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Diabete Mellito di tipo 1: implicazioni psicologiche e efficacia di un approccio integrato in ottica biopsicosociale

Lo psicologo ha un ruolo importantissimo nella gestione del diabete di tipo 1 (T1DM) con lo scopo di garantire l’adesione al programma di trattamento, sviluppare mezzi per affrontare lo stress, sviluppare capacità di autoregolazione e aiutare la famiglia a coordinare i propri sforzi.

 

Il diabete è una malattia endocrina cronica nella quale il corpo non è in grado di produrre o utilizzare correttamente l’insulina e si presenta in due forme primarie: diabete mellito di tipo 1 (T1DM) e diabete mellito di tipo 2 (T2DM). Il T1DM (o insulino-dipendente) rappresenta circa il 10% dei casi di diabete e insorge tipicamente nella tarda infanzia o nella prima adolescenza. Si tratta di una malattia autoimmune derivante dalla complessa interazione di una predisposizione genetica con fattori immunitari e cause ambientali non ancor ben chiare. La prevalenza del T1DM in Italia è compresa tra lo 0.04% e lo 0.1%.

Nel T1DM il sistema immunitario identifica erroneamente le cellule beta pancreatiche come invasori e le distrugge; ciò compromette o elimina la loro capacità di produrre insulina che è un ormone fondamentale per l’organismo poiché regola l’ingresso e l’utilizzo del glucosio nelle cellule. Il diabetico di tipo 1 è dunque particolarmente vulnerabile all’iperglicemia e, se non trattato, può incorrere nel coma o la morte.

I primi sintomi più comuni sono: minzione frequente, sete insolita, consumo eccessivo di liquidi, perdita di peso, affaticamento, debolezza, irritabilità, nausea, desiderio incontrollabile di cibo (soprattutto dolci) e svenimento.  L’imprescindibile terapia farmacologica consiste in somministrazioni quotidiane di insulina, ma è l’approccio integrato medico-psicologico a risultare il più efficace nella cura di questa patologia cronica.

Dal punto di vista psicologico, la comunicazione della diagnosi rappresenta un momento difficile per tutto il sistema familiare così come la gestione della malattia che provoca ansia stravolgendo equilibri relazionali e affettivi preesistenti, nonché le abitudini quotidiane. L’esordio della malattia rischia di diventare fonte di forte malessere e rilevanti problemi psicologici.

Le comuni reazioni alla diagnosi includono: ferita narcisistica, reazione depressiva, atteggiamento di rifiuto e negazione (che porta a banalizzare o addirittura trascurare la terapia quotidiana) e aumento della dipendenza. Nel caso dell’adolescente le cose si complicano maggiormente e occorre individuare nuovi approcci e linguaggi che non rispondono più soltanto ai problemi di ordine medico, ma tengono largamente conto della specificità di questo periodo critico di sviluppo biologico, psicologico e sociale. L’adolescente si confronta con il problema della propria identità, anche sessuale e con la formazione di un’immagine di sé e di un sistema relazionale a partire da un corpo che nel suo funzionamento è “carente”, questo può portarlo ad ignorare la patologia, con ricadute gravi sull’accettazione della terapia e la sua gestione.

Numerosi studi hanno dimostrato l’esistenza di un rapporto bidirezionale tra stato psicologico e controllo metabolico del diabete di tipo 1. Inoltre, una malattia cronica, insorta in età evolutiva, grava sullo sviluppo emozionale e rientra tra i fattori di rischio per lo sviluppo della personalità.

Stress e depressione minano la buona cura di sé e incidono negativamente sulla patologia del diabetico di tipo 1 che già di per sé presenta generalmente un profilo psicologico caratterizzato da livelli elevati di ansia, stress, ma anche sintomi depressivi.

L’evidente impatto di questa malattia sull’aspettativa e la qualità di vita e i costi sociali ed economici che da essa derivano hanno motivato numerosi tentativi di intervento di prevenzione primaria (tra cui l’intento di trattare la malattia nella fase autoimmune latente), ma allo stato attuale nessuna terapia si è dimostrata efficace. Risulta fondamentale, dunque, riflettere in chiave di prevenzione secondaria e terziaria; queste, pur non permettendo di evitare la comparsa della patologia, sono fondamentali per introdurre comportamenti adeguati richiamando la partecipazione attiva e significativa del paziente e del contesto in cui è inserito. La finalità risulta la promozione della salute volta a ridurre la gravità e la complicazione della patologia e a migliorare la qualità della vita.

Il fatto che l’esordio del diabete induca uno sconvolgimento tipico delle situazioni di crisi, con conseguente dolore mentale, ha condotto l’American Diabetes Association a ritenere necessaria una valutazione psicosociale preliminare nella gestione della patologia; uno screening in tal senso non si deve limitare agli atteggiamenti nei confronti della malattia, ma va esteso anche alle aspettative sulle cure e sull’evoluzione della stessa e alla qualità di vita in generale.

Sarebbe preferibile inserire il trattamento psicologico tra le cure di routine, ma rimane comunque necessario eseguire uno screening per problemi psicosociali (depressione, disturbi comportamento alimentare, deterioramento cognitivo ecc.) in tutti i casi in cui l’adesione ai regimi terapeutici è mediocre. Sottolineare l’importanza di valutazione e sostegno psicologico nei piani di cura del diabete fa emergere la convinzione che il benessere psichico sia parte fondamentale della gestione di questo tipo di malattia.

Il coinvolgimento attivo del paziente è essenziale dato che uno stretto controllo dei livelli di glucosio, la corretta alimentazione, il controllo del peso, l’attività fisica, l’astensione dal fumo e l’educazione terapeutica possono fare una grande differenza nella progressione della malattia e riducono di oltre il 50% la probabilità e la progressione dei disturbi correlati al diabete (malattie agli occhi, malattie renali, disturbi nervosi, malattie cardiovascolari ecc.). Sfortunatamente l’adesione ai programmi di autogestione è molto bassa, tanto che solo il 15% dei pazienti sembra aderire alle raccomandazioni terapeutiche; da qui l’utilità che il bambino e l’adolescente con diabete siano seguiti da un team con una formazione specifica anche in direzione psicologica. Le caratteristiche di cronicità del T1DM e le notevoli ripercussioni psicosociali fanno sì che un approccio globale e integrato verso il paziente, che comprenda interventi psicosociali e comportamentali da integrare con quelli medici, sia da considerarsi una necessità essenziale. La letteratura recente ha dimostrato che fattori relativi alle dinamiche familiari sono fondamentali nel trattamento e nella gestione del diabete: alti livelli di coesione familiare, comportamento di sostegno e risoluzione dei problemi in gruppo sono associati ad un miglior regime di aderenza e controllo glicemico (oltre a migliorare significativamente le relazioni), mentre la conflittualità e un inadeguato monitoraggio da parte dei genitori sono fattori di rischio per uno scarso controllo e cura di sé.

Risulta fondamentale uno specifico spazio di intervento psicologico, per il paziente e i familiari, volto alla gestione dell’impatto della diagnosi e del disagio emotivo conseguente; ad esplorare il significato della malattia e monitorarne l’elaborazione psichica; individuare i bisogni e le emozioni; identificare le risorse interiori disponibili e promuovere l’accettazione della malattia e infine migliorare l’adesione al trattamento tramite interventi psico-educazionali.

Lo psicologo ha dunque un ruolo importantissimo nella gestione del T1DM con lo scopo di garantire l’adesione al programma di trattamento, sviluppare mezzi per affrontare lo stress, sviluppare capacità di autoregolazione e aiutare la famiglia a coordinare i propri sforzi. Fornisce al paziente, ma anche agli altri componenti del sistema, uno spazio dove poter esprimere ognuno il proprio disagio, ricevere supporto, ma anche l’opportunità di acquisire nuove strategie di coping e senso di autoefficacia.

Più in generale l’orientamento di cura del diabete di tipo 1 consiste in un approccio medico-psicologico integrato, centrato sull’individuo nella sua globalità somato-psichica e in un intervento che includa, ove necessario, la famiglia e l’ambiente sociale in cui egli è inserito.

 

Manuale di Sopravvivenza per Genitori (2020) – Recensione del libro

Le autrici hanno sviluppato un libro per genitori di facile comprensione, inserendo esempi concreti, possibili scenari, suggerendo strategie facilitanti ed efficaci all’acquisizione di comportamenti funzionali e adattivi all’ambiente di vita del bambino.

 

La volontà esplicita di questo manuale è sin da subito quello di affrontare l’argomento con grande capacità, fornendo in modo chiaro nozioni generali necessarie per capire appieno il tema trattato. Una narrazione che comprende la capacità dei genitori di instaurare una relazione con i figli favorendo quella che in ambito terapeutico viene definita alleanza.

L’alleanza è lo spazio che intercorre fra due persone e si caratterizza per la condivisione e la fiducia che si crea fra le persone coinvolte. E’ attraverso l’alleanza e la relazione che ne consegue che si assiste a quel processo di genitorialità capace di prendersi cura e di rispondere in modo sufficientemente adeguato ai bisogni dei figli, bisogni che sono estremamente diversi a seconda della fase evolutiva (Levin, 1984).

Con domande dirette, le autrici si interrogano sull’operato dell’adulto in famiglia, spingendolo a diventare un genitore preparato e attento non solo a rispondere ad esigenze cognitive e sfide quotidiane, ma anche ad osservare il mondo emotivo del bambino, privilegiando il benessere nella sua dimensione globale

Una guida utile per affrontare il problema in qualità di genitori in rapporto alle fasi evolutive del bambino. Infatti, vengono illustrate modalità per fronteggiare l’agire in divenire del bambino con una precisa consapevolezza e pragmaticità.

La diversa formazione teorica delle autrici conferisce al libro una multisettorialità che ben si incastra nella confezione degli esempi pratici di cui il manuale è ricco. L’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali è sorretto dall’applicazione di un principio basilare della scuola cognitiva: la mentalizzazione. L’accesso e l’utilizzo di abilità cognitive e metacognitive, come il decentramento (assunzione di una prospettiva diversa dalla propria) consentirà a chi usufruirà di questa lettura di poter espletare nel miglior modo possibile quelli che sono gli obiettivi primari: la conoscenza del bambino come individuo e, come tale, con le sue peculiarità, con alcuni punti di forza consolidati e altri ancora in crescita.

L’adozione di un approccio sistemico familiare, in supporto all’elaborazione di tale manuale permette inoltre di cogliere la famiglia nella sua complessità e al di là di ogni semplificazione, sia come sistema relazionale in continuo interscambio con l’ambiente esterno, sia come spazio primario nel quale l’individuo costruisce la propria identità, cresce e cambia (Paolo Gambini, 2007).

L’adulto è chiamato a svolgere una funzione importante, quella che Bruner definisce scaffolding e Bowlby base sicura. Ruolo fondamentale dei genitori, per Bowlby, è quindi quello di fornire una Base Sicura ai propri figli, permettendogli una progressiva autonomizzazione ma considerando che essi necessitano costantemente del sostegno parentale. (John Bowlby, 1989)

Bruner nel 1976 utilizzò per primo, insieme a Wood e Ross  il termine scaffolding (“impalcatura”) in un articolo pubblicato dal Journal of Child Psychology and Psychiatry.

Il concetto fu utilizzato come metafora dell’intervento della persona esperta che aiuta quella meno esperta (il bambino) nella risoluzione di un problema o di un compito che da solo non riuscirebbe a portare a termine. L’adulto rappresenta dunque il cardine nell’acquisizione da parte del bambino di abilità sempre più sofisticate ed evolute.

Una parte importante del libro è dedicata infine alle emozioni, al loro ruolo nel nostro mondo interno e interpersonale. Viene messo in risalto dalle autrici la loro funzione nella regolazione e sintonizzazione emotiva di tutti quei momenti di vita, specialmente tra genitori e figli, e

che consentono al bambino di sapere che le sue emozioni incontrano l’empatia dell’altro, sono accettate e ricambiate. (Stern, 1985)

Un contenuto ricco di sostanza, risposte pratiche ai quesiti che gli adulti potrebbero porsi di fronte a nuove sfide e passaggi generazionali. Grazie all’ottima penna e alla brevità dei capitoli la lettura risulta scorrevole e piacevole, una fonte valida d’informazione, un manuale per i genitori per aiutarli a raggiungere una migliore consapevolezza del proprio stato interno e di comprendere quello dei loro bambini. La consapevolezza genera infatti la possibilità di scegliere, e in questo caso si tratta di scegliere la risposta più adeguata al momento evolutivo in atto. Altresì, il libro si presta a diventare un’ottima guida per psicologi, psicoterapeuti e per le diverse figure professionali che lavorano con il bambino e la famiglia. Uno strumento e un metodo che permette di guidare le relazioni familiari, supportare il genitore all’educazione emotiva del proprio figlio e a migliorare le dinamiche di interazione adulto-bambino.

 

L’importanza della cura di sé per i professionisti del campo della salute mentale

L’articolo mette in luce quali potrebbero essere le strategie necessarie per poter proteggere i professionisti della salute mentale dal rischio di burnout, tra queste emergono le tecniche di mindfulness.

 

Al giorno d’oggi, si è ancora soliti sottovalutare il lavoro dei professionisti del campo della salute mentale quando, in realtà, la pandemia di Covid-19 ha rivelato quanto esso possa essere necessario, nonché particolarmente stressante, determinando un incremento del rischio di burnout (Luther et al., 2017).

Difatti, a causa della naturale propensione al voler aiutare il maggior numero possibile di clienti, i clinici costituiscono una popolazione particolarmente vulnerabile per questo fenomeno.

Rokach e Boulazreg (2020) si sono proposti di effettuare una revisione sistematica, al fine di poter richiamare l’attenzione su alcuni dei principali pericoli connessi all’ambito clinico e, allo stesso tempo, mettendo in luce quali potrebbero essere le strategie necessarie per poter proteggere questi professionisti dal rischio di burnout.

È bene specificare come, a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, i clinici possono incorrere nel rischio di isolamento sia fisico che emotivo. Difatti, il trattamento prevede che il terapeuta riceva i pazienti per tutto il giorno, in sessioni consecutive, determinando quasi l’assenza di un contatto con le persone del “mondo esterno”; dunque, non sorprende che l’isolamento e la solitudine siano tra i principali rammarichi degli operatori (Gündoğan, 2017).

Il terapeuta, inoltre, essendo impegnato costantemente nelle differenti sedute, rischia di non essere informato rispetto alle notizie quotidiane, il che è abbastanza paradossale in questa era caratterizzata da notifiche immediate (Rokach, 2019).

Ulteriormente, è la stessa stanza di consultazione ad essere isolante e, se si aggiunge l’insufficiente movimento fisico esercitato dal terapeuta quotidianamente, ciò potrebbe determinare una vera e propria deprivazione ambientale.

Di fronte a questi fattori di stress, la frustrazione da parte del clinico cresce e, specialmente per i novizi nel campo, la capacità di essere autentici, mentre si presta attenzione al cliente, può diminuire (Levitt & Jacques, 2005).

Paradossalmente, nonostante l’intenso contatto relazionale che caratterizza la pratica psicoterapeutica, l’isolamento emotivo viene sperimentato da molti terapeuti (Rokach & Sha’ked, 2013). Concentrarsi esclusivamente sui clienti lascia poco spazio, se non nullo, per dar voce alle emozioni e ai bisogni del clinico. Infatti, si è soliti aspettarsi che lo psicoterapeuta sia in grado di mettere da parte le sue preoccupazioni personali, al fine di agire “nel migliore interesse del cliente”. Pope e Tabachnick (1993) hanno scoperto che l’80% dei terapeuti che sperimentano ansia e rabbia durante il loro lavoro hanno dichiarato di dover essere in grado di contenerli ed evitare di condividerli.

Andando oltre, non si può sottovalutare il fatto che i terapeuti abbiano a che fare principalmente con popolazioni patologiche, la cui percezione delle persone o della società talvolta appare distorta (Pearlman & Saakvitne, 1995).

La letteratura indica che ben il 50% di tutti gli psicoterapeuti vengono molestati o addirittura attaccati fisicamente da un cliente nel corso della loro carriera (Pope & Tabachnick, 1993). Naturalmente, tali attacchi possono aumentare la vulnerabilità personale, diminuire il benessere emotivo e incrementare i dubbi sulle proprie competenze (Hill et al., 2003).

Talvolta ci si dimentica che i clinici, prima di essere professionisti, sono persone e, come tali, non sono esenti da eventi di vita personali che potrebbero incrementare in loro una significativa angoscia. Può accadere che le terapeute decidano di non comunicare ciò che accade nella loro vita privata, per esempio, quando restano incinte (Miller & Giffin, 2019), nutrendo un senso di colpa dovuto al solo fatto di essere in dolce attesa. La mancata comunicazione può portare ad una stanchezza mentale che potrebbe compromettere l’efficacia del professionista (Bienen, 1990).

L’atteggiamento appena descritto viene talvolta generato dalla credenza di dover essere perfetto, che caratterizza molti professionisti nel campo della salute mentale. Fu Albert Ellis che per primo decise di esplorare le credenze irrazionali tipiche degli psicoterapeuti (Ellis & Grieger, 1977) e il suo lavoro suggerì che spesso i terapeuti si trovano a mettere in atto proprio quei comportamenti che solitamente cercano di estinguere nei loro pazienti.

Sulla base di quanto appena esposto, appare dunque necessario per questi professionisti esercitare una maggior cura personale.

Sebbene la ricerca sull’autocura sia aumentata intorno agli anni ‘70 (Levin, Katz, & Holst, 1976), la sua concettualizzazione iniziale ha suscitato un dibattito tra gli operatori sanitari. Difatti vi era, e vi è ancora, chi ritiene che tale pratica sia de-professionalizzante, narcisistica e inaccettabile (Segall & Goldstein, 1989).

In realtà, essendo la psicoterapia una vocazione impegnativa, irta di rischi professionali, bisognerebbe iniziare il processo di auto-cura stabilendo aspettative realistiche, rendendosi conto che è normale sentirsi stanchi e sopraffatti. È importante riconoscere gli eventi stressanti ed è altrettanto essenziale rendersi conto che essi sono condivisi dalla maggior parte, se non da tutti, i terapeuti.

A volte, questa consapevolezza potrebbe essere raggiunta attraverso la supervisione. Sarà dunque necessario essere inseriti all’interno di un team di professionisti che possano condividere il carico di lavoro ed alleggerire così il peso di ogni membro coinvolto.

Allo stesso tempo, la cura di sé dovrà essere personalizzata. Questo implicherà sapersi prendere cura del proprio corpo attraverso una dieta adeguata, un sonno abbondante, esercizio fisico e le interazioni significative con gli altri.

L’autoconsapevolezza è il precursore di qualsiasi tentativo atto a ridurre lo stress, motivo per cui dev’essere una caratteristica distintiva del clinico (American Psychiatric Association, 2010).

Essa può essere raggiunta in diversi modi, tra cui la mindfulness, che implica una focalizzazione deliberata e non giudicante dei pensieri e/o delle sensazioni corporee nel momento presente.

Le pratiche di mindfulness determinano innumerevoli benefici legati al benessere, alla prevenzione del burnout e alla cura di sé (Norcross & VandenBos, 2018).

Wise, Hersh e Gibson (2012) hanno coniato un modello che sottolinea la necessità di guardare gli aspetti positivi dell’occupazione, l’importanza di accettare potenziali debolezze e promettere a sé stessi di cambiare l’atteggiamento per affrontare le suddette e l’importanza di essere coerenti e di creare routine che implichino la cura di sé.

Concludendo, con questo articolo si è voluto mettere in luce come la pratica clinica, al pari di altre professioni, celi innumerevoli rischi ai quali gli operatori potrebbero sfuggire mettendo in atto una maggior cura personale, smettendo di vedere quest’ultima come un atteggiamento narcisistico, bensì come una pratica necessaria al benessere personale e all’efficacia professionale.

 

Di catcalling e pappagallismo: la molestia di strada

Fischi, battute sessiste, allusioni sessuali, domande invadenti, insulti offensivi, suoni di clacson, inseguimenti per strada o in macchina. Sono l’insieme di molestie di strada, ribattezzate in inglese con il termine catcalling e in italiano rese dal termine pappagallismo.

 

Nell’ottobre del 2014, il gruppo di attivisti per la violenza domestica “Hollaback!” ha pubblicato un video su YouTube per evidenziare la prevalenza delle molestie di strada e la conseguente oggettificazione del corpo femminile. Attraverso le riprese di una telecamera nascosta, si osserva la giornata di una giovane donna, in jeans e maglietta nera a girocollo, che cammina per le strade di New York per dieci ore. Nel corso della giornata, la telecamera ha registrato oltre 100 casi di comportamento oggettivante diretto verso di lei, comprese offese verbali, commenti volgari, sguardi fissi, ammiccamenti, fischi e gesti rudi. Questo video, diventato rapidamente virale – al momento conta 50 milioni di visualizzazioni su YouTube – descrive con chiarezza il fenomeno del catcalling (Holland, Koval, Stratemeyer, Thomson, & Haslam, 2017).

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

10 HOURS OF WALKING IN NYC AS A WOMAN – Guarda il video:

Origine del termine

Fischi, battute sessiste, allusioni sessuali, domande invadenti, insulti offensivi, suoni di clacson, inseguimenti per strada o in macchina. Sono l’insieme di molestie di strada, ribattezzate in inglese con il termine catcalling per rievocare i versi emessi per attirare (call) l’attenzione dei gatti (cat). In realtà, all’origine di questa espressione ci sarebbe uno strumento, il “catcall”, utilizzato nel teatro inglese nel XVII secolo; era una sorta di fischietto che il pubblico impiegava per esprimere disapprovazione, rispetto allo spettacolo o agli attori, attraverso un suono stridulo e sgradevole, come il verso di un gatto (cat) arrabbiato.

Si parla anche di “stranger harassment” perché è una tipologia di molestia che implica interazioni brevi e unilaterali in luoghi pubblici (per esempio, strade, mezzi di trasporto, parchi pubblici) caratterizzate dal fatto che la vittima e l’autore del catcalling non si conoscono (Fairchild e Rudman, 2008).

In italiano potrebbe essere reso dal termine pappagallismo che, secondo il Treccani, rimanda al comportamento proprio di chi, in modo insistente e grossolano, importuna le donne per la via (i cosiddetti “pappagalli della strada”), ma la sostanza non cambia: si tratta di una molestia a sfondo sessuale, perpetrata ai danni di donne e ragazze, da parte di passanti di sesso maschile di tutte le età.

Dati allarmanti

Uno studio interculturale ideato dal movimento Hollaback! e dalla Cornell University, condotto in 22 paesi su oltre 16.000 donne, ha rilevato che l’84% subisce per la prima volta molestie di strada prima dei 17 anni (Hollaback!, 2016). Rispetto al contesto nazionale, il 69% delle donne italiane intervistate ha dichiarato di essere stata pedinata da un uomo o da un gruppo di uomini e conseguentemente di essersi sentita in pericolo, e più della metà delle intervistate ha dichiarato di aver subito carezze e palpeggiamenti indesiderati da parte di sconosciuti. A conferma di questi dati, l’ultima indagine Istat sulla percezione della sicurezza stradale, che risale al 2018, delinea un quadro preoccupante: quasi 4 donne su 10, una percentuale pari al 35%, non si sentono al sicuro quando escono di casa da sole nelle ore serali e infatti ben il 36, 6% di loro non escono da sole di notte per paura.

Complimento o molestia?

In mancanza di chiari segnali di disponibilità, ossia in mancanza del consenso dell’altra persona, ogni commento non richiesto rivolto all’aspetto fisico, all’abbigliamento o all’atteggiamento della vittima, ogni fischio e ogni strombazzata dall’auto, ogni invasione del proprio spazio personale con avvicinamenti e pedinamenti sospetti, costituiscono delle vere e proprie molestie, ai danni di donne sconosciute, incrociate casualmente per strada.

Per dirlo con le parole di Michela Murgia in Stai zitta (2021),

non è un playboy quello che fa un complimento da una macchina, ma un estraneo convinto di avere il diritto di esprimere sul tuo corpo un parere che non gli hai assolutamente richiesto.

Il tentativo di sminuire la portata del catcalling e ridurlo a tentativo maldestro di approccio, alla stregua di un goffo complimento, implica ignorare le norme sociali che regolano gli scambi di corteggiamento.

Per conoscere e approcciare qualcuno, esistono contesti e momenti di socializzazione adeguati, soprattutto modalità rispettose dell’altro, che implichino un chiaro consenso.

Il flirt è un gioco relazionale che avviene all’interno di un contesto chiaro e leggibile da entrambi i partner, durante il quale l’espressione di un complimento è accettabile in quanto parte dell’intento relazionale, cioè volto a manifestare interesse e apprezzamento per l’altra persona. Nel catcalling, invece, non c’è un contesto riconoscibile e manca il consenso da ambo le parti in quanto si tratta di un’attenzione indesiderata unilaterale, da parte di uno sconosciuto verso una passante che, in quel momento, non esiste in quanto persona, ma come preda sessuale di sesso femminile.

Nella società italiana, l’espressione del consenso mediante chiari segnali di disponibilità costituisce un tema spinoso in quanto spesso non ritenuto un elemento importante e decisivo nell’interazione sociale e sessuale, per cui il rifiuto dello scambio stesso genera rabbia e frustrazione da parte degli uomini. Inoltre, è comune, purtroppo anche tra le donne, romanticizzare la molestia definendo l’uomo molestatore incrociato per strada come un corteggiatore maldestro e l’atto del catcalling come un’attenzione lusinghiera di cui andare fiere; tutto ciò è molto pericoloso perché significa legittimare questi atti chiaramente discriminatori, espressione di una mentalità sessista e svalutante.

In realtà, qualsiasi attenzione sessuale indesiderata rivolta a donne sconosciute, incontrate per strada, attraverso comportamenti verbali e fisici, costituisce una molestia perché non ha nulla a che fare con un tentativo consensuale di corteggiamento, motivato dal piacere e dall’apprezzamento per l’altra persona, bensì costituisce una manifestazione della violenza di genere, motivata dalla volontà di prevaricazione verso il sesso femminile. Durante il catcalling si cerca di ristabilire le dinamiche di potere uomo-donna, di mantenere alto il vessillo della mascolinità davanti al gruppo di amici, e non si tratta di rivolgere un complimento sincero alla passante di turno.

In Italia, così come in molti altri paesi, questo fenomeno non è ancora considerato un reato, complice la tendenza comune a ritenere che qualificare tentativi di approcci in strada come comportamenti penalmente perseguibili sia lesivo della libertà individuale di avanzare proposte ai fini del corteggiamento.

Tuttavia, come ha precisato la dott.ssa Andreoli nel corso del suo intervento al Tempo delle Donne 2020, che cosa sia identificabile come molestia o meno è un fatto, in quanto presenta delle caratteristiche chiare, codificabili e ripetibili, e perciò non può diventare un argomento lasciato alla sensibilità individuale o all’opinione personale:

che cosa sia l’invasione della dignità, dello spazio, della libertà, del corpo di una persona non può essere oggetto di dibattito.

L’oggettivazione sessuale

La teoria dell’oggettivazione sessuale funge da quadro utile per la comprensione degli effetti del catcalling così come di altre forme di molestie sessuale. Proposta per la prima volta da Fredrickson e Roberts nel 1997, questa teoria mira a spiegare gli effetti del vivere in un contesto socioculturale in cui le donne sono costantemente oggettivate sessualmente, oppure ridotte a corpi da usare e/o valutare, piuttosto che essere considerate come persone a pieno titolo. Nell’ambito di questa teoria, il catcalling può essere considerato a tutti gli effetti come una forma di oggettivazione sessuale interpersonale (Fisher, Lindner & Ferguson, 2017)

Nonostante l’oggettivazione sessuale possa esprimersi in una pluralità di forme, oltre le attenzioni sessuali indesiderate sperimentate nelle molestie di strada, (come la pornografia, i massmedia e le pubblicità),

il filo conduttore che attraversa tutte le forme di oggettivazione sessuale è l’esperienza di essere trattati come un corpo (o un insieme di parti del corpo ) valutato prevalentemente per il suo utilizzo (o il consumo da parte di) altri. (Fredrickson & Roberts, 1997, p. 174)

La reiterazione di tali esperienze e la continua esposizione all’oggettivazione sessuale portano le donne a interiorizzare una visione oggettivata del proprio corpo, anche detta auto-oggettivazione, con conseguente spiacevoli: l’auto-oggettivazione è associata a sentimenti di vergogna per il proprio corpo, a un monitoraggio costante del proprio aspetto esteriore e a disagio psicologico (ad es. Fuller-Tyszkiewicz et al. 2012; Kozee et al. 2007; Szymanski e Feltman 2014), in particolare si riscontrano sintomi di disturbi alimentari, depressione e disfunzione sessuale (ad esempio, Calogero 2009; Calogero e Thompson 2009; Lindner et al. 2012; Noll e Fredrickson 1998; Tiggemann e Kuring 2004).

Le conseguenze psicosociali della molestia di strada

Diversi studi hanno documentato gli effetti psicologici avversi del catcalling: una cattiva immagine corporea, sintomi di ansia e depressione, un decremento nella percezione di sicurezza e un incremento del timore dello stupro (ad esempio, Davidson et al. 2016, 2015; Fairchild e Rudman 2008; MacMillan et al. 2000; McCarty et al. 2014; Schneider et al. 1997).

Le molestie in strada da parte di estranei possono indurre delle importanti modificazioni comportamentali. Una delle conseguenze più frequenti del catcalling è infatti l’evitamento: cambiare strada e percorso, non prendere più quel mezzo di trasporto, evitare posizioni geografiche particolari, non frequentare determinati luoghi, non uscire di sera e di notte (Livingston, 2015). A tal proposito, secondo lo studio condotto da Hollaback! nel 2016, più dell’88% delle donne italiane ha riportato di prendere una strada diversa per tornare nella propria abitazione per timore di incorrere in una molestia.

L’impatto emotivo fortemente negativo ha accomunato tutte le intervistate alla presente indagine (Hollaback, 2016): secondo i dati elaborati dal gruppo di ricerca, l’essere molestate verbalmente per strada evoca forti reazioni di rabbia, paura e ansia; queste iniziali reazioni emotive possono condurre a effetti a lungo termine quali depressione e bassa autostima. La principale reazione emotiva è sicuramente la paura, che conduce ad attuare manovre di evitamento che limitano fortemente l’espressione libera e personale nella vita quotidiana.

Similmente, un recente studio di O’Leary (2016) ha riportato che la maggior parte delle donne descrive il catcalling come scortese o offensivo e che le risposte emotive più frequenti comprendono la rabbia, l’essere infastiditi, imbarazzati e sentirsi a disagio e/o nervosi.

Spesso le donne elaborano tecniche e strategie per evitare situazioni potenzialmente rischiose e sentirsi meno vulnerabili alla vittimizzazione: ad esempio, indossare occhiali da sole, un cappuccio della giacca, vestirsi “in modo” semplice o rendersi meno attraenti; o anche assumere posture particolari per sembrare cattive, per esempio spalle fisse o faccia accigliata (Escove, 1998). Appare chiaro che il rischio di subire una molestia e/o averla già subita influenza pesantemente le donne nel quotidiano, dalla scelta di cosa indossare alla valutazione su quale strada prendere e in che fascia oraria uscire.

La maggior parte delle donne risponde alle molestie di strada con comportamenti non assertivi, come evitare il contatto visivo o ignorare completamente l’autore se chiamate in causa (Fairchild & Rudman, 2008; Folkman, Lazarus, Gruen, & DeLongis, 1986; Magley, 2002), che possono portare ad atteggiamenti auto-colpevolizzanti (si parla di victim blaming) come una forte vergogna e critica del proprio aspetto fisico ed estetico e una tendenza all’auto oggettivazione sessuale (Calogero e Jost, 2011; Fairchild e Rudman, 2008). Anche Escove (1998) ha riportato che i comportamenti più comunemente usati per rispondere ai molestatori consistono in metodi passivi o meno diretti, come ignorare lo sconosciuto, dare risposte non verbali (come lanciare occhiate piccate), e spostare la direzione del proprio corpo, allontanandosi dal molestatore.

StandUp!

Nell’attesa di un provvedimento legislativo che definisca a chiare lettere la molestia di strada, un importante progetto internazionale ideato da Hollaback! e L’Oréal Paris è stato avviato anche in Italia grazie alla collaborazione del Corriere della Sera e dell’Associazione Alice Onlus: si tratta di Stand Up, un programma di formazione e sensibilizzazione contro le molestie in luoghi pubblici che offre a donne e uomini informazioni chiare su come prendere posizione in maniera sicura quando subiscono o sono testimoni di un atto di molestia.

Appena il 25% delle donne vittime di molestia sessuale in luogo pubblico afferma di essere stata aiutata da qualcuno e l’86% non sa cosa fare quando è testimone di un episodio di molestia. Sono i risultati di una ricerca internazionale, condotta nell’Aprile del 2019 da Ipsos in collaborazione con i ricercatori della Cornell University e L’Oréal Paris, che ha coinvolto oltre 15.000 partecipanti di tutte le età, provenienti da 8 paesi differenti.

È qui che interviene il corso di formazione online di circa un’ora, basato sul metodo delle 5D’s di Hollaback!: Distrarre, Delegare, Documentare, Dare sostegno e Dire. Nel corso del webinar online, della durata di un’ora, vengono forniti degli strumenti pratici e sicuri con cui intervenire durante una molestia: si può distrarre (per esempio, avviando una conversazione fingendo di essere un amico della persona molestata), delegare (parlare con qualcuno, chiedere l’intervento di una persona che detiene l’autorità come il conducente del mezzo), documentare (filmare la molestia e/o fare da testimone in caso di denuncia), dare sostegno (parlare per verificare se la vittima sta bene e confortarla) o affrontare il molestatore direttamente a parole (dire).

In conclusione, a causa della normalizzazione e della mancanza di conseguenze legali per gli estranei che attuano molestie di strada, il catcalling continua a verificarsi con un ritmo costante. Questa subdola forma di molestia è talmente pervasiva nella vita pubblica da far parte radicalmente del tessuto sociale italiano e sarà quindi molto difficile sradicarla senza un’adeguata sensibilizzazione e formazione.

 

 

 

Insonnia e disturbi psichiatrici: l’efficacia del trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia

Quando si parla di insonnia si fa riferimento a difficoltà di addormento, di mantenimento del sonno (frequenti risvegli notturni o problemi a riaddormentarsi una volta svegli) o risvegli precoci al mattino con incapacità di riaddormentarsi.

Paola Maneri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Tali difficoltà risultano presenti nonostante condizioni favorevoli all’addormentamento. Ma perché si possa parlare di insonnia è necessario che quanto appena descritto comprometta il funzionamento della persona nella vita quotidiana e che si verifichi più di tre volte a settimana per almeno tre mesi (APA – American Psychiatric Association, 2013).

Relativamente alle cause dell’insonnia, Spielman (1987) parlò di tre tipologie di fattori: fattori predisponenti, cioè condizioni (per esempio lavorare su turni) o tratti individuali (familiarità, genere femminile) che incrementano la vulnerabilità o la predisposizione all’insonnia; i fattori precipitanti, ovvero forme di stress acuto, come cambiamenti lavorativi o del proprio stile di vita o l’insorgenza di una patologia medica o psichiatrica, che conducono all’esordio dell’insonnia; infine, i fattori perpetuanti sono quelli implicati nel mantenimento dell’insonnia, ad esempio le eccessive preoccupazioni per il sonno o abitudini e comportamenti disfunzionali messi in atto per compensare l’insonnia.

Nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013) l’insonnia è riportata sia come condizione indipendente (Disturbo da insonnia) sia come criterio diagnostico di alcuni disturbi psichiatrici, per esempio disturbi depressivi e disturbi d’ansia, ma viene comunemente osservata anche in altri disturbi che non la annoverano tra i criteri diagnostici.

Fino a poco tempo fa si distingueva l’insonnia primaria, la quale si presenta in forma indipendente e autonoma, dall’insonnia secondaria che invece si ha quando consegue a condizioni mediche o psichiatriche. Effettivamente, in alcuni pazienti l’insonnia rappresenta una difficoltà del sonno secondaria a una condizione coesistente e in casi del genere ci si aspetta che la terapia rivolta a quest’ultima riduca o elimini del tutto l’insonnia. Laddove, invece, la relazione tra insonnia e disturbo concomitante venga vista come apparente ci si aspetta che la terapia mirata al disturbo psichiatrico o medico coesistente abbia un effetto minimo o nullo nei confronti delle problematiche del sonno. In molti casi succede che i disturbi in comorbidità si aggravino e si mantengano reciprocamente. Tuttavia, oggi, il concetto di insonnia secondaria è stato sostituito da quello di insonnia in comorbidità, in quanto, quest’ultimo, riesce meglio a chiarire la posizione di indipendenza dell’insonnia stessa e ad assicurare, dunque, tale separazione anche in merito al trattamento (Sánchez-Ortuño & Edinger, 2012).

L’insonnia in comorbidità è maggiormente diffusa rispetto a quella primaria e inoltre risulta essere più persistente e legata a conseguenze più importanti rispetto all’insonnia primaria. Ciò è spiegato dal fatto che spesso l’insonnia, quando non trattata separatamente, interferisce con la gestione del disturbo concomitante e permane come sintomo residuo anche dopo il successo del trattamento di quest’ultimo, aumentando il rischio di ricadute o, in casi più gravi, di suicidio (Edinger et al., 2009).

La Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Insonnia (CBT-I) rappresenta il trattamento di prima linea per l’insonnia cronica. Si tratta di una terapia non farmacologica che può essere condotta individualmente, in gruppo o anche online. Essa comprende tecniche cognitive e comportamentali che hanno come obiettivo la modifica dell’insieme di credenze errate sul sonno e relativi comportamenti disfunzionali che contribuiscono al mantenimento del disturbo. Tra le tecniche comportamentali troviamo: la Tecnica del Controllo dello Stimolo (Stimulus Control Therapy, SCT) il cui scopo è quello di ristabilire l’associazione tra camera, letto e sonno riducendo i comportamenti svolti nello stesso ambiente (la camera da letto) ma non compatibili con l’addormento; la Tecnica della Restrizione del Sonno (Sleep Restriction Therapy, SRT), attraverso una parziale deprivazione di sonno, ha l’obiettivo di ridurre il tempo che la persona trascorre a letto e regolarizzare il ritmo sonno-veglia. Le tecniche cognitive puntano all’identificazione e alla modifica delle credenze disfunzionali riguardanti il sonno che interferiscono con la predisposizione e il processo di addormentamento. La CBT-I include anche Tecniche di Rilassamento (Relaxation Therapies, RT), particolarmente indicate per pazienti che hanno difficoltà a rilassarsi, le quali mirano a ridurre gli stati di attivazione incompatibili con il sonno favorendo uno stato di calma sia al livello fisiologico che mentale. Sono inoltre importanti le istruzioni di igiene del sonno consistenti in una serie di comportamenti che favoriscono una maggiore qualità ed efficacia del sonno stesso e che quindi si prefissano di contrastare quelle abitudini ostacolanti l’addormentamento, per esempio l’assunzione di sostanze stimolanti o cercare di dormire in un ambiente non adeguato (Schoenfeld, 2012).

La CBT-I produce miglioramenti del sonno paragonabili a quelli ottenuti con il trattamento farmacologico con ipnoinducenti durante le fasi acute (4-8 settimane) ed è legata a una maggior durata degli effetti alla fine del trattamento (Smith & Perlis, 2006; Jansson-Fröjmark & Norell-Clarke, 2016).

A questo punto è lecito chiedersi: la CBT-I è efficace quando l’insonnia è in comorbidità con altri disturbi psichiatrici? E se sì, in che misura?

Inizialmente l’efficacia della CBT-I è stata determinata da studi in cui il trattamento veniva testato su pazienti con insonnia primaria e quindi non in comorbidità con altri disturbi. Diversi studi clinici dimostrano, però, che pazienti con insonnia cronica in comorbidità con diagnosi mediche o psichiatriche, tra cui dolore cronico, HIV, depressione, disturbo da stress post-traumatico (DSPT) e dipendenza da alcol, mostrano miglioramenti nel sonno quando trattati con CBT-I (Smith & Perlis, 2006). Ancora, la CBT-I in persone con insonnia e deliri di persecuzione persistenti non solo ridurrebbe le difficoltà relative al sonno, ma anche la paranoia. Tuttavia, è solo dal 2006 che questa terapia è stata riconosciuta come utile ed efficace per l’insonnia in comorbidità, a seguito di una pubblicazione dell’American Academy of Sleep Medicine (AASM) in cui sono stati presi in considerazione una serie di studi che analizzavano pazienti affetti da insonnia con comorbidità mediche o psichiatriche (Sánchez-Ortuño & Edinger, 2012). Risultati più recenti assocerebbero la CBT-I con miglioramenti della sintomatologia in comorbidità (Jansson-Fröjmark & Norell-Clarke, 2016). Ad ogni modo, il clinico dovrebbe sempre avere bene in mente la maggiore complessità data da un quadro clinico che presenta simultaneamente l’insonnia e un disturbo psichiatrico. Per tali ragioni, sarebbe opportuno ricorrere alla CBT-I in combinazione con un trattamento evidence-based, farmacologico o psicologico, per lo specifico disturbo psichiatrico concomitante.

Nonostante ad oggi non siano presenti sufficienti dati di efficacia riguardanti la CBT-I per determinati disturbi psichiatrici, verranno di seguito riportati i risultati finora ottenuti, seppur con diversi limiti, riguardanti in particolar modo la numerosità sia degli studi in merito sia dei campioni presi in esame. Nello specifico, l’insonnia è stata valutata in comorbidità con depressione, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, psicosi e schizofrenia e DSPT.

Depressione

Alcuni studi sperimentali hanno riportato che la perdita di sonno può provocare alterazioni sia al livello cognitivo che affettivo le quali, a loro volta, aumentano il rischio di sviluppare qualche forma di depressione. Ciò è determinato dal fatto che i disturbi relativi al sonno compromettono la regolazione e la stabilità emotiva e possono altresì alterare i processi neurali provocando l’insorgenza della depressione (Li et al., 2016).

Difficoltà legate al sonno sono comuni nel disturbo depressivo maggiore (DDM), ma spesso trattate in modo inadeguato. Infatti, pazienti che presentano profili del sonno irregolari sono associati a esiti clinici significativamente peggiori rispetto a quelli con profili del sonno nella norma. In particolare, in pazienti anziani affetti da DDM, l’insonnia è legata a un esito peggiore del trattamento. Pazienti che riportano problemi nel mantenimento dello stato di addormentamento e risvegli precoci al mattino hanno maggiori probabilità di presentare ideazioni suicidarie rispetto a pazienti che non fanno esperienza di queste problematiche. Difficoltà del sonno posso anche presentarsi come sintomi residui in pazienti che hanno risposto positivamente al trattamento con antidepressivi e questo, specialmente se presente con una certa continuità, può condurre a un maggior rischio di ricadute (Manber et al., 2008; Dolsen et al., 2014).

Come anticipato, i risultati degli studi condotti finora si basano su piccoli campioni di pazienti, tuttavia hanno dimostrato come l’intervento con la CBT-I rafforzi la risposta al trattamento per la depressione suggerendo quindi che l’approccio ottimale consisterebbe nel trattare i due disturbi in modo indipendente (Sánchez-Ortuño & Edinger, 2012). A questo proposito, Manber e colleghi (2008) hanno condotto uno studio con pazienti affetti da DDM e insonnia in cui un primo gruppo era trattato con CBT-I e terapia farmacologica (escitalopram), il secondo con escitalopram e una terapia di controllo. Il primo gruppo ha riportato tassi di remissione significativamente maggiori sia in merito ai sintomi di insonnia (62% vs. 33%) che della depressione (50% vs. 8%).

La formula online della CBT-I sarebbe in grado di ridurre in modo significativo sia l’insonnia che i sintomi depressivi (Gosling et al., 2014).

La CBT-I ha riportato risultati promettenti nei confronti dei sintomi depressivi riportati dai pazienti e i miglioramenti ottenuti durerebbero fino a 2 anni dopo il termine della terapia (Manber et al., 2008; Ballesio et al., 2017).

Disturbo bipolare

Le difficoltà del sonno sono aspetti centrali nel disturbo bipolare in quanto un minor bisogno di sonno può verificarsi durante gli episodi maniacali e l’insonnia o l’ipersonnia possono essere presenti durante gli episodi depressivi. Uno scarso tempo complessivo di sonno e precoci risvegli mattutini sono correlati con lo sviluppo di sintomi ipomaniacali e maniacali (Dolsen et al., 2014). Più del 70% dei pazienti affetti da disturbo bipolare riporta insonnia clinicamente significativa ed è associato a ricadute e tentativi di suicidio. La CBT-I porterebbe a questi pazienti una riduzione dei sintomi dell’insonnia, una maggiore qualità ed efficacia del sonno e un miglioramento dell’umore.

Harvey e colleghi (2015) hanno creato la CBT-BP che consiste in una modifica della CBT-I applicata in modo specifico al disturbo bipolare e caratterizzata da interventi comportamentali (controllo dello stimolo, restrizione del sonno, tecniche di rilassamento di 30-60 minuti, messa a punto di una routine per il risveglio), interventi cognitivi (modifica delle convinzioni erronee e non necessarie riguardanti il sonno, riduzione di ansia e preoccupazioni legate al sonno e al momento pre-addormentamento) e interventi volti a migliorare il proprio funzionamento diurno. La CBT-BP, in un follow-up a 6 mesi dopo il trattamento, si è rivelata essere associata a un tasso di ricaduta inferiore e a una minor durata degli episodi.

Disturbi d’ansia

L’ansia tende a precedere l’insorgenza dell’insonnia nella maggior parte dei casi in cui questi due disturbi si trovano in comorbidità. Insonnia e disturbi d’ansia, in particolare il disturbo d’ansia generalizzata (in comorbidità con l’insonnia nel 70% dei casi), condividono la presenza di eccessive preoccupazioni. Risultati emersi da alcune ricerche hanno evidenziato effetti moderati sull’esito dell’insonnia ottenuti con un trattamento per l’ansia; in modo analogo una serie di altri studi ha rilevato che l’effetto della CBT-I nei confronti di una riduzione dei sintomi dell’ansia risulta moderato (Dolsen et al., 2014).

Una meta-analisi sugli effetti della CBT-I sui sintomi dell’ansia ha mostrato un effetto combinato da lieve a moderato (Jansson-Fröjmark & Norell-Clarke, 2016).

Tuttavia, allo stato attuale, le prove di efficacia risultano molto limitate impedendo la possibilità di generalizzare l’applicazione della CBT-I ai pazienti con disturbi d’ansia.

Psicosi e schizofrenia

L’insonnia è presente in persone con paranoia e rischia di peggiorare le esperienze psicotiche. Alcuni studi hanno evidenziato la correlazione tra sintomi dell’insonnia e pensiero persecutorio (Myers et al., 2011). Anche la schizofrenia è tipicamente caratterizzata da alterazioni e problematiche del sonno che possono influenzare negativamente la qualità della vita. Infatti, la comorbidità stimata è compresa tra il 36% e il 52% e l’insonnia in questi casi peggiorerebbe i sintomi della schizofrenia e aumenterebbe fino a tre volte il rischio di comparsa del pensiero paranoide. È importante considerare che i parenti di pazienti affetti da schizofrenia riportano le difficoltà relative al sonno come primo segnale notato precedentemente a una ricaduta. Freeman e colleghi (2015) hanno realizzato uno studio in cui mostrano che una forma relativamente breve della CBT-I può avere importanti benefici nel miglioramento del sonno in pazienti con deliri e allucinazioni e che tali benefici si manterrebbero fino alla valutazione finale di follow-up. Uno studio pilota ha verificato l’efficacia della CBT-I in forma breve rispetto alla riduzione di deliri di persecuzione e disturbi psicotici: la metà dei partecipanti allo studio ha registrato una riduzione dei deliri di persecuzione e due terzi degli stessi ha sperimentato una diminuzione dei sintomi legati all’insonnia (Myers et al., 2011; Dolsen et al., 2014).

È stato inoltre dimostrato che l’intervento CBT-I è in grado di ridurre in modo significativo la paranoia oltre che l’insonnia. Si ipotizza che l’insonnia possa influire nell’insorgenza del pensiero di tipo paranoico (Sánchez-Ortuño & Edinger, 2012).

Disturbo da stress post-traumatico (DSPT)

Il 70-87% dei pazienti con DSPT segnalano disturbi del sonno. In particolare, insonnia e incubi presenti nel primo mese successivo a un evento traumatico possono predire lo sviluppo del DSPT. Dal momento che il sonno ha anche una funzione ristorativa e influenza la regolazione delle emozioni, la scarsa qualità del sonno stesso potrebbe influire sull’elaborazione emotiva delle esperienze traumatiche e dunque facilitare l’insorgenza di DSPT (Schoenfeld, 2012).

Alcuni studi suggeriscono che l’insonnia clinicamente significativa persiste in un numero considerevole di pazienti per i quali, diversamente, il DSPT sarebbe in remissione. A tale proposito, sulla base dei risultati ottenuti principalmente da studi condotti su veterani di guerra che al ritorno presentavano DSPT, la CBT-I apporterebbe dei benefici a questa tipologia di pazienti (Sánchez-Ortuño & Edinger, 2012).

La CBT-I è stata anche utilizzata in alcuni studi in combinazione con la Terapia di Ripetizione Immaginativa (Imagery Rehearsal Therapy, IRT), una tipologia di intervento finalizzata al trattamento degli incubi. Tali studi hanno dimostrato miglioramenti degli incubi, della qualità del sonno e dei sintomi di DSPT. Pertanto, complessivamente, questa combinazione sembrerebbe correlata a esiti migliori rispetto alla singola terapia, IRT o CBT-I (Jansson-Fröjmark & Norell-Clarke, 2016).

I risultati presentati mostrano come la CBT-I possa essere realmente efficace anche quando applicata in presenza di un altro disturbo psichiatrico. Complessivamente, la CBT-I è associata a una migliore remissione dell’insonnia, mentre relativamente alle patologie psichiatriche concomitanti gli esiti migliori sono stati modesti. Pertanto sarebbero opportuni maggiori ricerche e studi in merito, con campioni più numerosi, in modo da poter confermare ed estendere la validità di questo trattamento. Inoltre, è bene sottolineare che gli studi riportati hanno coinvolto quasi esclusivamente soggetti adulti, dunque sarebbe interessante valutare l’effetto del trattamento anche in soggetti in età adolescenziale o inferiore.

Ciò che risulta chiaro è che l’insonnia in comorbidità va trattata come disturbo a sé, indipendente dal disturbo psichiatrico concomitante, al fine di ottenere un miglior esito complessivo. Infine, un aspetto da chiarire riguarda la tempistica, ovvero il momento in cui sottoporre la CBT-I, se prima, dopo o in concomitanza con l’intervento applicato al disturbo psichiatrico in comorbidità.

Concludendo, nonostante i vantaggi ottenuti (relativamente all’insonnia primaria e cronica) e da verificare (per quanto concerne l’insonnia in comorbidità con un altro disturbo medico o psichiatrico), la terapia cognitivo-comportamentale dell’insonnia risulta attualmente poco applicata, pertanto sarebbe opportuno, come già detto, approfondire gli studi in modo da aumentare la potenza di efficacia e la diffusione della terapia stessa.

 

L’Emotion Focused Therapy: il potere trasformativo delle emozioni

Nella ricerca e in ambito clinico c’è un crescente interesse nei confronti del lavoro con le emozioni in Psicoterapia. L’Emotion Focused Therapy (EFT) o Terapia Focalizzata sulle Emozioni, in particolare, ha fatto dell’emozione l’elemento centrale del processo terapeutico.

 

Le emozioni ci dicono cosa è importante per noi in una situazione e quindi fungono da guida per ciò di cui abbiamo bisogno o vogliamo. Questo, a sua volta, ci aiuta a capire quali azioni sono appropriate.

Nella ricerca e in ambito clinico c’è un crescente interesse nei confronti del lavoro con le emozioni in Psicoterapia. L’Emotion Focused Therapy (EFT) o Terapia Focalizzata sulle Emozioni, in particolare, ha fatto dell’emozione l’elemento centrale del processo terapeutico.

Che cosa è l’EFT-Emotion Focused Therapy

L’EFT – Emotion Focused Therapy (Elliott, Watson, Goldman e Greenberg, 2004; Greenberg, 2015; Greenberg e Johnson, 1988; Greenberg e Paivio, 1997; Greenberg, Riso e Elliott, 1993; Greenberg e Watson, 2006; Johnson, 2004) è un approccio al trattamento supportato empiricamente, integrativo ed esperienziale (Greenberg, Watson e Lietaer, 1998). È integrativo in quanto sintetizza elementi di Terapia Centrata sulla Persona (Rogers, 1959), Terapia della Gestalt (Perls et al., 1951), Terapia esperienziale (Gendlin, 1996) e Terapia esistenziale (Frankl, 1946; Yalom, 1980) con le moderne teorie sulle emozioni, le teorie cognitive, le teorie sui sistemi dinamici di attaccamento, gli approcci narrativi ecc.

L’Emotion Focused Therapy si basa sulla comprensione del ruolo delle emozioni nel cambiamento psicoterapeutico: si fonda, infatti, su un’analisi attenta dei significati e del contributo delle emozioni all’esperienza umana e al cambiamento terapeutico. L’EFT si concentra sull’aiutare le persone a prendere coscienza ed esprimere le proprie emozioni, imparare a tollerarle e regolarle, riflettere su di esse per dar loro un senso e trasformarle. Imparare a conoscere le emozioni non è sufficiente; invece, ciò che serve è che i clienti facciano esperienza di quelle emozioni che sorgono nella sicurezza della seduta di terapia, dove possono scoprire da soli il valore di una maggiore consapevolezza e di una gestione più flessibile delle emozioni. La terapia focalizzata sulle emozioni aiuta sistematicamente, ma in modo flessibile, i clienti a diventare consapevoli e a fare un uso produttivo delle proprie emozioni.

Emotion Focused Therapy e Emotionally Focused Therapy

È importante non confondere l’Emotion Focused Therapy con l’Emotionally Focused Therapy (Johnson, 2004): sebbene in sigla appaiano uguali, sono infatti due approcci molto differenti sia in termini operativi che per gli obiettivi che inseguono (Brubacher, 2017).

Emotion Focused Therapy e Emotionally Focused Therapy hanno una origine comune in un approccio alla terapia di coppia particolarmente attento alla dimensione emotiva. Sue Johnson e Leslie Greenberg negli anni ’80 del XX secolo hanno insieme condotto una serie di ricerche che hanno trovato esito nella Emotionally Focused Therapy quale approccio per la terapia di coppia. Dai primi studi le strade dei due ricercatori hanno preso specificità diverse.

L’Emotion Focused Therapy di Greenberg si è sviluppata come una terapia esperienziale-umanistica con un processo di cambiamento incentrato sulle emozioni, tanto è vero che l’approccio individuale era originariamente chiamato “psicoterapia esperienziale di processo” (Greenberg, Rice e Elliott, 1993). L’Emotion Focused Therapy ha una connotazione intrapsichica e nasce prima di tutto come terapia individuale per poi codificare anche modalità per lavorare con la coppia. L’Emotionally Focused Therapy di Johnson, invece, nasce primariamente come terapia di coppia per poi rimodellarsi come psicoterapia individuale.

L’efficacia della Emotion Focused Therapy

L’EFT è nata come approccio al cambiamento delle persone in psicoterapia (Rice e Greenberg, 1984), per poi evolversi in una teoria completa del funzionamento e della pratica terapeutica.

L’idea di base nell’EFT è che sebbene le emozioni siano fondamentalmente adattive, possono diventare problematiche per una serie di ragioni: traumi passati, deficit di abilità (ad esempio, non aver mai imparato a simboleggiare le emozioni nella consapevolezza o essere stato insegnato a ignorarli o respingerli), o evitamento delle emozioni (per paura del loro impatto su se stessi o sugli altri).

L’EFT sottolinea l’importanza della consapevolezza, accettazione e comprensione delle emozioni; l’esperienza viscerale dell’emozione in terapia; e l’importanza di cambiare le emozioni nella promozione del cambiamento psicoterapeutico.

I clienti, di conseguenza, diventano più abili nell’accesso alle informazioni importanti e significati su se stessi e sul proprio mondo forniti dalle emozioni come diventare più abili nell’usare quelle informazioni per vivere in modo vitale e adattivo.

L’EFT, in sintesi, è un approccio progettato per aiutare i clienti a diventare consapevoli e fare un uso produttivo delle proprie emozioni.

È stato dimostrato che l’Emotion Focused Therapy è un approccio efficace. Il metodo è supportato empiricamente come trattamento basato sull’evidenza per Depressione, Ansia, Traumi e Abuso, Problemi alimentari, Personalità borderline, Problemi interpersonali (Greenberg e Goldman, 2018). In particolare Jeanne Watson (Elliott, Watson, Greenberg e Goldman, 2004; Greenberg e Watson, 2006; Watson e Greenberg, 2017), professoressa dell’Università di Toronto in Canada nonché grande esponente della psicoterapia umanistico-esperienziale ha contribuito allo sviluppo della terapia focalizzata sulle emozioni e ha condotto numerose ricerche che hanno confermato l’efficacia e l’utilità dell’Emotion Focused Therapy nei disturbi d’ansia e nella depressione.

L’Emotion Focused Therapy viene utilizzata sempre più frequentemente in terapia individuale e di coppia e, pur essendo un sistema terapeutico peculiare, viene spesso integrato da professionisti di approcci psicodinamici, cognitivi, gestaltici, centrati sul cliente ecc. Come modello terapeutico può essere appresso in percorsi formativi riconosciuti dall’ISEFT – International Society of Emotion Focused Therapy che danno anche l’opportunità di ottenere la certificazione di Terapeuta EFT.

 

La comunicazione prima della parola e del simbolo: l’inconscio non rimosso

L’inconscio è la sede del rimosso, inteso come quel materiale psichico che, in contrasto con Super-Io e Io, viene “dimenticato”. Freud, però, ammette anche l’esistenza di un’ulteriore istanza, l’inconscio non rimosso, la cui formazione è collocabile in una fase evolutiva antecedente alla formazione delle istanze egoiche, supergoiche e dello stesso conflitto edipico.

 

Freud definisce l’inconscio come la sede del rimosso, inteso come quel materiale psichico che, in contrasto con i dettami censori del Super-Io e con la funzione regolatrice dell’ Io, viene “dimenticato”, e dunque segregato in una dimensione di non consapevolezza, attraverso il meccanismo della rimozione (Freud, 1917; Freud, A. 1936).

Questo stretto legame tra inconscio e rimozione lascia intendere che la principale funzione dell’inconscio sia quello di ospitare le pulsioni ritenute inaccettabili a seguito di una valutazione superegoica come anche egoica, e che pertanto non esista altra tipologia di inconscio al di là di quello “rimosso”.

In realtà è lo stesso Freud (1896) ad ammettere l’esistenza di un’ulteriore istanza – che egli chiama inconscio non rimosso – la cui formazione è collocabile in una fase evolutiva antecedente alla formazione delle istanze egoiche, supergoiche e dello stesso conflitto edipico.

Si tratta di un inconscio primitivo, destinato alla conservazione di tutte quelle modalità relazionali apprese nel contesto diadico, in uno stadio preverbale –presimbolico ove il canale somatico è l’unico strumento comunicativo e relazionale.

Al contrario della più nota tipologia di inconscio – quello rimosso – esso non è la sede di pulsioni esiliate perché potenzialmente in contrasto con la coscienza e l’accettabilità sociale. Non c’è conflitto, nel contenuto dell’inconscio non rimosso, ma “soltanto” il retaggio di quel legame sensoriale stabilito nelle prime fasi di vita con l’oggetto materno. Una relazionalità subsimbolica (Bucci, 1997) costruita sulla base di interscambi corporei, interazioni viscerali, percezioni somatiche, visive e prosodiche, che precedono il simbolo e la categorizzazione discreta, in quanto antecedenti qualsiasi processo valutativo o rielaborativo.

Per quanto precoci e connotate di immaturità espressiva, queste memorie conferiscono un’identità, pressoché indelebile, al modello affettivo costruito nel contesto diadico: una sorta di marchio relazionale maturato attraverso l’interazione con l’oggetto primario e per questo destinato a riprodursi per il resto della vita.

Oltre ad un luogo di deposito mnestico, l’inconscio non rimosso è dunque anche un luogo di origine e generazione, e l’assenza di conflitto che lo differenzia dal rimosso non basta a privarlo di una profonda dinamicità. La sua struttura e il suo contenuto molto possono dire sulla natura delle relazioni oggettuali primarie, e su come il loro evolversi trasformante abbia influito nell’organizzazione della vita affettiva, conducendola ove in una direzione evolutiva, ove in una patologica ( Klein, 1921-1958).

Inconscio non rimosso e inconscio rimosso: differenze ed elementi patologici

Sia nell’inconscio non rimosso che in quello rimosso è presente un materiale inaccessibile alla dimensione conscia, ma le motivazioni di questa segregazione sono diverse: nel caso dell’inconscio rimosso si è verificata un’autentica espulsione del materiale, avvenuta a seguito di una valutazione dominata dai principi censori del Super-Io e dalla volontà egoica di uniformarsi agli stessi; nell’inconscio non rimosso, al contrario, il contenuto psichico non è stato prodotto da un’espulsione, bensì dall’accumularsi progressivo di quelle esperienze interattive inconsapevoli, automatiche e dalla forte connotazione viscerale, che non hanno mai avuto accesso alla coscienza perché collocate in una fase precedente la formazione delle capacità simboliche e simbolizzanti, con la quali comunicare aspetti intimi del Sé e accedere riflessivamente alle proprie e alle altrui emozioni (Craparo, 2018).

Più che un conflitto tra gratificazione e censura, il materiale depositato nell’inconscio non rimosso rappresenta dunque la memoria somatica delle prime dinamiche intersoggettive con l’oggetto relazionale.

Ma in assenza di un ambiente materno in grado di tramutare le emozioni in simboli e i simboli in parole, la dimensione emotiva rischia di rimanere intrappolata in una condizione di non accessibilità e non interpretazione in grado di compromettere la formazione stessa del Sé: ciò comporta che nel caso di interazioni sensoriali carenti, e dunque di un vissuto relazionale non adeguatamente responsivo, l’inconscio non rimosso diverrà il deposito di memorie traumatiche, deprivanti e potenzialmente predittive di un Sé patologico e non integrato.

Dunque, se nell’inconscio rimosso il disfunzionamento consiste nella conflittualità tra pulsioni inconciliabili, ma pur sempre maturata all’interno di un Sé già strutturato, coeso e ben differenziato dall’oggetto materno, l’elemento patologico dell’inconscio non rimosso non riguarda un conflitto, ma la natura stessa delle memorie somatiche occorse durante le prime fasi della vita, la cui traumaticità ha impedito la formazione integrata del Sé.

Da qui il possibile ruolo dell’inconscio non rimosso nella formazione di psicopatologie in cui il disagio mostra connotati interpsichici pervasivi e globali, e in cui il conflitto non riguarda lo scontro tra pulsioni contrapposte quanto la struttura, la coesione e in certi casi la sopravvivenza psichica (Craparo, 2018): ad esempio il disturbo psicotico, nel quale ogni possibile relazione rievoca vissuti somatici di frammentazione, distruzione e devitalizzazione, originati da un deficit di differenziazione tra il Sé individuale e quello materno.

Ma anche quei disturbi somatizzanti che McDougall (1989) etichetta come “isteria arcaica”, nella quale il conflitto pulsionale non è relativo al diritto di ottenere soddisfazione delle proprie pulsioni libidiche contro gli ostacoli reali o superegoici, bensì alla più arcaica angoscia di esistere.

L’inconscio non rimosso come memoria implicita

L’emisfero destro è notoriamente destinato all’elaborazione delle sensazioni somatiche, delle percezioni immediate, olistiche, intuitive. È la zona del cervello deputata all’elaborazione delle emozioni, laddove l’emisfero sinistro si mostra maggiormente utilizzato per la codifica dei messaggi verbali, linguistici, delle interpretazioni logiche e analitiche dei dati ambientali.

Ciò fa sì che proprio l’emisfero destro sia destinato a divenire il luogo deputato all’immagazzinamento mnestico di esperienze somatiche arcaiche, che con il tempo assumono la forma di una memoria procedurale costruita sulla base di percezione corporee, comunicazioni non verbali, regolazioni affettive inconsce ricorsive esperite con l’oggetto primario, in questa fase dotato di una forte valenza trasformativo-evolutiva ( Ogden, 1987; 1989).

L’inconscio non rimosso, in qualità di deposito mnestico di materiale protoverbale e non simbolizzato, potrebbe essere dunque collocabile proprio nell’emisfero destro, in cui si presenta come una sorta di memoria procedurale implicita, relativa a tutte quelle abilità e quelle competenze che siamo in grado di attuare senza far ricorso ad una volontà consapevole (Siegel, 1999).

La memoria implicita non soggetta alla rimozione, non verbalizzabile né rievocabile dal punto di vista mnestico, riguarda proprio l’archiviazione inconscia delle esperienze primarie occorse con l’oggetto materno, dalle quali è destinato ad originarsi il nucleo stesso dell’inconscio non rimosso e di tutto quel contenuto presimbolico che avrà un influsso determinante sullo sviluppo della vita affettiva e cognitiva del soggetto. Freud lo definisce come un “patrimonio mnestico di percezioni precedenti che, in quanto mondo interiore, rappresentano un possesso e un elemento costitutivo dell’Io stesso” ( 1923, p. 612).

L’eco dell’inconscio non rimosso

A dispetto della sua natura non verbale e non simbolica, l’impronta della memoria viscerale impressa nell’inconscio non rimosso non si mostra certo priva di capacità comunicativa. Né è destinata a scomparire, con il tempo, quando il linguaggio verbale diventa la principale forma di espressione e relazionalità.

Per quanto non rievocabili a livello cosciente, le esperienze affettive arcaiche e le prime relazioni con l’ambiente sono da considerarsi tutt’altro che perdute. Al contrario, all’interno di questo contenuto misterioso e non verbalizzabile – sovrapponibile ad una memoria procedurale implicita – è percepibile l’ombra stessa dell’oggetto affettivo e delle sue modalità relazionali precipue destinate ad influenzare quelle future (Bollas, 1987).

Proprio in riferimento alla memoria implicita, Siegel (1999) mette in evidenza la sua capacità di influenzare non solo il presente, ma anche e soprattutto il funzionamento individuale futuro. Essa è infatti:

l’insieme dei processi in base al quale gli eventi del passato influenzano le risposte future. Il cervello interagisce con il mondo e registra le diverse esperienze attraverso meccanismi che modificano le sue successive modalità di reazione. (ibidem, 1999, p. 23-24)

Dunque il passato impresso nel nucleo dell’inconscio non rimosso sarà in grado di esercitare una profonda influenza nell’esistenza futura del soggetto, ove si mostrerà come una sorta di risonanza, un’eco affettiva che molto potrà dire sulla natura dell’oggetto primario e del suo approccio relazionale specifico.

In particolare l’impronta di questo materiale subsimbolico sarà percepibile nelle modalità in cui un soggetto costruisce i modelli affettivi che traggono ispirazione proprio dalla natura, più o meno funzionale, dell’holding environment (Winnicott, 1965) e dei primi approcci relazionali con la figura materna (Mancia 2006; Siegel, 1999).

Secondariamente, in quanto elemento somatico, sarà possibile percepirne la presenza negli aspetti concernenti l’espressività corporea, e dunque la capacità di comunicazione non verbale, l’approccio fisico all’altro, la gestione di spazi e distanze, la capacità di guardare e tollerare lo sguardo, e anche l’utilizzo di quegli aspetti paraverbali – prosodia, tono di voce, ritmicità dell’eloquio – che, non meno della componente verbale, si mostrano canali di espressività soggettiva.

A tal proposito Mancia (2006) evidenzia come nella componente prosodica del linguaggio sia presente una forte connotazione emozionale, una sorta di alone affettivo strettamente legato alla fase in cui la parola poteva essere intesa solo nel suo significato ritmico, essendo inaccessibile quello semantico. Il riferimento va alla musicalità espositiva del linguaggio materno, alla sua capacità di sintonizzarsi con lo stato emotivo del bambino e di generare, nella sua dimensione psichica, un senso di ordine e protezione garantito dalla familiarità di quel ritmo sonoro rassicurante, per quanto incomprensibile.

Questa esperienza sensoriale, così come altre verificatesi nelle prime fasi della vita, una volta impressa nell’inconscio non rimosso diverrà una sorta di marchio indelebile destinato a condizionare lo sviluppo di capacità espressive più evolute – ma prima di tutto farà avvertire la sua presenza nella dimensione relazionale corporea, dotandola al contempo di una forte componente interpretativa e rivelatrice del vissuto preverbale del soggetto.

Ciò sta a significare che, anche in un setting psicoterapico, il clinico dovrebbe prestare attenzione a tutte quelle componenti espressive che fanno parte della dimensione somatica del paziente, riconoscendo nella stessa l’eco di quelle relazioni affettive primarie che tanto possono dire sul suo vissuto preverbale specifico.

Il soffermarsi unicamente sul contenuto semantico del linguaggio, tralasciando quello metasignificante espresso dal soma, significherebbe togliere possibilità espressiva a quel materiale presimbolico che dall’inconscio non rimosso continua a parlare, dando voce a tutti le esperienze che hanno preceduto la parola, e per certi versi le hanno preparato la strada (Craparo, 2018).

Conclusioni

Il corpo è in grado di parlare con un linguaggio che sfugge alla parola e che, evidenziando importanti aspetti del Sé attuale e del Sé arcaico, molto rivela sulla natura funzionale o patologica di entrambi.

L’inconscio non rimosso riesce pertanto a comunicare la sua presenza anche dopo l’avvento del simbolo e della parola, sebbene lo faccia in un modo che non segue le stesse regole del dire verbale. Esso non ignora la parola o il simbolo, semplicemente ne precede la formazione. E cercando di esprimere il proprio contenuto subsimbolico valorizza la componente interpretativa, modificativa e mnestica dello strumento somatico come Io corporeo (Winnicott, 1949) che, ancor prima di quello verbale, è capace di proiettare il soggetto in una dimensione relazionale, fissando memorie funzionali e formative, così come traumatiche e annichilenti, per poi riprodurne il contenuto implicito nella formazione del Sé globale.

 

Oltre la personalità: dialettica sistemica e sviluppo borderline (2021) di Cesare Maffei – Recensione del libro

Cesare Maffei propone una spiegazione processuale della personalità borderline, esito di una traiettoria evolutiva disfunzionale prodotta da molteplici fattori personali e interpersonali che mutuamente interagiscono tra di loro nel tempo, si rafforzano e si indeboliscono, generando la pluralità delle configurazioni psicopatologiche borderline.

 

Molti studi e molte teorie si sono concentrate nel definire e capire cosa sia la “personalità”, moltissimo è stato prodotto per definire e capire cosa sia la personalità borderline, in particolare quale fosse il modello maggiormente esplicativo le ragioni della sua comparsa e le difficoltà riscontrate in questa tipologia di pazienti.

Il modello bio-psico-sociale proposto negli anni novanta da Marsha Linehan (1993), secondo cui la personalità borderline è frutto di un’interazione tra ambiente precoce invalidante e vulnerabilità biologica, si è imposto come quello più esaustivo e basato su evidenze empiriche nonostante l’ampissima eterogeneità delle caratteristiche cliniche degli individui diagnosticati con disturbo borderline di personalità.

Come tentativo di dare una spiegazione a tale eterogeneità a partire dal modello di Marsha Linehan, Cesare Maffei propone una spiegazione processuale della personalità borderline, esito di una traiettoria evolutiva disfunzionale prodotta da molteplici fattori personali e interpersonali che mutuamente interagiscono tra di loro nel tempo, si rafforzano e si indeboliscono, generando la pluralità delle configurazioni psicopatologiche borderline.

La facile tendenza alla disregolazione emozionale e comportamentale in quest’ottica emergerebbe da un’interazione transazionale e dialettica tra una predisposizione biologica che renderebbe la persona vulnerabile e ipersensibile ad un elevato numero di stimoli ambientali e un ambiente interpersonale invalidante che richiama conflitto, rifiuto, abbandono che a sua volta elicita e mantiene sempre attiva l’attenzione su stati emotivi dolorosi e contenuti mentali negativi.

Portando una consistente molte di evidenze scientifiche, il libro si muove sull’equilibrio tra due assi: quello di ricercare una prospettiva teorica basata sulle evidenze che spieghi la somiglianza e la comunanza tra gli individui definiti “borderline” e quello di considerare al contempo le differenze individuali frutto di differenti itinerari evolutivi.

Nell’equilibrio precario e spesso spezzato del funzionamento borderline, si autoalimentano meccanismi di attivazione emozionale, mancata regolazione di tali stati emotivi intensi e la messa in atto di comportamenti impulsivi e agiti con lo scopo (improduttivo sul lungo termine) di abbassare l’intensità e l’arousal di questi statiti emotivi; tutto all’interno di un contesto interpersonale che a sua volta alimenta e rinforza le dinamiche insite nella patologia.

Il saggio Oltre la personalità: dialettica sistemica e personalità borderline, edito da Raffaello Cortina Editore, passando in rassegna la teoria bio-psico-sociale di Marcha Linhean, i limiti della categorizzazione di tale disturbo entro criteri diagnostici rigidi e poco esplicativi il funzionamento personologico, rappresenta il tentativo di definire e comprendere tale personalità adottando una concezione sistemica e dinamica nel tempo di evoluzione della patologia che possa permettere di individuare al suo interno i momenti, i contesti, le relazioni e le situazioni che creano e mantengono i meccanismi disfunzionali e ricorsivi della patologia.

Tale concezione è stata proposta a partire dalla raccolta e dalla sintesi più recenti evidenze in ambito neuroscientifico e sperimentale riguardo le manifestazioni cliniche della personalità borderline.

Tra gli intenti dichiarati dell’autore vi è stato anche quello di contribuire a conferire ulteriore veridicità al modello bio-psico-sociale di Marsha Linehan, in particolare alle componenti della vulnerabilità emozionale e interpersonale che si sono mostrate come le più tipiche e rilevanti per la psicopatologia borderline.

Interessanti quindi l’approfondimento sulla vulnerabilità interpersonale e la discussione, ancora aperta, delle prime evidenze che portano a ritenere la sensibilità al rifiuto essere il suo nucleo fondante.

Tale saggio rappresenta di conseguenza uno strumento utile per professionisti esperti del settore che sono interessati a visionare e ad usufruire in ottica clinica delle più recenti evidenze scientifiche riguardo le manifestazioni cliniche e il funzionamento della personalità borderline, o per coloro che semplicemente vogliono approfondire ciò che attualmente la letteratura più recente mette a disposizione per comprenderne le ragioni e i meccanismi di mantenimento.

 

Alessitimia, disregolazione emotiva e connessione mind-body

Il termine alessitimia è stato introdotto da Peter Sifneos nel 1973 per designare una categoria di caratteristiche cognitive e affettive osservate in pazienti con malattie psicosomatiche (De Berardis, Fornaro & Orsolini, 2020).

 

Tale costrutto è stato ampliato nel corso degli anni, fino a diventare un costrutto multiforme e dimensionale che include diverse caratteristiche: a) difficoltà nell’identificare e descrivere i sentimenti, b) difficoltà nel distinguere i sentimenti dalle sensazioni corporee, c) diminuzione della fantasia e d) pensiero concreto e scarsamente introspettivo (Taylor, 1984). Taylor e colleghi (1989) evidenziano come le persone alessitimiche possano manifestare disregolazione affettiva con una conseguente incapacità di riuscire a calmarsi o di gestire le emozioni a causa di una loro inconsapevolezza di queste ultime (De Berardis, Fornaro & Orsolini, 2020). Tale lettura errata delle emozioni è attribuita ad una capacità compromessa di elevare le emozioni da uno stato di esperienza senso motorio a un livello rappresentativo, dove possono essere lette come segnali reattivi di eventi interni o esterni, moderati da meccanismi psicologici (Meza-Concha et al., 2017). Parlando in termini di tratto, le caratteristiche più evidenti dell’alessitimia si osservano in interazioni sociali con alta valenza emotiva (Lane et al., 2015). L’alessitimia è un tratto di personalità relativamente stabile che aumenta la vulnerabilità di sintomi depressivi ed è associato ad un rischio di morte elevato a causa di comportamenti suicidari, violenze e lesioni accompagnate da disregolazione affettiva (Luminet et al., 2001; Tolmunen et al., 2011).

Dato che l’alessitimia è la quintessenza della connessione tra mente e corpo, e che il suo riconoscimento è cruciale nella clinica quotidiana per sviluppare interventi ad hoc, De Berardis e colleghi (2020) hanno svolto una revisione della letteratura per indagare una possibile associazione tra alessitimia, disregolazione affettiva e connessione tra mente e corpo. In accordo con la letteratura, degli interventi pre e post terapia utili a ridurre l’alessitimia sembrano essere utili per una risposta terapeutica efficace e maggiormente funzionale nei confronti del soggetto e della sintomatologia presentata (Rufer et al., 2010; Blaettler et al., 2019). Aaron e colleghi (2020) hanno osservato la relazione tra alessitimia e accuratezza enterocettiva in un campione di giovani adulti: i risultati hanno così evidenziato come alti livelli di alessitimia possano essere associati a livelli di riconoscimento emotivo più o meno accurati (Aaron et al., 2020). Duquette (2020) ha cercato di integrare i risultati neuroscientifici e psicoterapeutici presentando un caso interessante che descrive la consapevolezza dei disturbi emotivi in soggetti con alessitimia. Ha osservato come le persone alessitimiche dovrebbero essere educate sulla capacità di spostare la propria attenzione tra le sensazioni enterocettive ed esterocettive in modo flessibile, in quanto le loro convinzioni precedentemente consolidate sui significati delle sensazioni possono portare alla percezione ambigua e poco chiara delle emozioni (De Berardis, Fornaro & Orsolini, 2020).

Per quanto riguarda un campione non clinico, Elkholy e colleghi (2020) hanno valutato i tassi di alessitimia e il rapporto di questo tratto con la dipendenza da smartphone: attraverso uno studio trasversale su un campione composto da 200 studenti universitari, sono state trovate forti associazioni tra le due variabili indagate (Elkholy, Elhabiby & Ibrahim, 2020). Questa revisione indica come in letteratura siano presenti dati che evidenzino una regolazione emotiva delle persone alessitimiche attraverso diverse forme di comportamenti dipendenti nei confronti di variabili esterne (De Berardis, Fornaro & Orsolini, 2020). L’abilità di esprimere le emozioni può avere un notevole impatto sulla qualità del sonno: Ma e colleghi (Ma, Zhang & Zou, 2020) hanno riscontrato una correlazione positiva tra tratti schizotipici, alessitimia e problemi notturni. Le diverse aree di indagine trattate in relazione all’alessitimia suggeriscono come tale tratto, e la sua connessione tra mente corpo, sia ancora una sfida in ambito clinico. Una buona notizia è che questo tratto sta diventato più frequente all’interno della pratica clinica reale (Bagby, Parker & Taylor, 2020), dove la ricerca sta progredendo e sta cercando di esplorare questo costrutto per trovare una strategia terapeutica adeguata e affidabile (De Berardis, Fornaro & Orsolini, 2020).

Aggressività nella malattia bipolare: dallo stigma alla realtà – Comunicato stampa

Comunicato stampa

Uno studio tutto italiano dell’Università e Ospedale San Raffaele rivela come il bipolarismo non sia sinonimo di aggressività

 

Milano, 8 aprile 2020

A più di quarant’anni dalla Legge Basaglia, che ha permesso all’Italia di essere uno dei primi paesi in Europa e nel mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici, la malattia mentale rappresenta ancora uno dei tabù nella nostra cultura, oggetto di numerosi pregiudizi e stigma sociale. Tra questi c’è l’idea – ampiamente diffusa nella popolazione generale – che il disturbo bipolare sia associato a comportamenti violenti. Uno studio condotto dai medici e ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e pubblicato su Journal of Psycopatology smentisce questo pregiudizio, mostrando come i rari episodi di aggressività nei pazienti bipolari siano prevalentemente concentrati nelle fasi acute di malattia e, nella quasi totalità dei casi, siano correlati a un abuso di alcool o di sostanze stupefacenti. Lo studio, coordinato dalle psichiatre Raffaella Zanardi e Cristina Colombo, professoressa ordinaria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e direttrice del Centro Disturbi dell’Umore dell’Ospedale San Raffaele Turro, mette a frutto la grande expertise del centro che conta oltre 7000 visite ambulatoriali e 650 ricoveri all’anno.

Che cos’è il disturbo bipolare?

Il disturbo bipolare – che colpisce nel mondo all’incirca una-due persone su cento – è un disturbo cronico ad andamento periodico ed episodico, caratterizzato da alterazioni dell’umore che vanno da un umore depresso – contraddistinto da sensazione di tristezza, vuoto, disperazione, mancanza di energia e/o interesse per le attività abituali – ad un umore elevato, rappresentato da una sensazione di benessere, euforia ed esaltazione, accompagnata da autostima esagerata. Al centro dello spettro si colloca la condizione cosiddetta di eutimia, vale a dire un umore nei limiti della norma. A seconda dello stato in cui si trova il paziente, nonché dell’intensità dei sintomi, si possono descrivere tre diversi tipi di episodi: maniacale, depressivo maggiore e misto.

Lo studio del San Raffaele

Nello studio, i ricercatori hanno preso in considerazione 151 soggetti per un periodo di 12 mesi, focalizzando l’attenzione sia alle fasi acute di malattia sia ai periodi di benessere e cercando possibili correlazioni tra diverse co-diagnosi psichiatriche e aspetti specifici del trattamento, come la continuità e l’adesione alle cure. I comportamenti aggressivi presi in considerazione sono stati: irritabilità, aggressività verbale, aggressività contro oggetti e aggressività verso le persone.

Afferma la dottoressa Raffaella Zanardi, psichiatra del Centro Disturbi dell’Umore dell’IRCCS San Raffaele e prima autrice dello studio:

Abbiamo deciso di analizzare in modo innovativo il concetto di aggressività considerandone diverse sfaccettature e dividendo i comportamenti indubbiamente violenti verso sé e verso gli altri, da aspetti come irritabilità e agitazione che, pur non essendo comportamenti propriamente violenti, allo stesso modo contribuiscono a mantenere lo stigma sociale nei confronti dei pazienti psichiatrici.

I risultati dello studio: la relazione tra disturbo bipolare e aggressività

Il primo dato emerso dallo studio riguarda il fatto che gli episodi di aggressività sono risultati paragonabili o inferiori alla quasi totalità di quelli registrati dai precedenti studi pubblicati sull’argomento. Stratificando il risultato per il tipo di comportamento aggressivo, è emerso come solo l’1,32% dei pazienti aveva mostrato atteggiamenti violenti verso persone, mentre negli altri casi è stata registrata violenza verso oggetti o episodi di violenza verbale.

Non solo: i ricercatori hanno osservato una drastica riduzione dei comportamenti violenti durante i lunghi periodi di benessere (dall’11,92% al 2,64%), raggiungendo in quelle fasi la stessa frequenza registrata nella popolazione generale. Continua la dottoressa Zanardi:

Abbiamo osservato come la quasi totalità degli episodi aggressivi verificatisi nei periodi di benessere fosse correlato alla presenza di una co-diagnosi psichiatrica: disturbi di personalità, disturbo da uso di alcol o abuso di sostanze.

Considerando invece le fasi acute di malattia, è emerso anche in questo caso come la presenza di co-diagnosi, in particolare disturbo da uso di alcol o sostanze, fosse il più grande fattore di rischio per comportamenti aggressivi: non solo ne aumenta la prevalenza, ma modifica anche il rapporto tra i tipi di manifestazioni aggressive, riducendo proporzionalmente i casi di irritabilità ed agitazione psicomotoria, per lasciar spazio ad episodi di violenza verbale e fisica verso oggetti o verso persone.

È stato interessante poter osservare come i sintomi tipici delle fasi maniacali, come agitazione psicomotoria ed irritabilità, spesso stigmatizzati proprio perché ricondotti ad atti violenti, si sono rivelati connessi ad episodi di violenza solo in una netta minoranza dei casi

afferma la professoressa Cristina Colombo, primario del Centro Disturbi dell’Umore e Ordinario di Psichiatria all’Università Vita- Salute San Raffaele.

Un altro dato importante emerso riguarda invece i pazienti che avevano una maggiore aderenza alle visite psichiatriche e psicologiche: questo gruppo di pazienti era correlato a percentuali di comportamenti aggressivi significativamente inferiori rispetto ai soggetti meno collaborativi.

Continua la professoressa:

Resta ancora da capire se la compliance alle visite possa costituire un fattore protettivo verso agiti aggressivi, o viceversa, chi ha comportamenti violenti ha tassi di abbandono più elevati. Siamo speranzosi che i nostri risultati possano aiutare a demolire lo stigma secondo cui la diagnosi psichiatrica equivale a violenza, e che la violenza possa in questo modo essere giustificata da una malattia.

 

Il buffo decalogo del serio lavoro di psicoterapeuta

Ancora un ricordo di Roberto Lorenzini. Alessia Minniti, collega e amica di Roberto, ricevette un po’ di tempo fa -o forse tanto tempo fa: era il 13 ottobre del 2001- da Lorenzini un decalogo buffo sul lavoro di psicoterapeuta. Era desiderio di Roberto che questo decalogo fosse trasmesso a chi veniva dopo di lui, ai giovani e meno giovani che avrebbero fatto il suo stesso mestiere di psicoterapeuta. Siamo lieti di realizzare quel desiderio e di rendere felice Roberto, ovunque egli sia.

 

  1. Ascoltate il paziente, mettetevi nei suoi panni, sentite quello che lui sente.
  2. Esprimetegli solidarietà sulla sua sofferenza, va presa sul serio; anche se per voi è una sciocchezza lui ci soffre.
  3. Dimenticatevi di voi, non state a osservare se state facendo bene o male (lo farete semmai dopo), pensate a lui, al suo modo di causarsi sofferenza.
  4. Cercate di capire non solo quello che dice ma soprattutto il punto di vista dal quale lo dice: è questo che lui spesso ignora.
  5. Cercate di capire qual è il suo progetto esistenziale, gli scopi terminali, le cose per lui irrinunciabili e poi ditegli quanto avete capito, pronti a cambiare idea, a raddrizzarla o buttarla nel cestino se lui non è d’accordo. E allora cercatene insieme un’altra: lui ne sa di sé stesso più di voi e occorre essere d’accordo.
  6. Dategli la mano per esplorare scenari diversi con il vostro aiuto, spiegandogli che non necessariamente quello che ha creduto fino a quel momento è vero o utile per lui. Criticate il modo in cui se lo è messo in testa e fategli sperimentare alternative.
  7. Vogliategli bene, nel senso più pieno del termine. Si può aiutare solo se vogliamo il bene della persona che abbiamo di fronte e se crediamo che possa farcela. Se non adottiamo i suoi scopi o se pensiamo che non ce la farà diventiamo iatrogeni. Non è una colpa ma bisogna passare la mano.
  8. Non vi preoccupate di voi (se il punto 7 è rispettato), male non potete farne. Siamo molto più ininfluenti di quanto pensiamo. Fra qualche anno (lo dico per i più giovani tra voi) le nostre colpe minute, i nostri minuscoli successi, i libri scritti, le cattedre conquistate, i soldi fatti saranno del tutto cancellati. Se qualcosa resterà sarà solo nella memoria delle persone che abbiamo amato, e anche questa per poco. Non prendiamoci troppo sul serio!
  9. Non vi preoccupate delle diagnosi ma delle persone che avete di fronte, guardate alla loro originalità e ricchezza e non solo a quello che non funziona. Pensate che il loro modo di essere è la soluzione più creativa che hanno trovato per sopravvivere: andrebbe protetta e valorizzata come espressione dell’adattabilità genetica e culturale dell’essere umano.
  10. Fatevi curare dai vostri pazienti (senza pagarli naturalmente) perché le emozioni che vi suscitano vi danno continuamente degli stimoli per la riflessione su di voi e una spinta verso il cambiamento.

 

Una precisazione in coda. Questo decalogo è stato lievissimamente rieditato e soprattutto ribattezzato. Esso in origine si chiamava “Il decalogo del buffo lavoro di psicoterapeuta”. Abbiamo attribuito il “buffo” al decalogo e non al lavoro di psicoterapeuta, che anzi ci siamo permessi di definire “serio”. Il bello di questo decalogo sta anche nel fatto che Roberto superò la sua ammirevole tendenza a non prendersi troppo sul serio e a esprimere per una volta un messaggio importante, sia pure temperato da il suo tipico accento buffo alla Lorenzini. Per questo abbiamo ribattezzato questo ultimo scritto di Roberto “il buffo decalogo del serio lavoro di psicoterapeuta”. D’altro canto, dagli amici si impara e agli amici si insegna.

Da Roberto molto abbiamo imparato ma non sempre abbiamo avuto il coraggio di insegnarli a sapersi prendere sul serio quando è necessario. Quindi va bene non prendersi troppo sul serio, come scrisse Roberto nell’ottavo comandamento di questo decalogo, ma al tempo stesso impariamo a prenderci sul serio come psicoterapeuti. E infine, Roberto, perdonaci un ultimo piccolo appunto anche al nono comandamento. Ti diciamo che non solo le persone ma anche le diagnosi sono importanti. E ora basta così: restituiamo la parola a Roberto e rileggiamoci il suo buffo decalogo del serio lavoro di psicoterapeuta.

Perché non sono felice come gli altri?

Questo articolo sulla felicità si pone questi obiettivi: spingere il lettore ad accettare la condizione umana (di sofferenza) e disinvestire sull’illusione della felicità

 

Al giorno d’oggi, sommersi dai social che traboccano di foto spiritose, ritoccate e costruite ad hoc per attrarre l’interesse degli altri, il nostro spirito comparativo è quanto mai messo alla prova.

E più si è insicuri, più ci si sente minacciati dalla condizione positiva degli altri.

“Gli altri sono felici”, “La mia vita fa schifo (perché sono sempre scontento)!”, “Possibile che non riesca ad essere felice?!” “Se vivo sempre emozioni negative, c’è qualcosa che non va in me!”

Se anche tu hai fatto questi pensieri sei perfettamente nella norma.

Si parla recentemente (e direi finalmente) di “Toxic Positivity”, ovvero “positività tossica”, alludendo a questa ricerca di felicità forzata che porta a sminuire o colpevolizzare i propri vissuti e rimandare agli altri l’idea che vivere “felicemente” è possibile e facile.

Sappiamo che non dobbiamo lasciarci ingannare dalle vite degli altri, non possiamo sapere cosa si nasconde dietro ad una foto. Lo sappiamo benissimo: “All that glisters is not gold”, “Non è tutto oro quello che luccica”, scrivevano Esopo e Shakespeare e le ricche star di Hollywood, con le loro vicende personali, ce lo ricordano ogni giorno.

Ma allora come mai non possiamo fare a meno di confrontarci con gli altri e di uscire, quasi sempre o almeno nella maggioranza di noi, perdenti da questo confronto?

E perché non riusciamo ad essere felici come gli altri?

Cosa abbiamo di sbagliato?

Andiamo per gradi.

Come mai viviamo sempre nel confronto sociale?

Il confronto è un normale processo evolutivo, persino indispensabile, sotto certi aspetti, ai fini evolutivi: è una predisposizione necessaria affinché la persona capisca quali sono “le regole” e le richieste per un buon adattamento ed inserimento nel gruppo dei pari.

Oggi, come secoli fa, il gruppo è una risorsa fondamentale per l’uomo ed il volerne far parte è un desiderio più che legittimo. “Sto facendo la cosa giusta? Sto contribuendo abbastanza?” Queste domande guidano il comportamento dell’individuo in una società, facendo sì che ci sia maggior crescita dell’uno e dell’altra. La nostra mente ci mette in guardia circa la minaccia di poter essere rifiutati.

Non deve quindi stupirci, né dobbiamo biasimarci, se abbiamo la tendenza a migliorarci, a confrontarci, o persino a deprimerci se non ci sentiamo “abbastanza adatti”. Quella tristezza dovrà essere la spinta per una crescita. A questo servono le emozioni.

La felicità non è la “condizione naturale” di tutti gli esseri umani

Più che biasimarsi del motivo per cui non riusciamo ad evitare di metterci in una condizione di confronto, dovremmo esaminare uno sbaglio decisamente più sostanziale: quello di considerare la felicità come lo stato naturale dell’uomo.

La felicità, così come la intendiamo nel senso “classico” del termine, ovvero come stato di piena gioia ed appagamento, è un’emozione. Una tra tante. Non c’è nessun motivo per cui dovrebbe essere la nostra “condizione di base”.

Le emozioni primarie dell’uomo sono sei e sono state studiate da Paul Ekman (lo psicologo che ha ispirato il telefilm “Lie to me”, per chi lo conoscesse) che, girando il mondo, ha potuto osservare come queste emozioni fossero “universali”, ovvero interculturali ed innate, in quanto presenti in tutti gli uomini, di differente razza ed età, accompagnate da specifiche espressioni facciali indipendenti dalla cultura e riconoscibili in qualsiasi parte del mondo. Se avete visto il cartone Disney “Inside out” probabilmente ne conoscete cinque: gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto. A queste aggiungiamo la sorpresa. Sei emozioni primarie dalle quali nascono poi tanti altri stati emotivi, le emozioni secondarie, che subiscono invece l’influenza della cultura e della società. Ne sono un esempio la vergogna, l’invidia, la colpa

Ogni emozione ha la sua dignità ed il suo preciso ruolo: tutte lavorano per noi, per garantirci un buon adattamento alla realtà che ci circonda (la paura, ad esempio, ci avverte che siamo in una situazione di pericolo, mentre la rabbia che stiamo subendo un’ingiustizia) e ci garantisce così le migliori condizioni per una buona sopravvivenza. Infatti le emozioni sono il più prezioso bagaglio che ci ha lasciato l’evoluzione!

Se i nostri antenati fossero stati solo felici non si sarebbero accorti che il cibo che stavano mangiando li disgustava e magari li avrebbe persino avvelenati, o che il leone era una minaccia, o non avrebbero prestato cura alla propria famiglia, perché smarrirla non li avrebbe portati a vivere un’emozione di tristezza.

Dovevano invece essere sempre attenti a guardarsi le spalle, a proteggersi, a procurarsi cibo, acqua, un riparo ed il sesso.

Siamo stati progettati per sopravvivere: quello che ci guida è un “dispositivo cerebrale” calibrato per scovare il pericolo e metterci in salvo. E nel corso di anni e secoli, la mente umana ha affinato la sua abilità di prevedere il pericolo e metterci in guardia, adattandosi a stanare le minacce che nel corso del tempo hanno assunto forme diverse: i nostri nemici non sono più i leoni, ma piuttosto l’opinione degli altri, che ci garantisce l’accettazione e la partecipazione ad un gruppo, la perdita del lavoro, che ci offre possibilità di avere cibo ed un tetto, il prestigio sociale che ci promette potere ed un migliore accesso alle risorse della comunità e maggiore appetibilità sessuale.

Le minacce sono evolute con noi, ma il cervello non smette di svolgere la sua funzione di “protettore” e continua a stanarle: la nostra mente non cessa di valutare tutto quello che incontriamo, giudicandolo di volta in volta come adeguato, sufficiente, buono, pericoloso, utile, dannoso, eccetera… (Harris, 2010).

Queste considerazioni offrono quindi una risposta alla domanda: “come mai non riesco ad essere sempre felice?” Semplicemente perché non sei nato per “essere felice”, ma per “essere”.

Le caratteristiche delle emozioni

Dunque pare chiaro che, poiché siamo strutturati per adattarci alle circostanze e migliorare noi ed il nostro ambiente in una continua costante ottica di confronti e valutazioni reciproche, la felicità sia solo una delle tante emozioni a cui possiamo andare incontro nell’arco delle nostre giornate e non c’è motivo per cui debba essere la sola.

La convinzione che dobbiamo essere felici (perché me lo dicono gli altri e loro ci riescono benissimo) in realtà crea la “Trappola della felicità” (Harris, 2010) ovvero più rincorro la felicità come obiettivo di vita, più sarò frustrato e meno sarò felice. Se passo la mia vita ad inseguire la felicità avrò un’esistenza perennemente insoddisfatta: la felicità arriva, dura un po’, e se ne va. Perché così funzionano le emozioni, nessuna ha un particolare permesso per restare più delle altre!

L’emozione per definizione infatti, è un evento di durata limitata, da non confondere con i sentimenti.

L’emozione è una risposta valutativa di un evento, immaginario o reale, che determina una serie di modifiche e reazioni di tipo fisiologico (aumento della frequenza del battito cardiaco, della temperatura corporea, della sudorazione, ecc.), espressivi (atteggiamento verbale e non verbale), cognitivi (valutazioni circa gli eventi attivanti), motivazionali (azione e reazione comportamentale, come attacco o fuga) e soggettive (ovvero il sentimento, la conseguenza dell’elaborazione cognitiva di ciò che sto provando).

Ne consegue che l’emozione sia una risposta intensa, ma dalla durata piuttosto limitata nel tempo, finalizzata alla gestione dell’evento stesso che l’ha provocata.

Quando invece la persona si mette a riflettere su ciò che sta provando e ne elabora una sua consapevolezza (più o meno lucida o deviata) si parla di sentimento.

Il sentimento è l’elaborazione cognitiva di ciò che mente e corpo hanno rapidamente elaborato in risposta ad un evento, ovvero di un’emozione.

Le emozioni quindi sono:

  • fondamentali, hanno infatti funzione espressiva, comunicativa e regolativa (manifestare ciò che si prova in modo educato e rispettoso è fondamentale al proprio benessere);
  • di durata limitata.

Quanto dura un’emozione?

Gli studi su questo aspetto sono contenuti, ma si è visto che ogni emozione ha la propria durata, che potrebbe andare da qualche secondo a parecchie ore (Frijda et al. 1991; Verduyn et al. 2009 ). È stato studiato, nello specifico, che le emozioni spiacevoli hanno una durata maggiore e che la tristezza in particolare necessiti di maggior tempo per essere rielaborata (Verduyn e Lavrijsen, 2014).

In uno studio che ha preso in considerazione 27 emozioni, la tristezza è durata più a lungo, mentre la vergogna, la sorpresa, la paura, il disgusto, la noia, l’irritazione ed il sollievo sono state le emozioni più brevi (Scherer e Wallbott, 1994 ; Verduyn et al. 2009a; Verduyn e Brans, 2012; Verduyn e Lavrijsen, 2014). Nello specifico si è visto che “la tristezza dura fino a 240 volte più a lungo della vergogna, che sembra essere l’emozione più breve. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le differenze di durata sono molto minori” (Verduyn e Lavrijsen, 2014).

Qualcuno potrebbe dire: “ma se le emozioni durano qualche ora al massimo, come mai io allora quando mi arrabbio o sono triste mi porto dietro queste emozioni per una settimana??”.

Quando accade che un’emozione permane nella nostra mente e nel nostro cuore e sembra piantarci la tenda, non è l’emozione che decide di restare, non è una sua iniziativa. Siamo noi che, con mille pensieri e ruminazioni, la ancoriamo nella mente.

Quello che più di tutti è importante tenere in considerazione negli studi sulla durata delle emozioni è, infatti, che questa durata, così come pure l’intensità, siano condizionate fortemente dalle valutazioni che noi stessi facciamo dell’evento che le ha scatenate e dalle strategie che adoperiamo per gestirle.

Si è scoperto che “le emozioni piuttosto brevi sono tipicamente (ma, ovviamente non sempre) suscitate da eventi di importanza relativamente bassa, mentre le emozioni di lunga durata tendono a riguardare qualcosa di molto importante. Alcune di queste implicazioni possono diventare evidenti solo nel tempo, il che mantiene o rafforza l’emozione, facendola durare” (Verduyn et al. 2009b ).

In particolare la durata sembra dipendere fortemente dalla valutazione di una specifica minaccia a cui diamo importanza: quanto sia compromettente l’evento vissuto per l’immagine che la persona ha di sé (Shott, 1979). Ed ecco che torna la comparazione sociale: più la valutazione che faccio di un evento mi rimanda un attacco alla mia immagine personale, maggiore sarà la durata dell’emozione.

Un secondo elemento legato alla valutazione che influisce sulla durata dell’emozione è la ruminazione. Questa è uno spiacevole stratagemma mentale che ci illude di poterci dare una risposta confortante di un evento, o una nuova visione dei fatti, ma in realtà ci lega sempre di più a quanto accaduto e rinforza, minuto dopo minuto, l’emozione provata, alimentandola (Augustine e Hemenover, 2009; Wells, 2009).

La ruminazione non spiega solo le differenze di durata all’interno delle emozioni (un’emozione è tanto più intensa e duratura, quanto maggiore è il tempo di ruminazione), ma anche tra le emozioni (dura di più l’emozione su cui rimugino maggiormente) (Verduyn e Lavrijsen, 2014).

Questi meccanismi spiegano come mai alcune emozioni molto simili possano avere durate differenti: la vergogna ed il senso di colpa hanno molte caratteristiche sovrapposte (Tangney e Dearing, 2002), ma i dati attuali rivelano che ”la colpa è un’emozione che persiste molto più a lungo della vergogna. Allo stesso modo, paura ed ansia si sovrappongono a stati di avversione incentrati sulla minaccia” (Öhman, 2008 ), ma si osserva che la paura è molto più breve dell’ansia.

In conclusione, volendo fare un esempio, immaginiamo di subire un’ingiustizia che ci porterebbe a provare rabbia. Questa emozione potrebbe avere in media la durata di qualche ora. Ma se le nostre valutazioni attivano una serie di ruminazioni sull’ingiustizia subita, la durata sarà maggiore. Se inoltre nella ruminazione si rileva una svalutazione della nostra immagine, allora ci sarà da ipotizzare che la rabbia durerà ancora di più.

Non solo non possiamo essere sempre felici: la vita è sofferenza

La prima delle Quattro Nobili Verità del buddismo afferma: “La vita è sofferenza”. E questo perché non si può sfuggire a malattia, vecchiaia e morte. Ma non solo: il dolore verso un fatto accaduto può essere, come hanno riscontrato gli studi stessi, determinato dai nostri pensieri di non accettazione, di attaccamento ed avversione verso una realtà e sono proprio questi pensieri che influenzano la sofferenza stessa, ingrandendola, mantenendola più a lungo.

Nella psicologia cognitiva le cause della sofferenza sono in parte sovrapponibili a quanto affermato nel buddismo: si genera uno scopo nella mente della persona a causa di una disparità tra ciò che si desidera, o si necessita, e ciò che sia ha; la compromissione dello scopo crea sofferenza e questa sofferenza è poi mantenuta da un meccanismo di non accettazione del fatto che il proprio scopo sia compromesso o minacciato (Mancini e Perdighe, 2012). Lo scopo può essere qualcosa di esterno, un evento che accade o che si teme (avere un lavoro, avere un fidanzato, non avere una malattia), o interno, un’emozione, un pensiero (“non voglio avere paura; non voglio pensare a questa cosa; voglio essere felice”).

Questa è un’ulteriore conferma di come funziona la “Trappola della felicità”: desidero essere felice (perché lo reputo possibile), ma la compromissione del mio scopo (determinata da tutti i fattori precedentemente elencati) genera uno stato di sofferenza. Non accettare questa condizione mantiene ed aggrava la situazione spiacevole, portando magari ruminazioni e colpevolizzazioni (perché gli altri sembrano riuscirci).

Per mettere a tacere questa sofferenza occorre lavorare su tre punti (Mancini e Perdighe, 2012):

  • raggiungere lo scopo;
  • ridefinire lo scopo;
  • rinunciare allo scopo (accettazione).

In poche parole: disinvestimento nel nostro scopo compromesso o accettazione delle circostanze.

Questo articolo sulla felicità si pone proprio questi obiettivi: spingere il lettore ad accettare la condizione umana (di sofferenza) e disinvestire sull’illusione della felicità.

Un nuovo concetto di felicità: Vita Significativa VS Vita Felice

Concludendo possiamo dire che: il solo obiettivo che abbiamo ogni giorno è quello di essere “felici”, ovvero di raggiungere i nostri obiettivi, di far sì che lo stato desiderato e reale combacino.

Cerchiamo di raggiungere la felicità in mille modi, con grandi sforzi.

Puntualmente però, nonostante le nostre fatiche, ci ritroviamo a star male per un motivo o per un altro. E capita persino che ci biasimiamo perché non riusciamo ad essere felici (“come riescono tutti!”).

Ecco la brutta notizia: la felicità esiste, ma è uno stato momentaneo e transitorio così come la tristezza. Se arriva, inevitabilmente se ne andrà. E non è colpa tua. Non è perché non ti basta mai nulla o perché non hai fatto abbastanza.

Progettare di vivere una vita Felice è il primo passo per vivere nell’insoddisfazione.

Ma del resto c’è anche il rovescio della medaglia: anche le emozioni spiacevoli sono transitorie. Se non è così forse si è creato un blocco, occorre chiedere aiuto ad uno specialista.

Dato che la felicità è uno stato transitorio e, per definizione, in quanto animali in continua lotta per l’adattamento ed il progresso, viviamo in uno stato di continua sofferenza, siamo dunque destinati a vivere nell’infelicità?

La vita propone una terza opzione: non possiamo vivere una vita Felice, ma possiamo vivere una vita Piena e Significativa. Sarà dura a livello emotivo, ma molto gratificante.

Cosa si intende con vita significativa?

La psicologia cognitiva più recente, definita “di terza ondata”, sta osservando come alla base del benessere della persona debba esserci una predisposizione all’accettazione delle circostanze che non possono essere modificate. Questo è ad esempio il principio su cui lavora la ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Terapia bastata sull’Accettazione e sull’Impegno nell’Azione).

Viene sostituita la concezione di felicità intesa come “stato di contentezza e gioia” (che è tipico dell’emozione) da una nuova prospettiva, quella di “vita ricca e significativa”.

Non si rincorre più uno stato di benessere fugace ed instabile, ma un senso profondo di vita “ben vissuta”, in linea con i propri valori fondamentali, vivendo pienamente tutta la gamma delle emozioni, sia la positive che le negative, imparando ad affrontare il dolore (che è inevitabile) al meglio, con compassione ed accettazione, riducendone gli effetti deleteri al minimo (perché accetto e non rimugino).

Questo obiettivo si raggiunge attraverso un profondo lavoro su se stessi, perché l’accettazione ha bisogno di conoscenza e compassione.

Il più recente approccio psicologico adopera in questa direzione la Mindfulness: una forma di meditazione che aiuta la persona a stare con le proprie emozioni e con i propri pensieri, osservandoli senza giudicare. È un valido strumento per avvicinare i propri vissuti con un occhio curioso e compassionevole, che allena l’accoglienza di quello che c’è, così come è.

La soluzione quindi è abbandonare la speranza vana ed illusoria di una vita “felice” in senso estremo, ed optare per una vita piena, consapevole, significativa.

Questo è il “compromesso” che la vita ti offre, ogni giorno. Coglilo.

Non è “rassegnarsi”, è Vivere Consapevolmente, accettando anche quello che è spiacevole, ma inevitabile.

Troverai una nuova “felicità” che è accettare il “compromesso”, che è vivere il momento presente nel bene e nel male, standoci, senza fuggire.

E questa è una Scelta, che va fatta e praticata ogni giorno.

 

 

Il ruolo delle metacognizioni nelle dipendenze

Grazie al lavoro di Adrian Wells e i suoi collaboratori si è iniziato a studiare il ruolo delle metacognizioni in relazione ai disturbi psicologici, in particolare nell’eziologia e nel mantenimento.

 

Le metacognizioni

Esse sono definite come le cognizioni applicate alle cognizioni o pensieri sul pensiero, ed hanno per oggetto processi e strategie cognitive. In altri termini, sono le conoscenze e i processi cognitivi coinvolti nella valutazione, nel monitoraggio e nella regolazione del pensiero (Flavell, 1979).

Delle metacognizioni si possono distinguere due differenti aspetti: la conoscenza metacognitiva o credenze metacognitive e la regolazione metacognitiva (Flavell, 1979; Wells, 2000). La prima si riferisce alle informazioni che gli individui detengono circa i propri stati interni e i processi cognitivi e le strategie di coping per modificarli. La regolazione cognitiva invece fa riferimento al modo in cui le persone fanno una valutazione della situazione in cui si trovano e delle sensazioni riguardo la propria condizione mentale, si riferisce anche alle funzioni esecutive come il monitoraggio, l’attenzione, il controllo e il rilevamento di errori durante la performance (Wells, 2000).

Un altro aspetto chiave sono le strategie metacognitive, ovvero strategie di controllo e di modifica dei propri pensieri, che le persone mettono in atto per raggiungere un’autoregolazione cognitiva ed emotiva. Queste strategie si riflettono sull’attività cognitiva, che può essere modificata, intensificata e bloccata; hanno anche l’obiettivo di alterare alcuni aspetti della cognizione per ridurre i pensieri e le emozioni negative.

Strategie, esperienze metacognitive e conoscenze metacognitive operano congiuntamente nei disturbi psicologici.

Grazie al lavoro di Adrian Wells e i suoi collaboratori si è iniziato a studiare le metacognizioni in relazione ai disturbi psicologici, in particolare il loro ruolo nell’eziologia e nel mantenimento. Wells e Mattews (1996) hanno proposto il modello Self-Regulatory Executive Function (S-REF) ovvero il modello della funzione autoregolatoria, così chiamato perché descrive i fattori cognitivi e metacognitivi che sono coinvolti nel controllo e nel mantenimento dei disturbi emotivi.

Secondo questo modello le credenze metacognitive, o metacognizioni, determinano l’attivazione di pensieri e stili di coping disfunzionali che a loro volta generano e mantengono i disturbi psicologici. Alcuni di questi sono: stili di pensiero perseverativi come il rimuginio, comportamenti di coping come l’evitamento, ma anche strategie attentive di ipermonitoraggio e comportamenti di sicurezza che ostacolano esperienze in grado di modificare adattivamente le credenze problematiche. Tutti insieme, questi stili di coping vengono chiamati Sindrome Cognitiva Attentiva (CAS; Wells, 2000, 2013; Wells e Mattews, 1994) e rappresentano il nucleo di pensiero centrale nei disturbi psicologici.

La CAS si manifesta con uno stile di pensiero perseverante, con fenomeni di ruminazione, preoccupazione, focalizzazione dell’attenzione su strategie di coping e di autoregolazione disfunzionali. Questo fa sì che l’emozione negativa iniziale, invece che essere fronteggiata in maniera adattiva, si mantenga e che le idee negative del soggetto si rinforzino. Un esempio ideale per capire come opera la CAS può essere riscontrato nel funzionamento del Disturbo di Panico. Un attacco di panico può essere un evento abbastanza comune nella vita delle persone ma nel momento in cui il soggetto continua a preoccuparsi per possibili attacchi futuri, ottiene l’effetto di aumentare e prolungare lo stato di ansia. A questo concorre anche il fatto che egli cercherà di monitorare costantemente le proprie sensazioni corporee e tutto ciò faciliterà il ripresentarsi di attacchi di panico. Questo è ciò che accade nelle persone inclini ad attivare il pattern di risposta cognitivo-attentivo (Wells, 2011).

Il modello della funzione autoregolatoria sostiene che: (i) la CAS derivi da credenze di natura metacognitiva sottostanti piuttosto che da credenze su sé o sul mondo, (ii) l’attivazione della CAS mantenga e rinforzi le emozioni negative e che (iii) sia responsabile del mantenimento di un persistente senso di minaccia e di un’idea di sé negativa.

Le metacognizioni nelle dipendenze

Nel campo delle dipendenze molti studiosi (ad esempio Casale, Rugai, & Fioravanti, 2018; Caselli et al., 2018; Spada, Moneta, & Wells, 2007) hanno cercato di indagare il legame tra le metacognizioni e il comportamento dipendente, questo è stato fatto sia per le dipendenze comportamentali (gambling, uso problematico di Internet, uso problematico dei social network e gioco online) che nell’ambito delle dipendenze correlate ad uso di sostanze nel quale sono state studiate relativamente all’uso di alcool e al fumo.

Una review di Hammoniere e Varescon (2018) ha sottolineato come due tipologie di metacognizioni sono implicate nelle dipendenze comportamentali. Partendo dal fatto che della conoscenza metacognitiva si possono distinguere due aspetti, conoscenza della cognizione e conoscenza dei processi che regolano la cognizione, hanno distinto:

  • Metacognizioni generali circa esperienze cognitivo-affettive. È emersa un’associazione positiva tra questa tipologia di metacognizioni e alcune dipendenze comportamentali come l’uso di alcool e di nicotina, il gambling e l’uso problematico di Internet. In particolare, le credenze circa il bisogno di controllare i pensieri sono il miglior predittore della gravità della dipendenza.
  • Metacognizioni specifiche relative a strategie cognitivo-affettive. Autoregolatorie nei comportamenti che creano dipendenza, ne sono un esempio le strategie per regolare o controllare la cognizione (memoria, attenzione, pensiero) e le emozioni. In questa categoria sono state distinte metacognizioni positive e negative e sono state confermate per l’uso di alcol, di nicotina, nel gambling, nei giochi online e nell’uso problematico dei social media online.

Le metacognizioni positive fanno riferimento alle conseguenze positive (sulla regolazione emotiva e cognitiva) che si pensa possano derivare dal mettere in atto un comportamento.

Esempi di metacognizioni che influenzano la regolazione emotiva sono: “l’alcol mi aiuta a ridurre l’ansia”, “le sigarette mi aiutano a rilassarmi”, “il gioco d’azzardo mi aiuta quando mi sento depresso”. Esempi di quelle che influenzano la regolazione cognitiva sono: “fumare mi aiuta ad essere più concentrato”, “l’alcol mi permette di ridurre la ruminazione”, “il gioco d’azzardo mi aiuta a pensare a qualcos’altro” (Nikčević et al., 2017). La letteratura evidenzia che le metacognizioni positive sono implicate nella fase iniziale del comportamento problematico in quanto motivano l’individuo a intraprenderlo e portarlo avanti (Spada, Caselli, Nikčević & Wells, 2015).

Le metacognizioni negative sono credenze che il soggetto ha circa (1) le conseguenze negative del comportamento sulle funzioni cognitive come “l’alcol danneggerà la mia memoria”; (2) l’incontrollabilità dei pensieri relativi a quel comportamento, “i pensieri sull’alcol sono incontrollabili”; (3) lo stretto legame tra pensiero e azione come “se penso al gioco d’azzardo non posso fare a meno di andare a giocare”; (4) la percezione di mancanza di controllo sul comportamento come “non riesco a controllare l’impulso di fumare” (Nikčević et al., 2017). Nel loro insieme sono responsabili della perpetuazione del comportamento. Inoltre, sono attivate durante e dopo un episodio di coinvolgimento in un comportamento che crea dipendenza, rafforzano sia la percezione del fallimento nell’autoregolazione che gli effetti dannosi del comportamento sul funzionamento, che a sua volta promuovono pensieri ripetitivi e emozioni negative. Conseguentemente, costringono una persona a continuare a mettere in atto il comportamento nel tentativo disadattivo di regolare questi stati interni negativi (Spada, Caselli, Nikčević & Wells, 2015).

Spada, Caselli e Wells (2013) hanno ripreso il modello classico metacognitivo (S-REF) e lo hanno utilizzato nel campo delle dipendenze. Il modello è stato adattato per la dipendenza da nicotina (Spada et al., 2015) e il problem drinking (Spada et al., 2013). Di seguito sarà presentato un esempio relativo al consumo di alcol con lo scopo di far comprendere il ruolo delle metacognizioni nelle dipendenze.

L’alcol, così come le sigarette, è utilizzato come strategia di regolazione cognitiva ed emotiva guidata dalla necessità di controllare i pensieri e dalla percezione di scarsa efficacia del proprio funzionamento cognitivo, quindi una strategia di regolazione metacognitiva. Quest’ultima diventa tutt’altro che una regolazione adattiva in quanto avviene l’attivazione della CAS. Secondo il modello metacognitivo trifasico dell’assunzione problematica di alcol, i soggetti non riescono a far fronte all’impulso di mettere in atto il comportamento che gli produce gratificazione, ovvero bere, anche se sono consapevoli dei danni che questo causerà (Spada et al., 2015).

Spada, Caselli, e Wells (2013), autori del modello originale, sostengono che si possono concettualizzare la CAS e le metacognizioni attraverso tre fasi temporali della nascita della dipendenza; nel caso dell’alcol esse sono: una precedente all’assunzione, una nella quale viene assunto e una posteriore (Spada et al., 2013).

Nella fase di pre-contemplazione, triggers nella forma di impulsi, immagini, ricordi o pensieri attivano la S-REF e ad essa si associano credenze metacognitive che guidano le strategie di valutazione e gli stili di coping. In questa fase, metacognizioni positive come “bere mi farà sentire meglio” e metacognizioni negative come “non riesco a controllare i miei pensieri relativi all’assunzione di alcol” attivano l’elaborazione disfunzionale ripetitiva delle intrusioni e i tentativi di sopprimere questi pensieri (CAS). Questo porta a una escalation di sentimenti negativi e craving. Come conseguenza, si creerà un circolo vizioso in cui il soggetto inizierà ad utilizzare sempre di più la sostanza sia per regolare questi sentimenti che per cercare di allontanare la crescente discrepanza tra lo stato in cui si trova e quello desiderato.

Nella fase di assunzione, metacognizioni positive circa il bere e la riduzione del monitoraggio metacognitivo contribuiscono a un uso sregolato di alcol. La riduzione del monitoraggio deriva da strategie e comportamenti messi in atto per assumere l’alcol che distolgono l’attenzione dal monitoraggio del flusso di informazioni circa gli obiettivi del soggetto e dalla possibilità di identificare segnali che indicano di smettere di bere. Le ridotte capacità di monitoraggio in caso di comportamenti che prevedono l’assunzione di una sostanza come l’alcol, derivano anche dagli effetti chimici della sostanza stessa; essi non devono essere considerati nel caso di uso problematico dello smartphone poiché non viene utilizzata nessuna sostanza. Nel corso del tempo, man mano che si intensifica la gravità del comportamento, emergono credenze metacognitive negative sulla sua incontrollabilità che contribuiscono alla perseverazione del soggetto in questa attività. Esempi di queste metacognizioni sono “bere controlla la mia vita”, “non ho controllo sull’assunzione di alcol”, “continuo a bere nonostante cerchi di smettere”.

Infine, nella fase post-assunzione si attivano credenze metacognitive positive sulla ruminazione post-evento cioè “se analizzo come mai mi sento in questo modo, capirò perché uso l’alcol”. Le conseguenze negative di tipo affettivo, cognitivo e fisiologico che derivano da un uso problematico dell’alcol diventano oggetto di ruminazione. Questo ha l’effetto di far aumentare le sensazioni negative e i pensieri correlati all’alcol e porta al rafforzamento delle convinzioni metacognitive negative su tali pensieri (“non ho alcun controllo sui pensieri relativi all’uso di alcol”). A questo punto, tentativi di sopprimere i pensieri correlati alla sostanza aumentano la probabilità di utilizzarla nuovamente come mezzo per l’autoregolazione.

Da questo modello possiamo constatare come la CAS e le metacognizioni siano presenti nelle dipendenze e come l’approccio metacognitivo si adatti bene a spiegarne l’esordio e il mantenimento.

Possiamo concludere che la teoria metacognitiva sia particolarmente utile per la comprensione delle dipendenze. In modo particolare questa teoria distingue tra due tipologie di metacognizioni. Da un lato le metacognizioni positive inerenti i benefici derivanti del mettere in atto determinate attività (come gioco d’azzardo e l’uso di Internet) per la regolazione emotiva e cognitiva. Dall’altro quelle negative che concernono l’incontrollabilità del comportamento e la pericolosità dei pensieri ad esso associati. È stato trovato che quelle positive sono coinvolte nell’iniziazione dell’attività, quelle negative invece nel suo mantenimento.

 

Genitori, come gestire il problema alimentare – Report e video dal webinar condotto dal CIPda Milano in occasione della X giornata nazionale contro i Disturbi dell’Alimentazione

Report sul webinar tenuto dall’équipe multidisciplinare del CIPda, in occasione della giornata nazionale contro i Disturbi dell’Alimentazione (DA), per fornire ai genitori delle linee guida su come gestire le problematiche alimentari vissute dai loro figli.

 

L’incontro si è aperto con un saluto di benvenuto da parte della direttrice sanitaria del centro: la Dott.ssa Sassaroli; la quale ha ribadito la rilevanza di questo seminario, in quanto la figura del genitore assume un ruolo cruciale e determinante all’interno del quadro sintomatologico che il figlio sta esperendo. È stata focalizzata l’attenzione sui seguenti punti: l’importanza di cogliere la problematica tempestivamente, il maggiore rilievo clinico attribuito al disturbo alimentare oggigiorno rispetto al passato, la necessità di invitare il proprio figlio a rivolgersi a specialisti e soprattutto il bisogno di vicinanza emotiva costante. È stato introdotto anche il concetto di alleanza terapeutica: sia tra paziente e curante, sia tra curante e genitori, in quanto quest’ultimi possono essere una risorsa nucleare per un esito terapeutico proficuo.

Ha preso successivamente la parola la direttrice operativa della clinica: la Dott.ssa Nocita, la quale ha esplicitato l’obiettivo dell’incontro, che consiste nell’offrire ai genitori dei suggerimenti pratici per fronteggiare le criticità emergenti dei propri figli verso cibo e forma fisica.

L’impostazione dell’incontro si è articolata in 3 momenti:

  • Il primo dando voce ai vari specialisti dell’équipe che hanno offerto una prospettiva multidisciplinare rispetto alle strategie efficaci per la gestione delle principali criticità
  • Il secondo proiettando una video-testimonianza di genitori di una paziente che ha superato il disturbo alimentare
  • Il terzo dando spazio al pubblico per domande e curiosità

La Dott.ssa Nocita ha introdotto gli specialisti e stimolato il loro intervento, tramite quesiti specifici:

Dott.ssa Colantonio (psicologa): “Quali sono i campanelli d’allarme per poter individuare precocemente un possibile disturbo alimentare?”

È stato immediatamente ribadito quanto sia difficile individuare i segnali prodromici, in quanto nella società attuale comportamenti quali esercizio fisico protratto e diete dimagranti sono ben accettati e rinforzati: il confine tra un’”innocua” attenzione per l’alimentazione e la forma del corpo e l’esordio di una psicopatologia è, dunque, alquanto labile. Il genitore può, però, concentrare la sua attenzione su tre aspetti cruciali: ipervalutazione del peso e della forma fisica, comportamenti finalizzati alla perdita di peso (dieta ferrea, esercizio fisico eccessivo, abbuffate e meccanismi di compenso) e un’evidente modificazione ponderale (diminuzione o aumento del peso).

Dott.ssa Zagarese (psicologa): “Una volta appurati questi elementi, a quali specialisti è opportuno rivolgersi?”

Primariamente alla figura del medico di base, per poter attuare un primo filtraggio della problematica. Secondariamente a centri clinici con équipe multidisciplinari (psichiatra, psicoterapeuta, nutrizionista/dietista), specializzati nelle problematiche alimentari, che seguano protocolli evidence-based empiricamente efficaci.

Dott.ssa Tramontano (psicologa – psicoterapeuta): “Una volta accertata la diagnosi, come si possono orientare i genitori alla ricerca del trattamento più adeguato?”

Il consiglio è di orientarsi sempre verso terapie Gold-Standard indicate dalle linee guida internazionali (NICE, 2017) come terapie d’eccellenza per il trattamento del disturbo alimentare: la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy, CBT-E), grazie alla sua concettualizzazione transdiagnostica del disturbo, è indicata per tutte le sotto-categorie diagnostiche del disturbo. Il centro CIPda adopera come modello teorico e clinico proprio la CBT-E, indicata come trattamento d’elezione per tutti i target d’età. Si tratta di una terapia individuale e personalizzata: nonostante siano previste procedure implementate in maniera sequenziale, vengono sempre adattate alle esigenze e caratteristiche del paziente, il quale assume un ruolo attivo e cooperativo all’interno del trattamento. Il format individuale prevede anche il coinvolgimento dei genitori o degli altri significativi: nel caso degli adolescenti i genitori vengono sempre coinvolti, mentre nel caso di pazienti adulti vengono coinvolti se e solo se possono configurarsi come una risorsa ai fini del trattamento.

Dott.ssa Ranzini (psicologa – psicoterapeuta): “All’interno di un trattamento individuale, come possono i genitori rappresentare una risorsa per il cambiamento di loro figlio?”

Nonostante la CBT-E preveda un format individuale, i dati di ricerca affermano che i genitori assumono un’importanza cruciale per l’esito del trattamento, potendo diventare una risorsa attiva e determinante. In merito a ciò spetta al terapeuta fornire ai genitori sia spiegazioni sul razionale del trattamento, sia indicazioni psicoeducazionali sulle procedure pratiche ed efficaci da mettere in atto. L’obiettivo del coinvolgimento genitoriale consiste, dunque, nel favorire un ambiente familiare accogliente che possa facilitare il cambiamento; grazie anche alla fiducia che i genitori nutrono verso l’impegno del figlio per il trattamento.

Dott.ssa Ramponi (dietista): indicazioni pratiche per gestire proficuamente il momento del pasto

Il pasto e il seguente post-pasto costituiscono momenti di cruciale difficoltà sia per i pazienti, sia per gli altri significativi. A tal proposito, la prima strategia utile consiste nel prepararsi ai pasti anticipatamente: coinvolgendo il proprio figlio nella pianificazione del menù, individuando insieme a lui gli alimenti soggettivamente più semplici da gestire e concordando la porzione di consumo. La seconda direttiva consiste nel creare un clima più idoneo possibile, attraverso l’attenzione focalizzata su argomenti che non concernono minimamente i temi dell’alimentazione, del peso e della forma fisica. Il terzo punto consiste nel conoscere e saper gestire eventuali difficoltà emergenti: in questi casi è opportuno non costringere il proprio figlio a mangiare, bensì gli si rimanda che sta consumando quanto precedentemente concordato. Queste difficoltà potrebbero essere esacerbate da una sensazione di pienezza durante e post-pasto: è doveroso rimandare che queste sensazioni possono essere fortemente influenzate da stimoli emotigeni o essere conseguenti al sottopeso. Anche nel post-pasto risulta fondamentale proporre attività distraenti per distogliere l’attenzione dal cibo, dal corpo e da tutte le emozioni connesse.

Dott.ssa Amianti (biologa – nutrizionista): indicazioni pratiche per gestire i pasti fuori casa

L’alimentazione sociale si rivela un’esperienza notevolmente complessa, motivo per cui la reazione più frequente è l’evitamento, a cui segue un circolo vizioso di frustrazione, ansia e sensi di colpa. Il genitore può cercare di supportare il proprio figlio pianificando l’uscita, in quanto la pianificazione può aumentare il senso di controllo e conseguentemente abbassare l’ansia.

La specialista invita a focalizzare l’attenzione su tre momenti particolari:

  • Pre-pasto: risulta utile contestualizzare l’evento, definendo tutti gli aspetti che comportano l’uscita stessa: location, tipologia di menù proposto (es. scaricare menù online) per poter concordare a priori i dettagli del pasto
  • Durante il pasto: un ruolo cruciale è assunto dalla rete familiare e amicale che circonda l’individuo, dovrebbero essere totalmente evitati temi connessi a cibo, peso e forma fisica; orientando la conversazione su temi distraenti di altra natura
  • Post-pasto: potrebbero subentrare sensi di colpa e ansia per essere usciti dalla propria zona di comfort; il genitore, per essere di aiuto, potrebbe organizzare attività distraenti e interattive

Conclusi gli interventi dei singoli specialisti, ha avuto inizio il secondo momento dell’incontro: la video-testimonianza dei genitori la cui figlia ha superato il suo disturbo alimentare, a seguito della presa in carico al CIPda. Dalla video-testimonianza dei genitori sono emerse le seguenti indicazioni:

  • Ricordarsi che la causa del disturbo alimentare è sempre multifattoriale: non è mai solo “colpa” del genitore, il quale spesso può provare sensi di colpa per la condizione del figlio
  • Viene ribadita l’importanza di rivolgersi a protocolli validati scientificamente (“Nonostante la rigidità, si è rivelato efficace”), aiutando il proprio figlio a scegliere il percorso più adeguato
  • Manifestare supporto costante ai propri figli, ma sempre rispettando il loro spazio di cura
  • Tenere a mente la metafora dell’orchidea paragonata ad un figlio con disturbo alimentare: “Un’orchidea spoglia, se ben curata, può sempre rifiorire in tutta la sua bellezza; bisogna, però, ricordarsi di tenerla annaffiata!”

Il webinar si è concluso con un ultimo spazio dedicato alle domande dal pubblico: le risposte ai quesiti rimanenti sarebbero state reperibili sulla pagina Facebook, sotto forma di brevi video, che hanno riscontrato un elevato livello di gradimento dagli ascoltatori.

 

GENITORI: COME GESTIRE IL PROBLEMA ALIMENTARE – Guarda il video integrale del webinar:

 

 


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Meditazione su Netflix? Sì con le guide di Headspace

Headspace si presenta come una guida alla meditazione, rappresentata da disegni morbidi e colori vivaci che, accompagnata da una voce narrante, introduce in ogni puntata una diversa tecnica di meditazione.

 

Quante volte accendendo la tv o altro dispositivo, ci siamo detti “avrei bisogno di qualcosa che mi aiuti a rilassare” magari dopo un’intensa giornata lavorativa o semplicemente per trascorrere del tempo in tranquillità. Ebbene sì, Netflix ha da poco introdotto nel suo catalogo una nuova esperienza chiamata “Headspace”, portando comodamente a casa tua la meditazione.

Il 2020 sarà senz’altro ricordato come uno degli anni più difficili e complessi, a causa della diffusione del Covid-19 che ha coinvolto tutto il mondo. Questo ha portato con sé maggiori insicurezze economiche e sociali e nuove sfide da affrontare per la sanità globale. Le persone, a causa di limitazioni e restrizioni imposte, hanno sofferto molto, con ripercussioni non solo sulla salute fisica ma anche psicologica. Difatti, sono aumentate notevolmente sintomatologie ansiose-depressive, disturbi del sonno, stress e problemi relazionali. Inoltre, ha portato ad una maggiore riflessione interna, su tematiche di vita esistenziali e profonde che non troveranno risposte immediate. Il mondo che conoscevamo è cambiato e ha portato inesorabilmente cambiamenti anche dentro noi stessi.

A gennaio 2021, dopo anni dalla creazione della prima app di meditazione, “Headspace” fa il suo debutto sulla piattaforma Netflix, proponendo una nuova esperienza on-demand chiamata “Le Guide di Headspace”, una facile guida alla meditazione che permette a tutti di svolgerla nella comodità di casa propria. Headspace si presenta come una guida alla meditazione, rappresentata da disegni morbidi e colori vivaci che, accompagnata da una voce narrante, introduce in ogni puntata una diversa tecnica di meditazione, prima spiegando la tecnica e poi guidando nella pratica.

Questa novità si compone di 8 episodi. Ognuno di questi ha una durata di 20 minuti: 10 minuti di introduzione alla tecnica meditativa e i suoi benefici e altri 10 minuti di pratica meditativa.

Cosa vuol dire meditare?

La meditazione permette, attraverso una pratica quotidiana, di divenire maggiormente consapevoli dei propri stati interni, pensieri, emozioni, percezioni e del proprio stato corporeo. Generalmente alcune forme meditative propongono di iniziare con il porre l’attenzione ad alcune attività che svolgiamo comunemente nelle nostre vite o che mettiamo in atto in maniera automatica, come ad esempio, spostare l’attenzione sul nostro corpo e prendere consapevolezza delle superfici con cui entra in contatto, per poi spostare l’attenzione al respiro, l’aria che entra ed esce dalle narici oppure l’addome che si alza e si abbassa. Prendere consapevolezza significa ascoltare le sensazioni del nostro corpo, prendere dimestichezza con la natura della nostra mente e osservare il flusso di pensieri, accettandolo per quello che è e sospendendo qualsiasi tipo di giudizio. Così la meditazione si propone di offrire una vita molto più ricca e intensa, caratterizzata dalla consapevolezza, disinnescando il “pilota automatico”.

In particolare, Jon Kabat-Zinn (1994), teorico del protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), definisce con la parola Mindfulness “porre attenzione in un modo particolare, ovvero: essere, nel momento presente e in modo non giudicante”.

Accettare di vivere nel momento presente significa non abbandonare noi stessi, ma anzi prenderci cura.

Perciò la presa di consapevolezza e poi l’accettazione, sono i primi passi necessari per qualsiasi persona che voglia intraprendere un vero cambiamento, che tenga conto dei propri valori reali.

“Capire chi siamo, e sapere dove vogliamo andare è l’inizio di un lungo percorso nel rispetto di noi stessi e degli altri”.

Quali sono i benefici?

I benefici della meditazione non comportano soltanto una maggiore consapevolezza a livello fisico e mentale, ma anche una riduzione dello stress, ansia, paura e aggressività.

Ulteriori studi hanno confermato come praticare meditazione quotidianamente possa portare ad un miglior recupero post-operatorio, aumento delle difese immunitarie, miglioramento del sistema cardio-circolatorio, miglioramento del tono dell’umore (Krygier et al., 2013).

Inoltre, negli ultimi trenta anni, il proliferare di ricerche hanno permesso di verificare l’efficacia meditativa nella gestione delle diverse forme di dolore cronico (Kabat-Zinn, Lipworth, & Burney, 1985).

Visto i promettenti benefici e l’assenza di effetti avversi, non resta che l’invito a provare anche voi questa nuova esperienza. Di questa, potranno beneficiare tutti indistintamente, sia i principianti sia gli esperti di meditazione.

Quali prospettive future?

Intanto, la piattaforma digitale di streaming, ha già pensato ad un’altra sfida che farà il suo debutto il prossimo 28 aprile, lanciando “Le guide di Headspace: il Sonno” offrendo consigli utili e un rilassamento guidato per dormire meglio.

Netflix, promuovendo contenuti di questo tipo, ha dimostrato come possa essere versatile e facile raggiungere gran parte della popolazione, proponendo di tanto in tanto contenuti pensati per essere utili anche al benessere psicofisico delle persone. Chissà se tale esperienza, potrà essere di aiuto in alcuni momenti di difficoltà nella vita quotidiana.

Detto ciò, in futuro potremmo pensare di far arrivare altri messaggi e contenuti, ma anche fornire strumenti pratici, mirati alla prevenzione e alla promozione della salute mentale, come ha fatto con headspace.

 

La principessa che aveva fame d’amore (2017) Come imparare a nutrire se stesse – Recensione del libro

Nel libro La Principessa che aveva fame d’amore, di Maria Chiara Gritti viene affrontato, attraverso la favola, il tema del nutrimento dell’anima e del cuore. Di come molte donne imparano che l’unico modo per essere amate sia quello di sacrificare se stesse pur di avere vicino il principe che le nutrirà con il vero amore. Un principe che però spesso resta un rospo, a cui si dà tutto, ricevendo in cambio poche briciole, oppure niente.

 

Un libro definito “geniale”, che, attraverso il racconto di ambientazioni magiche, affronta con delicatezza il dolore della dipendenza affettiva, ma soprattutto che sa rendere speciale il passaggio verso la rinascita di queste donne-principesse che necessitano soltanto di una guida e una bussola che le aiuti a rimettersi sulla giusta strada, quella verso se stesse.

Parte tutto da una leggenda, quella dei Pani che hanno un grande potere nutritivo, tanto da aiutare i bambini lungo la loro crescita a diventare adulti forti e capaci di trovare felicità e soddisfazione nella loro esistenza. Scopriamo così il Pane del Gioco, dell’Immaginazione, dell’Amicizia, dell’Impegno e tanti altri, fino a quello che completa tutto: il Pane dell’Amore. E’ il Pane più difficile da impastare, i suoi ingredienti sono nascosti nel cuore e solo chi ha il coraggio di avventurarsi li raggiunge. Ed è proprio su questa avventura che ruota il libro, l’avventura che è ricerca dell’amore, della pienezza nella propria vita, di ciò che rende davvero sazi.

Inizialmente però, quest’avventura nasce per trovare il principe che sazierà per sempre la fame della nostra protagonista (che da tempo è affamata); molte energie sono spese e investite per questo scopo. Viene così da pensare, leggendo di questo investimento: energie utilissime ma incanalate male. Quante volte capita infatti nella vita? Si investono tempo, risorse e abilità mentali, emotive e sociali in qualcosa che non funziona, nel ripetere ostinatamente la stessa strada nella speranza che stavolta possa essere diverso, che finalmente tutte quelle energie non siano state spese a vuoto ma avessero un senso, e il senso era ottenere l’amore tanto agognato di un principe.

Ma quello che si domanda l’autrice è questo: Come può una ragazza poco nutrita d’affetto riconoscere il sapore del vero amore?

Non è forse questa la strada per scambiare ogni rospo per un principe a cui darsi completamente, senza però ricevere granché in cambio? Ecco, questo è ciò che definisce la Dipendenza Affettiva, quella strana cecità del cuore che porta ad accontentarsi di un riempitivo qualunque.

Parliamo infatti di Dipendenza Affettiva quando il bisogno di stare con l’altra persona è così rigido da far dimenticare se stessi, i propri bisogni e la propria individualità; quando tutti gli sforzi, reali o mentali, sono concentrati sull’altro e sulla relazione, nonostante la palese infruttuosità. Solitamente si sviluppa a fronte di una forte insicurezza circa la propria identità, di un senso di vuoto affettivo, del non sentirsi riconosciuti e amabili se non attraverso la presenza dell’altro. “Se c’è l’altro allora esisto, allora mi amo”. Ed è per questo che si mette in gioco di tutto pur di avere l’altro vicino, per allontanare il dolore del sentire di non esistere e di non essere degni di amore.

La principessa di questa favola incarna perfettamente tutto ciò; attraverso l’annullamento totale dei propri bisogni, appare come la figlia perfetta. Questo perché, come succede alla protagonista, nella vita di chi sviluppa una dipendenza affettiva, le figure di riferimento sono presenti ma in modo ambivalente, e questo porta spesso a situazioni caratterizzate da una sorta di scambio di ruoli tra genitore e figlio (bambino- adultizzato e genitore-bambino). Nella favola i genitori sono troppo impegnati a cercare di soddisfare il loro vuoto nutritivo e si dimenticano di nutrire la figlia come si deve; da un lato, un padre il cui bambino interiore, denutrito e trascurato, prende il sopravvento richiedendo costantemente ciò che non ha mai ricevuto e dall’altro, una madre pronta ad annientarsi per quel bambino denutrito pur di averlo al suo fianco per sentirsi amata e degna. Ed è in tutto questo che la principessa-protagonista impara a non chiedere più nulla, a non dare “fastidio” ai genitori, anzi, a cercare lei stessa di alleviare i loro dolori facendo di tutto per accontentarsi dei Pani stanchi e senza sapore che le vengono propinati. Diventa col tempo una “brava bambina”, buona e obbediente, al completo servizio dei bisogni (esclusivamente) degli altri, perché, come tante donne, ha imparato che solo così si può essere amate, e, nonostante sia capace e piena di talenti, sacrifica tutto per soddisfare la sua vorace fame d’amore.

La principessa avrà molte difficoltà a riconoscere il vero amore, perché quel vuoto scavato dentro di lei è molto richiedente, distruttivo e pretende di essere riempito con qualsiasi cibo e come le donne che si aggrappano a storie deludenti, perfino violente, anche lei perde l’autostima, la fiducia in sé e la propria vitalità. Finisce col perdere se stessa in questa ricerca affannosa del principe che avrebbe dovuto riempire quel vuoto d’amore. Anni di denutrizione e di percorsi sbagliati le portano via anche la speranza e la convincono di non meritare amore.

Ma è proprio qui che può cominciare la rinascita, è proprio fermandosi dalla frenesia e dal rumore assordante del mondo che si ha la possibilità di ascoltare e comprendere la fame che ci si porta dentro. E attraverso la bellissima metafora che richiama il percorso della psicoterapia, la principessa persa comincia ad imparare tante cose su di sé che neanche immaginava, condivide il suo dolore con altre principesse come lei e intraprende il percorso verso ciò che davvero può nutrirla.

Proprio come molte donne, non è facile risalire dalla voragine in cui si sprofonda, il percorso è fatto di tanti ingredienti sconosciuti da scoprire dentro di sé più che al di fuori: amor proprio, autenticità, fiducia in sé, perdono per i propri errori, capacità di rendersi felice e di rendere piena la propria vita. E’ la metafora del salvare la propria bambina interiore, dimenticata in un angolo remoto del proprio cuore, a cui non è stato permesso di esprimere se stessa e a cui è stato fatto credere che solo un uomo potesse salvarla.

La principessa dovrà dedicare diverso tempo alla bambina nel suo cuore grazie alla scoperta dei suoi talenti e questo le consentirà di tornare a se stessa, di tornare a casa e diventare così la regina del suo cuore. Quando queste donne imparano a non accontentarsi più delle briciole possono prendere in mano la valigia dei sogni e andare nel mondo a realizzare i loro desideri, perché come insegna questa favola, l’unico modo di nutrire il vero amore è imparare a nutrire noi stesse.

 

Yoga in adolescenza: effetti sulla regolazione emotiva, autostima ed affettività

Janjhua et al. (2020) si sono occupati di studiare gli effetti dello yoga sulla regolazione emotiva, l’autostima e l’affettività confrontando tra loro 52 adolescenti che praticavano yoga, con 58 che non lo hanno mai praticato.

 

L’adolescenza è una fase di vita caratterizzata da cambiamenti, oltre che fisici, psicologici, sociali ed emotivi.

Le trasformazioni e gli eventi di vita possono essere esperienze profondamente impattanti, che aumentano la vulnerabilità ed il rischio di insorgenza di disturbi psicologici, come stress, ansia, rabbia, depressione ed esaurimento emotivo.

Ansia e depressione comportano uno scarso rendimento scolastico (Bhasin et al., 2010), difficoltà di comunicazione con amici e familiari (Brooks et al., 2002; Gregory, 2007), abuso di sostanze ed incremento del rischio suicidario (Kumar et al., 2014; Pollock et al., 1995). Inoltre, possono insorgere sensazioni di inadeguatezza sociale (Clarke, 2006), frustrazione e percezione di fallimento (Clark & Rieker, 1986).

Gli adolescenti emotivamente vulnerabili riportano difficoltà nella regolazione emotiva, bassa autostima e problematiche affettive, con insorgenza di disturbi dell’umore.

Agire precocemente sugli aspetti di regolazione emotiva, oltre a migliorare la salute psicologica, può contrastare l’insorgenza di disturbi dell’umore in giovane età adulta (Roza et al., 2003).

Secondo la letteratura, l’autostima, declinata nella percezione delle relazioni interpersonali, gestione delle emozioni negative e controllo sugli eventi di vita (Fiorilli et al., 2019), è il più forte predittore di depressione adolescenziale. Mentre in questa fascia della popolazione, bassi livelli di autostima predicono maggiori difficoltà psicologiche (Kernis et al., 1998; Orth et al., 2008), un’adeguata fiducia di sé aumenta la soddisfazione di vita, la felicità, riduce ansia, depressione e solitudine (Cacioppo et al., 2009).

Nel corso degli anni, lo yoga si è rivelato un ottimo strumento di intervento per contrastare i disturbi dell’umore, difficoltà di autostima e regolazione emotiva, oltre che consentire un miglioramento della salute mentale e contrastare i sintomi ansiosi (Ross & Thomas, 2010).

In particolare, lo yoga è stato integrato nelle attività scolastiche apportando un contributo significativo nell’alleviare lo stress, l’ansia, migliorare la resilienza, l’umore e le capacità di autoregolazione emotiva (Hagen & Nayar, 2014). Oltre ad aver incrementato i livelli di autostima e consapevolezza di sé tra i ragazzi alle scuole superiori (Van Yperen, 2003), ha migliorato le loro capacità cognitive (Van Yperen, 2003), in particolare quelle di memoria e di concentrazione (Galantino et al., 2008).

Coloro che lo praticano divengono consapevoli dei suoi benefici nel controllo emotivo in quanto non va ad agire solo sulla dimensione fisica, ma rafforza gli aspetti mentali ed affettivi.

Rispetto alla semplice ora di educazione fisica praticata nelle scuole superiori, lo yoga ha contribuito in modo rilevante alla gestione della rabbia e al controllo degli impulsi, sostenendo i ragazzi nell’individuare condotte alternative a quelle aggressive (Setty A.G et al., 2017).

Un’ulteriore indagine ha riportato un aumento significativo del benessere mentale ed una diminuzione dello stato di ansia tra i partecipanti, dopo solo 15 giorni di pratica (Telles et al., 2019). Nello studio di Newman et al. (2020), ha aumentato i livelli di autostima, sostenuto nella formazione dell’identità, nella capacità di affrontare la rabbia in modo adattivo e nella pianificazione e concentrazione.

Oltre a promuovere maggiore benessere tra gli individui sani, lo yoga agisce positivamente in persone che soffrono di malattie fisiche apportando benefici nei casi di allergia respiratoria, diabete, malattie coronariche e durante gli interventi di riabilitazione.

Secondo la letteratura, lo yoga ha il potenziale per aiutare gli adolescenti ricoverati per problematiche acute presso gli ospedali psichiatrici, in quanto offre loro uno strumento efficace per regolare gli affetti spiacevoli e trovare sollievo durante il periodo di degenza (Re et al., 2014).

Il linea con le ricerche precedenti, Janjhua et al. (2020) si sono occupati di studiare gli effetti dello yoga sulla regolazione emotiva, l’autostima e l’affettività confrontando tra loro 52 adolescenti che praticavano yoga, con 58 che non lo hanno mai praticato.

In generale, gli studenti che praticavano yoga riportarono un’affettività più positiva, migliore autostima e più efficaci abilità di regolazione emotiva.

Coerentemente con la letteratura precedente, lo yoga apportava un contributo significativo alle abilità di regolazione degli affetti spiacevoli, non presente tra coloro che praticavano solamente educazione fisica (Kumari & Sahu, 2018).

Inoltre, chi praticava yoga aveva riportato maggiore accordo alle affermazioni positive sull’autostima rispetto a quelle negative, a testimonianza di una maggiore fiducia verso di sé, soprattutto legata al contesto sociale. Chi non praticava yoga aveva riportato maggiori affermazioni negative sull’autostima, ed suoi livelli erano significativamente inferiori (Telles, 2017).

Mentre chi lo praticava aveva riportato una maggiore affettività positiva e bassi sentimenti negativi; chi non lo praticava era vittima di sentimenti negativi, maggiore tristezza, rabbia e stanchezza. Inoltre, gli studenti che lo praticavano mostravano una migliore regolazione degli affetti spiacevoli essendo più felici, energici, concentrati e generalmente più sani.

In conclusione, per l’impatto positivo ed i benefici che può apportare nella salute fisica e mentale degli adolescenti, lo yoga dovrebbe essere integrato nel contesto scolastico, accanto alle ore di educazione fisica.

Al fine di offrire programmi di yoga fin dalla tenera età, è necessario formare gli insegnanti, renderli consci dei vantaggi che può offrire, affinché offrendosi come esempio positivo, possano motivare gli studenti all’apprendimento di tale pratica.

 

L’altro volto della divisa

Essere militare è una scelta di vita, una vocazione con la quale si nasce, lo chiamano “amor di Patria”, ma è veramente solo questo? O dietro a quella divisa si nasconde qualcosa di più?

 

La verità? Non si può essere forti da soli, non basta un duro addestramento a trasformare un giovane ragazzo in un uomo dalle spalle forti, ci vuole chi gli insegni a tenere duro, qualcuno che rappresenti un posto più sicuro di una trincea, nel quale fare ritorno dopo una qualsiasi battaglia: la famiglia.

Stress, ansia e difficoltà nelle famiglie dei militari

Le famiglie di militari sono quelle più sottoposte a stress dovuto non solo alle frequenti missioni all’estero, specie nei primi periodi di impiego nelle FF.AA,  ma anche ai numerosi trasferimenti. È noto infatti come questi ultimi influiscano pesantemente sull’equilibrio familiare. Ogni trasferimento determina cambiamenti per tutti i membri della famiglia, da svariate abitudini alle amicizie e impone di dover ridefinire costantemente una nuova routine. Questo spesso porta la famiglia a rinunciare a tutti i benefici conseguiti in un determinato contesto sociale, soprattutto quando si è costretti ad adattarsi ad un habitat scarsamente dotato di servizi, imponendo così a tutti i componenti della famiglia di accontentarsi delle risorse disponibili sul territorio.

Stress, ansia e difficoltà non possono essere considerati problemi legati solo ed esclusivamente alla famiglia del militare, in quanto evidenze empiriche hanno provato come soldati in missione, preoccupati per la propria situazione familiare, siano meno affidabili e meno efficienti nelle prestazioni lavorative. È stato dimostrato però come attraverso l’aiuto e il sostegno, le famiglie siano in grado di risolvere i propri problemi in maniera più efficace, senza pesare psicologicamente sul proprio caro lontano da casa.

Un altro fenomeno alquanto importante, che ha delle ripercussioni nel contesto familiare, è quello del pendolarismo. Spesso, soprattutto quando i figli (se presenti) superano l’età della scuola dell’obbligo, è concesso al militare di alloggiare fuori dalla sede di servizio. Questa soluzione sembra garantire l’unità della famiglia ma solo a prima vista, in quanto il militare pendolare, oltre a sopportare il peso delle ore di viaggio, è costretto a trascorre un tempo estremamente limitato nella propria abitazione, limitando così il dialogo e l’interazione con i cari. Questo fenomeno, se gestito scorrettamente, induce stanchezza, irritabilità, difficoltà di comunicazione, ecc. che possono sfociare in problematiche correlate allo stress quali depressione, traumi e disturbi psicofisici di vario genere. Tutto questo incide fortemente sulla vita del militare caratterizzata pertanto da una serie di limitazioni e vincoli imposti ai progetti personali.

Le difficoltà che emergono, a seguito dei ricorrenti distacchi prodotti dall’invio in missione del partner militare, sono condivise da più famiglie. Il distacco è sempre percepito come negativo e tende a sua volta a generare stress e un senso di privazione, specie in chi resta a casa ad aspettare. Quello che spesso accade è che problematiche come queste vengono taciute per evitare di gravare ulteriormente sulla condizione psicologica di chi, per giuramento, non può sottrarsi ai suoi obblighi professionali.

Con il passare del tempo l’impatto iniziale e le difficoltà del distacco diventano sempre meno forti, ma dover ridefinire costantemente una propria routine, in assenza del partner, risulta essere piuttosto difficile se non si ha qualcuno accanto sul quale poter contare.

Al problema del distacco è correlato quello del ritorno, non è semplice ri-adattarsi ad un contesto con abitudini e routine completamente diverse da quelle alle quali si è stati sottoposti nel periodo di assenza da casa, e alle quali si è costretti a rinunciare nuovamente dopo poco tempo, a tal proposito questo richiede uno forzo, non indifferente, da entrambe le parti.

Famiglia e vita militare: un po’ di storia

Per un lungo periodo, le forze armate hanno ostacolato i militari nel costruirsi una propria famiglia, in quanto si temeva potesse essere un impedimento al lavoro e allo svolgimento della professione di soldato. Questo divieto, in passato, veniva imposto specialmente ai più giovani di età e ai più bassi in grado ma non accadeva lo stesso con i giovani Ufficiali.

Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che negli Stati Uniti si iniziò a comprendere l’importanza del ruolo della famiglia nella vita di un soldato, come meccanismo di sostegno a chi era costretto a combattere al fronte. Questa attenzione però, in un primo momento, era del tutto “strumentale”, in quanto mirava al benessere del militare, e quindi responsabile delle sue prestazioni positive sul lavoro.

A tal proposito a partire dagli anni ’50 era permesso alle famiglie di seguire i militari/congiunti continuamente trasferiti da una base all’altra e si arrivò a comprendere che la famiglia doveva essere pronta a sostenere il peso e le difficoltà di una missione, tanto quanto un soldato.

Ma allora cosa possiamo fare per tutte le famiglie costrette a sopportare il peso dell’attesa?

Supporto alle famiglie dei militari

Il supporto alle famiglie dei militari è utile per creare un equilibrio tra vita privata e esigenze lavorative. Sono state proposte diverse attività di sostegno:

  • un’organizzazione istituzionale interna gestita localmente presso ogni reparto, in grado di fornire assistenza e aiuto in diversi campi professionali (medico, psicologico..);
  • un’associazione volontaria, esterna all’Istituzione, senza legami o vincoli con l’organizzazione militare;
  • un’associazione volontaria che però riceve riconoscimento e sostegno istituzionale a livello locale ovvero dal reparto presso il quale sorge e opera, utilizzando spazi, mezzi di comunicazione e supporto logistico interni;
  • sportello di ascolto gestito da personale militare specializzato nel fornire indicazioni e informazioni.

Spesso vengono organizzati incontri e riunioni per spiegare a mogli/mariti e figli (chiamati in inglese military brat) lo scopo della missione in cui viene impiegato il proprio congiunto.

Nonostante le tante possibili soluzioni alcuni nuclei familiari sentono di non dover condividere le proprie difficoltà, i motivi sono generalmente due: il primo è quello di ritenere che la diffusione di notizie possa nuocere alla carriera del soldato interessato, il secondo è la completa autonomia da parte della famiglia nello gestire la situazione problematica.

In passato si usava inviare lettere ai propri cari, i tempi di attesa erano estremamente lunghi e ogni volta si doveva sperare che non andassero perse, l’invenzione del telefono ha permesso di accorciare i tempi e ha reso la lontananza dal proprio caro più sopportabile. Oggi con lo sviluppo delle tecnologie (Skype, WhatsApp, ecc.) le distanze si riducono ulteriormente e tutti questi strumenti consentono a militari e familiari di rimanere in contatto psicologico ed emotivo.

Supporto alle famiglie dei militari in Italia

In Italia il supporto alle famiglie dei militari non si è del tutto affermato. Purtroppo ancora oggi quando si cerca di parlare con qualcuno dei propri disagi, provati a seguito della mancanza del partner o di un genitore, ci si sente rispondere con frasi del tipo: “sapevi a cosa andavi incontro”, “ma guadagna un sacco di soldi” e si finisce per chiudersi in se stessi perché poco o per nulla compresi. Tutto questo porta all’insorgenza di disagi familiari che spesso si traducono in divorzi (non a caso il tasso di divorzi di membri delle FF.AA in Italia è altissimo).

Nel 1993 un gruppo di mogli e fidanzate ha dato vita a un’organizzazione di supporto chiamata “3M-Moglie, Marina, Militare” e nel 2013 è nata a Grottaglie (TA) l’associazione “L’altra metà della divisa” con l’obiettivo di fornire sostegno completo alle famiglie del personale militare favorendo serenità e benessere. Alla base di questa associazione vi è il motto “insieme possiamo fare la differenza”, l’idea che si vuole trasmettere è quella che qualunque problema può risultare meno spaventoso se condiviso con altri.

La presenza di questi gruppi/associazioni può essere considerata come un duplice aiuto offerto da una parte alle famiglie e dall’altra al militare che potrà assolvere al proprio ruolo con maggiore concentrazione, certo del fatto che i propri  cari non verranno mai lasciati soli.

L’importanza della famiglia e il suo ruolo centrale a sostegno della figura del militare sono ormai noti e, a tal proposito, una poesia di Giuseppe Ungaretti, il grande poeta soldato, che mi ha sempre affascinata per la semplicità e chiarezza nelle parole, recita così “Sorpresa dopo tanto d’un amore. Credevo di averlo sparpagliato per il mondo”. È evidente come il poeta esprima un concetto ampio quale quello del ritorno a casa e la sua successiva sorpresa nel realizzare che l’amore per i cari sia rimasto sempre lo stesso, nonostante lo scorrere del tempo.

Quella di Ungaretti rappresenta per noi la testimonianza di un uomo che ha vissuto due realtà tanto diverse tra loro: quella del campo di battaglia e quella dell’ambiente familiare in cui ogni soldato spera sempre di far ritorno.

In un’intervista ai corpi speciali delle FF.AA un giovane incursore (del quale non è possibile, per privacy, riportare il nome) ha dichiarato:

Una notte durante un addestramento mi è passata la vita davanti, ho pensato alla mia famiglia, ma quando mi sono chiesto perché lo stessi facendo e se ne valesse la pena arrivare fino alla fine del tunnel la mia risposta è stata…Sì.

Di questa affermazione ciò che mi ha colpita di più è stato il pensiero, che questo ragazzo ha rivolto, anche solo per un istante, alla sua famiglia, alla quale, per scelte professionali, è costretto a togliere del tempo.

Ma cosa potrebbe accadere se non si fornisse il giusto supporto psicologico ai membri delle FF.AA?

Suicidi in ambito militare

In un’intervista il Gen. Claudio Graziano, ricordando la figura del nonno, soldato al fronte durante la prima guerra mondiale, afferma:

Lui non aveva voglia di morire, per lui la vita era importante, si accettava la morte perché all’epoca la dimensione della guerra era diversa.

Gli antenati degli attuali corpi speciali delle FF.AA: gli Arditi erano guardati con ammirazione e anche con un po’ di invidia in quanto addestrati a prendere decisioni autonomamente, sfidavano la morte ma erano desiderosi di vita.

Ma allora cosa spinge questi uomini al suicidio?

Il suicidio non può essere mai considerato l’effetto di una sola causa, sono diversi i fattori che intervengono a determinarlo e ancora oggi è concepito come un fenomeno sottovalutato e negato.

Da un militare ci si aspetta che sia perfetto, un eroe chiamato ad intervenire per salvaguardare la nostra sicurezza e sono tutte queste false credenze, ancora purtroppo condivise, che impediscono all’uomo sotto quella divisa di esprimere il suo disagio, portandolo a ricorrere al suicidio come unica soluzione al problema, come ricerca di una libertà che porta alla perdita della libertà stessa.

Quest’ultimo si verifica quando passato, presente e futuro non forniscono più nessuna ragione di vita.

Il suicidio costituisce la terza causa di morte nelle Forze Armate, come riportato nell’articolo Suicidio: linee di comprensione e di epidemiologia dell’Osservatorio Epidemiologico della Difesa:

Dei 155 suicidi notificati all’Osservatorio dal 2006 al 2014, la percentuale maggiore dei casi pari al 60% riguarda l’Arma dei Carabinieri, seguono l’Esercito con una percentuale del 28%, l’Aeronautica con il 7% e infine la Marina con il 5% dei casi.

Potrà apparire come una soluzione banale ma il semplice colloquio, pur non essendo un vero e proprio intervento terapeutico, permette di individuare quelli che possono essere definiti, come riportato nell’articolo sopra citato, “primi indizi di un disagio”. Un passo avanti in questa direzione è stato fatto proprio negli Stati Uniti, dove è stata proposta una serie di programmi educativi al fine di facilitare la comunicazione del disturbo.

Solitudine, ansia, stress, depressione, traumi sono tra le principali cause del suicidio in ambito militare, pensate a quanto possa essere difficile parlarne per chi ogni giorno “rischia la carriera”.

Al pari del suicidio, anche il tentato suicidio richiede un’attenta analisi, il sociologo Emile Durkheim lo definisce così:

Il tentativo di suicidio è l’atto così definito ma arrestato prima che ne risulti la morte.

In queto caso intendiamo sia fenomeni di autolesionismo che il “mancato suicidio”, ovvero un atto di suicidio pianificato ma fallito per cause accidentali.

Nell’articolo in questione, tra le dimensioni psicologiche, costituenti fattori di rischio, viene riportato

Hopelessness, una tendenza a percepirsi disperato, senza via d’uscita.

I costrutti mentali connessi a quest’ultimo si riferiscono a schemi cognitivi alla base dei quali vi è l’aspettativa negativa verso il futuro. Ciò che si vuole evidenziare è che vi è uno stretto legame tra visione negativa del futuro, presenza di sindromi depressive e la tendenza a commettere atti quali il tentato suicidio o il suicidio.

Ritengo importante sottolineare che non possiamo prevedere il suicidio, ma sicuramente è possibile prevenirlo assicurando, anche e soprattutto in ambito militare, la presenza di personale specializzato (psicologi, psicoterapeuti, medici ecc.).

La figura dello psicologo nelle forze armate

Come riportato nel documento ufficiale dello Stato Maggiore della Difesa il supporto psicologico offerto alle famiglie è fondamentale per aiutarle a metabolizzare un lutto o un evento potenzialmente traumatico.

In aggiunta a questo anche il militare stesso viene accompagno in un percorso di riabilitazione al fine di ristabilirsi dopo un incidente/ferimento più o meno grave. Viene effettuato su richiesta di personale specializzato (psicologi, psicoterapeuti, medici) e generalmente tali attività vengono assicurate a livello di singola F.A..

Eventi di questo tipo producono un’interruzione improvvisa nel presente delle famiglie, dei militari o di entrambe le parti, offuscando momentaneamente la possibilità di progettare un futuro degno di essere vissuto. È in contesti come questi che lo psicologo interviene per massimizzare le potenzialità di rispondere in maniera resiliente a tali situazioni, al fine di ristabilire l’equilibrio e riprendere nella maniera migliore possibile il proprio cammino.

Nonostante i continui addestramenti per essere pronti ad affrontare rischi, incertezze e minacce, non si è di certo esenti da ripercussioni a livello emotivo e psicologico. Per un militare perdere un proprio compagno equivale a perdere un membro della propria famiglia ed è noto come il supporto psicologico, sociale e familiare acceleri il processo di ripresa.

L’intervento di sostegno psicologico può essere svolto individualmente o in gruppo, ma non può essere imposto e non può prescindere da una consapevole richiesta da parte della famiglia e/o del militare/civile interessato. Esso dovrebbe essere garantito, se possibile, da psicologi militari/civili della Difesa o da personale appartenente a strutture convenzionate.

A seconda della situazione (decesso, ferimenti, evento traumatico, infermità e malattia) vengono applicati percorsi differenti, progettati su misura.

Le abitudini ci rendono più forti, più sicuri, ma siamo davvero certi del fatto che “prima o poi ci si abitui a tutto?”.

Il supporto psicologico in ambito militare è fondamentale sia per chi parte, e a volte non sa quando farà ritorno, sia, e soprattutto, per chi, con il tempo ha solo imparato ad attendere, non si tratta di “farci l’abitudine”, ma di essere disposti ad aspettare, un’arte che in pochi conoscono, ma che le famiglie dei militari esercitano da sempre.

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