expand_lessAPRI WIDGET

Una vita degna di essere vissuta (2021) di Marsha Linehan – Recensione del libro

Nel suo ultimo libro, Una vita degna di essere vissuta, la Linehan, superando la paura e la vergogna, ci racconta il vero percorso di nascita della DBT, percorso strettamente connesso alle sue vicissitudini personali, come conseguenza del soffrire lei stessa di un disturbo borderline di personalità.

 

Quello di Marsha Linehan è attualmente uno dei nomi più conosciuti e autorevoli nel campo della salute mentale: è stata infatti l’ideatrice della Terapia Dialettico-Comportamentale – DBT (Linehan, 2011), ad oggi terapia d’elezione per i comportamenti disfunzionali che si associano frequentemente al Disturbo Borderline di Personalità; gli studi RCT (Randomized Controlled trial) condotti hanno infatti dimostrato l’efficacia della DBT in particolare nella riduzione dell’uso di alcol e/o di sostanze (Dimeff & Linehan, 2008), dei comportamenti autolesivi e/o dei tentativi di suicidio.

Il Sé indegno è lo stato mentale tipico dei pazienti borderline e si caratterizza per la percezione di se stessi come sbagliati, difettosi o mostruosi (Fiore & Semerari, 2003); tale stato si accompagna spesso a modificazioni nella percezione dello schema corporeo o a somatizzazioni. Dalla percezione di se stessi come indegni si attiva uno stato di auto-invalidazione che porta a nutrire sentimenti di rabbia e disprezzo verso se stessi.

Una vita degna di essere vissuta rappresenta la capacità di costruire una vita che abbia dei motivi per cui sentire che ne vale la pena, che abbia un numero sufficiente di cose positive (attività che ci piacciono, persone con cui ci piace stare) tali per cui si desidera alzarsi dal letto e viverle, a fronte dell’accettazione di eventi o emozioni negative che comunque non si possono evitare.

Nel corso degli anni Marsha Linehan ha coniugato la ricerca con la pratica clinica curando personalmente centinaia di pazienti considerati gravi a causa della presenza di comportamenti anticonservativi.

Nel suo ultimo libro, dal titolo Una vita degna di essere vissuta, la Linehan, superando la paura e la vergogna, ci racconta il vero percorso di nascita della DBT, percorso strettamente connesso alle sue vicissitudini personali, come conseguenza del soffrire lei stessa di un disturbo borderline di personalità.

Il libro è suddiviso in quattro parti, che affrontano interessanti tematiche di vita, di carriera accademica e di lavoro di Marsha, attraverso una lettura fluida e scorrevole.

Parte prima: La discesa all’inferno

Marsha era una giovane adolescente quando, nel 1961, venne ricoverata presso l’Institute of Living,  rinomato istituto psichiatrico di Hartford, nel Connecticut. Prima di allora era stata una studentessa spensierata, sicura di sé e molto popolare. Marsha proveniva da una famiglia religiosa, benestante e numerosa, che sotto molti aspetti era per lei e per la società di Tulsa, la sua città d’origine, una famiglia meravigliosa; eppure era sempre presente in lei l’idea di una diversità caratteriale e fisica che si adattavano poco alle aspettative familiari, aspettative che portavano la madre a compiere sforzi continui di trasformarla in una ragazza carina, di bell’aspetto e socialmente adatta.

Tale divario tra ciò che Marsha sentiva di essere e la preoccupazione costante di non dover deludere le aspettative altrui, unito ad un ambiente familiare invalidante, aveva gradualmente instillato in lei il pensiero di essere lei stessa il problema perché non adatta. Nel corso dell’ultimo anno di liceo l’apparente sicurezza di Marsha iniziava così a scomparire lasciando spazio ad un grave stress e ritiro sociale e al conseguente ricovero; ricovero che divenne determinante nell’aggravamento sintomatologico. Infatti Marsha iniziò proprio durante la sua permanenza presso l’istituto a mettere in atto comportamenti autolesivi e tentativi di suicidio, seguiti da contenzione e lunghi periodi di isolamento punitivi, in una sorta di circolo vizioso dove l’autolesionismo e l’isolamento, attenuando le emozioni negative legate al contesto di cura, diventavano potenti meccanismi di mantenimento e di peggioramento del disturbo. Dopo due anni Marsha venne dimessa poiché dichiarata incurabile. Fu allora che promise a Dio (e a se stessa) di guarire con l’obiettivo di curare altre persone con disturbi mentali gravi e di dimostrare agli altri di potercela fare da sola.

Parte seconda: Il cambiamento

La nuova vita di Marsha iniziò con il trasferimento a Chicago, con l’obiettivo di allontanarsi dalla famiglia, lavorare per essere economicamente indipendente e studiare per diventare, nell’idea iniziale, una psichiatra. Iniziò così la sua carriera universitaria, in un difficile equilibrio tra ricadute depressive e comportamenti autolesivi da un lato e volontà di riuscire ad accettare i propri stati emotivi e se stessa dall’altro. Gli anni universitari vennero così vissuti tra l’entusiasmo per i successi accademici e la sensazione di diversità che la portavano spesso a sperimentare stati di solitudine. Marsha iniziò così ad escogitare delle strategie comportamentali per padroneggiare la disregolazione emotiva e le difficoltà relazionali, strategie che diventeranno in seguito parte del protocollo DBT. Si laureò in psicologia e in seguito conseguì un dottorato di ricerca che le permise di perfezionare le sue conoscenze sul comportamentismo e di applicarle alla pratica clinica. Il lavoro nella clinica per suicidi di Buffalo rappresentò una tappa molto importante per l’esperienza sul campo della Linehan che iniziò così ad applicare i principi del comportamentismo al contrasto dei comportamenti anticonservativi.

Parte Terza: Breve descrizione della DBT

La DBT è un programma di trattamento comportamentale, caratterizzato dalla combinazione di sedute di psicoterapia individuale a cadenza settimanale, skills training di gruppo, supporto telefonico per la gestione delle crisi, team di consultazione terapeutica e interventi rivolti alla famiglia allo scopo di rendere più adattivo il contesto familiare del paziente. Fondamentale è l’acquisizione di abilità che si suddividono in quattro categorie, ognuna delle quali è progettata per risolvere una diversa serie di problemi, in un costante equilibrio tra accettazione e cambiamento della realtà. Le prime due, abilità di mindfulness e di tolleranza alla sofferenza,  indicano la via per accettare la realtà così com’è, mentre le ultime due, abilità di regolazione emotiva e di efficacia interpersonale, sono abilità di cambiamento.

Parte quarta: Il cerchio si chiude

Nella quarta ed ultima parte del libro la Linehan descrive i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni della sua vita, quali il percepirsi finalmente parte di una famiglia, l’abbandono della sensazione di solitudine e di vuoto e la decisione di voler rendere pubblica la sua storia attraverso una conferenza  presso l’istituto in cui venne ricoverata molti anni prima, chiudendo così il cerchio.

Per la Linehan la sfida della DBT è ancora aperta: molto è stato fatto ma tanto bisogna ancora fare per far si che la DBT possa essere condivisa a livello mondiale ed entrare in altri ambiti, oltre quello clinico, come quello scolastico, nell’idea che le abilità contenute in essa possano essere coltivate sin da piccoli. Negli ultimi anni la DBT si è affermata, oltre che negli Stati Uniti, anche in America Latina, Europa, Asia e Medio Oriente. Il trattamento si è rivelato utile anche per persone con dipendenza da sostanze (Dimeff & Linehan, 2008), depressione, PTSD (Bohus et al, 2020) e disturbi alimentari (Klein et al. 2013; Safer et al. 2010; Chen et al., 2015) ed è in via di sperimentazione un lavoro sull’applicazione della DBT a soggetti con cancro.

 

La comunicazione non verbale con persone affette da demenza e l’uso della mascherina durante la pandemia di Covid-19: il metodo ABC

Le attuali condizioni dovute alla pandemia di Covid-19 non favoriscono la comunicazione in generale, specialmente quella non verbale. L’uso di mascherine impedisce il riconoscimento delle espressioni facciali, in modo particolare ai pazienti con demenza

 

Non si può non comunicare. Questo è il primo degli assiomi di Watzlawick (1967) sulla comunicazione. Ciò vuol dire che le parole, il silenzio o l’attività sono un messaggio, influenzano gli altri e gli altri a loro volta rispondono a tale comunicazione. Tutto è comunicazione.

Nelle interazioni sociali il linguaggio non può fare a meno della comunicazione non verbale.

Albert Mehrabian (1981) aveva diffuso alcuni dati abbastanza sorprendenti sulla comunicazione non verbale: in un messaggio vocale la comunicazione non verbale (movimenti del corpo e soprattutto del volto) inciderebbero al 55% nella sua comprensione, mentre l’aspetto verbale conterebbe solo il 7%. Il 38% è dato dalla comunicazione para-verbale, quindi tono, volume e velocità. Ciò dimostra l’importanza di tutti gli elementi che compongono la comunicazione non verbale e para-verbale, oltre chiaramente al messaggio verbale.

Questo tipo di comunicazione ha un ruolo fondamentale con persone che soffrono di demenza.

La cura degli anziani affetti da patologie degenerative come l’Alzheimer è legata molto alle interazioni sociali: familiari, operatori sanitari tutti devono approcciarsi considerando le difficoltà cognitive e quindi linguistiche della persona con cui si relazionano.

L’uomo, in quanto essere sociale, ha bisogno delle interazioni con gli altri. Dal momento che il declino delle abilità del linguaggio può portare a incomprensioni, conflitti e isolamento è importante capire come affrontare la comunicazione quando ci si prende cura di una persona affetta da demenza.

La comunicazione verbale diviene sempre più povera e decadente, sia in produzione che in comprensione, mentre la comunicazione non verbale rimane per lo più intatta (Ge, et al., 2020). Per questo dovremmo cercare di favorire e arricchire l’interazione con il paziente con l’utilizzo di aspetti della comunicazione non verbale altrettanto fondamentali per una comunicazione efficace.

In questo momento storico vanno considerate le chiare difficoltà nella gestione del paziente affetto da demenza e anziani fragili legate alla pandemia Covid-19 (Caratozzolo, et al., 2020).

Inoltre, studi hanno dimostrato come le persone anziane sembrano essere particolarmente vulnerabili all’attuale pandemia da un punto di vista sia fisico che psicologico e la narrazione autobiografica dei pazienti anziani ospedalizzati per Covid-19 (raccontare storie, dar loro la parola e ascoltarli attivamente) può avere un effetto positivo (Poli et al., 2020). Questa è un’ulteriore conferma dell’importanza di un’efficace comunicazione.

Purtroppo, però, le attuali condizioni dovute alla pandemia Covid-19 non favoriscono di certo la comunicazione in generale, specie quella non verbale. In particolare, ciò a causa dell’uso di mascherine che impediscono il riconoscimento delle espressioni facciali (Feng, et al., 2020): i pazienti con demenza riescono a leggere un sorriso come gioia o capire dal tono di voce uno stato di rilassamento o agitazione e così via.

Ed è chiaro poi che queste difficoltà nella comunicazione non verbale si ripercuotono nell’interazione nonché nella vita sia con i familiari che con gli operatori sanitari.

Di seguito solo alcuni esempi di difficoltà a cui si può andare incontro: le persone con demenza tendono a distogliere frequentemente l’attenzione, le famiglie non possono entrare in ospedali e case di riposo e, nella migliore delle ipotesi, possono parlare con i loro cari solo con videohiamate, possono entrare in stanza solo pochi operatori per volta indossando i dispositivi, inclusi camici, maschere e protezioni per gli occhi. Ora, tutto ciò va sovrapposto alla complessità dell’assistenza a persone con demenza e alle sfide comunicative come: fornire cattive notizie, supportare durante periodi di declino funzionale o cognitivo e stabilire obiettivi di cura appropriati nel contesto di malattie gravi o pericolose per la vita. Inoltre, il delirium o la depressione possono confondere ulteriormente.

A tal proposito, l’American Geriatrics Society (Schlögl, et al., 2020) ha messo a punto una serie di istruzioni che aiutano nella comunicazione efficace con pazienti che soffrono di demenza. Questo “metodo” è chiamato ABC e si fonda sui seguenti principi:

A – Attend mindfully

È importante che chi entra in relazione con una persona con demenza sia ben consapevole del proprio modo di comunicare. Solo se ciò si ha ben chiaro, solo se si conosce la propria mimica e i gesti che di solito si fanno ci si può rendere davvero consapevoli delle asimmetrie tra la comunicazione verbale e non verbale. Eliminando tali asimmetrie e sottolineando tutto ciò che si dice con gesti e mimiche adeguati, il linguaggio diventerà nettamente più interpretabile per la persona con demenza che ascolta.

B – Behave calmly

È fondamentale creare un’atmosfera positiva e di fiducia tra l’operatore o il familiare di riferimento e la persona. Bisogna trasmettere un senso di sicurezza, facendo in modo che il messaggio verbale concordi con quello non verbale della voce, degli occhi e della postura. Inizialmente ci si può presentare dicendogli chi siamo e che funzione abbiamo, porci davanti alla persona, all’altezza degli occhi mantenendo il contatto visivo e facendolo sentire a suo agio. Il tutto va correlato ad una voce lenta, calma e chiara. La relazione andrebbe stabilita in modo lento e graduale, secondo i ritmi della persona.

C – Communicate clearly

È importante dare alla persona il tempo sufficiente per comprendere il messaggio, cercando un luogo adatto e tranquillo con una buona illuminazione, senza distrazioni visive o acustiche. Utilizzare frasi brevi, chiare, sottolineando le parole con i gesti delle mani. Il tono deve essere gentile e né troppo alto né troppo basso. Per rafforzare il messaggio che si vuole comunicare può essere utile affiancare al messaggio verbale oltre che con i gesti anche con l’utilizzo di oggetti familiari alla persona. Si può anche ripetere il messaggio detto utilizzando sempre le stesse parole, senza aggiungere concetti nuovi che possono creare confusione.

Certamente, queste semplici linee guida non risolveranno tutti i problemi di comunicazione legati alla pandemia con le persone anziane vulnerabili e con demenza, ma possono aiutare l’operatore sanitario e familiare a comunicare chiaramente e in modo efficace con loro. Anche se si indossano i presidi obbligatori in questo periodo, in particolare la mascherina che non permette, come detto, una comunicazione non verbale agevole, soprattutto per pazienti con demenza, la comunicazione non verbale deve essere in qualche modo salvaguardata.

 

 

Metacredenze e vissuti emotivi nell’ortoressia – Partecipa alla ricerca

L’ortoressia (ON) viene definita come un’ossessione per uno stile alimentare sano e consapevole, caratterizzato da pensieri rigidi e assolutistici, preoccupazioni eccessive e regole riguardanti il cibo. Partecipa alla ricerca.

 

Quando una scelta di vita alimentare sana potrebbe sfociare in un disturbo? Possono essere le metacredenze a segnare il confine tra benessere e patologia?

Seguire una corretta alimentazione è uno degli aspetti a cui si deve prestare attenzione per avere una vita salutare e longeva. Tuttavia, ciò che inizialmente è una buona e sana abitudine può diventare talmente rigida e invalidante da trasformarsi in un vero e proprio disturbo psicologico (Pollan, 2006).

L’ortoressia (ON) viene definita come un’ossessione per uno stile alimentare sano e consapevole, caratterizzato da pensieri rigidi e assolutistici riguardanti gli effetti e i benefici sulla salute, da preoccupazioni eccessive sulla qualità e la provenienza del cibo e da regole alimentari severe ed auto-imposte (Donini et al., 2004).

Qualsiasi trasgressione può essere vissuta con un forte senso di colpa a cui si tenterà di porre rimedio irrigidendo sempre di più il controllo e le regole, attivando così un meccanismo che porterà non solo ad un peggioramento del disturbo ma anche ad una sua ripercussione su altre aree importanti della vita.

Quale potrebbe essere il fattore che segna il confine tra salute e patologia?

Abbiamo visto che ciò che caratterizza l’ortoressia è la preoccupazione eccessiva per uno stile alimentare sano.

La preoccupazione è un meccanismo psicologico funzionale che ci aiuta a fronteggiare meglio le situazioni e a pianificare in anticipo le cose in modo da evitare problemi in futuro (Wells, 1995).

Quando preoccuparsi diventa una costante allora i pensieri diventano così pervasivi che distraggono la persona, minando la sua capacità di concentrazione, il suo umore e la sua produttività sul lavoro, inficiando notevolmente sulla sua qualità di vita (Brosschot, J. F., & Thayer, J. F., 2004).

Sembra pertanto che la modalità con cui si reagisce al pensiero fonte di preoccupazione sia fondamentale nel determinare la funzionalità del preoccuparsi.

Il modo in cui tendiamo a pensare e gestire i nostri pensieri prende il nome di meta-credenza.

Tanto più la metacredenza circa il preoccuparsi è che sia un meccanismo non solo utile ma anche necessario e incontrollabile, tanto più il ricorrere ad esso diventa pervasivo e invalidante sia in termini comportamentali che emotivi (Wells, 1995; Purdon, C., & Clark, D. A.,1999).

Lo scopo della nostra ricerca è di indagare se, e quali, metacredenze hanno un ruolo significativo anche nel discriminare tra attenzione funzionale per l’alimentazione sana e ortoressia.

Parallelamente si cercherà di sondare se la presenza di specifiche metacredenze sia correlata a specifici vissuti emotivi.

La ringraziamo se vorrà partecipare alla nostra ricerca compilando il questionario riguardante le metacredenze e i vissuti emotivi nell’ortoressia. La invitiamo a condividere il link del questionario, in modo da raggiungere più persone ed avere un gruppo ampio e diversificato da cui poter raccogliere dati.

 

PARTECIPA ALLA RICERCA,
COMPILA IL QUESTIONARIO:

Come la danza aiuta l’interiorizzazione

Il presente studio è stato inserito all’interno di una ricerca controllata e randomizzata (RCT) di un intervento di danza per ragazze adolescenti con problemi di internalizzazione (Duberg et al., 2013).

 

La ricerca mostra che i problemi di salute mentale sono attualmente tra le maggiori sfide di salute pubblica a livello globale (Ferrari et al., 2013) e colpiscono il 10-20% dei bambini e degli adolescenti di tutto il mondo (Kieling et al., 2011). La frequenza attuale dei problemi di salute mentale tra gli adolescenti è più alta di quanto sia stata negli ultimi decenni (Bor, Dean, Najman, & Hayatbakhsh, 2014), e le ragazze mostrano una maggiore prevalenza di disturbi mentali rispetto ai ragazzi (Bor et al., 2014). È stato dimostrato che le ragazze sono più esposte allo stress interpersonale, tendono ad essere più sensibili alle reazioni degli altri sui loro successi e fallimenti (Murberg & Bru, 2004), e si sforzano di essere all’altezza dei bisogni e delle aspettative degli altri più dei ragazzi (Wiklund, Bengs, MalmgrenOlsson, & Ohman, 2010). L’adolescenza, come sappiamo, è una fase di transizione dall’infanzia all’età adulta, ed è caratterizzata da trasformazioni sia psichiche che fisiche, pertanto anche il corpo assume una forma e un valore simbolico differente: infatti, sperimentiamo il mondo attraverso il nostro corpo, ed è presente in tutte le nostre sensazioni, pensieri, comunicazione e azioni.

La danza è una forma sociale e culturale di attività fisica popolare tra le ragazze e le giovani donne (O’Neill, Pate, & Liese, 2011). È anche collegata a una maggiore consapevolezza dell’elaborazione delle emozioni e a una maggiore capacità di interpretare le emozioni degli altri (Bojner Horwitz, Lennartsson, Theorell, & Ullen, 2015). Le esperienze durante un’attività fisica come la danza possono essere complesse e possono includere sottili cambiamenti nella connessione corporea, percezioni del sé all’interno di un gruppo e aspetti emotivi. Un approccio qualitativo è utile per indagare le esperienze di questo tipo di intervento (Verhoef, Casebeer, & Hilsden, 2002).

A tale scopo, il presente studio è stato inserito all’interno di una ricerca controllata e randomizzata (RCT) di un intervento di danza per ragazze adolescenti (N=59, 24 delle quali hanno partecipato all’intervista) con problemi di internalizzazione (Duberg et al., 2013), condotto in una città svedese di medie dimensioni, al fine di esplorare questo tipo di esperienza.

L’intervento di danza ha avuto luogo in una palestra, dopo la scuola, due volte alla settimana per 8 mesi, sotto la guida di tre istruttori di danza formati (uno alla volta). Ogni lezione di danza durava 75 minuti e comprendeva: 15 minuti di riscaldamento, 40 di danza effettiva e 15 di rilassamento. L’obiettivo principale dell’intervento era il piacere del movimento. La danza era per lo più coreografata, ma l’improvvisazione e i movimenti spontanei erano sempre inclusi per incoraggiare la creatività. Le partecipanti avevano anche l’opportunità di fare proposte circa la musica e gli stili di danza. Non erano previste vere e proprie esibizioni, in quanto l’intenzione era quella di offrire un’esperienza di danza positiva priva di pressioni esterne, per godere della musica, della socializzazione con i coetanei (circa 20 ragazze per gruppo), e per migliorare la consapevolezza del corpo. Le interviste erano faccia a faccia, semi-strutturate, e tutte sono state condotte dalla stessa persona, il primo autore (AD), per garantire la coerenza interna. La durata delle interviste variava tra i 35 e i 90 minuti a seconda delle risposte individuali dei partecipanti, e le domande erano del tipo “Cosa ti è piaciuto di più/meno della sessione di danza?” e “Come si sente il tuo corpo quando danzi? È cambiato? Come?”. Le interviste sono state poi analizzate con l’analisi qualitativa induttiva del contenuto (Elo & Kyngas, 2008). La trascrizione delle interviste è stata letta da diversi autori che hanno scritto delle note sul contenuto a margine del testo, in un processo di codifica aperta. I dati sono stati poi analizzati utilizzando il programma software NVivo 10 (QSR International, 2014). Successivamente, si sono incontrati per discutere la codifica e creare delle categorie, a loro volta suddivise in sottocategorie.

L’analisi ha prodotto cinque categorie generiche e una categoria principale, intitolata “Trovare la fiducia in se stessi, che apre nuove porte”, che rappresenta la loro principale esperienza di una maggiore fiducia in se stesse e la capacità di affrontare la vita con un senso di libertà e apertura. Nello specifico, l’intervento di danza, secondo quanto riportato dalle adolescenti, dava accesso alle risorse personali e le arricchiva: all’interno di un’atmosfera non giudicante e di supporto reciproco come base sicura, il divertimento e la responsabilizzazione nella danza hanno dato origine all’accettazione, alla fiducia nelle capacità e all’espressione emotiva. Ciò può essere spiegato dal fatto che, quando si usa il corpo in modi nuovi, una persona può imparare a vedere le cose in modo diverso (Anderzen-Carlsson, Persson Lundholm, Kohn, & Westerdahl, 2014). Le categorie generiche sono le seguenti: (1) un’oasi dallo stress, (2) supporto reciproco, (3) divertimento e responsabilizzazione, (4) trovare accettazione e fiducia nelle proprie capacità, (5) danza come espressione emotiva.

Nel complesso le ragazze hanno definito lo stress come un qualcosa con cui vivevano ogni giorno sotto forma di pressione delle norme socioculturali e dalle valutazioni critiche: hanno riferito che a volte era difficile gestire la pressione interna ed esterna e spesso si sentivano suscettibili all’influenza dei media. L’intervento di danza è stato descritto come un’oasi, un rifugio dalle pressioni, una zona libera dalle aspettative e dai giudizi, in cui potevano essere semplicemente se stesse. Una ragazza ha detto: “nel nostro contesto è sempre tutta una questione di voti o crediti, ed è così bello andare a ballare. Perché lì puoi lasciare andare tutto il resto ed essere e basta. Senza cercare sempre di ottenere qualcosa. È fantastico.”

Il supporto reciproco e la possibilità di stare insieme offerto dall’intervento ha dato alle partecipanti la possibilità di connettersi con altre adolescenti con gli stessi problemi di interiorizzazione, che hanno sperimentato le stesse pressioni e richieste, e di sentirsi a proprio agio all’interno di un gruppo. Una delle partecipanti ha riferito: “E’ come se, dopo dieci anni, fossi abbastanza stanca di stare sempre da sola, senza fare nulla e gironzolare per casa. All’improvviso vedi degli amici che sembrano voler passare del tempo con te e allora è tutta un’altra cosa”.

Le intervistate hanno riconosciuto che all’inizio dell’intervento, c’era senza dubbio insicurezza sociale, ma l’unione e l’atmosfera permissiva hanno contribuito a sviluppare rapidamente un sentimento di accettazione e inclusione amichevole: il confronto competitivo diminuiva man mano che la connessione con gli altri nel gruppo migliorava e l’unione diventava più prominente. Un altro aspetto evidenziato da quasi tutte le ragazze era che il ballo dava una sensazione di divertimento: “Ci si sente come se, sai, ti liberassi di quello che hai fatto prima di quel giorno e andassi davvero lì e dare tutto quello che hai. Qui non devo pensare a nient’altro, devo solo essere felice, dare tutto quello che ho, e divertirmi con tutti gli altri”. La parte creativa della sessione di danza è stata descritta come giocosa ed utile per esplorare nuovi movimenti. Inoltre, il fatto di non dover essere sempre perfette, ha dato spazio all’aumento dell’accettazione personale: una delle ragazze ha detto “Se ho delle battute d’arresto, so che, tipo, ehi, andrà tutto bene … le cose possono essere difficili a volte, è sempre così, ma migliorano”. Ancora, è stata riferita una fiducia nelle proprie capacità, che secondo le ragazze non dipendeva dal confronto con le altre, piuttosto era basata su un crescente sentimento di competenza personale. Infine, un aspetto centrale dell’esperienza dell’intervento di danza è stato il modo in cui le diverse coreografie hanno permesso l’affermazione e l’espressione di diversi tipi di emozioni attraverso il movimento di tutto il corpo, invece delle parole. Ciò ha arricchito la consapevolezza e il linguaggio del corpo, facilitando l’espressione dei sentimenti attraverso un canale di comunicazione nuovo. Ad esempio, una ragazza, riferendosi ad una coreografia che includeva delle cadute a terra, ha detto: “E’ come la vita… cadi e ti rialzi”. Questo movimento ha aiutato queste ragazze ad accettare la caduta e a concentrarsi sulla parte positiva di esso: il momento in cui ci si rialza.

In conclusione, questi risultati possono fornire informazioni pratiche agli operatori sanitari riguardo quali aspetti potrebbero essere utili nella progettazione di interventi che mirano a ridurre i problemi di interiorizzazione per le ragazze adolescenti. Come descritto in questo studio, la danza potrebbe costituire un esempio di intervento non farmacologico promettente come trattamento complementare. Inoltre, potrebbe anche motivare questo gruppo-target a impegnarsi in forme attive e positive di auto-cura, alleviando così il carico di lavoro sanitario e contribuendo a sostenere abitudini sane.

 

Dalla teoria alla clinica: il rimuginio e la ruminazione ai tempi del Covid-19

La pandemia (e i suoi fattori correlati) sta causando non pochi problemi di salute mentale, tra cui stress, ansia e sintomi depressivi. L’aumento di disturbi d’ansia e depressione si porta inevitabilmente dietro anche processi mentali che sappiamo essere in forte associazione con essi: rimuginio e ruminazione

 

Durante questo difficile periodo di emergenza sanitaria da Covid-19, in cui le persone hanno imparato ad utilizzare dai media termini come “Tampone”, “Asintomatico” o “Quarantena”, è facile pensare a come la pandemia mondiale abbia colpito e manifestato i suoi effetti non solo nel fisico delle persone affette dal virus ma anche nella mente di ciascuno di noi. La riorganizzazione della nostra quotidianità, del nostro lavoro e dei rapporti con gli altri, possono essere vissute in modo fortemente ansiogeno anche da un soggetto non incline alla sofferenza psicologica. Ora siamo in grado di dire che la pandemia (e i suoi fattori correlati) stia causando non pochi problemi di salute mentale sia negli operatori sanitari che nelle persone comuni: le evidenze ad oggi registrate comprendono stress, ansia e sintomi depressivi (De Nardin, 2020).

L’aumento di disturbi d’ansia e depressione si porta inevitabilmente dietro anche processi mentali che sappiamo essere in forte associazione con essi: il rimuginio (associato al disturbo d’ansia generalizzato) e la ruminazione (associato ai sintomi depressivi) (Sassaroli, & Ruggiero, 2003; Broderick & Korteland, 2004).

Rimuginio

Il rimuginio è uno stile di pensiero tipico dei soggetti ansiosi ma non esclusivo di questa categoria, di per sé non è patologico ed infatti tutte le persone rimuginano. È caratterizzato dalla costante autoripetizione di pensieri negativi e catastrofici, solitamente di natura verbale, che hanno come oggetto situazioni, eventi o cose che il soggetto percepisce come altamente minacciosi (Borkovec, 1998; Molina et Al., 1998; Williams et Al., 1997; Borkovec, 1990). Spesso la minaccia viene rappresentata dal soggetto come indefinita, povera di dettagli e di dinamicità ma comunque capace di sferrare un attacco catastrofico ed irreversibile (Williams et al., 1997). È proprio questa mancanza di dettagli nella rappresentazione della minaccia che potrebbe far sì che il virus, spesso definito anche come “nemico invisibile”, si presti molto bene ad essere oggetto dei pensieri rimuginatori delle persone.

Il rimuginio (worry in inglese) ha comunque una sua funzione adattiva: razionalizza la minaccia andando a ridurre l’ansia per la stessa e ponendo il soggetto ruminatore in uno stato di semi-allerta utile per affrontare la situazione temuta. Al contempo il rimuginio può possedere una valenza maladattiva poiché, a lungo andare, l’inibizione protratta della processazione emozionale determina una persistenza delle stesse emozioni sgradevoli (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Questo può aiutarci a discriminare un soggetto ruminatore normale da uno patologico, in cui le predizioni catastrofiche persistono ripetutamente, per più tempo e senza mai trovare una strategia di intervento utile alla soluzione del problema (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Il soggetto ansioso tende anche ad attribuire delle funzioni negative e/o positive al proprio rimuginare. Borckovec, in uno studio del 1998, ha descritto molto bene lo scopo che i pazienti attribuiscono al loro rimuginio. Emerge come spesso questi credano che il rimuginio li possa aiutare a trovare soluzioni al problema, a ridurre gli stati ansiosi che la minaccia causa in loro o che li possa aiutare nel prepararsi alla sopportazione della situazione temuta (nel caso in cui dovesse effettivamente verificarsi) e così non soffrirne troppo, proprio come in una sorta di palestra mentale (Borkovec et al 1998).

Ruminazione

La ruminazione è molto simile, ma non combacia perfettamente con il rimuginio. Nonostante le similitudini, il rimuginio sembra essere caratterizzato dall’immaginare pericoli e minacce riferite ad un tempo futuro mentre la ruminazione appare maggiormente duratura ed orientata a comprendere le cause stesse del proprio malessere e dei propri stati d’animo passati e presenti (Papageorgius & Wells, 2004). La ruminazione è caratterizzata da una catena di pensieri e quesiti che la persona inizia a porre a se stessa in risposta ad uno stato emotivo negativo esperito che spesso provoca o ha provocato sofferenza. Ne sono un esempio domande del tipo: perché è successo proprio a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo? Tali forme di pensiero possono essere causa della comparsa di sintomi depressivi e del loro mantenimento (Broderick & Korteland, 2004). La ruminazione viene definita come un fattore transdiagnostico riscontrabile in numerosi disturbi psichiatrici: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi trauma-correlati ed ovviamente depressione (Birrer & Michael, 2011; McLaughlin & Noel-Hoekesma, 2011).

Anche la ruminazione, come il rimuginio, rappresenta un tentativo di controllo delle emozioni negative che porta inevitabilmente a peggiorare lo stato d’animo negativo già presente. È inoltre possibile che la ruminazione possa andare a distorcere, in termini negativi, la percezione stessa dell’oggetto del pensiero ruminatorio e di se stessi (Wells, 2009).

Spesso la ruminazione può riportare alla mente sentimenti che provocano rabbia nel soggetto, questa tipologia viene definita “ruminazione rabbiosa”; ha la caratteristica di focalizzare l’attenzione del soggetto su cause e conseguenze dell’evento passato aumentando l’attivazione emotiva negativa e la probabilità di rispondere con comportamenti aggressivi (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012; Pedersen et al., 2011; Anestis et al., 2009).

Come è stato precedentemente accennato, in questi mesi di quarantena era possibile che le persone sviluppassero sintomi ansiosi e depressivi alla cui radice risiedono i processi di cui abbiamo parlato. Attraverso la letteratura scientifica, che attualmente è ancora molto scarsa, andiamo ad analizzare come si sono presentati il rimuginio e la ruminazione durante il periodo di allerta a causa del COVID-19.

Lo studio di Ye et al., (2020), condotto su una popolazione di giovani studenti cinesi, ha proposto un modello per analizzare come fattori di stress relativi al COVID-19 generassero conseguenze stressanti nelle persone e hanno ipotizzato che questa relazione fosse mediata dalla ruminazione.

È emerso che la ruminazione non è solo la conseguenza della presenza di fattori di stress relativi al COVID-19, ma anche un parziale catalizzatore delle conseguenze stressanti.

Covid-19, ruminazione e stress

Analizziamo per gradi la relazione tra fattori stressanti relativi al covid-19, ruminazione e conseguenze stressanti.

Per quanto riguarda la prima parte (fattori di stress relativi al COVID-19 – ruminazione) è emerso che gli stressor hanno causato la messa in atto di meccanismi di ruminazione. Questo risultato è in linea con quanto già sappiamo sulla ruminazione, cioè che essa è mutevole in risposta a eventi di vista stressanti. Fattori di stress e fattori incontrollabili possono creare nelle persone una dissonanza tra lo stato obiettivo di realtà e lo stato ideale che li porta a ruminare. Infatti, coloro che non hanno buone strategie per gestire le emozioni possono essere suscettibili ad una improvvisa mancanza di controllo sul proprio ambiente, e questo è quanto accaduto durante il COVID-19.

Per la seconda parte della relazione (ruminazione – conseguenze stressanti) è stato evidenziato che la ruminazione era associata a maggiori conseguenze stressanti. Ovvero, impegnarsi nella ruminazione portava gli studenti a ritrovarsi in un circolo di emozioni e pensieri negativi rendendoli così più vulnerabili a conseguenze stressanti come l’ansia, una peggiore qualità del sonno e la depressione. Allo stesso tempo è stato evidenziato che i fattori di stress sono rimasti significativi predittori delle conseguenze stressanti anche dopo aver tenuto sotto controllo la ruminazione.

Sun et al., (2020) hanno preso in esame l’esperienza psicologica dei pazienti ospedalizzati. Attraverso interviste telefoniche o mediate dal computer, i ricercatori hanno messo in luce che le reazioni del corpo e della mente di questi pazienti includevano risposte dipendenti dallo stato di malattia, eccessiva attenzione ai sintomi, ruminazione, cambiamenti della dieta, del sonno e del comportamento. Per quanto riguarda la ruminazione, è emerso che la metà dei pazienti mostrava un comportamento di ruminazione, accompagnato da paura e senso di colpa. La ruminazione iniziava ripensando alle scene precedenti e successive al ricovero con particolare attenzione ai contatti interpersonali che avevano prima di ammalarsi, all’arrivo dei sintomi, all’ingresso e al ricovero in ospedale.

Un altro studio degno di nota è stato condotto nel Regno Unito con il fine di indagare l’impatto del COVID-19 sulla salute mentale e cognitiva della popolazione. Il campione era composto da donne con tumore al seno, le quali hanno subito conseguenze emotive legate al COVID-19 particolarmente negative. È infatti accaduto che nel Regno Unito, a causa dell’emergenza coronavirus, il servizio sanitario nazionale abbia deciso di interrompere i servizi a disposizione delle pazienti oncologiche per dedicare queste risorse alla cura dei pazienti malati di coronavirus; alle signore è stata anche recapitata una lettera da parte del governo in cui c’era scritto che avrebbero dovuto proteggersi evitando situazioni sociali per dodici settimane.

Dai risultati è emerso come l’interruzione dei servizi oncologici abbia causato un livello più elevato di ansia e depressione e una maggiore vulnerabilità emotiva correlata al coronavirus. Inoltre, le pazienti che avevano ricevuto la lettera hanno riportato ai questionari, di percepire un funzionamento cognitivo peggiore. Clinicamente questo significa che le conseguenze indirette del COVID-19 che queste signore hanno vissuto, hanno portato ad esiti peggiori a livello di salute mentale e cognitiva.

Nel valutare l’impatto della vulnerabilità emotiva al COVID-19 su ansia, depressione e percezione del funzionamento cognitivo sono stati considerati anche il rimuginio e la ruminazione. In accordo con le basi teoriche di riferimento, è emerso che il rimuginio e la ruminazione sono predittori significativi rispettivamente di ansia e depressione. Dalle analisi statistiche infatti si può ben vedere che analizzando l’impatto del COVID-19 su ansia e depressione, i soli fattori demografici e clinici (grado di istruzione, la gravità della malattia, lo stato del trattamento, l’età al momento della diagnosi, il tempo trascorso dalla diagnosi e la comorbilità con altri problemi di salute) da soli erano in grado di predire dal 3% al 7% della variabilità dell’ansia e della depressione; quando invece venivano considerati nell’ANOVA anche il rimuginio e la ruminazione, la percentuale di varianza spiegata saliva significativamente. Queste evidenze rappresentano un’ulteriore prova del fatto che il rimuginio e la ruminazione sono predittori e componenti fondamentali dell’ansia e della depressione.

L’ultimo studio presente in letteratura è stato condotto da Simor et al. (2020) con l’obiettivo di indagare in modo prospettico le associazioni tra la qualità soggettiva del sonno e la salute psicologica nel contesto del confinamento domestico a causa della pandemia. La caratteristica importante di questo studio è il fatto che esso ha un disegno longitudinale, ovvero i medesimi individui sono stati intervistati due volte al giorno per 15 giorni durante il lockdown circa la qualità del sonno e le esperienze psicologiche negative.

Dai risultati è emerso che i rapporti giornalieri sul numero di decessi che venivano comunicati ai cittadini erano in grado di predire un aumento dell’umore negativo dei soggetti, esperienze psicotiche e disturbi somatici con sintomi simili a quelli del coronavirus durante lo stesso giorno e una qualità del sonno peggiore la notte successiva. A sua volta, e questo è particolarmente importante ai fini di questo articolo, la peggiore qualità del sonno era associata alla ruminazione diurna il giorno successivo. Questa relazione è di tipo unidirezionale, perché, se da un lato è vero che la riduzione della qualità del sonno durante la notte, predice una maggiore ruminazione il giorno successivo, dall’altro la ruminazione diurna non fa diminuire la qualità del sonno la notte successiva.

Per concludere possiamo affermare che, se eventi stressanti sono in grado di elicitare cofattori di ansia e depressione quali rimuguino e ruminazione, l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo può benissimo essere etichettata come fattore di rischio per la salute ed il benessere psicologico delle persone. È infatti possibile che all’aumento di situazioni stressanti dovute alla pandemia si rifletta anche un egual aumento di strategie cognitive volte al controllo dell’ansia che esse generano (e che gli individui mettono in atto credendo così di proteggersi dagli stati emotivi spiacevoli).

 

Elettroneurografia ed Elettromiografia. In che cosa consistono? Per quali patologie sono indicate?

Con il termine elettromiografia si indica genericamente un’indagine che comprende due metodiche differenti: l’elettromiografia propriamente detta (EMG) e l’elettroneurografia (ENG). Le due metodiche vengono frequentemente utilizzate entrambe nel corso dello stesso esame diagnostico e differiscono sia per la modalità di esecuzione sia per le informazioni in grado di fornire.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

L’elettromiografia è una metodica neurofisiologica utilizzata per lo studio del sistema nervoso periferico ed è attualmente lo strumento diagnostico più utilizzato e affidabile per la diagnosi di patologie neurologiche a carico delle radici, dei plessi nervosi e dei nervi periferici, di cui fornisce indicazioni specifiche relative a sede, entità e tipo di lesione. E’ inoltre un esame diagnostico utilizzato per patologie della giunzione neuromuscolare (quali Miastenia Gravis) e dei muscoli.

Con il termine elettromiografia si indica genericamente un’indagine che comprende, di fatto, due metodiche differenti: l’elettromiografia propriamente detta (indicata anche come EMG) e l’elettroneurografia (ENG). Le due metodiche vengono frequentemente utilizzate entrambe nel corso dello stesso esame diagnostico, in quanto hanno una funzione complementare; tuttavia, si differenziano notevolmente sia per la metodica di esecuzione sia per le informazioni in grado di fornire. Su tali aspetti, regna, tuttavia, parecchia confusione sia da parte dei pazienti sia di medici, psicologi e operatori sanitari non specialisti nel settore. Pertanto, cercheremo qui di rispondere alle domande più comuni: in cosa si differenziano elettroneurografia ed elettromiografia? Come vengono effettuate? Per quali patologie è maggiormente indicata l’una o l’altra tecnica? Hanno effetti collaterali o limitazioni?

L’elettroneurografia studia la conduzione nervosa dei nervi motori, sensitivi e misti. All’interno dei nervi, le fibre sensitive, o afferenti,  trasportano le informazioni sensoriali (tatto, pressione, dolore, caldo/freddo), sotto forma di impulsi elettrici, dai recettori periferici sino ai gangli sensitivi adiacenti al midollo spinale, da cui vengono inviate al sistema nervoso centrale; le fibre motorie, o efferenti, veicolano l’informazione generata dai neuroni del sistema nervoso centrale (motoneuroni) sino ai muscoli in periferia.

Nell’ENG, grazie ad elettrodi di superficie applicati sulla cute (più frequentemente della mano o del piede), viene registrato uno stimolo elettrico a bassa intensità erogato a distanza, in prossimità del nervo oggetto di studio (a livello del polso, avambraccio o gomito per i nervi dell’arto superiore; alla gamba per quelli dell’arto inferiore). Lo stimolo elettrico, attivando le fibre sensitive e motorie del nervo, genera segnali elettrici, i potenziali d’azione, che viaggiano lungo di esso e che sono registrabili nelle corrispondenti sedi di innervazione. Studiando le risposte motorie e sensitive registrate, è possibile misurare differenti parametri: la velocità di conduzione dell’impulso elettrico lungo il nervo, la latenza e l’ampiezza della risposta motoria e/o sensitiva. Alterazioni di questi parametri, come una riduzione della velocità di conduzione, dell’ampiezza e un aumento della latenza sono indici di una sofferenza a carico del segmento nervoso esaminato.

L’elettromiografia (EMG) è, invece, una metodica volta allo studio dell’attività elettrica dei muscoli e delle fibre nervose che li innervano, mediante un elettrodo ad ago inserito nel muscolo. L’esame con agoelettrodo viene svolto da un medico specialista in neurologia o in neurofisiopatologia che, in base al quesito clinico, può scegliere quali e quanti distretti muscolari esaminare. Una volta inserito all’interno del muscolo, l’agoelettrodo consente di studiare, nello specifico, i potenziali di unità motoria (PUM).  L’unità motoria costituisce la più piccola unità funzionale dell’apparato neuromuscolare, costituita da una cellula nervosa (detta motoneurone) e dalle fibre muscolari da essa innervate; il potenziale di unità motoria rappresenta, invece, l’attività elettrica generata dall’impulso nervoso che da quel motoneurone si propaga sino alle rispettive fibre muscolari. Lo studio con EMG viene effettuato in diverse condizioni del muscolo: a riposo, durante una contrazione volontaria lieve-moderata e durante una contrazione muscolare effettuata con sforzo massimale. In un soggetto sano, nel muscolo a riposo, non si osserva attività elettrica, mentre man mano che il muscolo viene contratto volontariamente è possibile rilevare dapprima singoli potenziali di unità motoria, che diventano sempre più numerosi con l’aumentare della forza di contrazione e, pertanto, del numero di fibre muscolari coinvolte. L’eventuale presenza di attività elettrica nel muscolo a riposo, salvo alcune eccezioni, è considerata patologica ed è, nella maggior parte dei casi, indice di danno nervoso (denervazione). L’attività da denervazione può presentare patterns caratteristici, come fibrillazione o onde lente positive, che tipicamente sono evidenziabili soltanto a partire da 3-4 settimane dalla manifestazione iniziale del danno. Per tale motivo, in caso di lesione acuta (ad esempio, conseguente ad un trauma), è auspicabile aspettare alcune settimane prima di effettuare tale esame. Lo studio dell’attività muscolare nel corso di una contrazione volontaria, mediante analisi di caratteristiche dei potenziali di unità motoria (PUM) quali ampiezza, forma e durata, numero di unità motorie attivate, consente di ricavare informazioni sull’entità e la cronicità del danno, oltre che sull’eventuale insorgenza di fenomeni riparativi. L’aumento dell’ampiezza dei PUM e della loro durata, associata a un’alterazione della loro forma (irregolare o polifasica) ed a una riduzione della loro numerosità è indice di un danno neurogeno, a carico delle fibre nervose. Al contrario, la presenza di PUM piccoli, di breve durata, alterata morfologia e riccamente rappresentati nel corso di minime contrazioni muscolari è tipico di un danno miogeno, a carico del tessuto muscolare.

L’elettromiografia e l’elettroneurografia vengono prescritte generalmente da un medico specialista o, meno frequentemente, dal medico di medicina generale, ed effettuate da un medico neurologo o neurofisiopatologo con l’ausilio di un tecnico di neurofisiopatologia.

La sintomatologia che può indurre il sospetto clinico di una patologia muscolare o del sistema nervoso periferico, indagabile con ENG/EMG è la seguente:

  • Riduzione o perdita di sensibilità tattile o dolorifica (ipoestesia)
  • Alterazioni della sensibilità, con sensazione di formicolio, bruciore, punture di spillo (parestesie)
  • Dolore o crampi muscolari
  • Riduzione della forza muscolare (o ipostenia)

Nello specifico, l’elettroneurografia è particolarmente utile per la diagnosi delle neuropatie da compressione, conseguenti ad intrappolamento di uno o più tronchi nervosi. Tra le più frequenti neuropatie da intrappolamento si annovera la sindrome del tunnel carpale, dovuta ad una compressione del nervo mediano al polso e caratterizzata da dolore e/o alterazioni della sensibilità (formicolii, bruciore) a carico del palmo della mano e delle prime 3 dita; relativamente frequenti sono inoltre la neuropatia da intrappolamento del nervo ulnare al gomito e quella del nervo sciatico popliteo esterno a livello del cavo popliteo. L’ENG è inoltre l’esame di elezione per la diagnosi di polineuropatia in cui, a causa di un disturbo metabolico, autoimmune, genetico e/o tossico vi è sofferenza di più nervi periferici; ne è un esempio la polineuropatia diabetica, caratterizzata da riduzione della sensibilità ai piedi e, in fase più tardiva, alle mani, con tipica distribuzione dei sintomi “a calza” e “a guanto”. L’elettromiografia ad ago (EMG) è invece frequentemente utilizzata per la diagnosi di radicolopatia, ossia di sofferenza a carico di una o più radici nervose spinali da compressione o infiammazione secondaria a ernie discali, artrosi o traumi, a carico della colonna vertebrale. Le radicolopatie più frequenti sono le radicolopatie cervicali e lombari, che si manifestano frequentemente con una sintomatologia dolorosa (rispettivamente cervicalgia o lombosciatalgia). L’elettromiografia consente inoltre di diagnosticare patologie muscolari di varia natura (distrofie muscolari, miositi..) ed è di supporto per la diagnosi di patologie del motoneurone (come la sclerosi laterale amiotrofica, SLA) e della giunzione neuromuscolare (come la miastenia gravis). In base al tipo di sospetto clinico, la durata dell’esame è variabile, e dipende dal numero di muscoli e nervi presi in esame.  E’ prevista mediamente una durata di circa 20-30 minuti se l’indagine è effettuata solo a uno-due arti o è limitata alla sola esecuzione di elettroneurografia, mentre può estendersi a 40-50 minuti se l’esame è effettuato ai 4 arti o se l’EMG ad ago viene applicato a più distretti muscolari. L’indagine può risultare lievemente fastidiosa, poiché la stimolazione elettrica dell’ENG viene avvertita come una leggera scossa, mentre l’utilizzo dell’agolettrodo per l’EMG viene percepito come fastidio o dolore nella sede di inserzione. Tali sintomi sono tuttavia limitati alla durata dell’esame e regrediscono al termine della seduta. Non vi è indicazione ad effettuare alcuna preparazione particolare, ma è consigliabile non applicare creme sulle parti del corpo che verranno sottoposte all’esame. L’esame non presenta a priori controindicazioni specifiche; la presenza di estese ulcerazioni cutanee o fasciature non rimovibili nelle sedi da esaminare può tuttavia limitarne o impossibilitarne l’esecuzione. Utile, prima dell’esame, segnalare sempre al medico esecutore se si è affetti da specifiche patologie, se si è in trattamento con farmaci anticoagulanti e antiaggreganti, o portatori di stimolatori elettrici.

 

La valutazione dei disturbi alimentari maschili: una riflessione sulle criticità degli strumenti diagnostici

Sembra necessario utilizzare i test diagnostici per i disturbi alimentari con cautela quando si tratta di soggetti di genere maschile, in quanto gli strumenti attualmente presenti e maggiormente utilizzati potrebbero non individuare i soggetti a rischio o comunque fornire una lettura incompleta del disturbo

 

I disturbi del comportamento alimentare sembrano essere diffusi in misura maggiore tra le donne rispetto agli uomini, anche se l’esatta prevalenza tra i maschi rimane ancora incerta (Dahlgren & Wisting, 2016). Sono poche le patologie psichiatriche, e mediche in generale, ad avere una così marcata disparità di genere come i disturbi alimentari. Uno dei motivi di tale divario potrebbe essere spiegata in parte da una componente culturale, dovuta al fatto che permane ancora una certa difficoltà dei maschi ad accedere ai servizi di cura per una patologia considerata tipicamente femminile, ma anche da una mancanza di strumenti diagnostici e di screening adatti a intercettare i disturbi alimentari della sfera maschile. Infatti la maggior parte degli strumenti di assessment oggi disponibili sono basati sull’osservazione clinica dei disturbi del comportamento alimentare nelle donne e che non riflette necessariamente la sintomatologia dei maschi. In particolare, gli uomini con un disturbo alimentare sarebbero più propensi a raggiungere un corpo atletico e muscoloso e meno interessati alla magrezza rispetto alla controparte femminile, sarebbero poi più a rischio di sviluppare forme di esercizio fisico compulsivo (Danielsen et al., 2018). Inoltre, gli studi di validazione degli strumenti diagnostici per i disturbi del comportamento alimentare sono eseguiti su campioni di popolazione quasi esclusivamente femminile (Stanford & Lemberg, 2012; Limber et al., 2018).

A scopo esemplificativo si consideri l’Eating Disorder Examination (EDE), uno degli strumenti più utilizzati, considerato gold standard per la diagnosi dei disturbi del comportamento alimentare. L’EDE è un’intervista semi strutturata focalizzata sul comportamento alimentare dei 28 giorni precedenti e il cui punteggio globale ottenuto viene distribuito su quattro sottoscale: restrizione alimentare, preoccupazione per l’alimentazione, preoccupazione per la forma del corpo e preoccupazione per il peso (Fairburn ,Cooper & O’Connor, 1993). L’EDE è stato creato e ampiamente studiato per la popolazione femminile e per tale motivo gli item dell’intervista sono in grado di catturare in maniera efficace solo gli indicatori tipicamente femminili dei disturbi del comportamento alimentare. A tal proposito Darcy e collaboratori (2012) confrontando i punteggi ottenuti all’EDE di un campione di pazienti femmine e maschi con diagnosi di anoressia nervosa, hanno scoperto che questi ultimi avevano ottenuto punteggi globali più bassi rispetto alle pazienti femmine e in particolare nelle sottoscale “preoccupazione per la forma del corpo” e “preoccupazione per il peso”. Analisi più approfondite sugli item hanno poi rilevato che gli uomini sono meno propensi rispetto alle donne a voler percepire lo stomaco vuoto, avere la pancia piatta, a mangiare in segreto e a desiderare di perdere peso. Risultati analoghi sono stati trovati su uno studio sulla popolazione non clinica, anche in questo caso i punteggi dei maschi erano notevolmente più bassi rispetto alle femmine e nessun uomo del campione è risultato clinicamente significativo al test (Reas et al., 2012). L’unica eccezione degna di nota riguardava l’esercizio fisico eccessivo, segnalato da un terzo dei partecipanti maschi. Dai punteggi dei test inoltre emergerebbe che la correlazione tra Indice di Massa Corporea (IMC) e patologia alimentare sia notevolmente più debole per i maschi rispetto alla controparte femminile. Tale disparità potrebbe derivare dalle differenze di genere riguardanti il corpo ideale. Più nel dettaglio, se per le donne prevale una spinta al dimagrimento (drive for thinness), negli uomini ci sarebbe la duplice presenza della drive for thinness e della drive for muscularity, ovvero della tendenza a desiderare l’aumento della massa muscolare, che naturalmente costituisce un aumento dell’IMC. I dati appena evidenziati qui sopra confermerebbero quanto emerso da uno studio di Pope e collaboratori (2000) che ha coinvolto 200 studenti universitari provenienti da Francia, Austria e Stati Uniti e da cui è emerso che gli uomini prediligono un corpo ideale che abbia in media 13 kg in più di massa muscolare rispetto alla loro attuale. Gli strumenti tradizionalmente usati per la valutazione dei disturbi del comportamento alimentare non prevedono item che misurino il desiderio di guadagnare peso o aumentare la massa muscolare e, per tale motivo, potrebbero non intercettare quelle forme di disagio riguardanti il peso e la forma del corpo tipicamente maschili. Un altro elemento di criticità dello strumento EDE nella valutazione dei maschi potrebbe riguardare la dicitura “perdita di controllo” nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione”, infatti da alcune ricerche è emerso che i maschi sarebbero meno propensi a utilizzare questa definizione per indicare gli episodi di iperalimentazione, pur avendo caratteristiche perlopiù simili alla abbuffate delle pazienti femmine con un disturbo del comportamento alimentare (Reslan & Saules 2011, Carrey, Saules & Carr, 2017).

Un altro test molto utilizzato nell’ambito della valutazione dei disordini alimentari è l’EDI-3 (Eating Disorder Inventory – 3), uno strumento di autovalutazione dei sintomi comunemente associati ad anoressia e bulimia (Garner, 2004). Anche in questo caso alcuni item intercettano la preoccupazione riguardante la magrezza, come già detto meno presente nei disturbi alimentari della sfera maschile e quelli che interessano la valutazione della forma del corpo riguarderebbero esclusivamente la dimensione femminile, come la preoccupazione per la grandezza di glutei, fianchi e cosce (Andersen, Cohn & Holbrook, 2000).

A partire da queste osservazioni Stevie C. Stanford e Raymond Lemberg (2012) hanno sviluppato l’EDAM (Eating Disorder Assesment for Men), un questionario self-report per la valutazione dei disturbi del comportamento alimentare specifico per i maschi. Lo strumento è composto da 50 item in grado di rilevare i sintomi del comportamento alimentare tipici degli uomini, è composto da 5 scale che riguardano i problemi legati al cibo, le preoccupazioni per il peso, i problemi legati all’esercizio fisico, le preoccupazioni legate al corpo e i disordini della condotta alimentare. La particolarità dell’EDAM è quella di essere il primo strumento realizzato a partire dalle osservazioni della sintomatologia degli uomini con un disturbo alimentare e validato su una popolazione clinica maschile. Stanford e Lemberg hanno ideato tale strumento partendo dall’esperienza dei terapeuti della Prescott House in Arizona, una struttura specifica per uomini dedicata al trattamento delle dipendenze. Infatti, le testimonianze riportate nel corso degli anni dagli operatori del centro sottolineavano la necessità di trovare un modo per diagnosticare i disturbi alimentari nei loro utenti, in quanto una buona parte di quest’ultimi accedeva al servizio per problemi legati alle dipendenze e tendevano a nascondere, durante il corso della terapia, problematiche legate al peso, alla forma del corpo e all’alimentazione. Gli studi preliminari sull’EDAM indicano che lo strumento ha buone proprietà psicometriche ed è in grado di distinguere i maschi con un disturbo del comportamento alimentare da chi non lo ha, tuttavia mancano studi più approfonditi e sono in corso di validazione le versioni in altre lingue, tra cui quella italiana (Lavender, Brown & Murray, 2017; Folla, De Caro & Di Blas, 2018).

In conclusione, si segnala la necessità di usare i test diagnostici per i disturbi del comportamento alimentare con cautela quando si tratta di soggetti di genere maschile, in quanto gli strumenti attualmente presenti e maggiormente utilizzati (come l’EDE e l’EDI) potrebbero non individuare i soggetti a rischio o comunque fornire una lettura incompleta del disturbo, in quanto tarati sulla sintomatologia tipicamente femminile. Inoltre, si sottolinea l’importanza di continuare la ricerca sugli strumenti diagnostici e di screening per i disturbi del comportamento alimentare maschile in modo da individuare più facilmente i soggetti a rischio e ridurre il pregiudizio di genere ancora presente per questo tipo di patologie.

 

Hikikomori e ritiro sociale: dall’assessment all’intervento – Report dal webinar

Considerata per molto tempo una sindrome culturale prettamente giapponese, l’hikikomori comincia alla fine degli anni ’90 a divenire una grave forma di ritiro sociale in diffusione in gran parte del mondo, compresa anche l’Italia.

 

Da poco si è concluso un webinair organizzato da Tages Personality, il gruppo di lavoro interno a Tages Onlus che si occupa dello studio e del trattamento dei disturbi di personalità, che ha affrontato il tema inerente gli hikikomori e che ha visto come relatore il Prof. Takahiro A. Kato, psichiatra e professore presso la Scuola di Medicina dell’Università di Kyushu a Fukuoka, in Giappone. Grande esperto di fama mondiale sul tema dell’hikikomori e del ritiro sociale, è fondatore del Mood Disorder Hikikomori Reasearch Clinic dell’Ospedale Universitario di Kyushu, impegnato in attività di formazione e ricerca sul fenomeno hikikomori, modern type depression e suicidio.

Definizione del fenomeno hikikomori

Considerata per molto tempo una sindrome culturale prettamente giapponese, l’hikikomori comincia alla fine degli anni ’90 a divenire una grave forma di ritiro sociale in diffusione in gran parte del mondo, compresa anche l’Italia.

Seppur ancora non inserita come sindrome all’interno degli attuali sistemi diagnostici, sottolinea il prof. Kato, si vanno sempre più a delinearne le caratteristiche distintive quali:

  • Spiccato isolamento sociale nel proprio domicilio;
  • Durata dell’isolomanto continuo per almeno 6 mesi;
  • Significativa menomazione funzionale o disagio associato all’isolamento;
  • L’esordio è tipicamente durante l’adolescenza o la prima età adultà;

Tale disagio può verificarsi in comorbidità con altre forme di disturbi psichiatrici.

Il prof. Kato inoltre sottolinea l’esigenza di sviluppare strumenti come test e questionari, utili nella fase di assessment, sui quali comunque sta già lavorando col suo gruppo di collaboratori.

Da studi e ricerche del Prof. Kato, inoltre, tale forma di ritiro sociale sembra essere associato a forme di depressione, anzi la sua ipotesi è considerare la depressione come possibile primo passo verso l’hikikmori.

Si evidenziano altri fattori psicologici come senso di solitudine, vergogna, bassa autostima, associati a fattori socio-culturali come l’enfasi data alla qualità dello studio e del lavoro, alte e rigide aspettative sociali, educazione genitoriale, rapporto dipendente e morboso con la figura materna, verso la quale sempre in Giappone ne sono state rilevate manifestazioni aggressive e atti violenti.

Il Professore ha fornito informazioni dettagliate, materiale, e slide su ogni contenuto qui sinteticamente esposto.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm5Imm. 1 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm9Imm. 2 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm7Imm. 3 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm6Imm. 4 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

La seconda parte del webinar è entrata più nel vivo de trattamento: in questo caso il Prof. Kato ha illustrato l’esigenza del lavoro con le famiglie, i suoi programmi di intervento e l’intervento con il soggetto hikikomori.

All’intervento alla famiglia, l’approccio individuale, l’approccio di gruppo ed il reinserimento sociale, speso può essere affiancato anche un trattamento farmacologico (a base di antidepressivi).

Un fenomeno da conoscere e di cui è bene parlare, visto il tempo che si passa a casa e l’uso massiccio che ad oggi facciamo di internet, soprattutto a causa della pandemia da covid-19. I nostri giovani si trovano spesso da soli, per scelta o perché i genitori purtroppo sono assorbiti dai ritmi frenetici del lavoro, e tanti ragazzi, temendo di non possedere abilità resilienti, si ritirano dal mondo reale per rifugiarsi in una realtà virtuale meno minacciosa e più controllabile, fatta di giochi e tutto ciò che internet permette. Per tali motivi anche per noi addetti ai lavori è doveroso conoscere tali fenomeni non così lontani da noi. Ritengo che il webinair di cui ho avuto il piacere di riportarvi in questa sede, abbia dato ai partecipanti un valido contributo in tal senso.

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm8Imm. 5 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm4Imm. 6 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm3Imm. 7 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm2Imm. 8 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm1Imm. 9 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Vivere e sorridere (2020) di Matteo Perrone e Martina D’Agostino – Recensione

Vivere e sorridere (2020) di Matteo Perrone e Martina D’Agostino è la storia narrata in prima persona della lotta del giovane Matteo con una rara malattia genetica: la sindrome di Wolfram

 

Vivere e sorridere è un libro che si legge tutto d’un fiato, che seppur breve riesce a raccontare gioie e dolori di una vita fuori dall’ordinario, dando uno sguardo delicatamente umano alle vicende di un giovane ragazzo che ha dovuto reinventare le sue abitudini e la sua vita a seguito della diagnosi di una malattia genetica rara, ricevuta tardivamente all’età di 19 anni. I medici infatti per anni hanno pensato di trovarsi di fronte ad una forma di diabete giovanile, ma Matteo in cuor suo sapeva che qualcosa non tornava, perché pur essendo ligio ai protocolli, quei sintomi non gli davano tregua, anzi peggioravano e i picchi glicemici facevano il loro decorso, indipendentemente. Poi, finalmente, grazie ad un Centro specializzato in Toscana si è giunti alla diagnosi, sollievo e croce allo stesso tempo.

Matteo, sostenuto dalle sapienti mani di Martina che scrive, racconta in modo molto chiaro quali vissuti, in termini di cognizioni ed emozioni accompagnano questo percorso.. emozioni pure, che non lasciano spazio ad interpretazioni e che bene rappresentano ciò che vive. A partire dalla sensazione assordante di avere a che fare con qualcosa di sconosciuto, Matteo spiega bene quel che accade, navigando dolorosamente per cercare di dare un senso, di capire, conoscere, dare un nome, per poi accettare la sua Sindrome di Walfram.

Le malattie genetiche rare e il loro impatto psicologico

È difficile comprendere la connessione fra le manifestazioni organiche di una patologia e i vissuti psico-affettivi ad esse connessi. Il rapporto mente-corpo è stato da decenni oggetto di un’ampia teorizzazione (Bion, M. Klein, Winnicott e altri) e risale al pensiero di Freud. Il campo di indagine è complesso, siamo ancora lontani dal comprendere le reciproche influenze tra malattia somatica e psiche. Le emozioni stesse, con i loro correlati fisiologici, possono essere considerate l’area di congiunzione fra l’evento psichico e l’evento somatico.

La cronicità̀ e la rarità sono elementi specifici della patologia descritta in questo libro. Le malattie rare, per definizione, colpiscono meno di una persona su 2000, nel caso specifico 300 al mondo.

I malati rari, e i loro familiari, provano una sensazione di grande insicurezza rispetto al supporto offerto dal sistema sanitario, con la percezione di non avere lo stesso tipo di accesso alle cure e all’assistenza di altri tipi di malati, tanto più quando la malattia è rara e dunque poco conosciuta e con un percorso di diagnosi e trattamento non consolidato. Altro sentimento molto forte è quello della solitudine, della certezza di doversi confrontare con un problema che nessuno dei propri conoscenti ha mai incontrato prima, sensazione che può sfociare nello sconforto e provocare quindi l’aggravio del tono dell’umore e della capacità di reagire e affrontare la malattia stessa. I pazienti e le famiglie si sentono infatti “diversi tra i diversi”. Questi fattori possono rappresentare un rischio per la salute mentale; in un recente studio quantitativo, alte percentuali di pazienti con diverse malattie rare hanno mostrato un aumento dei livelli di depressione e sintomi di ansia rispetto alla popolazione generale. La depressione e l’ansia associate ad una malattia cronica sono correlate a una ridotta qualità della vita e possono influenzare negativamente il decorso della patologia.

Nonostante l’eterogeneità di queste condizioni, i pazienti con malattie rare potrebbero avere molte esperienze in comune. In una recente revisione sistematica di studi qualitativi, ciascuno incentrato su una singola malattia rara specifica o su un gruppo di malattie rare, i pazienti hanno descritto problemi tra loro simili. Questi includono limitazioni (ad es., nel lavoro), carico psicologico, stigmatizzazione e mancanza di opzioni di trattamento disponibili. Le esperienze comuni tra pazienti con diverse malattie rare potrebbero essere utilizzate nei servizi di promozione della salute per strutturare interventi ad hoc.

Da questo punto di vista, nel libro emerge l’importanza delle associazioni per i malati rari, inestimabile fonte di supporto reciproco per chi soffre di questo tipo di patologie.

La musica come medicina per l’anima

Il filo rosso che accompagna le parole del libro, giornata dopo giornata, è la musica, quella di Vasco Rossi, di cui Matteo è appassionato, e che riesce, ogni giorno con un testo diverso, a rappresentare e a fare da colonna sonora, con una speciale risonanza emotiva, agli eventi narrati.

Il potere della musica è risaputo, i suoi effetti benefici sulla psiche sono noti da millenni: la musicoterapia produce ottimi risultati in individui di ogni età e sono dimostrati i suoi risultati positivi nei Disturbi dello Spettro Autistico, nei disturbi dell’Umore, per alleviare la stanchezza psicologica e lo stress in generale, in quanto la musica facilita il rilassamento.

Gli studi sulla musicoterapia hanno dimostrato la loro efficacia a livello di neuroimaging, attraverso il miglioramento  delle funzioni neuro-cognitive (ideazione, attenzione, concentrazione, memoria), della capacità di regolazione dell’umore e delle attività cognitive superiori, come l’apprendimento e l’immaginazione.

L’interesse per la musica nel campo delle neuroscienze si è sviluppata notevolmente negli ultimi anni. Recenti ricerche hanno dimostrato che la musica produce plasticità neuronale, ossia la capacità del cervello di modificare la propria struttura e la propria funzionalità, in base sia a stimoli interni che a stimoli ricevuti dall’ambiente esterno.

Le recenti scoperte dimostrano che l’ascolto della musica è un’esperienza gratificante che attiva il sistema dopaminergico, rendendo questa esperienza ottima anche ai fini della riabilitazione.

Ma la forza di Matteo sta nel non farsi sopraffare dallo sconosciuto, accettarne i colpi bassi, riconoscere e gestire le Emozioni intense, ma allo stesso tempo, riuscire a costruire buone relazioni con i curanti, puntare forte lo sguardo, laddove la vista cala, verso le risorse, le relazioni profondamente sane con amici e familiari, rappresentando uno straordinario esempio di come sia possibile sentire una piena accettazione della vita, ed essere grati per poterne godere, nonostante le molte difficoltà.

Ciò che maggiormente traspare da questo libro è proprio l’entusiasmo per la vita e per tutto quello che essa ci dona, la capacità costruire scenari nuovi a fronte di una invalidazione forte, di inventarsi nuovi occhi con cui guardare, perché, come fa notare saggiamente il protagonista del libro, ogni ostacolo superato può donarci la forza per superare il successivo, e la serenità per apprezzare a pieno ogni momento.

Questa testimonianza rappresenta un importante faro per le persone che soffrono di questa sindrome, e può esserlo anche per tutti coloro che hanno bisogno di sentire che nonostante tutto vivere è magnifico e domani arriverà lo stesso.

 

Ipersessualità e noia

Nel linguaggio comunemente utilizzato, la noia è definita come uno stato di eccitazione e soddisfazione relativamente bassa, attribuita ad una situazione inadeguatamente stimolante (Mikulas & Vodanovich, 1993). Qual è la sua relazione con l’ipersessualità?

 

Mikulas e Vodanovich (1993) hanno definito la noia in termine di “stato”, vista come uno stato di coscienza con una combinazione particolare tra cognizione, affetti, percezioni e attribuzioni. Dato che gli stati sono transitori, una persona può essere in uno stato di noia in un momento e non nel momento dopo (Mikulas & Vodanovich, 1993).

La noia è considerata uno stato affettivo e psicologico transitorio (Leary et al., 1986; Chaney & Chang, 2005; De Oliveira & Carvalho, 2020), un’emozione che si prova quando una situazione viene percepita dal soggetto come monotona, ripetitiva o poco stimolante (De Oliveira & Carvalho, 2020). Dato che la noia è uno stato umorale disforico, Kafka suggerì come tale emozione potesse essere correlata a un comportamento sessuale iperattivo: i tratti affettivi negativi e altri stati umorali, come tristezza e ansia, sono collegati ad un aumento dell’iperattività sessuale e di comportamenti sessuali a rischio (Bancroft et al., 2003; 2003; Bancroft & Vukadinovic, 2004; Carvalho et al., 2015, Walton et al., 2017).

Attraverso una revisione sistematica, De Oliveira e Carvalho (2020) hanno indagato una possibile associazione tra ipersessualità e noia. Nello specifico, le espressioni problematiche eccessive della sessualità studiate sono state etichettate in diversi modi, tra cui dipendenza sessuale, compulsività sessuale, iperattività o impulsività sessuale (De Oliveira & Carvalho, 2020). Nonostante vari resoconti comportamentali all’interno delle prime opere dei sessuologi (Kafka, 2010), la “dipendenza sessuale” è stata aggiunta alla categoria dei disturbi sessuali non altrimenti specificati solo all’interno del DSM-III-R, descritta come il “disagio riguardo ad un pattern di ripetute conquiste sessuali o altre forme di dipendenza sessuale non parafilica, che coinvolgono una successione di persone che esistono come cose da usare” (American Psychiatric Association, 1987). Successivamente, tale definizione è stata rimossa dal DSM-IV-TR (De Oliveira & Carvalho, 2020).

Dalla ricerca iniziale di 76 articoli, solo 19 articoli sono stati inclusi nella selezione finale di De Oliveira e Carvalho (2020). Nello specifico, 16 studi sono quantitativi e 3 sono qualitativi: 4 studi sono stati svolti per validare le misure relative al ipersessualità, 11 riguardano l’attività sessuale online e i restanti la noia legata alla sessualità. Per quanto riguarda il genere, 5 studi hanno utilizzato campioni sia con donne che con uomini, 1 ha utilizzato solo un campione di donne e 7 hanno utilizzato un campione composto da uomini omosessuali (De Oliveira e Carvalho, 2020). I risultati ottenuti dalla revisione indicano una relazione generale tra noia e ipersessualità: lo studio di Chaney (Chaney & Dew, 2003) riconosce la noia come un trigger per impegnarsi in attività sessuali online, mentre un altro studio ha rilevato che 9 partecipanti su 14 riportano la funzionalità della messa in atto di comportamenti sessuali per evitare emozioni negative come solitudine, noia e tristezza (Giugliano, 2006). Gli studi qualitativi analizzati dei due autori evidenziano casi in cui i pazienti associano i loro impulsi sessuali alla noia e al tempo libero, anche se gli studi non mirano a indagare direttamente l’emozione sopra citata (Cooper & Lebo, 2001; Shepherd, 2010) quanto l’ipersessualità. Un recente studio ha trovato un’associazione tra la tendenza alla noia e la dipendenza sessuale in un campione di genere misto, composto da soggetti che ricercano partner sessuali online (Zlot et al., 2018). Un altro studio evidenzia come soggetti di sesso maschile mostrano una correlazione positiva tra la noia e comportamenti ipersessuali, dove l’ipersessualità stessa è positivamente correlata con ansia, con la tendenza a diventare facilmente frustrati, con disregolazione emotiva e depressione (Reid et al., 2011).

Nonostante questa revisione evidenzia come possa esistere una possibile relazione tra noia e ipersessualità, la ricerca d’oggi non è in grado di stabilire i potenziali meccanismi tra queste due variabili, cioè se la noia può essere un evento scatenante o un risultato dell’ipersessualità (De Oliveira & Carvalho, 2020).

 

Ossessioni e Covid-19: quando il timore diventa realtà! – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

Webinar organizzato da Centro Clinico Studi Cognitivi l’Aquila sul tema delle ossessioni nel periodo di pandemia e sugli effetti del Covid-19 e dei cambiamenti ad esso associati su persone con disturbo ossessivo compulsivo. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

La presenza di un virus con un alto tasso di contagiosità, associato alla sua scarsa conoscenza, costituiscono variabili che amplificano la sintomatologia delle persone affette da disturbo ossessivo compulsivo e che paradossalmente determinano una legittimazione da parte della società di comportamenti che un tempo sarebbero stati ritenuti patologici.

Per ridurre la diffusione del COVID-19 sono state messe in atto misure restrittive che hanno previsto un periodo di lockdown, il mantenimento delle distanze sociali, lavaggi frequenti delle mani, ecc. In questo modo coloro che soffrono di un DOC da contaminazione potrebbero soggettivamente “sentirsi meglio”, sia perché avvertono i loro comportamenti come meno bizzarri e meno oggetto di giudizio altrui, sia perché sono ufficialmente autorizzati dalla reclusione forzata e ad evitare l’esposizione a ciò che solitamente più li spaventa. Attraverso specifici percorsi psicoterapeutici è possibile individuare le caratteristiche della sintomatologia manifestata, allo scopo di incrementare le abilità e le risorse personali.

Il Centro Clinico Studi Cognitivi l’Aquila ha organizzato un webinar sull’argomento, condotto dalla Dott.ssa Alessandra Curtacci.

 

OSSESSIONI E COVID-19: QUANDO IL TIMORE DIVENTA REALTÀ!

Guarda il video integrale del webinar:

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

STUDI COGNITIVI >> SCOPRI DI PIU’

Il gioco problematico come strategia di compensazione: il ruolo del narcisismo vulnerabile

Il Gaming Disorder è stato recentemente riconosciuto, nell’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases, (ICD-11; World Health Organization, 2019) come una condizione caratterizzata principalmente da una perdita di controllo nel comportamento legato al gioco.

 

Secondo il modello del Compensatory internet use framework (Kardefelt-Winther, 2014), le attività online, come i videogiochi, assolvono lo scopo di soddisfare determinati bisogni o di alleviare stati d’animo disforici e aversivi. Difatti, per alcuni individui, il gioco problematico costituisce una strategia di coping disfunzionale, elicitata da una scarsa capacità di regolazione delle emozioni (Hollet & Harris, 2019) o, ancora, da tentativi di adattamento a tratti di personalità disfunzionali (Gervasi et al., 2017). Tra questi, vi è il narcisismo, che è comunemente associato ad un grandioso senso di autostima, alla mancanza di empatia, alla tendenza a sopravvalutare le proprie capacità ed a svalutare gli altri (Campbell & Campbell, 2009).

Nella letteratura si è soliti distinguere il narcisismo grandioso dal narcisismo vulnerabile (Cain, Pincus & Ansell, 2008) e, sebbene essi possano condividere alcune caratteristiche, come il bisogno di essere ammirati, questi tratti presentano al contempo alcune differenze (Miller et al., 2011). Ad esempio, gli individui che presentano tratti di narcisismo vulnerabile tendono a non manifestare le proprie fantasie grandiose, per evitare sensazioni di inadeguatezza.

All’oggi, sembra che i tratti narcisistici giochino un ruolo sostanziale nel sovrautilizzo dei social media (Giordano et al., 2019), tuttavia, solo due studi si sono occupati di indagare la relazione tra i suddetti tratti e il gioco problematico, portando a risultati tra loro discordanti.

Come si è detto, la disregolazione emotiva è stata associata a un elevato rischio nel coinvolgimento problematico nel gioco (Rogier & Velotti, 2018a) e, secondo la letteratura, sono per lo più i soggetti che presentano tratti narcisistici di tipo vulnerabile a riscontrare tali difficoltà emotive, rispetto a coloro i quali possiedono un narcisismo di tipo grandioso (Czarna, Zajenkowski & Dufner, 2018).  Dunque, si potrebbe sostenere che la natura disadattiva del narcisismo vulnerabile possa aumentare il rischio del coinvolgimento problematico nei giochi online.

Yee (2006) ha definito l’escapismo come il bisogno di giocare per rilassarsi o fuggire dai problemi della vita reale e, secondo le evidenze, i giocatori con elevata disregolazione emotiva sono più spinti a giocare per motivi di escapismo, subendo però notevoli ripercussioni sul proprio benessere (Di Blasi et al., 2019).

Rispetto al narcisismo, solo uno studio ha evidenziato che gli individui con tratti narcisistici grandiosi, spinti da motivazioni di escapismo, sono più soggetti al gioco problematico (Kircaburun et al., 2018). Tuttavia, ad oggi, nessuno studio ha esaminato il narcisismo vulnerabile in relazione all’escapismo e al gioco problematico.

Dunque, nel complesso, la ricerca ha evidenziato che alcuni individui possono essere spinti a “fuggire” mediante il gioco nel tentativo di far fronte alle emozioni spiacevoli, con conseguenze negative rilevanti (Hollet & Harris, 2019).

Seguendo questa logica, uno studio preso in esame si è proposto di esaminare l’associazione tra narcisismo grandioso, narcisismo vulnerabile e gioco problematico.

Sulla base della letteratura, gli autori hanno ipotizzato che il narcisismo vulnerabile sarebbe stato maggiormente associato al gioco problematico, rispetto a quello di tipo grandioso e, ulteriormente, che in questa associazione la disregolazione emotiva e l’escapismo avrebbero assunto un ruolo rilevante.

Attraverso un sondaggio online, sono stati reclutati 405 giocatori di World of Warcraft (WoW), con un’età compresa tra i 18 e i 67 anni.

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato che il narcisismo vulnerabile predice il gioco problematico. Inoltre, gli individui con una maggiore tendenza alla vulnerabilità hanno riportato alti livelli di disregolazione emotiva, che a sua volta ha predetto una maggior tendenza all’escapismo e al gioco problematico.

In altre parole, è probabile che questi soggetti, che oscillano costantemente tra sentimenti di superiorità e inferiorità e convivono con la paura di essere giudicati e rifiutati, possano sperimentare una disregolazione emotiva, che comporta un maggior rischio di essere eccessivamente coinvolti in WoW, come un tentativo di soddisfare bisogni non raggiunti o far fronte a stati mentali dolorosi (Schimmenti & Caretti, 2010), favorendo così l’escapismo disadattivo e il coinvolgimento eccessivo nel gioco. Questa visione è in linea con l’ipotesi che il gioco eccessivo, analogamente ad altri comportamenti potenzialmente tossici, possa rappresentare per alcuni individui un’automedicazione per contrastare le proprie emozioni negative.

Ulteriormente, gli autori hanno ipotizzato che i giochi coinvolgenti e impegnativi come WoW, che richiedono determinate abilità piuttosto che mera fortuna, possano rappresentare, per i giocatori con narcisismo di tipo vulnerabile, uno strumento per compensare il loro senso di inadeguatezza.

Ciò è in accordo con gli studi che hanno identificato discrepanze significative tra il sé reale e quello ideale nei videogiocatori problematici (Kwon, Chung & Lee, 2011).

Inoltre, questa visione è in linea con un recente studio che mostra che i giocatori problematici che preferiscono i giochi di abilità – come il poker – hanno riportato livelli più elevati di narcisismo vulnerabile, rispetto ai giocatori coinvolti nel gioco passivo basato sul caso – come le slot machine (Rogier & Velotti, 2018b).

Giochi come WoW forniscono l’opportunità di un maggiore controllo sulla propria immagine e sulle interazioni sociali. Infatti, la possibilità di interagire con gli altri mostrando un corpo virtuale (avatar) che è stato interamente personalizzato, potrebbe permettere agli individui con tratti di vulnerabilità di esprimere i loro bisogni personali ed emotivi con un minor rischio di essere disconfermati o respinti (Choi et al., 2011).

I risultati appena esposti comportano delle rilevanti implicazioni cliniche. Difatti, i clinici dovrebbero prestare attenzione all’individuazione precoce dei tratti di narcisismo vulnerabile nei soggetti che mostrano un eccessivo coinvolgimento nei giochi online, al fine di prevenire anche il rischio di abbandono del trattamento, a causa di reazioni evitanti. Inoltre, i professionisti potrebbero considerare di fornire interventi che mirino ad una migliore regolazione emotiva, affinché si possa ridurre la tendenza al gioco problematico di questi individui.

Uomo, partner e padre. La perdita perinatale e l’espressione del lutto maschile

Come per la donna, anche per l’uomo la perdita perinatale risulta essere tanto più devastante quanto maggiore è l’investimento emotivo verso il nascituro.

 

Abstract

Perdere un figlio in gravidanza interrompe il processo di costruzione genitoriale e rappresenta per l’uomo la dissoluzione del sogno di paternità. Sebbene coinvolti diversamente rispetto alle madri nel processo di gravidanza, i padri risentono di questo evento in modo profondo, e spesso inosservato agli occhi della società. Le espressioni del lutto maschile possono assumere infatti forme diverse rispetto a ciò che ci si può comunemente aspettare, e questa spaccatura diventa fonte di ulteriore sofferenza emotiva e psicologica.

La posizione maschile in gravidanza

Al giorno d’oggi, la nascita di un bambino è per lo più l’esito di una scelta ponderata e unica all’interno del ciclo di vita genitoriale ed è un momento di gioia per la coppia (Walsh, McGoldrick, 1991). Ancora prima del parto, attraverso il processo di transazione al ruolo genitoriale si innescano una molteplicità di movimenti intrapsichici e interpersonali che mettono in gioco diversi aspetti della vita di un individuo.

La posizione maschile in corso di gravidanza è diversa rispetto a quella femminile: se per la donna il percorso di preparazione alla maternità pone le proprie radici sulla corporeità della gravidanza, l’uomo, al contrario, ne è escluso e può averne una percezione solamente indiretta (Cacciatore, 2013). Non tutti gli uomini riferiscono di sentirsi padri durante la gravidanza: infatti, per alcuni è il momento del parto ad aprire le porte della paternità (Lacroix, Got, Callahan, Séjourné, 2016). Altri invece si percepiscono padri prima che il bambino nasca e iniziano precocemente una relazione affettiva con il nascituro. Un elemento che spesso aiuta nella costruzione del senso di genitorialità paterno sono le visite ecografiche che possono rivelarsi come dei momenti di grandissima importanza esperienziale, oltre che di contatto con il bambino: la percezione del battito cardiaco e la visione del figlio danno al padre una rappresentazione sensoriale che testimonia la reale presenza del nascituro (Huffman, Schwartz, Swanson, 2015). Così come per le donne, anche per i padri l’attesa della nascita diventa un tempo da condividere, che consente di creare una nuova narrazione, fatta di aspettative e di fantasie che abitano un futuro familiare ((Murphy, 2012; Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

La dissoluzione del sogno di genitorialità

La perdita di un bambino atteso in gravidanza è la dissoluzione del sogno genitoriale (Walsh, McGoldrick, 1991): fin dalle prime fasi della gestazione, la madre e il padre sognano il futuro con il proprio bambino, pianificando i posti da visitare, le scuole da frequentare oppure i giochi da fare insieme (Weaver-Hightower, 2012). La perdita di un figlio in gravidanza può essere vissuta come l’arresto di un progetto co-costruito con la partner e le emozioni ambivalenti che ne derivano possono comportare un senso di sospensione, come se non fossero riusciti a portare a termine qualcosa (Lacroix, Got, Callahan, Séjourné, 2016). Tale rottura nell’immaginario genitoriale può portare alla formazione di un vissuto ambiguo, che assume caratteristiche diverse per ciascuna persona.

Inoltre, sembra che l’esperienza paterna si modifichi e aumenti di intensità nel corso dei tre trimestri di gestazione: durante il primo, i padri si mostrano emotivamente più distanti, nel secondo, quando iniziano a percepire i movimenti fetali, sentono un’aumentata consapevolezza della gravidanza; infine, nel terzo, aumenta sia l’investimento emotivo nei confronti del bambino sia il desiderio di definirsi come padri (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). Come per la donna, anche per l’uomo la perdita di un figlio in epoca gestazionale risulta essere tanto più devastante quanto maggiore è l’investimento emotivo verso il nascituro. Se l’esperienza di perdita avviene in età gestazionale più tardiva, è più probabile che ci sia una percezione del bambino come reale, e che il dolore della perdita sia più impattante rispetto a coloro la cui perdita occorre più precocemente (Huffman, Schwartz, Swanson, 2015). Sebbene la gravidanza per l’uomo sia psicologica, emotiva e non incarnata come quella della partner, anche i padri possono provare dolore dopo la perdita del bambino e fare esperienza della mancanza di riconoscimento come genitore in lutto (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

La sofferenza paterna

Le varie costruzioni culturali del ruolo maschile entrano in conflitto quando si parla di perdita perinatale: vi è una concomitanza tra “l’essere padre” e “l’essere un uomo in lutto”, due cluster sociali poco conciliabili in un sistema di attribuzioni correlate al gender (Bonnette, Broom, 2011). Alcuni studi approfondiscono questo aspetto e confermano che esistano dei pregiudizi influenzati da dinamiche di genere, che sembrano porre una certa enfasi nel richiamare il padre più in una posizione supportiva nei confronti della partner in lutto, piuttosto che in una ugualmente espressiva.

In questa posizione, l’uomo è socialmente veicolato verso l’internalizzazione del proprio vissuto di lutto e verso il “dover essere forte”, dovendosi adeguare a forme culturali di mascolinità.

Le emozioni esperite sono qualitativamente simili a quelle della donna, sebbene con alcune dissomiglianze sul piano espressivo: l’uomo ha minore predisposizione al pianto, può sentire meno la necessità di un supporto sociale e, infine, può esprimere la propria sofferenza attraverso l’uso di alcool, di droghe o altre forme di agiti. Shock, rabbia, incredulità, ansia, frustrazione, paralisi e sentimenti di lutto possono essere presenti e variare di intensità da un individuo all’altro (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). In uno degli studi pioneristici sullo sviluppo di sintomi nei padri a seguito di una perdita in gravidanza, si afferma che di frequente si sviluppa una significativa sintomatologia ansiosa, depressiva o post-traumatica, anche se di impatto inferiore rispetto a quella materna (Turton, Badenhorst, Huges, Ward, Riches & White, 2009).

L’impatto del sostegno sociale

Il supporto sociale può sortire un effetto positivo sull’elaborazione del lutto nei padri: coloro che ricevono un maggiore sostegno in seguito alla perdita del bambino mostrano reazioni al lutto significativamente meno intense rispetto ai padri che non lo hanno ricevuto. Diventa quindi importante, in ottica preventiva, che l’espressione della sofferenza diventi lecita socialmente, e trovi spazio di accoglienza.

Il supporto di professionisti del settore e la partecipazione a gruppi di auto-mutuo-aiuto può non solo agevolare la risoluzione della sintomatologia paterna, ma anche accrescere la capacità di adattamento alla perdita. “Ogni esperienza di vita richiede riconoscimento da parte dell’altro per poter entrare a far parte della propria storia in modo integrato. […] il bisogno di validazione è particolarmente importante per facilitare il processo di lutto paterno, perché restituisce all’uomo la propria identità di padre, messa dolorosamente in discussione dalla perdita” (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018, p. 54).

Vite mutilate: conseguenze psicologiche delle Mutilazioni Genitali Femminili

L’intervento sulle donne vittime di Mutilazioni Genitali Femminili dovrebbe consistere in un approccio integrato, realizzato mediante l’unione di un trattamento medico-chirurgico con uno psicologico.

 

Le Mutilazioni Genitali Femminili: introduzione

La pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili, nota con l’acronimo MGF, è attualmente riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani; viene definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’UNICEF come “una tipologia di intervento volto a produrre un’ablazione parziale o totale dei genitali esterni della donna o qualsiasi altra lesione degli organi genitali femminili, praticata per ragioni culturali e non a fini terapeutici”, ed è spesso effettuata in condizioni igieniche precarie e senza l’ausilio di farmaci anestetici. Attualmente il Parlamento Europeo sta progettando una serie di azioni comuni volte a contrastare tale pratica, ma purtroppo la strada verso la soluzione del problema è ancora lunga, dal momento che si stima che attualmente 200 milioni di donne e ragazze di tutto il mondo vivano con le conseguenze di tale pratica, di cui 600.000 solo nel continente Europeo e con l’incidenza maggiormente elevata in alcuni paesi del Medio Oriente (Iraq e Yemen) e in alcune aree dell’Asia orientale, come l’Indonesia, nelle quali si arriva a percentuali di attuazione del 90%.

Le conseguenze a breve e lungo termine

Tra le conseguenze negative derivanti dalle Mutilazioni Genitali Femminili risultano essere maggiormente evidenti quelle fisiche, tra le quali sono annoverati non solo il dolore cronico legato alle pratiche sessuali e alla minzione, ma anche una maggior esposizione allo sviluppo di patologie sessualmente trasmissibili, nonché l’aumento del rischio di infertilità o, nel caso di una gravidanza, di complicazioni che possono condurre all’aborto spontaneo o al decesso della gestante; recentemente, tuttavia, un numero sempre maggiore di studi si è concentrato sulle conseguenze psicologiche di tale pratica, tra cui lo sviluppo di una sintomatologia ansiosa, depressiva o di sintomi riferibili al Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) che, inserito dal DSM 5 (APA, 2013) tra i “Disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti”, consiste in una forma psicopatologica che può insorgere come conseguenza dell’esposizione ad esperienze, dirette o indirette, estremamente traumatiche e violente e si può manifestare, tra l’altro, mediante sintomi intrusivi o dissociativi (quali incubi ricorrenti o frequenti pensieri negativi riguardanti l’evento e flashback), intensa sofferenza psicologica e alterazione del pensiero e dell’emotività. Uno studio del 2015 (Knipscheer, J., 2015), condotto su un campione di 66 donne immigrate vittime di MGF, è stato tra i primi a valutare, mediante strumenti standardizzati quali l’HTQ-30 (Mollica, R. F., et al., 1992), l’esistenza di una correlazione tra la pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili e l’insorgenza di un ampio spettro di disturbi mentali nel lungo termine: dai risultati è emerso che 1/6 delle vittime presentava i sintomi del Disturbo da Stress Post-Traumatico e ben 1/3 di esse aveva ottenuto punteggi elevati relativi ai sintomi depressivi e ansiosi, con un’incidenza maggiore nelle donne meno integrate a livello sociale, prive di un lavoro stabile e consumatrici abituali di sostanze psicoattive. Tuttavia, benché quasi la metà delle persone prese in esame presentasse dei sintomi psicopatologici, essi assumevano la forma di un disturbo conclamato solo in una ridotta percentuale di vittime. Gli autori hanno ritenuto, tuttavia, che i risultati ottenuti dallo studio tendessero a sottostimare la sintomatologia reale, attribuendo tale risultato sia al tentativo, da parte delle partecipanti, di evitare i ricordi eccessivamente dolorosi, sia all’influenza della loro cultura di appartenenza, che potrebbe indurre le donne da un lato ad essere riluttanti nell’esprimere le proprie emozioni e, dall’altro, a giustificare la pratica cui sono state sottoposte, percepita come una garanzia di bellezza, castità e onore e di un futuro buon matrimonio (Muteshi, J. K., et al., 2016). Un’incidenza sintomatologica ancora più rilevante è quella registrata da una review del 2018 (Lever, H., et al., 2018), relativa a un campione di vittime di MGF richiedenti asilo negli Stati Uniti, secondo la quale la presenza di una sintomatologia ansiosa e/o depressiva è riscontrabile nel 92% dei casi, mentre una sintomatologia post-traumatica è individuabile nella totalità delle pazienti analizzate. Secondo gli autori, tali sintomi non possono essere ricondotti esclusivamente alle Mutilazioni Genitali, ma ad un più ampio spettro di violenze cui le vittime di MGF sono frequentemente sottoposte fin dall’infanzia. I risultati di tali studi sembrano dunque evidenziare la necessità di intervenire non solo sulle conseguenze fisiche, ma anche su quelle psicologiche derivanti dalle Mutilazioni Genitali Femminili.

La vita dopo il dolore: la rinascita è possibile?

L’intervento sulle donne vittime di Mutilazioni Genitali Femminili dovrebbe consistere in un approccio integrato, realizzato mediante l’unione di un trattamento medico-chirurgico con uno psicologico. Infatti, se da un lato risulta essere fondamentale l’attuazione di operazioni di ricostruzione genitale sulle donne con MGF, in termini di riduzione del dolore e di recupero di una sessualità positiva (Foldés, P., et al., 2012), ma anche in termini di miglioramento dell’immagine di sé e del proprio corpo (Buggio, L., et al., 2019), dall’altro, anche gli interventi di stampo psicologico hanno dimostrato la propria efficacia sulle vittime di tale pratica: una review del 2017 (Adelufosi, A., et al., 2017) ha suggerito la possibile utilità della psicoterapia, in particolare di stampo Cognitivo-Comportamentale, nell’intervento sulle pazienti con Mutilazioni Genitali Femminili, a causa della particolare efficacia di tale terapia sulle sintomatologie ansiose, depressive e post-traumatiche. Uno studio condotto in Kenya (Okoth, Z., et al., 2017) su delle ragazze del luogo che avevano subito le Mutilazioni Genitali, ha inoltre dimostrato l’utilità di tecniche proprie della psicologia, quali lo Psicodramma e il Role Play, nell’aiutare le pazienti ad esprimere maggiormente le proprie emozioni e condividere le proprie esperienze, con la positiva conseguenza di riscoprire e valorizzare gli aspetti positivi della propria personalità e di poter, così, sviluppare le proprie potenzialità.

Conclusioni

Attualmente, il Parlamento Europeo si sta attivando sempre più sia nel contrastare la pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili, sia nel fornire servizi e cure a coloro che ne sono già state vittime, anche in Europa, mediante un’integrazione di approcci medico-chirurgici e psicologici. Un passo importante è stato segnato dalla vittoria da parte di un gruppo di studentesse keniane, nel 2019, del “Premio Sacharov per la liberà di pensiero” -assegnato dal Parlamento Europeo-, per lo sviluppo dell’applicazione per smartphone “i-Cut”, ideata per soccorrere le vittime di mutilazione genitale, fornendo assistenza nella ricerca di un centro di accoglienza presso il quale cercare aiuto e denunciare il crimine alle autorità. La speranza è che a tali interventi possa essere associata, in futuro, un’opera di rieducazione e diffusione di informazioni nelle regioni maggiormente colpite dalla piaga culturale delle mutilazioni genitali, poiché alla base del mantenimento di tale pratica c’è spesso non solo una mancata consapevolezza sulle conseguenze negative per la salute, specialmente nel lungo termine, ma anche una serie di convinzioni erronee, condivise dalle stesse donne, su tale pratica, culturalmente considerata come l’unico modo sia per evitare che le donne diventino sessualmente promiscue, sia per rimuovere dal corpo femminile un organo ritenuto tipicamente “maschile”, ossia il clitoride (Ahanonu, E.L. & Victor, O., 2014). Del resto, come evidenziato dall’opera di Peter Nguura, un medico africano impegnato in prima persona nella lotta alle Mutilazioni Genitali Femminili nelle comunità Masai in Kenya, il primo passo per modificare una tradizione consiste nell’intervenire sul pensiero di coloro che la praticano (Graamans, E., et al., 2018).

 

Disforia di genere e comorbilità

Con disforia di genere si intende il malessere percepito da un individuo che non si riconosce nel suo sesso fenotipico o nel genere assegnatogli alla nascita.

 

Disforia di genere (DG) e transessualismo sono i termini usati per descrivere la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un’intensa e persistente identificazione col sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si presenta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta disforia di genere) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.

Uno dei punti cruciali nella diagnosi di disforia di genere è quello di escludere quei fattori che sono legati ad uno stato di confusione legata all’identità sessuale di una persona. Il disturbo borderline di personalità può essere associato ad una confusione legata alla propria identità, e lo scopo del presente articolo è quello di indagare questo aspetto.

Il disturbo borderline di personalità include tra le caratteristiche essenziali la paura del rifiuto, l’instabilità delle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, nell’identità e nel comportamento.

Secondo Jorgensen (2006), il disturbo dell’identità è uno dei sintomi chiave del disturbo insieme all’instabilità relazionale. Un’alta percentuale di pazienti donne con DBP (disturbo borderline di personalità) va incontro ad una diagnosi di disturbo dell’identità. Questo disturbo si presenta come incertezza su diversi fronti, ad esempio la propria immagine, l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

Il legame tra disforia di genere e altre psicopatologie

Per quanto riguarda il legame tra disforia di genere e altre psicopatologie, si postula che la disforia di genere si associ spesso a Disturbi di Personalità.

Gli psicoanalisti, ad esempio, ritenevano che i pazienti con disforia di genere fossero gravemente psicopatologici; Sperber (1973) credeva che coloro che mostravano una Disforia di Genere presentassero personalità di tipo Borderline; Chiland (2000) considerava il transessualismo come un Disturbo Narcisistico con disturbo dell’immagine di sé. Hoening e coll. (1971) affermavano che il 70% dei transessuali mostrava una diagnosi psichiatrica, sebbene solo il 13% di questi fosse effettivamente psicotico. Meyer (1974) e Steiner (1985) riscontrarono Personalità Narcisistica, Borderline e Antisociale, oltre a tratti schizoidi, depressione, ansia e tendenze suicidarie.

Per quanto concerne la popolazione femminile, Lothstein (1983,1984) constatò una significativa comorbilità psichiatrica e Bockting e Coleman (1992) rilevarono la presenza di Ansia e Depressione e Disturbi dell’Asse II, nel disturbo di identità di genere. Hartmannn e coll. (1997), inoltre rilevarono una notevole disregolazione in senso narcisistico.

Sulla base di queste ricerche e dati, è importante comprendere se la patologia mentale mostrata dalle persone con una disforia di genere sia dovuta alla disforia stessa, oppure sia dovuta all’esposizione a fattori stressanti e alle difficoltà derivanti dal trovarsi a vivere in una società che tende a stigmatizzare e ad ostracizzare la diversità.

Alla luce di queste considerazioni, è doveroso anche citare quella parte della letteratura scientifica che mostra, invece, come le persone con varianza di genere non debbano mostrare necessariamente una grave comorbilità con disturbi psicopatologici.

Bentler e colleghi (1970), ad esempio, non osservarono importanti diversità sulle scale nevrotiche o psicotiche tra transessuali e soggetti di controllo. Cole e coll. (1997), evidenziarono che, su un campione di 435 transessuali, meno del 10% mostrava precedenti disturbi mentali. Carroll (1999) affermò che le persone transgender non evidenziavano livelli di disturbi mentali più elevati della popolazione non clinica. Un dato interessante fu fornito da Miach e coll. (2000), i quali rilevarono in soggetti definiti come transessuali bassi livelli di psicopatologia; mentre riscontrarono psicopatologie da moderate a gravi nei soggetti a cui era stato diagnosticato un ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’adolescenza e dell’età adulta, tipo non transessuale’.

Per quanto riguarda la comorbilità tra disturbo dell’identità di genere e le patologie in Asse I, è stata osservata, un’associazione tra disforia di genere e i Disturbi Alimentari, i quali richiedono un’attenta categorizzazione, poiché è possibile che l’ossessione di modificare il proprio corpo possa essere legata a temi dismorfofobici tipici di tali disturbi (Dettore, 2005). Questa comorbilità è stata osservata quasi esclusivamente in soggetti maschi, e il disturbo alimentare prevalentemente rilevato in associazione a DG era l’anoressia nervosa.

Un’ulteriore area di interesse è quella che concerne il rischio suicidario. In uno studio, Mathy osservò come le persone transgender riferissero significativamente maggiori ideazioni e comportamenti suicidiari rispetto a tutti gli altri gruppi (maschi eterosessuali, femmine eterosessuali e maschi omosessuali), con l’eccezione delle donne omosessuali.

In definitiva, è difficile affermare con certezza la presenza di specifiche psicopatologie associate alla disforia di genere, anche a causa della grande variabilità individuale dovuta a una moltitudine di fattori, quali il sesso biologico, la cultura di appartenenza, le esperienze precoci, l’aver subito esperienze di stigmatizzazione per la propria identità di genere e così via.

Tuttavia, è doveroso segnalare quei disturbi che sono stati associati frequentemente alla disforia di genere: il disturbo di Asse I che più di frequente è stato osservato in comorbilità al DG è il disturbo da abuso di sostanze, e questo è stato confermato anche da Hepp e coll. (2005), i quali riscontrarono anche una massiccia presenza di disturbi dell’umore, in particolare di depressione maggiore. Nel 41% del loro campione, inoltre, gli autori riscontrarono la presenza di uno o più disturbi di personalità, appartenenti prevalentemente al Cluster B (22,6%) e rilevarono che il disturbo di personalità più diffuso era il disturbo di personalità Borderline. Questi risultati ricalcano quelli riportati da un articolo di Collier e coll. (1997), i quali mostrarono che il disturbo in Asse I più diffuso in pazienti con disforia di genere fosse la depressione maggiore, e che il disturbo di personalità prevalente fosse quello Borderline. Recentemente, Duisin e coll. (2008) hanno confermato questi risultati, affermando che i disturbi di personalità più diffusi nel loro campione di soggetti con DG, erano il disturbo di personalità borderline e il disturbo di personalità paranoide.

Devita Singh e coll. (2010) hanno valutato l’ipotesi che il DG fosse maggiormente associato al Disturbo Borderline di Personalità nei soggetti femminili. Per farlo, hanno indagato un campione di 100 donne affette da DBP utilizzando i criteri diagnostici del DSM-IV-Tr. I risultati della loro ricerca non mostrano differenze significative nella comorbilità del DG mettendo a confronto un campione di donne affette da DBP e il gruppo di controllo. Nonostante ciò, il primo gruppo ha mostrato punteggi più alti in relazione alla comorbilità fra i 2 disturbi, anche se non statisticamente significativi. Quello che emerge da questo studio, suggerisce che non ci sia una corrispondenza abbastanza solida fra i due disturbi. I disturbi legati all’identità del DBP non sembrano influire in modo significativo su un possibile sviluppo del DG.

Disforia di genere e disturbo borderline di personalità

Uno studio di Sonia Marantz e coll. (1991) ha confrontato madri di ragazzi con disturbo dell’identità di genere (DG) con madri di ragazzi non affetti da patologie mentali per determinare se le differenze nella psicopatologia, negli atteggiamenti e nelle pratiche di educazione risultassero significative. I risultati dell’intervista diagnostica per il DBP e il Beck Depression Inventory hanno rivelato che le madri di ragazzi con DG avevano più sintomi di depressione e più spesso soddisfacevano i criteri per DBP rispetto ai controlli. Nello specifico, il 53% delle madri di figli affetti da DG presentavano un quadro sintomatologico che soddisfaceva i criteri per il DBP e per la depressione, mentre solo il 6% dei controlli mostrava una di queste patologie.

Differenze significative si sono verificate nelle seguenti aree: relazioni interpersonali, psicosi e affettività. Sebbene nessuna delle madri nel gruppo di controllo abbia ottenuto punteggi nell’intervallo borderline della psicopatologia, il 25% delle madri di ragazzi con DG lo ha fatto.

Le madri in quest’ultimo gruppo che non hanno ottenuto punteggi tali da soddisfare i criteri per DBP, mostravano comunque punteggi più alti nelle scale di misura del comportamento patologico rispetto al gruppo di controllo.

I risultati suggeriscono che le madri di figli con DG abbiano difficoltà di lunga data nella regolazione dell’affetto e nelle relazioni interpersonali. Particolari difficoltà su questioni di separazione, depressione e gestione dell’aggressività. Si descrivono come alla ricerca compulsiva di compagnia, inclini a relazioni intense, emotivamente tempestose, rabbiose e a intensi sentimenti di solitudine, vuoto e depressione. Tendono a fare richieste eccessive alle persone e a sentirsi in diritto di farlo.

Conclusioni

Da quanto emerge dagli studi e le ricerche presi in esame, esistono dati contraddittori per quanto riguarda il tema centrale. Vari studiosi hanno provato a verificare se esistesse oppure no una correlazione fra DG e disturbi psicologici di asse 1 o asse 2. La domanda che ci poniamo è se i disturbi che si associano al DG siano connessi a questo, oppure se siano maggiormente legati alle problematiche sociali che il DG fa emergere, come ad esempio lo stigma sociale (come già trattato all’interno di questo articolo in relazione agli studi di Bentler e Prince (1970), Cole e coll. (1997), Carroll (1999), Miach e coll. (2000)). In effetti i soggetti affetti da questo disturbo si trovano ad affrontare delle situazioni stressanti, che riguardano sia il pregiudizio e la non accettazione degli altri, sia l’incongruenza riguardo all’identità di genere ed i sentimenti e il giudizio che provano verso sé stessi. Nonostante questa contraddittorietà, esistono numerose ricerche su questo argomento la cui rilevanza sembra aumentare giorno dopo giorno, visto il periodo storico attuale, in cui, almeno a livello superficiale, vi è stata una notevole apertura nei confronti delle questioni sociali relative al genere e alla sessualità. Anche se a livello statistico la comorbilità con altri disturbi risulta essere nelle maggior parte dei casi non significativa, questo dato si contrappone spesso con la realtà empirica, che mostra un elevato grado di sofferenza nei pazienti affetti da DG, e che stimola e motiva nuove ricerche atte ad indagare la natura di questo disturbo così complesso.

 

 

Terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio (2021) di Craig J. Bryan e M. David Rudd – Recensione

In Italia ogni anno circa 4.000 persone si suicidano. Se consideriamo i tentativi di suicidio e i comportamenti autolesivi ci rendiamo immediatamente conto di quanto il problema sia rilevante; Terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio affronta proprio queste tematiche.

 

Dagli studi compiuti, sono emerse diverse tendenze nei trattamenti che prevengono efficacemente i tentativi di suicidio. In particolare, le terapie cognitivo-comportamentali presentano diverse somiglianze che sembrano essenziali per prevenire il suicidio: un modello teorico; la manualizzazione e la fedeltà clinica; l’enfasi sull’aderenza del paziente; l’allenamento delle competenze; il rispetto dell’autonomia del paziente; la capacità di gestione delle crisi; e un format che preveda la terapia individuale.

Il corposo manuale di Bryan e Rudd illustra la terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio (BCBT), un approccio psicoterapeutico innovativo fondato su solide evidenze empiriche.

I due autori descrivono tutte le procedure e gli interventi che compongono il protocollo.

La prima parte di questo manuale fornisce una discussione sui principi teorici e concettuali alla base dell’approccio e della sua implementazione.

La seconda parte si concentra sulla prima seduta, la più strutturata dell’intero trattamento.

La parte terza descrive le procedure e gli interventi della prima fase della BCBT, che generalmente abbraccia le sedute dalla due alla cinque.

La quarta parte del manuale illustra le procedure e gli interventi che compongono la seconda fase del protocollo. In questa fase del trattamento, l’attenzione si sposta sul sistema di convinzioni suicidarie del paziente, ipotesi e credenze di base che sostengono pensieri e comportamenti legati al suicidio.

L’attività di prevenzione delle ricadute è svolta nelle sedute undici e dodici con esercizi d’immaginazione guidata.

Il manuale termina con due appendici che includono le copie di tutti i fogli di lavoro per i pazienti, le dispense richieste per effettuare la BCBT, e le copie degli strumenti clinici come le check-list, i modelli di documento per la valutazione del rischio di suicidio e gli script per gli esercizi di rilassamento e mindfulness.

Nel volume gli autori riportano numerosi casi di studio con dialoghi estrapolati da sedute per fornire esempi di come il protocollo possa essere utilizzato con pazienti che riflettono un’ampia gamma di livelli di rischio e complessità clinica.

Inoltre, mostrano come sia possibile stabilire una forte relazione collaborativa con un paziente suicida, valutare il rischio di un atto anticonservativo e lavorare per riportare il paziente in sicurezza.

Sono descritti strumenti d’intervento di efficacia comprovata per sviluppare la regolazione delle emozioni e la capacità di gestione delle crisi e per smantellare il sistema di credenze suicidarie proprie del paziente.

Alla prima seduta, come già rilevato, è data la massima importanza. Dopo aver fornito una panoramica della BCBT e aver descritto la struttura del trattamento, attraverso la valutazione narrativa, il clinico costruisce l’alleanza e la concettualizzazione del caso e ottiene le informazioni necessarie per valutare il rischio di suicidio.

La prima fase del trattamento, che è tipicamente della durata di quattro sedute, si concentra sulla disattivazione della modalità suicida e sulla stabilizzazione dei sintomi attraverso il training delle abilità di regolazione delle emozioni.

Nelle successive cinque sedute la BCBT si concentra sul sistema di credenze suicidarie che è alla base della vulnerabilità a lungo termine al suicidio.

Nelle due ultime sedute, l’attenzione si sposta sull’integrazione delle competenze e la prevenzione delle ricadute.

Il protocollo prende in considerazione due tipi di rischio suicidario, il rischio di base che varia da individuo a individuo in relazione alla propria costellazione di predisposizioni storiche e di sviluppo e il rischio acuto che comporta l’aspetto del rischio temporaneo o transitorio.

Dal punto di vista della teoria della vulnerabilità fluida, i fattori di rischio cognitivo e comportamentale meritano un’attenzione particolare nel trattamento perché attuare un cambiamento in questi due domini può modificare direttamente e in modo affidabile il rischio di base.

Una lettura quella del manuale Terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio che va consigliata a ogni clinico che prima o poi si troverà ad affrontare un paziente con rischio suicidario o che ha già compiuto un tentativo e potrà giovarsi in quel caso delle preziose indicazioni che troverà illustrate nel volume.

La neuropatia a piccole fibre: indagini neurofisiologiche e ruolo diagnostico della biopsia di cute

La Neuropatia delle Piccole Fibre (NPF, in inglese Small Fiber Neuropathy, SFN) è una patologia che colpisce le fibre nervose periferiche di piccolo calibro. Questa patologia del sistema nervoso periferico spesso viene sottostimata e sottodiagnosticata.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

Alterata percezione del dolore e degli stimoli termici, disturbi sensitivi quali formicolii, bruciori e punture di spillo agli arti costituiscono i sintomi caratteristici di una patologia del sistema nervoso periferico spesso sottostimata e sottodiagnosticata: la Neuropatia delle Piccole Fibre. La normalità dei reperti agli esami di routine per lo studio del sistema nervoso periferico fa sì che la diagnosi sia spesso difficoltosa. Il progressivo peggioramento del quadro clinico e le conseguenti ripercussioni sul tono dell’umore e sulla qualità della vita dei pazienti conducono spesso ad erronee diagnosi di fibromialgia o disturbi psichiatrici, quali il disturbo somatoforme. Da queste considerazioni risulta evidente l’importanza di fare chiarezza sulle caratteristiche di tale disturbo e sulle specifiche metodiche di indagine indispensabili per la diagnosi.

La Neuropatia delle Piccole Fibre (NPF, in inglese Small Fiber Neuropathy, SFN) è una patologia che colpisce le fibre nervose periferiche di piccolo calibro. Tali fibre, classificate come fibre C e fibre A-Delta, sono specificatamente coinvolte nella trasmissione di stimoli termici (caldo, freddo) e dolorifici e sono presenti non solo all’interno dei nervi del sistema nervoso periferico, ma anche nei muscoli, nel tessuto fibromuscolare degli organi interni e nel sistema nervoso autonomo.

Nella maggior parte dei pazienti non è identificabile una causa responsabile dalla patologia (forme idiopatiche), anche se è noto che esse possono presentarsi più frequentemente in associazione a malattie autoimmuni o patologie sistemiche, tra cui il diabete mellito, l’amiloidosi, la malattia di Fabry, la sindrome di Sjögren, la sarcoidosi, la malattia di Lyme, il lupus eritematoso sistemico. Alla base delle forme idiopatiche, sono state ipotizzate disfunzioni congenite o indotte dei canali del sodio, specie quello denominato Nav1.7

La neuropatia delle piccole fibre è caratterizzate da una sintomatologia di tipo sensitivo, muscolare e autonomico. Nei soggetti affetti, si riscontra frequentemente una maggiore sensibilità sia agli stimoli dolorosi (iperalgesia), sia a normali stimoli cutanei, che possono essere percepiti di maggiore intensità (iperestesia) oppure dolorosi (allodinia). Tipicamente, si osserva un’alterata percezione degli stimoli termici, che può declinarsi in una ridotta capacità di discriminazione fra caldo e freddo; frequenti sono le sensazioni di bruciore, intorpidimento o punture di spillo (parestesie) agli arti. Al contrario, la sensibilità tattile e vibratoria è conservata, così come i riflessi osteo-tendinei. I disturbi motori e muscolari sono costituiti da crampi e facile faticabilità.

I disturbi del sistema autonomo/vegetativo sono più rari, ma possono comportare ripercussioni a carico di differenti organi, con alterazioni del ritmo cardiaco, della pressione arteriosa, sintomi gastroenterici e genito-urinari.

Come anticipato, la complessità della diagnosi di neuropatia delle piccole fibre deriva dal fatto che gli accertamenti di prima linea per lo studio del sistema nervoso periferico (come ad esempio l’elettromiografia) risultino nella norma. L’elettroneurografia/elettromiografia è infatti utile ad esplorare le fibre nervose di grande calibro, ma non quelle di piccolo calibro, specificatamente colpite in tale patologia.

Pertanto, un importante contributo per la diagnosi è offerto da accertamenti diagnostici specifici, come i potenziali evocati laser, i test quantitativi sensitivi (QST), il test quantitativo del riflesso assonale sudori motorio (QSART), il test del sudore termoregolatorio, i test autonomici cardiovagali ed adrenergici ed infine lo studio delle fibre nervose intraepidermiche (IENF) mediante biopsia cutanea neurodiagnostica. Quest’ultimo esame rappresenta la metodica più affidabile per la diagnosi, poiché consente di valutare direttamente la densità delle fibre nervose di piccolo calibro nel tessuto esaminato tramite una procedura semplice e precisa.

La biopsia cutanea neurodiagnostica è stata applicata per la prima volta nel 1990 presso il Karolinska Institute e successivamente standardizzata presso l’Università del Minnesota, dove  il prof. W.R.Kennedy e i suoi collaboratori l’hanno utilizzata a partire dal 1993 per lo studio dei pazienti con neuropatia diabetica. (48)

Oltre a fornire un dato quantitativo, la biopsia cutanea neurodiagnostica ha il vantaggio di essere ripetibile, minimamente invasiva ed applicabile in un contesto clinico ambulatoriale. Tuttavia, l’uso corrente di questa metodica è limitato dalla necessitò di personale altamente specializzato e dalla disponibilità di strumentazione di laboratorio specifica.

Previa anestesia locale con lidocaina, la biopsia viene eseguita utilizzando uno strumento a punta metallica cilindrica che consente una piccola incisione sulla cute, con prelievo di un piccolo campione di epidermide (3 mm di diametro). Il sito privilegiato è la parte distale della gamba, ma la sede può variare in base al quadro clinico.

Figura 1. Metodica di prelievo bioptico di campione di cute nella regione distale della gamba.

Il campione viene successivamente fissato, congelato e infine processato con differenti reagenti. La quantificazione delle piccole fibre presenti per millimetro quadrato può essere effettutata o con il conteggio diretto al microscopio (ingrandimento 40x) eseguito da due differenti operatori, oppure utilizzando un software per l’analisi di immagine. La prima metodica è attualmente la più utilizzata, ma presenta il limite dato dalla necessità di personale altamente formato ed esperto.

Il riscontro di una riduzione della densità delle piccole fibre nervose intraepidermiche è l’elemento chiave per la diagnosi. Sono inoltre riscontrabili segni suggestivi di sofferenza delle fibre nervose, quali rigonfiamento dell’assone, presenza di fibre nervose sparse o riunite in “ciuffi”, aumento delle ramificazioni dei dendriti.

Figura 2. Fibre nervose epidermiche (frecce) identificate mediante immunofluorescenza all’arto inferiore di un soggetto normale (in verde, colorazione di fibre nervose; in rosso, colorazione di collagene di tipo Ⅳ della membrana basale e vasi sanguigni). E: epidermide; D: Derma; BM: membrana basale; A: Arteria.

Figura 3. Denervazione completa dell’epidermide (e del derma) in un paziente con neuropatia. E:Epidermide; D: Derma; BM: membrana basale

La biopsia cutanea neurodiagnostica, oltre che di fondamentale importanza per la diagnosi di neuropatia a piccole fibre, è stata inserita nelle linee guida per la diagnosi delle neuropatie periferiche dalla European Federation Of Neurological Society (ENFS), dove le è attribuito valore predittivo diagnostico molto elevato (livello di raccomandazione A).

La terapia, nel caso in cui la neuropatia a piccole fibre sia secondaria ad una patologia sistemica, è in primis il trattamento della malattia di base.

Nei casi idiopatici e in tutti i casi in cui i sintomi sensitivi siano particolarmente invalidanti, la terapia farmacologica prevede l’utilizzo di farmaci appartenenti alla categoria degli antiepilettici (gabapentin, la carbamazepina e il pregabalin), degli antidepressivi SSRI e SNRI (Duloxetina) o degli antidepressivi triciclici  (amitriptilina). Nel caso in cui tali terapie di prima linea non diano risultati soddisfacenti, è possibile utilizzare, in alternativa o in associazione,  farmaci oppioidi come il tramadolo, la codeina e il tapentadolo, o anestetici locali. Recenti evidenze scientifiche evidenziano un possibile effetto dei cannabinoidi, come tetraidrocannabinolo e cannabidiolo, nel trattamento della sintomatologia dolorosa. E’ stato inoltre evidenziato, nelle forme particolarmente resistenti, il possibile utilizzo del trattamento con immunoglobuline per via endovenosa o corticosteroidi.

 

Potere e autorità: i processi psicologici alla base

L’obbedienza all’autorità è l’elemento fondamentale della struttura sociale. Non è né giusta né sbagliata, l’eticità dell’obbedienza dipende unicamente dalle disposizioni a cui si è sottoposti e dal contesto entro cui si obbedisce.

 

La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. (Sigmund Freud)

Il potere è un concetto molto controverso, spesso identificato in una relazione causale diretta. Chi detiene il potere si impone su chi lo subisce. È una relazione tra individui che porta alla capacità di ottenere obbedienza. L’aspetto che si colloca nel rapporto di accettazione o rifiuto del potere è l’autorità. Nell’obbedienza gioca un ruolo fondamentale l’influenza esercitata sul sistema sociale. L’obbedienza prevede una disuguaglianza sociale, ovvero presuppone una persona di posizione sociale superiore che detta il comportamento, la fonte, e una persona di posizioni inferiore che vi obbedisce, il bersaglio (Mucchi Faina et al., 1996). Ci sono azioni che la fonte non può compiere e che quindi richiede al bersaglio. Vi è un’indipendenza tra il comportamento del richiedente e quella di colui che esegue. Queste richieste sono dei comandi espliciti ai quali conformarsi, quindi vi è consapevolezza dell’uniformarsi alla regola o meglio un’intenzionalità del processo d’influenza (Mucchi Faina et al., 1996). Il rapporto tra individuo e autorità può essere inteso come una negoziazione di significati che definiscono l’influenza che l’autorità può esercitare sull’individuo.

La compiacenza è il processo psicologico che sta alla base del fenomeno dell’obbedienza all’autorità (Moscovici & Lage, 1976; Maass & Clark, 1983). Può corrispondere o no all’accettazione privata ed emerge nel momento in cui il bersaglio pensa di evitare sanzioni o di ricavarne un vantaggio, accondiscendendo a quell’ordine. Nel processo dell’obbedienza l’individuo entrando a far parte di un sistema gerarchico viene a trovarsi in uno stato eteronomico, ovvero l’individuo non si considera più libero di intraprendere libere condotte e neanche responsabile delle sue azioni, ma strumento per eseguire gli ordini dell’autorità (Milgram, 1963). Ciò porta ad atti di obbedienza solo se l’autorità dà ordini specifici che definiscono l’azione e contengono l’imperativo di eseguirla. In questo stato cognitivo il soggetto ridefinisce il significato della circostanza accettando e adattandosi alla prospettiva di chi detta le disposizioni. La persona non concepirà più l’ordine a cui obbedisce come scaturito da motivazioni personali, non avrà quindi ripercussioni sul giudizio dell’immagine che ha di sé. Vi è una perdita di attribuzione che porta il bersaglio a sentirsi responsabile nei confronti dell’autorità piuttosto che delle conseguenze delle azioni da lui messe in atto, si ha un dislocamento della responsabilità (Bandura et al., 1996; Caprara et al., 1996). Quando l’individuo entra in uno stato eteronomico è influenzato da fattori distali che lo riportano ad esperienze personali di educazione all’obbedienza, e da fattori prossimali (Milgram, 1963) legati alla relazione tra soggetto ed autorità come l’adesione volontaria al sistema d’autorità, la giustificazione ideologica e la percezione di un’autorità legittima. Attraverso quest’ultima si può motivare e giustificare la posizione dominante, aspetto cardine della fonte. Quindi, possiamo immaginare l’autorità come esercizio legittimato di potere.

La norma dell’obbedienza è insita in tutti noi, in quanto gli individui tendono ad obbedire a chi è dotato di legittima autorità. Con l’idea di potere legittimo, Weber (1961) distingue tre categorie di legittimazione: legittimità tradizionale che sottende la convinzione della validità di una autorità fondata sulla prassi quotidiana, “così è sempre stato, e così sempre sarà”; legittimità carismatica che poggia sulla convinzione del valore esemplare di una specifica persona ovvero il leader; e legittimità legale-razionale che sottoscrive la convinzione basata sulla credenza del valore legale dell’ordinamento statuito. L’autorità produce un modellamento verso il pensiero dell’ordine impartito, senza necessariamente che quest’ultimo lo ritenga giusto o sbagliato (convergenza cognitiva – Nemeth, 1986; Nemeth et al., 1992).

L’obbedienza all’autorità è l’elemento fondamentale della struttura sociale. Non è né giusta né sbagliata, l’eticità dell’obbedienza dipende unicamente dalle disposizioni a cui si è sottoposti e dal contesto entro cui si obbedisce. Si può effettuare una differenziazione tra obbedienza costruttiva e obbedienza distruttiva. La prima afferma la libertà individuale e un’armonia sociale, poiché l’assenza di regole alimenterebbe il caos. La seconda non tiene conto delle conseguenze delle azioni e qui ritroviamo i “crimini di obbedienza”, dove troviamo un basso sviluppo morale. Per Bauman (1992) lo sviluppo morale può essere ostacolato da determinate caratteristiche: una divisione funzionale dei compiti così da non percepire la visione dell’insieme, il distanziamento sociale in modo da depersonalizzare il destinatario, la produzione dell’indifferenza e la sostituzione della responsabilità morale con quella tecnica, così da sentirsi responsabili solo del ruolo all’interno dell’apparato e non delle conseguenze morali delle proprie azioni.

 

cancel