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Errori da non ripetere – Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori (2016) di Daniel J. Siegel e Mary Hartzell

Dan Siegel, psichiatra infantile, e Mary Hartzell, psicologa dell’infanzia, pubblicano il libro Errori da non ripetere con l’intento di aiutare genitori e caregiver a sviluppare ed esercitare tutte le competenze emotive, psicologiche e relazionali necessarie per adempiere il difficile compito di allevare, crescere ed educare un bambino.

 

Gli studi più recenti della psicologia dello sviluppo mostrano come l’attaccamento sicuro o insicuro del bambino nei confronti dei genitori dipenda sia da come questi ultimi lo accudiscono fin dai primi mesi di vita e si mostrano in grado di rispondere ai suoi bisogni di base, che dalla modalità con cui comunicano con lui, rivelandosi aperti ad accogliere senza pregiudizi le diverse emozioni sperimentate dal bambino. Come il genitore risponde e comunica emotivamente con il proprio figlio è decisivo per lo sviluppo del bambino e della sua personalità poiché influenza il suo senso di efficacia, autostima e sicurezza, oltre che la resistenza psicologica ad eventi stressanti.

Il significato che diamo alle nostre esperienze infantili ha un profondo impatto sul nostro modo di essere genitori; spesso, infatti, la difficoltà di un’interazione adeguata da parte degli adulti deriva dal tipo di relazione che essi, a loro volta, hanno sperimentato da piccoli. Le esperienze pregresse tendono ad essere immagazzinate, conservate ed, infine, riprodotte in modo inconsapevole, reiterando i modelli negativi che si tramandano di generazione in generazione. Una maggiore conoscenza e comprensione di noi stessi e della nostra storia può quindi interrompere questo circolo vizioso, aiutandoci a costruire una relazione più efficace e soddisfacente con i nostri figli.

Migliorare la coerenza delle nostre narrazioni autobiografiche e cambiare il modo di pensare agli eventi, integrando sia le esperienze positive che quelle negative e accettandole come parte della nostra storia, conduce ad una maggiore consapevolezza degli eventi presenti che ci consente di offrire ai nostri figli una relazione che li aiuti a crescere in modo ottimale, fornendogli una base sicura da cui partire. Le ricerche in questo ambito hanno sottolineato come gli individui che da bambini hanno avuto relazioni positive, manifestano successivamente una maggiore resistenza psicologica e maggiori risorse per affrontare la vita. Elementi fondamentali per lo sviluppo di un’ottimale relazione genitore-figlio sono: la consapevolezza, la disponibilità ad apprendere, la flessibilità nelle risposte, la capacità di percepire le informazioni cogliendo anche i segnali non verbali e la gioia condivisa, troppo spesso accantonata a causa degli impegni e dei problemi in cui ci ritroviamo immersi quotidianamente.

Il volume, completo di esercizi a conclusione di ogni capitolo, analizza i vari aspetti della genitorialità: esamina le modalità con cui ricordiamo, percepiamo la realtà, sentiamo le emozioni, comunichiamo, sviluppiamo l’attaccamento, diamo un senso alla nostra vita, siamo coinvolti e prendiamo le distanze, riflettiamo con i nostri figli sulle loro esperienze, senza tralasciare i meccanismi cerebrali che stanno alla base delle nostre esperienze.

In sintesi, questo libro incoraggia a costruire il ruolo del genitore che abbia come principi fondamentali la comprensione interna e la relazione interpersonale. Capire il senso della nostra storia ci permette di stabilire relazioni più intense e profonde con i nostri bambini e di avere una vita più felice e coerente.

Il ‘Mental Accounting’ nell’attuale contesto economico

Nel mental accounting il denaro viene nettamente separato: una prima componente è pressoché intoccabile, una seconda viene utilizzata con maggiore leggerezza. Quest’ultima circostanza attualmente è quanto mai evidente: in periodi di incertezza si accresce la domanda di moneta per scopi precauzionali.

 

Introduzione: il contesto di riferimento

Sono tempi duri e incerti. Il contesto di riferimento spinge gli agenti economici a rivedere l’allocazione del proprio reddito, gli strumenti di pagamento da utilizzare, la modalità di acquisto (online o quello fisico presso i tradizionali canali di distribuzione), le scelte di portafoglio. Tutto ciò in ragione di molteplici fattori, quali l’impoverimento e la paura di quest’ultimo collegati alle ricadute economiche della prolungata pandemia; l’entrata in vigore, dal 1^ gennaio 2021, del Regolamento europeo EBA sui “non performing loan”, che cambia le regole per lo sconfinamento e la definizione di default; l’introduzione del cashback di stato, dal 1^ gennaio 2021 (se non si considera l’Extra Cashback di Natale), per ottenere i rimborsi sui pagamenti elettronici realizzati nei negozi fisici: un incentivo questo che unisce, attraverso la diffusione di modalità sempre meno fisiche di pagamento, un mix di obiettivi di policy – lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio, incentivo agli acquisti, sostegno alle attività commerciali e avanzamento tecnologico mediante la promozione della digitalizzazione; l’implementazione della Brexit dal 1^ gennaio 2021. Quale sarà l’effetto Brexit è tuttavia non ancora noto, sia a livello politico, sia sul piano economico. Ma già da subito emergono i primi problemi: a fine 2020 sono stati chiusi i conti correnti bancari di clienti di principali banche britanniche, residenti nei Paesi Ue, poiché le regole bancarie in vigore nell’Unione europea non si applicano più alle banche inglesi. Prevalgono timore e rabbia fra gli expat britannici in Italia: si sentono traditi dalle proprie banche e temono questo effetto collaterale e sottovalutato della Brexit, che rischia di creare loro una molteplicità di imprevisti e difficoltà.

Ma non solo la Brexit, anche la maggior parte delle circostanze appena richiamate si dimostrano confusive. Ad esempio, il cashback crea sia incertezze che lo rendono in parte una scommessa – e se non venisse rimborsato? Il fondo stanziato sarà sufficiente a rimborsare tutti i consumatori che lo hanno utilizzato? -, sia opacità che al consumatore potrebbero sfuggire: gli sms di conferma di avvenuto pagamento da parte della propria banca incidono per un importo che può arrivare fino a 30 centesimi. Così, 50 transazioni costano a molti italiani 15 euro sulla bolletta telefonica. Perciò l’effetto annuncio sulla premialità del tipo di pagamento non rende chiari tutti gli effetti circa il bonus netto.

Alcuni fattori di contesto e il “mental accounting”

Nel presente lavoro, fra i molteplici fattori ricordati, ci concentreremo su due in particolare: sull’impoverimento come ricaduta di questa lunga pandemia e sull’entrata in vigore del Regolamento europeo EBA.

In periodi, come quello attuale, di fattori di contesto negativi, di incertezza pervasiva, di paura e di rabbia, di elevata percezione del rischio sulle possibili evoluzioni future, i soggetti sono portati a valutare in modo differente il proprio denaro e ad allocarlo in modo diverso: nei processi decisionali entrano in gioco fattori emotivi e psicologici, che tanto hanno peso in economia.

In particolare, nel presente contributo ci concentriamo sul “mental accounting” (“contabilità mentale”) e sul “framing effect” (“effetto dell’incorniciamento”) formulati da insigni economisti – rispettivamente da Thaler (1980, 1985,1990, 1999), e da Kahneman e Tversky (1981). Servendosi anche delle neuroscienze e degli esperimenti, essi hanno riconosciuto il ruolo significativo che giocano gli aspetti psicologici nel processo di decison-making dei soggetti quando i fattori di contesto hanno un impatto negativo sulla loro sfera cognitiva e su quella emotiva.

In tali circostanze, gli individui vanno in confusione, commettono errori, cercano sistemi di ancoraggio al fine di raggiungere risultati quantomeno soddisfacenti (se non ottimizzanti). Entra in gioco, quindi, un terzo elemento – vale a dire la loro razionalità limitata – che conduce nella stessa direzione, come ad esempio all’adozione di forme di ancoraggio per le decisioni. Di conseguenza, nel determinare le proprie scelte, il soggetto si confronta non solo con i vincoli di reddito, ma con i non meno importanti vincoli di natura sia cognitiva sia psicologica.

In questi frangenti, gli individui non danno lo stesso peso al denaro – pur essendo esso del tutto fungibile – e il processo decisionale include numerose variabili, fra cui: la diversa valutazione – anche in forma di costo-opportunità – del denaro corrente a seconda che esso sia costituito da monete metalliche o da banconote; a seconda del tipo di valuta (ad esempio, euro vs. sterlina); in funzione della destinazione del reddito, tipicamente nella scelta fra risparmio e spesa per consumi; in ragione della tipologia di consumi; in ragione della ricca gamma di strumenti finanziari disponibili ai fini delle scelte di portafoglio; sulla base di un’analisi costi-benefici (intertemporale) in cui l’evocazione di una perdita produce un impatto maggiore dell’evocazione di un guadagno, anche a parità di cifra presa in valore assoluto (Regret Theory di Loomes e Sudgen); a seconda dello scenario (incorniciamento) nel cui ambito vengono presentati i prospetti rischiosi (framing effect); sulle modalità di acquisto, con una prevalente preferenza di quelle online. Tuttavia, la digitalizzazione del contante (“Piano Italia cashless”) può rivelarsi scivolosa, in quanto l’idea del pagamento è in parte attenuata, frutto di un (artato) velo che si frappone fra l’acquisizione di un bene o servizio e il corrispondente pagamento. I pagamenti elettronici, se da un lato sono comodi, dall’altro rischiano di far perdere il conto delle spese realizzate. Non avendo il denaro contante in mano, si rischia di sottovalutare i prezzi ed effettuare acquisti con molta più leggerezza e/o sotto una spinta compulsiva: insomma, l’individuo diventa vittima di una sorta di illusione monetaria. Per non parlare poi dello strumento cashback, che addirittura garantisce un premio, rendendo più alto il costo-opportunità di altre forme di pagamento (dagli spiccioli alle vendite online, all’uso delle carte di credito nelle transazioni).

Tali fenomeni sottendono un mental accounting e un portafoglio mentalmente diversificato e frazionato in comparti stagni del denaro molto più complessi che in passato, poiché le variabili in gioco oggi sono molto più numerose. Sorgono di conseguenza fenomeni che subentrano nel processo di scelta: i) il framing effect (non tutto il denaro è equivalente); ii) la diversa valutazione del valore del denaro, in ragione della sua fonte, della sua finalità, della sua forma; ii) l’adozione di sistemi di ancoraggio: ad esempio, vale di più il denaro destinato a formare uno stock di ricchezza o uno stock di capitale umano, piuttosto che quello speso per consumi. Di conseguenza, nel mental accounting il denaro viene nettamente separato: la prima componente è pressoché intoccabile, la seconda viene utilizzata con maggiore leggerezza. Quest’ultima circostanza attualmente è quanto mai evidente: in periodi di incertezza si accresce la domanda di moneta per scopi precauzionali. Nelle scelte di portafoglio, una larga quota di risorse viene quindi detenuta in forma liquida. In questo periodo di pandemia, la paura aumenta la propensione al risparmio. E – circostanza rilevante – il risparmio non viene più interpretato come un sacrificio per il mancato acquisto di beni di consumo, bensì come forma di tranquillità grazie all’accantonamento di riserve (Scudieri, 2020), nonché un elemento di accrescimento dell’autostima in quanto conferma la propria capacità di tutelarsi in un mondo complesso, imprevedibile e rischioso. E nel mondo reale, la capacità di tutelarsi è un elemento fondante della propria personalità e del proprio benessere.

Tali valutazioni si ripercuotono nel mental accounting riguardo al modo di trattare i soldi: chi mai toccherebbe i soldi che rappresentano un’autotutela e addirittura diventano elemento di autostima? Nel mental accounting, essi vengono blindati in cassaforte.

L’attuale scenario offre spunti che validano la ricerca e gli esperimenti in tale direzione. Fra questi, la “psicologia dei distributori automatici” (Cotroneo, 2021): vale a dire, è stato provato che durante i periodi di crisi, i distributori automatici di bevande registrano sistematicamente un significativo aumento negli incassi poiché nei distributori vengono generalmente inseriti gli spiccioli anziché banconote.

Le evidenze empiriche confermano dunque la rilevanza del mental accounting: gli individui tendono di preferenza a spendere le monete metalliche piuttosto che la moneta cartacea, poiché spendere banconote viene percepito come un impoverimento. E tale tendenza risulta indipendente dalla cifra spesa: quando si hanno in tasca solo banconote, si ha una maggiore propensione a evitare le spese ritenute non necessarie – poiché il loro costo-opportunità risulta più elevato -, mentre invece le monete inducono a realizzare acquisti meno consapevoli, superflui ed effimeri. In altri termini, la propensione al consumo diventa funzione della modalità del pagamento. Ne consegue che, affinché siano efficaci, le architetture di policy pubbliche debbano tenere conto delle varie forme di mental accounting.

Sembrerebbe quindi in controtendenza l’introduzione, a partire da inizio d’anno, delle norme sui conti in rosso, in uno scenario come quello attuale di recessione; di disoccupazione involontaria e deflazione; dell’aumento delle diseguaglianze socio-economiche; di invecchiamento della popolazione e di basso livello di natalità, pregiudizievoli per il sistema pensionistico e per il welfare state; di timori circa le proprie condizioni di salute; della necessità di sostenere i figli a causa delle condizioni precarie del mercato del lavoro e dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile e degli scoraggiati che non cercano neppure più un lavoro.

La propensione al consumo è naturalmente anche funzione della struttura degli incentivi: avere un conto in rosso, in ragione delle possibili forti penalizzazioni, tenderà a ridurre tale propensione, con una ulteriore contrazione dei consumi delle famiglie e della domanda aggregata. Chi risulta di fatto al riparo è il sistema bancario, che si libera del fardello dei cattivi pagatori, ma non l’economia nel suo complesso (che include, oltre al settore monetario-finanziario, il settore reale), anch’esso in grande sofferenza.

L’individuo viene a trovarsi in una situazione funambolesca, in quanto spinto da forze polarmente opposte: lo stimolo agli acquisti mediante il cashback di stato, il timore di “andare in rosso”.

Oggi, il mental accounting viene messo a dura prova…

 

Curare l’insonnia in carcere con la CBT-I

Nonostante una quantità significativa di ricerche focalizzate sullo sviluppo e il trattamento di altre condizioni mentali e fisiche nella popolazione carceraria, c’è una scarsità di letteratura che esamina lo sviluppo e il trattamento dell’insonnia

 

Si stima che il 61.6% dei detenuti in carcere riferisce sintomi di insonnia, con le donne significativamente più propense a riferirla rispetto agli uomini (Dewa, Hassan, Shaw, & Senior, 2017). Le conseguenze dell’insonnia nei detenuti includono l’aggressività, la rabbia, l’impulsività, l’aumento del ricorso all’assistenza sanitaria in carcere (Barker, Ireland, Cu, & Ireland, 2016), l’ideazione suicidaria, i tentativi di suicidio e i suicidi. Se all’insonnia si aggiungono le perturbazioni dell’umore può aumentare la vulnerabilità al suicidio in questa popolazione (Carli et al., 2011). Come tale c’è un bisogno critico di sviluppare interventi e trattamenti efficaci in quest’area.

Nonostante una quantità significativa di ricerche focalizzate sullo sviluppo e il trattamento di altre condizioni mentali e fisiche nella popolazione carceraria, c’è una scarsità di letteratura che esamina lo sviluppo e il trattamento dell’insonnia (Dewa et al., 2015). Questa è di solito perpetuata da diversi fattori, che possono includere un maggiore sforzo per indurre il sonno in risposta all’angoscia per il poco sonno e l’eccitazione condizionata per cui il letto diventa uno spunto di eccitazione piuttosto che di sonno. La reclusione stessa può agire come fattore precipitante iniziale (Elger & Sekera, 2009). Inoltre, uno studio ha dimostrato che l’83% dei detenuti con insonnia ha riportato di avere un pregresso disturbo d’ansia o depressione (Elger, 2004). Altri fattori precipitanti e perpetuanti sono i vincoli dell’ambiente carcerario: la separazione dai propri cari, le routine rigidamente imposte e gli orari sonno-veglia, la limitata attività fisica, lo spazio condiviso per vivere e dormire, la mancanza di privacy, i problemi di sicurezza, l’accesso limitato alla luce del sole e i fattori ambientali (ad esempio, rumore, luce, temperatura, materasso e lenzuola), passare una quantità significativa di tempo in una cella su una branda, che non è usata solo per dormire ma anche per le attività della vita quotidiana (ad esempio, stare seduti, guardare la televisione, leggere, scrivere, mangiare, sonnecchiare). La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), un approccio psicoterapeutico che si rivolge alle cognizioni e ai comportamenti che causano e perpetuano un problema, è stata adattata a molti disturbi psichiatrici tra cui l’insonnia (CBT-I).

CBT-I è un efficace trattamento non farmacologico, strutturato, a breve termine, focalizzato sulle abilità, e volto a modificare pensieri, credenze e comportamenti che contribuiscono a insonnia. CBT-I one shot, invece, è stato progettato specificamente da Ellis e colleghi (2012) per trattare l’insonnia nella sua fase più acuta, aggirando la transizione verso quella cronica: prevede un opuscolo di auto-aiuto (che delinea delle strategie, ad esempio di distrazione immaginativa) e una singola sessione di terapia di 60-70 minuti condotta da un terapeuta (JGE, uno psicologo della salute e esperto del sonno con 8 anni di esperienza di CBT-I). Vista la sua efficacia nella riduzione dell’insonnia e della sintomatologia depressiva e ansiosa in una popolazione non carceraria, Randall e colleghi (2018) hanno testato questo tipo di intervento nell’ambiente carcerario per detenuti con insonnia acuta auto-riferita o inviati al Mental Health in Reach Team, apportando i dovuti adattamenti: (a) dove in precedenza le istruzioni di controllo dello stimolo suggerivano che la camera da letto doveva essere usata solo per dormire e per il sesso, il sesso è stato omesso da queste istruzioni, e (b) all’interno delle istruzioni di controllo dello stimolo, i partecipanti non sono stati istruiti a lasciare la camera da letto ma piuttosto a identificare uno spazio “non sonno” nella loro cella e andare lì se non erano in grado di dormire. Sono stati utilizzati i diari del sonno relativi alle precedenti settimane, al fine di impostare e prescrivere un iniziale programma di sonno specifico per i partecipanti (cioè il tempo di andare al letto e uscire dal letto). La prescrizione iniziale si basava sulla media del tempo totale di sonno della settimana precedente, e diventava il tempo a letto da trascorrere la settimana successiva. I partecipanti dovevano prolungare tale prescrizione finché non fossero soddisfatti del loro sonno. Inoltre, durante il primo colloquio, ai pazienti sono stati somministrati tre questionari: l’Insomnia Severity Index (ISI), composto da 7 items, è stato utilizzato per valutare la natura, gravità e impatto dell’insonnia (Morin, 1993); il Patient Health Questionnaire (PHQ), composto da 9 items, ha permesso lo screening, la diagnosi e il monitoraggio della gravità della depressione (Kroenke, Spitzer, & Williams, 2001); infine, sono stati valutati i sintomi dell’ansia attraverso il Generalized Anxiety Disorder (GAD), un questionario a 7 items (Spitzer, Kroenke, Williams, & Löwe, 2006). La valutazione di follow-up era stata fissata a quattro settimane dall’inizio dell’intervento.

Di solito i detenuti restavano in cella tra le 19.30 e le 7.30 del mattino. Alle 8 lasciavano la loro ala, se impiegati in attività, per poi tornare in cella per il pranzo tra le 11.30 e le 13.30. Tra le 14.00 e le 16.00 tornavano a lavoro, e alle 17.00 circa veniva servita la cena. L’opportunità di lasciare la cella per la ricreazione gli veniva lasciata per circa un paio d’ore prima di essere rinchiusi per la notte: durante questo lasso di tempo avevano accesso alla palestra e a un cortile esterno. Tutte le celle erano dotate di un letto singolo, una televisione, una piccola finestra, tende e un bagno. I detenuti avevano il controllo dello spegnimento delle luci, ma non della temperatura o del livello dei rumori.

In particolare, lo scopo del presente studio era quello di determinare l’efficacia di un intervento CBT-I in prigionieri maschi con insonnia acuta. Uno scopo secondario era di determinare se il trattamento riduceva anche i sintomi della depressione e dell’ansia. I risultati hanno evidenziato che i partecipanti hanno sperimentato una riduzione significativa dei sintomi legati all’insonnia (ISI) a distanza di un mese dall’intervento (il 73% dei prigionieri). Riduzioni significative sono state osservate anche per la sintomatologia ansiosa e depressiva. Gli effetti del cambiamento tra il pre e il post intervento sono risultati da moderati a forti, e la conformità (definita come il numero di notti, durante la prima settimana dall’inizio dell’intervento, in cui i partecipanti hanno rispettato il tempo prescritto per andare a letto o per uscire dal letto, con un margine di 15 minuti) è stata del 90%.

Mentre questi risultati sono in linea con la letteratura precedente sull’impatto di un intervento CBT-I one shot per l’insonnia acuta (Boullin et al., 2016; Ellis et al., 2015), essi suggeriscono anche che l’intervento può essere attuato con successo in un ambiente carcerario, con le dovute modifiche. Pertanto, questi risultati dovrebbero essere visti come un primo passo nella gestione dell’insonnia tra i carcerati al fine di ridurre o prevenire la violenza, i tentativi di suicidio e l’utilizzo dell’assistenza sanitaria.

CBT-I one shot, come dimostrano i risultati, è anche in grado di ridurre la sintomatologia ansiosa e depressiva dei partecipanti: ciò anche è importante ai fini preventivi del rischio suicidario in carcere. Gli studi futuri, tuttavia, dovrebbero esaminare l’efficacia del presente intervento sulla riduzione dei pensieri suicidari, intenzioni e azioni o tentativi di suicidio così come altri comportamenti a rischio (automutilazione e tagli, uso di sostanze). È interessante notare che a tutti coloro che hanno preso parte allo studio è stato chiesto quali fossero gli aspetti più benefici dell’intervento: la maggior parte dei commenti ruotava intorno al diario del sonno, che li ha aiutati a identificare i modelli comportamentali che influiscono sul loro sonno, e l’opuscolo, con una speciale enfasi sulle istruzioni per il controllo dello stimolo.

 

Ruminazione depressiva e fluttuazioni dell’umore: il ruolo dell’abitudine

Molte persone credono che la ruminazione serva a loro per concentrarsi maggiormente sui propri problemi, finendo per divenire, nella depressione, un’abitudine mentale. L’abitudine è un’associazione appresa ed inconsapevole, innescata da un trigger contestuale, piuttosto che da obiettivi e motivazioni individuali.

 

La ruminazione è uno stile di pensiero negativo caratteristico della depressione che implica il soffermarsi ripetutamente e passivamente sulle cause, significati e conseguenze dei propri sentimenti e del proprio disagio (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991); con effetti negativi sulla cognizione, alterazione nelle abilità di problem solving e umore disforico persistente (Nolen-Hoeksema et al., 2008).

Secondo la Teoria degli stili di risposta, le persone credono che la ruminazione serva a loro per concentrarsi maggiormente sui propri problemi, finendo per divenire nella depressione una tendenza stabile e duratura, che assume le caratteristiche di un’abitudine mentale (Nolen-Hoeksema et al., 2008). L’abitudine è un’associazione appresa ed inconsapevole, ovvero un comportamento frequente innescato da un trigger contestuale, piuttosto che da obiettivi e motivazioni individuali (Verplanken et al., 2007; Wood & Neal, 2007).

Secondo Watkins & Nolen-Hoeksema (2014), la ruminazione è un’abitudine mentale che si attiva in risposta all’umore negativo, ed emerge nel tentativo di fronteggiare le discrepanze tra stato desiderato e realtà. Sebbene questo stile di pensiero sia adattivo se consente il raggiungimento di obiettivi importanti, qualora questo non avvenga, la sua persistenza provoca un deterioramento dell’umore (Watkins & Nolen-Hoeksema, 2014).

Ammettere continui pensieri ruminativi, passivi ed astratti per fronteggiare le discrepanze tra reale ed ideale, accoppia temporalmente gli affetti negativi al pensiero ruminativo, rendendo quest’ultimo un’abitudine attivata dal contesto, ovvero dall’affetto negativo. Nel tempo, il pensiero ruminativo stesso predirà l’affetto negativo creando un circolo vizioso che alimenta i sintomi depressivi e l’inerzia emotiva (Moberly & Watkins, 2008).

Infatti, secondo la ricerca, gli individui con sintomi di depressione accentuati riportano sia alti livelli di inerzia emotiva che un forte accoppiamento temporale di affetto-ruminazione (Brose et al., 2015).

Rispetto ad altre forme di ruminazione più adattive e riflessive, la ruminazione mal adattiva si associa a maggiori caratteristiche di abitualità, ovvero l’essere ripetitiva e ancor più automatica (Ólafsson et al., 2019).

L’indagine di Hjartarson e collaboratori (2021), ha valutato su un campione con sintomi depressivi, se all’interazione dinamica tra affetti negativi e pensiero ruminativo nelle esperienze quotidiane, si legassero le caratteristiche di abitualità del pensiero negativo, ovvero ripetizione, mancanza di consapevolezza cosciente e intento deliberato, efficienza mentale, mancanza di controllo e autodescrittività).

Le esperienze sono state valutate quotidianamente, per 6 giorni, con l’EMA (Ecological Momentary Assessment); strumento che indagando un’abitudine ed i suoi aspetti inconsapevoli, valuta la fluttuazioni degli affetti e della ruminazione su brevi intervalli temporali (Neal & Wood, 2009).

Dallo studio è emerso che l’aumento dell’affetto negativo era prospetticamente associato a maggiori pensieri ruminativi nella successiva occasione di campionamento. Questa relazione, diveniva più forte all’aumentare delle caratteristiche di abitualità del pensiero ed era maggiore in concomitanza con una maggiore gravità dei sintomi depressivi.

Coerentemente con la letteratura precedente, un pensiero negativo con caratteristiche di abitualità innesca una maggiore ruminazione in risposta alle fluttuazioni dell’affetto negativo, (Moberly & Watkins, 2008) mantenendo stabilmente questo stile di pensiero, che diviene automatico e svincolato dalle intenzioni individuali (Watkins & Nolen-Hoeksema, 2014).

In aggiunta, le caratteristiche di abitualità del pensiero predicevano il grado in cui gli individui ruminavano abitualmente in risposta agli affetti negativi, e non solo i livelli di ruminazione momentanea.

Questi risultati suggeriscono che la vulnerabilità alla depressione può emergere sotto forma di abitudine alla ruminazione, innescata inconsciamente da fattori contestuali, svincolata dal controllo cosciente, da obiettivi ed intenzioni.

Esaminando il deterioramento del pensiero positivo come innesco della ruminazione momentanea, è emerso similmente al modello precedente, che le fluttuazioni quotidiane dell’affetto positivo forniscono da punto di partenza contestuale per il pensiero ruminativo.

Infine, sebbene sia emersa l’associazione tra affetto negativo e innesco di ruminazione con l’inerzia emotiva, ovvero un frequente trasferimento dell’umore da una situazione all’altra; le caratteristiche di abitualità del pensiero negativo non si associano a quest’ultima.

Mentre ruminare in risposta al deterioramento degli affetti positivi, non implica l’inerzia emotiva ma una ripresa dell’individuo più immediata; ruminare in risposta all’affetto negativo comporta il sentirsi “bloccati” in questo stato ed una maggiore variabilità nel tempo della ruminazione. Di conseguenza, una vasta gamma di situazioni finiranno per provocare l’insorgenza di questo tipo di pensiero disadattivo (Moberly & Watkins, 2008).

Questi risultati hanno una notevole rilevanza clinica, dando informazioni per una migliore concettualizzazione del caso e selezione del trattamento.

Interventi terapeutici esclusivamente rivolti a modificare le convinzioni e gli atteggiamenti individuali, possono non portare a cambiamenti nella ruminazione tra coloro con depressione (Watkins & Nolen-Hoeksema, 2014), come testimoniato da una più debole risposta al trattamento cognitivo-comportamentale (CBT; Jones et al., 2008).

La terapia dovrebbe intervenire nell’associazione contesto-risposta, ovvero tra affetto e ruminazione; senza esclusivamente rivolgersi ai contenuti dei pensieri ruminativi. Inoltre, grazie ad un intervento CBT incentrato sulla ruminazione (Watkins, 2016) e la modifica di bias cognitivi (CBM; Hertel et al., 2014), si fornirà al paziente una risposta più efficace di pensiero o comportamento, consentendo lo sviluppo di nuove associazioni contesto-risposta più adattive di fronte a situazioni emotivamente pesanti (Watkins & Nolen-Hoeksema, 2014).

 

Mal di… tempo! Esiste una relazione tra Meteoropatia e tratti di Personalità?

Se a chi sta leggendo è mai capitato di svegliarsi sentendosi demotivato, abbattuto, o svogliato a seguito della constatazione di un pessimo clima atmosferico, magari notando nuvoloni grigi fuori dalla finestra, comprenderà appieno cosa si intende per meteorosensibilità e meteoropatia.

 

Un gran numero di prove empiriche ha dimostrato la relazione tra i cambiamenti climatici e meteorologici e lo stato di salute. Primo fra tutti, Ippocrate ipotizzò che gli elementi, acqua, aria, terra e fuoco, potessero influenzare il nostro umore e le nostre vite, riflettendosi sulla salute generale (Rzeszutek et al., 2020). Tuttavia, è stato solo a cavallo tra il XX e il XXI secolo che alcuni ricercatori hanno iniziato a studiare sistematicamente una nuova sindrome composta da sintomi psicofisici negativi legati a fattori meteorologici, cioè la meteoropatia (Balsamo et al., 1992; Janiri et al., 2009; Mazza et al., 2012). Questo fenomeno consiste in “un gruppo di sintomi e reazioni patologiche in risposta a cambiamenti graduali o improvvisi dei fattori meteorologici in una specifica zona che interagiscono, presumibilmente, attraverso naturali influenze elettromagnetiche che coprono una vasta gamma di frequenze e ampiezze” (Janiri et al., 2009). Queste reazioni, che possono perdurare per alcuni giorni e che sono strettamente legate ai cambiamenti climatici, possono indurre sintomi depressivi, irritabilità, intorpidimento, problemi di sonno, dolori muscolari e un desiderio generale di rimanere in casa (Mazza et al., 2012). È importante specificare che tale sintomatologia si può verificare nel caso in cui l’individuo che ne è affetto è locato in una zona in cui il clima è cupo, avverso o tempestoso. La propensione ai suddetti sintomi deriva dalla meteorosensibilità, che consiste nella suscettibilità biologica del corpo e della mente ai cambiamenti atmosferici (Janiri et al., 2009).

Alcuni studi hanno osservato che i fattori demografici che contribuiscono particolarmente alle differenze individuali in tale dimensione sono l’età e il sesso. Infatti, secondo diverse sperimentazioni, ne sono colpiti in maniera maggiore le donne, gli individui di mezza età e gli anziani (Aspvik et al., 2018; Timmermans et al., 1885-1892; Connolly, 2013; Smedslund et al., 2014).  Non tutte le persone meteorosensibili sviluppano però le reazioni patologiche che compongono la meteoropatia, infatti, si può essere semplicemente sensibili a un clima uggioso senza presentare irritabilità o problemi di sonno. Ad ogni modo, fino a poco tempo fa il meccanismo responsabile della meteoropatia non era del tutto noto (Oniszczenko, 2020). Negli ultimi anni, per colmare questa lacuna, alcuni ricercatori hanno indagato le strutture cerebrali coinvolte in questo tipo di fenomeno, ed hanno scoperto che l’ipotalamo e il nucleo dell’amigdala, aree deputate alla regolazione emotiva, possono contribuire allo sviluppo della meteoropatia, il che significa che la suscettibilità psicofisica umana ai cambiamenti meteorologici che inducono stress può derivare delle differenze individuali nei meccanismi cerebrali responsabili alla regolazione emotiva. A conferma di ciò, va sottolineato che molti segni di meteoropatia riflettono alcuni sintomi di disturbi dell’umore (Mazza et al., 2012). In linea con questo argomento, nel 2020 alcuni ricercatori hanno ritenuto fondamentale indagare il ruolo della personalità come potenziale correlato della meteoropatia (Oniszczenko, 2020).

Gli obiettivi principali dello studio di Rzeszutek e colleghi erano di investigare i tratti di personalità dei partecipanti di diverse età e di esaminare se l’eterogeneità di questi tratti potesse spiegare possibili differenze individuali nell’intensità della meteoropatia. Il campione era composto da 758 partecipanti divisi, per l’appunto, in due gruppi di età distinte: 378 giovani adulti (18-30 anni) e 380 adulti anziani (60+ anni). I partecipanti hanno compilato il questionario METEO-Q, che indagava l’intensità della meteoropatia di ogni individuo, e il Ten Item Personality Inventory (TIPI), che metteva in luce le differenti caratteristiche di personalità individuando le dimensioni del Big Five: estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale (Mazza et al., 2012; Gosling et al., 2003; Goldberg, 1993). Un’analisi dei test completati ha mostrato vari profili di personalità che si differenziavano in base all’intensità della meteoropatia. L’effetto differenziante della personalità sulla meteoropatia è stato osservato solo nel gruppo dei giovani adulti, in cui i ricercatori hanno individuato tre profili di personalità:

  • soggetti con livelli medi di tutti e cinque i tratti di personalità (profilo 1),
  • soggetti con livelli molto alti di coscienziosità e livelli medi di altri tratti (profilo 2),
  • soggetti con nevroticismo, cioè bassa stabilità emotiva e livelli medi di altri tratti (profilo 3).

È interessante notare come gli scienziati abbiano trovato differenze significative tra questi profili sia nella meteorosensibilità che nella meteoropatia. I giovani adulti con profilo 3, aventi quindi una bassa stabilità emotiva, avevano dichiarato livelli di meteorosensibilità molto più alti di quelli degli altri due profili, così come livelli di meteoropatia molto più alti di quelli del profilo 1. In questa sperimentazione, sembra che tra i giovani solo un tratto di personalità sia risultato importante in relazione alla meteoropatia: il nevroticismo, caratterizzato da una forte variabilità dell’umore (Watson, 2000). I soggetti che presentano questa dimensione di personalità rispondono peggio a situazioni di stress, hanno più probabilità di interpretare gli eventi ordinari come minacciosi e le frustrazioni minori come estremamente difficili. Queste persone sono spesso impacciate e timide, e possono avere difficoltà nel controllo degli impulsi e nel ritardare la gratificazione.

Seppur la presenza di nevroticismo possa giocare un ruolo chiave nell’insorgenza della meteoropatia, i risultati della ricerca del team di Rzeszutek indicano che non esiste un unico profilo di personalità che si adatti a tutti gli individui per quanto riguarda la sensibilità ai cambiamenti meteorologici. In poche parole, è stato dimostrato che non esiste un unico tipo di persona che presenti specifiche caratteristiche correlate alla meteoropatia. Tale questione è particolarmente visibile quando si considerano le differenze di età, come nel campione dello studio appena descritto: il gruppo di adulti anziani, pur presentando meteoropatia e meteorosensibilità non corrispondeva a particolari profili più suscettibili a questi fenomeni. In conclusione, è possibile affermare che nonostante alcuni tratti della personalità potrebbero influenzare la sensibilità al meteo in giovani adulti, tale fenomeno è riconducibile ad altre variabili differenti in ciascun individuo.

 

Interventi Psicologici Per Promuovere Un’immagine Corporea Positiva

Che cos’è l’immagine corporea positiva? Cosa significa possedere un’immagine corporea negativa? Come possiamo prevenire e promuovere questi fenomeni? L’articolo riporta alcuni degli interventi che in letteratura si sono rivelati efficaci, sia con gli adolescenti che con i bambini e gli adulti.

 

Introduzione: che cos’è l’immagine corporea, positiva e negativa

L’insoddisfazione per la propria immagine corporea è un fenomeno particolarmente invasivo, che spesso risulta essere un possibile fattore di rischio, e in seguito di sviluppo, per un disturbo alimentare (Stice, 2002). Al giorno d’oggi, forse più che mai, una forte influenza la esercitano i social media, dove viene mostrato e trasmesso un modello di bellezza e di perfezione inarrivabile, e idealizzato, che porta le persone (di qualsiasi fascia d’età) a sviluppare delle aspettative per sé stesse irraggiungibili, provocando di conseguenza stress, emozioni negative, bassa autostima e forte vulnerabilità ai giudizi esterni. Tutto ciò può innescare dei meccanismi patologici che portano ad una forte autosvalutazione la quale, nei casi più gravi, può sfociare in un disturbo alimentare.

L’immagine corporea viene definita come la percezione personale di un soggetto del proprio aspetto fisico, comprendente anche le emozioni e gli atteggiamenti correlati; l’alto livello di discontento per l’immagine corporea, nelle donne così come negli uomini, risulta problematico in quanto ha un significativo impatto negativo sia per la salute fisica che per quella mentale: è infatti correlato sia con una bassa autostima sia con alti livelli di depressione e di ansia (Deveraj & Lewis, 2010).

Il modello di Cash (2008), riguardante l’immagine corporea, sostiene che la pressione socioculturale, le esperienze interpersonali, le caratteristiche e i cambiamenti fisici e i tratti disposizionali influenzano complessivamente lo sviluppo della percezione della propria immagine corporea.

Menzel e Levine (2011) concettualizzano l’immagine corporea positiva come un costrutto avente 3 componenti fondamentali: I) apprezzamento dell’aspetto e della funzionalità del corpo, II) consapevolezza ed attenzione per i bisogni del proprio corpo e III) l’abilità di elaborare pensieri relativi al proprio aspetto in maniera auto-protettiva. Un’immagine corporea positiva consiste nell’accettazione e nella connessione degli individui con il loro sé fisico. È ben distinta dall’immagine corporea negativa, in quanto è un costrutto che rappresenta molto più che bassi livelli di emozioni e cognizioni negative riguardanti il proprio corpo; è uno stato di benessere che va oltre all’assenza dell’insoddisfazione corporea (Gillen, 2015; Guest et al., 2019). Infatti l’immagine corporea positiva è associata al benessere psicosociale e fisico, e di conseguenza ad una maggiore autostima, una maggiore autocompassione e soddisfazione per la propria vita e una maggiore messa in atto di comportamenti salutari (Halliwell, 2015; Tylka & Wood-Barcalow, 2015). È stato dimostrato che l’apprezzamento per il proprio corpo e il proprio aspetto promuove un’alimentazione più sana e regolare e protegge maggiormente i soggetti dai pensieri e dagli effetti negativi provocati dagli ideali socio-culturali (Halliwell 2013).

Risulta evidente quindi che, per ottenere un effetto positivo su molti aspetti della salute e del benessere degli individui, è necessario promuovere un’immagine corporea positiva anziché limitarsi a ridurre quella negativa (Guest et al., 2019).

Gli interventi psicologici per promuovere un’immagine corporea positiva nei soggetti adolescenti e adulti

La maggior parte degli interventi psicologici finalizzati alla promozione di un’immagine corporea positiva verte principalmente su programmi educazionali e di miglioramento dell’autostima e della percezione che i soggetti hanno di se stessi.

Un esempio è il programma educativo “Evereybody’s different” (O’Dea, 2000), focalizzato sull’autostima e applicato con i ragazzi della scuola secondaria con un’età compresa tra gli 11 e i 14 anni. L’intervento prevede due gruppi, uno sperimentale e uno di controllo, e un follow-up di 12 mesi per verificare se i risultati ottenuti sono temporanei o rimangono tali nel tempo.

Questo programma, principalmente basato su lavori di gruppo e giochi, in modo tale da far sentire i ragazzi sicuri e non giudicati, lavora su aspetti come le relazioni sociali, la costruzione di un’immagine positiva di se stessi, la costruzione della propria autostima, le competenze comunicative, gli stereotipi della società e così via. All’inizio e alla fine dell’intervento sono stati somministrati vari questionari, come l’Eating Disorders Inventory, il Self-Perception Profile for Adolescents, il Depression Inventory, lo State-Trait Anxiety Inventory e altri questionari inerenti alle abitudini alimentari e all’immagine corporea (Ibid.)

Dallo studio è emerso che un programma interattivo come questo, lavorando sullo sviluppo di un’autostima degli adolescenti più solida, può migliorare la percezione del proprio corpo e i comportamenti alimentari, anche nei ragazzi considerati più a rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare. Il gruppo sottoposto all’intervento, a differenza del gruppo di controllo, ha registrato un miglioramento della propria body image e ciò ha evitato la messa in atto di diete dimagranti e perdite di peso verificatasi invece nell’altro gruppo. Il gruppo sperimentale inoltre, ha riportato un diminuito interesse per l’accettazione sociale e l’aspetto fisico, dimostrando come sia possibile agire sulla suscettibilità degli adolescenti alla pressione dei pari, ai confronti e agli stereotipi socioculturali.

Grazie poi al periodo di follow-up di 12 mesi, si è visto come questi risultati siano stati mantenuti nel tempo, a evidenza del fatto che, gli appartenenti al gruppo di controllo hanno sperimentato una perdita di peso a differenza del gruppo sperimentale, il quale ha riconfermato gran parte dei risultati ottenuti.

Un altro esempio è lo studio di Deveraj e Lewis (2010): il loro intervento prevede un programma di tipo cognitivo-comportamentale di 6 settimane, finalizzato a promuovere un’immagine corporea positiva nelle donne adulte. Il programma prevede l’inserimento di numerosi fattori con un importante ruolo nell’insoddisfazione per il proprio corpo e nello sviluppo di un disturbo alimentare, come lo stress, l’ansia, la depressione e i comportamenti disfunzionali per la perdita di peso.

Come nello studio precedente, anche in questo sono state fatte varie misurazioni attraverso i questionari adeguati a raccogliere informazioni riguardo le abitudini alimentari, l’autostima, la soddisfazione dei partecipanti per la propria salute, per la propria forma fisica e per la propria vita, e altri costrutti inerenti alla percezione del proprio corpo.

Una particolarità interessante di questo intervento riguarda l’inserimento di sessioni di mindfulness e rilassamento, messe in atto prima di ogni incontro in modo tale da ridurre la body image anxiety (Ibid.).

Gli argomenti utilizzati durante il programma riguardano: gli effetti causati da un’immagine corporea negativa, la relazione tra pensieri, emozioni ed eventi, le distorsioni cognitive legate all’immagine corporea, come allontanare i pensieri negativi riguardo al proprio aspetto e focalizzarsi sugli aspetti positivi attraverso una serie di affermazioni riguardanti se stessi, tecniche di autoregolazione emotiva e di miglioramento dell’autostima.

Rispetto ai punteggi iniziali, quelli registrati al termine dell’intervento hanno evidenziato come il programma sia stato efficace nell’aumentare la soddisfazione per il proprio corpo e l’autostima e, allo stesso tempo, nel ridurre il livello di stress ed emozioni negative sperimentate dai partecipanti. Di conseguenza è stato registrato anche un impatto positivo sul livello di soddisfazione dei soggetti per la propria vita.

Deveraj e Lewis (2010) sottolineano l’importanza di includere nei programmi di prevenzione i fattori considerati cruciali nello sviluppo dei disturbi alimentari e della body dissatisfaction: è necessario considerare l’ansia, lo stress, le emozioni negative e i comportamenti alimentari inadeguati.

Un altro tipo di intervento è stato condotto da McVey et al. (2010) con degli studenti universitari: prevedeva la messa in atto di un programma finalizzato alla promozione della soddisfazione per il proprio corpo e la riduzione dell’interiorizzazione dell’ideale perfezionistico trasmesso dai media.

Il programma è composto da due sessioni, nella prima sono previste discussioni in merito a: l’analisi critica delle forme del corpo “ideali” non realistiche proposte dai media e di come queste immagini siano correlate alla percezione di sé; il miglioramento dell’autostima e dell’immagine corporea; l’influenza della genetica sulla forma del corpo, l’accettazione e la consapevolezza delle differenze individuali nell’aspetto fisico. Sono previsti anche suggerimenti e strategie per condurre una vita alimentare e un’attività fisica sana e attiva imparando a riconoscere i segnali e le caratteristiche di un’alimentazione inadeguata e disordinata o di un possibile disturbo alimentare.

La seconda sessione invece è incentrata maggiormente sulla gestione dello stress. Come spiegato da Deveraj e Lewis (2010), le emozioni spiacevoli giocano un ruolo estremamente importante nella percezione e valutazione che un soggetto ha di se stesso. Per lo stesso motivo McVey e colleghi (2010) hanno ritenuto importante inserire una parte dedicata al miglioramento delle abilità sociali, delle strategie di coping, del processo decisionale e delle abilità comunicative ed assertive, per imparare a gestire ed attenuare le influenze negative, lo stress e la preoccupazione per l’immagine corporea. Agendo sulla capacità di un soggetto di non farsi influenzare dai feedback esterni, non facendo dipendere la propria autostima e il proprio valore dagli altri, si cerca di rendere l’individuo più consapevole del proprio valore.

Effettivamente la partecipazione al programma è stata associata ad un aumento della soddisfazione per la propria immagine corporea e ad una diminuzione dell’interiorizzazione del modello di bellezza idealizzato e trasmesso dai media, aiutando anche a ridurre i comportamenti alimentari disordinati o inadeguati laddove fossero presenti.

Gli interventi psicologici per promuovere un’immagine corporea positiva nei bambini

Gli interventi di prevenzione e promozione della soddisfazione per la propria immagine corporea non sono rivolti e pensati solamente agli adolescenti o agli adulti, anzi, diversi programmi sono stati appositamente creati e pensati per i bambini. Non bisogna pensare che la body dissatisfaction sia un fenomeno prettamente legato alla fanciullezza o all’età adulta, infatti è stata registrata una tendenza anche delle bambine di appena 6 anni a desiderare di essere più magre (Dohnt & Tiggemann, 2005). Risulta quindi utile implementare anche nelle scuole primarie degli interventi di prevenzione, quando le convinzioni e gli atteggiamenti verso il peso e la forma del corpo sono meno consolidati (Dohnt & Tiggemann, 2008). Chiaramente i programmi utilizzati con i bambini devono essere costruiti in modo diverso rispetto a quelli utilizzati con gli adolescenti o gli adulti: è necessario che venga utilizzato un linguaggio più adeguato e di facile comprensione, l’intervento deve svolgersi secondo una modalità più ludica e i materiali utilizzati, assieme alle varie misurazioni che vengono fatte pre e post intervento, devono essere calibrati correttamente tenendo in considerazione l’età dei soggetti (Ibid.).

Dohnt e Tiggemann (2008) hanno effettuato un intervento in una scuola primaria esclusivamente con bambine di età tra i 6 e i 7 anni, divise in un gruppo sperimentale e in uno di controllo; gli autori si sono serviti di due libri illustrati, uno chiamato Shapesville e uno Stop Elephant, Stop, entrambi pensati appositamente per i bambini.

Shapesville, somministrato al gruppo sperimentale, è un libro che celebra l’immagine corporea positiva attraverso concetti come l’auto-accettazione e l’accettazione della diversità, ed è progettato in modo tale da suggerire confronti, attività e discussioni inerenti all’autostima, all’idea che un corpo in linea con i canoni estetici della società non porti sicuramente alla felicità, all’attività fisica, all’educazione alimentare e alle immagini irrealistiche promosse dai media.

Stop Elephant, Stop è estremamente simile al libro precedente per la struttura e la forma, ma racconta una storia di un gruppo di animali, senza focalizzarsi sui temi trattati invece da Shapesville.

A seguito dell’intervento, è stato notato un effettivo ed immediato miglioramento del livello di soddisfazione per il proprio corpo ed aspetto nelle bambine appartenenti al gruppo sperimentale.

Nel complesso, Shapesville è stato efficace nel produrre miglioramenti, seppur a breve termine, negli atteggiamenti e nella conoscenza sull’immagine corporea e sugli argomenti correlati, come l’alimentazione, lo sport e i media, portando anche ad una diminuzione degli stereotipi riguardanti il peso. È stato notato anche un miglioramento nell’interiorizzazione dei modelli trasmessi dai media, inteso come una diminuzione del desiderio di assecondarli, sempre da parte delle bambine appartenenti al gruppo sperimentale (Ibid.)

Anche Halliwell e colleghi (2016) hanno utilizzato un intervento specifico per i bambini (sia maschi che femmine) chiamato Body Image in the Primary School, divenuto oramai un libro dall’omonimo titolo. L’intervento mira ad agire su una serie di fattori di rischio per lo sviluppo della body dissatisfaction, compresa l’influenza dei media e la pressione dei pari, attraverso il programma sopracitato che consiste in una serie di discussioni di classe, giochi, attività e giochi di ruolo. Anche in questo caso i bambini, di età compresa tra gli 8 e i 10 anni, sono stati divisi in due gruppi: uno di controllo e uno sperimentale. In questo programma i temi tratti riguardano la valorizzazione della diversità relativa all’immagina corporea, la valorizzazione del proprio aspetto, imparare a gestire i commenti negativi dei pari, imparare a sviluppare una resilienza ai media e ai messaggi trasmessi dall’ambiente socio-culturale.

Lo studio quindi aveva come obiettivo valutare se queste lezioni fossero efficaci per migliorare e promuovere un’immagine corporea positiva nella scuola primaria. Effettivamente, come previsto, il programma è associato, nelle ragazze appartenenti al gruppo sperimentale, ad una maggiore autostima e percezione della propria immagine corporea, sia dopo l’intervento che durante il follow-up successivo. Tuttavia, i risultati ottenuti riguardano solamente le ragazze, mentre per i ragazzi in questo caso non sono stati trovati risultati significativi (Ibid.).

Conclusioni: una riflessione personale

Alla luce degli studi e dei programmi esposti precedentemente, sono due gli elementi che risultano comuni e piuttosto rilevanti. Innanzitutto, è fondamentale evidenziare come gli interventi psicologici finalizzati alla promozione di un’immagine corporea positiva debbano essere rivolti a tutte le fasce d’età e a entrambi i sessi: in età infantile questa tipologia di interventi ha una forte valenza preventiva proprio perché i comportamenti e gli atteggiamenti dei bambini non sono ancora consolidati (Dohnt & Tiggemann, 2008); hanno lo stesso valore anche in età adolescenziale ed adulta, ma risultano efficaci anche come interventi di promozione e miglioramenti laddove sia presente una body image negativa. Inoltre, per troppo tempo si è pensato che i disturbi alimentari e l’insoddisfazione per l’immagine corporea fosse principalmente un problema legato al genere femminile, in realtà è importante considerare in questa tipologia di problematiche anche il genere maschile, perché come si è visto a volte gli interventi non sono efficaci allo stesso modo per entrambi i sessi.

Dopodiché è importante evidenziare come tutti gli interventi descritti vertono su due aspetti principali: l’autostima e l’”alfabetizzazione” ai media. Una buona autostima preserva il soggetto dagli attacchi esterni, dai pregiudizi e dai messaggi che vengono quotidianamente veicolati dalla società, così come imparare a valutare ciò che viene presentato dai media e comprendere come i modelli di bellezza attuali siano irrealistici e irraggiungibili, permette agli individui di non idealizzare e non creare aspettative impossibili che causano l’insorgenza di emozioni spiacevoli e stress, maturando una consapevolezza che porta ad un’auto-valorizzazione e non ad un’auto-svalutazione.

 

Un anno senza sport: i giovani e il lockdown

NDR – Il presente contributo è stato scritto prima degli ultimi DPCM

A circa un anno di distanza dall’inizio della pandemia e dopo mesi di false partenze, blocchi totali e parziali, il mondo dello sport si prepara alla ripartenza.

 

Ma perché, al di là delle conseguenze economiche, è importante riprendere le attività sportive? Quali sono le implicazioni psicologiche e fisiche dell’assenza di sport, soprattutto nel settore giovanile?

Da tempo ormai gli esperti raccomandano di supportare la crescita dei propri figli con la pratica motoria, in quanto i benefici a livello fisico, psicologico e sociale sono fondamentali per un sano sviluppo. Fin dai primi anni di vita, infatti, è possibile iscrivere i bambini a corsi propedeutici che aiutano anche i più piccoli a coltivare una cultura sportiva. Se però nel caso dei giovanissimi i maggiori benefici si hanno a livello dello sviluppo psicomotorio, in adolescenza entrano in campo, con maggiore importanza, anche altri fattori quali la socialità e il benessere psicologico.

Ma procediamo con ordine. Quali sono i principali fattori di rischio per la salute dal punto di vista fisico quando l’attività motoria è scarsa o addirittura totalmente assente? Come raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, praticare regolarmente un’attività fisica moderata per 150 minuti a settimana (che nel caso degli adolescenti sale a 60 minuti al giorno per un’attività vigorosa) aiuta a prevenire patologie come l’obesità, il diabete e le malattie cardiache. Ancora oggi, però, l’insufficienza di attività fisica è al quarto posto tra i fattori di rischio di mortalità a livello mondiale e in Italia più dell’80% degli adolescenti conduce una vita sedentaria in cui l’attività fisica è insufficiente. Questi dati risalgono a indagini precedenti quest’ultimo anno, quindi si può ben immaginare che a causa della chiusura delle scuole e delle strutture sportive i numeri siano ulteriormente aumentati.

Inoltre bisogna considerare il ruolo fondamentale che lo sport svolge come valvola di sfogo per molti ragazzi e ragazze che in adolescenza si trovano ad affrontare periodi di crescita critici. L’attività motoria è un ottimo antistress, un valido alleato nella gestione dell’ansia e si è rivelato estremamente efficace anche nel contrastare l’insorgere della depressione. Questo spiegherebbe perché nell’ultimo periodo diversi genitori hanno visto i loro figli più nervosi e irrequieti. In altri casi è possibile che i ragazzi abbiano manifestato un generale senso di stanchezza e siano sembrati particolarmente apatici, privi della loro naturale energia. A proposito di ciò, alcuni studi hanno dimostrato che praticare sport stimola il cervello a produrre sostanze utili a migliorare l’umore, la memoria e l’apprendimento. Tuttavia questi sono effetti solo temporanei che tendono a regredire con l’interruzione dell’attività.

Un ulteriore aspetto che è importante valutare quando si parla di attività sportiva in età giovanile è la dimensione sociale. Non dimentichiamo che in adolescenza si va definendo l’identità della persona, un compito importante in questa fase di vita. Ma cosa significa e come avviene la costruzione dell’identità? Senza dubbio la famiglia gioca un ruolo fondamentale durante l’infanzia, ma quando inizia l’età adolescenziale il ragazzo ha bisogno di confrontarsi con il gruppo dei pari e con adulti differenti rispetto ai propri genitori. La scuola è il primo luogo sociale che i giovani hanno a disposizione per sperimentarsi, ma spesso non è sufficiente. Pensiamo a quei ragazzi che si trovano esclusi dagli interessi del gruppo classe o che hanno difficoltà con il rispetto dell’autorità dei professori. Spesso proprio questi ragazzi trovano nello sport una dimensione più adatta a loro, in cui riescono ad esprimersi e a mettersi alla prova con migliori risultati. Lo sport, infatti, è un’ottima palestra di vita: aiuta i giovani ad assimilare l’importanza delle regole, a rispettare i pari anche nel confronto agonistico, a sperimentare i propri limiti e a scoprire i propri punti di forza sia fisici che mentali (Ciairano, 2008).

In generale quindi si può affermare che lo sport migliora il benessere e la qualità di vita in età giovanile in quanto:

  • previene lo sviluppo di patologie fisiche
  • aiuta una migliore gestione delle emozioni
  • stimola il sistema nervoso
  • incentiva la crescita dell’autostima e del senso di autoefficacia.

Tutti questi benefici sono fondamentali per un sano sviluppo psicofisico e la prolungata mancanza dell’attività motoria e sportiva rischia di incentivare l’insorgere di stili di vita inadeguati. Solo fra qualche tempo sarà valutabile l’impatto che le nuove routine avranno sulla vita dei giovani. Ciò che è certo è che le buone abitudini vanno salvaguardate cercando, laddove necessario, nuove strategie per continuare a prenderci cura della salute mentale e fisica dei ragazzi.

 

La forza della resilienza (2019) di Rick Hanson e Forrest Hanson – Recensione

Attraverso un approccio passo-passo semplice ed accessibile a tutti, il dottor Hanson, spiega nel libro La forza della resilienza come sviluppare le risorse psicologiche fondamentali per favorire la resilienza, cioè quella capacità che ci rende capaci di affrontare le avversità e superare gli ostacoli, favorendo un senso di profonda felicità.

 

La resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva ad eventi traumatici o a momenti di difficoltà, e di ricostruirsi senza alienare la propria identità. Ma non solo, essa favorisce l’appagamento, un senso profondo di felicità e pace, e crea con esso un circolo virtuoso che si autoalimenta in modo che si rafforzino a vicenda.

L’autore sostiene che la resilienza possa essere raggiunta esercitando un maggiore controllo e potenziando le risorse mentali che ognuno di noi possiede e che incidono in maniera unica sulla nostra vita. Queste si sviluppano in due fasi: in primo luogo attraverso la sperimentazione in modo diretto di ciò che vogliamo coltivare, in secondo luogo convertendo quell’esperienza transitoria in un cambiamento definitivo. Per fare in modo che le esperienze si radichino, infatti, non basta avere accesso a quelle utili e gratificanti: dato che il nostro cervello si riplasma di continuo in funzione delle esperienze e apprende attraverso la ripetizione, è necessario un esercizio costante.

Ogni capitolo del libro è dedicato ad una forza interiore e a come potenziarla, l’autore ne individua dodici che sono: la compassione, la mindfulness, l’apprendimento, la grinta, la gratitudine, la sicurezza, la calma, la motivazione, l’intimità, il coraggio, le aspirazioni e la generosità.

Queste risorse psicologiche possono essere sviluppate passo dopo passo iniziando dalla compassione, essa deve essere rivolta in primo luogo verso se stessi perchè è essenziale riconoscere i propri bisogni profondi e la volontà di soddisfarli. Le ricerche dimostrano che è al contempo sia un’emozione che uno stimolo ad agire, infatti quando proviamo compassione nel cervello si attivano le aree che sono preposte alla pianificazione.

L’ultima risorsa affrontata nel libro è la generosità, perchè è solamente coltivando il bene dentro di noi che ne avremo di più da dare agli altri. Se le esigenze restano insoddisfatte, è naturale sentirsi stressati, preoccupati, frustrati e vivere in modo meno gratificante; una volta arricchita la scorta di risorse, si potrà contribuire a quella degli altri.

Questo libro riassume le conoscenze psicologiche, neurologiche e di mindfulness grazie alle quali l’autore aiuta le persone a gestire il passato, affrontare il presente e costruirsi un futuro migliore, coltivando e mettendo a frutto le risorse interiori, adattandole alle esigenze personali. A mano a mano che si potenziano questi punti di forza, si acquisisce resilienza che si traduce con minore ansia, irritabilità, frustrazione, tristezza e rancore nella vita quotidiana, imparando inoltre ad affrontare gli ostacoli della vita con pace, tranquillità e amore radicati nel profondo.

Chi coccola la mamma? – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Quando una donna diventa madre, il suo Super-Io prende spazio, colmo di regole interne che rischiano di distruggere l’umanità della persona che c’è dietro. Tutti pensano a chi coccola il bambino, ma qualcuno ha mai pensato a quanto è importante coccolare la mamma prima ancora del figlio?

Moms – (Nr.12) Moms – Chi coccola la mamma?

 

 Chi ha visto Wonderwoman? Avete presente la supereroina mora e alta capace di fare tutto da sola? Sembra che alcune donne e soprattutto alcune mamme si debbano confrontare ogni giorno con questo tipo di modello.

La mamma in alcuni contesti sembra dover essere quella che non si ammala mai quando il figlio è piccolo, quella che riesce a fare qualsiasi cosa, quella che non si stanca mai, quella a cui tutti chiedono consiglio perché lei sa tutto, ma che al contempo accetta ogni critica che le viene posta, e soprattutto quella che non può permettersi di esprimere le emozioni davanti agli altri, forse nemmeno davanti a se stessa. Se fosse così sarebbe molto appagante per il lato narcisistico di ogni madre, la renderebbe talmente piena di gratificazione da risultare inumana.

È utile rendersi inumane e per chi? Quali sono gli effetti collaterali di questa scelta?

A lungo il maschile e il femminile in alcune culture e in alcune famiglie hanno avuto delle caratteristiche predefinite che davano l’accezione di “anormale” a chi non vi si conformasse. Ancora oggi in alcuni contesti la possibilità di scelta è davvero limitata e pardossalmente rende la donna ancora più “inumana” di quanto si pretendesse che lo fosse precedentemente.

Ora infatti da una madre ci si aspetta ancora di più dei tempi andati, perché deve anche lavorare non riuscendo sempre a fare quello che ama. Pur se esposta ad un numero maggiore di esperienze conturbanti, il suo Super-Io, spesso sostenuto dal contesto di provenienza e dal nuovo che tende a ricercare per similitudine come conferma, tende ad imprigonarla nella scia dei pensieri rigidi che persistono nonostante i mutamenti temporali.

Soffocata dalle aspettative in parte introiettate in parte frutto di convizioni personali non riconosciute come tali, la mamma si trova a dover scegliere tra se stessa e un ruolo che sente di dover ricoprire. Così come la Regina Elisabetta II in The Crown, piano piano rischia di scegliere il percorso che la condurrà a negare e rifiutare la parte più autentica e umana di sé, verso la via della disumanizzazione. In questo tragitto non vi è solo la possibilità di perdere se stesse, ma anche le relazioni intessute, tra cui quella con il partner e quella con i figli.

Tra le innumerevoli altre strade possibili da seguire, ve n’è una in particolare che può permettere ad una madre di restare umana e di salvare se stessa e le relazioni a cui tiene: la via delle coccole. Una coccola è un abbraccio, un bacio, una carezza, ma anche la possibilità di appoggiarsi a qualcuno, di sentire di non essere soli nel lungo viaggio della vita.

 Al termine del decimo episodio della serie tv Workin’ Moms alcune delle protagoniste, dopo una giornata in cui si sono sentite provate, arrivano a casa e scelgono di abbandonarsi al fianco del partner. Allo stesso modo, una donna può scegliere di coccolarsi, dando meno spazio alla propria parte narcisistica e non aderendo alle imposizioni rigide del Super-Io, ascoltando così il suo stomaco e le emozioni raccolte in esso.

Lasciando spazio al partner nelle mansioni da svolgere e permettendosi di essere un po’ coccolata da lui o da lei, dai figli e soprattutto da sé, la mamma torna in contatto con la donna dentro di lei e piano piano, anche con la propria umanità, caratteristica essenziale che le permette di essere amata e di apprezzarsi così com’è: meravigliosamente imperfetta.

E quanto è bello abbandonarsi ad un bacio o ad un abbraccio di un figlio e perdersi nella sua morbidezza, senza fare nient’altro?

 

Storia dell’ipnosi: Armand-Marie-Jacques de Chastenet

Prosegue con Armand-Marie-Jacques de Chastenet la nostra rassegna incentrata sui protagonisti della storia dell’ipnosi.

 

La dott.ssa Nicoletta Gava, direttrice del Centro Ipnosi che porta il suo nome, racconta di come il Marchese di Puységur abbia contribuito a descrivere alcuni fenomeni ipnotici classici. Fu infatti lui a coniare il termine “trance sonnambulica” che avrebbe poi ispirato James Braid a definire questo speciale stato di coscienza “ipnosi”, dal greco “hypnos”: sonno.

Se con Mesmer era il carisma del magnetizzatore ad essere al centro dell’intervento, de Chastenet riconoscerà il ruolo principale al paziente stesso. Nella sua concezione, infatti, il magnetizzatore era uno strumento che avrebbe permesso ai processi di guarigione intrinseci alla persona di attivarsi e di migliorarne così i livelli di benessere. Si tratta di un concetto che verrà sviluppato nelle epoche successive e che entrerà a fare parte della idea di inconscio dello stesso Milton H. Erickson.

Aristocratico e Generale d’Artiglieria, fonderà la prima scuola dedicata allo studio dei fenomeni ipnotici ed alla formazione di nuovi magnetizzatori. Conserverà vivo il ricordo di Franz Anton Mesmer e si descriverà sempre come un suo allievo anche all’apice della popolarità. Riceveva pazienti da ogni parte della Francia ed il suo nome divenne rapidamente il riferimento culturale della disciplina. Vivrà la sua vita attraverso un periodo turbolento della storia Francese, farà due anni di prigionia e verrà liberato dopo l’ascesa di Napoleone Bonaparte. Morirà nel 1825 a Reims lasciando ai suoi allievi una ricca eredità di tecniche, innovazioni teoriche e metodologiche.

Il suo pensiero sarà un elemento fondatore dello sviluppo dell’ipnosi ottocentesca e farà da base per il lavoro di grandi rappresentanti come James Braid, Ambroise-Auguste Liébeault ed altri autori centrali nel processo di modernizzazione del magnetismo animale. Da questa epoca in poi, infatti, chi si occuperà di ipnosi lo farà sempre confrontandosi con gli aspetti scientifici ed empirici del fenomeno.

 

STORIA DELL’IPNOSI: ARMAND-MARIE-JACQUES DE CHASTENET – GUARDA IL VIDEO:

 

In memoria di Roberto Lorenzini

Gli incontri, nel bene o nel male segnano la storia personale di ognuno.

Quanto può essere preziosa la presenza di un amico fraterno, saggio, geniale, con un’intelligenza capace di cogliere sottili sfumature dell’animo umano, di farti sentire ascoltato, capito, riconosciuto. E’ una benedizione del cielo gratuita e forse immeritata avere al fianco una persona generosa, pronta a rimboccarsi le maniche al bisogno per esserti vicino nei momenti difficili, quando il cielo si fa buio e pensi che nessuno e niente potrà evitare che il temporale ti trovi allo scoperto, senza riparo, pronta a confortarti e a supportarti nell’affrontare le difficili contingenze, e con ironia a invitarti a non prenderti troppo sul serio e a non prendere troppo sul serio anche le avversità.

Non perché ci si debba rassegnare ma perché forse accettare e lasciare accadere ciò che accade è ciò che di meglio si possa fare. Senza, però, rinunciare a un impegno responsabile nel perseguire le cose importanti, come può fare chi ha la consapevolezza che si può anche fallire. Sì, fallire, perché i limiti vanno considerati, l’umiltà dev’essere compagna di viaggio, la curiosità favorire la conoscenza e l’aumento della capacità predittiva tanto a te cara.

In fondo quel senso d’inadeguatezza, quel luogo mentale intollerabile del disamore non si può cancellare, è cresciuto con te, ti appartiene e ciò che puoi fare è solo gestirlo nel migliore dei modi, quando ci riesci.

Tanto, in quei momenti in cui il mondo è triste e scende un’ombra scura che ti avvolge, puoi rifugiarti nella compagnia di un amico che condivide, è sintonizzato perché in fondo c’è un sentire comune, una narrazione sovrapposta, un affetto reciproco che placa l’inquietudine. E quante volte insieme abbiamo guardato senza indugio gli interstizi polverosi delle nostre anime, i punti oscuri e contorti dentro di noi con amorevole gentilezza e compassione, riconoscendo quella parte meno brillante, scintillante che vogliamo tutti nascondere. Consapevoli che la perfezione non ci assomiglia neanche un poco, abbiamo cercato di fare onestamente i conti con i nostri debiti, tentando sempre di rimetterli senza giudizio ai nostri debitori.

Il tuo atteggiamento comprensivo, non giudicante che ti portava a riconoscere le ragioni dell’altro e a chiedere scusa anche quando non ce n’era motivo, ti faceva sentire vicino agli altri, unito a loro.

Hai sempre amato la conoscenza ed evitato il potere che per te significava responsabilità verso gli altri, un onere maggiore nel servire e lo hai subito in tutta la sua gravosità e insopportabilità da restarne schiacciato.

Poi c’era il tempo del ritiro, dell’isolamento, dei confini marcati per rannicchiarti in posizione fetale con le tue letture, i tuoi affetti più importanti, le tue confortevoli e piacevoli abitudini.

Quanto tempo passato a discutere, riflettere, studiare tematiche sulle quali io salivo sulle tue spalle e raramente riuscivo a dare qualche spunto interessante che tu eri pronto a valorizzare oltre modo. Il piacere di confrontarsi con un’intelligenza capace di cogliere facilmente e tempestivamente gli aspetti salienti di qualsiasi questione, con una persona generosa, disponibile a offrirsi e a dare gratuitamente.

Roberto ti sarò sempre grato per aver attraversato la mia vita. Sei qui presente e resterai con me, con noi per sempre.

Quando le relazioni di coppia possono creare sofferenza emotiva – VIDEO dal webinar organizzato da CIP Modena

Il webinar organizzato da CIP Modena si propone come un momento di riflessione sulla coppia, sulle emozioni e su come questi due aspetti si intersecano nel funzionamento relazionale. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

Non sempre le relazioni interpersonali vengono vissute in modo funzionale e sano per la coppia. Talvolta si creano delle dinamiche complesse che, a lungo andare, possono generare una forte sofferenza emotiva e portare al progressivo deterioramento del rapporto. Perché in alcune relazioni ci sentiamo soffocare? Perché con certe persone non riusciamo a reagire? Che cosa non ci permette di uscire dai soliti schemi disfunzionali?

Durante l’incontro si è parlato di coppia e di emozioni e di come questi due aspetti si intersecano nel funzionamento relazionale. Il webinar è stato condotto dalla Dr.ssa Arianna Ferretti, Psicologa – Psicoterapeuta. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro:

QUANDO LE RELAZIONI DI COPPIA POSSONO CREARE SOFFERENZA EMOTIVA
Guarda il video del webinar:

 

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Gli individui altamente sensibili: chi sono e cosa li caratterizza

L’elevata sensibilità riguarda una più ampia e approfondita elaborazione del contesto che l’individuo compie in preparazione alla risposta e si configura, quindi, come un diverso modo di percepire, analizzare e reagire agli stimoli ambientali.

Silvia Peruzza – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Elaine Aron, psicologa e ricercatrice americana, è stata una delle prime studiose ad approfondire il tema delle persone altamente sensibili. Le sue ricerche sono iniziate nei primi anni ‘90 e sono poi proseguite negli ultimi decenni, anche grazie ai contributi di altri autori.

L’elevata sensibilità è un tratto che si trova nel 20% della popolazione ed è stato rilevato non solo nella specie umana ma anche in moltissime specie animali (studi di Suomi sulle scimmie Rhesus, Suomi, 1997). Nel tempo, a questo tratto sono stati associati diversi nomi o perifrasi come “bassa soglia sensoriale”, “differente reattività agli stimoli”, “reattività psicobiologica”, “ sensibilità biologica al contesto”.

Tutti questi termini e descrizioni si riferiscono alla presenza di una caratteristica innata che può portare a dei vantaggi o svantaggi, a seconda delle esperienze e dell’ambiente in cui l’individuo si sviluppa. In particolare, l’elevata sensibilità riguarda una più ampia e approfondita elaborazione del contesto che l’individuo compie in preparazione alla risposta e si configura, quindi, come un diverso modo di percepire, analizzare e reagire agli stimoli ambientali.

La sensibilità all’ambiente

Tutte le specie viventi per soddisfare i bisogni primari e sopravvivere devono contare sulle risorse disponibili nell’ambiente in cui vivono; ogni organismo è perciò “programmato” per percepire, elaborare, reagire e adattarsi agli stimoli ambientali, siano essi positivi o negativi. La ricerca ha individuato però delle differenze individuali nelle modalità di risposta, in termini di maggiore o minore sensibilità e reattività agli elementi dell’ambiente. Negli ultimi 20 anni tale ambito di ricerca è stato approfondito e la maggiore sensibilità agli stimoli ambientali è stata chiamata dagli studiosi Sensory Processing Sensitivity (SPS, Aron & Aron, 1997). Gli individui che la manifestano vengono descritti come “Highly Sensitive”, un termine che non ha ancora un corrispettivo nella lingua italiana ma che potremmo tradurre con “individui altamente sensibili”.

La SPS rientra all’interno della cosiddetta “Enviromental Sensitivity Theory” che al suo interno contiene altre teorie che spiegano le differenze individuali nell’elaborazione degli stimoli ambientali. Rispetto a queste ultime, però, la Sensory Processing Sensitivity propone la presenza di un tratto fenotipico caratterizzato da maggiore profondità di elaborazione, maggiore reattività emotiva ed empatia, maggiore consapevolezza dei cambiamenti nel contesto e maggiore vulnerabilità alla sovrastimolazione.

Questo tratto è stato riscontrato in una percentuale compresa tra il 15 e il 20% della popolazione in diverse specie viventi, da quelle più semplici a quelle più evolute con ovvie differenze nella sua espressione comportamentale e genetica e rappresenterebbe la manifestazione di una delle due strategie di sopravvivenza studiate da lungo tempo dai biologi.

Le strategie di sopravvivenza e di comportamento di fronte al pericolo e allo stress sono solitamente di due tipi: la strategia dei falchi e la strategia delle colombe. I “falchi” reagiscono ad una situazione con impulsività, adottando una modalità di attacco/fuga per affrontare il pericolo. Le “colombe”, invece, preferiscono minimizzare i rischi osservando attentamente l’ambiente prima di intervenire. Ovviamente, le diverse strategie possono essere sia vantaggiose che svantaggiose, in relazione al tipo di ambiente e di situazione in cui l’individuo si viene a trovare. La SPS è stata associata alla strategia delle “colombe”, poiché questi individui risponderebbero agli indizi ambientali analizzandoli attentamente ed associandoli a quelli presenti in occasioni già affrontate. Quindi, necessiterebbero di più tempo per osservare la situazione: la loro reazione sarà perciò meno rapida di quella dei “falchi”, soprattutto in situazioni nuove (Korte et al., 2005).

Gli studi di Aron e collaboratori e le ricerche neuroscientifiche

Elaine Aron e il marito Arthur iniziarono a condurre diversi studi scientifici per validare una serie di osservazioni qualitative che avevano riscontrato in alcuni pazienti durante la loro pratica clinica.

I primi 7 studi, svolti analizzando i risultati provenienti da campioni di soggetti diversi sia in termini di dimensione che di caratteristiche, dimostrarono che l’elevata sensibilità è una variabile unidimensionale che presenta una distribuzione bimodale; è quindi presente o assente.

Inoltre, non vi sono differenze di genere: ci sono tante femmine quanti maschi altamente sensibili e l’espressione di questo tratto è influenzata dalla cultura di appartenenza.

La SPS non coincide con altri costrutti già conosciuti, come il nevroticismo, la timidezza o l’introversione, con i quali, in precedenza, era spesso stata confusa. In effetti, nevroticismo, timidezza e introversione risultano legati ad una maggiore reattività agli stimoli ambientali ma diversi studi hanno confermato che la sensibilità costituisce un tratto distinto. Il nevroticismo è la tendenza a provare emozioni negative, mentre l’elevata sensibilità si riferisce ad  una maggiore reattività emotiva (sia positiva che negativa); la timidezza rappresenta una risposta che l’individuo mette in atto quando teme di essere giudicato dall’altro ed è quindi uno stato temporaneo, mentre l’elevata sensibilità è un tratto permanente. Infine, l’introversione non coincide con l’elevata sensibilità poiché è stato trovato che una minoranza di individui altamente sensibili è estroversa (30%); la SPS è un tratto innato, mentre l’introversione risulta da molteplici cause e solo una di essere potrebbe essere costituita dalla SPS.

Un altro importante risultato ottenuto da questi primi studi è che nei campioni analizzati, sono emersi due sottogruppi di soggetti altamente sensibili: un sottogruppo era composto da individui che avevano vissuto un’infanzia infelice e che presentavano un maggior rischio di psicopatologia (depressione, ansia); un altro sottogruppo, invece, era composto da individui che avevano vissuto un’infanzia spensierata e che, a livello di distress psicologico, non presentavano nessuna differenza con gli individui non sensibili. Sembra quindi che gli individui con SPS reagiscano maggiormente a qualsiasi tipo di esperienza e il grado di quest’ultima (positivo o negativo) produca i suoi effetti a livello psicologico (vantaggiosi o svantaggiosi) in misura maggiore rispetto agli individui non SPS: questo tratto, quindi, interagisce con le esperienze negative aumentando il rischio di psicopatologia e, allo stesso modo, in interazione con le esperienze positive, ne incrementa gli effetti benefici.

La ricerca di Aron è proseguita fino ad arrivare all’elaborazione di un questionario self-report chiamato HSP Scale per misurare la SPS. Quest’ultimo è composto da 27 item che descrivono diverse modalità di risposta a stimoli cognitivi ed emotivi (sia positivi che negativi). Tale strumento di misurazione è risultato essere attendibile, con una buona validità interna ed esterna.

Negli ultimi anni, è stata approfondita la SPS anche con studi di neuroscienze e ne sono state confermate le basi biologiche (per una rassegna completa: review di Aron et al., 2012). Nel 2010, Acevedo e collaboratori (Acevedo et al., 2010) hanno svolto degli esperimenti utilizzando la risonanza magnetica funzionale e i punteggi alla HSP Scale di alcuni individui. Veniva analizzato il pattern di attivazione di alcune aree cerebrali mentre i soggetti guardavano delle immagini di volti (tristi, felici o neutri). Gli autori hanno trovato una correlazione tra i punteggi alla HSP Scale e l’attivazione in aree cerebrali solitamente coinvolte nell’empatia e nella consapevolezza, cioè la corteccia ventro-mediale e l’insula. L’insula, in particolare, gioca un importante ruolo non solo per la consapevolezza enterocettiva (percezione della temperatura, del battito cardiaco, ecc…) ma soprattutto per la sensibilità agli stimoli interni ed esterni e, una sua maggiore attivazione in una percentuale della popolazione, sembrerebbe confermare la SPS.

Nel 2011 è stato pubblicato un altro studio (Jagiellowicz et al., 2011) che ha verificato, attraverso la risonanza magnetica funzionale, la presenza di significative differenze nell’attivazione di alcune aree cerebrali in un gruppo di pazienti sensibili e non (individuati tramite il punteggio alla HSP Scale). Ai pazienti veniva chiesto di individuare delle differenze (più marcate o più sottili) tra un’immagine e un’altra. I soggetti sensibili hanno mostrato un’attivazione significativamente maggiore rispetto ai soggetti non sensibili nelle regioni coinvolte nella percezione visiva, soprattutto quando era richiesto di individuare differenze molto sottili. Secondo gli autori, questo risultato conferma la presenza di una spiccata capacità nei soggetti altamente sensibili nell’elaborazione degli stimoli, indice di processi sensoriali più profondi e dettagliati.

In sintesi, la ricerca sembra concorde nell’affermare che il cervello di un individuo altamente sensibile sia caratterizzato da una maggiore attivazione delle aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione approfondita degli stimoli (corteccia prefrontale, giro frontale inferiore) e nell’empatia e nell’emotività (insula, amigdala, corteccia cingolata).

Caratteristiche tipiche degli individui altamente sensibili

L’elevata sensibilità è un tratto che influenza la percezione degli stimoli e il modo di rispondere ad essi, non solo in situazioni specifiche ma in tutte le condizioni e i contesti in cui l’individuo si trova ad agire. Per capire meglio le caratteristiche che derivano da questa approfondita capacità di elaborazione, nel suo libro Psychotherapy and the highly sensitive person Elaine Aron (Aron E., 2010) le riassume in un elenco:

  • le persone altamente sensibili generalmente preferiscono esaminare una situazione osservandola piuttosto che esplorandola direttamente, riflettere e ponderare prima di agire o addentrarsi in un nuovo contesto. Agiscono in modo coscienzioso e riflessivo;
  • le persone altamente sensibili sono molto attente ai piccoli cambiamenti e ai dettagli nel contesto in cui si trovano. Inoltre, proprio per questo, riescono a cogliere e interpretare gli aspetti non verbali della comunicazione e a comprendere più facilmente le emozioni degli altri, dimostrando autentiche capacità empatiche;
  • nel prendere decisioni, le persone altamente sensibili sentono il bisogno di prendere in considerazione tutti gli aspetti delle possibili scelte. Per questo motivo, sono più lente nei processi decisionali ma estremamente accurate e consapevoli di tutti i rischi e i benefici;
  • le persone altamente sensibili presentano spesso un autentico interesse verso ambiti come le ingiustizie sociali, il benessere degli animali e le tematiche ambientali e presentano spesso spiccate doti artistiche o musicali. Sono dotate di ottimo intuito;
  • le persone altamente sensibili sono più facilmente sovrastimolate e, di conseguenza, sovraccaricate nelle situazioni maggiormente attivanti come esami, discorsi in pubblico, conversazioni con persone sconosciute, luoghi sovraffollati;
  • le persone altamente sensibili riferiscono di provare una più elevata attivazione emotiva in risposta a degli eventi emotigeni che però non causano altrettanta emotività in altri individui (ad esempio, dopo uno stesso episodio, una persona non SPS potrebbe riportare di essere triste, mentre una persona SPS potrebbe riportare di esserne devastata, sconvolta). Inoltre, le persone altamente sensibili riportano maggiore stress dovuto in generale a novità e cambiamenti, anche positivi;
  • questi individui possiedono maggiore sensibilità anche a livello fisico: un sistema immunitario più reattivo, una soglia del dolore più bassa, maggiore sensibilità agli effetti dei farmaci e delle sostanze stimolanti (es: caffeina);
  • le persone altamente sensibili riportano spesso un effetto calmante e rilassante quando sono a contatto con la natura e gli animali e ottengono elevati benefici a livello fisico e mentale da pratiche come lo yoga e la meditazione.

Elaine Aron ha inoltre elaborato un modello composto da quattro indicatori (Modello DOES) per raggruppare le caratteristiche principali degli individui altamente sensibili:

  • Depth of processing (profondità di elaborazione): le persone altamente sensibili elaborano in maniera più profonda e dettagliata le informazioni presenti nell’ambiente. In questo indicatore rientrano la difficoltà (ma allo stesso tempo l’accuratezza) nei processi di decision-making, le alte capacità empatiche e le abilità di problem-solving. Elaborare in modo più approfondito significa anche un maggiore utilizzo di risorse mentali e, per questo, le persone altamente sensibili percepiscono un affaticamento precoce, sia a livello cognitivo che a livello emotivo.
  • Overarousal (sovrastimolazione): le persone altamente sensibili raggiungono più facilmente alti livelli di arousal (attivazione) come conseguenza degli alti livelli di stimolazione. Ciò avviene soprattutto quando la situazione in cui si trovano è complessa (es: ci sono molte cose da fare o da ricordare) o se la stimolazione dura troppo a lungo (es: viaggi, giornate intense fuori casa). Oltre alla stanchezza precoce, questo porta ad una sensazione di confusione, stress e, a livello fisico, ad un aumento di attivazione del sistema nervoso simpatico (incremento della frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria e della sudorazione). Come conseguenza, le persone altamente sensibili riportano la sensazione di sentirsi sopraffatte; per questo motivo, spesso cercano di evitare la sovrastimolazione allontanandosi da alcune situazioni per loro particolarmente impegnative, non ritenendosi capaci di gestire l’aumento di arousal e i conseguenti effetti fisici e cognitivi.
  • Emotionality Reactivity (reattività emotiva): le persone altamente sensibili reagiscono con un’intensità emotiva maggiore. Ciò le porta ad essere estremamente empatiche verso gli altri (capacità di percepire e “sentire” le emozioni che gli altri stanno provando) e capaci di provare autentica compassione verso gli altri. La maggiore reattività emotiva, unita alla profondità di elaborazione già citata, permette all’individuo di apprendere rapidamente dalle nuove esperienze, mettere velocemente in relazione le conoscenze con esperienze simili e integrarle. Le persone altamente sensibili possiedono una spiccata intelligenza emotiva e ottime capacità di ascolto. D’altro canto però questa caratteristica le porta ad essere più facilmente irritabili, proprio perché sovrastimolate da questi processi.
  • Sensory Sensitivity (sensibilità sensoriale): le persone altamente sensibili sono più reattive agli stimoli sensoriali; ciò significa che percepiscono e discriminano i piccoli cambiamenti che avvengono nell’ambiente. In questo indicatore rientrano la preferenza per ambienti tranquilli e poco rumorosi e la maggiore sensibilità agli effetti collaterali dei farmaci. Questa caratteristica è visibile soprattutto nei bambini altamente sensibili, che sono maggiormente infastiditi dai forti rumori (es: fuochi d’artificio) e da piccoli dettagli (etichette nei capi di abbigliamento, cuciture, vestiti stretti).

Implicazioni per la pratica clinica

L’elevata sensibilità è un tratto innato. E’ quindi presente sin dall’infanzia e non è un disturbo. Il modo in cui questa caratteristica viene interpretata e gestita dal contesto familiare che ruota attorno al bambino sensibile è un punto fondamentale per capire come il futuro adulto saprà utilizzarla e viverla.

E’ stato studiato, infatti, che la SPS può aumentare il rischio di psicopatologie (in particolare, disturbi d’ansia e dell’umore, disturbi somatici e psicofisiologici) negli individui SPS che hanno vissuto un’infanzia traumatica e instabile. D’altra parte, si è anche rilevato come, individui altamente sensibili che hanno vissuto un’infanzia piacevole e sono cresciuti all’interno di un ambiente positivo, dimostrano maggiori capacità sociali e migliori strategie di coping di fronte agli eventi avversi. In sintesi, beneficiano più di altri dall’aver vissuto in ambiente positivo e da uno stile di attaccamento sicuro.

Lo studio e l’approfondimento dell’elevata sensibilità sono quindi importanti sia dal punto di vista teorico per comprendere meglio la natura delle differenze individuali, sia dal punto di vista clinico per le sue implicazioni sulla salute, sulla qualità della vita e sul benessere psicofisico delle persone altamente sensibili.

 

Contesto sanitario e covid. Dare voce e significato alle esperienze degli operatori sanitari – REPORT

Quale vissuto emotivo hanno sperimentato gli operatori sanitari nella situazione emergenziale attuale? Quale significato hanno attribuito agli eventi che hanno vissuto? Quale senso ha avuto nelle loro vite? Cosa dovrebbe cambiare per fare in modo che si sentano maggiormente sostenuti e supportati nella propria professione?

 

Il giorno 27 Febbraio 2021 l’Associazione Lutto e Crescita ha promosso, attraverso un webinar, un incontro multidisciplinare tra diverse figure professionali nell’ambito sanitario, facendo dialogare la psicologia e la medicina. All’evento hanno partecipato la presidentessa dell’Associazione Maria Luisa De Luca, la vice-presidentessa Cinzia Messana, il dottor Marco Tineri, il dottor Giuliano Grossi, la dottoressa Giovanna Prosseda, il dottor Alfredo Altomonte, la dottoressa Barbara Ricci e la dottoressa Susanna Bianchini. Il Webinar è stato un’occasione di incontro con gli operatori sanitari ai quali sono state poste delle domande che andavano al di là delle loro competenze professionali, dei dati scientifici e delle statistiche ma che riguardano il loro vissuto emotivo, il significato che loro hanno attribuito agli eventi che hanno vissuto nella situazione emergenziale attuale, il senso che ha avuto nelle loro vite e delle valutazioni su cosa si dovrebbe cambiare per sentirsi maggiormente sostenuti e supportati nella propria professione.

L’evento si è aperto con l’introduzione del dottor Marco Tineri e l’esposizione degli obiettivi che si intendevano raggiungere e del significato che ha oggi parlare di Covid, e degli aspetti connessi, in termini multidisciplinari e maggiormente sistemici. In questa presentazione iniziale si è messa in luce l’importanza dell’umanizzazione delle cure, dove è centrale la comunicazione e la relazione come strumento curativo cardine, che ormai da tempo l’Associazione Lutto e Crescita promuove. Un aspetto che prima dell’emergenza sanitaria veniva preso poco in considerazione è l’umanizzazione del curante e dei bisogni del curante in quanto persona e quindi considerare le differenti figure professionali che operano in ambito sanitario sotto molteplici dimensioni: cognitiva, emotiva, esistenziale. Durante questa mattinata formativa proprio queste due ultime dimensioni, che caratterizzano l’essenza dell’essere umano, sono state accolte, ascoltate e messe in primo piano e questo ha reso la condivisione autentica e arricchente anche sotto il punto di vista umano e personale; non a caso la parte del dottor Tineri si conclude con una domanda e ci invita a lasciarla in sospeso per riprenderla solo alla fine: “Quale dono ti porti a casa?”.

Dopo l’introduzione e dopo l’intervento della presidentessa Maria Luisa De Luca riguardo la Death competence e la sua dimensione esistenziale, sul quale mi soffermerò, lo spazio è stato lasciato a chi ha operato e ha vissuto sul campo la pandemia (nello specifico cinque operatori sanitari) facendo emergere i vissuti emotivi, la possibile ricerca di senso e di significato e di crescita emotiva, relazionale ed esperienziale. Tornando all’intervento della professoressa De Luca focalizzato sulla Death competence con un taglio esistenziale. La professoressa ha messo in evidenza come la pandemia potesse essere considerata come un multistressor e come un evento traumatico, sebbene non esiste un evento che sia traumatico di per sé ma si incontra sempre con la soggettività, con le risorse e con i limiti dell’individuo; la professoressa non a caso ha citato Siegel (2014): Un’esperienza che oltrepassa la capacità di fronteggiamento e di adattamento ottimale dell’individuo. La pandemia intesa come multistressor ha un impatto che può essere nocivo per la salute sia fisica che mentale e può esacerbare le psicopatologie già esistenti. Per quanto riguarda l’impatto traumatico connesso alla pandemia è possibile incontrarlo in chi svolge professioni di cura essendo probabilmente dominante la sensazione di impotenza davanti a questo evento soverchiante, aspetto caratteristico della definizione di trauma, basti pensare alla definizione della Herman (2005).

La professoressa De Luca è passata poi a mostrare le curve prototipiche di risposta agli stress traumatici e si è visto come la ricerca abbia identificato quattro traiettorie prototipiche, di cui la quinta è quella che viene definita Crescita Post Traumatica (Tedeschi & Calhoun, 2007).

Queste traiettorie derivano dall’interazione di più fattori, in quanto, come scritto prima, non vi è un evento che sia traumatico per definizione; i fattori da considerare sono: i livelli di funzionamento psicologico precedenti all’impatto traumatico, la gravità dell’esposizione all’evento, le risorse per il fronteggiamento dello stress traumatico. Essendo la professoressa un’esperta nel trauma e lutto si è soffermata poi a spiegare il concetto di lutto sospeso connesso al lutto complicato o prolungato già presente nell’ICD-11 e da Novembre del 2020 anche nel DSM. Infatti le persone che hanno vissuto uno o più lutti durante il lockdown e/o in questo momento emergenziale sembrano essere maggiormente a rischio per lo sviluppo del Disturbo da Lutto Prolungato; la De Luca mostra i fattori di rischio per lo sviluppo del disturbo in questo momento storico caratterizzato dalla pandemia rifacendosi ai dati di ricerca di Neimeyer (2020): impossibilità o gravi limitazioni ad assistere i propri cari, mancanza di informazioni e contatto regolare con il personale sanitario, limitazione o impedimento alla celebrazione dei funerali e altri momenti rituali come la veglia, la preghiera e altro, riduzione o assenza del sostegno interpersonale da parte di parenti, amici e della rete sociale allargata.

Da quello che emerge dai primi studi svolti nel contesto pandemico risulta che ci sono due fattori principali, oltre alla difficoltà di dare un senso alla morte, che predicono il lutto “cronico”: i desideri non realizzati intesi come le cose non dette o non fatte e i conflitti irrisolti e quindi le discussioni non affrontate.

La professoressa De Luca si è soffermata poi sulla “Grief and Growth Therapy” un modello di intervento dell’Associazione Lutto e Crescita che mira a prevenire il Disturbo da Lutto Persistente Complicato e promuovere la Crescita Post Traumatica. La professoressa mostra come questo intervento integri e faccia suoi il modello duale e quello “del legame che continua” connesso dagli studi di Dennis Klass (1996). Il principale concetto che riprendono dal modello duale è che le persone in lutto hanno bisogno di oscillare e alternare in modo idiosincratico tra un tempo dedicato alla perdita e uno dedicato alla ricostruzione. L’alternarsi di questi due momenti e degli stati emotivi ad essi connessi sono alla base dell’integrazione del trauma, della costruzione di un significato e della prosecuzione in termini adattivi del legame. Mentre riprendendo l’idea del legame che continua si fa riferimento all’obiettivo terapeutico che non deve essere il dimenticare la persona perduta ma ricostruire e rinnovare una nuova forma di legame e di relazione. L’integrazione di questi due modelli mira a promuovere la Crescita Post Traumatica e il piano di trattamento utilizzato è quello proprio dell’Analisi Transazionale.

A questo proposito la professoressa sceglie di soffermarsi a descrivere brevemente il concetto di Crescita Post Traumatica (Tedeschi & Calhoun, 2007). Per Crescita Post Traumatica si intende un cambiamento positivo sperimentato dalle persone che hanno vissuto un trauma, un lutto e più in generale una situazione stressante. Il concetto di Crescita Post traumatica risulta essere differente da quello di resilienza, che è la capacità di saper fronteggiare in modo ottimale gli eventi avversi; infatti per crescita si intende il saper cogliere delle opportunità nel dolore e dare ad esso un nuovo senso e significato, saper fare delle esperienze stressanti e dolorose un’occasione di crescita e miglioramento personale. La Crescita Post Traumatica non è solo assenza di patologia o guarigione ma è un cambiamento generativo che arricchisce l’individuo come essere umano ma che spesso diventa utile anche per la comunità.

L’individuo che fa del trauma un’occasione di crescita e di scoperta di senso cambia la percezione che ha di sé, degli altri e della propria filosofia di vita e ciò permette di: sperimentare cambiamenti positivi nella relazione con gli altri, di percepirsi più forti e più competenti, di apprezzare maggiormente la propria esistenza, di cimentarsi in nuovi aspetti e ambiti della vita, riconoscere una crescita nella propria dimensione spirituale ed esistenziale (Bonanno, 2004; Tedeschi & Calhoun, 2007).

La De Luca conclude il suo intervento parlando di Death Competence e la sua importanza in un contesto multistressante come quello sanitario, specialmente in una situazione come quella attuale. Per Death Competence si intende la capacità di saper tollerare e gestire i problemi dell’individuo relativi alla morte, al morire e al lutto (Gamino & Ritter, 2012).

La Death Competence non è solo efficace per evitare i possibili fallimenti in termini di empatia e altri errori connessi a una assenza di competenze specifiche, ma anche per rendere etica ed umanizzare la propria professione. La De Luca e il suo gruppo di lavoro per definire la Death Competence aggiungono alla competenza emotiva e quella cognitiva, pensate da Gamino e Ritter nel loro modello gerarchico, la competenza esistenziale; la competenza esisteziale è per loro la chiave di volta della Death Competence e definiscono questa competenza come: “la capacità di accogliere la propria e altrui mortalità in uno specifico e idiosincratico “orizzonte di senso”” (De Luca, Iatesta, Tineri, 2017). Fanno riferimento al concetto di ricerca di senso pensato da Frankl e al “Meaning Making” di Neimeyer sistemi che vengono attivati soprattutto quanto viviamo eventi e situazioni che possono lacerare il senso della nostra esistenza e soverchiare le nostre risorse di fronteggiamento. La professoressa De Luca sottolinea la differenza tra la Terror Management Theory e la prospettiva esistenziale di Frankl in quanto la prima vede la malattia come qualcosa da sconfiggere e da combattere e il malato come un guerriero, mentre la visione frankliana pensa che sia fondamentale confrontarsi con la mortalità in quanto generatrice della domanda di senso che a sua volta struttura e organizza le competenze cognitive, emotive e relazionali e dunque per questo viene definita la colonna portante della Death Competence.

La De Luca chiude il suo intervento con le parole del rabbino Hilliel che sono il motore per la ricerca di senso, per la scoperta del nostro “compito”, la nostra missione nella vita.:

Se non lo faccio io, chi lo farà? Se non lo faccio adesso, quando lo farò? Se lo faccio solo per me stesso, chi sono io?

Per tornare alla domanda iniziale è emerso da un confronto finale che il dono che gran parte di noi partecipanti si è portato a casa è sicuramente l’arricchimento umano nel sentire le storie e le esperienze dei diversi professionisti che hanno condiviso la loro storia e l’importanza di intraprendere sempre di più un lavoro interdisciplinare e sistemico che non coinvolga solo gli aspetti cognitivi ma anche altre dimensioni come quella emotiva ed esistenziale che troppo spesso vengono trascurate ma che caratterizzano la natura dell’essere umano, sopratutto oggi che abbiamo bisogno, ancora di più, di sentirci tali e di stringerci in quanto esseri limitati ma costruttori di senso.

Voglio chiudere con questa citazione di un componimento della poetessa Chandra Livia Candiani la descrizione di questa giornata formativa a livello professionale ma anche e soprattutto umana:

Pensa, la relazione di ora questa nuova faccia dell’amore, la chiamano lutto

Voglio chiudere con questo frammento di poesia in quanto la speranza che mi porto dentro dopo questo webinar è quella di riuscire a cogliere nella situazione emergenziale che tutti viviamo, carica di morte, morte di vite umane, della quotidianità e della forma in cui abitualmente entravano in relazione, un nuovo inizio e di riuscire dunque a vedere nel lutto una nuova faccia dell’’amore, un invito a ricostruire dalle macerie tra le quali viviamo da ormai un anno una realtà anche migliore rispetto a quella che abbiamo vissuto fin ora.

 

A testa alta – La Tête haute (2015) di Emmanuelle Bercot – Recensione del film

A testa alta è stato film d’apertura del sessantottesimo festival di Cannes 2015, vincitore dei premi Cesar 2016 come miglior attore esordiente, promessa maschile, per l’interpretazione del giovanissimo Rod Paradot (Malony), e come migliore attore non protagonista per il lavoro di Benoît Magimel (Yaan).

 

Il film sincero, forte e reale, è il racconto di un giovane adolescente in un difficile e travagliato processo di crescita. Espressione critica della società moderna che spesso isola e abbandona una minoranza, tema che si lega alla condotta oppositiva-provocatoria del giovane Malony, il quale solo attraverso la perseveranza delle diverse figure educative riuscirà a riscattarsi.

La storia

In seguito ad una segnalazione scolastica ed ai continui rifiuti dei solleciti degli assistenti sociali, la signora Ferrando è stata convocata presso l’ufficio del giudice dei minori Florence. Malony ha 6 anni, è descritto dalla madre come un vero demonio: “un vero terremoto, sempre pronto a fare casini”. Proprio quel giorno, in quella stessa stanza, verrà abbandonato dalla madre.

Il piccolo è figlio di un padre assente e di una giovane donna, la signora Ferrando, con problemi di droga ed estremamente diffidente con le figure degli assistenti sociali e assistenziali, ma unica potenziale figura genitoriale. È con questa scena che il film si apre, ed è da questo momento che la vita di Malony esplode e incespica ogni anno sempre di più, in un turbinio di continui affidi tra famiglie e strutture educative.

Dieci anni dopo, il giovane Malony, sguardo tagliente, testa bassa e cappuccio, è un ragazzo con numerosi problemi scolastici e giudiziari, conosciuto nel quartiere per piccoli furti d’auto e maltrattamenti. A seguito dei numerosi controlli giudiziari associati ad una condotta guidata da continui esplosioni di rabbia, M. sarà inserito in diversi centri passando da strutture educative a centri dententivi chiusi. Lungo il suo percorso per due anni sarà affidato ad un educatore, Yaan, giovane assistente sociale contraddistinto a sua volta da una personale  infanzia difficile. Attraverso il continuo e spesso burrascoso confronto con Yaan e la giudice Florence, e mediante la conoscenza di nuove amicizie come la giovane Tess, sarà possibile indagare i tratti della personalità di Malony e i suoi cambiamenti durante il suo percorso di crescita. Nel film emerge come il ragazzo sia sofferente e insicuro, condizionato dai sensi di colpa e dal rimorso. Una figura controversa caratterizzata da persistenti temi come la mancanza dell’amor proprio e l’abbandono interpersonale.

Dunque, sebbene incapace di esprimere e gestire le proprie emozioni come rabbia, frustrazione, paura e odio, si dimostrerà anche un adolescente spaventato, sensibile e motivato al cambiamento, pronto a diventare adulto e responsabile.

Malony e il ruolo della società

Mediante la sua sceneggiatura e l’interpretazione del giovanissimo Rod Paradot (Malony), la Bercot offre un ritratto realistico della condizione che vivono diversi “ragazzi difficili”, sottolineando da un lato la fatica e l’impegno in prima persona che tale percorso di maturazione richiede, e dall’altro lato la criticità che talvolta si manifesta in coloro che dovrebbero sostenerlo. In quest’ultimo caso infatti, sembra che qualche volta le stesse figure di adulti che sono chiamate a prendere parte al percorso educativo mettano in discussione l’utilità ed i benefici propri di esso stesso. Ne è un esempio la scena in cui Malony all’età di 16 anni viene affidato ad una prima figura educativa, un uomo probabilmente disilluso, stanco e distaccato che con la sua modalità d’interazione scatena la rabbia e la frustrazione del giovane protagonista, alimentando la sua diffidenza per le istituzioni.

È quindi di fronte a queste scene che gli spettatori, empatizzando facilmente con il ragazzo, possono  interrogarsi  e focalizzarsi su alcuni temi: da cosa scaturiscono il disturbo di condotta e i pattern oppositivi provocatori che il protagonista manifesta? Qual è il ruolo dell’ambiente e delle figure che rappresentano l’autorità? In che modo la strutturazione dell’odierna società può aver influenzato ed acutizzato tale condizione di totale sfiducia nelle istituzioni e nella giustizia di una fetta della popolazione?

Disturbo oppositivo provocatorio?

Dal punto di vista puramente scientifico e psicopatologico all’interno del DSM-5, l’American Association definisce i disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta (capitolo nel quale è racchiuso il disturbo oppositivo-provocatorio) come delle condizioni che comportano difficoltà nell’autoregolazione emotiva e comportamentale.

“Anche altri disturbi del DSM5 possono comportare problemi nella regolazione emotiva e/o comportamentale, ma i disturbi di questo capitolo sono i soli che violano i diritti degli altri (aggressioni/distruzione della proprietà), e/o mettono l’individuo in contrasto significativo con norme sociali e la figura dell’autorità”.

Sebbene questi vari disturbi riguardino delle problematicità nella gestione delle proprie emozioni e dei comportamenti, le cause variano in relazione al singolo disturbo. Infatti, sulla base dell’enfasi riposta maggiormente sui problemi emotivi o su quelli comportamentali, il disturbo oppositivo provocatorio si inserisce in un livello intermedio tra un totale discontrollo emotivo alla base del disturbo esplosivo intermittente e un discontrollo comportamentale proprio del disturbo della condotta. Nello specifico, come evidente nell’atteggiamento di Malony nei confronti della madre, del giudice, degli educatori e più in generale delle figure che rappresentano l’autorità, il disturbo oppositivo provocatorio è caratterizzato da un pattern di sintomi che si manifestano nelle relazioni interpersonali problematiche ed è associato al disagio delle altre persone nel suo contesto sociale familiare, scolastico, lavorativo. Da un lato vi è un umore collerico, irritabile, in cui le persone sono irascibili, permalose, arrabbiate, adirate. Dall’altro lato vi è una condotta polemica/provocatoria o vendicativa, in cui l’individuo litiga spesso, contraddice o sfida attivamente le richieste delle figure che rappresentano un’autorità. Inoltre, provoca gli altri e li irrita accusandoli della propria cattiva condotta o dei propri errori.

Questo disturbo, così come più in generale quelli presenti in questo capitolo del DSM5, si manifesta più comunemente durante l’infanzia/adolescenza. Poiché riguardano comportamenti che possono essere associati normalmente ad una fase evolutiva, è necessario che tali condotte siano valutate clinicamente per la loro persistenza e gravità in base a ciò che è ritenuto di norma per l’età, il genere e la cultura dell’individuo. Persone con tale disturbo spesso egosintonicamente non riconoscono di essere arrabbiati, sfidanti, provocatori, oppositivi e dunque, come Malony nello scontro fisico con l’educatore Yaan, giustificano la loro condotta come la conseguenza di una richiesta irragionevole.

Come sottolineato nel DSM-5 dunque clinicamente si potrebbe provare difficoltà nel differenziare in che modo  e quale sia il contributo del ragazzo all’interno della relazione problematica:

“Per esempio, i bambini con disturbo oppositivo provocatorio possono aver sperimentato una storia di genitorialità ostile e spesso è impossibile determinare se il comportamento del bambino ha fatto sì che i genitori abbiano agito nei confronti del figlio in modo maggiormente ostile, se l’ostilità dei genitori ha portato al comportamento problematico del bambino o se vi è una combinazione di entrambe le cose”.

Dal punto di vista epidemiologico infatti il disturbo sembra manifestarsi principalmente in bambini e adolescenti segnati da un’infanzia difficile, ambienti familiari di incuria, in cui l’accudimento dell’individuo è affidato ad un susseguirsi di diversi cambi di caregiver e da pratiche educative rigide, incoerenti, negligenti. Tale problematica potrebbe sfociare in un disturbo della condotta, in cui i comportamenti sono contraddistinti da una gravità maggiore e comprendono maltrattamenti e aggressioni a persone e animali, distruzione della proprietà e furto o frode.

Il plausibile paradosso con la società

Non è chiaro se le specifiche cause delle difficoltà e dei problemi di condotta che contraddistinguono Malony siano maggiormente legate ad un fattore temperamentale o a quello ambientale. Più in generale però il tema del rifiuto della maternità e l’abbandono che il ragazzo vive, tendono a triangolare il rapporto tra lui, la madre e la giudice Florence. Figura, quest’ultima che abbandonerà gradualmente i suoi tratti più severi per mostrare un affetto istintivo e quasi materno, andando a colmare, almeno istituzionalmente, la figura assente della madre.

Come Bercot sottolinea e snoda nei diversi discorsi con gli altri ospiti delle strutture residenziali che Malony incontrerà nel suo tragitto, il suo comportamento e le esplosioni di rabbia non sono solo sintomo di una frustrazione di un malessere personale, associati ad un evento specifico, ma racchiudono e si intersecano anche ad un senso di esasperazione e di impotenza, condizione condivisa tra i “ragazzi selvaggi” figli di periferia. Attraverso i continui richiami tipicamente connessi alla cultura cinematografica francese, come l’apertura al ritmo della canzone “nique la police” manifesto del film l’Haine di Mathieu Kassovitz (1995), il film permette di ragionare su diversi aspetti problematici della società, comuni non solo alle periferie francesi (le banlieue).

Emergono dunque temi di rabbia, ingiustizia e sfiducia nelle istituzioni spesso vissute come repressive, tipici di una minoranza della società. Paradossalmente però, tale critica sociale, di sfiducia e rassegnazione nel senso di giustizia, potrebbe rischiare di alimentare la propria condizione in una forma di autoisolamento, attraverso l’opposizione o il rifiuto di qualsiasi forma di aiuto da parte delle istituzioni, come un serpente che si morde la coda.

Il riscatto individuale

Infine, la svolta costruttiva, il cambiamento che emerge dal momento in cui Malony ha “afferrato la mano” della giudice Florence. Il ragazzo si è affidato a lei e allo spirito umano, collaborativo e positivo degli educatori che lo hanno sostenuto ed hanno creduto in un possibile cambiamento. È da qui che si manifesterà la possibilità di una riabilitazione attraverso l’accettazione del proprio passato e delle proprie potenzialità, mediante l’edificazione di progetti di vita sempre più complessi che gli permetteranno di maturare e vivere la propria crescita personale, pronto finalmente ad uscire a testa alta dalla stessa stanza di tribunale.

 

Malinconici trent’anni

Il trentenne di oggi si trova spesso in imbarazzo di fronte sia al successo lavorativo e matrimoniale dei genitori sia alle richieste esigenti della modernità che avanza. Si sente in difetto su tutto, sui suoi successi e sui suoi fallimenti. I primi sono confrontati con modelli utopici di perfezione sociale; i secondi con i millantati successi dei genitori.

 

In uno dei suoi romanzi, la scrittrice Oriana Fallaci scriveva che i trent’anni sono anni stupendi e definendoli liberi, ribelli e fuorilegge sia perché ancora lontani dalla malinconia della maturità sia perché ormai sono lontani dalla angosciosa attesa che caratterizza la gioventù. La Fallaci dichiarava che i trent’anni sono l’età in cui l’individuo è come un campo di grano maturo, fertile e non ancora avvizzito, pieno di vita. Secondo l’autrice a trent’anni si è in cima alla montagna della vita dove si può ammirare da un lato la strada in salita che si è appena percorsa, dall’altro la strada in discese che si deve percorrere.

Chi scrive è prossimo alla soglia dei trent’anni e non si sente né pieno di vita né in cima alla montagna da cui ammirare il panorama. Chi scrive queste parole si trova semmai sulla cima di una collinetta ad ammirare un panorama malinconico. Certamente si sente fertile e pieno di vita, non avvizzito, ma non libero e ribelle. Tantomeno fuorilegge. La ragione è che i trent’anni di cui parlava la Fallaci nel suo libro si riferiscono ad un altro tempo, in cui avere questa età era più semplice.

Se ci si ferma a leggere cosa si può trovare in rete riguardo i trent’anni si tratteggia un disegno decisamente diverso da quello che la Fallaci raccontava nel suo romanzo. Innanzitutto si è colpiti dai numeri: 5, 10, 15 cose da imparare o da fare arrivati a trent’anni; le 15 regole che deve seguire il trentenne; 30 consigli per i 30 anni, e così via. Se si decide di approfondire ci si accorge che queste regole, consigli e cose da fare ai trent’anni sono talmente vaghe da poter andare bene per tutti e contemporaneamente per nessuno. E questo porta ad una ipotesi contraria a quella proposta all’inizio: i trent’anni sono l’età dell’incertezza, del non sentirsi né questo né quello, del sentirsi chiamare “signore” o “signora” dai ragazzini e “giovanotto” o “signorina” dai più anziani. Per i primi siamo già vecchi e incapaci di stare al passo coi tempi; per i secondi siamo ancora all’inizio e abbiamo ancora tanta strada da fare. E quindi la verità dove sta?

I più pessimisti vedono nei trentenni di oggi una popolazione di invisibili segnati dalla solitudine dell’esistenza, ignorati dalla politica, dalle riforme sociali e dalla cultura predominante che guarda al potenziamento dei giovanissimi e alla salvaguardia dei più anziani.

Chi scrive è uno psicologo che studia e lavora nel campo della psicoanalisi. E da psicologo si domanda: quali sono le caratteristiche dell’individuo di trent’anni di oggi? Cosa caratterizza la psicologia del trentenne della seconda decade del XXI secolo?

Quasi cento anni fa, il dottor Freud, che molti avranno sentito nominare, delineava un ritratto dei trentenni dell’epoca: l’uomo aveva caratteristiche giovanili ed entusiaste e aveva grandi potenzialità di sviluppo; la donna spesso era più rigida e immutabile nella sua psicologia e meno energica. Senza fare una distinzione così netta tra uomo e donna, impopolare e infruttuosa, si può dire che entrambe le descrizioni si adattano ai trentenni di oggi, energici ed entusiasti o al contrario rigidi e poco elastici. O piuttosto si può dire che si può essere un trentenne sia energico ed entusiasta sia rigido e immutabile? Sono certamente caratteristiche che possono stare insieme, nel buon nome della variabilità individuale.

Una paziente sulla soglia dei trent’anni mi raccontò di quanto la angosciasse il pensiero di compiere trent’anni e di non aver fatto ancora nulla della sua vita. Non aveva approfondito gli studi, non aveva vissuto da sola prendendo in affitto un appartamento, non aveva sperimentato la vita da single. Inquieta davanti a queste mancanze si mostrava allo stesso tempo rigida e affermava di sentirsi vecchia per fare certe cose, di aver avuto la sua chance negli anni precedenti e di non averla colta, dicendo che non le restava altro che sposarsi e avere un figlio. La nostra signorina era quindi a cavallo della descrizione freudiana: da un lato era entusiasta della vita e voleva intraprendere nuove strade e fare nuove esperienze, dall’altro era già rigidamente fissa a un obiettivo maturo quale il metter su famiglia e continuare col suo lavoro.

Allora è questa la caratteristica della nostra generazione di trentenni: siamo sia energici che pigri, sia volenterosi che arrendevoli, sia entusiasti che rigidi, sia ribelli che malinconici.

La schiera dei trentenni che fanno parte della generazione Y, di cui fa poco orgogliosamente parte chi scrive, è una generazione di mezzo un po’ malinconica. Da una parte si trova a guardare con nostalgia al passato e al tempo delle generazioni precedenti, come quella dei propri genitori, i quali a trent’anni avevano già i figli, già una casa e già un lavoro avviato o consolidato, se non una carriera. Dall’altra parte si trova a guardare con aria malinconica il presente traballante e il futuro incerto: i trentenni di oggi sono spesso ancora in formazione, sono in un mondo lavorativo più complesso e competitivo e sono in un universo di relazioni interpersonali più complicate. Il trentenne di oggi si trova spesso in imbarazzo di fronte al successo lavorativo e matrimoniale dei genitori e in imbarazzo di fronte alle richieste esigenti della modernità che avanza. Il trentenne si sente in difetto su tutto, sui suoi successi e sui suoi fallimenti. I primi sono confrontati con modelli utopici di perfezione sociale; i secondi sono confrontati con i millantati successi dei genitori con i quali si genera talvolta un confronto e un conflitto insanabile.

Questa malinconia dei trent’anni non è un difetto e non è un pregio. Malinconico non è neanche un attributo negativo. Esso è una connotazione evidente di un modo di stare al mondo diverso dalla generazione di trentenni che ci ha preceduto, più ottimista e ribelle, quella descritta dalla Fallaci. E chissà come saranno i trentenni che ci succederanno, quelli della successiva generazione alla nostra, la generazione Z.

In molti non si ritroveranno nella descrizione che chi scrive ha tratteggiato e certamente questa non è una descrizione universale che comprende tutti gli individui della stessa età o generazione. Queste riflessioni sono un modo di porre attenzione su una età di passaggio, come quella dell’adolescenza, che è complessa proprio perché fa da ponte tra due fasi diverse, quella della gioventù spensierata e quella della maturità contemplativa.

Il grande scrittore Honoré de Balzac scriveva di una sua eroina che all’età di trent’anni guardava alla sua vita e ne faceva un bilancio, concludendo che aveva ancora tutta la vita davanti a sé e che aveva la possibilità di disporne come voleva, per diventare finalmente un essere umano.

 

Le critiche tramite messaggi di testo: un valido escamotage o un’arma a doppio taglio?

Ricerche recenti suggeriscono che attraverso gli SMS, adolescenti e giovani adulti discutono e criticano i membri della propria rete sociale (Harrison, Bealing, & Salley, 2015). Ma, il contenuto di tali messaggi avrà lo stesso impatto delle critiche ricevute di persona?

 

I messaggi di testo, o più comunemente gli SMS, rappresentano il principale mezzo di comunicazione, nonostante il costante afflusso di nuove applicazioni di messaggistica mobile e social media (Skierkowski & Wood, 2012). Difatti, essi costituiscono una modalità rapida e conveniente per poter interagire e, di conseguenza, consentono di sviluppare e mantenere i nostri rapporti sociali (Coyne et al., 2011). Ricerche recenti suggeriscono che oramai attraverso gli SMS, gli adolescenti e i giovani adulti discutono e criticano i membri della propria rete sociale (Harrison, Bealing, & Salley, 2015). Ma, il contenuto di tali messaggi avrà lo stesso impatto delle critiche ricevute di persona?

Secondo una prospettiva evolutiva, gli esseri umani hanno un bisogno fondamentale di appartenere e di sentirsi accettati dagli altri (Baumeister & Leary, 1995) e, di conseguenza, i feedback negativi comportano conseguenze dannose per il benessere individuale.

Le teorie cues-filtered out (Culnan & Markus, 1987) sostengono che, nelle comunicazioni, quando il numero di indizi paraverbali – come ad esempio il tono della voce – e non verbali – come le espressioni facciali – si riducono, anche la qualità dell’interazione diminuisce.

Da questo punto di vista, la mancanza di tali caratteristiche che normalmente accompagnano le critiche effettuate di persona, potrebbe effettivamente attenuare le ripercussioni sul destinatario quando giungono sotto forma di SMS.

D’altra parte, però, la mancanza di indizi potrebbe determinare un maggior disagio, a causa dell’ambiguità e dell’incertezza che circonda la suddetta comunicazione (Kelly et al., 2012).

La teoria dell’elaborazione delle informazioni sociali (Social Information Processing Theory- SIPT) sostiene che, nonostante la mancanza di espressioni non verbali nella comunicazione mediata dal digitale, gli utenti sono motivati a migliorare la comunicazione e, di conseguenza, sono in grado di sviluppare strategie che consentano di massimizzare l’utilizzo degli indizi disponibili (Walther, 1992, 2011). Tra queste rientra, ad esempio, l’aggiunta delle emoticon, che sembra fornire un maggior significato e possibilità interpretative ai messaggi.

Dunque, secondo la teoria, le osservazioni critiche fatte tramite SMS potrebbero avere lo stesso impatto, se non peggiore, sul benessere emotivo del ricevente.

Consideriamo ad esempio un mittente che potrebbe intenzionalmente inviare un messaggio di testo terso o ritardare la sua risposta al messaggio di qualcuno come un mezzo per segnalare la sua ostilità. D’altra parte, una risposta inviata in ritardo potrebbe semplicemente significare che il mittente è impegnato in altri compiti.

In altre parole, esistono un certo numero di strategie che possono essere utilizzate per comunicare sentimenti negativi tramite SMS, ma queste strategie possono essere facilmente fraintese.

Di conseguenza, si potrebbe sostenere che le interazioni negative che avvengono attraverso questa modalità sono in grado di produrre lo stesso impatto di quelle fatte faccia a faccia.

I risultati contrastanti emersi dalle indagini finora condotte potrebbero essere dovuti in parte a una mancanza di attenzione alle differenze individuali nelle risposte alle critiche. Ad esempio, è stata data poca attenzione al potenziale ruolo della mindfulness di tratto nel contesto della comunicazione mediata dal digitale.

La mindfulness è stata definita come la consapevolezza delle esperienze che avvengono nel momento presente, senza essere giudicanti (Kabat-Zinn, 1994).

Sulla base dei primi studi, livelli più bassi di consapevolezza sono stati collegati a livelli più alti di uso problematico di internet tra gli adolescenti (Gamez-Guadix & Calvete, 2016) e, soprattutto, è emerso che questi soggetti sono più predisposti a rispondere in modo impulsivo quando sono impegnati in una comunicazione mediata dal digitale (Peters et al., 2015).

Sulla base di quanto appena esposto, appare fondamentale comprendere se l’impatto emotivo esercitato dalle critiche espresse tramite SMS si differenzi rispetto a quando tali feedback vengono comunicati di persona e se la mindfulness di tratto possa svolgere un ruolo protettivo rispetto alle critiche ricevute, a prescindere dalla modalità di comunicazione.

DeClerck e colleghi (2018) hanno condotto una ricerca su un campione costituito da 172 giovani adulti. Questi ultimi sono stati assegnati, in maniera casuale, a tre condizioni sperimentali: il primo gruppo è stato sottoposto a critiche tramite messaggi di testo, il secondo, ha ricevuto feedback negativi di persona e, il terzo, ha costituito il gruppo di controllo.

Ciascun gruppo è stato sottoposto ad un compito che richiedeva loro di esporre un discorso dinanzi ad una commissione e, in seguito, è stato chiesto loro di effettuare alcune operazioni matematiche. Successivamente tutti i partecipanti, fatta eccezione per il gruppo di controllo, hanno ricevuto dei feedback adattati per ciascuno di loro.

Secondo quanto emerso, l’impatto emotivo sui partecipanti assegnati alle due differenti condizioni sperimentali era pressoché identico. Tuttavia, rispetto alle differenze individuali, si è visto come coloro i quali mostravano livelli inferiori della mindfulness di tratto hanno riferito di essersi sentiti maggiormente feriti dalle critiche ricevute tramite SMS.

Nel complesso, i risultati sono coerenti con le ricerche precedenti che dimostrano che le interazioni sociali negative possono avere un impatto significativo sul benessere emotivo, indipendentemente dal fatto che avvengano o meno attraverso la comunicazione mediata dalla tecnologia (Filipkowski & Smyth, 2012).

Inoltre, il significativo ruolo moderatore della mindfulness nel contesto della comunicazione tramite SMS mostra l’importanza di considerare le caratteristiche del destinatario del messaggio, soprattutto quando quest’ultimo è caratterizzato da un forte contenuto critico.

 

L’uso nocivo dell’intelligenza artificiale e le nuove minacce alla sicurezza psicologica nazionale e internazionale – Il caso del terrorismo

Cosa accadrebbe se il cyberterrorismo riuscisse a impadronirsi della nostra sfera cognitiva? Tramite i metodi di “brain-reading”, il terrorismo acquisirebbe un enorme volume di big data relativi al suo nemico e accrescerebbe fortemente le capacità predittive riguardanti l’avversario.

 

Il cervello è come lo stomaco:
quello che conta non è quanto ci metti dentro, ma quanto riesce a digerire

Albert Jay Nock (Citato in Selezione dal Reader’s Digest, giugno 1963)

Introduzione: i fattori di contesto

Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale (IA) avanzano per mezzo di numerosi rivoli – attraversando la vita quotidiana di ognuno – e imboccano numerosi filoni sempre più articolati, alcuni dei quali vanno a vantaggio dell’uomo, altri che ne alimentano paure e distopie.

La distinzione di base adottata nel presente lavoro va in una duplice direzione. Così come si parla di un’etica per le macchine, di una IA benefica e allineata ai valori umani, altrettanto acceso è il dibattito sul malware (combinazione dei due termini “malicious” e “software”; in italiano “codice maligno”). Si tratta della IA nociva, piegata a obiettivi pregiudizievoli per individui, gruppi, società (cfr. Brundage et al., 2008, per l’espressione “Malicious Use of Artificial Intelligence” – MUAI, e per la definizione che gli autori attribuiscono a “malicious” (We define “malicious use” loosely, to include all practices that are intended to compromise the security of individuals, groups, or a society”, pag.9.). Cfr. anche il Rapporto pubblicato da Europol, dall’Istituto interregionale delle Nazioni Unite per la ricerca sulla criminalità e la giustizia-UNICRI e da Trend Microdel, novembre 2020).

La diffusione massiva di vulnerabilità e di codici malevoli è anche facilitata dal crescente fenomeno della posta elettronica spam. Attenendosi ai fatti attuali, il malware ha gioco facile sulla massa mediante la psicosi del Coronavirus. Su quest’ultimo, attraverso il digitale, si è tempestati – e confusi – da informazioni, dati, messaggistica. E all’interno di tale messe si insinuano i virus informatici. Dunque, il virus del virus (quello cyber e quello biologico) e paure sovrapposte – per il virus biologico e per il malware. Infatti lo spam, se di per sé è innocuo (sebbene fastidioso), ma diventa foriero di rischi quando collegato ad altre attività come il phishing.

A inizio d’anno è stato scoperto in Italia un nuovo malware che colpisce gli smartphone Android, soprannominato “Oscorp”, in grado tra l’altro di effettuare chiamate e SMS, disinstallare app, di rubare credenziali bancarie e criptovalute dai portafogli virtuali… Si avverte un senso di incombenza, insicurezza, minaccia, aggressione, aggiramento ed espoliazione della nostra privacy e dei nostri averi da parte di nemici invisibili e potenzialmente onnipresenti. Esso ti vede, noi no. Un’asimmetria informativa che desta paura.

Spostandosi su una frontiera più sofisticata, le tecniche di “lettura del cervello” per contenere gli effetti di malattie neurodegenerative (Di Corinto, 2021) sono suscettibili di dual-use e, di conseguenza, c’è il pericolo che una IA buona possa imboccare una deriva maligna ed esiziale.

Cosa accadrebbe se il cyberterrorismo – ma anche il cybercrime: un binomio di successo – riuscissero a impadronirsi della nostra sfera cognitiva? Tramite i metodi di “brain-reading”, il terrorismo acquisirebbe un enorme volume di big data relativi al suo nemico e accrescerebbe fortemente le capacità predittive riguardanti l’avversario. La suggestione si trasformerebbe in vera e propria soggezione, e ciò senza neppure che si ricorra a un’arma tradizionale e a un attacco terroristico nelle forme già note. Uno scenario distopico.

Una specifica categoria di malware è il “worm”, capace di autoreplicarsi. Non solo: a volte gli strumenti di malware sono in grado di evolversi e di diventare sempre più sofisticati. Di grande attualità, e anche il più pericoloso al mondo, è il malware denominato Emotet, un trojan che ha diverse finalità nocive tra cui soprattutto quella di ottenere l’accesso a contatti e informazioni personali dell’utente ignaro. Emotet, nato come trojan bancario, si è evoluto in una minaccia sofisticata generando un danno informatico di portata molto ampia e duratura. Per sovrammercato, nel corso degli anni, grazie alle sue continue mutazioni e alla sua capacità di migliorare significativamente la sua mimetizzazione, Emotet è diventato sempre più difficile da individuare.

Un parallelismo di quanto a volte accade in Natura davvero inquietante!

A inizio d’anno, una imponente operazione internazionale di cybersicurity è riuscita a neutralizzare le tre botnet di Emotet, cioè le tre reti di server che controllano da remoto le operazioni di Emotet.

Un nuovo malware è il Rogue, uno strumento di spionaggio completo (c.d. RAT – Remote Access Trojan), in grado di spiare i dispositivi sui quali viene installato e di inviare i dati a un server remoto. Il vantaggio è quello di poter essere manovrato persino da uno smartphone. Rogue può venire usato per lanciare campagne di spionaggio a tappeto e raccogliere dati di ogni genere dagli smartphone infettati: da conversazioni su WhatsApp a foto e video privati, a dati bancari, ecc. Ancora, i colpi messi a segno dagli hacker del c.d. Team Egregor sono simbolici e ad alto impatto, come il recente attacco alla metropolitana di Vancouver.

Il darkrweb è naturalmente il “mercato della vulnerabilità” in cui gli hacker si concentrano e si alleano in team per sviluppare nuovi malware, commerciarli, persino affittandoli a canone mensile, per ricattare gli utenti-vittime e riscuotere il riscatto (ransomware).

Oltre che cittadini e imprese, bersagli sono infrastrutture nevralgiche di varia natura, tra cui le Infrastrutture Informative Critiche (IIC), nonché i governi stessi. L’asticella del cyber offensivo dunque si alza progressivamente.

Sotto il grande cappello del malware vi rientrano, tra i fenomeni più importanti, deepfake, cyberterrorismo, cybercrime. Peraltro, i confini tra questi sono porosi e diffratti.

Intelligenza artificiale, terrorismo e paura

Il presente lavoro prende in esame in particolare tre aspetti: le minacce derivanti dall’utilizzo nocivo dell’intelligenza artificiale (MUAI) da parte di un attore aggressivo – il terrorismo interno e sovranazionale -, la guerra psicologica che esso è in grado di sviluppare tramite il MUAI e, infine, la paura collettiva che ne proviene. Concludono alcuni spunti di policy.

Il terrorismo usa il cyber-spazio per tutto lo spettro delle loro attività: dal reclutamento al finanziamento, alla propaganda e, in misura crescente, all’attacco informatico. In più, la maggiore dipendenza dall’intelligenza artificiale in tutte le sfere della società rende virtualmente infiniti i potenziali obiettivi: dai conti correnti dei singoli cittadini alla sicurezza delle strutture nevralgiche dello Stato. Inoltre, il teatro di guerra è un teatro virtuale non più georeferenziato. Ulteriori sono i motivi di fascino della cyberaction da parte dei terroristi, tra cui la capacità di incidere direttamente su un numero maggiore di persone rispetto ai tradizionali metodi terroristici, suscitando quindi una più vasta copertura mediatica, che è in definitiva ciò che i terroristi vogliono. Eppoi, verosimilmente gli attuali terroristi appartengono prevalentemente alla generazione dei Millennials e alla successiva “Generazione Z”: con esse gli strumenti di hacking sono diventati più potenti, semplici da usare, di più facile accesso, meno costosi; i terroristi delle “nuove generazioni” (nel senso più vasto del termine) si avvalgono cioè di un endowment sicuramente più ricco e articolato rispetto a quello disponibile ai terroristi di generazioni passate.

Questi nuovi scenari – che sottendono la guerra psicologica in atto – rendono necessari una metodica fortemente interdisciplinare ed esercizi di cross-fertilisation volti a sviluppare una maggiore resilienza delle leve che influiscono sul sentiment della collettività, minimizzare il contagio della percezione di vulnerabilità e di paura, e contrastare di conseguenza il MUAI.

Si afferma, infatti, che il più elevato livello di minaccia del MUAI è quello legato alla sicurezza psicologica (PS) nazionale e internazionale (Bazarkina-Pashentsev, 2020). Gli autori utilizzano il termine “sicurezza psicologica” (PS) per descrivere un’arena ben distinta della sicurezza delle informazioni. Quest’ultima ingloba la protezione dell’individuo, della società e dello Stato dagli impatti psicologici negativi (in particolare, quelli pregiudizievoli delle basi storiche di una nazione e delle sue tradizioni patriottiche), ma è più ampia rispetto alla PS.

Dunque, subentra la paura… Un grande attore protagonista della destabilizzazione psicologica a livello sistemico.

La paura è soggetta ai fenomeni di massificazione e di contagio. Può propagarsi in ragione della più elevata percezione di minaccia incombente attraverso vari fattori – quali lo svilupparsi di tecnologie IA sempre più sofisticate; correlatamente, le asimmetrie informative tra gli utenti-vittime e gli attori aggressivi; la propaganda da parte di questi ultimi; l’incertezza pervasiva; il forte grado di allerta cui si è costantemente sottoposti; l’effetto eco della paura stessa, che rimbomba fra i gangli reticolari della globalizzazione.

In condizioni di incertezza, dove la probabilità di malware è sconosciuta presso la platea delle potenziali vittime (“incertezza asimmetrica”), la strategia della “erraticità simulata” (“simulated randomness”) ha una elevatissima produttività, ed è ulteriormente accresciuta dall’impatto psicologico dell’“effetto sorpresa” (Fiocca-Montedoro, 2006).

Entra in gioco la psicologia della sicurezza, anche con i suoi effetti paradossali del tutto biased, quando collegati a una riduzione della propria capacità di giudizio.

In un clima di tensione, di insicurezza e di spavento, di informazione incompleta, e partendo da una base di conoscenza iniziale, persino alcune informazioni riguardo ai progressi nel campo della cybersicurity possono essere interpretate dall’opinione pubblica in modo biased: ad esempio, nuovi strumenti di contrasto e prevenzione del malware – paradossalmente – possono creare un “effetto annuncio” distorto, vale a dire essi vengono percepiti come un indicatore di accresciuta magnitudo della minaccia da cui doversi difendere (Fiocca, 2016; Fiocca et al., 2016). L’inferenza diventa, dunque, il meccanismo di ragionamento volto a formulare valutazioni circa gli eventi più probabili di verificarsi.

In contesti inferenziali, interviene il problema bayesiano della “estrazione del segnale”: come interpretare o utilizzare una nuova informazione acquisita, partendo da una base di conoscenza iniziale? quale valore dobbiamo o possiamo assegnare alla nuova informazione proveniente dall’ambiente esterno (tra cui gli altri agenti)?

La pervasività dell’incertezza può distorcere l’assegnazione della distribuzione di probabilità associata al verificarsi di un episodio di malware (ad esempio, di cyberterrorismo), perfino in presenza di una riduzione oggettiva del rischio derivante dalle azioni di contrasto.

Nelle procedure inferenziali, l’errore cognitivo che l’individuo tende a commettere nasce generalmente dal fatto che nel mondo reale mancano o sono sbagliate o non sono utilizzate correttamente/pienamente le informazioni disponibili. La percezione del rischio, di conseguenza, deriva sia da fattori soggettivi (“innumeracy”, “bounded rationality”, e così via), sia dalla combinazione tra il dato oggettivo e gli elementi soggettivi.

Tale mix tra fattori oggettivi e soggettivi è fòmite di una determinata “relazione posizionale” fra l’individuo e le condizioni dell’ambiente esterno, dove il primo percepisce se stesso come il soccombente, vittima della propria vulnerabilità generata dall’ambiente esterno.

Inoltre, la paura si insinua e si propaga fra la folla mediante network e meccanismi che la rendono contagiosa e autoalimentantisi: l’effetto eco, l’effetto annuncio, l’effetto gregge, la suggestione, l’emulazione, il rumor, il feedback positivo (tecnicamente, quest’ultimo consente di accelerare o intensificare un processo in seguito agli stimoli ricevuti; vale a dire che all’aumentare dello stimolo iniziale, il prodotto finale tende ad aumentare secondo un “circolo vizioso/virtuso”).

La paura contagiosa: la prospettiva delle neuroscienze

L’empatia costituisce un fattore dirimente nella comunicazione sociale che coinvolge l’esperienza degli stati sensoriali ed emotivi degli altri, come ad esempio la paura. E’ come se quest’ultima attraversasse la collettività mediante vasi comunicanti o all’interno di un ambiente osmotico.

Nella letteratura delle neuroscienze, il meccanismo che rende la paura contagiosa – e, quindi, autoalimentantesi – è collocato nel cervello. In particolare, in un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford che si sono avvalsi di cavie (Smith et al., 2021), viene illustrato che risposte comportamentali empatiche specifiche – come il senso di dolore e il senso di paura – sono mediate da strutture neurali che si proiettano dalla corteccia cingolata anteriore (ACC) a diverse regioni cerebrali: il “nucleus accumbens” (NAc) – che assolve una funzione importante nei processi cognitivi come il senso di avversione, di motivazione, di ricompensa e numerosi ulteriori meccanismi di rinforzo dell’azione – e l’“amigdala basolaterale” (BLA) – che è un complesso nucleare che gestisce le emozioni e, in particolare, la paura.

E’ stato individuato che l’ACC genera risposte comportamentali empatiche del senso di paura, cioè il rapido trasferimento sociale della paura mediante attività nelle proiezioni ACC all’amigdala basolaterale (BLA).

Chiarire meccanismi specifici del circuito che mediano varie forme di empatia attraverso modelli animali accessibili sperimentalmente risulta necessario per generare ipotesi che possono essere valutate e confermate in soggetti umani.

La validazione di tali ipotesi porterebbe ad affermare che l’attività tra ACC e BLA faccia sì che la percezione dell’esistenza di avversari aggressivi, tramite l’effetto contagio, ponga in atto una rapida trasmissione sociale della paura. E si sa che la paura è un’arma esiziale nella guerra psicologica. E la pericolosità di tale arma è rafforzata dal contagio stesso.

L’aggressore diventa quindi capace di controllare e tenere sotto scacco il mood collettivo generando una spirale sempre più ampia, che inghiottisce progressivamente la collettività, e di conseguenza una possibile destabilizzazione sistemica.

Nel presente lavoro, un esempio per tutti è il cyberterrorismo (cfr. Fiocca et al., 2006).

Nella prospettiva delle neuroscienze, le minacce alla sicurezza nazionale e internazionale si propagherebbero e si trasferirebbero quindi in maniera contagiosa empaticamente, attraverso l’attività di una parte della corteccia cingolata e di una regione dell’amigdala. In tale chiave interpretativa, l’effetto eco, l’effetto annuncio, l’effetto gregge, la suggestione, l’emulazione non sono altro che forme di empatia attraverso cui la paura diventa socialmente contagiosa.

MUAI e sicurezza psicologica

L’impatto dell’uso nocivo della IA sulla sicurezza psicologica è un fattore dirimente da valutare perché, tra le conseguenze, tende a condizionare la visione presso l’opinione pubblica circa l’intelligenza artificiale, a detrimento dei suoi progressi anche nelle direzioni virtuose.

La gradazione in escalation e imponderabile del cyberterrorismo è sintetizzabile nella tassonomia circa l’implementabilità sul MUAI nazionale e sovranazionale – da quella effettiva a quella più remota – di Bazarkina e Pashentsev (2019): (i) attuali pratiche MUAI; (ii) capacità MUAI esistenti che non sono state ancora utilizzate nella pratica (questa probabilità di implementazione è associata a un’ampia gamma di nuove capacità della IA in rapido sviluppo); (iii) future capacità MUAI basate sia sugli sviluppi attuali sia sulla ricerca futura; (iv) rischi non identificati, noti anche come “l’ignoto nell’ignoto”. Attraverso il fitto velo dell’“l’ignoto nell’ignoto”, l’effetto sorpresa raggiunge la massima produttività.

Uno strumento frutto del progresso tecnologico dotato di spillovers positivi per la società, può essere trasformato in strumento nocivo altrettanto efficace per la società stessa. Un tipico caso è proprio quello dell’infrastruttura tecnologica: essa facilita l’accesso alle informazioni accrescendone quindi il valore; ma proprio questo sua caratteristica si presta a trasformarla in strumento nocivo e di disvalore. Insomma, si tratta di un dual-use. Molto dipenderà dal suo grado di lock-in (cioè, dal costo di trasformazione tecnologica: dal “benevolo” al “malevolo”) e dalla sua velocità di trasformarsi a mezzo di contro-offensiva, una volta mutatosi in nocivo. Si tratta, quindi, di una continua rincorsa, di un processo iterativo e di interazioni reciproche bidirezionali, in una spirale in escalation cybersecurity-cyberterrorismo.

Le minacce del cyberterrorismo destinate a produrre un impatto sulla sicurezza psicologica sono numerose (per una rassegna esaustiva, cfr. Bazarkina-Pashentsev, 2020). Ci limiteremo a richiamarne alcune. La crescita di sistemi integrati e onnicomprensivi di IA: numerose infrastrutture – quali i sistemi di trasporto robotici ad autoapprendimento con gestione centralizzata basata sulla IA – possono diventare preziosi obiettivi per il terrorismo ad alta tecnologia. I terroristi, qualora assumano il controllo del sistema di gestione dei trasporti di una grande città, potrebbero causare numerose vittime, panico e creare un clima psicologico di ripiegamento su se stessi foriero di ulteriori azioni ostili.

Ancora, il ri-orientamento ad opera del terrorismo dei sistemi commerciali di IA e la creazione di deepfake (vocali e visive) possono colpire bersagli simbolici – tipicamente, leader politici e personaggi carismatici, ovvero icone culturali, religiose e centri di poteri –; sono capaci di produrre un impatto mediatico internazionale e danni alla reputazione; sono in grado di condizionare campagne politiche, di manipolare future elezioni e la politica globale, pregiudicando la stabilità geopolitica e la sicurezza psicologica.

Molto efficaci per il terrorismo sono anche le armi prognostiche – cioè metodi di analisi predittivi basati sulla IA e sui big data, che consentono di predire il futuro (disordini civili, epidemie, crisi economiche, risultati elettorali, ecc.) – a detrimento dell’avversario.

Conclusioni

Le varie politiche pubbliche per la sicurezza psicologica devono perciò agire ad ampio spettro: comunicazione, alfabetizzazione digitale, supporto psicologico, campagne di informazione, investimenti in ricerca e sviluppo delle tecnologie digitali nel campo della cybersecurity, investimenti in capitale umano, cooperazione, best practice, norme di diritto internazionale, aumento dello stock di dotazioni istituzionali, analisi predittive da parte di agenzie statali e sovranazionali per prevenire disordini sociali, crisi economiche, epidemie, failing States – nei cui numerosi gangli si insidia il terrorismo interno e sovranazionale.

Ciò allo scopo sia di circoscrivere il contagio della paura – tale contagio già di per sé costituisce un’arma – che si estende a macchia d’olio fra aree territoriali e sistemi-paese, settori produttivi, mercati finanziari e valutari, ecc.; sia di sviluppare margini crescenti di resilienza mentale e materiale (a difesa di infrastrutture nevralgiche di varia natura; di comparti produttivi, ad esempio, di quello agro-alimentare; in campo sanitario; nella protezione dei dati; contro le manipolazioni delle criptovalute; per la stabilità geopolitica, dei sistemi politici e di quelli istituzionali).

Con il depotenziamento del contagio della paura già un tratto di strada è guadagnato ai danni del cyberterrorismo.

 

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