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Le implicazioni psicologiche del ramadan sulla prestazione sportiva – Osservanze religiose e attività sportiva: un’integrazione possibile

Una comprensione degli effetti del Ramadan sulle prestazioni atletiche è essenziale per preparatori e scienziati sportivi al fine di riuscire meglio a far fronte a questo vincolo annuale, senza aggravare i fattori fisiologici e psicologici implicati.

 

Ramadan è il nome del nono mese dell’anno nel calendario lunare musulmano. La prescrizione coranica stabilisce che in questo mese, nel quale avvenne la prima rivelazione, i musulmani debbano quotidianamente osservare, dall’aurora al tramonto, l’astinenza totale da cibi e bevande, dai rapporti sessuali e dal fumo. (Treccani)

Ma quanto influiscono queste alterazioni nella vita di uno sportivo? È possibile conciliare la vita religiosa con quella atletica, anche durante il Ramadan?

Sebbene, la maggior parte degli atleti continui ad allenarsi e gareggiare durante il nono mese lunare, gli studi dimostrano che il Ramadan è associato a cambiamenti comportamentali che influenzano le risposte metaboliche, fisiologiche e psicologiche di una sessione di allenamento o di una competizione (Chtourou et al., 2014). Il digiuno e in particolare l’assenza di assunzione di liquidi durante la giornata ha inevitabilmente, infatti, una forte implicazione per la prestazione (Ani set al., 2009).

Tuttavia, l’impatto dell’osservanza del Ramadan sulle prestazioni fisiche presenta risultati incoerenti (Boukhris et al., 2019): alcuni studi hanno dimostrato che la forza e le prestazioni aerobiche e anaerobiche ad alta intensità sono influenzate negativamente, mentre altri non sono riusciti a osservare sostanziali decrementi delle prestazioni.

Sebbene gli studi rivelino risultati differenti, un allenatore non può trascurare i fisiologici scompensi derivati sul singolo atleta.

È innegabile, infatti, che l’impatto del Ramadan sul sonno e sull’assunzione di cibo e liquidi possono rappresentare potenziali fattori negativi sulle prestazioni (Trabelsi et al.2017).

Di conseguenza, i decrementi della funzione fisica possono portare ad un aumento dello sforzo percepito e dello stress mentale durante l’allenamento e, più gravemente, a una maggiore incidenza di infortuni e malattie (Chtourou et al., 2011). Inoltre, durante il Ramadan gli atleti musulmani segnalano un aumento di percezione della stanchezza, della malattia ed evidenti sbalzi d’umore che potrebbero portare alla loro incapacità di sostenere lo sforzo fisico, soprattutto se è richiesto un impegno prolungato ed intenso (Boukhris et al., 2019).

Nonostante, infatti, ci siano poche ricerche volte ad indagare gli effetti psicologici del Ramadan sulle prestazioni sportive è ipotizzabile un calo motivazionale, un cambio del tono dell’umore contraddistinto da emozioni di rabbia, irritazione, scoraggiamento, apatia, etc, legati ai cambiamenti alimentari, all’ipoidratazione e alle alterazioni del ciclo sonno-veglia.

L’ipotesi è sostenuta anche da alcune ricerche sulla comunità musulmana (non sportivi) che mostrano un aumento significativo dell’irritabilità durante il mese, a seguito dei grandi cambiamenti delle abitudini quotidiane (Kandri et al., 2000).

Non si può, però, non sottolineare che il mese lunare non coincide sempre con lo stesso mese; per questo capita di dover adempiere a tale pilastro in qualsiasi stagione dell’anno.

Questa apparente irrilevanza contribuisce ad una significativa flessibilità di adattamento.

Un fedele, ed in questo caso un atleta, potrebbe incontrare maggiori difficoltà nei mesi estivi rispetto a quelli invernali sia per motivi climatici, di temperatura, sia per la durata delle ore del giorno.

Ma per un credente (di qualsiasi religione) è davvero così impegnativo integrare la dimensione spirituale con gli impegni della vita che conduce?

A questa domanda non esiste, ovviamente, una risposta generalizzabile a tutti gli individui ma è importante indagare cosa rappresenta la componente religiosa nella vita del soggetto per trovare un responso.

Assecondare un proprio bisogno di spiritualità rappresenta per molti una dimensione imprescindibile della propria identità, pertanto l’osservanza a certi precetti non va intesa come un sacrificio a cui si chiede di dover sottostare passivamente. Per i musulmani, anzi, il Ramadan è un’occasione virtuosa che insegna a controllare i propri impulsi e che invita a riflettere sul proprio corpo e sulla propria mente.

A tal proposito, è importante ribadire che, tra i fattori che influenzano le strategie di coping, il background religioso e spirituale gioca un ruolo importante. Dunque, poiché i musulmani prestano maggiore attenzione ai loro compiti religiosi nel mese sacro del Ramadan, si ritiene che il loro stato fisico e psicologico possa, invece, comunque essere influenzato positivamente in questo mese (Pargament et al., 1990).

Addirittura per un atleta queste settimane di astinenza potrebbero rappresentare un allenamento mentale di notevole efficacia per affrontare positivamente anche la stagione agonistica.

Ma come gestire competizioni imminenti durante il mese sacro?

In passato il Ramadan ha coinciso più volte con importanti appuntamenti sportivi, come ad esempio Olimpiadi, Campionati di Calcio Europei, etc, rendendo per uno sportivo di fede musulmana molto difficoltosa la possibilità di rispettare le norme religiose.

A tal proposito, in occasioni eccezionali esistono delle deroghe da parte delle autorità spirituali musulmane, che consentono di interrompere o posticipare il digiuno e l’astinenza; tra questi rientrano i casi in cui i fedeli si trovano, per motivi di viaggio, ad una distanza superiore agli 84 km dal loro luogo abituale di preghiera.

Ciò significa che, seppure il rapporto possa sembrare difficile, è comunque possibile!

A prescindere dal mese in cui coinciderà il Ramadan e dalle competizioni previste in quei giorni, un allenatore è dunque chiamato a sostenere i bisogni individuali dei suoi atleti proponendo allenamenti con un’intensità diversificata, in orari più agevoli.

Una comprensione degli effetti del Ramadan sulle prestazioni atletiche è, infatti, essenziale per preparatori e scienziati sportivi al fine di riuscire meglio a far fronte a questo vincolo annuale, senza aggravare i fattori fisiologici e psicologici implicati.

 

Intelligenza fluida, comprensione delle emozioni e competenza definitoria in soggetti anziani istituzionalizzati e non

L’invecchiamento è un processo naturale e irreversibile che provoca modificazioni biologiche, fisiche, psicologiche e sociali. Comporta una riduzione delle abilità psicofisiche e una progressiva involuzione morfologica e strutturale, che con il passare del tempo compromettono le probabilità di sopravvivenza.

Capriotti Federica – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

L’invecchiamento comporta un progressivo deterioramento sia a livello biologico e fisico, sia delle principali abilità psico-sociali. Nonostante ciò alcune componenti risultano meglio conservate rispetto ad altre. Tuttavia gli studi mostrano un’ampia variabilità sia tra i diversi individui sia tra le diverse abilità nello stesso individuo.

Molteplici sono le variabili potenzialmente implicate nella conservazione e perdita di abilità nell’invecchiamento tra cui quelle ambientali. La letteratura ha evidenziato come le variabili ambientali siano fondamentali per il benessere psico-fisico, cognitivo ed emotivo-relazionale.

Tra le cause scatenanti dell’invecchiamento è possibile classificare i fenomeni biochimici legati all’invecchiamento in due grandi categorie: quelli che causano alterazioni al patrimonio genetico e che quindi esplicano la loro funzione in maniera più evidente nelle cellule dotate di capacità riproduttive e quelle che invece danneggiano le strutture o altre molecole costituenti le cellule. Nell’ultimo secolo la scoperta degli antibiotici e le sempre più attente pratiche igieniche, hanno aumentato la vita media nei paesi occidentali, riducendo drasticamente la probabilità di morte in giovane età, ma nulla ha ancora ritardato o rallentato il processo intrinseco dell’invecchiamento e la progressiva degenerazione delle funzioni fisiologiche.

Il declino dell’intelligenza fluida

L’intelligenza fluida (Gf), o ragionamento fluido, è la capacità di pensare logicamente e risolvere i problemi in situazioni nuove, indipendentemente dalle conoscenze acquisite. È la capacità di analizzare problemi nuovi, identificare gli schemi e le relazioni sottostanti per estrapolarne una soluzione usando il ragionamento logico. È necessario che tutti i problemi logici, scientifici, matematici e tecnici, siano affrontati con il procedimento del problem solving, adottando il pensiero fluido che comprende sia il ragionamento induttivo che quello deduttivo.

Tra le varie concettualizzazioni relative all’intelligenza, quella del “modello gerarchico” considera tipi diversi di abilità intellettive specifiche non indipendenti tra loro, ma sottese o controllate da un numero più ristretto di abilità di livello più generale. Neppure quest’ultime sono del tutto indipendenti, bensì supportate o collegate a loro volta a un fattore che costituisce la capacità implicata nella manifestazione di tutte le altre abilità: il fattore g. Questa capacità rappresenterebbe la componente fluida dell’intelligenza, mentre le diverse sue manifestazioni rapresenterebbero la forma cristallina. Il fattore g costituirebbe il potenziale intellettivo astratto, prima della sua attuazione, e le sue manifestazioni rappresenterebbero manifestazioni concrete attualizzate e osservabili sul piano comportamentale.

Tradizionalmente si riteneva che lo sviluppo cognitivo si arrestasse con la fine dell’adolescenza. L’età adulta avanzata era associata a un declino cognitivo generale e a stati patologici degenerativi, come la demenza. Ma vi sono sostenitori di una visione diversa secondo cui lo sviluppo viene inteso come un continuo riequilibrio tra nuove acquisizioni e perdita di alcune abilità che caratterizza ogni fase della vita. Ricerche condotte somministrando la WAIS (Wechsler Adult Intelligence Scale) hanno evidenziato che, nonostante l’avanzare dell’età sia caratterizzato da un generale declino dell’intelligenza, il QI verbale non subisce variazioni fino a 70 anni, mentre il QI di prestazione (prove non verbali in particolare visuospaziali) diminuisce a partire dai 45 anni.

Secondo la prospettiva di Baltes [1987], le abilità che si basano sulle operazioni mentali di base o intelligenza fluida, quali il ragionamento, la memoria, l’orientamento spaziale e la velocità percettiva, subiscono un declino, in quanto si riferiscono a situazioni e procedure nuove dove l’anziano incontra difficoltà

Gli anziani meno inclini ad imparare e meno flessibili nel modificare strategie di giudizio e di scelta, che perciò preferiscono usare strategie meno impegnative, fanno fatica a tener presente tutte le informazioni rilevanti, essendo più lenti e più cauti dei giovani. Al contrario le abilità che fanno riferimento alla componete pragmatica, o intelligenza cristallina, come le abilità verbali e numeriche, restano stabili e/o aumentano fino ai 60-70 anni grazie all’accumularsi dell’esperienza. L’intelligenza fluida è legata ai cambiamenti del sistema nervoso e per questo motivo tende a declinare con l’età. Mentre si sostiene che con l’avanzare dell’invecchiamento, l’intelligenza cristallina sviluppi le sue prestazioni cognitive ed abbia una funzione compensatoria rispetto al decadimento dell’intelligenza fluida.

Tuttavia vi è comunque un declino in tutte le componenti dell’intelligenza in tarda età, quando i fattori biologici responsabili dell’invecchiamento fisiologico del cervello e il deterioramento delle funzioni sensoriali diventano predominanti, causando una diminuzione dell’efficacia delle risorse culturali.

Le emozioni

Le emozioni sono parte integrante della nostra vita psichica, determinano il nostro benessere e motivano il nostro comportamento. Esse sono definite fenomeni complessi, che il soggetto deve essere in grado di comprendere e gestire attraverso strumenti cognitivi di interpretazione degli stimoli, dato che sono il centro delle nostre relazioni sociali e uno dei canali comunicativi più importanti. Sono inoltre elementi fondamentali per lo sviluppo dell’individuo e per il suo adattamento efficace all’ambiente.

In età adulta le emozioni vengono regolate in maniera sofisticata grazie all’accumularsi dell’esperienza e delle conoscenze che permettono una maggiore selezione delle relazioni emotivamente significative.

Man mano che l’età avanza si cerca di dare maggiore priorità ai significati emotivi positivi dei vari avvenimenti, rielaborando anche le vicende negative in chiave positiva, e si restringono i contatti sociali alle amicizie più significative. Il controllo della frequenza e della qualità delle relazioni, così come il coinvolgimento sociale, viene interpretato come una strategia da adottare per regolare le emozioni, mantenere il benessere e potenziare la costruzione di un buon invecchiamento.

Vi sono comunque forme di stress a cui l’individuo non può sfuggire, che riguardano il distacco dalla vita lavorativa, perdita di persone care, l’insorgenza di malattie croniche e problemi fisici. Alcuni ricercatori hanno notato che gli anziani usano una combinazione di strategie di coping necessarie per l’adattamento a queste situazioni, focalizzata sulla regolazione delle emozioni e sull’accettazione del proprio stato, come controllo e soluzione degli eventi stressanti, naturale conseguenza dell’avanzare dell’età.

Contrariamente al pensiero comune, la vita sessuale non termina con l’avvento della terza età. Nonostante il declino fisico e biologico che comportano modificazioni delle capacità sessuali, gli anziani non sono affatto asessuati. Una ricerca del CENSIS del 2007 ha rilevato che il 73,4% degli anziani con età compresa tra i 61 e i 70 anni e il 39,1% sopra i 70 anni dichiara di essere ancora sessualmente attivo

Tra le varie emozioni che può provare l’anziano non si può escludere la paura della morte.

L’ansia per la morte è un concetto multidimensionale: in essa vi è una dimensione più consapevole e conscia del morire, legata all’abito sociale e alla cultura di appartenenza, e una dimensione inconscia, difficile da rappresentare e valutare. Se il pensare alla propria morte rende l’anziano angosciato, le ansie per la morte altrui non sono poi così diverse, in quanto essa provoca ugualmente emozioni negative che vanno dalla paura alla rabbia e dalla tristezza alla depressione.

La competenza definitoria

L’acquisizione delle definizioni è correlata allo sviluppo delle abilità cognitive, linguistiche, comunicative, di acculturazione ed istruzione, metarappresentative e metalinguistiche. Per competenza definitoria si intende l’abilità di formulare verbalmente il significato di una parola per mezzo di altre parole (che corrisponde alla regola della parafrasi), utilizzando una frase articolata e con un formato categorizzante al fine di realizzare un’equivalenza semantica tra parole da definire e risposta definitoria. Per definire correttamente il significato delle parole bisogna utilizzare formule aristoteliche, fornendo informazioni rilevanti e pertinenti dal punto di vista dell’interlocutore. Alcuni studi mostrano un declino della teoria della mente a partire dai 55 anni, altri studi dai 70 anni. Le abilità linguistiche sarebbero generalmente preservate negli anziani.

Belacchi e Benelli [2007] hanno proposto una scala per valutare la competenza definitoria a cinque livelli che enfatizza il ruolo delle regole formali morfosintattiche, partendo dal presupposto che solo da un’analisi della struttura linguistica si possa accedere alla rappresentazione piena del significato. Questa scala descrive la comparsa dei requisiti della definizione e la loro progressiva integrazione che rende possibile l’accesso al livello definitorio metalinguistico:

  • Livello I. Non definitorio: assenza di risposta verbale, o risposta “non so”;
  • Livello II. Pre-definitorio: uso del linguaggio come risposta, ma utilizzando una singola parola;
  • Livelli III. Quasi-definitorio: articolazioni formali delle risposte che denotano il primo uso di strategie perifrasiche, ma sempre scorrette e incomplete;
  • Livelli IV. Definitorio non integrato: presenza di enunciati formalmente corretti e completi;
  • Livello V. Definitorio: la frase è integrata nella forma e nel contenuto, che sono entrambi corretti e da un approccio di tipo categorizzante.

Le abilità metarappresentative sono qui operazionalizzate come abilità di rappresentazione degli stati emotivi altrui (Teoria della Mente) e abilità metalinguistica di esplicitare rappresentazioni semantiche culturalmente condivise.

Il ruolo dell’ambiente

Una ricerca condotta al fine di indagare il ruolo dell’ambiente nel mantenimento dell’intelligenza fluida, nella comprensione delle emozioni e nella competenza definitoria in soggetti anziani, ha effettuato interviste a soggetti che vivono in un ambiente familiare e a soggetti che alloggiano in istituto.

Sono stati selezionati 48 anziani di cui 24 istituzionalizzati, ospiti nelle case di riposo Sassatelli di Fermo e Centro Primavera di San Benedetto del Tronto, e 24 non istituzionalizzati che vivono con il coniuge, con i figli o soli. Gli intervistati si dividono in 14 donne e 10 uomini per gruppo. L’età media è di 82.5 anni (range 69-96).

Parte degli anziani in istituto hanno scelto spontaneamente di cambiare la loro residenza. Altri invece hanno necessità di assistenza continua per problemi fisici.

Nessuno degli intervistati ha dichiarato di avere patologie cognitive o linguistiche.

Sono stati utilizzati tre tipologie di test:

  • Test di Comprensione delle Emozioni (TEC – Test of Emotion Comprehesion di F. Pons e P. Harris, 2000) strumento che consente di valutare l’insieme delle componenti della comprensione delle emozioni e di verificare eventuali lacune del profilo evolutivo;
  • Le Matrici Progressive (CPM – Coloured Progressive Matrices di John C. Raven, 1947) con l’intento di fornire una misurazione del fattore g dell’intelligenza;
  • La competenza definitoria degli anziani è stata valutata secondo le direttive del modello Benelli e Belacchi 1999, basato sull’utilizzo di una lista di vocaboli a cui i candidati dovevano attribuire una definizione per ciascuno. Le parole utilizzate sono: pagliaccio, pensare, battere, spionaggio, tristezza, vergogna, innocente, rischioso, arancia, orgoglio, rabbia, costringere, scottare, senso di colpa, biondo, rivalità, felicità, licio, paura, invidia, sorpresa, disgusto.

I risultati della ricerca non hanno evidenziato differenze significative nelle abilità cognitive, metalinguistiche e nella comprensione delle emozioni tra anziani che vivono in casa e anziani istituzionalizzati.

 

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Psicoterapia intensiva dinamica breve (ISTDP): l’evoluzione delle psicoterapie psicodinamiche

L’ISTDP (Intensive Short-Term Dynamic Psychotherapy) è un modello terapeutico poco conosciuto in Italia ma protagonista di un grande fervore in termini di interesse e ricerca scientifica in Canada, USA, Nord Europa. Questo articolo vuole far conoscere ai terapeuti le potenzialità dell’ISTDP illustrando le intuizioni più importanti che lo contraddistinguono dai modelli più diffusi.

 

Lo sviluppo e il contesto

La metapsicologia dell’ISTDP si sviluppa nella cornice delle terapie dinamiche brevi, i principi di base sono quelli della psicoanalisi con elementi della teoria dell’attaccamento. Questo modello vanta una grande quantità di ricerche scientifiche che mostrano la sua efficacia con un ampio spettro di patologie come disturbi di personalità, depressione e MUS (Medical Unexplained symptoms).

A partire dagli anni ’50-’60 i cambiamenti della società e l’esigenza delle istituzioni sanitarie hanno spinto all’adozione di modelli terapeutici che fossero di breve durata e con una efficacia riconosciuta per meglio rispondere alle esigenze della popolazione. Gli approcci che più rispondevano a queste richieste si sono configurati come scelte obbligate a discapito di una grande fetta di modelli o tecniche d’intervento a cui solitamente veniva e viene attribuita maggiore durata e dubbia efficacia. In questo contesto la psicoanalisi rischiava, come tutt’ora di fatto è, di restare tagliata fuori dai servizi pubblici. Queste circostanze sono state il motore propulsivo ai tentativi di rendere la tecnica psicoanalitica meno dispendiosa in termini di tempo e denaro, rendendola di fatto più fruibile in tutti i contesti. Rendere l’analisi più breve è un cruccio che ha sempre permeato gli sforzi di molti analisti, per primo il suo fondatore Sigmund Freud. Sono famosi alcuni suoi casi risolti con pochissime sedute. Successori più contemporanei come M. Balint, D. Malan, J.J. Mann, analisti provenienti dal Tavistock Institute, o ancor più recente P. Sifneos hanno tutti dato un contributo allo sviluppo delle psicoterapie dinamiche brevi (F. Osimo, M. stein,2012). Non mi dilungherò oltre sulle origini storiche ma, è importante sapere che la maggior parte di questi modelli sono stati abbandonati, poiché presentavano limiti importanti come ad esempio essere d’aiuto ad una percentuale estremamente esigua di pazienti idonei.

Negli anni ‘60 Habib Davanloo alla McGill University di Montreal, inizia una meticolosa opera di studio del processo terapeutico che porterà negli anni ‘80 alla nascita dell’ISTDP (F. Osimo, M. stein,2012). Provenendo da studi di medicina, cerca di applicare lo stesso rigore empirico alla psicoterapia. Davanloo pionieristicamente introduce la video registrazione delle sedute a scopo di studio e di apprendimento, esattamente come veniva fatto nelle lezioni di chirurgia, scardinando le convenzioni dogmatiche di alcuni setting classici. Questo gli concesse di raccogliere dati oggettivi su quello che effettivamente accade nella relazione terapeutica. Poté così osservare, testare, sistematizzare, gli interventi più efficaci che producevano risposte adeguate nei pazienti. L’insight di Davanloo ebbe il merito di portare alla formulazione di una metodologia d’intervento molto accurata, efficace e capace di accelerare il processo terapeutico, cambiando sostanzialmente il modo di fare psicoterapia. Chiamò questo metodo ISTDP: Psicoterapia Intensiva Dinamica Breve.

Principi e metapsicologia

Di seguito illustrerò i principi basilari e tipici dell’ISTDP così da chiarire come essa lavora e in cosa differisce dalla psicoanalisi e altri approcci psicodinamici.

I triangoli

La psicoterapia intensiva dinamica breve viene considerata da alcuni non solo un modello d’intervento ma anche una mappa in grado di dare cognizione del punto in cui paziente e terapeuta si trovano momento dopo momento nel processo terapeutico. Davanloo infatti, incorpora nel suo modo di lavorare l’intuizione di David Malan di affiancare il triangolo del conflitto sviluppato da H. Ezriel (1952) al triangolo dell’insight, meglio conosciuto come il triangolo delle persone di K.Menninger (1958).

ISTDP l introduzione della Psicoterapia intensiva dinamica breve Imm 1

Questi triangoli rendono conto di tutte le comunicazioni verbali e non del paziente in relazione a figure significative del presente o del passato o in relazione al momento presente nel transfert con il terapeuta. Nel primo (triangolo del conflitto) osserviamo quindi come emozioni o impulsi collocati sul vertice inferiore del triangolo facciano aumentare l’ansia inconscia (angolo superiore destro del triangolo) da cui il paziente si difende (angolo superiore sinistro del triangolo) con i meccanismi di difesa. Questi movimenti dinamici possono quindi essere collocati in riferimento a uno dei vertici del secondo triangolo (triangolo delle persone) che ci informa rispetto a quale interlocutore è oggetto delle comunicazioni del paziente. Davanloo, utilizzando questa mappa concettuale, codifica quello che accade in terapia e costruisce interventi mirati e specifici per ogni fenomeno dinamico del paziente ascritto a uno dei vertici dei triangoli (F. Osimo, M. Stein, 2012).

Il processo terapeutico

Come per tutti i modelli psicodinamici, far emergere i contenuti emotivi inconsci è l’elemento centrale nonché fattore di cambiamento della psicoterapia. Quando questo accade assistiamo a un alleggerimento dell’ansia inconscia (angoscia) e di conseguenza a un ridimensionamento delle difese caratteriali. Questi due elementi, ansia e meccanismi di difesa, sono direttamente implicati nell’eziologia dei sintomi. Davanloo comprende che è necessario portare il paziente a esperire in maniera viscerale le emozioni inconsce per poter operare un cambiamento profondo in tempi relativamente brevi. L’esperienza emotiva deve coinvolgere la dimensione cognitiva (processi cerebrali top-down, cognizione dell’affetto), la dimensione somatica e cioè la capacità di sentire l’impulso nel corpo (processi cerebrali Bottom up, sensorialità corporea), ed infine la dimensione motoria, essere in grado di esperire la tendenza all’azione dell’impulso. Questa esperienza emotiva viene chiamata “Breakthrough” poiché permette il superamento delle resistenze, l’affiorare delle emozioni sepolte, e l’accesso diretto all’inconscio, fenomeno che Davanloo chiama “Unlocking” (apertura). L’apertura dell’inconscio (unlocking) in seguito all’esperienza delle emozioni evitate è determinante rispetto agli obiettivi terapeutici (H. Davanloo, 1997). Essa permette l’emergere di ricordi in precedenza rimossi, la costruzione d’insight, e una profonda comprensione da parte del paziente dell’origine della sua sofferenza. Il terapeuta accompagna questo processo favorendo l’integrazione di tutti i contenuti emersi in una narrazione coerente che consente un profondo cambiamento sostenuto all’integrazione di processi cerebrali corticali e sottocorticali (top-down/bottom-up).

Il ruolo dello psicoterapeuta è centrale per il raggiungimento di questo risultato. A differenza del rigoroso atteggiamento neutrale tipico della psicoanalisi, il terapeuta diviene parte attiva del processo, mostra una decisa propensione a voler comprendere a fondo i conflitti del paziente e ad aiutarlo ad abbattere le rigide difese psichiche (H. Davanloo, 1997). Tutto questo avviene in un clima emotivo intenso ed empatico sostenuto dal mantenimento di una forte alleanza terapeutica sia conscia che inconscia.

Elemento centrale nell’accelerazione del processo terapeutico è il lavoro nel transfert. Se la risposta del paziente lo consente, il terapeuta si concentrerà già nelle prime fasi nell’aiutare il paziente al far emergere i vissuti transferali, così che il transfert possa diventare lo strumento ponte per accedere alle emozioni conflittuali. Questo è un passaggio fondamentale, poiché determina un sostanziale allontanamento dal lavoro analitico classico in cui si attende l’instaurarsi di una nevrosi di transfert per poter operare delle interpretazioni su di esso. In ISTDP, invece, proprio il lavoro precoce sul transfert permette di evitare il successivo instaurarsi della nevrosi da transfert.

Ansia, meccanismi di difesa e diagnosi

Il modo di lavorare con i meccanismi di difesa dell’ISTDP è un altro tratto peculiare di questo modello e differisce molto da altre forme di psicoterapia. Davanloo osserva e distingue due tipi di difese: tattiche e caratteriali. Le prime sono difese non strutturate che tendono a essere superate con i giusti interventi del terapeuta, le seconde tendono a essere più strutturali e determinano la resistenza caratteriale. Queste ultime assumono un ruolo rilevante per quel che concerne la diagnosi. La diagnosi in ISTDP viene fatta in vivo, osservando le risposte dei pazienti agli interventi del terapeuta. Essa si struttura lungo un continuum che fa riferimento alla resistenza caratteriale (somma delle difese) e alle vie di scarica dell’ansia inconscia. A un estremo troviamo quelle persone definite a bassa resistenza, cioè con un buon funzionamento e solitamente con tematiche legate a lutti o separazioni non risolte. Progredendo troviamo persone con moderata e alta resistenza a cui sono associati problemi caratteriali, disturbi di personalità, problemi relazionali, di intimità e somatizzazioni (A. Abbass, 2015).

Per proseguire è necessario introdurre un’altra importante comprensione di Davanloo, l’utilizzo dell’ansia inconscia in terapia. Osservando le video registrazioni delle sedute Davanloo si accorge che, in risposta a delle sollecitazioni da parte del terapeuta, i pazienti manifestano ansia per lo più inconscia che viene scaricata attraverso tre diverse vie somatiche:

  • via di scarica muscolo scheletrica: l’ansia si manifesta come tensione muscolare che può in determinate condizioni crescere fino a creare uno stato di tensione diffuso in tutto il corpo e molto visibile, di solito quest’ansia è osservabile su tutti i muscoli volontari e sul diaframma con l’emissione di sospiri (A. Abbass, 2015).
  • via di scarica del sistema nervoso autonomo i cui effetti sono osservabili nelle manifestazioni del simpatico e del parasimpatico. Vengono coinvolte la muscolatura liscia, le visceri, l’apparato cardiocircolatorio. Si avranno fenomeni di sudorazione, aumento del battito cardiaco, bisogno impellente di minzione, bruciore di stomaco etc (A. Abbass, 2015).
  • via cognitivo percettiva, l’ansia inizia a manifestarsi a livello cerebrale. Si osserva nei pazienti che improvvisamente dimenticano, diventano confusi, hanno sensazioni di stordimento, visione a tunnel, nei casi più estremi fenomeni dissociativi o allucinazioni (A. Abbass, 2015).

Davanloo trova una stretta correlazione tra vie di scarica dell’ansia e meccanismi di difesa. Alla prima via vengono associate tutte quelle difese evolute appartenenti al campo l’isolamento dell’affetto (razionalizzazione, intellettualizzazione etc..). Alla seconda sono associate difese legate alla rimozione: le emozioni e gli impulsi evitati vengono solitamente rimossi dalla coscienza. Alla terza via di scarica sono associate difese regressive e arcaiche. Potremo vedere pazienti che proiettano, che usano identificazione proiettiva o scissione (A. Abbass, 2015).

Per concludere osserviamo anche i fenomeni di conversione: quando emergono emozioni il paziente manifesta stanchezza, pesantezza, paralisi temporanea in alcune parti del corpo, mentre non vi è tensione nel resto e questo è associato alla rimozione (A. Abbass, 2015).

Ognuna di queste vie costituisce il secondo parametro per il sistema di diagnosi dell’ISTDP. A seconda delle vie di scarica prevalentemente utilizzate avremo informazioni sul livello di solidità dell’Io e della conseguente capacità di tollerare gli stati affettivi intensi. Queste informazioni sono fondamentali per poter modulare gli interventi del terapeuta. Anche in questo caso ci muoviamo lungo un continuum che descrive i gradi di fragilità riferiti alla solidità dell’Io. Da un lato avremo persone con bassa fragilità e alta resistenza e passando sul lato opposto, progressivamente troveremo pazienti con media e alta fragilità.

Utilizzare questo specifico modo di fare diagnosi ha una duplice funzione. La prima è che processo terapeutico e osservazione diagnostica vanno di pari passo. In poche parole mentre attiviamo il processo terapeutico attraverso interventi specifici, testiamo la risposta del paziente in termini di ansia e difese e questo ci fa rendere conto in vivo della struttura caratteriale del paziente. La seconda, a cui ho già accennato, è che la diagnosi fatta in questo modo consente di sapere sempre cosa fare. Se avremo davanti le difese del paziente e l’ansia sulla muscolatura striata (paziente solido), potremo lavorare per aiutare la persona a riconoscere le proprie difese e incoraggiarlo ad abbandonarle. Se invece ci troveremo davanti un’ansia eccessiva, allora interverremo con tecniche specifiche di regolazione dell’ansia, aiutando la persona a costruire capacità di tollerare gli stati affettivi con un conseguente rinforzo dell’Io.

Conclusioni

L’ISTDP è da considerarsi un approccio d’avanguardia. In esso possiamo trovare in perfetta sinergia conoscenze psicoanalitiche, teoria dell’attaccamento, elementi neurobiologici delle emozioni ed approccio scientifico. Questi elementi rendono questo modello integrabile in diverse metodologie di lavoro. Dall’ISTDP infatti, si sono sviluppate negli anni le terapie dinamico esperienziali, per citarne alcune: l’APT (Affect Phobia Therapy) di Leigh Mc Cullough che ha integrato queste conoscenze in un linguaggio appartenente alla CBT, oppure l’AEDP (Accelerated Experiential Dynamic Pshycotherapy) di Diana Fosha intrisa di forti elementi della teoria dell’attaccamento e della psicologia umanistica. Oggi esiste una comunità scientifica internazionale molto aperta e viva, che si occupa dello studio e dello sviluppo delle terapie dinamico esperienziali che è la IEDTA (International Experiential Dynamic Therapy Association).

Un punto di forza di questa metodologia è la grossa quantità di studi fatta soprattutto in Canada dove peraltro è stata inserita nei piani di cura della sanità pubblica (A. Abbass). La grande mole di ricerche condotte finora, mostra risultati davvero buoni nel trattamento di pazienti considerati difficili e resistenti. Invito il lettore ad approfondire la letteratura scientifica sui maggiori database di pubblicazioni mediche (PUBMED). In conclusione vorrei citare quello che David Malan luminare della Tavistock clinic di Londra disse dopo l’esposizione al lavoro di Davanloo: “Freud ha scoperto l’inconscio, Davanloo ha scoperto come accedervi rapidamente” (Malan D., 1979).

 

Tutto chiede salvezza (2020) di D. Mencarelli – Recensione

Tutto chiede salvezza è il secondo romanzo di Daniele Mencarelli, uscito per Mondadori ormai circa un anno fa, nel febbraio 2020, candidato al LXXIV Premio Strega.

 

Da quando ha fatto la sua comparsa sugli scaffali delle librerie, il mio desiderio di leggerlo è sempre stato fortissimo, ma mi sono sempre trattenuta: sapevo, infatti, che si trattava di un libro doloroso, che le patologie mentali ne erano protagoniste, e che quelle pagine mi avrebbero inevitabilmente segnata. Ma era un libro che dovevo leggere, prima o poi, sapevo che non gli sarei sfuggita per sempre. E infatti, lui è tornato a cercarmi nei giorni passati, diventando l’eletto del mese in uno dei gruppi di lettura di cui faccio parte. Dire che mi è piaciuto sarebbe un eufemismo. È un libro che ho sentito dalla prima all’ultima pagina: queste parole ti entrano dentro, le senti fin nelle ossa e non puoi che partecipare del dolore di Daniele, un dolore che magari è anche di chi legge o di qualcuno che gli sta a fianco. Ecco, Tutto chiede salvezza è un’opera che aiuta ad affrontare il dolore, che lo mostra senza sconti fin nei suoi recessi più oscuri, ma che lo esorcizza con il suo dirlo ad alta voce, con il proclamare che l’unica cosa che è veramente da pazzi è pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.

Daniele ha vent’anni quando gli viene imposto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio), un ricovero coatto presso un reparto psichiatrico, a causa di una violenta esplosione di rabbia che ha causato parecchi danni. Una settimana da trascorrere in un luogo che è avvertito come una gabbia, dove gli uomini vivono come sull’orlo di un precipizio, tentando di non cadere inesorabilmente verso il baratro oscuro delle loro menti. A qualcuno quell’ultimo passo è già toccato in sorte, come ad Alessandro che, seduto sul letto davanti a Daniele, fissa il vuoto, preda di chissà quale fantasma che gli impedisce di muoversi e parlare. Anche Madonnina se l’è già preso l’abisso, al punto da fargli guadagnare questo soprannome perché è una delle poche parole che riesce a pronunciare, quasi una preghiera incessante che puntualmente cade nel vuoto. Chissà chi c’è dietro a quello sguardo tormentato, chissà dove è finito l’uomo che prima era Madonnina. Chi siamo, quando non siamo neanche più in grado di pronunciare o ricordare il nostro nome? Anche gli altri letti intorno a Daniele sono occupati: Mario, Gianluca, Giorgio, tre uomini che come lui hanno fatto a botte con la vita e sono rimasti schiacciati. Tutti preda di un tormento interiore che non lascia scampo e che ogni giorno scava più a fondo.

Ma all’interno dell’ospedale, le follie sono anche altre. Sono quelle dei medici che con superiorità rivolgono parole fredde e ostili a chi dovrebbero curare, sbadigliando mentre chi sta loro di fronte mette tutta la propria vita nelle loro mani; sono quelle degli infermieri che attaccano i pazienti per paura di essere attaccati, perché si sa, i matti sono pericolosi. Chi è ferito dalla vita tenta di scoprirvi un senso, cerca di trovare una ragione per restare e non lasciarsi trasportare dove il dolore non può più arrivare. Semplicemente, chiede salvezza. Ma il mondo pesa sulle spalle, lo sa bene Daniele che ha vent’anni ma, come dice lui, ha sofferto per mille. Niente aiuta questa ricerca di significato per una vita che scorre e poi finisce nel nulla: non l’indifferenza, non la cattiveria, né lo stigma che da sempre colpisce chi fa un po’ più fatica a stare al passo. Per questo il regalo più bello che ci fa Mencarelli con questo libro è mostrarci che il senso più forte di umanità sta tra quelle persone che si sentono fragili, quelle che il mondo emargina e disprezza. Che uscire da lì con una diagnosi e una prescrizione di paroxetina non rende meno degni di occupare un posto nel mondo. Alla fine del TSO Daniele lascia l’ospedale con l’amaro in bocca, e noi con lui. Il romanzo non svela nessun significato nascosto nella sofferenza umana, né l’esperienza di Daniele è particolarmente di buon auspicio per chi soffre di questi problemi. Ma una cosa emerge forte e chiara da queste pagine: la salvezza sta nell’umanità.

La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?

Mencarelli adesso ce l’ha detto, non lo dimentichiamo.

 

Il cambiamento nel tempo: memoria e personalità

L’identificazione della comprensione dei fattori che modellano la funzione della memoria con l’invecchiamento ha un’ importanza cruciale per la salute e il benessere (Stephan et al., 2019).

 

La teoria dei Big Five (McCrae & Costa, 1986) è una tassonomia dei tratti di personalità, nata dalle basi teoriche dell’approccio fattoriale proposto da Hans Eysenck (1990) e dalla teoria della sedimentazione linguistica elaborata da Raymond Cattell (1970). Eysenck (1990), con il termine tratti, evidenziò quelle caratteristiche della personalità che influenzano il comportamento umano in modo stabile (Fiore, 2016). Secondo Cattell (1970), i tratti primari della personalità sarebbero 16 (ad esempio, “distaccato-freddo”, “rigido-depresso”, “fiducioso-tollerante”, “dipendente-imitativo” etc.) (Fiore, 2016). McCrae & Costa (1986) postularono cinque dimensioni di personalità utilizzando delle parole che fanno riferimento alle differenze individuali delle persone, partendo da studi psicolessicali secondo cui l’essere umano ha l’esigenza di comunicare le esperienze significative nella comunità (Di Blas, 2002). Nello specifico, le dimensioni definite nelle versioni italiane (Caprara, Barbaranelli & Borgogni, 1993) sono:

  • “Estroversione” come polo positivo tendente a comportamenti prosociali, opposto all’”Introversione”, definita come la “tendenza ad esser presi più dal proprio mondo interno che quello esterno” (Fiore, 2016);
  • “Amicalità” o “Gradevolezza” come polo positivo includente tendenze empatiche ed altruistiche e con un polo negativo (“Sgradevolezza”) tendente all’ostilità e all’indifferenza;
  • “Coscienziosità” come polo positivo con tendenze perseveranti e scrupolose, polo opposto alla “Negligenza”;
  • “Stabilità emotiva” che include il controllo di impulsi ed emozioni, con un polo negativo tendente ad un disequilibrio tra le parti (“Nevroticismo”);
  • “Apertura mentale” come polo positivo con tendenze propositive a nuove conoscenze o nuove esperienze, l’opposto della “Chiusura mentale”.

La compromissione della memoria prevede il declino funzionale (Hooghiemstra et al., 2017), un maggior rischio di demenza (Aggarwal, Wilson & Beck, 2005) e una mortalità precoce (Batty et al., 2016). L’identificazione della comprensione dei fattori che modellano la funzione della memoria con l’invecchiamento ha un’ importanza cruciale per la salute e il benessere (Stephan et al., 2019). Un grande corpus di ricerca evidenziò come il “Nevroticismo” (inteso come la propensione a provare esperienze e affetti negativi) è correlato a minori prestazioni di memoria episodica, mentre “l’Apertura Mentale” (cioè l’apertura alla cultura e all’esperienza) e la “Coscienziosità” (la tendenza ad essere disciplinati e organizzati) sono correlate ad un miglior funzionamento mnestico (Chapman et al., 2017; Luchetti, 2016; Stephan et al., 2019). Associazioni meno coerenti sono state osservate tra prestazioni di memoria episodica e “l’Estroversione” (cioè la propensione ad essere attivi e a provare emozioni positive) e “l’Amicalità” (cioè la tendenza ad essere altruisti e fiduciosi) (Stephan et al., 2019).

Stephan e colleghi (2019) esaminarono l’associazione tra memoria e personalità effettuando delle misurazioni follow-up in un arco di tempo che varia dai 4 ai 14 anni, con un campione composto da 10317 soggetti laureati alla Wisconsin High Schools (WLS) a partire dal 1957. Il campione totale fu diviso in tre sotto campioni, due legati ai soggetti laureati della Wisconsin (WLSG e WLSS) e uno del MIDUS. Nello specifico, il MIDUS è un campione di adulti non istituzionalizzati di lingua inglese: dal primo gruppo (1994-1995; MIDUS I) fino al terzo (2013-2014; MIDUS III), i dati furono raccolti da 6075 partecipanti. Attraverso la somministrazione del Big Five Inventory (BFI) per la personalità e di una lista di parole per la memoria, i dati demografici raccolti tra il 1992 e il 1993 furono ottenuti da 6673 soggetti, tra il 1993-1994 da 3426 persone. In base ai criteri di inclusione e di esclusione, il campione totale risultò composto da 1720 soggetti (suddivisi in tre campioni) con un’età compresa tra i 29 e i 75 anni (Stephan et al., 2019).

Per misurare la memoria episodica, ai partecipanti del gruppo MIDUS fu chiesto di ascoltare una lista di 15 parole e di richiamarle successivamente nel modo più immediato possibile: la maggior parte dei partecipanti ripeté più di 10 parole in meno di 5 minuti (Stephan et al., 2019). I dati ottenuti in tutti e tre i campioni evidenziarono come il “Nevroticismo” fosse associato in modo significativo ad un peggioramento della memoria e a una riduzione delle prestazioni dopo circa 20 anni e una maggiore “Apertura mentale” fu associata ad un maggior funzionamento della memoria. Mentre non si riscontrarono grandi differenze in base al genere, il “Nevroticismo” si mostrò più elevato negli individui più anziani e “Coscienziosità”, “Estroversione” e “Amicalità” non risultarono essere predittori significativi delle prestazioni mnestiche (Stephan et al., 2019).

Per esaminare l’associazione tra la compromissione della memoria e la personalità, furono selezionati 228 partecipanti (6%) nel WLSG e 154 partecipanti (6%) nel MIDUS che aveva prestazioni di memoria: l’analisi logistica trovò che il nevroticismo era correlato al rischio del punteggio di memoria inferiore a ≤ 1,5, SD sia nel MIDUS che nel gruppo WLSG (Stephan et al., 2019). “L’apertura mentale” fu associata a una migliore memoria episodica in due dei tre sotto campioni, mentre, al contrario di tutta la ricerca passata, la “Coscienziosità” non è stato un predittore delle prestazioni della memoria. Gli autori conclusero evidenziando come il loro studio avesse esteso i risultati delle ricerche precedenti con la prova che l’associazione tra i tratti della personalità e del funzionamento della memoria persiste nel corso di due decenni (Stephan et al., 2019).

 

Stress da pandemia, arriva il servizio di supporto psicologico gratuito – Comunicato stampa

Comunicato stampa

Dall’inizio della pandemia molte persone hanno chiesto aiuto per la gestione di stress, ansia, rapporti interpersonali, disturbi del sonno e depressivi. In Emilia-Romagna i cittadini potranno usufruire di un servizio gratuito di supporto psicologico per situazioni di difficoltà di varia natura.

 

8 aprile

Sedute psicologiche gratuite a chi ha bisogno di un aiuto nell’affrontare questo periodo così complesso. E’ l’iniziativa di Federconsumatori Emilia-Romagna nata a seguito di incontri di confronto con l’Ordine degli Psicologi regionale sull’importanza dell’investire in psicologia e ideata per accogliere le richieste di tanti cittadini in difficoltà con la gestione di stress, ansia, depressione.

Dall’inizio della pandemia molte persone che si sono rivolte a noi hanno condiviso situazioni di difficoltà di varia natura quali ansia, fatica nel gestire rapporti interpersonali, disturbi del sonno. Il nostro lavoro sui territori ci consente di rappresentare vere e proprie “antenne sociali” e viste le richieste, abbiamo pensato di partecipare a un bando del Ministero dello Sviluppo economico rivolto alle associazioni dei consumatori e di attivare un servizio di consulenza gratuita ai cittadini coinvolgendo l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna.

spiega la presidente di Federconsumatori regionale Renza Barani

Siamo felici di contribuire a questa iniziativa, fornendo supporto psicologico ai cittadini provati dalla pandemia. Interagire con una realtà come Federconsumatori ci consente di portare la psicologia il più vicino possibile ai cittadini, uno degli obiettivi strategici del nostro impegno come Ordine. L’attività professionale degli psicologi è sostenuta economicamente dal bando, risulta quindi senza oneri a carico dei cittadini. La collaborazione con Federconsumatori continuerà anche in futuro anche sul tema del contrasto all’esercizio abusivo della professione. Auspico che in futuro potranno svilupparsi analoghe iniziative a tutela della salute psicologica dei cittadini e a riconoscimento della professione di psicologo.

dice Gabriele Raimondi, presidente dell’Ordine regionale degli psicologi

I cittadini potranno usufruire di un primo incontro gratuito e se decideranno di proseguire con le sedute, potranno farlo a una tariffa calmierata. Gli incontri si terranno negli studi privati delle psicologhe e degli psicologi convenzionati o presso gli sportelli di Federconsumatori.

 

Di seguito le modalità per accedere al servizio nelle città in cui è attivo:

  • Bologna: telefonare allo 051255810 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 17 per fissare un appuntamento.
  • Modena: telefonare allo 059260384 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18.30
  • Parma: telefonare allo 0521.508949 o scrivere a [email protected]
  • Reggio Emilia: Per informazioni ci si può rivolgere alla sede provinciale di Federconsumatori al numero 0522433171.
  • Rimini: telefonare allo 0541779989 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12 oppure scrivere a [email protected].

 

 

Recensione di “Process-based CBT. I processi e le competenze di base della terapia cognitivo-comportamentale” di Steven Hayes e Stefan Hofmann (2020)

Gli approcci funzionalisti e contenutistici in psicologia cognitiva si collocano su due livelli distinti di esplicazione ma Process-based suggerisce che la relazione tra i due diversi livelli di analisi può avere un esito clinico fruttuoso aiutando a identificare i momenti in cui un’analisi è più appropriata a livello cognitivo oppure processuale.

 

Steven Hayes, il Ramingo del nuovo processualismo cognitivo clinico e aspirante Monarca del reame cognitivo comportamentale (CBT) e Stefan Hofmann, il Principe Ereditario di Beck, Sovrintendente supremo dello stesso reame, tentano di comporre il loro potenziale conflitto in una pacifica Diarchia con il loro Process-based CBT. I processi e le competenze di base della terapia cognitivo-comportamentale, pubblicato in Italiano nel 2020 grazie a Giovanni Fioriti Editore, impegnandosi in un ambiziosissimo sforzo di integrazione tra CBT standard e gli approcci CBT basati sui processi, chiamandolo appunto “Process-based CBT” (PB-CBT). L’aspirazione della PB-CBT è discostarsi dall’approccio della CBT standard del Sovrintendente Beck focalizzata sulle diagnosi psichiatriche e concentrarsi su come affrontare e modificare i processi biopsicosociali in situazioni specifiche con clienti specifici per scopi clinici specifici.

Un punto che mi trova particolarmente d’accordo è che la PB-CBT incoraggia i terapeuti ad utilizzare la formulazione del caso per personalizzare gli interventi, supponendo che essa superi i limiti dei protocolli standardizzati. Hayes e Hofmann ritengono che la formulazione del caso sia in grado di produrre una ipotesi clinica e di trattamento dotato di un razionale basato sulle variabili che influenzano il disturbo e sulle quali la terapia agisce.

Questa ambizione è audacissima ma la PB-CBT non sembra aver ancora sviluppato un proprio metodo specifico di formulazione del caso. In realtà, nel loro libro Hayes e Hofmann (2018) hanno semplicemente suggerito di seguire le linee guida già disponibili, ad esempio quelle di Persons (2008) o di Kuyken et al. (2011). Rassicuriamoci: questo problema è probabilmente temporaneo perché la PB-CBT è recente, ed è in parte comprensibile perché la PB-CBT non si presenta come un modello esplicativo indipendente, ma piuttosto come un’integrazione tra approcci CBT standard e di processo.

Un ulteriore problema è che questa integrazione non è facile perché gli approcci funzionalisti e contenutistici in psicologia cognitiva si collocano su due livelli distinti di esplicazione. La conciliazione incoraggiata da PB-CBT è che i due approcci non sono in opposizione tra loro. La PB-CBT cerca di suggerire che la relazione tra i due diversi livelli di analisi può avere un esito clinico fruttuoso perché aiuterebbe gli psicoterapeuti a identificare i momenti in cui un’analisi è più appropriata a livello cognitivo oppure processuale.

E c’è anche un altro problema. La soluzione PB-CBT in fondo aderisce più all’approccio processuale che a quello di contenuto CBT standard, perché tende a interpretare i contenuti e le credenze cognitive in termini di funzioni. Questo fattore è certamente la sua vera innovazione ma anche un segnale di mancata integrazione. Come del resto è giusto che sia: la scienza non procede per integrazioni ma per selezione.

Quindi la soluzione provvisoria del Ramingo e aspirante Monarca Hayes e del Principe Ereditario Hofmann, seppur utile, rischia di sottovalutare la differenza paradigmatica tra il funzionalismo dei processi e lo strutturalismo dei contenuti. La flessibilità, l’accettazione e l’impegno al cambiamento nel processualismo non possono essere fusi (e ancor meno confusi nonostante le possibili somiglianze) con le credenze sul sé del Sovrintendente Beck. Quando la PB-CBT arriverà realmente ad identificare indicatori specifici per l’uso appropriato di due diversi livelli di analisi, fornirà anche un’integrazione clinicamente utile e una sintesi teorica della letteratura disponibile su ciò che è noto sulla funzione degli interventi al fine di poter valutare il razionale specifico per i vari tipi di disfunzioni e fornire gli indicatori al terapeuta per la scelta degli interventi da applicare.

Proprio perché questa integrazione non è facile, forse non a caso il contributo originale della PB-CBT è la traduzione e revisione dell’intero repertorio dei vari interventi CBT in termini di processi di funzionamento e non di contenuti cognitivi centrali. Ogni capitolo del libro è dedicato a un’area di intervento CBT, dall’esposizione alla ristrutturazione cognitiva, analizzando per ognuno il processo di funzionamento in base alla letteratura disponibile. Questi processi di funzionamento sono il razionale del trattamento, che così si sgancia dalla connessione empirica e psichiatrica tra trattamento e soluzione del sintomo e ambisce a ottenere una ipotesi di funzionamento terapeutico.

Infine è vero che al momento, l’integrazione della PB-CBT raggiunge lo scopo meno ambizioso di aiutare i clinici della Terra di Mezzo che utilizzano linguaggi diversi a comunicare tra loro. Questi indicatori, essendo presentati come euristiche che mettono in relazione gli interventi appropriati a specifiche disfunzioni, possono essere adatti a formulazioni di casi da condividere con il paziente e, quindi, sono strumenti essenziali per la gestione dell’alleanza terapeutica in termini funzionalistici. In questo modo, il terapeuta avrebbe davvero la possibilità di personalizzare il trattamento in termini operativi.

 

Genitorialità e nido

Il nido è un luogo intimo, all’interno del quale il bambino inizia a conquistare il suo spazio, entra in contatto con coetanei, interagisce con altri adulti, sviluppa le proprie autonomie.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Ci sono tanti distacchi che una mamma e il suo bambino, prima o poi, devono affrontare. Del resto, il distacco fa parte della vita, si pone come naturale continuum rispetto al contatto dei primi giorni o mesi.

Il distacco è un momento molto personale e delicato: il rapporto che si instaura tra madre e bambino è un rapporto intimo, profondo e nel corso dei mesi inizia ad “aprirsi” verso l’esterno, ad esempio nel lasciare il proprio figlio alle cure dei nonni, alla baby sitter oppure ad una struttura preposta: il nido.

Genitorialità …

L’assunzione del ruolo genitoriale fa emergere il vissuto legato alle proprie relazioni affettive primarie: l’arrivo di un figlio suscita nuove e potenti emozioni, può aiutare a visualizzare e riorganizzare meglio le esperienze passate, ma la nuova condizione può anche determinare un crollo psicologico proprio per il riattivarsi di sottostanti conflitti e/o vissuti non elaborati (Ammaniti, 2001). L’iperprotezione materna, ad esempio, potrebbe trasmettere al bambino un costante senso di pericolo e restringere le opportunità di sviluppare strategie di coping positive (Rapee, 1997). I genitori potrebbero cercare di mantenere il proprio figlio a un livello evolutivo inferiore rispetto all’età cronologica, incoraggiandone la dipendenza e pattern di comportamento più infantili. Nei bambini ansiosi, si potrebbe sviluppare un senso di incompetenza o di disperazione di fronte a situazioni difficili oppure sovrastimare la minaccia e sottostimare le proprie capacità di farvi fronte. Fino a qualche decennio fa è stata soprattutto la maternità ad essere oggetto di studio, tenendo conto del ruolo del dato biologico, ma più recentemente ampio spazio è stato dato anche alle problematiche connesse alla paternità. Per entrambi i genitori, la nascita di un figlio rappresenta un cambiamento: si presentano cambiamenti psicologici in ognuno dei due genitori, alterazioni dell’equilibrio della coppia che si trova a dover affrontare il delicato passaggio da una relazione a due a una relazione a tre, passaggio che comporta una serie di profonde modificazioni strutturali e d’investimento. È all’interno di questa struttura che potrà costituirsi una condizione di nuovo equilibrio in cui si determinerà una relazione armoniosa bambino-genitore, oppure potrà manifestarsi una situazione di disagio psichico che troverà espressione in disturbate interazioni, causa di profonda sofferenza per il bambino. Se poniamo l’accento sullo sviluppo del bambino, il ruolo della famiglia appare centrale, in quanto questa costituisce, soprattutto nei primi anni di vita, l’intero mondo affettivo e sociale del bambino.

… Attaccamento …

I bambini nascono con capacità che consentono loro di comunicare con l’ambiente e per continuare a farlo hanno bisogno di figure di attaccamento sufficientemente sensibili e interessate. Con il termine attaccamento si definisce la relazione che il bambino ha, sin dai primi momenti di vita, con il caregiver (cioè colui che se ne prende cura, generalmente la madre). Questa particolare relazione permette al bambino di crescere contando sulla protezione da parte della madre e potendo a sua volta esplorare il mondo circostante. Il contatto è importante perché: “l’interiorizzazione del modo di sentirsi come persona che agisce, nasce dallo stare insieme alle figure di attaccamento, i genitori e/o altre persone vicine al bambino” (Grossmann & Grossmann, 1999). Il bambino che esplora l’ambiente intorno a lui utilizza la madre come “base sicura” alla quale torna periodicamente per essere rinfrancato. Il sistema dell’attaccamento, quindi, risulta essere composto da una serie di pattern comportamentali: “attraverso di essi il legame di attaccamento è dapprima formato, successivamente mediato, mantenuto e ulteriormente sviluppato” (Ainsworth et al., 1978). Esistono una serie di aree funzionali che riguardano la relazione genitore-bambino e che hanno un’influenza specifica sullo sviluppo dell’attaccamento. La disponibilità, le cure e il calore emotivo, la protezione, il fornire conforto rappresentano i comportamenti più significativi del caregiver per lo sviluppo della relazione di attaccamento e corrispondono alla sicurezza e alla fiducia, alla regolazione emozionale equilibrata, alla vigilanza e alla ricerca di conforto nei momenti di disagio da parte del bambino. Da aggiungere anche altri comportamenti genitoriali, come il gioco, l’insegnamento, solo per citarne alcuni che, secondo altri clinici e ricercatori (Zeanah, Boris, 2000), devono essere considerati per una valutazione complessiva dell’attaccamento nel bambino.

… E Nido

Conoscere, esplorare e sperimentare il mondo che ci circonda è un processo che inizia già durante la prima infanzia. In questo periodo, infatti, la mente del bambino è sensibilmente ricettiva rispetto a determinati apprendimenti: l’affinamento dei sensi, l’ordine, la coordinazione dei movimenti e il linguaggio. Uno dei bisogni fondamentali del bambino è la vicinanza del caregiver, in genere la madre, che comprende e risponde ai suoi bisogni, che gli dà protezione e che lo fa sentire al sicuro; nel caso in cui non sia presente la madre, il bambino ricerca un individuo diverso che preferisce ad altri, una figura di attaccamento “sensibile” che sia in grado di percepire e accogliere la comunicazione del bambino e sostenerlo (Stern, 1985).

Il nido è un luogo intimo, all’interno del quale il bambino inizia a conquistare il suo spazio, entra in contatto con coetanei, interagisce con altri adulti, sviluppa le proprie autonomie. Le strutture di accoglienza sono pensate per rispettare le esigenze del bambino. Nell’interazione tra personale educativo e bambino, le operatrici accolgono a vari livelli i segnali di competenza del bambino. L’ambiente predisposto per il bambino deve infatti essere adatto alla sua età, curato ed accogliente, stimolare la curiosità, catturare l’attenzione e deve inoltre consentire al bambino di sperimentare e sperimentarsi in autonomia. L’organizzazione per aree consente al bambino di dedicarsi a diverse attività: la lettura, le attività ludiche, l’igiene personale, il pranzo e via dicendo. Lo spazio del nido in più è polifunzionale, consente infatti al bambino di vivere momenti di relazione o di isolamento in base alle sue esigenze. Sebbene l’ambiente risulti accogliente, il momento del distacco rimane il più delicato. In genere quando il genitore giunge a questa decisione, lasciare il proprio figlio al nido, è mosso da diverse necessità o bisogni ma spesso il senso di colpa o la tristezza sono emozioni che fanno capolino nel momento del distacco. L’inserimento o ambientamento, è pensato in modo da non creare una separazione traumatica, così facendo si procede gradualmente, per andare incontro al ritmo personale del piccolo. A seconda delle età, i bimbi e i genitori vivono la separazione con modalità e difficoltà diverse. Ad esempio i bimbi molto piccoli, i lattanti, hanno ancora un rapporto fortemente simbiotico con la mamma; possono quindi emergere ansie di separazione e sensi di colpa soprattutto nel genitore. Il bimbo ha meno consapevolezza di quello che accade ed è fondamentale in questa età una vicinanza ed un’attenzione molto fisica dell’educatrice.

Al contrario, nei bambini più grandi la separazione può essere più complicata poiché ci sono maggiori risvolti psicologici per il bimbo stesso, che può comprendere maggiormente la separazione e vivere con senso di abbandono la fase del distacco. In più, quando i bambini iniziano a frequentare il nido si richiede una doppia fatica psicologica, poiché oltre ad adattarsi ad un contesto e persone nuove, gli si richiede di dover fare i conti con la capacità di saper condividere spazi e attenzione con altri bambini e di gestire la frustrazione. L’educatrice svolgerà l’importante ruolo di accoglienza, non solo fisica ma anche emotiva del bambino e del genitore. Questi primi momenti risultano strategici e importanti per la creazione e mantenimento del rapporto tra educatrice e bambino: la condivisione della routine permetterà lo sviluppo di uno scenario ‘prevedibile’, grazie allo scandirsi di momenti strutturati nella quotidianità, quali l’accoglienza, il cambio e la pulizia personale, il pranzo, il riposino, la merenda (Galardani, 2011; Catarsi e Baldini, 2008; Weikert, 2005). La presenza della madre diverrà sempre più marginale, fino a giungere al momento del saluto, dove, all’arrivo, l’educatrice accoglierà il bambino per fare l’ingresso in struttura e la madre resterà all’esterno. Ciò decreterà il termine della fase di inserimento. E’ un momento, quindi, vissuto intensamente non solo dal bambino ma anche dai genitori, in particolare dalla madre. La mamma può sperimentare senso di colpa, angoscia oppure vivere una sensazione di fastidio, soprattutto quando il bimbo è molto piccolo, ad esempio per il timore di essere “spodestata” da qualcuno più competente, l’educatrice, e viva di conseguenza l’inserimento al nido con sentimenti ambivalenti. Talvolta i genitori possono vivere sentimenti di inadeguatezza e sentirsi giudicati poiché il loro bimbo ha più difficoltà ad inserirsi. Per tali motivi la fase di ambientamento risulta essere “delicata”, perché anche i genitori vivono in maniera soggettiva questa nuova esperienza e realtà. Nelle prime fasi, è opportuno:

  • Rassicurare i genitori ricordando che non tutti i bambini sono uguali ed hanno tempi diversi di adattamento alle nuove situazioni. E’ inutile fare paragoni con bambini che si ambientano in minor tempo o con più facilità. Ci sono molti casi in cui bambini apparentemente inseriti manifestano la “crisi di ambientamento” più avanti, dopo qualche mese di frequentazione del nido.
  • Fidarsi. Innanzitutto è importante che il genitore riesca a fidarsi delle persone a cui affida il proprio figlio, perché i bambini avvertono se la propria mamma o il proprio papà sono “tranquilli” nel lasciarlo oppure no. L’inserimento ha anche questo obiettivo: che il genitore conosca l’ambiente in cui suo figlio vivrà una parte della giornata. Infine, ma non meno importante fidarsi soprattutto del proprio bambino, delle sue capacità. Ricordiamo sempre che i bambini si percepiscono attraverso gli occhi del genitore e sono affamati di imparare, esplorare e conoscere l’ambiente e se stessi. L’aver fiducia nel proprio figlio può essere riassunto nell’espressione “Insegnami a riuscirci da solo”.

 

Vivere i lutti e le separazioni durante la pandemia: pre e post lockdown

Oggi, a quasi un anno dall’arrivo del covid-19, poter far visita al defunto e partecipare al rito funebre sono probabilmente gli unici elementi concreti che ci fanno sperimentare più sofferenza e meno rabbia.

 

É impossibile continuare senza di te,
ma è anche impossibile non continuare senza di te. (Beckett)

La realtà del lutto e della perdita con la quale ci stiamo confrontando, ormai da diversi mesi e in misura maggiore in questo periodo di pandemia, spinge ciascuno di noi a fare i conti con le proprie emozioni. Ad inizio pandemia, le emozioni con le quali ci siamo maggiormente confrontati sono state la tristezza e la rabbia, unitamente al senso d’impotenza e frustrazione che abbiamo provato per il non poter far nulla, restando “sospesi” ed “immobili” all’interno delle nostre case, mentre ci veniva negata la possibilità di dare almeno un ultimo saluto al nostro caro, che in quel momento ci stava lasciando. La privazione della libertà di poter partecipare attivamente alle celebrazioni di sepoltura e poter condividere fisicamente con gli altri la perdita, come unica soluzione possibile per sentirsi “vicini ma non troppo” a quel mondo oscuro colorato di nero, ha amplificato la rabbia, la sofferenza, l’impotenza.

S. Freud (1925) ha affermato che:

Il dolore è la vera reazione alla perdita dell’oggetto; il lutto è un’altra delle reazioni emotive alla perdita dell’oggetto: si forma dalla consapevolezza di doversi separare effettivamente dall’oggetto perché di fatto non c’è più.

Pensando alla parola perdita la prima immagine che richiamo nella mia mente è quella di un bambino molto piccolo che giocando vede la sua mamma allontanarsi dalla stanza: il bambino continua a giocare ma, quando si accorge che la mamma è andata via, inizia a piangere credendo che la mamma sia andata via per sempre. Questi due aspetti, quello della “perdita” e quello del “per sempre” sono tra loro collegati in quanto implicano un allontanamento, una separazione, per un tempo che può essere breve ma percepito come molto lungo, oppure esteso e senza possibilità di ritorno ma che in realtà percepiamo ridotto.

Galimberti U. (1999) definì l’esperienza della perdita come quello

stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o di un oggetto interno come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale etc.

Le famiglie che hanno perso o stanno perdendo un proprio caro sono chiamate a riadattarsi personalmente alla perdita, devono cioè fare i conti con sé stessi e con la propria identità, imparando anche a dover vivere nel mondo senza la presenza della persona che li ha lasciati. Oggi, a quasi un anno dall’inizio della pandemia, il poter far visita al defunto e partecipare al rito funebre, seppur con tutte le dovute precauzioni è probabilmente l’unico elemento concreto che ci fa sperimentare più sofferenza e meno rabbia. Partecipare “attivamente” alla commemorazione del defunto lascia spazio a quel sentimento di impotenza e dolore che, durante il rito, trova simbolicamente una ricollocazione nella fase della sepoltura.

Come scrive Massimo Recalcati in un’intervista rilasciata sul periodico Hospes di qualche mese fa:

ogni morte è sempre prematura, è sempre traumatica. In certi casi ovviamente in modo indicibile, come quando si spegne la vita di un figlio. Ma in ogni caso anche la morte di un anziano non è mai un evento naturale. Non ci si può mai abituare alla morte. Per questo il lavoro del lutto è sempre difficile. Si può lavorare attorno alla perdita. Si può provare a simbolizzarla. Ma il reale traumatico della perdita non si può assorbire mai integralmente. La capacità di reazione non consiste nel vincere o tanto meno nel negare maniacalmente la perdita ma, paradossalmente, nell’incorporarla simbolicamente.

Questo è ciò che viene definito in psicoanalisi elaborazione del lutto: un percorso che ci porta ad una comprensione più profonda della persona che ci ha lasciato. Recalcati parla di morte e di perdita non come di un processo statico bensì come un lavoro dinamico, in movimento, che interessa e vede protagonisti anche chi resta.

Lavorare sulla e con la perdita ci permette di entrare in contatto con quel lato oscuro della nostra mente, quella parte più in ombra… Ma, permettendo di raccontare come è stata vissuta l’esperienza della separazione, si potrà creare un filo elastico tra quello che è stato il “prima” e quello che sarà il dopo. Il rituale funebre, che nei primi periodi della pandemia ci è stato negato, è una delle possibilità di elaborazione del lutto cosiddetto complicato (es. covid-19; terremoto) che ci ha spinto in questi mesi a ricreare, anche in seguito alla mancanza di una condivisione sociale, un ambiente comune a tutti attraverso i media ed i social network.

 

Il primo feedback negativo allo stage curriculare, il primo shit-posting dell’azienda sui social media: la percepita mancanza di disciplina e self-regulation degli attori sociali millennial

La disciplina, come metodo di self-regulation e di resistenza al piacere immediato, è da sempre considerata una metodologia di struttura che porta grande beneficio alla salute psicofisica dell’essere umano. Tuttavia in un’epoca dove il piacere a portata di mano e la distrazione sono sovrani, l’impostazione di una routine dove si possa godere un frutto del lavoro non completamente garantito è vista quasi come un elemento vetusto.

 

Un grande dibattito che in questi anni recenti ha avuto una grande esposizione mediatica è l’ostilità delle generazioni passate nei confronti delle generazioni definite millennial (Stein, 2013).

Di fatto, la generazione in questione, nata con a disposizione mezzi come gli smart device ed avente a disposizione oggetti e manifattura disponibili in poco tempo grazie a veicoli come le app, può ottenere ciò desidera in poco tempo (Leon, 2018).

Questi elementi di visione e di ottica della società, accompagnata da una percepita mancanza di gestione sana delle avversità e da un background familiare coincidente con una crescita senza “no” creanti la frustrazione sana, ha fatto sì che i millennial siano visti con luce negativa dalla società odierna (Hoffmann, 2018).

Elementi come l’aver avuto una educazione troppo permissiva, l’accesso a prodotti con poco sforzo, la perenne distrazione e la percepita pretesa di ottenere il massimo dei risultati quasi senza sforzo ha dato vita ad uno stereotipo e ad un pregiudizio inficiante nei confronti dell’attuazione di una impression management da parte di un appartenente alla generazione in questione (Tulgan, 2016).

Il livello di attacco mediatico e culturale da parte delle generazioni passate è tale che si è contestualizzato pure una visione semantico-sociale di questi attori attraverso il termine denigratorio di “snowflake” (Kehoe, 2018). Con questo termine si ha l’intenzione di indicare uno stereotipico millennial, non capace di affrontare le frustrazioni del mondo e più presente sulle piattaforme social (De Maricourt, 2019).

Questa accusa, da parte del mondo culturale e della società in generale, evidenzia come aspetto fondamentale il fatto che nei nativi digitali il concetto di disciplina sia quasi assente totalmente (Ein, 2014). Infatti, un attacco costante ai nati dopo la Generazione X è che essi siano degli attori sociali poco portati all’adattarsi alle sfide della società, dei costumi e della vita (Tulgan, 2016).

Una impostazione di una disciplina, ovvero di un comportamento dedito alla rinuncia ai piaceri immediati per un periodo prolungato, sacrificandoli per il raggiungimento di obiettivi realistici e realizzabili è considerata essere l’antitesi dell’approccio esistenziale dl un attore della Generazione Y (The Week, 2020).

La mancanza rilevante di atti di self-regulation, di impostazione di obiettivi rilevanti e realistici ottenibili dopo un periodo prolungato di astinenza ai piaceri immediati, considerati essere sani per la struttura psichica dell’uomo e per un vissuto salubre nella ambiente sociale (Bandura, 1991) è quindi indicata come la matrice del peccato delle persone nate fra il 1981 ed il 1996, tanto da considerarli quasi incapaci di imparare i meccanismi di difesa base per vivere una vita sociale (Brailovskaia, Bierhoff, 2020) e lavorativa (Molly, 2017).

L’uso e abuso degli smart device e la bassa resistenza ai fattori dello stress, da un’educazione protettiva e corrispondente ad una disponibilità illimitata a oggetti desiderati in maniera incondizionata, è una delle principali critiche della Accademia economico-sociale (Pînzaru, Florina, et al, 2016) e della Psicologia generale (Trabucchi, 2014).

Attualmente strategie di coping e di attuazioni di strategie ottimali di self-regulation sono oggetto di ricerca accademica (Palmer, 2014), tenendo conto delle altre disfunzionalità che stanno assoggettando gli attori sociali della generazione Y, come l’eccessiva cura della propria immagine (Silva, 2017) e la dipendenza da uso degli strumenti smart (Musa, Saidon, Rahman, 2017).

Ovviamente queste ricerche sono corroborate con la critica analitica e la decostruzione di questi attacchi (Fisher, 2019), nati molte volte per la mancata comunicazione fra le generazioni e il semplice bisogno delle generazioni precedenti di attuare scarico della tensione sui soggetti più giovani (Bristow, 2019).

 

“Verbal Behavior”, il linguaggio come comportamento operante: funzione ed insegnamento degli operanti verbali

Nell’ambito delle teorie ambientaliste trovano ampio spazio le teorie comportamentali tra cui quella di Skinner del 1957 dedicata all’apprendimento del comportamento verbale, Verbal Behaviour.

 

Nell’ambito delle teorie del linguaggio si è soliti distinguere tra teorie innatiste, ambientaliste e interazioniste.

Nello specifico, all’interno delle teorie innatiste rientrano le teorie biologiche, come quella di Chomsky (1965), dove il linguaggio viene considerato qualcosa di derivante da una predisposizione biologica specifica e personale del soggetto. Autori come Chomsky affermano, quindi, che il linguaggio abbia delle radici fortemente biologiche e sia frutto dello sviluppo di circuiti specifici predeterminati biologicamente.

Nell’ambito delle teorie ambientaliste trovano ampio spazio le teorie comportamentali tra cui quella di Skinner del 1957 dedicata all’apprendimento del comportamento verbale, “Verbal Behaviour”.

Nell’ambito delle teorie interazioniste rientrano le teorie cognitiviste, come quella di Piaget (1923), all’interno delle quali il linguaggio è visto come una funzione subordinata ai processi di pensiero, ossia il linguaggio rappresenta sicuramente una funzione fondamentale per lo sviluppo nei processi di pensiero ma è un elemento di secondo ordine subordinato a veicolare il flusso ideativo del soggetto, a veicolare i pensieri, le emozioni e gli elementi cognitivi della persona.

Nell’approccio tradizionale possiamo dire che le parole o frasi, o meglio la struttura del linguaggio, rappresentano unità di analisi fondamentali. L’enfasi è essenzialmente sulla topografia, ossia la forma del linguaggio. Le parole sono classificate come nomi, verbi, aggettivi e la distinzione fondamentale è tra linguaggio recettivo ed espressivo.

È Skinner che, nel 1957 con il suo libro “Verbal behaviour”, dà una svolta sia alla concettualizzazione del linguaggio e del comportamento verbale, sia all’insegnamento del comportamento verbale. All’interno del suo testo afferma che il linguaggio può essere considerato un comportamento operante e come tale rinforzato attraverso la mediazione di un’altra persona, indipendentemente dal modo o dalla forma. Quindi il linguaggio si comporta come un comportamento operante ed è un comportamento ad alta valenza e ad alta significatività sociale, in quanto per essere rinforzato richiede la mediazione di altre persone.

In contrapposizione alle teorie tradizionali, Skinner sostiene che il linguaggio non sia un processo cognitivo innato o relativo allo sviluppo ma un comportamento verbale e che possa essere spiegato al meglio attraverso le stesse variabili ambientali che rendono ragione di ogni altro comportamento. Il linguaggio è un comportamento socialmente significativo, ad alta valenza sociale, perché nasce e si sviluppa all’interno delle interazioni tra soggetti e può essere manipolato, sviluppato ed insegnato attraverso la manipolazione di variabili ambientali tradizionali del comportamento operante, cioè gli antecedenti e le conseguenze.

Di conseguenza, anche il comportamento verbale in quanto comportamento è meglio studiato sulla base degli stimoli ambientali che lo precedono (antecedenti) e che lo seguono (conseguenze). Nell’analisi comportamentale del linguaggio, la parola non viene definita sulla base della sua forma ma per la sua funzione, cioè sulla base delle variabili che ne controllano l’emissione.

Il linguaggio è classificato in categorie funzionali chiamate operanti verbali.

Il linguaggio non è semplicemente qualcosa di formale, legato alla topografia, ma l’essenza stessa del linguaggio è funzionale. La funzione domina quindi la classificazione del linguaggio dal punto di vista comportamentale. Infatti, gli operanti verbali non sono altro che le diverse funzioni che il linguaggio può acquisire. Gli operanti verbali rappresentano i livelli funzionali che la parola o la frase possono acquisire.

Da un punto di vista classificativo, parliamo di operanti verbali primari e di comportamento non verbale. Gli operanti verbali primari rappresentano le funzioni essenziali che un parola può assumere. Nell’ambito degli operanti verbali primari rientrano, brevemente: i mand, ossia le richieste; i tact, cioè le etichette, le denominazioni; l’echoic, ossia il vocale o l’imitazione di segni; l’intraverbal, cioè la capacità di rispondere a domande in maniera specifica e quindi anche le abilità conversazionali; il textual, cioè la lettura senza comprensione e transcription, ovvero il dettato, scrivere una parola che si è ascoltata.

Affianco agli operanti verbali primari ritroviamo il comportamento non verbale dell’ascoltatore, di listener.

Nell’insegnamento degli operanti verbali, all’interno dell’Analisi Applicata del Comportamento (ABA), dobbiamo tenere presente quale sia l’antecedente (stimolo discriminativo e operazione motivazionale), quale il comportamento verbale e infine la conseguenza che rinforza quel determinato operante.

Ecco alcuni esempi.

I MAND rappresentano quei comportamenti di richiesta che sono sotto il controllo dell’operazione motivazionale (MO) e quindi rappresentano richieste per ottenere i rinforzatori desiderati (es. dico biscotto per ottenere il biscotto). Quindi nell’antecedente c’è la MO, il comportamento specifica il rinforzatore e la conseguenza è rappresentata dal rinforzatore specificato dall’operazione motivazionale. Ricapitolando: ho motivazione per il biscotto, dico biscotto, ottengo il biscotto. In effetti, nella prima fase di insegnamento di quelli che sono i mand è importante che ci sia una stretta contingenza e una bassa latenza tra il comportamento verbale e la consegna del rinforzatore.

Il TACT rappresenta la denominazione, l’etichetta, l’identificazione di oggetti, azioni, eventi, caratteristiche (dire biscotto perché si vede un biscotto). Nell’ambito degli antecedenti troviamo lo stimolo discriminativo di natura non verbale, il comportamento è la specificazione dell’oggetto visto, non c’è finalità di ottenere lo stimolo, pertanto il rinforzatore è aspecifico e si può associare al rinforzo sociale.

Nell’ambito dell’ECOICO parliamo di imitazione vocale, cioè ripetere esattamene quello che si è sentito dire (dire “biscotto” dopo che qualcun altro ha detto “biscotto”). In questo caso nell’antecedente abbiamo uno stimolo discriminativo di natura verbale, nel comportamento abbiamo la ripetizione point to point dello stimolo discriminativo (SD) di natura verbale, nelle conseguenze abbiamo un rinforzatore aspecifico più il rinforzo sociale. Ricapitolando: l’insegnante dice “biscotto”, il bambino ripete “biscotto”, viene consegnato un rinforzatore aspecifico più un rinforzo sociale.

L’INTRAVERBALE riguarda il rispondere a domande, fill-in, in conversazioni in cui le parole sono sotto il controllo di altre parole dette da qualcun altro. Il bambino dice “biscotto” quando qualcuno chiede “qual è una cosa che si mangia?”. Negli antecedenti c’è uno stimolo discriminativo di natura verbale, ma in questo caso non abbiamo corrispondenza point to point, il comportamento è di natura verbale, è collegato all’SD ma non ha corrispondenza point to point, la conseguenza è un rinforzo sociale e un rinforzatore aspecifico. Ricapitolando l’insegnante dice: “mi dici una cosa che si mangia?”, il bambino risponde “biscotto”, ottiene il rinforzatore.

Il LISTENER, o COMPORTAMENTO D’ASCOLTATORE, è l’eseguire istruzioni o compiere azioni motorie in risposta ad una richiesta fatta da qualcun altro, ad es. toccare un biscotto dopo la richiesta “tocca il biscotto”. Nell’antecedente abbiamo uno stimolo discriminativo di natura verbale, il comportamento è non verbale (esempio: prendere, toccare, dare), nelle conseguenze troviamo il rinforzo aspecifico più un rinforzo sociale. Ricapitolando l’insegnante dice “tocca il biscotto”, il bambino tocca il biscotto e riceve come premio un rinforzatore.

Il comportamento d’ascoltatore e gli altri operanti verbali primari rappresentano gli elementi di base fondamentali per lo sviluppo di una comunicazione funzionale efficace.

Lo sportello d’ascolto a scuola ai tempi del Covid-19: quale risorsa migliore?

Lo Sportello d’Ascolto di supporto psicologico nelle scuole nasce per promuovere il benessere psichico e relazionale degli studenti, degli insegnanti e di tutto il personale scolastico.

 

Il supporto psicologico nelle Istituzioni scolastiche sta, da un breve periodo a questa parte, prendendo importanza per la molteplicità di benefici che si configurano grazie ad esso. La pandemia ed il confinamento a casa, nei bambini e nei giovani, stanno avendo degli effetti dal profondo impatto psicologico, forse più di quelli che stanno riscontrando gli adulti. La mia esperienza nelle scuole siciliane mi ha coinvolto dal punto di vista professionale, ma ancora di più dal punto di vista umano.

Sono innumerevoli le conseguenze della quarantena che dimostrano dei cambiamenti importanti nei metodi di studio, nelle abitudini alimentari, nell’utilizzo dei dispositivi elettronici e nei comportamenti scolastici ed extra-scolastici dei ragazzi. Si riscontra un evidente cambio del tono dell’umore nei bambini e nei ragazzi maggiormente sensibili ed una instabilità emotiva, tendente anche alla depressione in alcuni casi.

Il disagio psicologico è chiaramente esperito dai ragazzi che, antecedentemente al periodo di confinamento, praticavano regolarmente sport o avevano un hobby, come la musica in un istituto specialistico; ciò ha portato anche un acuirsi della frustrazione ed un’alterazione della percezione degli eventi e delle cose, compresi i disordini delle emozioni esperite e delle abitudini alimentari. Risulta difficile anche scandire i tempi tra lo studio ed il tempo libero, che prima erano definiti sia dalle uscite con gli amici che da altre abitudini.

Lo Sportello d’Ascolto di supporto psicologico nelle Istituzioni scolastiche nasce per promuovere il benessere psichico e relazionale degli studenti, degli insegnanti e di tutto il personale scolastico.

La pandemia da COVID-19  ha dimostrato che senza la tecnologia ed il lavoro digitale era quasi impossibile poter portare a termine il programma didattico od ancora, amministrare da casa il lavoro dell’intera Istituzione scolastica. Contemporaneamente, i ragazzi fanno i conti il tempo, non sempre impiegato in attività produttive,  con il desiderio di uscire e svagarsi dopo i compiti a casa e tanta voglia di riabbracciarsi con i propri cari che non vedono da un po’.

L’intera comunità umana è coinvolta in un trauma collettivo, che assorbe la nostra quotidianità e sottrae il contatto umano e visivo alle nostre vite; l’atmosfera di allerta e di preoccupazione esperita da tale trauma, si traduce spesso in un crollo affettivo ed emotivo. I sentimenti di ansia, sensazioni di paura e perdita del controllo di sé, costringono la persona a dover rallentare i propri tempi, in determinati casi, quasi come quelli esperiti in un lutto.

Lo sportello di supporto psicologico si propone di rispondere ai bisogni di chi dimostra di volersi interrogare e confrontare sul tema della Pandemia o ancora, su questioni relative alla propria crescita personale ed interpersonale inteso con i pari, con i genitori e con i docenti, alle relazioni e perché no, rivolta anche alla propria crescita professionale.

I dubbi sollevati da un periodo di confusione come quello di un trauma collettivo, possono essere svariati e spesso si trascinano quelli che esistevano precedentemente.

Durante i colloqui offerti dallo sportello d’ascolto si delinea uno spazio dedicato ad ascoltare le difficoltà dei bambini e dei ragazzi riguardante l’apprendimento in presenza e a distanza, il metodo di studio, l’ansia da prestazione scolastica, le relazioni con i pari ed il rapporto con i docenti, i bisogni individuali e di gruppo.

La consulenza psicologica si rivela momento di ascolto – incontro, al fine di  prevenire situazioni di disagio e di malessere soggettivo e collettivo. Più precisamente, lo psicologo aiuta il bambino e l’adolescente a far sì che si ascolti, che comprenda da solo a rispondere a tali momenti di malessere con le proprie risorse autentiche.

Lo sportello si propone di migliorare e sostenere l’alleanza educativa tra scuola e famiglia, favorendone la comunicazione.

Inoltre, la consulenza psicologica individuale offerta affronta i problemi personali dei ragazzi che riguardano la vita familiare, problematiche del bullismo e la demotivazione a scuola. Il servizio di supporto consiste nel sostenere lo studente ad affrontare le difficoltà nelle diverse fasi di crescita ed a percepire il disagio come una fase di transizione del tutto normale e quindi a migliorare la percezione della propria auto-efficacia. Spesso si percepiscono i disagi come insormontabili, per tale motivazione, lo psicologo promuove tramite colloqui e progetti il lavoro che punta a migliorare la consapevolezza dei ragazzi; egli promuove la capacità di prendere decisioni autonomamente, valutando le migliori alternative ai compiti evolutivi, migliorando la capacità di interazione con le persone ed il mondo esterno.

 

Esitazione al vaccino contro il COVID-19: quali fattori influenzano questo atteggiamento?

A seguito della pandemia del COVID-19, i ricercatori di tutto il mondo hanno unito le loro forze collaborando per lo sviluppo di un vaccino contro il virus.

 

La presenza del vaccino in sé tuttavia non garantisce la fine della pandemia fino a che una quantità sufficiente di persone non verrà vaccinata per raggiungere l’immunità. L’accettazione del vaccino da parte dei cittadini quindi sembra avere un ruolo decisivo nel successo del controllo della pandemia, e per contro lo sforzo della comunità scientifica può essere ostacolato da una diffusa esitazione vaccinale che può arrivare fino al rifiuto vero e proprio del vaccino (Sallam, 2021). L’esitazione vaccinale, ovvero l’atteggiamento di dubbio, diffidenza o riluttanza verso i vaccini è stata dichiarata nel 2019 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità una delle dieci gravi minacce alla salute globale (OMS, 2019).

Da quali fattori dunque dipende l’esitazione vaccinale? Alcuni ricercatori hanno indagato sul ruolo del rischio percepito di COVID-19, (cioè la probabilità percepita di infezione, la gravità della malattia percepita e la preoccupazione legata alla malattia) nel predire l’intenzione di accettare un vaccino. In Italia uno studio condotto dall’Università di Padova e dall’Università di Ferrara ha coinvolto 2.267 persone (69,9% femmine, età media 38,1 anni) nel periodo tra febbraio e fine giugno del 2020, analizzando la posizione degli intervistati prima, durante e dopo il primo lockdown. Il 40% degli intervistati ha espresso l’intenzione di accettare il vaccino contro il Covid-19 senza alcuna esitazione, mentre il 60% ha espresso un grado di esitazione variabile. I risultati hanno indicato che durante la fase del lockdown, fase in cui la percezione del rischio COVID-19 era maggiore, le persone erano più intenzionate a vaccinarsi contro la malattia, per tornare successivamente ad un aumento di esitazione nella fase di riapertura (Caserotti et al., 2021). In Finlandia, sono stati intervistate 2355 persone e circa il 75% del campione ha riferito che farebbe il vaccino se fosse disponibile e ciò fosse raccomandato dalle autorità. Gli intervistati che percepivano la malattia come grave erano anche più intenzionati a vaccinarsi, rispetto a quelli che consideravano il COVID-19 come una malattia lieve e spesso percepivano anche il vaccino come non sicuro (Karlsson et al., 2021).

Il rischio percepito di COVID-19 è emerso anche durante un’altra ricerca effettuata in Francia: nel luglio del 2020 è stato selezionato, per partecipare ad un sondaggio online, un panel di adulti di età compresa tra i 18 e i 64 anni che non avevano riscontrato il COVID-19. All’indagine hanno risposto 1.942 soggetti, e quasi il 30% ha optato per la non vaccinazione, mentre una percentuale analoga di persone ha mostrato esitazione vaccinale legata alle caratteristiche del vaccino (efficacia, effetti collaterali, luogo di produzione). Sia il rifiuto assoluto sia l’esitazione vaccinale erano entrambi significativamente associati al sesso femminile, all’età, ad un basso livello di istruzione, ad una scarsa osservanza delle vaccinazioni raccomandate in passato ed a una minore gravità percepita del COVID-19. L’esitazione vaccinale era più bassa negli individui lavoratori rispetto a quelli non lavoratori ed in quelli che avevano sviluppato dei sintomi o conoscevano qualcuno che si era ammalato di COVID-19 (Schwarzinger et al., 2021).

Un’altra recente ricerca effettuata a livello nazionale in Irlanda e Regno Unito, ha indicato che l’esitazione/resistenza al vaccino era evidente per il 35% e il 31% di queste popolazioni rispettivamente ed era associata alla fonte delle informazioni sanitarie ricevute per il vaccino. Gli intervistati esitanti/resistenti al vaccino differivano su un numero di variabili sociodemografiche e relative alla salute, ma in entrambe le popolazioni i resistenti al vaccino COVID-19 avevano molta meno fiducia nelle informazioni diffuse dai media tradizionali (giornali, trasmissioni televisive e radiofoniche), dal loro medico, dagli operatori sanitari o dalle agenzie governative, mentre ricevevano significativamente più informazioni dai social media. Esitazione/resistenza al vaccino è stata anche associata a credenze cospiratorie, religiose e paranoiche (Murphy et al., 2021). Le credenze cospiratorie sull’origine del COVID-19 sono state confermate anche da un sondaggio online nel Regno Unito ed in Turchia durante il quale è emerso anche che diversi predittori comportamentali e demografici come l’ansia, la percezione del rischio, i livelli di soddisfazione del governo influenzano l’esitazione vaccinale. In tutto, il 31% dei partecipanti in Turchia e il 14% nel Regno Unito non erano sicuri di farsi vaccinare ed in entrambi i paesi il 3% dei partecipanti ha rifiutato di essere vaccinato (Salali & Uysal, 2020).

I ricercatori concordano che informazioni sanitarie ottenute da fonti come Internet e le piattaforme dei social media alimentano l’esitazione vaccinale (Puri et al., 2020). A differenza dei media tradizionali, i social media permettono agli individui di creare e condividere rapidamente contenuti a livello globale senza supervisione editoriale. In risposta alla disinformazione sul COVID-19, una serie di aziende di social media hanno prodotto congiuntamente delle azioni per combattere la “disinformazione sul virus”. Pinterest, per esempio, ha reindirizzato le ricerche relative ai vaccini ad una piccola serie di risultati selezionati da organizzazioni di salute pubblica, tra cui l’OMS. Facebook sta cercando di “affrontare la disinformazione sui vaccini riducendone la distribuzione e fornendo alle persone informazioni autorevoli sull’argomento”. Negli Stati Uniti, Twitter ha collaborato con il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani per collegare le parole chiave associate ai vaccini al sito ufficiale del governo e sta implementando strumenti per etichettare o rimuovere i tweet contenenti informazioni fuorvianti (Puri et al., 2020).

Il lavoro futuro in questo campo dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo e sull’analisi di strategie comunicative efficaci per favorire l’accettazione del vaccino e promuovere l’alfabetizzazione sanitaria basata sull’evidenza scientifica.

 

In ricordo di Roberto Lorenzini – Di Sandra Sassaroli

Ogni volta ci siamo scambiati idee, abbiamo cercato di capire l’altro dove stava andando, ci siamo divertiti insieme, abbiamo riso e ci siamo dati appuntamenti per i ritorni a Roma. Roberto ed io abbiamo avuto una grande indipendenza di giudizio e preso spesso strade diverse, ma questo non ci ha mai impedito di discutere e arricchirci reciprocamente, collaborare e poi rimanere ciascuno della sua idea.

 

Ho conosciuto Roberto Lorenzini negli anni ’80 a Roma quando avevo un contratto per insegnare psicoterapia cognitiva all’Università Cattolica dove mi ero specializzata in Psichiatria da poco. Probabilmente era il 1981, 1982. Roberto arrivò in Cattolica dopo di me ma era già conosciuto per il suo ruolo nazionale nella associazione dei boy scout. Un giorno mi avvicinò dopo una lezione e mi chiese se avevo voglia di essere il relatore della sua tesi di specialità. La domanda mi stupì perché ai tempi il responsabile della specialità era il professor Leonardo Ancona e l’Università aveva un indirizzo fortemente psicoanalitico seguito da tutti gli specializzandi dell’epoca. Era difficile fare lezione perché spesso la reazione degli allievi era sprezzante verso chi non seguiva l’indirizzo psicoanalitico mentre riluceva come un faro l’apertura mentale del professor Pontalti, la sua curiosità. Tra le prime cose che io e Roberto ci confessammo fu che delle lezioni su Meltzer, in particolare quelle della professoressa Gaddini, non capivamo e non avevamo mai capito nulla. Non a caso la professoressa Gaddini durante una interrogazione d’esame in cui Roberto mostrava di non conoscere bene un concetto, confessando: non lo ho compreso bene! Gli rispose: “non tutti lo possono capire!”

Con alcune idee della sua tesi iniziammo poi a scrivere insieme libri sulle fobie (non ho più neanche una copia del libro: La Paura della Paura) sulle ossessioni, sulla paranoia (Cattivi Pensieri) e sull’attaccamento e infine di nuovo l’ultimo libro comune sull’ansia, La Mente Prigioniera. I primi furono editi da Carocci, che ne pubblicava, per non rischiare, 1000 copie esatte e poi non le ristampava più, mentre gli ultimi furono pubblicati da Raffaello Cortina, che ci intimoriva con i suoi modi bruschi e la pignoleria della sua curatela ma ci dava fiducia e ristampava i nostri libri anno dopo anno.

Ricordo quando lasciammo una copia della Paura della Paura a Pierfrancesco Galli, uno psicoanalista dalla mente molto aperta e influente nell’editoria, che ci disse che gli piaceva molto e lo consigliò a Bollati Boringhieri, che purtroppo, essendo un editore un po’ snob, non lo prese in considerazione per la pubblicazione. Dopo quella delusione andammo a bere una birra e a mangiarci una pizza per consolarci. Ricordo che all’epoca mi ero già trasferita da Roma a Milano.

Anche se affetti da una certa sfiducia in noi stessi, da una vocina: ma cosa state facendo! Ma chi credete di essere!, in realtà stavamo contribuendo alla nascita e alla crescita della psicoterapia cognitiva in Italia. Il nostro stile era terribilmente autoironico (Roberto era un maestro!), direi autodemolitivo se non avessimo, sia lui che io, trovato la nostra strada con grande determinazione. Ma eravamo giovani e instabili, avevamo bisogno di tempo e pazienza per maturare. Intanto gli infortuni della vita ci colpivano: lui si stava separando e anche io e annegavamo le nostre confidenze in qualche trattoria romana a chiacchierare di passato e futuro. Questa autoironia però ci consentiva di vivere le idee e i libri con allegria e senza troppo prenderci sul serio.

Avevamo un nostro modo di collaborare. Ci vedevamo, davanti a bicchieri di vino ci raccontavamo le idee e insieme si innescavano ipotesi e dubbi. Io ero lenta a scrivere ma più precisa, Roberto un torrente di pensieri. Andava a casa e scriveva a mano decine di pagine in una notte che guardavamo il giorno dopo, e io lo insultavo che non volesse usare la macchina da scrivere.

Dato che eravamo giovani, e angustiati e sentimentalmente instabili spesso ai nostri ritardi, ai nostri inciampi davamo spiegazioni strane. Ricordo, ad esempio una volta che Roberto arrivò con un ritardo di molte ore al Congresso sulla Psicologia dei costrutti personali ad Assisi e mi raccontò di un incredibile incidente di centinaia macchine, migliaia di ambulanze e l’intervento di polizia, elicotteri, l’FBI e io lo guardavo e: no ma Roberto, ma dai, non stai esagerando? Mi guarda e risponde: dato che devo dirti una bugia tanto vale esagerare.

Esagerò anche un’altra volta. Eravamo stati invitati a Barcellona per due giornate di lezioni in un corso di specializzazione post-laurea in psicoterapia all’Università locale. Roberto non aveva voluto usare il mio albergo ed era stato ospitato da un professore che gli aveva prestato un letto di fortuna nel suo studio. Per capire l’episodio teniamo conto che in quei giorni si stava aspettando l’inizio delle Olimpiadi, la polizia pattugliava le strade e che Roberto, come al solito del tutto disinteressato alle forme e all’apparenza, vestiva la sua solita giacchetta celeste che credo abbia usato per tutta la vita; sempre la stessa, anche se conservava una sua naturale eleganza. Finito il corso il sabato sera, avevamo l’aereo la domenica mattina che Roberto prese all’ultimo momento. Per giustificare il ritardo mi raccontò un’incomprensibile storia in cui alle 5 del mattino era rimasto fuori dal palazzo dov’era lo studio in cui dormiva, aveva tentato di rientrare chiedendo aiuto gesticolando ai passanti, era stato poi fermato da una volante della polizia che pattugliava Barcellona per le Olimpiadi e quasi arrestato, facendogli rischiare di perdere l’aereo. Nel racconto che lui mi fece riuscì a convincerli grazie al professore, che in teoria a quell’ora doveva essere a casa sua a dormire ma che nell’epica fantasia di Roberto invece era stato buttato giù dal letto ed era nel suo studio alle 5 del mattino. Col tempo il racconto diventò sempre più romanzato, una leggenda condivisa tra me e Roberto in cui prima i passanti, poi i poliziotti e infine perfino il professore lo avevano sospettato di terrorismo, se non altro per la sua lisa giacchetta azzurra. Insomma, insieme andavamo spesso a sbattere in eventi bizzarri e poco credibili.

Ricordo che quando iniziavano le vacanze d’estate lui staccava il telefono e fino al primo settembre per me era irraggiungibile, lui era solo per la sua famiglia e quando ci sentivamo di nuovo lo rimproveravo e lo colpevolizzavo a volte insultandolo bonariamente. La sua reazione era un silenzio olimpico con i suoi occhi cerulei e innocenti. Impossibile un conflitto aperto con lui perché diventava di pietra si chiudeva e non parlava, e io con la mia impulsività ero lì a provocarlo. La sua difficoltà allo scontro aperto credo che lo abbia danneggiato perché quando ha avuto ruoli importanti nella sanità pubblica non ha avuto desiderio né voglia di giocare partite relazionali complesse e sgradevoli e questo stress sicuramente in quegli anni lo portava disegnato sul viso anche se non ne parlava mai. Perché accanto alla difficoltà a fare scontri aperti Roberto aveva lo stoicismo delle persone che vengono da storie difficili e che sono abituate a soffrire. Lo stesso stoicismo con cui ha affrontato i problemi fisici della parte finale della sua vita e che ha sempre coperto con ironia surreale.

Quando ha conosciuto la sua moglie Brunella ero colpita perché in quel suo fare dolce e accondiscendente e dedito intuivo una volontà di acciaio. La battezzai Brunellik in modo che anche a lei fosse chiaro il rispetto che le portavo per la sua capacità di stargli vicino, sopportare le sue manie, proteggerlo da se stesso e costruirci una famiglia come è oggi la sua. E Brunella è rimasta ed è amica cara e preziosa.

Dopo che ha avuto il suo ictus tanti anni fa ci siamo visti qualche volta a Milano o a San Benedetto del Tronto dove Roberto è stato un didatta amatissimo ma quando andavo a Roma erano preziose le cene con lui e Brunella, sia quando i figli erano in casa ma anche quando se ne erano andati a vivere da soli, da grandi. E lì mozzarella e vino e chiacchiere. Roberto sapeva tutto ciò che accadeva nel mondo cognitivista della SITCC ma dalla distanza di chi è lontano da pettegolezzi e rancori.

Ogni volta ci siamo scambiati idee, abbiamo cercato di capire l’altro dove stava andando, ci siamo divertiti insieme, abbiamo riso e ci siamo dati appuntamenti per i ritorni a Roma. Roberto ed io abbiamo avuto una grande indipendenza di giudizio e preso spesso strade diverse, ma questo non ci ha mai impedito di discutere e arricchirci reciprocamente, collaborare e poi rimanere ciascuno della sua idea.

Quando è stato male l’ultima volta Brunellik mi ha telefonato alle 4 e dovevamo vederci in serata a casa sua finalmente dopo il COVID. E questo ultimo incontro con il mio unico amico romano rimasto non lo ho avuto e non lo posso più avere.

Non so bene come fare a continuare il nostro discorso. Devo accettare che non ci sia più. Che non possiamo più volerci bene, stimarci, litigare e prenderci in giro e farci compagnia.

Devo dare valore alle idee costruite insieme e alle persone che mi ha regalato, come Brunella o Antonio Scarinci, mi affiderò al ricordo per continuare un dialogo che non si può interrompere.

 

 

Roberto Lorenzini – I ricordi:

In memoria di Roberto Lorenzini

 

Ricordo di Roberto Lorenzini

Quando l’ansia diventa ossessione: il disturbo ossessivo-compulsivo – VIDEO del Webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila

Una delle modalità utilizzate da alcuni soggetti per la gestione dell’ansia e delle ossessioni che ne possono scaturire, sono le compulsioni. Pubblichiamo per i nostri lettori il video di un webinar sull’argomento, organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo, secondo la classificazione del DSM-5, è caratterizzato da ossessioni e compulsioni. Questo disturbo ha un esordio graduale, e tende a manifestarsi prima dei 30 anni, solitamente ha un decorso cronico e colpisce circa il 2-2,5% della popolazione.

Le caratteristiche principali di questo disturbo sono i pensieri intrusivi ricorrenti, i timori collegati a questi pensieri e il dubbio, legato ad un vissuto di responsabilità e di colpa. Tali ossessioni sono percepite dall’individuo come intrusive e fastidiose. Le compulsioni possono essere descritte come il tentativo messo in atto dal soggetto per risolvere e gestire il dubbio. Nel corso del tempo, tali strategie comportamentali tendono ad aumentare e a peggiorare il problema, se non gestite e trattate adeguatamente.

Durante il webinar sono state descritte le caratteristiche del disturbo, la tipologia dei pensieri ossessivi, le compulsioni messe in atto come strategia di gestione dell’ansia e gli interventi terapeutici più indicati.

 

QUANDO L’ANSIA DIVENTA OSSESSIONE: IL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Guarda il video del webinar:

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Age Management: scambio intergenerazionale e stereotipi

Per favorire la collaborazione intergenerazionale sul posto di lavoro è fondamentale avere ben presente le caratteristiche fisico-sensoriali, cognitive ed emotivo-motivazionali tipiche di ogni fascia d’età, di questo ed altro si occupa l’Age Management.

 

Nel corso degli ultimi anni si è assistito a una vera e propria “rivoluzione grigia”, un aumento vertiginoso della speranza di vita spiegato dalle migliori condizioni igienico-sanitarie, dai livelli educativi più elevati e dagli stili di vita più salutari che caratterizzano la nostra società. Questo cambiamento demografico ha comportato chiaramente una serie di conseguenze anche sul mondo del lavoro, prima tra tutte il prolungamento dell’età lavorativa. All’interno dei contesti organizzativi sono sempre più numerosi gli older workers, o lavoratori senior, e gruppi di lavoro intergenerazionali dalle interazioni spesso conflittuali a causa di pregiudizi e stereotipi.

Una risposta alle criticità emergenti riconducibili al fattore età è la messa in atto di strategie di Age Management, una branca della diversity management sviluppatasi a partire dagli anni Novanta e il cui maggiore esponente è Alan Walker.

L’age management è un settore di intervento organizzativo specifico che permette di creare un ambiente e un clima organizzativo che favoriscono la presenza, accettazione e convivenza di più generazioni di lavoratori (Sarchielli & Fraccaroli, 2015). Inoltre, a seconda della tempestività dell’intervento, le pratiche di age management possono essere distinte in reattive, se l’invecchiamento del personale è già diventato una problematica per l’organizzazione, o preventive, in ottica di prevenzione del problema.

Per favorire la collaborazione intergenerazionale sul posto di lavoro è fondamentale avere ben presente le caratteristiche fisico-sensoriali, cognitive ed emotivo-motivazionali tipiche di ogni fascia d’età, gli stereotipi a esse associati e la conseguente predisposizione di interventi strutturati che, lavorando sugli aspetti metacognitivi, permettano un trasferimento dell’expertise tra generazioni.

Inoltre, affinché le organizzazioni si adeguino all’inevitabile invecchiamento della forza lavoro e promuovano pari opportunità tra lavoratori di diverse coorti è necessaria l’applicazione del job design, ovvero la definizione organizzativa del posto di lavoro e dei compiti e ruoli assegnati a ciascun lavoratore sulla base delle caratteristiche fisiche e psicologiche dello stesso. Nel caso del lavoratore anziano, sappiamo che con l’età possono aumentare i deficit sensoriali e i tempi di reazione, diminuire l’intelligenza fluida, rimanere costante l’intelligenza cristallizzata e migliorare la regolazione emotiva (De Beni & Borella, 2015). Per questa tipologia di lavoratori saranno quindi opportune misure ergonomiche, compiti che attivino processi di compensazione grazie all’esperienza accumulata e che prevedano il contatto con la clientela. Altra carta vincente, spesso erroneamente non utilizzata, è la formazione del personale senior. Essa viene tendenzialmente considerata un investimento con scarso ritorno economico ma se aggiorna e rafforza le abilità cristallizzate del lavoratore può vantare esiti positivi in termini di produttività, investendo successivamente il dipendente senior del ruolo di mentor (Sarchielli & Fraccaroli, 2015).

Ageismo sul posto di lavoro

L’invecchiamento della popolazione ha portato con sé sempre più fenomeni di ageismo, termine che sta a indicare un’alterazione di sentimenti, comportamenti e credenze nei confronti di individui di età diversa dalla propria (Butler, 1969).

Ashton Applewhite, attivista esperta di ageismo, afferma che “i più vecchi sono dannati se lavorano e dannati se non lo fanno”. Infatti, oltre ad attribuire all’anziano un inevitabile declino cognitivo e fisico, possono essere individuati una serie di miti sul suo rendimento lavorativo che comportano conseguenze negative dal punto di vista motivazionale e produttivo.

Il lavoratore senior viene dipinto come rallentato, più incline ad ammalarsi e ad assentarsi da lavoro, poco creativo, incapace a gestire lo stress e ad apprendere, tecnofobo e poco flessibile (Applewhite, 2017). Come anticipato, ne consegue che, proprio a causa di questi stereotipi, viene escluso dai programmi di formazione e dalle selezioni di assunzione, alimentando così difficoltà di scambio intergenerazionale.

In realtà è stato dimostrato che ogni aspetto della resa lavorativa migliora con l’età: i lavoratori sessantenni e settantenni sono assenti meno spesso, hanno meno incidenti, mostrano maggiore giudizio, lavorano più armoniosamente con gli altri e hanno risultati qualitativamente elevati (Fischer, 1978; Reade & McKenna, 2013).

Work Ability

Il costrutto di Work Ability è piuttosto recente e fa riferimento alla misura in cui un lavoratore è capace di svolgere il proprio lavoro, nel presente e nel futuro prossimo, rispetto alle richieste della propria mansione e alle proprie risorse materiali e fisiche (Ilmarinen, 2009).

Numerosi studi longitudinali hanno permesso di indagare la correlazione tra work ability e scelta di carriera degli individui (von Bonsdorff et al., 2011), dimostrando come una minore work ability determini una maggiore probabilità di pre-pensionamento.

Ne deriva la necessità da parte del management di promuovere la work ability durante il processo di invecchiamento del personale in modo da garantire una migliore qualità di vita e maggiore benessere, permettendo un migliore matching tra le risorse dei lavoratori e le esigenze lavorative.

Infine, la work ability sembrerebbe dipendere da quattro macro categorie di fattori trasversali: caratteristiche delle richieste del lavoro e ambientali; caratteristiche dell’organizzazione e della comunità di lavoro; competenze professionali; stile di vita.

La batteria MAUT

La batteria MAUT – Motivazione ad Acquisire, Utilizzare e Trasmettere conoscenze (Fiore et al., 2012) è composta da questionari self-report destinati a lavoratori giovani, lavoratori anziani, studenti universitari e studenti dell’Università della Terza Età. Tramite questo strumento è possibile valutare la disponibilità a scambiare e condividere abilità e conoscenze con persone di altre generazioni, gli stereotipi legati all’età e i fattori che incidono sulla disponibilità allo scambio.

La batteria, pertanto, si prefigge, tramite un approccio metacognitivo, di indagare le credenze ed emozioni individuali rispetto a persone di età diverse. Come sappiamo, gli stereotipi tendono a essere interiorizzati e hanno importanti ricadute sugli aspetti emotivo-motivazionali della persona e sulla sua performance.

Dunque, utilizzando questo strumento è possibile indagare la disponibilità del gruppo lavoro allo scambio intergenerazionale e predisporre degli interventi strutturati che aiutino a contrastare l’ageismo e a promuovere lo scambio di expertise.

 

Perché alcuni disturbi psichiatrici sono resistenti alle terapie o tendono a recidivare? Il ruolo del metabolismo del triptofano e del fattore neurotrofico derivato dal cervello

Il metabolismo del triptofano contribuisce alla produzione della serotonina e dei derivati dalla chinurenina e può subire delle variazioni a seguito dell’esposizione a situazioni stressanti o all’insorgere di uno stato infiammatorio dell’organismo.

 

Molti disturbi psichiatrici sottendono meccanismi di funzionamento complessi e solo in parte completamente noti. In alcuni casi le terapie in uso non risultano efficaci e il “problema” tende a riproporsi nel corso degli anni. Tale quadro di situazione ha incoraggiato lo sviluppo di un filone di studi epigenetici e di neurobiologia con l’obiettivo di comprendere quali siano i geni e i processi coinvolti nella manifestazione di queste malattie e come l’esposizione ad un ambiente complesso possa condizionarne l’esito.

Al riguardo, ha destato particolare interesse il metabolismo del triptofano che contribuisce alla produzione della serotonina e dei derivati dalla chinurenina. Tale processo può, infatti, subire delle variazioni a seguito dell’esposizione a situazioni stressanti o all’insorgere di uno stato infiammatorio dell’organismo. In tali circostanze, l’induzione degli enzimi IDO (indolammina 2,3-diossigenasi) e TDO (triptofano 2,3-diossigenasi) determinano “uno spostamento” verso la “via della chinurenina”, limitando la produzione di serotonina. La maggiore prevalenza dell’acido chinolinico (QuinA), un metabolita neurotossico della chinurenina (Meier et al, 2018), può inibire la sintesi del fattore neurotrofico derivato dal cervello che riveste un ruolo molto importante nei processi di neurogenesi e di sinaptogenesi, determinando anomalie funzionali e strutturali nelle aree dell’ipotalamo, del talamo, della corteccia prefrontale e dell’amigdala, direttamente coinvolti in molti disturbi psichiatrici. In linea con questo orientamento, un maggiore livello di acido chinolinico è stato verificato in casi di disturbo depressivo maggiore, disturbo bipolare, schizofrenia, disturbi dell’umore (Marx et al, 2020), disturbo da stress post traumatico ed è stato ipotizzato che possa avere un impatto sulla qualità del sonno oltre che sulle capacità cognitive e di apprendimento (Pocivavsek et al, 2017).

E’ possibile, dunque, ritenere che la via “triptofano-chinurenina” rappresenti uno dei principali punti di incontro dell’interazione tra fattori genetici e ambientali coinvolti nella fisiopatologia e nella recidività di alcuni dei più comuni disturbi psichiatrici, ivi inclusi quelli più ricorrenti in questi mesi di pandemia: ansia, insonnia, attacchi di panico (Kwong et al, 2020) e depressione (Marazziti et al, 2013).

Ciò rende necessario pensare strategie che consentano di integrare la terapia psicologica e, ove necessaria, quella farmacologica con interventi di psicoeducazione finalizzati a modificare i comportamenti e le abitudini rivolgendoli a uno stile di vita sano. In tale prospettiva, la pratica di un’attività sportiva, l’igiene del sonno, il trascorrere del tempo all’aria aperta e un regime alimentare adeguato (che includa ad esempio uova, latte, carne, salmone, semi di sesamo / girasole / soia, patate, riso / cereali integrali, frutta a guscio, verdure a foglia, banane, cacao e cioccolato fondente) possono contribuire ad aumentare la disponibilità di Triptofano e la produzione serotonina nell’organismo, facendo conseguire all’individuo un miglior livello di benessere biopsicosociale.

 

Massimizzazione: processo decisionale o indecisione

Schwartz e colleghi hanno osservato come alcune persone provano a massimizzare, mentre altre si accontentano di essere soddisfatte e da queste osservazioni hanno condotto alcuni studi a riguardo.

 

Chi cerca il meglio quando si fa una scelta? Le teorie economiche tradizionali sostengono che le persone sono razionali ed effettuano scelte dopo aver considerato tutte le possibili alternative (Cheek & Goebel, 2020). Massimizzare è la tendenza a perseguire uno scopo basandosi sulla migliore scelta possibile, guardando oltre e confrontando diverse alternative. Al contrario, Simon (1955, 1956) sostiene che i contrasti cognitivi rendono impossibile tale tendenza, propone così la “soddisfazione” delle persone come l’effettuare una scelta abbastanza buona anche se non ottima (Cheek & Goebel, 2020).

Nel 2002, Schwartz e colleghi hannno integrato queste due prospettive considerando le differenze individuali, osservando come alcune persone provano a massimizzare, mentre altre si accontentano di essere soddisfatte. Alcuni ricercatori hanno suggerito una correlazione tra la tendenza a massimizzare e i tratti potenzialmente maladattivi, come perfezionismo, nevroticismo, infelicità, ADHD, depressione (Bruine de Bruin et al., 2016; Chang et al., 2011, Schepman et al., 2012; Schwartz et al., 2002). Nello sviluppo della scala della Massimizzazione (2002) Schwartz ha evidenziato quattro costrutti: il primo costrutto riguarda l’obiettivo, cioè lo 1) “standard elevato” che mira a fare la scelta migliore possibile, mentre il secondo, etichettato come 2) “ricerca alternativa”, seleziona la strategia grazie ad un’estesa ricerca e al confronto di strategie (Cheek & Goebel, 2020). Il terzo costrutto, definito “difficoltà decisionale”, comprende quattro voci descriventi la tendenza a esperire le decisioni come impegnative (ad esempio, “trovo difficile acquistare un regalo per un amico”) (Cheek & Goebel, 2020).

Tuttavia, il fatto che la difficoltà decisionale sia legata all’esperienza di massimizzare non implica che tale difficoltà sia parte della massimizzazione stessa. Cheek e Schwartz (2016) hanno osservato come la difficoltà decisionale sia più appropriata se concettualizzata come una conseguenza della massimizzazione, quando coloro che devono scegliere hanno un carico cognitivo maggiore o affrontano decisioni complesse (Sela & Berger, 2012). Cheek e Goebel (2020) hanno svolto due esperimenti ipotizzando che includere la difficoltà di scelta nella massimizzazione sia problematico, in quanto la tendenza ad essere in difficoltà quando si prende una decisione potrebbe essere un costrutto a parte chiamato “indecisione”.

L’indecisione è una differenza individuale che descrive una tendenza a sperimentare difficoltà durante una presa di decisione: tale tendenza include caratteristiche specifiche come trovare le decisioni impegnative, impiegare molto tempo per prendere una decisione (onde evitare di prendere decisioni “sbagliate”), cambiare spesso idea prima che una decisione finale sia presa, e infine rimuginare e ruminare dopo che una decisione è stata presa (Crites, 1969; Frost & Shows, 1993; Germeijs & De Boeck, 2002; Rassin, 2007; Salomone, 1982; Van Matre & Cooper, 1984). L’indecisione tende ad essere positivamente correlata a tratti maladattivi e psicopatologia: molti autori sottolineano l’impazienza, l’impulsività, il nevroticismo, il perfezionismo, lo stress, l’ansia, la depressione, il disturbo ossessivo compulsivo, minore qualità della vita e minore autostima (Barkley-Levenson & Fox, 2016; Bavolar, 2018; Di Fabio, Palazzeschi, Asulin-Peretz & Gati, 2013; Effert & Ferrari, 1989; Frost & Shows, 1993; Gayton, Clavin, Clavin & Broida, 1994; Germeijs & Verschueren, 2011a; Rassin & Muris, 2005a, 2005b; Rassin et al., 2007; Taillefer, Liu, Ornstein & Vickers, 2016).

Cheek e Goebel (2020) hanno testato la relazione tra difficoltà decisionale e indecisione in due studi: nel primo studio, i partecipanti dovevano completare delle scale per misurare l’obiettivo di massimizzazione legato a volere il meglio, a volere la strategia di massimizzazione, misure di difficoltà decisionale e indecisione. L’ipotesi proposta, dove difficoltà decisionale e indecisione sono fortemente correlate, è stata confermata. Nel secondo studio, invece, i partecipanti hanno completato le stesse misure insieme ad altre, utili per indagare l’ipotesi secondo cui la difficoltà decisionale e l’indecisione mostrano un robusto modello di correlazioni convergenti con variabili correlate. Anche questa seconda ipotesi è stata confermata. In conclusione, lo studio di Cheek e Goebel (2020) supporta le ipotesi secondo cui la difficoltà decisionale e l’indecisione sono lo stesso costrutto etichettato con due nomi differenti.

 

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