chiedo a voi, tecnici con una specifica formazione sistemico-relazionale, di dirci qualcosa rispetto all’idea che la psicologia sistemica ha delle separazioni coniugali. Quali sono le variabili secondo voi fondamentali a cui dare importanza in ambito sistemico

Sacchelli: La sistemica approccia queste situazioni con due idee: l’idea di circolarità e l’idea di contesto. Da una parte le cose succedono in maniera ricorsiva (circolarità) mentre dall’altra tutto ciò che accade nella coppia in separazione accade in un luogo (fisico e mentale) dentro al quale si muove una serie di attori i quali contribuiscono a co-determinarne gli esiti (il contesto). Ritengo che il pregio dell’approccio sistemico sia che non esiste un’idea di causalità ma che esista una connessione tra le varie parti di un fenomeno, mentre contemporaneamente si pensa alle persone come inserite in un contesto sempre ampliabile e definito da diversi autori.

Schneider: Molto interessante. Questo apre anche a possibilità differenti sia di lettura dei vari fenomeni che di intervento terapeutico; mi piacerebbe più tardi tornare su questo tema.  

Noto invece che nel titolo del vostro libro è presente il tema della “demonizzazione”. Che cosa intendete esattamente? 

Marinello: Il tema della circolarità viene rappresentato dalla demonizzazione: si tratta di un processo circolare ricorsivo nel quale l’altro da cui ci si è separati diventa sempre più odiato perchè sempre più temuto. In questo senso il tema della paura è molto importante: lo spavento rispetto all’altro. La demonizzazione fa ad un certo punto il suo esordio nel sistema della coppia separata: attraverso il conflitto che si crea in alcune coppie, la demonizzazione permette di recuperare un pezzo della coppia che è andato perso durante la separazione. Possiamo infatti vedere la separazione come la frantumazione di una narrazione condivisa, dell’assoluto di coppia. Si è in una deriva di senso e la demonizzazione va a sostituire quella coesione, quel senso di sé e della coppia che è stato perso. Consente di mantenere un legame tramite l’odio, dove la demonizzazione ne è il prodotto concreto. Quindi all’interno di una dinamica per la quale mi difendo dall’altro tramite azioni che vengono percepite dalla persona opposta come azioni di attacco, mantengo il legame.

Sacchelli: Nel libro si tratta anche il tema dell’incapacità umana di vedere la propria aggressività o violenza. Noi percepiamo quella altrui ma difficilmente facciamo riferimento a noi stessi. Non siamo capaci di auto-osservazione. Soprattutto quando siamo presi da un momento di rabbia vediamo solo la violenza dell’altro. Noi parliamo di demonizzazione incrociata perché si tratta di un fenomeno reciproco che si auto-alimenta: ciascuno dei due personaggi coinvolti si sente vittima e vede l’altro come “carnefice”.

Schneider: Dunque mi pare di capire che la paura da voi citata nasce dal fatto di vedersi come vittima dell’altra persona, che è vista come un carnefice? 

Sacchelli: Si anche se ovviamente si parla di un “demone” mitizzato.

Schneider: La demonizzazione quindi è un aspetto individuale interpretativo del soggetto che a seguito di una rottura traumatica di una relazione arriva a coprire con esso una mancanza di senso e proietta la sua fragilità sull’altro vedendolo come un qualcuno di cui aver paura? 

Sacchelli: Si. Si tratta però di un processo effettivamente molto pratico. Ad esempio le persone si sentono molto sole e questo le spinge a dipingere l’altra persona come un mostro. Inoltre devono affrontare tutta una serie di questioni quali la gestione dei figli, la separazione economica, ecc..

Schneider: Mi interessa molto la vostra idea per la quale vi sarebbe la volontà delle persone di mantenere il legame con l’ex partner tramite la demonizzazione. Ci aiutate a comprenderla meglio? 

Sacchelli: Su questo aspetto abbiamo discusso durante la stesura del testo. Io non direi che c’è la voglia di mantenere un legame ma che il mantenimento del legame è semplicemente un effetto della demonizzazione. L’effetto di questa situazione, della demonizzazione, è infatti un effetto di mantenimento: le persone sono legate dai sentimenti e in questo caso rimangono legate non da un amore ma da un odio.

Schneider: Quindi il mantenimento del legame è un effetto secondario del circolo della demonizzazione?

Sacchelli: E’ un effetto secondario che fornisce senso, il senso di essere vittima.

Marinello: Vero, abbiamo discusso su questo punto. La mia idea iniziale in merito era che in qualche misura io vedevo queste coppie come aventi tra di loro una passione enorme (anche passione erotica). Credo quindi che la demonizzazione dia la possibilità certamente di sperimentare una nuova identità, la quale però resta molto collegata all’identità dell’altro, visto ora come il mio carnefice. Il legame dunque non viene perso.

Sacchelli: A proposito della demonizzazione voglio aggiungere un altro elemento, importante. Ciò che crea conflitto è la distanza. Il conflitto viene infatti alimentato dalla distanza: quando le persone si mantengono distanti tra loro non c’è bisogno di trovare una soluzione al conflitto. Quanto più si mantengono le distanze per cercare di evitare il conflitto, tanto più in realtà si evita che ci sia la risoluzione dello scontro e il conflitto può perdurare.

Schneider: Il conflitto in altre parole si mantiene in equilibrio e in vita anche grazie alla distanza tra le persone in lotta? 

Marinello: Certo. Aggiungo anche che il contesto stesso ha una forte influenza sul mantenimento delle dinamiche interne alla coppia, e naturalmente anche quelle di conflitto. A questo proposito e allargando il campo di discussione dobbiamo dire che i sistemi clinici [della cura, ndr] tendono a separare le persone, a vederle separatamente e ciò in qualche misura implica l’idea che la distanza sia necessaria per evitare il conflitto, ma non è così. Anzi, ciò alimenta la paura.

Schneider: Davvero interessante. Ci avete dato un’idea da un punto di vista individuale di cosa succede durante le separazioni e di cosa sia la demonizzazione vista in un’ottica interattiva. Vorrei adesso riprendere quanto Renzo diceva prima sul contesto. Cosa ne pensate in particolare del ruolo del contesto familiare, dal punto di vista sistemico, nel mantenimento della demonizzazione?  

Sacchelli: Le famiglie hanno un ruolo importante, spesso di amplificazione della demonizzazione. Spesso tendono a rinforzare il processo di vittimizzazione del proprio figlio anche se ci sono casi in cui la famiglia di origine vede la figlia/o come carnefice e sostiene questo ruolo.

In particolare però soprattutto nei casi di separazioni conflittuali la famiglia contribuisce a definire il senso degli eventi secondo una bipolarità (buono-cattivo, abusante-abusato, chi ha torto e chi ha ragione) e definisce una logica “bipolare” di funzionamento delle cose.

Marinello: Mentre la coppia si muove sulla bipolarità vittima-carnefice, il sistema giuridico e la famiglia si muovono sulla bipolarità colpevole-innocente. Si tratta di logiche in realtà molto simili che vanno ad amplificare la demonizzazione. Il modo in cui si muove la coppia è dunque omologo nella sostanza al sistema giuridico e a quello familiare. L’interazione di questi sistemi fornisce dunque un incremento e un mantenimento della demonizzazione.

Schneider: Considerando adesso i vari contesti che intervengono soprattutto nelle situazioni più conflittuali, vi faccio una domanda sull’aspetto terapeutico. Come clinici che cosa guadagnate e che cosa perdete con il vostro approccio? 

Marinello: Abbiamo costruito un modello di intervento coerente con le premesse da cui siamo partiti. Nella prima fase si lavora con le famiglie di origine, con gli avvocati, introducendo eventualmente nel macrosistema anche dei conoscenti, degli amici che possono aiutare gli ex partner e facendo varie proposte alla coppia, in particolare quella di lavorare con il macrosistema.

Sempre importante è la comunicazione, e lo è ancora di più in questa fase. Considerando come abbiamo detto che la distanza mantiene il conflitto, può essere utile far comunicare le persone direttamente. Si propone alle persone un progetto dicendo loro che la comunicazione diretta aiuta, si cerca di fare in modo che il macrosistema da elemento amplificatore diventi un elemento di ostacolo, di blocco del conflitto.

Sacchelli: L’obiettivo è sia quello del depotenziamento del conflitto sia del riconoscimento; quando si è all’interno di una situazione conflittuale ci si riconosce come vittime e si pensa semplicemente a difendersi dal carnefice, non si riescono a riconoscere le proprie responsabilità nel conflitto. Una parte importante del processo terapeutico è quindi riuscire a fornire questa consapevolezza.

Sostengo che con questo approccio perdiamo “fin troppo poco”: questo approccio si occupa infatti della complessità. Stare in mezzo ad un conflitto è difficile ed essendo le situazioni molto complesse tendiamo a tenere in conto tutti i fattori.

Schneider: Vi chiedo come si liberano secondo voi le persone da questa posizione e da questo coinvolgimento nel conflitto, visto che spessissimo è un conflitto particolarmente accesso e le persone difficilmente riescono a decentrare il loro punto di vista. 

Marinello: Parlando di esternalizzazione. Proviamo a vedere se c’è la possibilità di risignificare per le persone ciò che sta accadendo ponendo il conflitto come una parte terza, un ente dotato di vita e dimensione propria che va a schiacciare i due partner. In questo modo entrambi sono vittime di questo conflitto. Se questo passaggio avviene, si prosegue; esternalizzare è dunque il primo punto, il passaggio successivo consiste nell’assunzione di responsabilità nei confronti del conflitto.

Schneider: Mi pare di capire che secondo la vostra proposta per “curare” le persone da questo conflitto sia necessario in primo luogo unire la coppia “contro” il conflitto stesso, e in secondo luogo è necessario riconoscere le proprie responsabilità: bisogna insomma far capire la posizione di ciascuno rispetto a questo “organismo esterno” che è il conflitto, per modificarla. 

Quanto è importante secondo voi focalizzarsi sul singolo e sulle sue responsabilità o all’opposto comprendere le logiche triadiche alla base del conflitto?  

Sacchelli: Nelle separazioni conflittuali la relazione triadica esiste più tra i partner e i figli piuttosto che con la famiglia d’origine.

Schneider: Questo è interessante perché la letteratura ci dice che la grandissima parte delle coppie che si separa in maniera conflittuale è composta da coppie con figli: la percentuale di coppie che non ha figli e che ha una separazione conflittuale è infatti molto bassa. I figli sembrano quasi essere una condizione necessaria affinchè si sviluppi una separazione altamente conflittuale. 

A tal proposito oggi una delle questioni più dibattute è il tema della sindrome da alienazione genitoriale. Ci aiutate a capire che cos’è? Come avviene? Cosa ne pensa la psicologia sistemica? 

Sacchelli: La sistemica non si occupa molto della sindrome da alienazione genitoriale. Noi abbiamo cercato di trattarla nel libro.

Marinello: Noi la definiamo come una “condizione sistemica” della relazione familiare. I figli non hanno una narrazione condivisa sulla separazione, le narrazioni sono generalmente speculari e opposte; l’alienazione ha a che fare con queste narrazioni ed è scelta del figlio a quale narrazione aderire. L’alienazione in qualche modo è la forma più stabile di adattamento perchè consente di togliersi dal conflitto. Qualsiasi adattamento i figli mettano in atto diventa sempre un potenziatore del conflitto. La demonizzazione attraverso il processo di alienazione cresce sempre di più.

Schneider: Possiamo forse pensare all’alienazione come ad un modo da parte dei figli per sottrarsi ad una situazione insostenibile che è lo stare dentro a due narrazioni inconciliabili? 

Marinello: L’alienazione riesce ad affrontare la marginalizzazione del figlio e riesce a porre un fine al conflitto di lealtà in quanto si ha un’alleanza forte con una parte.

Sacchelli: L’alienazione è sostanzialmente un rifiuto dell’altro genitore, del genitore non convivente. Noi pensiamo che i figli siano dei soggetti attivi nello scegliere di rifiutare l’altro genitore e pensiamo anche che condividano la relazione demonizzante del genitore convivente, in quanto questo serve per mantenere il legame.

Schneider: Molto interessante. Vi chiedo ora se secondo voi un genitore collocatario di un figlio alienante riesca meglio a staccarsi dal partner perchè ritrova il senso nel legame costruito con il figlio. L’alienazione consente quindi di “liberarsi” in modo più veloce ed efficace dell’ex partner? 

Sacchelli: Nella nostra esperienza i genitori “se ne lavano le mani” e dicono al figlio di decidere. Una cosa che caratterizza il nostro approccio è la non intenzionalità; non si tratta di una manipolazione ma di assorbire anche da parte dei figli la paura verso l’altro genitore in quanto fanno parte della relazione demonizzante. Questo approccio ci permette dunque di non colpevolizzare i genitori. Tengo anche a dire che il genitore rifiutato ha anch’esso un ruolo attivo: vengono infatti da lui messi in atto una serie di comportamenti basati su paura, insicurezza e sulla vergogna che sono comportamenti di ritiro. Ad esempio il genitore non si fa sentire proprio per paura di essere rifiutato ma ciò viene percepito dal figlio come abbandono e va a rinforzare l’alienazione.

Importante è anche la questione dell’assenza di aspetti normativi; nell’alienazione il figlio rifiuta la normatività, le regole del genitore alienato, rifiuta il ruolo genitoriale del genitore non convivente.

Schneider: Quali sono le vostre linee terapeutiche rispetto all’alienazione? 

Sacchelli: La linea terapeutica usata si propone un riavvicinamento all’altra persona. In questo senso fondamentale è ridurre la paura e arrivare ad un incontro tra le due parti. Durante l’incontro si cerca anche in questo caso di esternare il conflitto.

Schneider: Importantissimo quindi mi sembra per voi il lavorare sulla meta-comunicazione, sull’uscire dalla dimensione del contenuto per lavorare su una dimensione di più alto livello logico. Inoltre mi sembra che riteniate fondamentale disinnescare la paura dell’altro. 

Sacchelli: Noi parliamo di intervento di “innesco della generatività”. La demonizzazione crea una situazione di impoverimento: vediamo l’altra persona solamente come un mostro, un demone e subiamo dunque un impoverimento della capacità creativa di sviluppare e inventare nuovi significati. Abbiamo un blocco della cosiddetta mentalizzazione. E’ utile aiutare le persone a sbloccarsi e a riuscire a trovare nuove narrazioni che non siano quelle della demonizzazione per spiegare quello che è successo e quello che succede in quanto ciò consente di ridurre la paura. Questo meccanismo aiuta a vedere le persone come essere umani e non più come demoni.

L’intervista è stata fatta nel mese di gennaio 2020.

 

Affrontare il trauma. Verso una psicoterapia integrata (2021) a cura di Giancarlo Dimaggio – Recensione del libro

Un volume in cui alcuni tra gli autori più importanti nella letteratura internazionale e italiana per il trattamento del Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) descrivono i loro lavori con grande ricchezza di esempi clinici.

 

 Giancarlo Dimaggio, psichiatra, psicoterapeuta e fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma, cura questo volume in cui alcuni tra gli autori più importanti nella letteratura internazionale e italiana per il trattamento del Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) descrivono i loro lavori con grande ricchezza di esempi clinici.

Il disordine da stress post-traumatico (PTSD), definito e studiato negli Stati Uniti soprattutto a partire dalla guerra del Vietnam e dai suoi effetti sui veterani, è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito ad esperienze fortemente traumatiche. Può anche essere causato da una esposizione ripetuta e continua a episodi di violenza e di degrado e si manifesta in persone di tutte le età. I sintomi sono classificabili in tre categorie ben definite:

  • episodi di intrusione, cioè ricordi improvvisi che si manifestano in modo molto vivido e sono accompagnati da emozioni dolorose;
  • volontà di evitare e mancata elaborazione, quando un individuo cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che lo riporti al trauma e, al contempo, manifesta frequentemente senso di colpa;
  • ipersensibilità e ipervigilanza, ovvero quando le persone si comportano come se fossero costantemente minacciate dal trauma.

Questo volume descrive alcuni tra gli approcci più diffusi e validati per trattare il PTSD semplice insieme a lavori dedicati alla sua forma complessa; in particolare per quanto riguarda quest’ultima, le ricerche più recenti hanno registrato migliori outcome nei trattamenti combinati. Nell’ottica della possibilità di una terapia integrata nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico, vengono dunque illustrate sia terapie espositive che non, come, ad esempio, la teoria di Esposizione prolungata, la Psicoterapia Interpersonale, l’EMDR, la Schema-Therapy, la Terapia Cognitivo-Evoluzionista integrata all’EMDR, la Control-Mastery Theory, l’Emotion-Focused Therapy, e naturalmente, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) dell’autore, che mira a migliorare la metacognizione, cioè la capacità di comprendere i pensieri, le emozioni, le cause psicologiche dei propri comportamenti disfunzionali, oltre che a promuovere ed affinare la capacità di capire cosa gli altri pensano, provano e cosa li muove ad agire, per promuovere modi di relazionarsi più funzionali attraverso la comprensione degli schemi interpersonali che guidano le azioni.

Non esiste un consenso generale sul modo di curare le persone affette da PTSD, i numerosi trattamenti attualmente validati generano tutti buone risposte ma allo stesso tempo hanno dei limiti. Solamente staccandosi da un’ottica competitiva, in cui si cerca la terapia migliore, ci si potrà focalizzare sulla peculiarità della persona in difficoltà e trovare il trattamento più efficace. In questo modo il clinico potrà conoscere la cura del PTSD nelle sue sfaccettature e arricchire il proprio repertorio, trovandosi pronto a fronteggiare le difficoltà che questi pazienti presentano in modo flessibile, grazie ad un repertorio aggiornato di tecniche e all’attenzione alla relazione terapeutica.

 

Musica per la mente del bambino in terapia intensiva neonatale

La musica è un linguaggio universale, capace di unire culture e popoli totalmente differenti fra loro. Il suo ruolo terapeutico però è ancora poco conosciuto, in particolare, in alcuni settori come quello della terapia intensiva neonatale (TIN).

 

Nonostante diversi studi abbiano riscontrato benefici apportati dalla musica in varie aree della salute del neonato pretermine (es. respiro e battito cardiaco regolarizzati; Anderson & Patel, 2018), non ci sono evidenze per quanto riguarda l’esposizione alla musica e i suoi possibili effetti sullo sviluppo cerebrale dei bambini in Terapia Intensiva Neonatale (TIN).

Proprio per questo lo studio di Lordier e colleghi (2019) è così importante ed innovativo. In particolare questo team di ricerca, afferente all’università e agli ospedali universitari di Ginevra, ha dimostrato attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica (MRI), come inserire la musica (in particolare piccole composizioni musicali fatte da strumenti come l’arpa e le campanelle) all’interno del protocollo di care della Terapia Intensiva Neonatale fino al raggiungimento della quarantesima settimana di vita dei bambini nati pretermine, possa migliorare le connessioni fra network cerebrali normalmente meno connessi a causa della brusca interruzione del loro sviluppo dovuta alla nascita prematura (Smyser et al., 2010).

In particolare, le regioni cerebrali che hanno beneficiato dell’esposizione alla musica durante la degenza in TIN sono state quelle deputate al processamento sensoriale ed uditivo delle informazioni. Questo è di particolare importanza considerando che l’apprendimento del bambino, in particolare durante i primi mesi di vita, avviene attraverso il bisogno di processare e unificare stimoli derivanti da diversi canali sensoriali (es. tatto, gusto). In particolare, gli autori hanno osservato un aumento delle connessioni fra il salience network (network della salienza), deputato al processamento degli stimoli importanti, e quelli deputati al processamento cognitivo di tali stimoli.

Questo risultato evidenzia come l’esposizione alla musica non solo possa migliorare abilità cognitive come attenzione e memoria in bambini che suonano uno strumento musicale (Habibi et al., 2018), ma che, fin da subito, possa anche favorire lo sviluppo cerebrale del bambino nato pretermine con possibili ricadute positive sul suo futuro neuro-evolutivo.

 

cancel