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Integrazione multisensoriale e rappresentazione corporea: uno studio dimostra la capacità dei neonati di identificare il proprio corpo ed i suoi confini

Un recente studio internazionale dimostra la capacità dei neonati di essere in grado, poco dopo la nascita, di percepire il proprio corpo come entità separata dal mondo esterno. Questa ricerca prova che sono sufficienti pochi giorni di vita per raggiungere un’integrazione multisensoriale efficiente.

 

La capacità di identificare il proprio corpo ed i suoi confini è fondamentale per la sopravvivenza ed è legata ad una buona integrazione multisensoriale (Nerini A., Stefanili C., Mercurio C. 2009). Imparare a discriminare gli stimoli esterni, che si verificano vicino al corpo, da quelli che si verificano lontano da esso, permette di interagire in maniera maggiormente sicura con l’ambiente circostante (Fajen, B. R., & Turvey, M. T. 2003).

Le informazioni convogliate dagli organi di senso al sistema nervoso centrale vengono integrate tra loro generando così una percezione unitaria dell’esperienza che si sta vivendo. Questo processo è noto come integrazione multisensoriale (MSI) (Vallar G., Papagno C. 2007). Negli anni è stato dimostrato come la capacità di riconoscere gli stimoli e la velocità di risposta agli avvenimenti sia legata ad una buona integrazione multisensoriale (Hershenson 1962; Foster, Cavina-Pratesi, Aglioti e Berlucchi 2002).

Uno degli studi fondamentali sull’integrazione multisensoriale è quello condotto da Harry McGurk nel 1976 a cui hanno fatto seguito diverse ricerche sull’argomento ( Shamm et al. 2000). Negli ultimi anni l’attenzione si è focalizzata sul ruolo dell’integrazione multisensoriale nella percezione corporea, gli studi in questo campo, hanno permesso di dimostrare che la integrazione multisensoriale è utilizzata anche per costruire il senso che abbiamo del nostro corpo (Botvinick e Cohen 1998; Morandi 2016)

La rappresentazione corporea ha come substrato anatomico la giunzione temporo-parieto-occipitale, le lesioni o le stimolazioni di quest’area cerebrale provocano illusioni percettive di duplicazione del corpo, allungamento e deformazione degli arti, questo fenomeno si verifica perché, in assenza di una corretta integrazione multisensoriale, le informazioni somatosensoriali vestibolari danno luogo a fenomeni dispercettivi  (Vallar, Papagno 2007).

Recentemente è stato pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Proceedings of the National Academy of Sciences, l’articolo intitolato Spatial tuning of electrophysiological responses to multisensory stimuli reveals a primitive coding of the body boundaries in newborns, che riporta i risultati di una ricerca realizzata dal Manibus Lab del Dipartimento di Psicologia dell’Università e dalla Neonatologia universitaria dell’ospedale Sant’Anna della Città della Salute di Torino, in collaborazione con il MySpace Lab del Department of Clinical Neurosciences dell’Università di Losanna e il Center for Neural Science della New York University. La ricerca ha indagato se l’integrazione multisensoriale è presente e spazialmente organizzata tra i neonati di età compresa tra le 18 e le  92 ore. Sono state confrontate le risposte elettrofisiologiche alla stimolazione tattile, quando eventi uditivi contaminanti venivano erogati vicino, anziché lontano dal corpo dei neonati, con quelle di un gruppo di controllo formato da adulti. Gli adulti hanno dimostrato una buona modulazione spaziale e risposte superadattative per stimoli multisensoriali vicini al corpo. Nei neonati si è registrato un vero e proprio pattener elettrofisiologico di integrazione multisensoriale e nei neonati più grandi si è evidenziato un effetto d’integrazione multisensoriale più ampio. In pratica è stato osservato che i neonati, non solo sono in grado di associare un suono a un tocco in maniera efficace, ma che, in base alle risposte neurali osservate, essi riescono anche a distinguere se il suono proviene da vicino o da lontano  rispetto al proprio corpo.

La scoperta di questi pattern elettrofisiologici testimonia l’esistenza di una codifica primitiva dei confini del sé corporeo, suggerendo che, anche solo poche ore dopo la nascita, i neonati identificano il proprio corpo come un’entità distinta dall’ambiente.

Questo conferma che, fin dalle prime ore di vita, gli esseri umani sono capaci di riconoscere gli stimoli provenienti dall’esterno.  Questi stimoli hanno una notevole influenza sullo sviluppo cerebrale ed una buona stimolazione sensoriale, a partire dai primi giorni di vita, può favorire un positivo sviluppo evolutivo ( Franziska Greifzu, Justyna Pielecka-Fortuna, Evgenia Kalogeraki et al. 2014) .

 

Quello che tu non vedi (2020) – Cinema & Psicoterapia

Il messaggio del film Quello che tu non vedi è chiaro: occorre addentrarsi nelle pieghe buie del proprio animo e riconoscerle, senza aver paura di affrontarle apertamente.

 

Info

Quello che tu non vedi (2020). Regia di Thor Freudenthal. Interpreti Charlie Plummer e Taylor Russell. Tratto dall’omonimo romanzo di Julia Walton.

Trama

Adam è in apparenza un’adolescente come altri, frequenta la scuola, ha qualche amico, è appassionato di cucina. Spera di farne un lavoro ma i suoi sogni cadono quando viene espulso dalla scuola. E’ affetto da  schizofrenia. Il suo mondo è popolato da voci e da vari personaggi. Per ottenere il diploma che gli consentirà di frequentare un corso per chef viene iscritto dalla madre in una scuola cattolica. Cerca di adattarsi mantenendo segreta la sua malattia per non essere stigmatizzato e in questo suo sforzo lo aiuta Maya, una ragazza brillante e sincera di cui presto s’innamora. Sarà lei con la compartecipazione della madre del ragazzo e del suo patrigno a permettergli di credere ancora nei suoi sogni e a fargli capire che non è la sua condizione a definirlo.

Motivi d’interesse

“Tu non sei la tua malattia” è questa defusione che consentirà ad Adam di uscire dall’abisso della malattia. Gli aspetti più oscuri sono presenti nella narrazione e la sensazione che le cose, nella realtà, potrebbero assumere uno sviluppo più drammatico è sempre presente nel film. Il messaggio è, però, chiaro: occorre addentrarsi nelle pieghe buie del proprio animo e riconoscerle, senza aver paura di affrontarle apertamente.

Troppo spesso i pregiudizi ostacolano una recovery che dia una vita degna di essere vissuta a persone affette da severe mental illness. L’approccio a questi disturbi deve essere rispettoso dei bisogni dei pazienti favorendo un potenziamento della resilienza in ambito sociale ed esistenziale.

I trattamenti devono avere livelli d’integrazione che permettano non solo la riduzione dei sintomi, ma contribuiscano al processo di riabilitazione esistenziale e di partecipazione sociale.

L’idea di recovery è diventata negli ultimi anni centrale nelle politiche che riguardano la salute mentale. Il Piano d’azione per la salute mentale 2013-2020 della World Health Organization ha dichiarato: “Le normative per i servizi comunitari della salute mentale hanno bisogno d’includere un approccio basato sulla recovery che ponga l’enfasi sul sostegno agli individui con disturbi mentali e disabilità psicosociali nella realizzazione delle proprie aspirazioni e obiettivi”.

I modelli d’intervento per ridare speranza, opportunità, controllo e connessione devono essere caratterizzati dall’integrazione di procedure e tecniche basate su solide evidenze scientifiche: Individual Placement and Support e Housing First; psicoeducazione; skills training; psicoterapia; attività di riabilitazione; cognitive remediation; farmacoterapia, ecc.

È quindi necessario che tutti gli attori coinvolti si adoperino perché si attui una visione innovativa e lungimirante che riprenda la tradizione italiana della psichiatria di comunità e la spinga verso un’evoluzione che sia rispettosa della dignità umana e del ruolo rivestito da ogni individuo nella comunità indipendentemente dalla presenza o meno di una disabilità.

Indicazioni utili

Il film può essere utile per un programma di psicoeducazione rivolto a pazienti e familiari.

Porno deepfake: quando è vero che “Non è come sembra”

Stiamo assistendo al progredire di una nuova forma di revenge porn: quella che sfrutta gli algoritmi DeepFake.

 

Deepfake: di che cosa si tratta?

Il DeepFake è una tecnica di fotomontaggio, che sfrutta l’intelligenza artificiale per modificare o ricreare, partendo da contenuti reali, le caratteristiche e i movimenti di una persona in maniera estremamente realistica. Ad esempio, col DeepFake si può sostituire, in un video originale, il volto di qualcuno con quello di un’altra persona (Zhang et al., 2020). Questa tecnologia, inizialmente, era utilizzata come ausilio agli effetti speciali cinematografici (GPDP, 2020) ma, come spesso accade, un ritrovato innovativo può ben presto alimentarne un uso distorto e problematico, come il sexting o il revenge porn.

Il termine sexting è stato ufficializzato nel 2009 e nasce dalla fusione delle parole inglesi sex (sesso) e texting (scrivere messaggi di testo). La comunità scientifica non è ancora pervenuta ad una definizione univoca, tuttavia si può definire come l’invio e la ricezione di contenuti di natura sessuale (come foto e video), tramite internet e telefoni cellulari. Altre definizioni includono l’invio, oltre che di video ed immagini, anche di messaggi di testo (Gassó et al., 2019). Col termine revenge porn s’intende invece la trasmissione di immagini sessualmente esplicite (precedentemente catturate col consenso della persona o da essa stessa inviate) a un pubblico più ampio senza il suo consenso (McKinlay & Lavis, 2020; L. 69/2019). In Italia, il revenge porn è stato dichiarato reato dalle legge n. 69 del 2019, meglio nota come Codice Rosso.

Il Deepfake, infatti, ha finito per avere un enorme impatto anche in ambiti come il sexting e il revenge porn, mettendo a repentaglio la dignità e la riservatezza delle persone (GPDP, 2020).

Che cos’è il porno deepfake?

Una delle possibili applicazioni è il cosiddetto Porno DeepFake, detto anche video deepnude: una scena erotica viene estratta da un film hard e si sostituiscono i volti dei porno attori con quelli di altre persone, per poi diffondere il contenuto in rete (ibidem). Le conseguenze, in questo caso, non sono da trascurare. Infatti, le ripercussioni sociali e psicologiche per le vittime non si discostano troppo da quelle osservate nei casi di vittimizzazione da revenge porn, soprattutto quando il fotomontaggio è particolarmente credibile. Il DeepFake, infatti, ha ormai raggiunto un livello di sofisticatezza tale che è difficile distinguere l’autenticità del video attraverso il rilevamento automatico o manuale (Zhang et al., 2020).

Quali sono le ripercussioni psicologiche?

Samantha Bates nel 2016 ha pubblicato uno studio dove ha analizzato le ripercussioni psicologiche in un campione di donne vittime di revenge porn. Gli esiti riscontrati sono andati dalla perdita di fiducia nelle relazioni fino ad arrivare all’ideazione suicidaria, passando per depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico (PTDS). I risultati di questo studio hanno mostrato notevoli somiglianze con le conseguenze psicologiche della violenza sessuale, intesa proprio come assalto fisico (sexual assault).

Il vademecum del GPDP

Il Garante per la protezione dei dati personali (GPDP), verso la fine del 2020 ha emesso una scheda informativa per allertare sui rischi dell’uso malevolo di questa tecnologia. Nel vademecum in questione, l’Autorità Garante evidenzia come il DeepFake possa configurarsi, innanzi tutto, come una grave forma di furto dell’identità. Le vittime potrebbero, infatti, trovarsi rappresentate in contesti mai frequentati e in comportamenti mai messi in atto, come anche fare discorsi e dichiarazioni che non hanno mai avuto luogo (poiché il DeepFake si può applicare anche ai contenuti audio).

I Porno DeepFake possono essere utilizzati, a totale insaputa dei soggetti rappresentati, anche per alimentare la pornografia illegale e la pedopornografia (GPDO, 2020). A quest’ultimo riguardo, va sottolineato che il codice penale italiano stabilisce che i reati di pornografia minorile e di detenzione di materiale pedopornografico si configurano pure quando le immagini sono “realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali” (art. 600-quater.1 c.p.). Perciò, in Italia, quando il Porno DeepFake coinvolge soggetti minori, rientrerebbe nel reato di pedopornografia minorile e/o detenzione di materiale pedopornografico. Tuttavia, quando le persone coinvolte sono maggiorenni, il codice penale sembrerebbe non prevedere (ancora) specifiche fattispecie di reato.

Nonostante il vuoto normativo che emergerebbe dalla lettura del codice penale, va evidenziato che le Autorità di protezione dei dati personali possono intervenire per sanzionare le violazioni della normativa in materia di protezione dati e che il Garante, nella sua scheda informativa emessa nel dicembre 2020, ha esplicitato una serie di comportamenti da osservare, volti a prevenire e contrastare i casi di vittimizzazione conseguenti alla diffusione di contenuti DeepFake (GPDP, 2020).

Deepfake: come prevenire?

Di seguito, ecco alcuni suggerimenti indicati dall’Autorità Garante all’interno del vademecum (2020):

  • Evitare la diffusione indiscriminata di immagini personali o dei propri cari sui social network.
  • Conoscere e riconoscere gli elementi che possono far presumere di trovarsi in presenza di un DeepFake, ad esempio un’immagine pixellata, un movimento innaturale delle palpebre, un’anomalia nelle luci e ombre del video o la deformazione della bocca del soggetto che parla. A questo proposito, va detto che alcuni DeepFake sono così raffinati che spesso è molto complicato riconoscerli. Perciò, i ricercatori hanno messo a punto algoritmi altrettanto sofisticati, allo scopo di individuare i contenuti non reali e arginarne l’utilizzo malevolo, così come le grandi imprese del digitale stanno formando team specializzati nel monitoraggio e nel contrasto del fenomeno (GPDP, 2020).
  • Segnalare il presunto DeepFake alla piattaforma che lo ospita ed evitare di condividerlo.
  • Se si ritiene che il DeepFake sia stato utilizzato in modo tale da configurare un reato o una violazione della privacy, rivolgersi alle autorità (come la Polizia postale o lo stesso Garante per la protezione dei dati personali).

In conclusione, l’utilizzo distorto di certi tipi di tecnologia che sfruttano l’intelligenza artificiale rappresenta un serio rischio nell’ambito della cyber victimization, come dimostrano i fenomeni del revenge porn, del cyberbullismo e del sextortion (la parola sextortion è la fusione delle parole inglesi sexual – sessuale – e extortion – estorsione,  con essa si intende la minaccia di distribuire materiale intimo e sessuale a meno che la vittima non rispetti determinate richieste, O’Malley & Holt, 2020). Tale rischio si estende anche all’ambito del cyber crime, come dimostrano i fenomeni dello spoofing (il furto di informazioni che avviene attraverso la falsificazione di identità di persone o dispositivo, in modo da ottenere la trasmissione di dati, GDPD, 2020), del phishing (tecnica comunemente utilizzata per ottenere informazioni riservate tramite azioni di furto dell’identità, Rendall et al., 2020) e altri fenomeni ancora. Non va poi tralasciato il problema delle fake news (cioè le notizie false) e dell’impatto sulla libertà decisionale dell’individuo (ibidem). La buona notizia è che i ricercatori, i social network, i motori di ricerca e altre figure come, in Italia, il Garante per la protezione dei dati personali, si sono già attivati allo scopo di contenere il fenomeno e ridurne l’incidenza.

Oltre la personalità. Dialettica sistemica e sviluppo borderline – Recensione del libro

Questo testo dedicato al disturbo borderline di personalità parte dalle criticità del trattamento spesso connesse alla complessità di tale disturbo. Il disturbo borderline viene così affrontato dall’autore in modo approfondito e grazie anche a numerose evidenze empiriche.

 

Lo sviluppo della personalità è strettamente dipendente da azioni che consentono l’apprendimento di capacità e la conseguente messa in atto di esse, sia nella sfera della vita privata sia in quella della vita sociale. Parlare di personalità significa infatti parlare del tempo e del modo in cui l’interazione tra i fattori individuali e ambientali governa i processi evolutivi, tenendo ovviamente conto delle variabili individuali.

Considerando che ciascuno è portatore di un proprio punto di vista e che, di conseguenza, nessuno è portatore della “verità” assoluta, Il processo di costruzione della verità è dunque continuo e non arriva mai a una stabilità “oggettiva”. È quindi fondamentale che terapeuta e paziente si chiedano costantemente che cosa sia stato lasciato al di fuori della loro rappresentazione della realtà. La certezza che qualcosa è stato ignorato impedisce di cadere in una percezione falsamente oggettiva, ossia in un autoinganno. Il disturbo Borderline consisterebbe quindi in fallimenti dialettici sistematici.

La Dialectical Behavior Therapy (DBT) ritiene che la personalità borderline sia appunto il risultato di un fallimento dialettico, presupposto coerente con la psicopatologia dello sviluppo, la teoria dei sistemi evolutivi e i recenti risultati della ricerca empirica. Questi ultimi riguardano soprattutto la natura della vulnerabilità emozionale, della vulnerabilità interpersonale, e mostrano come la divisione tra biologia e ambiente possa essere unificata da una prospettiva sistemica. La dialettica andrebbe quindi ad appianare i contrasti tra i vari fattori psicologici, ambientali e sociali intrinsecamente connessi tra loro.

Questo diviene il presupposto per migliorare l’adattamento della persona. Il mondo alienato è invece quello in cui il soggetto, a partire dalle sue relazioni umane, non trova altro fondamento costitutivo se non in sé stesso, rispetto a una realtà esterna cui è estraneo e, peggio ancora, che lo estrania. L’alienazione può esprimersi a vari livelli, a partire dal soggetto rispetto alla famiglia, alle relazioni affettive, alle persone vicine, alla società in generale e all’ambiente naturale. Anche quando la persona fa parte di un gruppo, resta in qualche modo condannata a rimanere isolata, perché è nella sua più intima natura, ontologica, che sa di essere sola, esclusa ed isolata.

Secondo una prospettiva riguardante le parti e la totalità, nonché la relazione di esse, ciò che costituisce le parti è definito dall’insieme considerato. Inoltre, le parti acquisiscono proprietà in virtù dell’essere appartenere a un particolare intero, proprietà che non hanno senso prese separatamente o come parti di un’altra totalità. La totalità non è propriamente più della somma delle sue parti; sono le parti che acquisiscono nuove proprietà. Quando le parti acquisiscono proprietà stando insieme, generano nuove proprietà nella totalità e queste si riflettono a loro volta nei cambiamenti nelle parti, e così via. Parti e totalità evolvono in conseguenza della loro relazione e la relazione stessa evolve. Una cosa non può esistere senza l’altra: una acquisisce le sue proprietà grazie alla sua relazione con l’altra e le proprietà di entrambe evolvono come conseguenza della loro compenetrazione. Parte e totalità hanno quindi una relazione speciale tra loro, in quanto una non può esistere senza l’altra, non più di quanto “su” possa esistere senza “giù”.

Un’ampia parte del testo inoltre viene dedicata a dati scientifici che spiegano le differenze del campione di persone con disturbo borderline e le significative differenze di genere. Secondo gli studi, come spiega l’autore, si potrebbe propendere per l’ipotesi di un disturbo caratterizzato da “una deflessione del sistema di appraisal”. Viene messa in luce l’elevata emozionalità negativa a riposo delle persone con disturbo borderline facendo indirettamente riflettere sulla diagnosi differenziale. Vengono inoltre spiegate le aree cerebrali maggiormente implicate in tale patologia, a partire dall’amigdala e dall’ippocampo.

Si tratta di un’approfondita analisi che può aiutare i terapeuti che si occupano di disturbo borderline di personalità a una migliore comprensione di tale funzionamento, pur considerando la variabilità del disturbo e la comorbilità con altri disturbi della personalità stessa. In sintesi: l’obiettivo è di porre la personalità borderline al centro della complessità delle variabili che la determinano, togliendo la singola persona dalla solitudine in cui la pone una semplice definizione diagnostica.

 

L’autocontrollo: non una mera questione di inibizione di impulsi

L’autocontrollo di tratto presuppone la presenza di un “sé attivo”, che sia in grado di dare priorità agli obiettivi a lungo termine, rispetto a quelli a breve termine, nonostante questi ultimi forniscano una gratificazione immediata.

 

L’autocontrollo viene generalmente definito come la capacità di inibire comportamenti indesiderati, in virtù del perseguimento di obiettivi a lungo termine (Metcalfe & Mischel, 1999). A livello disposizionale, l’autocontrollo di tratto presuppone la presenza di un “sé attivo”, che sia in grado di dare priorità agli obiettivi a lungo termine, rispetto a quelli a breve termine, nonostante questi ultimi forniscano una gratificazione immediata (Baumeister et al.,1998). Essere in grado di rinunciare al piacere istantaneo, in favore di obiettivi più gratificanti, è considerata una tendenza cruciale nell’evoluzione umana (Tangney, Baumeister, & Boone, 2004).

Molti studi hanno dimostrato che la presenza di un basso autocontrollo di tratto determina una vasta gamma di problemi individuali e sociali, compresa l’obesità (Tsukayama et al., 2010), la procrastinazione (Steel, 2007), l’abuso di sostanze (Baumeister & Heatherton, 1996) e il comportamento delinquenziale (Gottfredson & Hirschi, 1990). D’altro canto, coloro i quali possiedono alti livelli di autocontrollo riscontrano molteplici benefici, tra cui migliori prestazioni nei diversi ambiti di vita (De Ridder et al., 2012), un maggior benessere e livelli più elevati di soddisfazione personale (Hofmann et al., 2013).

Dunque, mentre i vantaggi derivanti dall’astenersi da comportamenti indesiderati (ma spesso piacevoli) sono abbastanza ovvi quando in gioco vi sono obiettivi a lungo termine, è più difficile comprendere come la mera inibizione degli impulsi possa di per sé favorire il benessere.

Attraverso una revisione sistematica, alcuni autori si sono proposti di scardinare “l’ipotesi puritana” che associa l’autocontrollo unicamente all’inibizione degli impulsi, chiarendo come il conseguimento degli obiettivi a lungo termine – e dunque il raggiungimento del benessere – non dipenda unicamente da comportamenti inibitori.

È bene sottolineare come chi possiede alti livelli di autocontrollo di tratto, altro non ha che la capacità di affrontare un dilemma, ovvero una scelta tra una ricompensa immediata ed una ritardata del tempo. La gestione di tale dilemma, però, può comportare differenti opzioni, tra cui l’inibizione di un comportamento indesiderato (come mangiare cibi grassi), l’avvio di un comportamento desiderato (come mangiare alimenti sani) o, ancora, una combinazione di entrambi.

Inquadrare l’autocontrollo come la capacità di affrontare un dilemma offre l’opportunità di enfatizzare sia la classica componente inibitoria, sia la sua componente inizializzante. Sono le stesse evidenze sull’autocontrollo di tratto (Hoyle & Davisson, 2016), che soventemente vengono dimenticate, ad aver dimostrato come esso presupponga sia componenti inibitori che di iniziazione. Difatti, quando si persegue un obiettivo a lungo termine come l’essere snelli e sani, spesso non è sufficiente astenersi semplicemente dai comportamenti indesiderati, ma è altrettanto importante che il comportamento desiderato venga messo in atto. Analogamente, non sgridare i propri figli non implica di per sé essere dei genitori amorevoli.

La distinzione tra iniziazione e inibizione costituisce quindi l’aspetto centrale dell’autocontrollo. Nel caso del benessere, la componente iniziatica dell’autocontrollo può rivelarsi ancora più importante perché è stato dimostrato che lottare per risultati positivi aumenti il benessere (Brunstein, 1993) ma la semplice inibizione può compromettere negativamente quest’ultimo (DeNeve & Cooper, 1998).

Dunque, per poter comprendere come l’autocontrollo sia legato al benessere, sarebbe meglio considerare anche la componente iniziatica dell’autocontrollo stesso.

Dalla definizione dell’autocontrollo di tratto come capacità di rinunciare agli impulsi immediati, concentrandosi su obiettivi a lungo termine, si potrebbe ipotizzare che la vita delle persone con un alto livello di autocontrollo non sia molto divertente. A sostegno di questa ipotesi, alcune ricerche hanno dimostrato che gli individui con un alto livello di autocontrollo possono sperimentare una minor spontaneità ed estroversione (Zabelina, Robinson & Anicha, 2007) e una intensità emotiva giornaliera limitata (Layton & Muraven, 2014).

Tuttavia, altri studi hanno messo in luce il reale meccanismo sottostante l’associazione tra autocontrollo e benessere. Le ricerche di Hofmann e colleghi (2013) hanno mostrato come le persone con un elevato autocontrollo non si preoccupino troppo di resistere alle tentazioni che potrebbero far tentennare i loro obiettivi a lungo termine e trovino persino piacere nell’essere disciplinati.

Difatti, questi individui sono meno soggetti a cadere in tentazione nel loro ambiente quotidiano, in quanto strutturano strategicamente la loro vita allontanandosi dai vizi stessi e, dunque, non inibiscono i comportamenti nella stessa misura in cui lo fanno coloro i quali presentano un basso autocontrollo (Hofmann et al., 2012).

In linea con quanto appena detto, lo studio di Cheung e colleghi (2014) ha mostrato come gli individui con un elevato autocontrollo di tratto sono più orientati a trovare strategie per raggiungere i loro obiettivi, piuttosto che essere preoccupati di evitare opportunità che potrebbero impedire il raggiungimento dei suddetti. Questi risultati danno sostegno all’idea che l’associazione tra autocontrollo e benessere comporti per lo più l’avvio di comportamenti desiderati, piuttosto che la mera rinuncia dei piaceri momentanei.

Se, dunque, le persone con un alto livello di autocontrollo sono più felici perché si impegnano di più in attività dirette all’obiettivo, la domanda successiva è: come riescono a farlo in un mondo pieno di tentazioni che entrano in conflitto con gli obiettivi a lungo termine?

A ciò va aggiunto che le persone raramente sperimentano il lusso di essere impegnate in un solo obiettivo alla volta e spesso hanno obiettivi multipli che possono entrare in conflitto.

Esiste un ampio corpus della letteratura che dimostra che l’utillizzo di routine aiuti le persone a mettere in atto comportamenti desiderati senza alcun tipo di sforzo. Difatti le abitudini, basandosi sull’automaticità piuttosto che sulla deliberazione, determinano un minor affaticamento e consentono ai soggetti di impiegare le proprie energie sulla messa in atto dei comportamenti adattivi.

Sembra, dunque, che la differenza cruciale tra le persone con alto e basso autocontrollo non risieda in una capacità innata di inibire gli impulsi ma, piuttosto, in alte routine adattive e basse routine disadattive (Mann et al., 2013).

Sulla base di quanto appena esposto, è possibile affermare che l’essere in grado di impegnarsi nel perseguimento di un obiettivo è facilitato dalla messa in atto di abitudini: piuttosto che essere impegnati a sopprimere gli impulsi indesiderati, che prosciugherebbero le risorse di autocontrollo portando al fallimento dell’autocontrollo stesso, un alto autocontrollo è una questione di routine adattive, che a sua volta lascia più spazio al perseguimento di obiettivi e al raggiungimento del benessere.

 

Ritratti di coppia con terapeuta. La terapia Breve Strategica con le coppie (2021) di Massimo Bartoletti e Marco Pagliai – Recensione del libro

Ritratti di coppia con terapeuta affronta ed illustra il complesso e articolato processo della terapia di coppia, designandone gli aspetti centrali del processo terapeutico, per entrare poi nel vivo di quattro storie di coppie in terapia

 

Ritratti di coppia con terapeuta, un testo scritto a quattro mani da Massimo Bartoletti e Marco Pagliai che affronta ed illustra il complesso ed articolato processo della terapia di coppia, designandone nella prima parte del testo, gli aspetti centrali del processo terapeutico per gli addetti ai lavori, per entrare poi, nella seconda parte del testo, nel vivo di quattro storie di coppie in terapia e dove gli autori ci sveleranno relative tecniche e strategie terapeutiche, per condividere con il lettore “i trucchi del mestiere”.

Parlare di terapia di coppia

Significa entrare nelle storie delle persone ed aiutarle a riprendere in mano quel copione che ad un certo punto non riesce più ad appassionare uno o entrambi gli attori coinvolti e che spesso, stancamente, continuano a recitare solo per onorare il contratto.

Così viene riportato dagli autori nell’introduzione del testo, che accompagnano poi il lettore tra le varie pagine che spiegano ed approfondiscono in modo chiaro e scorrevole, gli aspetti centrali di un intervento terapeutico, sottolineando la differenza che intercorre tra il lavoro sulla coppia, con uno solo dei partner o con la coppia dove entrambi i protagonisti della relazione si trovano attivamente coinvolti.

Nel lavoro con le coppie diventa importante per il professionista, riuscire ad individuare il senso dello stare insieme, il motivo della richiesta di aiuto e fare luce e chiarezza sull’obiettivo della coppia che si presenta per la prima volta in studio. Diventa importante saper padroneggiare l’arte del dialogo, curare tanto la relazione terapeutica quanto gli aspetti della comunicazione verbale e non verbale, riuscire ad individuare l’unicità di quei due mondi che si sono intrecciati, tutti aspetti che gli autori approfondiscono e spiegano in modo accessibile anche ai non addetti ai lavori.

Nell’ultima parte del testo verranno illustrati quattro ritratti di autore con terapeuta, quattro casi distinti tra loro per composizione della coppia, dinamiche relazionali e conflittuali e richiesta di aiuto.

Leggeremo di Carla e Paolo, caso intitolato dagli autori La solitudine in coppia, Giovanna e Fausto, Una seconda vita, Anna e Mauro, I due duellanti ed infine il caso di Paola e Chiara, dal titolo L’altro genitore.

Ognuno di questi viene descritto nelle vari fasi dell’intervento terapeutico, fornendo anche una precisa descrizione delle strategie terapeutiche che verranno di volta in volta scelte e prescritte secondo le criticità da affrontare.

Un testo che consente un contributo arricchente per gli addetti ai lavori ed una possibilità di riconoscere, anche in parte, sfumature più o meno incisive di ognuno di noi, del nostro modo di vivere la coppia e dello stare insieme, ricordando sempre che anche il singolo può essere promotore di cambiamento per la coppia, ma poiché cambiare non è sinonimo di cambiare sempre in meglio, diventa utile anche capire e saper riconoscere quando chiedere aiuto.

 

 

Le preferenze musicali rivelano la nostra personalità – Psicologia e Musica

E’ probabile che la scelta di un certo tipo di musica dipenda anche dal messaggio che si vuole inviare agli altri, dal modo in cui si vuole essere visti.

 

Sappiamo che la musica ci circonda, che ci coinvolge e ci emoziona. Ma se è indubbio questo suo valore universale, va considerato che la musica viene anche vissuta da ciascuno di noi in modo assolutamente personale. Questo perché, ad influenzare il nostro rapporto con essa, entrano in gioco fattori individuali: i gusti personali.

Perché alcune musiche ci piacciono mentre altre le troviamo insopportabili? Perché piacciono ad altri e non a noi? Oppure viceversa? Cosa determina i nostri gusti?

La valutazione passa dalle nostre esperienze

Come ci spiega il libro Psicologia della musica, nell’ascoltare un brano il nostro cervello effettua immediatamente una valutazione del brano stesso esaminando le informazioni che gli arrivano e che assumono significati diversi a seconda di chi siamo, delle esperienze che abbiamo fatto, del livello di conoscenza musicale che abbiamo e via dicendo.

Oltre ad ascoltare il ritmo, la melodia, gli strumenti impiegati nell’esecuzione e la voce del cantante, entrano in gioco fattori che dipendono dalla nostra identità personale. Questa consiste nella rappresentazione che abbiamo di noi nel mondo e si manifesta attraverso la nostra personalità. Essa racconta la storia della nostra vita, il percorso che abbiamo fatto, le persone che abbiamo avuto vicino, le situazioni che abbiamo vissuto e ci porta ad avere un certo modo di pensare che, a sua volta, condiziona le nostre scelte a tutti i livelli, anche sul piano musicale.

Ognuno di noi ha una personalità e delle reazioni fisiologiche che lo portano ad apprezzare un certo tipo di musica e a non gradirne un altro. Non esistono generi musicali migliori o peggiori in assoluto, esistono solo personalità diverse con diverse preferenze, influenzate anche dal contesto sociale in cui si trovano e da altri elementi quali per esempio le esperienze fatte da bambini, che possono indirizzare un certo tipo di musica e un certo tipo di ricerca emotiva.

Normalmente, quando si sente una canzone, bastano pochi secondi per classificarla con un mi piace o non mi piace ma di rado questo giudizio si basa su valutazioni artistiche o tecniche: dipende piuttosto dall’istinto, dalla nostra personalità e identità.

Le nostre scelte musicali parlano di noi

Come abbiamo visto, è certo che le scelte personali subiscono anche l’influenza dell’ambiente circostante, dei contesti sociali in cui si vive, oltre che delle predisposizioni individuali, proprie di ciascun individuo.

Le musiche che scegliamo diventano in un certo senso un biglietto da visita che comunica agli altri qualcosa di noi. Per contro, identificarci in un genere ci fa sentire parte di un mondo che condivide quelle idee e quei valori dandoci modo di confermare la nostra identità personale.

Se ad un certo tipo di musica, e di conseguenza a chi la ascolta, vengono associate determinate caratteristiche, è probabile che la scelta di un certo tipo di musica dipenda anche dal messaggio che si vuole inviare agli altri, dal modo in cui si vuole essere visti.

La musica riveste anche la funzione di regolare le emozioni nella vita di tutti i giorni, personalità e intelligenza possono pertanto determinare il tipo di utilizzo, il modo in cui viene scelta e le aspettative collegate all’ascolto. Da una persona considerata intellettuale e riflessiva ci si aspetta che utilizzi la musica in modo razionale invece che emotivo utilizzando livelli più alti di elaborazione cognitiva. Possiamo facilmente pensare che sarà orientata verso musica classica o jazz dalle quali ci si aspettano stimolazioni intellettuali più complesse.

Sempre studiando le influenze caratteriali, si è scoperto come per gli estroversi la musica serva per esempio ad alzare il livello di eccitazione quando si trovano impegnati in compiti noiosi e ripetitivi (dallo studio alle faccende domestiche, allo sport), mentre negli introversi finisce per rappresentare spesso un’interferenza con altri processi cognitivi in atto.

Lo studio degli aspetti psicologici collegati all’ascolto della musica si è sviluppato soprattutto nell’ultimo decennio. Musicologia, psicologia e neuroscienze si sono recentemente interessate ai meccanismi che vengono coinvolti nello sviluppo delle preferenze musicali. Sono stati individuati parametri interni alla musica, quali tempo, modalità o complessità, e parametri esterni, come età, genere, personalità o educazione dell’ascoltatore, oltre a diversi tipi di musica che svolgono funzioni differenti, come abbiamo visto all’inizio del capitolo precedente.

Preferenze musicali e personalità

Il rapporto tra musica e personalità è stato studiato in una ricerca condotta dall’Università di Cambridge per spiegare come i fattori caratteriali e psicologici siano in grado di influenzare le nostre scelte musicali. Il primo dato interessante che è emerso è che le persone ascoltano un certo tipo di musica perché ne sono consapevolmente attratte, perché in quel modo desiderano comunicare un certo tipo di informazioni su loro stesse.

Allo stesso modo, la musica che ascoltano gli altri diventa un elemento che utilizziamo per formulare un giudizio su di loro in base a degli stereotipi che ci siamo creati sulle caratteristiche associabili ad ogni genere di musica.

Le scelte musicali di ciascuno di noi forniscono preziosi elementi sui nostri gusti al punto che alcune piattaforme come Spotify le utilizzano anche per proporci suggerimenti di acquisto delle tipologie più disparate che, in base appunto alle nostre scelte, dovrebbero avvicinarsi a quelli che sono i nostri gusti in campo alimentare, di viaggi, di letture e molto altro.

Gli stili di pensiero delle persone sono stati divisi dai ricercatori di Cambridge in tre categorie:

  • gli empatisti: coloro che nutrono un forte interesse per i pensieri e le emozioni delle persone;
  • i sistemisti: che hanno un forte interesse per i modelli, i sistemi e le regole che governano il mondo;
  • gli equilibrati: che occupano una via di mezzo tra le due posizioni precedenti.

Addirittura il 95% delle persone rientrerebbe in una di queste categorie che potrebbero essere utilizzate non solo per prevedere quali saranno i loro i gusti musicali ma anche per indirizzare scelte quali il tipo di studi da intraprendere.

È stata fatta una ricerca su un campione di oltre 4.000 partecipanti ai quali è stato chiesto di ascoltare un massimo di 50 estratti musicali di generi diversi e di esprimere le loro preferenze. Da qui si è scoperto che gli empatisti mostravano una preferenza per i generi più dolci, malinconici e con un’emotività profonda (soft rock e cantautori); i sistemisti preferivano la musica più intensa e complessa, con profondità intellettuale (hard rock, punk e heavy metal); gli equilibrati tendevano a preferire quella musica che si estende su più di una gamma.

Gli stessi studiosi, in una successiva ricerca, hanno selezionato 7.000 partecipanti suddividendoli in cinque gruppi basati sui seguenti tratti della personalità (Imm. 1):

  • apertura mentale: creativi, hanno una mente aperta, sono predisposti a sperimentare novità;
  • coscienziosità: amano ordine e routine, sono affidabili e orientati al raggiungimento di un risultato;
  • estroversione: loquaci e socievoli, attingono la loro energia dallo stare con gli altri;
  • empatia: affettuosi e degni di fiducia, sono modesti e tendono ad evitare i conflitti;
  • stabilità emotiva: sicuri di sé, non sono facili prede di rabbia e ansia.

Musica e personalita cosa influenza scelte e gusti musicali Psicologia Imm 1

Imm. 1: Tratti della personalità

È risultato che persone con forte preferenza per musica classica e jazz tendono ad avere tratti della personalità associati con apertura, creatività, fantasia e capacità verbale. Chi ascolta musica popolare è più socievole e loquace, ma tende ad avere idee convenzionali e ad essere intollerante. Nella musica pop rock, soul e R&B si identificano prevalentemente i romantici e chi è in cerca di relax. Punk, rock, heavy metal e tutta la musica intensa, sempre secondo i ricercatori, è ascoltata e amata da chi vuole caricarsi per sfidare un ambiente circostante ritenuto ostile.

Rivelando i tratti della personalità, i gusti musicali sono anche in grado di predire le capacità musicali di ciascuno.

L’apertura mentale è la caratteristica che più identifica una predisposizione musicale e caratterizza persone con una vasta gamma di interessi e aperte alla sperimentazione. Al contrario, chi è caratterialmente più chiuso tenderebbe a preferire la routine e valori più convenzionali.

Da notare anche che gli estroversi, che risultano essere più loquaci, dimostrano spesso anche una maggiore capacità canora.

Scopri i tuoi tratti musicali

Attraverso il progetto chiamato Musical Universe, David Greenberg, psicologo dell’Università di Cambridge, si pone come obiettivo quello di migliorare l’impatto della musica sulle persone e sulla società. Per fare questo utilizza i big data in risposta a domande chiave su musica, scienza e psicologia. I big data consistono in una raccolta di dati estesi in termini di volume, velocità e varietà resa possibile da tecnologie e metodi analitici complessi. Da queste informazioni fornisce alle persone di tutto il mondo rapporti scientifici sui loro tratti musicali interiori con raccomandazioni ed esercizi che si adattano al loro profilo personale.

Da qui nasce iI modello MUSIC (Imm. 2). Le preferenze della gente per un genere specifico possono essere replicate all’interno dei generi e organizzate nelle dimensioni MUSIC (sigla che deriva dalle iniziali dei generi) che si compone così:

  • mellow, musica melodiosa: pop, soul ecc.;
  • unpretetious, senza pretese: popolare e tradizionale;
  • sophisticated, sofisticata: jazz e classica;
  • intense, intensa: rock, metal, punk, rap;
  • contemporary, contemporanea.

Musica e personalita cosa influenza scelte e gusti musicali Psicologia Imm 2

Imm. 2: Modello MUSIC

Per esempio, le preferenze per la musica rock possono essere suddivise in preferenze per il Mellow rock, Unpretentious rock, Sophisticated rock, Intense rock e Contemporary rock. Ne deriva per esempio che preferenze per Intense, caratterizzato da picchi musicali, si riscontrano in modo particolare nell’adolescenza e coincidono con fasi ribelli e formazione dell’identità.

Un test per scoprire la nostra personalità

Per scoprire il proprio punteggio su abilità musicali, preferenze e personalità, è stato studiato un apposito test a disposizione di tutti che fornisce due valutazione sulla base di 25 domande a cui si è invitati a rispondere. Le prime 10 si riferiscono ai tratti della personalità e presentano delle coppie di aggettivi. Utilizzando una scala di valutazione proposta, si dovrà indicare quanto questi corrispondano alla propria personalità.

Le successive 25 consistono in esperienze musicali. Viene proposto l’ascolto di altrettanti brani musicali per i quali dovrà essere indicato il livello di gradimento. Si tratta di brani con i quali non si dovrebbe avere familiarità, selezionati da esperti dell’industria musicale per rappresentare caratteristiche specifiche dei diversi tipi di musica

Il punteggio ottenuto si basa sulla comparazione di dati raccolti su 250.000 persone di 100 diverse nazioni e, per chi vorrà cimentarsi nell’esperimento, alla fine sarà data la possibilità di decidere se mettere a disposizione della ricerca le informazioni fornite e contribuire così in prima persona alla raccolta dei dati.

Essere un talento in azienda? Si, se ti trovi nel posto giusto al momento giusto

Ci riferiamo ad un talento quando parliamo di una persona che, messa nelle giuste condizioni, in una data azienda e in un dato momento storico, ha una performance superiore alla media, rispetto al business nel quale è coinvolto, e ha una buona espressione dei comportamenti ritenuti chiave dall’azienda nella quale si trova, in un dato momento.

Silvia Mancuso – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

La psicologia del lavoro fa risalire la gestione aziendale dei talenti al 1998, quando il termine talento viene coniato da David Watkins di Softscape e pubblicato in un suo articolo. Potete quindi immaginare quanto sia breve la sua storia, la quale inizia a prendere piede nei contesti organizzativi solo negli anni ’90.

La gestione del talento è un processo che cominciò ad essere adottato dal momento che molte organizzazioni si resero conto che i loro migliori lavoratori, con le loro abilità, potevano portare successo al loro business aumentandone i profitti. Prima di allora era possibile accedere ad una crescita aziendale soprattutto grazie agli anni di esperienza ma raramente vi era un diverso sistema di valutazione del potenziale. Si pensava poi che la leva, che più di tutti riusciva ad ingaggiare il personale, fosse la garanzia di una crescita economica e di livello contrattuale. Questo sprint era però a termine e non garantiva un coinvolgimento futuribile.

In questa prospettiva si decideva di puntare su un singolo dipendente, pagando la demotivazione dei più che si ritrovavano a dover accettare che il loro sistema non li considerasse profili di potenziale. Nell’ultimo periodo le aziende hanno smesso di guardare agli anni di esperienza e decidono di puntare su profili con attitudini particolari. La modalità è economica: aspettando che questi emergano dal contesto, rispetto ad altri dipendenti, scegliendo di investire su coloro che faranno la differenza e che potrebbero portare valore al business.

Il talento

Quando si parla di talento si intende una predisposizione innata che si può manifestare in una o più aree della vita di una persona, presente in ognuno di noi. È possibile vedere una persona talentuosa eseguire un compito ottenendo risultati migliori, se confrontanti con quelli di altri con le stesse possibilità e che si trovano in una medesima situazione.

I talenti capaci di alte prestazioni possono dimostrare abilità intellettuali, oppure attitudini creative e/o accademiche, leadership oppure spirito di squadra: qualsivoglia compito o gestione di una situazione che permette loro di avere eccellenti risultati rispetto quelli di altri, nelle medesime condizioni.

Affinché si ottengano risultati elevati, non è necessario avere un talento. A volte si tratta di una predisposizione verso una certa attività, o verso dinamiche interpersonali. Una capacità naturalmente posseduta, ancora più profonda di una attitudine.

Molte persone ne possiedono uno, o più di uno, ma non hanno mai avuto modo di realizzarlo poiché sono il contesto e gli aspetti motivazionali che ne permettono la realizzazione.

Tale caratteristica talentuosa può essere presente in ognuno di noi e può essere scoperta solo in un dato contesto e momento storico.

Il talento in azienda

Un’azienda che prende consapevolezza di quanto detto potrà percepire tutti i lavoratori come una risorsa centrale per il proprio business. In questi casi si ha a che fare con una sofisticata cultura aziendale che punta sull’evoluzione della vita organizzativa e sul rapporto tra motivazione e contesto.

Per poter riconoscere un talento è necessario avere consapevolezza della sua esistenza e creare degli strumenti basati sulla valutazione e sviluppo del personale. In tale scenario è possibile dare spazio ad ogni dipendente usando un approccio basato su un tipo di relazione che metta al centro le loro emozioni, pensieri e comportamenti portando alla luce il prodotto di credenze funzionali e disfunzionali che creano per lui motivazione e sofferenza nel tempo, a causa di aspettative disattese. Il dipendente deve quindi sentire di avere la possibilità, e l’opportunità, di portare fuori queste idee e queste emozioni affinché possano prendere un corretto senso, ottenere una spiegazione semplice che spesso coincide con il recupero del senso comune basato su una visione e su valori aziendali condivisi e reali (non solo dichiarati).

Secondo la teoria cognitivo-comportamentale è possibile notare delle distorsioni cognitive e delle rappresentazioni soggettive della realtà che generano malessere nell’individuo: non sono gli eventi a creare e mantenere sofferenza quanto l’influenza della struttura e della costruzione cognitiva dell’individuo (assunto di base di Epitteto).

Per ottenere dal singolo, o dal gruppo, il massimo livello delle proprie capacità prestazionali, è necessario operare in un contesto con una comunicazione orientata verso il senso di appartenenza e un allineamento tra i manager che operano un comportamento basato sui valori aziendali dichiarati. Sentirsi responsabili della creazione di un contesto e di un clima positivo è il primo presupposto per mettere i talenti nelle condizioni di lavorare bene e di potersi esprimere.

Il compito del leader è di motivare le persone a compiere sforzi extra, non contenere la loro creatività (Buratti, 2000). La fiducia da parte del proprio responsabile è determinante perché una persona ispirata possa avere successo. Ciò che serve maggiormente all’impresa innovatrice è la capacità di risolvere i problemi, caratteristiche che la tenacia e l’entusiasmo del leader possono contribuire a sviluppare.

Un responsabile che vede in un profilo di potenziale una minaccia, che non stima i propri collaboratori e le loro doti, che non dimostra di avere i valori aziendali non darà modo al sistema di riconoscere le proprie risorse. Lo stesso vale per un sistema che decide di investire solo su un determinato tipo di profilazione basato su un range di età, sesso e provenienza geografica.

Allo stesso modo penso delle tecniche di recruitment marketing, talent acquisition ed employer branding: è necessario che l’immagine che si decide di comunicare corrisponda ad una cultura reale.

Come riconoscere un talento

L’ufficio recruitment, come l’intero dipartimento risorse umane, in passato erano visti come l’area meno attendibile e prevedibile in termini di performance, soprattutto dagli uffici tecnici che avevano quantità di dati facilmente sottoponibili ad analisi. Negli ultimi anni l’uso di strumenti di valutazione standardizzati, all’interno del dipartimento HR, ha permesso di aumentare l’attendibilità ricercata, riuscendo a notare comportamenti predittivi circa l’ingaggio e il futuro percorso aziendale dei candidati e dei dipendenti. All’interno di un’organizzazione i metodi di ricerca e selezione di un talento rimangono spesso quelli classici ovvero, semplificando il processo: definizione delle caratteristiche ricercate, apertura di un processo di selezione e valutazione per ricercarne le caratteristiche ideali, un tipo di processo orientato verso l’esterno.

La prospettiva che vede il talento quasi fosse una star aziendale è un approccio obsoleto che genera un sistema di riconoscimento che sviluppa una cultura aziendale individualista e competitiva. Responsabilizza la selezione del personale perché si focalizza sulla ricerca spasmodica verso l’esterno sminuendo l’attenzione verso i dipendenti provocando un calo della motivazione e aumentando il tournover. In questo tipo di dinamica la formazione e lo sviluppo sono riservati solo a pochi mentre il prescelto è caricato della responsabilità di dover garantire sempre performance ad alto livello.

Tale visione statica delle capacità individuali non considera o promuove l’apprendimento e l’ottimizzazione delle competenze, ponendo un’eccessiva enfasi sulle persone senza considerare il sistema nel quale si vive.

L’approccio che preferisco considerare vede come talenti tutti i dipendenti e i futuri dipendenti di un’azienda. Questa visione presuppone una gestione del talento già presente in azienda, non una ricerca rivolta verso l’esterno. Questa visione si oppone alle teorie d’élite che valorizzano solo un gruppo di prescelti verso cui l’azienda decide di investire tramite formazione e percorsi di sviluppo.

In questo scenario i percorsi di sviluppo e di formazione dovrebbero essere garantiti a tutti i dipendenti tramite una strategia che li valorizzi, attenzionando la loro creatività (Vicari, S., Troilo, G.,1999) e offrendo all’azienda la certezza di avere dei lavoratori consapevoli delle loro competenze, delle loro doti e delle loro aree di miglioramento.

Nella guerra ai talenti è necessario considerare anche tali aspetti se si ha l’intenzione di non perderli in fase di reclutamento a causa di una cattiva reputation.

La gestione del talento

Riuscire a reperire profili di potenziale è sempre più difficile, ma lo è ancora di più trattenerli. Molte aziende stanno rispondendo a questa esigenza valorizzando il posto di lavoro, inserendo componenti attrattive, spesso dando più importanza all’apparenza rispetto che alla sostanza. Intendo dire che sicuramente un dipendente sarà attratto dal campo da basket, dalla mensa gratuita e dalla possibilità di fare smart working ma questo non basta se il contesto nel quale questi aspetti sono inseriti non permettono di essere messi nelle condizioni di poter lavorare a proprio agio.

Una volta trovato il profilo di potenziale bisogna quindi trattenerlo immaginando una quotidianità gestita da un sistema che vede nel reparto risorse umane un ente volto alla creazione di una collaborazione continua fra reparti. La collaborazione tra le parti contribuisce ad aumentare l’attendibilità delle competenze individuate in fase di selezione o in fase di valutazione del potenziale.

Per potersi esprimere nel migliore dei modi è necessario trovarsi in un contesto facilitante. Per tale motivo la collaborazione fra reparti diventa sempre più cruciale affinché si possa considerare la relazione professionale anche un modo per creare dei progetti non solo di business ma anche di crescita personale e professionale. Consapevole che non è ipotizzabile creare dei percorsi di sviluppo personalizzati perché non sarebbe efficiente in termini di costi, nasce comunque la necessità di realizzare programmi di gestione e di sviluppo differenziati e innovativi, al fine di motivare i lavoratori e trattenerli nell’organizzazione.

Stimolare la creatività in azienda

Se consideriamo la terapia cognitivo-comportamentale, le emozioni e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla loro percezione degli eventi. Non è la situazione in sé a determinare ciò che le persone provano, ma è piuttosto il modo in cui la interpretano.

Nella gestione del personale diventa cruciale capire qual è il modo distorto di pensare che influenza negativamente l’umore e il comportamento del singolo nel gruppo.

Mettendo in luce una valutazione realistica delle situazioni e il cambiamento che ogni persona vive nel suo percorso di vita sarà possibile ottenere un miglioramento dell’umore e del comportamento. Per ottenere un risultato a lungo termine è necessario modificare le credenze disfunzionali sottostanti attraverso l’addestramento a questo modo di pensare di tutto il personale aziendale.

La gestione del personale da parte dell’impresa dovrebbe quindi privilegiare la considerazione delle variabili umane osservando i dipendenti in relazione alla loro caratteristica primaria dell’essere persone e, quindi, come uomini e donne, dotati di intelligenze, sentimenti e caratteri, prima ancora che in relazione alla loro posizione organizzativa o contrattuale nei confronti dell’impresa e quindi funzionalistica al business. Così facendo si ha la possibilità di ottenere il meglio dalla forza lavoro.

In questo scenario la formazione e lo sviluppo dei dipendenti offre l’occasione di sviluppare non solo la consapevolezza di sé e dei propri pensieri ma stimola la creatività, offrendo tematiche di crescita, ad esempio su nuovi modi di porsi davanti una situazione lavorativa in base alla loro personalità e al personale modo di leggere le situazioni vissute.

La generazione di nuove idee fa parte della prospettiva cognitivista che vuole l’innovazione di un pensiero positivo contro i pensieri veloci che nascono da credenze personali (Buratti, 2020).

L’idea di base è che sia possibile fornire degli strumenti di valore ai dipendenti che diano loro maggiore consapevolezza di sé, dei loro pensieri veloci e di quelli non funzionali che generano atteggiamenti non adattivi. Nella relazione è possibile imparare a riconoscerli per sostituirli con pensieri e atteggiamenti più funzionali. Questo permetterà non solo una crescita personale, un aumento della creatività e della resilienza ma anche un senso di maggiore senso di empowerment (Piccardo, 1992; Dellacasa, Moncini, 2002; Nacamulli,1992; Ippolito, 2000; Conti, De Risi, 2001)

Il pensiero creativo (Plsek, 1997; Goldenberg, Mazursky, 2002) non si attua attraverso lo sprigionamento di energie creative disperse all’interno dell’impresa, ma è un semplice processo mentale mirato a generare nuove idee all’interno di una relazione di valore, rispetto a uno scopo preciso, ad un compito o una situazione più o meno ricorrente quale può essere il proprio lavoro.

Questo tipo di atteggiamento è presente nelle logiche proposte dal pensiero creativo, (Plsek, 1997; Goldenberg, Mazursky, 2002) dall’intelligenza emotiva (Goleman, 1997) o dal vecchio, ma sempre attuale, concetto di problem solving i quali producono innovazione.

La vecchia cultura ha sempre cercato di trovare dei metodi per evitare di stimolare la creatività dei dipendenti perché la generazione di nuove idee poteva essere sovversiva rispetto alle regole che sembravano governare un’organizzazione. Le possibili nuove proposte e le soluzioni innovative potevano minare il delicato equilibrio, figlio di una mentalità statica.

Molti studi dimostrano invece come il livello e le performance creative dell’intera impresa scaturiscono dall’interazione tra soggetti, anche non creativi, ed attiene alle modalità di rielaborazione ed utilizzo delle esperienze disponibili presso i singoli componenti dell’organizzazione attraverso l’incontro e lo scambio, sia formale che informale.

Vicari (Vicari, 1992) definisce imprese di successo quelle caratterizzate da elevati livelli di creatività individuale ed elevati livelli di creatività organizzative. Tali imprese sono quelle che fondano la propria strategia sull’innovazione e sulla capacità di fronteggiare il cambiamento, che riescono a stimolare la creatività dei singoli e a coniugarla con quella organizzativa. Lo sviluppo di pratiche finalizzate alla stimolazione della creatività all’interno dell’impresa risulta connesso con lo sviluppo di azioni organizzative mirate a far emergere i talenti e a valorizzarli. Una politica manageriale orientata alla creatività, infatti, consente di usufruire di tutta l’energia creativa disponibile presso l’impresa e di focalizzarsi sulla percezione dei segnali deboli presenti nelle potenzialità inespresse.

Le leve di intervento nello sviluppo del potenziale in azienda

Le leve d’intervento che le aziende dovrebbero utilizzare per dotarsi e sviluppare personale talentuoso sono tre: la selezione, la formazione e la ricompensa.

La selezione e le modalità di reclutamento variano in base alle posizioni aziendali da occupare e la politica aziendale dovrebbe partire sempre dal reclutare il personale interno puntando sul loro sviluppo. Tale processo di selezione è possibile se l’azienda annualmente si preoccuperà di sottoporre tutti i dipendenti ad una valutazione delle conoscenze, capacità/abilità e competenze, il cui esito è registrato in un gestionale che ne tenga traccia. A seconda delle necessità questo sistema garantirà la tracciatura di quelle competenze richieste e ricercate. Sarà ipotizzabile la possibilità di colmare eventuali lacune con la formazione.

La formazione sarà impartita sia nelle fasi di inserimento che negli stadi più avanzati. Non sarà centrata solo sul ruolo di destinazione. Come sostiene Bauman (2003) ci troviamo in una società liquida in continuo cambiamento e non possiamo pensare che i ruoli pensati per un’azienda in un dato perioda debbano rimanere tali.Si rende necessaria una visione del sistema azienda che agevola itinerari di sviluppo tramite job-rotation interfunzionali sia per offrire al dipendente una visione sistemica dell’azienda ma anche per rafforzare l’integrazione tra le diverse funzioni, inoltrela formazionie lo sviluppo delle soft skills quali ad esempio la comunicazione, la negoziazione o la gestione dei conflitti dovrebbe essere continua.

La ricompensa infine contribuisce a motivare e incentivare i dipendenti.

L’attenzione alla persona, alle sue capacità e l’offerta di un orientamento verso le scelte e le possibilità di sviluppo professionale permette un senso di coinvolgimento.

Non sarà più necessario parlare solo di ricompense economiche e di livello ma lo sviluppo personale, anche in una diversa funzione aziendale, sarà letto come occasione di sviluppo all’interno di un programma personale di miglioramento continuo che si prefigge di innalzare i propri livelli personali e ottenere un maggiore senso di empowerment (Piccardo, 1992; Dellacasa, Moncini, 2002; Nacamulli,1992; Ippolito, 2000; Conti, De Risi, 2001).

Queste leve dovrebbero essere inquadrate in un processo di comunicazione continua che dovrà coinvolgere il personale e soprattutto ascoltare la loro voce per ottimizzare il tiro. I dipendenti devono sempre essere aggiornati sulle strategie aziendali e non avere la percezione di trovarsi in un’ambiente statico e impersonale.

Il personale deve percepirsi come la risorsa di maggiore importanza perché creatore di valore che alimenta il successo dell’azienda, con la consapevolezza che il successo della loro organizzazione è anche di loro responsabilità. Favorire l’ingaggio, il senso di appartenenza e lo sviluppo dell’individuo vuol dire favorire anche il suo senso di responsabilità.

Conclusioni

Possiamo quindi dire che ci riferiamo ad un talento quando parliamo di una persona che, messa nelle giuste condizioni, in una data azienda e in un dato momento storico, ha una performance superiore alla media, rispetto il business nel quale è coinvolto, e ha una buona espressione dei comportamenti ritenuti chiave dall’azienda nella quale si trova, in un dato momento. La stessa persona, in un’altra azienda o in un diverso momento storico, potrà non essere considerata un talento.

Tutti quindi possiamo essere considerati profili di potenziale, con la giusta dose di fortuna nel trovarci nel posto giusto al momento giusto.

 

Rischio burnout per i genitori? Possibili effetti dello stress in famiglia

Le difficoltà e gli ostacoli quotidiani possono rappresentare una fonte significativa di stress, tanto che in alcune circostanze i genitori sono quasi sopraffatti dalle loro responsabilità educative e possono sperimentare un senso di sovraccarico emotivo, fino allo stato di Parental Burnout.

 

L’esperienza della genitorialità rappresenta una sfida continua, a volte resa particolarmente faticosa dalla originalità e complessità di ogni figlio e dalle numerose richieste di assistenza alle quali il genitore deve far fronte. Le molteplici difficoltà ed ostacoli quotidiani possono rappresentare una fonte significativa di stress, sia per l’adulto che per tutta la famiglia (Bornstein, 2002), tanto che in alcune circostanze i genitori sono quasi sopraffatti dalle loro responsabilità educative e, privi delle energie necessarie, sperimentano un senso di sovraccarico emotivo che si traduce in un impoverimento delle proprie risorse (Mikolajczak et al., 2018, b). Questa condizione è caratterizzata da sentimenti di ansia e di paura evocati dal ruolo di caregiver e può determinare una situazione di sovraccarico emotivo generata dall’incapacità del genitore di far fronte al numero e all’intensità delle esigenze dei figli (Bronte et al., 2010).

Situazioni di stress cronico possono predire uno stato di Parental Burnout, fenomeno che comprende tre aspetti essenziali: l’aggravio emotivo e fisico, che si traduce in una sensazione di stanchezza e di sovraccarico emotivo che fanno sentire il genitore quasi travolto dal proprio ruolo; l’allontanamento emotivo dai figli, che porta i genitori ad essere sempre meno coinvolti nell’educazione e nella relazione con loro, limitando le interazioni ad aspetti strumentali e funzionali e ponendo in secondo piano la dimensione emotiva; il senso di inefficacia genitoriale, che emerge con la consapevolezza di non essere in grado di gestire situazioni problematiche con i mezzi e la calma necessaria (Mikolajczak et al., 2018, b).

Il burnout genitoriale è associato ad una bassa autostima e ad una forte necessità di controllo e può essere predetto dalla presenza di aspettative eccessive o da richieste elevate. I genitori più esposti a tale condizione, generalmente, hanno forti investimenti emotivi nei confronti del figlio ed atteggiamenti tendenti al perfezionismo e spesso riconoscono quanto siano a volte irraggiungibili i loro obiettivi e di quanti ostacoli devono affrontare nel loro percorso (Le Vigouroux et al., 2017). Situazioni di forte aggravio emozionale e di stress possono stimolare in loro desideri di allontanamento e di fuga dal proprio ruolo attraverso la messa in atto di una serie di atteggiamenti finalizzati a distrarsi o allontanarsi da tale situazione come: fumare, bere alcolici, fare shopping compulsivo, consumare cibo in modo eccessivo o trascorrere molto tempo a lavoro, al telefono o su internet (Mikolajczak et al., 2018, a).

È esperienza comune sperimentare nel corso della propria vita una serie di eventi e di situazioni potenzialmente stressanti che possono avere un impatto sul benessere e sulla salute. La durata della vita, infatti, non è determinata solamente da una componente genetica e biologica, ma anche da una serie di elementi come lo stile di vita, la qualità delle relazioni, la cultura di appartenenza e tutti quei fattori che provocano o proteggono dallo stress (Cozolino, 2019).

Le sfide educative ed organizzative generate attualmente dalla pandemia hanno comportato per molti genitori non solo un senso di smarrimento e vissuti di malessere e di stress, ma anche la riscoperta di risorse e di capacità personali che la società deve saper promuovere e valorizzare.

Come rispondere a questa sfida? Quale, dunque, la strada da intraprendere? È auspicabile che ogni genitore impari ad agire preventivamente, riscoprendo come prerequisito fondamentale per prendersi meglio cura dei propri figli l’importanza ed i benefici della “cura di sé”. È purtroppo diffusa l’abitudine di considerare quest’ultima come sinonimo di egoismo o di scarsa attenzione al prossimo; al contrario, dare priorità al proprio benessere non solo permette di migliorare la qualità di vita, ma di affrontare con maggior successo le difficoltà e gli ostacoli che questa riserva.

L’obiettivo, quindi, è quello di imparare a prendersi cura di sé a partire dal corpo, dalla mente, dalle emozioni, dallo spirito, dal tempo e dalla compassione di sé.

 

Date Rape Drugs: le droghe da stupro, quali sono e come agiscono. È possibile difendersi?

In alcuni casi di violenza sessuale e stupro vengono utilizzate delle droghe, le “date rape drugs”, semplici da acquistare e da somministrare, che causano nelle vittime perdita di coscienza e incapacità di difesa, rendendole vulnerabili alla violenza.

 

La violenza sessuale è un fenomeno universale senza differenze di sesso, età, etnia o classe sociale, che provoca effetti devastanti sia a livello di salute fisica, sia a livello di salute mentale, a breve e lungo termine, come ad esempio: gravidanza indesiderata, le infezioni sessualmente trasmissibili e maggiore suscettibilità ai sintomi psichiatrici, in particolare alla depressione (Costa, Lavorato, Baldin, 2020). I dati ISTAT forniti dal Governo Italiano indicano che il 31,5% delle donne comprese tra i 16 e i 70 anni (quindi 6 milioni e 788 mila) ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: di cui il 21% ha subito una violenza sessuale e il 5,4% ha subito uno stupro o un tentato stupro (ISTAT). Alcuni casi di violenza sessuale e stupro si basano sull’uso della cosiddetta violenza sessuale facilitata dalla droga (DFSA), che causa nelle vittime perdita di coscienza e incapacità di difesa, rendendole vulnerabili alla violenza (Costa, Lavorato, Baldin, 2020). È un noto fenomeno, e sempre più diffuso, l’utilizzo di droghe semplici da acquistare, da utilizzare e da somministrare: vengono definite droghe da stupro, in inglese chiamate “date rape drugs”. Il termine date rape drugs è stato coniato per riferirsi appositamente alle sostanze utilizzate per intossicare e inabilitare potenziali vittime, rendendole ancora più vulnerabili alle aggressioni sessuali, ma soprattutto meno capaci di ricordare i dettagli e in alcuni casi la violenza stessa (Hindmarch e Brinkmann, 1999). In questa categoria rientrano ad esempio il Metaqualone, il Cloralio Idrato, il GHB o Acido Gamma-Idrossibutirrico, il Flunitrazepam e la Ketamina (Julien, Advokat, Comaty, 2012). Il Metaqualone era considerato un farmaco da stupro già negli anni ’70 in quanto l’effetto amnesico si manifestava a dosaggi inferiori a quelli necessari a causare incoscienza e incapacità. Il Cloralio Idrato viene spesso utilizzato in combinazione con l’alcol perché provoca un’intossicazione più grave con torpore e amnesia: questa mistura prende il nome di “Mickey Finn” e ha rappresentato un primo esempio di combinazione utilizzabile come droga da stupro. Il Flunitrazepam è una benzodiazepina importata illegalmente che causa sedazione e amnesia, specialmente se assunta con l’alcol: il risultato è simile al Mickey Finn. La droga più conosciuta sia come droga di abuso, sia come droga da stupro, è sicuramente il GHB (Acido Gamma-Idrossibutirrico): un potente deprimente del sistema nervoso centrale usato come anestetico generale da somministrare per via endovenosa, ora anche diffuso farmaco da abuso. Ha effetti disinibitori, afrodisiaci ed euforizzanti (Julien, Advokat, Comaty, 2012). Ciò che va sottolineato è che è incolore e inodore, presenta solamente un sapore leggermente salato che viene facilmente mascherato se sciolto in una qualsiasi bevanda. Sono necessarie piccole quantità di GHB e circa 10-15 minuti prima che provochi un rilassamento muscolare nella vittima, la quale si sente come se fosse “ubriaca” al punto da poter perdere conoscenza. Inoltre, dal momento in cui viene metabolizzata, la GHB provoca un’amnesia anterograda: la vittima non ha alcun ricordo di ciò che è accaduto in seguito all’ingestione della sostanza. Circa 5 ore dopo, la maggior parte delle persone riacquista una piena funzionalità, le vittime possono prendere consapevolezza di aver subito una violenza, ma non possono ricordare i dettagli o il criminale (Hensley, 2002). È proprio quest’ultimo il vantaggio che questi farmaci, o droghe da stupro, forniscono ai criminali: rendere la vittima incapace di riuscire a ricordare la violenza o i dettagli rilevanti e importanti. È stato condotto uno studio negli Stati Uniti per valutare in che misura l’alcol e altre droghe fossero presenti nei campioni prelevati dalle vittime di stupro in cui le sostanze erano presumibilmente coinvolte. Sono stati testati campioni di urina per 24 mesi, in cerca di tracce riguardanti la presenza di anfetamine, barbiturici, benzodiazepine, cannabinoidi, metaqualone e oppiacei. I risultati hanno indicato un grado considerevole di utilizzo di droghe, in particolare droghe combinate con l’alcol, che supportano l’ipotesi ed indicano un’incidenza piuttosto elevata di queste sostanze nei casi analizzati di stupro e violenza (Hindmarch e Brinkmann, 1999).

È possibile proteggersi? È possibile riuscire a non cadere in questa malefica e terrificante trappola? Sono queste domande che hanno portato tre ragazze americane, come riporta il sito Millionaire (2017), a creare e brevettare la “smart straw” ossia la “cannuccia intelligente”. È una cannuccia che permette di rilevare la presenza all’interno del proprio drink di Ketamina, GHB, Flunitrazepam e altre droghe: sostanzialmente è una cannuccia dotata di due test che diventano blu nel momento in cui rilevano ed entrano in contatto con una droga.

È sicuramente questa la direzione che la ricerca segue, in quanto le conseguenze psicologiche degli abusi e degli stupri, che avvengono a seguito della assunzione involontaria della sostanza, sono peculiari e possono differire dalle reazioni degli altri tipi di stupro (Hensley, 2002). È probabile che sia presente una maggiore confusione e frustrazione associate all’incapacità di ricordare gli eventi riguardanti l’aggressione. La sensazione della vittima è quella di aver perso il controllo e di non avere memoria dell’evento, delle sue azioni e sensazioni durante le ore di intossicazione. Le vittime possono auto-incolparsi, mettendo in dubbio le proprie azioni e i propri atteggiamenti, e spesso questo è intensificato se la donna ha consumato alcol prima dell’assunzione involontaria della sostanza e del successivo stupro. A questo proposito, è importante segnalare, come riporta il sito di École Universitaire Internationale (2017), che è stata inaugurato a Roma il primo centro IRCAV: è il centro di riferimento europeo per le vittime di violenza con droga dello stupro (DFSA), fornisce supporto informativo e consulenza psicologica, medico-specialistica e forense alle vittime e ai loro familiari. IRCAV prevede strutture mediche che assistono le vittime 24/24h, fornendo anche consulenza con le Forze dell’ordine.

 

La scienza dei disturbi dello spettro autistico (2021) di Bernier, Dawson e Nigg – Recensione del libro

La produzione scientifica intorno all’autismo è cresciuta e il libro La scienza dei disturbi dello spettro autistico raccoglie informazioni e conoscenze aggiornate sia sugli aspetti diagnostici, basati su una valutazione funzionale multidimensionale, sia in relazione al trattamento multidisciplinare della sindrome.

 

I disturbi dello spettro autistico (ADS) sono stati affrontati, di recente, tenendo in considerazione maggiormente i bisogni di salute, non riservando ai pazienti solo interventi di natura psichiatrica e psicologica, anche se i criteri A e B del DSM5 che definiscono il disturbo sono: deficit della reciprocità socio-emotiva; deficit dei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale; deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni; pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi.

La produzione scientifica intorno al tema è cresciuta e il libro La scienza dei disturbi dello spettro autistico raccoglie informazioni e conoscenze aggiornate sia sugli aspetti diagnostici, basati su una valutazione funzionale multidimensionale, sia in relazione al trattamento multidisciplinare della sindrome.

Il punto centrale per gli autori del volume è rendere efficace la cura di questi pazienti applicando un modello che presuppone il coinvolgimento di diverse professionalità che coordinandosi possano farsi carico della complessità del trattamento.

Negli ultimi anni si è riscontrato un aumento della prevalenza dell’autismo e ormai i dati scientifici a disposizione attestano che l’epigenetica ha un ruolo fondamentale. La complessa interazione tra genoma e ambiente, infatti, costituisce una caratteristica che modula le anomalie del sistema, di cui la parte più evidente è il comportamento che per molto tempo ha assunto un ruolo predominante rispetto all’attenzione rivolta dagli specialisti agli autistici. Le acquisizioni patogenetiche recenti hanno però rilevato che esse non interessano il solo sistema nervoso in modo esclusivo, ma producono manifestazioni cliniche relative ad altri organi e apparati.

L’autismo prende forme diverse in persone diverse per questo un singolo metodo d’intervento non può essere efficace per tutti, perciò, si possono migliorare gli esiti in molti modi.

L’impatto maggiore su tessuti e organi è atteso da modificazioni epigenetiche durante quelli che sono definiti i “primi mille giorni”. Gli autori sottolineano come le riflessioni sul modello patogenetico investano la pratica clinica e la coerenza della pianificazione dell’intervento che si può ridefinire secondo una “traiettoria di fragilità possibile” del neurosviluppo. Questa impostazione apre finestre verso l’impegno per ciò che è possibile per il massimo benessere biopsicosociale del paziente. La ricerca è in progress, ma i risultati già raggiunti invitano nell’ottica delineata a offrire maggiori tutele in termini di prevenzione alle donne in gravidanza, maggiori cure per i bisogni di salute dei pazienti affinché interventi medico-internistici e psicoeducativi procedano di concerto per realizzare, come sostengono Bernier, Dawson e Nigg, un modello interdisciplinare in grado di supportare ogni persona dello spettro in base alle specifiche esigenze e alla loro evoluzione, migliorandogli la qualità della vita.

Le evidenze scientifiche sono illustrate con un linguaggio semplice e facilmente comprensibile con schede riassuntive che permettono di focalizzare gli aspetti più rilevanti di ogni questione, e passano in rassegna le pratiche migliori per aiutare i pazienti alla luce della nuova impostazione.

I primi quattro capitoli del libro danno una panoramica delle novità acquisite dalla ricerca nel campo dell’ASD, mentre gli altri sei capitoli danno informazioni su cosa fare per garantire una migliore qualità di vita a chi soffre di questa patologia. Strategie aggiornate che riguardano i vari aspetti del disturbo sono illustrate con l’applicazione delle conoscenze disponibili a casi concreti di bambini, adolescenti e adulti. Vicende personali che mettono anche in risalto situazioni e difficoltà, incontrate durante il trattamento, che riguardano tutto lo spettro.

 

EI e ToM: intelligenza emotiva e teoria della mente

La teoria della mente (ToM) è la capacità di un soggetto di riconoscere il pensiero o le emozioni altrui per prevedere un possibile comportamento (Chakrabart & Baron-Cohen, 2013).

 

Deficit di questa capacità sono stati osservati in diversi disturbi, come l’ansia sociale, l’autismo, il bipolarismo o la depressione (Baron-Cohen & Bowen, 2015; Mitchell & Young, 2016; Washburn et al., 2016). La teoria della mente viene analizzata con diverse misurazioni: Strange Stories Task (Happé, 1994) e Faux Pas Task (Stone, Baron-Cohen & Knight, 1998) sono strumenti utilizzati per misurare le ragioni esplicitate dai soggetti in modo verbale, mentre il test di “lettura della mente negli occhi” (Eyes Test: Férnandez-Abascal et al., 2013; Baron-Cohen et al., 2001) è utilizzato per svolgere un’analisi sociale implicita. Nello specifico, l’Eyes Test è stato utilizzato per misurare la teoria della mente (ToM) o l’abilità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri grazie a 36 domande che permettono di indicare quale emozione corrisponde meglio allo stato mentale visualizzato da diverse immagini oculari. Gli studi precedenti hanno analizzato la relazione tra l’abilità di percepire le emozioni e la ToM, senza comprendere la complessa connessione tra queste ultime (Megias-Robles et al., 2020).

L’intelligenza emotiva (EI) è un’abilità composta da quattro fasi: 1) percezione, 2) facilitazione, 3) comprensione e 4) gestione delle emozioni. Nello specifico, l’intelligenza emotiva è definita come “la capacità di percepire con precisione, valutare ed esprimere emozioni; la capacità di accedere e/o generare sentimenti quando essi facilitano il pensiero; l’abilità di comprendere le emozioni e la conoscenza emotiva, la capacità di regolazione per promuovere una propria crescita emotiva e intellettuale” (Mayer & Salovey, 1997, p. 10). L’intelligenza emotiva Mayer-Salovey-Caruso Test (MSCEIT; Mayer & Salovey, 1997) è lo strumento principale utilizzato per valutare questo modello gerarchico. Questo strumento misura l’IE in modo oggettivo attraverso la risoluzione di problemi emotivi con risposte errate. Sebbene MSCEIT abbia mostrato buone proprietà psicometriche e sia lo strumento più utilizzato per valutare la capacità dell’IE attraverso misure di performance, è importante notare che è non esente da alcune limitazioni (Olderbak et al., 2019; Fiori et al., 2014; Maul, 2012). Ad esempio, Fiori e colleghi (2014) hanno suggerito come questo test potrebbe essere più adatto ai partecipanti con carenze nell’IE, in quanto non è in grado di distinguere correttamente tra individui con punteggi EI elevati (Olderbak et al., 2019). A seguito di precedenti suggerimenti sulla base di ricerche che utilizzano il Test Eyes (Fernández-Berrocal et al., 2017; Warrier, 2018; Olderbak et al., 2015), alcuni autori suggeriscono come questo test possa essere associato a capacità emotive più complesse (Megias-Robles et al., 2020).

Megias-Robles e colleghi (2020) hanno svolto una ricerca per analizzare la relazione tra Eyes Test e intelligenza emozionale (EI). I due test sono stati somministrati ad un campione composto da 874 partecipanti spagnoli. Nello specifico, sono stati reclutati 182 uomini e 692 donne. Il campione è stato reclutato tramite pubblicità all’interno di varie università, social network e piattaforme online (Megias-Robles et al., 2020). I risultati dello studio indicano come, nell’analisi delle differenze di genere, le donne hanno ottenuto in media punteggi significativamente più alti rispetto agli uomini sul totale MSCEIT. La correlazione di Pearson ha rilevato come il MSCEIT è correlato positivamente con le prestazioni sull’attività dell’Eyes Test. In conclusione, sembra che l’Eyes Test possa essere utilizzato per misurare la ToM per valutare la comprensione degli stati mentali (Megias-Robles et al., 2020). Sebbene questo studio contribuisca a far luce sul dibattito tra Eyes Test e il suo rapporto con le capacità dell’IE, in futuro dovrebbero essere condotti degli studi per rafforzare tali conclusioni, utilizzando delle metodologie causali e degli strumenti di misurazione aggiuntivi dell’IE (Megias-Robles et al., 2020).

 

L’importanza della comunicazione assertiva e dell’ascolto attivo tra agente di polizia penitenziaria e detenuto

La comunicazione assertiva si interpone tra quella passiva e quella aggressiva. Nello stile comunicativo assertivo c’è consapevolezza e rispetto per l’altro e per i diritti degli altri.

Livia Etiopia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La comunicazione

La comunicazione è uno scambio di messaggi che avviene tra un emittente e un destinatario, il primo invia un messaggio di tipo verbale o non verbale al secondo che risponde elaborando il messaggio e codificando una risposta. La risposta può essere anche di tipo non verbale risultando comunque molto significativa. La comunicazione comprende dunque qualunque tipo di messaggio dotato di senso e significato che gli individui si scambiano quando interagiscono, di intenzionalità intesa come la consapevolezza di voler comunicare e che produce un fine, quello dello scambio comunicativo.

I primi tentativi di definire la comunicazione nacquero in ambito matematico. I modelli prevalenti erano quelli che prevedevano il semplice passaggio di informazioni da un emittente ad un destinatario attraverso un canale. La comunicazione avveniva in modo meccanico. La prima teoria della comunicazione, infatti, ispirata ad un modello matematico era quella di Shannon e Weawer, formulata nel 1949 negli Stati Uniti. Inizialmente nacque con lo scopo di migliorare l’efficienza della comunicazione telefonica, applicata poi in un secondo momento a quella interpersonale. In questa visione l’atto comunicativo è un processo di trasmissione di informazioni tra soggetti interagenti attraverso una sequenza ben precisa. La sorgente di informazione è il soggetto che produce il messaggio, il trasmettitore attraverso cui si trasmette il messaggio, il segnale ovvero il messaggio inviato, il canale ossia il mezzo di trasmissione, il destinatario che è il soggetto ricevente e il ricettore (gli organi di senso e la percezione del soggetto ricevente). Qui il messaggio viene codificato dal trasmettitore e decodificato dal destinatario in base alle proprie capacità di decifrazione. La trasmissione dell’informazione ha una gamma di possibilità prefissate. Sebbene questo modello abbia avuto molta importanza dal punto di vista storico, i suoi limiti sono quelli di non contemplare alcuna forma di feedback e di come la comunicazione avvenga solo parzialmente, di verificarsi in maniera errata o di non verificarsi per niente.

Un contributo fondamentale al chiarimento delle istanze in gioco nel processo comunicativo è giunto dal modello semiotico informazionale, nato dall’interazione tra il modello semiotico della comunicazione con il modello informazionale di Shannon e Weaver. Secondo tale teoria mittente e destinatario hanno competenze linguistico-comunicative differenti, ma sono accomunati dalla capacità di produrre, attraverso codici denotativi, messaggi significativi. Il mittente codifica un messaggio al destinatario, come un insieme di parti, di frasi e parole, scelte all’interno di un codice comune, la lingua, comune sia al codificatore sia al decodificatore. Per lo studioso Jakobson, a strutturare un sistema comunicativo, ci sono i seguenti elementi: un mittente, un destinatario, un codice comune ed un contesto di riferimento.

In questa prospettiva svolge un ruolo fondamentale la funzione della decodificazione del messaggio da parte del destinatario che svolge un ruolo attivo e che si realizza in una complessa attività di elaborazione e di trasformazione del dato per la decodifica e la comprensione del messaggio.

L’approccio interazionista alla comunicazione è fondato sullo studio e l’analisi in cui le singole interazioni si definiscono reciprocamente, in particolar modo analizza il comportamento non verbale all’interno del processo comunicativo e l’incidenza della comunicazione sulla formazione dell’individuo. La struttura dell’azione comunicativa viene scomposta in tutte quelle azioni verbali e non verbali che fanno emergere tutti gli elementi che favoriscono la trasmissione dei contenuti e i comportamenti in gioco nello scambio comunicativo. Inoltre secondo tale teoria la comunicazione non può essere definita come uno scambio di informazioni tra fonti diverse, ma come un’occasione dove più individui collaborano per coordinare il comportamento comunicativo.

La teoria interazionista si consolida intorno alla fine degli anni Quaranta, grazie al contributo fornito dalla Teoria Generale dei Sistemi di Von Bertalanffy. Nasce in contrapposizione al concetto di causalità lineare facendo riferimento invece a quello di causalità circolare in base al quale un sistema è determinato dalle relazioni fra i suoi elementi e dalle relazioni tra queste e l’ambiente. Negli anni Sessanta si svilupparono diversi studi sulla comunicazione che rivolgevano la loro attenzione soprattutto agli aspetti non-verbali, tra cui gli studi di Ekman e Friesen. Alcuni studiosi, invece, hanno posto al centro dei lori studi l’analisi della conversazione “state of talk”. Secondo tali autori la comunicazione tra individui si struttura come “un’interazione conversazionale” in apparenza libera e priva di regole, ma costituita in realtà da un ordine ben preciso. In tal modo i partecipanti ad una comunicazione devono dimostrare di comprendere non solo le informazioni, ma di saper organizzare il proprio comportamento comunicativo in modo intelligente. Questa vera e propria competenza conversazionale permette la sincronia e la sintonia della conversazione, il rispetto dei turni di intervento e i processi decisionali.

Un contributo a questo modello è giunto dall’analisi della conversazione compiuta da un gruppo di sociologi americani che si ricollegavano al modello teorico di Goffman e a quello dell’etnometodologia. Secondo tali studi la conversazione è un’attività retta da regole, procedure e competenze linguistiche e conversazionali. Un contributo decisivo alla teoria interazionista è giunto dalla cosiddetta Scuola di Palo Alto, Bateson, Watzlawick e altri. Secondo la teoria Pragmatica della Comunicazione è impossibile non comunicare, anche il silenzio è una forma di comunicazione. Rispetto all’approccio interazionista secondo tale teoria la comunicazione è una vera e propria azione comunicativa che segue delle regole ben precise e che ha degli effetti concreti sugli individui.

La Comunicazione non verbale è un aspetto imprenscindibile in grado di influenzare la comunicazione per il 60%. Quando all’interno di una comunicazione si creano delle discrepanze tra il modulo verbale e quello non verbale, a prevalere è quest’ultimo, come quando affermiamo qualcosa ma con il modulo non verbale smentiamo ciò che abbiamo detto. Essa si suddivide in:

  • Paralinguistica
  • Cinesica
  • Prossemica

La paralinguistica, chiamata anche, sistema vocale non verbale, è costituito da tutti i suoni che emettiamo a prescindere dal significato delle parole. Essa comprende il tono e la frequenza della voce e il silenzio.

Il sistema cinesico comprende il movimento degli occhi, del volto e del corpo, comprende anche i gesti che nella comunicazione umana riguardano in primo luogo le mani e la postura.

La prossemica consiste nella gestione dello spazio e del territorio, esistono 4 zone di distanza in cui suddividiamo lo spazio che ci circonda (zona intima, personale, sociale e pubblica).

La comunicazione assertiva

La comunicazione ha un ruolo imprenscindibile in ogni contesto di vita e oggigiorno è ampiamente documentato il suo ruolo chiave che riveste in certi contesti istituzionali, come anche in quello penitenziario, che non assolve più la mera funzione di custodia e sorveglianza del reo, ma soprattutto quella di rieducazione e reinserimento sociale. In tale ottica anche il mandato degli operatori di polizia penitenziaria cambia, ai quali non viene più richiesto di assolvere solo ad un compito istituzionale di sorveglianza, ma di fornire alle persone recluse l’opportunità di spendere il loro tempo in carcere in modo positivo, trattandole con dignità e rispetto. Per fare ciò devono sapersi approcciare al detenuto con modalità comunicative efficaci e porsi all’ascolto attivo ed empatico affinchè sappiano cogliere i momenti di bisogno e gestire eventi critici in maniera più risolutiva. Pertanto devono imparare ad acquisire tecniche comunicative assertive rimarcando con sicurezza e chiarezza quello che è il loro ruolo, senza assoggettarsi passivamente alla volontà del ristretto e senza prevaricarlo o farsi valere con aggressività. Tali comportamenti hanno dei benefici a lungo termine e, anche se non sempre sortiscono gli effetti desiderati, non inducono ad aggravare le sorti di un evento già in atto. E poiché nel carcere tali situazioni si verificano spesso, uno stile comunicativo assertivo aiuta a comunicare efficacemente. L’assertività, la capacità di esprimere i propri bisogni, pensieri e comportamenti in maniera chiara e sicura senza prevaricare gli altri è un tipo di comunicazione efficace. La comunicazione assertiva si interpone tra quella passiva e quella aggressiva. Nello stile comunicativo assertivo c’è consapevolezza e rispetto per l’altro. Ci si esprime attraverso la capacità di comunicare sentimenti ed emozioni, riconoscendoli in primis. Vi è consapevolezza dei diritti degli altri, l’obiettivo dell’assertività è proprio quello di mediare le esigenze personali con quelle altrui, la disponibilità ad apprezzarli, facendo valere i propri diritti senza ledere gli altri. Nel caso specifico, all’interno del carcere, uno stile comunicativo assertivo aiuta l’agente a progettare e gestire l’azione comunicativa in modo coerente ed efficace rispetto ai propri obiettivi comunicativi. Acquisire e interiorizzare uno stile comunicativo assertivo utilizzandolo con consapevolezza diviene una caratteristica fondamentale che facilita l’operatore di polizia penitenziaria ad esprimersi con intenzionalità e chiarezza senza timori e garantendo una risposta più efficace e positiva nel detenuto. In tal modo quest’ultimo non si sentirà attaccato verbalmente o giudicato per quello che sta chiedendo o facendo, ma trattato umanamente con dignità e rispetto.

Salter nel 1949 fu il primo a delineare la persona assertiva definendola come personalità “eccitatoria”, ovvero quell’individuo in grado di esprimere il proprio punto di vista e le proprie emozioni apertamente senza difficoltà. Inoltre lo definì non solo come comportamento interpersonale, ma proprio come uno stato di benessere emotivo per coloro che lo mettono in atto. Nel 1959 tale concetto venne ripreso da Wolpe che lo definì come “assertiveness” intesa come la capacità di esprimere liberamente i propri sentimenti. La persona assertiva, infatti, è capace di riconoscere le proprie emozioni, di comunicarle ed esprimerle. Ha consapevolezza dei diritti della persona, riconosce e valuta i propri diritti in relazione a quelli altrui, è disponibile ad apprezzare se stessa e gli altri, è capace di valorizzare aspetti positivi dell’esperienza.

Uno stile di comunicazione passivo porta la persona a sottomettersi agli altri, rinunciando alle proprie opinioni, bisogni, facendo valere unicamente quelli degli altri. Alla base vi è la paura di essere giudicati negativamente e un bisogno di essere accettati dagli altri ed evitare scontri e conflitti che possono generare emozioni negative (ansia, sensi di colpa, tristezza) e accrescere le proprie credenze disfunzionali circa il senso di sé come inadeguati e incapaci. Nel tempo tale comportamento non favorisce buoni esiti all’interno di una comunicazione perché si viene sopraffati dagli altri rinunciando definitivamente alle proprie priorità e bisogni, innescando sentimenti di rabbia e frustrazione in relazione a obiettivi non realizzati.

Uno stile di comunicazione aggressivo invece porta la persona ad agire con violenza, indignazione e con una totale mancanza di rispetto nei confronti degli altri, andando a ledere quasi sempre i loro diritti. È presente una completa svalutazione dell’altro con sentimenti di disprezzo e superiorità. I bisogni alla base di simili comportamenti sono quelli di affermare se stessi dominando sugli altri e giudicandoli inferiori. Anche in questo caso gli effetti che produce un comportamento comunicativo aggressivo sono limitati nel tempo, perché a lungo andare generano allontanamenti da parte degli altri e inimicizie, che in un primo momento si adeguano alla volontà di assecondare certi comportamenti solo per il timore di avere delle ripercussioni negative, senza però la volontà vera e propria di assecondare certe richieste. Gli stili comunicativi passivo e aggressivo applicati in un contesto penitenziario producono degli effetti negativi sui detenuti, che nel primo caso si approfitterebbero di una personalità remissiva dell’operatore di polizia penitenziaria violando le regole da rispettare e nel secondo caso di fronte ad una personalità aggressiva si porrebbero con un atteggiamento di sfida e superiorità, alimentando sentimenti di rabbia e aumentando il rischio di comportamenti pericolosi. L’assertività oltre che come modo comunicativo, risponde anche al bisogno di trattare il detenuto con umanità e rispetto, accogliendolo nei suoi bisogni senza critiche o giudizi.

L’ascolto attivo ed empatico

Per comunicare efficacemente è necessario saper ascoltare, un ascolto inefficiente non produce i risultati attesi all’interno di una comunicazione. Infatti dopo aver ascoltato una persona parlare per circa dieci minuti, siamo in grado di valutare appieno e assorbire circa il 40% di quanto ci è stato detto. A conclusione del processo di ascolto riusciamo a trattenere solo un quarto di quanto abbiamo ricevuto.

L’ascolto attivo inoltre riduce la possibilità di interpretare un messaggio comunicativo in maniera errata permettendoci di sviluppare relazioni più chiare e autentiche. Uno dei rischi maggiori di un ascolto inefficace è quello di interpretare, ovvero di cogliere qualcosa di simile a quanto viene detto e di filtrarlo attraverso i nostri significati.

La nostra fantasia, il temperamento, le nostre ideologie, i nostri pensieri rappresentano dei “contesti personali” attraverso cui filtriamo ciò che arriva dall’esterno e dai nostri interlocutori.

A questo proposito sono di particolare interesse le barriere comunicative individuate da Gordon, come 12 modalità errate di comunicazione che rallentano, inibiscono o bloccano il processo comunicativo, innescando nell’interlocutore un senso di sfiducia. Spesso non siamo consapevoli di utilizzare queste modalità, bloccando il processo di ascolto attivo e concentrando la nostra attenzione sul nostro punto di vista e su ciò che giudichiamo giusto o sbagliato, anziché restare in comunicazione con i bisogni, idee ed emozioni che l’altro esprime.

La capacità di ascolto di ognuno di noi è strettamente connessa alla conoscenza dei nostri bisogni e stati d’animo, quanto più siamo consapevoli di ciò che ci accade tanto più saremo in grado di non proiettarlo sull’altro e di distinguere in modo chiaro e onesto il nostro vissuto per fare spazio al vissuto altrui.

Anche all’interno del contesto penitenziario agli operatori viene richiesto di imparare ad ascoltare in modo efficace. Porsi in una condizione di ascolto attivo fa sentire il detenuto accolto e non rifiutato anche quando elargisce delle richieste che non possono essere accolte. Un evento molto frequente che avviene in carcere è quello di fare domanda per ulteriori ore di colloquio con i familiari a fronte di quelle già terminate. L’agente in questo caso, pur sapendo di non poter soddisfare tale richiesta, dovrebbe comunque ascoltare empaticamente il detenuto, accogliendo quel suo bisogno e non rifiutandolo a priori. Quest’ultimo, sentendosi ascoltato, accolto e non rifiutato riuscirà a gestire meglio eventuali sentimenti di rabbia e risentimento e a non mettere in atto comportamenti disfunzionali. In tal senso l’ascolto attivo previene anche eventuali criticità in tale contesto.

L’ascolto attivo è un ascolto empatico, l’empatia è la capacità di immedesimarsi e identificarsi con l’altro, vedere e sentire dal suo punto di vista, pur mantenendo il controllo del proprio. L’empatia migliora la qualità e la relazione dei nostri rapporti. L’ascolto empatico applicato nel contesto penitenziario aiuta a riportare il detenuto ad una situazione di equilibrio e calma, senza farlo sentire giudicato ed attaccato verbalmente, cercando di comprendere quali siano state le motivazioni che lo abbiano spinto a quel gesto o che abbiano scatenato quella crisi. Nel momento in cui si verifica un evento critico, infatti, l’agente è colui più vicino al detenuto che interviene per primo, successivamente saranno figure professionali specializzate ad occuparsene. Uno stile comunicativo assertivo ed un ascolto empatico, in situazioni critiche, possono così essere utilizzati in alternativa alla minaccia e all’avvertimento “Se non fai così …”, “Se continui così …”. Questi messaggi possono suscitare ancor più sentimenti di ostilità, rabbia e ribellione aggravando la situazione. Anche la critica e il giudizio in situazioni già pericolose sono da evitare perché non riducono le conseguenze ed il contenimento dell’evento critico, bensì lo aggravano. Il fine invece è quello di risolvere in maniera più funzionale la situazione che si è creata ed evitare che degeneri ulteriormente.

Il modulo di tecniche di comunicazione applicata al corso di formazione in polizia penitenziaria

Oggigiorno il sistema operativo penitenziario è interessato da molti cambiamenti organizzativi, tra cui le modalità operative del personale di Polizia Penitenziaria, a cui non è richiesto più solo un ruolo di sorveglianza, ma di inserirsi con consapevolezza e intenzionalità nel ruolo che svolgono che implica necessariamente anche la presa in carico della dimensione umana.

All’interno della Scuola della Polizia Penitenziaria di Sulmona, si è svolto il 175° corso di formazione rivolto agli allievi del Corpo della Polizia Penitenziaria. Il corso prevede l’acquisizione di vari moduli, tra cui quello su Tecniche di Comunicazione Applicata tenuto dalla scrivente.

Il corso di formazione degli allievi ha richiesto un’acquisizione delle competenze di ruolo più specifiche, ma anche di abilità diverse, come quelle comunicativo-relazionali, in funzione di una gestione più profittevole del proprio lavoro. Il fine era quello di sollecitare tali capacità con lo scopo di promuovere una comunicazione efficace e corretta nei confronti dell’utenza. Gli allievi hanno avuto modo di approfondire la complessità del fenomeno della comunicazione, costatando l’importanza che riveste. Nello specifico, hanno acquisito le capacità di trasmettere il proprio messaggio con chiarezza e forza persuasiva (comunicazione assertiva) e di utilizzare l’ascolto attivo, utili ad una efficace negoziazione, riscontrando positivamente la funzionalità di tali tecniche attraverso esercizi di role-playing. Hanno avuto modo di potersi osservare durante le simulazioni, comprendere il loro stile comunicativo e imparare a calibrarlo sul modello di quello assertivo. Acquisendo consapevolezza del proprio stile comunicativo e relazionale hanno potenziato i punti di forza e migliorato quelli più deboli. Attraverso le simulazioni di eventi critici hanno avuto modo di vedere come uno stile comunicativo assertivo ed un ascolto attivo siano più utili e funzionali per relazionarsi con i detenuti e gestire meglio queste situazioni, oltre che riuscire a prevenirle. Hanno sperimentato, a partire da loro stessi, come lo stile aggressivo generi ulteriore rabbia ed aggressività e quello passivo porti ad approfittarsi dell’altro, sottomettendolo.

 

 

La “follia morale”. I correlati neurologici della psicopatia

Quante volte abbiamo sentito parlare di psicopatia, magari in tv, attraverso telegiornali o documentari trasmessi su varie piattaforme?

 

La parola psicopatia è spesso utilizzata nel linguaggio di senso comune, associata a detenuti, autori di crimini violenti o semplicemente per designare una persona che presenta particolari tratti caratteriali.

Ma quali sono le sue origini?

Il termine psicopatia ha radici antiche, la sua etimologia deriva dal greco “psychè”, mente, e “pathos”, sofferenza.

Utilizzato per la prima volta da Teofrasto, allievo di Aristotele, il quale la definì come una caratteristica tipica degli individui privi di scrupolo.

Nel 1801 lo psichiatra francese Philippe Pinel descrisse un pattern di comportamenti devianti, profondamente crudeli e privi di giudizio, presenti in pazienti con chiari disturbi mentali in assenza di un deficit della ragione, della percezione, della memoria o di manifestazioni e segni tipici di un disturbo cognitivo quali allucinazioni, deliri o atti autolesionistici. Definì tale caratteristica: “manie sans dèlire”, appunto follia senza delirio, per classificare questi individui “malati non deliranti”, poiché pur comprendendo la follia del proprio status non erano in grado di inibirne l’azione.

In seguito, la psicopatia come diagnosi clinica, fu affrontata dallo psichiatra americano Hervey M. Cleckley con la pubblicazione del testo: “The Mask of Sanity: An Attempt to Clarify Some Issues About the So-Called Psychopathic Personality” (1941).

Egli fornì la più influente descrizione clinica della psicopatia del XX secolo, tanto che le caratteristiche di base da lui delineate, sono ancora oggi significative.

Secondo l’autore questi individui non presentano elementi peculiari riferibili unicamente all’aspetto comportamentale, ma anche a delle modalità relazionali che includono la vita affettiva.

Essi mostrano una evidente carenza di sentimenti, impulsività, mancanza di scrupoli e senso di colpa rispetto allo sfruttamento delle altrui debolezze congiunte ad una incapacità di avere legami di attaccamento,  quindi sostanzialmente delle profonde anomalie nella gestione delle emozioni.

Il titolo “la maschera della Sanità”, intesa appunto come sanità mentale, sta ad evidenziare come lo psicopatico possa apparire una persona esteriormente perfetta, un’imitazione di un soggetto integro e normalmente funzionante, in grado di abitare all’interno della società, molto spesso presentandosi come una persona sincera, intelligente e persino affascinante, celando il caos di una personalità destrutturata.

Tuttavia tale fascino è superficiale, egli è egocentrico, dimostra un freddo contegno e non possiede la capacità di provare emozioni sincere.

Molti psicopatici sono capaci di fingere le più comuni emozioni umane ma di fatto non sanno comprendere gli stati emotivi delle altre persone, lo possono fare solo a livello puramente intellettuale e non per una costruzione sana di relazioni.

A tal proposito emblematico è “il caso Fritzl” (Austria, 2008), a cui successivamente si è ispirato il film Room (L. Abrahmson, 2015).

Josef Fritzl, ingegnere austriaco, dopo aver progettato un bunker nella cantina dell’abitazione di famiglia, inscenò la fuga di una delle sue cinque figlie, per poi imprigionarla al suo interno per 24 anni (dall’età di 18 a quella di 42 anni). Nel corso di questi anni egli si recava nel bunker ogni tre giorni per portarle cibo e altri rifornimenti ma soprattutto per abusare di lei sessualmente, dalle loro unioni incestuose nascono sette figli.

Fritzl è un uomo all’apparenza perfettamente lucido in grado di condurre una vita “normale” per 24 anni, senza il minimo scrupolo.

Solitamente un soggetto psichicamente sano alla vista di qualcuno in pericolo, istintivamente ne percepisce la sensazione e tende ad aiutarlo, questo non è possibile per uno psicopatico poiché ha un deficit nella mentalizzazione degli stati emotivi altrui.

Ragion per cui, in una conversazione, egli non possiede la capacità di comprendere l’impatto e la risonanza che hanno le sue parole sugli altri o su di sé, piuttosto ha una percezione degli stati emotivi dedotta dal contesto e dall’attivazione degli stati fisiologici di chi gli sta attorno.

Per lo psicopatico dunque, un essere umano ha la stessa importanza di un qualsiasi oggetto e come tale ha un unico scopo: quello di essere strumentalizzato. Egli è inoltre pienamente consapevole delle conseguenze delle proprie azioni, tuttavia l’idea del dolore o della punizione non hanno alcun effetto inibitorio, ragion per cui la detenzione non ha un esito positivo o di carattere rieducativo, la sua condizione è irreversibile.

Lo psicopatico mentendo riesce ad impressionare gli altri camuffando la sua vera natura, mentre lo fa non viene tradito da segnali emotivi di ansia, esitazione, imbarazzo o vergogna, anche di fronte a prove inconfutabili. Tuttavia i suoi racconti appaiono pieni di contraddizioni e incongruenze, ciò accade sia a causa delle sue verità improvvisate sia per la difficoltà ad integrare il racconto con le componenti emotive dello stesso. H. Cleckley attribuisce a questa anomalia il nome di afasia semantica.

Dal punto di vista nosografico descrittivo, si accenna alla psicopatia solo all’interno della sezione III del DSM 5, sotto la nomenclatura: “Modello alternativo del DSM 5 per i disturbi di personalità”, facendo riferimento alla patologia come una variante caratteristica del disturbo antisociale di personalità con cui spesso viene confuso. Lo psicologo R. Fare ha creato la “Hare Psychopathy ChecKlist”, una scala utile a discriminare il disturbo antisociale di personalità dalla psicopatia.

Tale condizione inoltre, molto spesso viene associata anche al disturbo narcisistico di personalità per l’assonanza di alcune caratteristiche come ad esempio l’egocentrismo. In entrambi i casi è preponderante, oltre ad uno spiccato senso di superiorità, anche la prepotenza, l’arroganza, l’idea di essere più intelligenti e più capaci rispetto agli altri senza avere alcun rispetto per le opinioni altrui.

La psicopatia in effetti, si può presentare in concomitanza ad altre condizioni mentali, sebbene la comorbidità sia poco frequente.

Ma quali sono i deficit neurologici?

Sin dai tempi di Lombroso, si è cercato di far risalire le origini di un comportamento deviante ad alterazioni strutturali in aree neurologiche circoscritte; tuttavia non esiste un’area specifica poiché sono implicate più strutture deficitarie.

Un comportamento aggressivo e violento è la conseguenza di un alterato giudizio morale e decisionale, quest’ultimo è modulato da un complesso circuito che include strutture cerebrali corticali e sottocorticali, regolate a loro volta da neurotrasmettitori e sistemi ormonali.

In un’ottica bio-psico-sociale, tale circuito agisce con l’ambiente unitamente alle relazioni ed i rapporti interpersonali del soggetto.

Tornando allo “scompenso” da un punto di vista puramente organico, la psicopatia potrebbe essere concettualizzata come un disordine del sistema paralimbico, che include parti del lobo frontale e di quello temporale, i quali presentano un’attività ridotta rispetto al normale.

Il lobo frontale è la struttura maggiormente coinvolta nella pianificazione e nella regolazione del comportamento, la corteccia frontale è la zona più estesa, costituisce circa 1/3 dell’intera superficie cerebrale. A tal proposito emblematico è il caso di Phineas Gage, largamente discusso da A. Damasio nel suo testo: “L’errore di Cartesio”, all’interno del quale cerca di indagare le basi neurali della ragione. Gage nel 1848, fu vittima di un incidente: una barra metallica gli trapassò la guancia sinistra, perforando la base della scatola cranica, attraversando la parte frontale del cervello per poi uscire dalla sommità della testa, portando con sé parti di tessuto cerebrale. Egli sopravvisse al fatto, tuttavia, una simile lesione ebbe ripercussioni irreversibili dal punto di vista comportamentale ed emotivo. Egli non era più l’uomo che era un tempo ed il problema non era in un difetto di abilità o capacità fisica, ma il suo nuovo carattere (Damasio, 1994).

L’uomo in seguito alla lesione frontale ebbe delle ripercussioni simili a quelle riscontrate nella psicopatia tra cui l’impulsività e un comportamento aggressivo. Il lobo frontale, in effetti, presiede alla regolazione delle cosiddette funzioni esecutive che implicano i processi decisionali, la pianificazione, l’attenzione, la memoria di lavoro e il controllo degli impulsi. Le altre strutture deficitarie sono: la corteccia temporale, presente bilateralmente e delimitata superiormente dalla scissura di Silvio, implicata nella pianificazione e regolazione del comportamento morale (Dizionario di Medicina; 2010), quindi nell’attribuzione di stati mentali e intenzioni; la corteccia occipitale, importante per l’elaborazione degli stimoli visivi, include la corteccia visiva primaria o striata e le aree extra striate; la corteccia parietale, importante in quanto rappresenta la sede delle aree sensoriali.

A determinare il disturbo, non vi è unicamente un deficit nelle strutture corticali ma anche in quelle sottocorticali come: l’amigdala, struttura sottocorticale limbica, che rappresenta il principale centro emotivo fondamentale nella risposta alla paura e ha un ruolo funzionale nel mediare sia le risposte allo stress che l’apprendimento delle emozioni; l’ippocampo, responsabile del rafforzamento della memoria a lungo termine, soprattutto di quei ricordi fortemente caratterizzati da una componente emotiva, della memoria spaziale e dell’inibizione comportamentale (Dizionario di Medicina, 2010); i gangli della base, piccoli agglomerati di sostanza grigia, implicati nella presa di decisione del comportamento da manifestare in un dato momento; ed infine il lobo dell’insula, collocata all’interno del solco laterale; una delle sue funzioni principali è quella di elaborare emozioni e, grazie alla presenza di neuroni mirror, è coinvolta nei processi di empatia, caratteristica palesemente deficitaria nello psicopatico.

Tuttavia le alterazioni neurologiche da sole, non sono in grado di spiegarne la fenomenologia nella sua pienezza.

 

La psicoterapia in bilico: tra possibilità e scetticismo

La Psicoterapia negli ultimi anni sta entrando in punta di piedi nel linguaggio comune.

 

Dopo la difficoltà di distinzione terminologica dalla classica Psicoanalisi, slegatasi dall’associazione intrinseca con il trattamento esclusivo delle psicopatologie, questa attività fa ancora fatica a far parte degli interventi sanitari ammissibili come soluzione alle problematiche di vita, come può essere un intervento dal dentista o dall’ortopedico, in quanto essa ci tiene molto più spesso in bilico tra l’intraprenderla o meno.

Benché sia ormai opinione comune che la psicoterapia sia una risorsa per tutti, l’idea di entrare in psicoterapia, anche in presenza di disturbi significativi, ci turba, paradossalmente meno del toglierci un dente, eppure a differenza di quest’ultimo lo riteniamo più prorogabile, meno indispensabile. Perché?

Il peso delle parole

Partiamo con l’utilizzo della parola. Nell’ultima Conference Nazionale sulla Psicoterapia al Tempo della Pandemia (La salute Mentale nel Cuore della Salute Pubblica – Roma, Gennaio 2021) è emerso come la parola psicoterapia abbia un peso che non le permetta di essere pronunciata con leggerezza, nemmeno da chi ci lavora. Intraprendere una psicoterapia personale, inserire la psicoterapia nel servizio pubblico, perfino promuovere la psicoterapia sembra avere un tono impegnativo, tanto da far esimere chi ne ha le intenzioni.

Eppure l’etimologia del termine ci da un significato tutt’altro che preoccupante: psiche deriva dal greco ψυχο- che significa anima, mentre terapia, dal greco ϑεραπεία, che sta per cura: letteralmente la “cura dell’anima”.

Ma cosa c’entra l’anima con la Psicoterapia?

Come ci suggerisce il Prof. Galimberti, l’anima non è un concetto esclusivamente cattolico. Fu inventato da Platone per spiegare non tanto un’entità ultraterrena, quanto un organo delle idee, della scienza, un sapere universale uguale per tutti. Tutti abbiamo un’anima, una psiche in questo senso, ovvero un agglomerato di idee e di sensazioni emotive condivisibili, un linguaggio comune che racconta il nostro vissuto, e la psicoterapia si veste del compito di prendersene cura, anzi di accompagnare l’individuo nel percorso di conoscenza di sé stesso, che lo porti ad imparare a prendersi cura di sé da solo.

Prendersi cura di sé in termini di benessere mentale, emotivo e simbolico. Quando si arriva a definire la Psicoterapia in questi termini però ecco che essa perde di credibilità, assumendo un carattere mistico, che poco ha a che vedere con la specializzazione medica alla quale è destinata, insieme a quella psicologica. Non si capisce bene cosa faccia e come lo faccia, diventa un’attività fantomatica, una chiacchierata che “non serve a niente”.

In questo modo la psicoterapia si riduce ad una prestazione sanitaria che non riesce a liberarsi del suo accento aleatorio. Nonostante la mole di contributi scientifici che continuamente vengono pubblicati, la popolazione vacilla ancora tra la sensatezza o meno di un intervento di questo tipo.

Il problema dell’introduzione della psicoterapia come intervento sanitario maggiormente ordinario riflette lo stesso obiettivo per cui è nata: contrastare la resistenza al cambiamento. Finché non riusciremmo a concepire il cambiamento come una possibilità, finché non inizieremo a credere che cambiare è meno faticoso del procedere avanti nonostante le nostre insoddisfazioni, la psicoterapia non riuscirà a trovare spazio nella concezione comune e condivisa da tutti, come metodo concreto di applicazione. Continuerà ad essere vista come impresa mitologica, un viaggio nell’odissea, con poca adesione al mondo reale, dove l’intelligenza si esprime nella realizzazione di una prestazione o nella descrizione di soluzioni quantificabili.

Cosa cambiare?

La problematicità del cambiamento sta nel creare nuovi percorsi neurologici: entrare in terapia significa creare nuovi significati, nuove connessioni neuronali, che permettono di esperire gli stessi avvenimenti che abbiamo vissuto con una prospettiva diversa. E’ come quando guardiamo due facce della stessa moneta. Se una delle due è scalfita, tenderemo a pensare che quella moneta è mal ridotta e non si può riparare. Cercheremo altri rimedi come magari una copertura o un posto dove riporla per non essere costretti a “vedere” quel difetto.

Le coperture però saltano, si consumano, i cassetti si aprono proprio quando ci dimentichiamo che cosa ci avevamo messo dentro ed ecco che la moneta risalta fuori, con quel suo lato difettoso.

Entrare in terapia significa “guardare l’altro lato della moneta”. Prendere atto del fatto che essa non ha perso il suo valore benché sia scalfita, anzi, è diventata anche più preziosa in quanto unica nel suo genere. Avere nella testa non solo e unicamente il suo difetto, ma la moneta nella sua interezza.

La maggior parte delle persone fatica a spiegare cosa li turba e in che modo, anche per questo presentano delle sintomatologie significative. Van Der Kolk, pioniere del trattamento dello stress post-traumatico, riporta una lunga serie di esempi di come le persone che hanno vissuto un trauma, anche di tipo relazionale, manifestino uno stato di confusione e di offuscamento che non gli permette di “vedere” chiaramente le cose. La psicoterapia, attraverso l’utilizzo della conduzione della narrazione, il primo tra gli altri strumenti di cui si avvale, porta l’individuo a raccontare i fatti significativi della propria vita passata e presente, collegandoli tra di loro attraverso domande che non sono state poste prima, aprendo porte verso nuovi significati, ponti di connessione mai immaginati, vere e proprie nuove elaborazioni.

Abbiamo paura di entrare nel nostro mondo interiore, nelle nostre ferite, è preferibile rifuggire con altri metodi, meno introspettivi, per non dover guardare quella lesione, ma ancora di più abbiamo paura della paura stessa, per questo anche quando ci balena l’idea di entrare in psicoterapia tendiamo ad attuare quel fenomeno fisiologico simile a un “freezing mentale” che ci immobilizza dal compiere l’azione.

Il cambiamento verso l’inserimento dell’introspezione è poco interessante a livello governativo, non è un’azione produttiva nell’immediato, è lunga e meticolosa, ma anche sorprendentemente naturale e spontanea.

Le stesse caratteristiche che ha l’evoluzione.

La psicoterapia forse non è mai stata tanto in bilico come in questo momento storico.

Sta a noi, produttori di tale impresa, contribuire alla sensibilizzazione collettiva, alla definizione del nostro lavoro attraverso la divulgazione e il perfezionamento della nostra attività, in modo che nei prossimi anni, si possa scegliere di investire su un tipo di moneta non più intesa come mezzo di possedimento economico, ma come valore diversificato caratteristico di ognuno.

 

 

This is us (2016): identità dei personaggi nel rapporto tra passato e presente

This is us è un brillante tv drama firmato Dan Fogelman in onda dal 2016 e ormai alla sua quinta stagione.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler!

I protagonisti, Kevin, Kate e Randall vivono vite diverse, ciascuno alle prese con i propri problemi. Kevin è l’attore protagonista di una sitcom di successo, ma è insoddisfatto e stanco di essere notato solo per il suo aspetto; Kate è in sovrappeso e cerca di affrontare la sua condizione frequentando gruppi di auto aiuto per persone con il suo stesso problema. Randall lotta con diverse parti di sé cercando di mantenere il controllo su ogni aspetto della sua vita. Questi tre personaggi hanno in comune il giorno del loro compleanno, e non solo.

Si avvisano i lettori che il resto dell’articolo contiene spoiler sulle stagioni della serie andate finora in onda.

This is us è fondamentalmente la storia di una famiglia, i Pearson. Rebecca e Jack Pearson sono una giovane coppia in attesa di tre gemelli che si trova a fare i conti con la perdita di uno dei tre bambini durante il parto. Già dal pilot la serie mette in luce il suo carattere drammatico toccando il delicato tema del lutto perinatale. Al tempo stesso, rivela un altro lato, fatto di speranza, quando Jack e Rebecca riescono a non lasciarsi sopraffare dal trauma della perdita e – semi-citando una scena della serie – “prendono il limone più aspro che la vita potesse dargli e ne fanno qualcosa di simile ad una limonata”. Decidono infatti di tornare comunque a casa con tre bambini adottando un neonato che si trovava quello stesso giorno in quello stesso ospedale dopo essere stato abbandonato davanti alla caserma dei pompieri.

Così ha inizio la storia di Kevin, Kate e Randall e dei loro genitori, Jack e Rebecca. Veniamo quindi trasportati all’interno di un’intricata storyline che si sviluppa su più linee temporali presentandoci tutti i protagonisti in diversi momenti delle loro vite. La scelta di “saltare” da un tempo all’altro in ciascun episodio, dà allo spettatore la possibilità di osservare in che modo il passato ed il presente entrano in connessione.

Randall è probabilmente uno dei caratteri più complessi e interessanti della serie. La sua è la storia di un bambino, di un ragazzo e poi di un uomo che lotta con se stesso, con le tante parti che cercano di trovare posto nella sua identità. L’identità di un afroamericano cresciuto in una famiglia di bianchi; amato infinitamente, ma forse non totalmente compreso. Ossessivamente devoto allo studio e costantemente impegnato nel fare la cosa giusta, Randall deve misurarsi con l’immagine di due padri: prima con Jack, il suo padre adottivo, e più tardi con William, il padre biologico ritrovato dopo tanti anni. Entrambi, Jack e William, hanno avuto problemi di dipendenza – rispettivamente dall’alcol e dalle sostanze –  ma sono stati anche uomini altruisti e capaci di amare. Anche Randall è un padre e un marito amorevole, sempre pronto a battersi per gli altri. Ma la sua smania di fare sempre ciò che è giusto, il suo prendersi cura del prossimo, la sua ricerca di perfezione, finiscono per non essere solo delle buone qualità; al contrario, arrivano al punto da spingerlo verso il panico ogni volta che la realtà si scontra con le sue aspettative. Randall vive più volte episodi di panico e solo dopo la morte di suo padre William prova a sganciarsi da una routine troppo calcolata e a godersi gli attimi e le piccole cose. Nemmeno questo evento è però in grado di cambiare il suo approccio alla vita che lo spingerà ancora a confrontarsi con se stesso e con la sua storia passata. Randall è l’esempio di un uomo che vive una crisi perenne che lo porta a riformulare continuamente il significato della propria esistenza e da questo dubbio scaturisce la sua ansia. Nella crisi siamo portati a scorgere dubbi sul nostro valore e sul valore della vita. Laddove si pensava di conoscere il proprio io, il dubbio si insinua e lo rende estraneo rivelandoci la possibilità di perdere il controllo. I sintomi dell’ansia che spesso mimano una condizione organica, rappresentano invece una creazione della mente che ci segnala la presenza di una frattura. E proprio questa rottura, questa crisi, può avere come conseguenza il bisogno di riflettere su di sé reinterpretando la propria storia, inclusi gli avvenimenti passati, i fatti e le persone che hanno influenzato l’andamento della nostra esistenza (Ghezzani, 2008). In questo senso Randall è costantemente in bilico tra passato e presente e tra le molte parti che cercano di trovare posto nella sua identità.

Anche Kevin e Kate sono personaggi dall’emotività marcata. Kate non è solo una donna che cerca di affrontare i suoi problemi di peso, dietro a questo problema si celano le questioni irrisolte del suo passato, le insicurezze, l’immagine idealizzata di suo padre e le contraddizioni di una complessa relazione madre-figlia. Tutto questo si concretizza nel suo rapporto con il cibo che, se da un lato la rende decisa a portare avanti un percorso di miglioramento personale, dall’altro la fa ricadere in episodi di abbuffate alla ricerca di conforto. Kate ricorre al cibo in momenti difficili. Lo fa quando si ritrova ad affrontare il dolore causato dalla morte di suo padre, o per “guarire” le ferite emotive lasciate da una relazione malsana. Questo tipo di condotta si configura spesso nell’atto dell’abbuffata. Nelle persone con obesità non è raro osservare episodi di binge eating, ma non vi è una correlazione diretta: non tutti i soggetti obesi sono binge-eaters e non tutti i binge-eaters presentano una condizione di obesità (Eifert et al., 2016). Le abbuffate possono essere scatenate da vari fattori, quali ad esempio una precedente restrizione alimentare – una dieta – ma spesso si presentano in connessione con stati affettivi negativi; i disturbi legati all’alimentazione tendono a consolidarsi proprio in presenza di emozioni negative (Hofmann, 2020). Il personaggio di Kate racconta le varie sfumature di una condizione complessa che influenza la sua vita sul piano fisico e psicologico e, ormai adulta, la porta a confrontarsi con un’immagine di sé in cui si rivede ancora come la ragazzina sovrappeso insicura del proprio aspetto e del proprio valore.

Infine Kevin, che all’apparenza ha tutto ciò che si possa desiderare, è in realtà alla perenne ricerca di qualcosa. Rinuncia al ruolo che lo aveva portato al successo per guadagnare credibilità come artista. Si ritrova poi ad inseguire l’idea di una relazione romantica come quella dei suoi genitori, ma finisce ogni volta per scappare o deludere le sue partner. Tutti i tentativi di trovare la sua strada non lo portano mai dove vorrebbe, al contrario, finiscono per condurlo alla dipendenza dall’alcol che aveva sopraffatto anche suo padre Jack. In lui prevale il bisogno di attenzione, di essere riconosciuto come persona degna di affetto e ammirazione: lo ricerca nel suo pubblico, in rocambolesche relazioni pseudo-sentimentali e, infine, nell’amore di sua madre, le cui attenzioni sono da sempre oggetto di contesa tra lui e suo fratello Randall. Assistiamo quindi alla smaniosa ricerca di una vita appagante che sembra però non esserlo mai abbastanza.

Attraverso le storie dei protagonisti, This is us ci regala un quadro piuttosto completo di questi personaggi e della loro famiglia, mostrandoci come ciò che avviene nel presente sia indissolubilmente legato a ciò che è accaduto in passato, come ogni persona incontrata e ogni evento vissuto possa lasciare un segno e dirigere la vita in una direzione piuttosto che in un’altra. E al centro di questo processo, nella storia dei Pearson, si pone la famiglia come luogo e momento fondamentale per l’affermazione e il riconoscimento di sé.

La famiglia […] permette anche una relazione tra le generazioni. Al suo interno, […] le differenti generazioni trovano spazio per incontrarsi, confrontarsi, competere, completarsi, dividersi i compiti e ridefinire i propri confini. […] la maturazione dell’individuo viene accompagnata nell’integrazione delle diverse fasi di sviluppo nella personalità proprio dalla famiglia che permette questa ulteriore distinzione e completamento in quanto essa è il luogo che tiene unite più generazioni (Gambini, 2007, p. 49).

In questo senso, una storia come quella dei Pearson, è il racconto di intere generazioni che prende forma attraverso le vite dei protagonisti.

This is us è una serie ben costruita, complessa e semplice al tempo stesso. Semplice perché racconta qualcosa che in una certa misura è familiare a ciascuno di noi – la storia di una famiglia, delle generazioni passate, presenti e future – che ci rende in grado di apprezzare come la vita sia un’intricata trama della quale tutti facciamo parte. In questo modo, anche il passaggio dalla vita alla morte viene concepito non come qualcosa di netto, ma come un tassello da aggiungere al quadro che definisce chi siamo, attraverso il lascito di chi non c’è più. Seguendo gli intrecci tra passato, presente e futuro, questa serie ci invita dunque a riflettere sul grande disegno che è la vita e su come ognuno di noi sia il prodotto unico di un insieme di fattori ed esperienze che scrivono – spesso al di fuori della nostra consapevolezza – il senso del nostro stare al mondo.

 

L’ Amore come cura: dall’Alchimia della relazione terapeutica nasce un’opera d’arte inimitabile

Nel campo di forze generato all’interno del setting terapeutico fluttuano energie alla ricerca di quella combinazione in grado di costruire una relazione, una combinazione fatta di chimica, cognizione, emozione.

 

La relazione si muove come in uno spartito musicale, fatto di note predominanti, di tonalità, ma anche di pause. L’armonia si ricerca anche nel silenzio più profondo, perché spesso è proprio attraverso il linguaggio del corpo, fatto di autentiche verità, incapace di menzogne, che avviene l’incontro.

Risulta essenziale all’interno di questo spartito emozionale la costruzione di un’alleanza terapeutica, che coinvolga allo stesso modo paziente e professionista. Studi empirici sull’efficacy della psicoterapia dimostrano che tale alleanza risulta essere tra i fattori aspecifici predittivi di un buon esito del trattamento e, dunque, nucleo concettuale e clinico di estrema importanza (Meta-analisi, Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Perché? Semplice, quanto complesso: perché induce cambiamento.

La coazione a ripetere, «quell’eterno ritorno dell’uguale», quell’eterno ritorno che si impone quasi come potenza demoniaca al paziente, ancorato ad uno stato di passività ed immobilità, ben si evidenzia anche nella relazione terapeutica. Appare fondamentale l’innesco di un movimento, che se pur piccolo o lento, verta all’evoluzione, partendo necessariamente da una forte coalizione con L’Io sano.

Forte rilevanza ha nel processo trasformativo la stimolazione dell’immaginario, proprio come accade nella musica: un dettaglio, un profumo che innescano un pensiero, a sua volta modulato in un suono, e poi in una melodia e poi in un’opera. Immaginario che risulta essere terreno fertile, humus in grado di coltivare, anche in mezzo ad un terreno arido, singoli semi che nascondono un potenziale infinito.

Tutto sta nello stimolare la mente all’interno di un setting protetto, un po’ “ovattato” e sospeso, come accade nel Rêve Eveillé, che secondo Desoille rappresenta la via regia di accesso all’Inconscio. Forte la correlazione con la rêverie bioniana, che a sua volta è fortemente legata a quel principio con cui Freud esprime il concetto di «sogno ad occhi aperti», ovvero sogno diurno. Con Bion questo “mondo sospeso” assume un forte potere in ambito psicoanalitico, ovvero la capacità materna di raccogliere e accogliere dentro di sé tutte le impressioni dell’infante a livello sensoriale e di restituirle, in una forma tale da renderla comprensibile alla mente del bambino, in questo modo capace di assimilarla. Ecco un vero e proprio processo trasformativo che innesca quell’alfabetizzazione di elementi beta primordiali, caotici, ancora immaturi dell’infante, per dare forma e significato agli stessi. Con la rêverie la madre provvede a quel bisogno di amore e di sete di conoscenza del piccolo, proprio come accade nel campo terapeutico, fortemente magnetico. Attraverso l’attenzione fluttuante (Freud) il terapeuta, libero da memoria e da desiderio valorizza quell’attività di pensiero onirico diurno, di quel sogno ad occhi aperti, in grado di accelerare il metabolismo basale stagnante del paziente e renderlo capace di movimento. La mente, in questo navigare fluttuante, libera sé stessa, approdando alle rive più nascoste dell’inconscio. Il terapeuta, in questo fruire di pensieri scolpisce nella sua mente, la melodia o l’opera pensata dal suo paziente. D’altro canto, il paziente sente di essere pensato dal terapeuta e dunque, finalmente, amato. L’Esperienza Immaginativa, in un setting estremamente confortante, ma sempre controllato da quelle che sono le regole della seduta psicoterapeutica, risulta essere liberatoria: la mente dà spazio al suo essere più autentico, mettendo in atto un processo di rivelazione di sé, senza più timori.

«Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura»: la mente del paziente supportata dagli spostamenti del terapeuta intraprende un cammino tortuoso alla ricerca della luce. Ecco riecheggiare un Archetipo della nostra cultura, secondo cui per arrivare in cima alla montagna e godere del suo splendido panorama, sudore, fatica accompagnati anche a momenti di frustrazione, sono necessari. Un’ immagine (ἀρχε, τύπος) congiunta all’Inconscio Collettivo junghiano dal quale deriva. Lo Stimolo Immaginativo sotto forma di opera d’arte diventa l’innesco per la creazione di un capolavoro inimitabile. La mente stimolata dalla creatività di un quadro o dai suoni melodici di una poesia viene travolta. Attraverso l’opera artistica si stimolano percorsi mai intrapresi dalla mente, che in un viaggio senza dubbio tortuoso, cerca la sua libertà.

La mente sconfina, da quei milleduecentocinquantagrammi di sostanza gelatinosa si attivano strutture neuronali correlate tra loro, in grado di accendere aree della memoria inconscia a lungo termine e di portare alla luce ricordi visibili sotto nuova prospettiva. Sconfinare spesso è frainteso con quel limite relativo tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che è normale e patologico, una sorta di irrispettoso o non cosciente salto nell’istinto pulsionale, spesso evidenziato in abuso di sostanze o in disturbi come il borderline, dove l’incapacità di contenimento è distruttiva. In realtà, qui lo sconfinare assume un potente significato liberatorio, capace di sciogliere i nodi conflittuali a cui la mente in-consapevolmente rimane aggrappata, per paura di cadere nell’abisso dell’ignoto, ovvero l’inconscio. Creatività che sconfina, dando vita ad un’opera d’arte.

Ma la relazione terapeutica non è essa stessa un’opera d’arte?

In effetti, il potere dell’alleanza all’interno del setting spazia oltre ogni limite. Attraverso l’interazione terapeuta-paziente si plasma un’opera irripetibile, fatta di molteplici sfaccettature che la rendono unica nel complesso. E sicuramente essere creativo, ma sempre correlato alla tecnica, da cui il professionista non può certo prescindere. E arte che è anche techne. Si scava nel profondo, ma mai in solitudine. E un essere nel mondo con, ossia un esserCi, che è allo stesso tempo un essere-CON, quello che Heidegger definisce il Dasein, ovvero quell’ente che strutturalmente è «con gli altri». Una vera forma di Amore che precede la Cura o forse meglio si intreccia a lei, in quanto l’Amore stesso è cura, che va oltre l’aspetto più meramente contrattuale: diventa un cammino di colori e di emozioni che si addentra in una dimensione più creativa per entrambe le componenti (Paziente-Terapeuta), dimensione che ha un vero e proprio effetto catartico.

L’Amore riesce a trascendere il mondo e permette all’essere di abbandonarsi nelle mani dell’Altro. La terapia diventa Amore all’interno di un luogo di cura.

Dunque la parola di chi ha guarito è proprio quella dell’Amore, che oltrepassa e ovviamente deve oltrepassare ogni dimensione materiale, non è né Eros, né Philia.

L’Alchimia nata in questo viaggio cura ogni singolo dettaglio, incessantemente instancabile, in quanto espressione assoluta di Agape.

Fattori di stress e adattamento dei migranti

Negli ultimi due decenni si è verificata la più grande migrazione forzata di popolazioni colpite da conflitti civili. La natura traumatica di questi eventi fa nascere un enorme bisogno di fornire salute mentale e supporto psicosociale ai migranti forzati colpiti dai conflitti (Fazel et al., 2012).

 

Ricerche precedenti, infatti, hanno riscontrato, fra essi, un’elevata frequenza di disturbi mentali, tra cui ansia, depressione e disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Morina et al., 2018), oltre ad aver scoperto che il disagio psicologico tra i rifugiati migranti forzati è ampiamente spiegato dalle esposizioni a fattori di stress che si verificano lungo il processo migratorio (Zimmerman et al., 2011). Le caratteristiche demografiche pre-migrazione come l’età più avanzata, il sesso femminile, il livello di istruzione più alto e lo status socioeconomico più elevato non sono coerentemente associati al disagio psicologico (Bogic et al., 2015), al contrario delle esperienze post-migrazione, le quali sono state sempre più studiate: la vita quotidiana dopo l’esposizione al conflitto e la migrazione è spesso afflitta da richieste che minano la salute quanto o più dell’esposizione al trauma stesso (Chen et al., 2017).

Secondo il Daily Stressor Model (Miller e Rasmussen, 2014), vi è una categoria che coinvolge fattori di stress sociali e materiali presenti quotidianamente, come la povertà, l’isolamento sociale e quartieri poveri o non sicuri, e un’altra categoria che è costituita da fattori di stress potenzialmente traumatici che si verificano in modo ricorrente, ma non necessariamente nel quotidiano, come conflitti armati, violenza sessuale e morte di persone care. Questo modello presuppone che la precedente esposizione al trauma contribuisca a un maggior numero di esperienze negative nella vita quotidiana (cioè, maggiori fattori di stress quotidiani), che, a loro volta, predicono una salute mentale peggiore durante o dopo i conflitti (Miller e Rasmussen, 2014). Il modello ecologico sociale ha suggerito che il disagio psicologico dei rifugiati dipende dai fattori di stress in corso e dalla precedente esposizione al trauma (Miller e Rasmussen, 2017). I fattori di stress legati allo spostamento sono un sottoinsieme di fattori di stress quotidiani che hanno origine sia dai conflitti armati che dalla migrazione forzata. I fattori di stress combinati, sia materiali (ad esempio, la povertà, la perdita di beni) che interpersonali (ad esempio, il conflitto e la violenza in famiglia, la perdita di reti di supporto sociale), contribuiscono a peggiorare la salute mentale e il funzionamento della famiglia. Secondo la teoria Drive to Thrive (DTT) il trauma contribuisce a una minore regolarità delle routine quotidiane, che, a sua volta, predice una salute mentale più scadente. Il DTT distingue due tipi di routine quotidiane: (1) primarie, ovvero riferite a comportamenti necessari per la sopravvivenza, come l’igiene, il sonno, l’alimentazione e la manutenzione della casa; (2) secondarie, riferite a comportamenti opzionali che dipendono dalla motivazione e dalle preferenze, come l’esercizio fisico, il tempo libero, le attività sociali e l’occupazione o il coinvolgimento nel lavoro (Hou et al., 2019). In condizioni di privazione immediata come i contesti di post-migrazione o i disastri, una ridotta regolarità delle routine primarie piuttosto che secondarie potrebbe avere associazioni più forti con una cattiva salute mentale (Doğan e Kahraman, 2011). Un recente studio meta-analitico è stato condotto per fornire una revisione completa e quantitativa del legame tra le esperienze di vita quotidiana e la cattiva salute mentale, al fine di informare lo sviluppo di screening della salute mentale e l’intervento economicamente vantaggioso per gli individui a rischio dopo la migrazione forzata (Betancourt et al., 2010).

In primo luogo, gli autori hanno rivisto e identificato diversi tipi di esperienze di vita quotidiana post-migrazione sfavorevoli e gli esiti della salute mentale che sono stati studiati in migranti forzati colpiti da conflitti. In secondo luogo, hanno quantificato le associazioni tra esperienze di vita quotidiana e gli esiti più comuni di salute mentale: sintomi d’ansia, sintomi depressivi, sintomi PTSD, distress generale e benessere generale. Infine, hanno testato i potenziali mediatori e moderatori delle associazioni tra esperienze di vita quotidiana e salute mentale, e i loro effetti.

Gli studi sono stati reperiti tramite PsycInfo, PubMed e Web of Science. Sono stati inclusi quelli condotti prima e nel corso dell’anno 2018. I criteri di inclusione sono stati i seguenti: ricerche empiriche che coinvolgevano sia migranti forzati, sia quelle popolazioni colpite da conflitti, che avessero almeno una misura quantitativa, chiaramente definita, per ciascuna delle esperienze di vita quotidiana e degli esiti di salute mentale. Due ricercatori indipendenti (NL e LL) hanno estratto i seguenti dati dagli studi inclusi: disegno di ricerca, metodo di campionamento, età, sesso, tipo di popolazione, misurazione dell’esposizione al trauma, esperienze di vita quotidiana e salute mentale. I dati sulle esperienze della vita quotidiana sono stati categorizzati in: (1) fattori soggettivi di stress quotidiano, misurati a loro volta nella loro valenza emotiva o sentimenti di angoscia associati all’esperienza (Morville et al., 2015); (2) fattori interpersonali di stress quotidiano, a loro volta valutati in termini di interazioni interpersonali associate all’esperienza post-migrazione (Kashyap et al., 2019); (3) fattori materiali di stress quotidiano, riferiti a diversi tipi di difficoltà come ad esempio l’alloggio, il vicinato, le questioni legate all’occupazione e l’accesso ai servizi sociali e di salute mentale (Georgiadou et al., 2018); (4) fattori misti di stress quotidiano, ossia una combinazione degli stressors quotidiani precedentemente elencati (Idemudia et al., 2013). Punteggi più alti indicavano maggiori stressors quotidiani.

Dei 4.616 articoli ottenuti dalla ricerca iniziale, 59 sono stati ritenuti conformi ai criteri di inclusione predefiniti: questi hanno coinvolto 10.680 (60%) rifugiati, 1.755 (10%) richiedenti asilo, 2.054 (12%) rifugiati e richiedenti asilo (campione misto), e 3.274 (18%) immigrati. Complessivamente, le esperienze di vita quotidiana sfavorevoli sono state associate a esiti di salute mentale peggiori. Gli stressor quotidiani misti avevano la più forte associazione con i risultati di salute mentale, seguiti dagli stressor quotidiani interpersonali. I fattori soggettivi di stress quotidiano, definiti come il disagio emotivo percepito associato a diverse esperienze quotidiane, erano positivamente associati all’ansia e ai sintomi del PTSD e al distress generale. I fattori di stress quotidiani interpersonali (per esempio, conflitto, discriminazione, isolamento, mancanza di supporto emotivo) e misti sono stati associati positivamente all’ansia, ai sintomi depressivi e PTSD, e al distress generale. I fattori di stress quotidiani materiali (ad esempio, contesti abitativi/di vicinato, difficoltà di alloggio, problemi legati all’occupazione, accesso ai servizi sociali o di salute mentale) erano associati positivamente ai sintomi del PTSD, allo stress generale e alla compromissione funzionale. I fattori di stress quotidiani misti erano associati positivamente con i sintomi di ansia, i sintomi depressivi, i sintomi del PTSD e il disagio generale. Le analisi dei moderatori hanno rivelato che le dimensioni degli effetti erano più forti per (1) i paesi ospitanti in via di sviluppo rispetto ai paesi ospitanti sviluppati, (2) i fattori di stress misti rispetto ad altri tipi di stressor, (3) stress generale rispetto ai sintomi del PTSD e al benessere generale, e (4) bambini e adolescenti rispetto agli adulti. Inoltre, è emerso che il tipo di esito di salute mentale, il gruppo di età, e il tipo di paesi ospitanti hanno moderato le dimensioni degli effetti tra le esperienze di vita quotidiana e gli esiti di salute mentale. Pertanto, è possibile concludere che le esperienze di vita quotidiana sfavorevoli nei paesi ospitanti potrebbero avere un impatto più forte sulla salute mentale rispetto alla precedente esposizione al trauma tra i migranti forzati. L’analisi di mediazione, invece, ha rivelato che l’associazione positiva tra una precedente esposizione traumatica e una cattiva salute mentale (sintomi e angoscia generale) è stata completamente mediata da fattori di stress quotidiani soggettivi, interpersonali, materiali e dalle routine primarie, e parzialmente mediata dai fattori misti di stress quotidiano; l’associazione positiva tra trauma precedente e successivi sintomi di PTSD era completamente mediata da fattori di stress giornalieri soggettivi; l’associazione positiva tra precedente esposizione traumatica e successivi sintomi di ansia, depressione e PTSD è stata completamente mediata dagli stressor quotidiani interpersonali; le associazioni positive tra trauma precedente e i successivi sintomi di ansia e PTSD erano completamente mediate dalle routine primarie; le associazioni positive tra precedente esposizione traumatica esposizione e la successiva depressione, i sintomi del PTSD e l’angoscia generale erano parzialmente mediate da fattori di stress quotidiani misti.

Questo studio è una delle prime revisioni quantitative complete sull’adattamento dei migranti forzati. Nello specifico, questi risultati suggeriscono da un lato la necessità di valutare l’impatto di diversi tipi di esperienze sfavorevoli della vita quotidiana sulla salute mentale in contesti di post-migrazione, dall’altro di concentrarsi sul mantenimento delle routine quotidiane primarie, tra cui la dieta, il sonno, l’igiene e la manutenzione della casa, per favorire l’adattamento psicologico (Hou et al., 2019). Riassumendo tutti gli studi pertinenti fino alla fine del 2018, gli autori suggeriscono che mentre l’impatto negativo del trauma precedente sulla salute mentale rimane importante, il suo impatto negativo è probabilmente indiretto attraverso il peggioramento di diversi aspetti della vita quotidiana, principalmente l’angoscia soggettiva e le interazioni interpersonali.

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