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Uomo, partner e padre. La perdita perinatale e l’espressione del lutto maschile

Come per la donna, anche per l’uomo la perdita perinatale risulta essere tanto più devastante quanto maggiore è l’investimento emotivo verso il nascituro.

 

Abstract

Perdere un figlio in gravidanza interrompe il processo di costruzione genitoriale e rappresenta per l’uomo la dissoluzione del sogno di paternità. Sebbene coinvolti diversamente rispetto alle madri nel processo di gravidanza, i padri risentono di questo evento in modo profondo, e spesso inosservato agli occhi della società. Le espressioni del lutto maschile possono assumere infatti forme diverse rispetto a ciò che ci si può comunemente aspettare, e questa spaccatura diventa fonte di ulteriore sofferenza emotiva e psicologica.

La posizione maschile in gravidanza

Al giorno d’oggi, la nascita di un bambino è per lo più l’esito di una scelta ponderata e unica all’interno del ciclo di vita genitoriale ed è un momento di gioia per la coppia (Walsh, McGoldrick, 1991). Ancora prima del parto, attraverso il processo di transazione al ruolo genitoriale si innescano una molteplicità di movimenti intrapsichici e interpersonali che mettono in gioco diversi aspetti della vita di un individuo.

La posizione maschile in corso di gravidanza è diversa rispetto a quella femminile: se per la donna il percorso di preparazione alla maternità pone le proprie radici sulla corporeità della gravidanza, l’uomo, al contrario, ne è escluso e può averne una percezione solamente indiretta (Cacciatore, 2013). Non tutti gli uomini riferiscono di sentirsi padri durante la gravidanza: infatti, per alcuni è il momento del parto ad aprire le porte della paternità (Lacroix, Got, Callahan, Séjourné, 2016). Altri invece si percepiscono padri prima che il bambino nasca e iniziano precocemente una relazione affettiva con il nascituro. Un elemento che spesso aiuta nella costruzione del senso di genitorialità paterno sono le visite ecografiche che possono rivelarsi come dei momenti di grandissima importanza esperienziale, oltre che di contatto con il bambino: la percezione del battito cardiaco e la visione del figlio danno al padre una rappresentazione sensoriale che testimonia la reale presenza del nascituro (Huffman, Schwartz, Swanson, 2015). Così come per le donne, anche per i padri l’attesa della nascita diventa un tempo da condividere, che consente di creare una nuova narrazione, fatta di aspettative e di fantasie che abitano un futuro familiare ((Murphy, 2012; Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

La dissoluzione del sogno di genitorialità

La perdita di un bambino atteso in gravidanza è la dissoluzione del sogno genitoriale (Walsh, McGoldrick, 1991): fin dalle prime fasi della gestazione, la madre e il padre sognano il futuro con il proprio bambino, pianificando i posti da visitare, le scuole da frequentare oppure i giochi da fare insieme (Weaver-Hightower, 2012). La perdita di un figlio in gravidanza può essere vissuta come l’arresto di un progetto co-costruito con la partner e le emozioni ambivalenti che ne derivano possono comportare un senso di sospensione, come se non fossero riusciti a portare a termine qualcosa (Lacroix, Got, Callahan, Séjourné, 2016). Tale rottura nell’immaginario genitoriale può portare alla formazione di un vissuto ambiguo, che assume caratteristiche diverse per ciascuna persona.

Inoltre, sembra che l’esperienza paterna si modifichi e aumenti di intensità nel corso dei tre trimestri di gestazione: durante il primo, i padri si mostrano emotivamente più distanti, nel secondo, quando iniziano a percepire i movimenti fetali, sentono un’aumentata consapevolezza della gravidanza; infine, nel terzo, aumenta sia l’investimento emotivo nei confronti del bambino sia il desiderio di definirsi come padri (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). Come per la donna, anche per l’uomo la perdita di un figlio in epoca gestazionale risulta essere tanto più devastante quanto maggiore è l’investimento emotivo verso il nascituro. Se l’esperienza di perdita avviene in età gestazionale più tardiva, è più probabile che ci sia una percezione del bambino come reale, e che il dolore della perdita sia più impattante rispetto a coloro la cui perdita occorre più precocemente (Huffman, Schwartz, Swanson, 2015). Sebbene la gravidanza per l’uomo sia psicologica, emotiva e non incarnata come quella della partner, anche i padri possono provare dolore dopo la perdita del bambino e fare esperienza della mancanza di riconoscimento come genitore in lutto (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

La sofferenza paterna

Le varie costruzioni culturali del ruolo maschile entrano in conflitto quando si parla di perdita perinatale: vi è una concomitanza tra “l’essere padre” e “l’essere un uomo in lutto”, due cluster sociali poco conciliabili in un sistema di attribuzioni correlate al gender (Bonnette, Broom, 2011). Alcuni studi approfondiscono questo aspetto e confermano che esistano dei pregiudizi influenzati da dinamiche di genere, che sembrano porre una certa enfasi nel richiamare il padre più in una posizione supportiva nei confronti della partner in lutto, piuttosto che in una ugualmente espressiva.

In questa posizione, l’uomo è socialmente veicolato verso l’internalizzazione del proprio vissuto di lutto e verso il “dover essere forte”, dovendosi adeguare a forme culturali di mascolinità.

Le emozioni esperite sono qualitativamente simili a quelle della donna, sebbene con alcune dissomiglianze sul piano espressivo: l’uomo ha minore predisposizione al pianto, può sentire meno la necessità di un supporto sociale e, infine, può esprimere la propria sofferenza attraverso l’uso di alcool, di droghe o altre forme di agiti. Shock, rabbia, incredulità, ansia, frustrazione, paralisi e sentimenti di lutto possono essere presenti e variare di intensità da un individuo all’altro (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). In uno degli studi pioneristici sullo sviluppo di sintomi nei padri a seguito di una perdita in gravidanza, si afferma che di frequente si sviluppa una significativa sintomatologia ansiosa, depressiva o post-traumatica, anche se di impatto inferiore rispetto a quella materna (Turton, Badenhorst, Huges, Ward, Riches & White, 2009).

L’impatto del sostegno sociale

Il supporto sociale può sortire un effetto positivo sull’elaborazione del lutto nei padri: coloro che ricevono un maggiore sostegno in seguito alla perdita del bambino mostrano reazioni al lutto significativamente meno intense rispetto ai padri che non lo hanno ricevuto. Diventa quindi importante, in ottica preventiva, che l’espressione della sofferenza diventi lecita socialmente, e trovi spazio di accoglienza.

Il supporto di professionisti del settore e la partecipazione a gruppi di auto-mutuo-aiuto può non solo agevolare la risoluzione della sintomatologia paterna, ma anche accrescere la capacità di adattamento alla perdita. “Ogni esperienza di vita richiede riconoscimento da parte dell’altro per poter entrare a far parte della propria storia in modo integrato. […] il bisogno di validazione è particolarmente importante per facilitare il processo di lutto paterno, perché restituisce all’uomo la propria identità di padre, messa dolorosamente in discussione dalla perdita” (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018, p. 54).

Vite mutilate: conseguenze psicologiche delle Mutilazioni Genitali Femminili

L’intervento sulle donne vittime di Mutilazioni Genitali Femminili dovrebbe consistere in un approccio integrato, realizzato mediante l’unione di un trattamento medico-chirurgico con uno psicologico.

 

Le Mutilazioni Genitali Femminili: introduzione

La pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili, nota con l’acronimo MGF, è attualmente riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani; viene definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’UNICEF come “una tipologia di intervento volto a produrre un’ablazione parziale o totale dei genitali esterni della donna o qualsiasi altra lesione degli organi genitali femminili, praticata per ragioni culturali e non a fini terapeutici”, ed è spesso effettuata in condizioni igieniche precarie e senza l’ausilio di farmaci anestetici. Attualmente il Parlamento Europeo sta progettando una serie di azioni comuni volte a contrastare tale pratica, ma purtroppo la strada verso la soluzione del problema è ancora lunga, dal momento che si stima che attualmente 200 milioni di donne e ragazze di tutto il mondo vivano con le conseguenze di tale pratica, di cui 600.000 solo nel continente Europeo e con l’incidenza maggiormente elevata in alcuni paesi del Medio Oriente (Iraq e Yemen) e in alcune aree dell’Asia orientale, come l’Indonesia, nelle quali si arriva a percentuali di attuazione del 90%.

Le conseguenze a breve e lungo termine

Tra le conseguenze negative derivanti dalle Mutilazioni Genitali Femminili risultano essere maggiormente evidenti quelle fisiche, tra le quali sono annoverati non solo il dolore cronico legato alle pratiche sessuali e alla minzione, ma anche una maggior esposizione allo sviluppo di patologie sessualmente trasmissibili, nonché l’aumento del rischio di infertilità o, nel caso di una gravidanza, di complicazioni che possono condurre all’aborto spontaneo o al decesso della gestante; recentemente, tuttavia, un numero sempre maggiore di studi si è concentrato sulle conseguenze psicologiche di tale pratica, tra cui lo sviluppo di una sintomatologia ansiosa, depressiva o di sintomi riferibili al Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) che, inserito dal DSM 5 (APA, 2013) tra i “Disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti”, consiste in una forma psicopatologica che può insorgere come conseguenza dell’esposizione ad esperienze, dirette o indirette, estremamente traumatiche e violente e si può manifestare, tra l’altro, mediante sintomi intrusivi o dissociativi (quali incubi ricorrenti o frequenti pensieri negativi riguardanti l’evento e flashback), intensa sofferenza psicologica e alterazione del pensiero e dell’emotività. Uno studio del 2015 (Knipscheer, J., 2015), condotto su un campione di 66 donne immigrate vittime di MGF, è stato tra i primi a valutare, mediante strumenti standardizzati quali l’HTQ-30 (Mollica, R. F., et al., 1992), l’esistenza di una correlazione tra la pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili e l’insorgenza di un ampio spettro di disturbi mentali nel lungo termine: dai risultati è emerso che 1/6 delle vittime presentava i sintomi del Disturbo da Stress Post-Traumatico e ben 1/3 di esse aveva ottenuto punteggi elevati relativi ai sintomi depressivi e ansiosi, con un’incidenza maggiore nelle donne meno integrate a livello sociale, prive di un lavoro stabile e consumatrici abituali di sostanze psicoattive. Tuttavia, benché quasi la metà delle persone prese in esame presentasse dei sintomi psicopatologici, essi assumevano la forma di un disturbo conclamato solo in una ridotta percentuale di vittime. Gli autori hanno ritenuto, tuttavia, che i risultati ottenuti dallo studio tendessero a sottostimare la sintomatologia reale, attribuendo tale risultato sia al tentativo, da parte delle partecipanti, di evitare i ricordi eccessivamente dolorosi, sia all’influenza della loro cultura di appartenenza, che potrebbe indurre le donne da un lato ad essere riluttanti nell’esprimere le proprie emozioni e, dall’altro, a giustificare la pratica cui sono state sottoposte, percepita come una garanzia di bellezza, castità e onore e di un futuro buon matrimonio (Muteshi, J. K., et al., 2016). Un’incidenza sintomatologica ancora più rilevante è quella registrata da una review del 2018 (Lever, H., et al., 2018), relativa a un campione di vittime di MGF richiedenti asilo negli Stati Uniti, secondo la quale la presenza di una sintomatologia ansiosa e/o depressiva è riscontrabile nel 92% dei casi, mentre una sintomatologia post-traumatica è individuabile nella totalità delle pazienti analizzate. Secondo gli autori, tali sintomi non possono essere ricondotti esclusivamente alle Mutilazioni Genitali, ma ad un più ampio spettro di violenze cui le vittime di MGF sono frequentemente sottoposte fin dall’infanzia. I risultati di tali studi sembrano dunque evidenziare la necessità di intervenire non solo sulle conseguenze fisiche, ma anche su quelle psicologiche derivanti dalle Mutilazioni Genitali Femminili.

La vita dopo il dolore: la rinascita è possibile?

L’intervento sulle donne vittime di Mutilazioni Genitali Femminili dovrebbe consistere in un approccio integrato, realizzato mediante l’unione di un trattamento medico-chirurgico con uno psicologico. Infatti, se da un lato risulta essere fondamentale l’attuazione di operazioni di ricostruzione genitale sulle donne con MGF, in termini di riduzione del dolore e di recupero di una sessualità positiva (Foldés, P., et al., 2012), ma anche in termini di miglioramento dell’immagine di sé e del proprio corpo (Buggio, L., et al., 2019), dall’altro, anche gli interventi di stampo psicologico hanno dimostrato la propria efficacia sulle vittime di tale pratica: una review del 2017 (Adelufosi, A., et al., 2017) ha suggerito la possibile utilità della psicoterapia, in particolare di stampo Cognitivo-Comportamentale, nell’intervento sulle pazienti con Mutilazioni Genitali Femminili, a causa della particolare efficacia di tale terapia sulle sintomatologie ansiose, depressive e post-traumatiche. Uno studio condotto in Kenya (Okoth, Z., et al., 2017) su delle ragazze del luogo che avevano subito le Mutilazioni Genitali, ha inoltre dimostrato l’utilità di tecniche proprie della psicologia, quali lo Psicodramma e il Role Play, nell’aiutare le pazienti ad esprimere maggiormente le proprie emozioni e condividere le proprie esperienze, con la positiva conseguenza di riscoprire e valorizzare gli aspetti positivi della propria personalità e di poter, così, sviluppare le proprie potenzialità.

Conclusioni

Attualmente, il Parlamento Europeo si sta attivando sempre più sia nel contrastare la pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili, sia nel fornire servizi e cure a coloro che ne sono già state vittime, anche in Europa, mediante un’integrazione di approcci medico-chirurgici e psicologici. Un passo importante è stato segnato dalla vittoria da parte di un gruppo di studentesse keniane, nel 2019, del “Premio Sacharov per la liberà di pensiero” -assegnato dal Parlamento Europeo-, per lo sviluppo dell’applicazione per smartphone “i-Cut”, ideata per soccorrere le vittime di mutilazione genitale, fornendo assistenza nella ricerca di un centro di accoglienza presso il quale cercare aiuto e denunciare il crimine alle autorità. La speranza è che a tali interventi possa essere associata, in futuro, un’opera di rieducazione e diffusione di informazioni nelle regioni maggiormente colpite dalla piaga culturale delle mutilazioni genitali, poiché alla base del mantenimento di tale pratica c’è spesso non solo una mancata consapevolezza sulle conseguenze negative per la salute, specialmente nel lungo termine, ma anche una serie di convinzioni erronee, condivise dalle stesse donne, su tale pratica, culturalmente considerata come l’unico modo sia per evitare che le donne diventino sessualmente promiscue, sia per rimuovere dal corpo femminile un organo ritenuto tipicamente “maschile”, ossia il clitoride (Ahanonu, E.L. & Victor, O., 2014). Del resto, come evidenziato dall’opera di Peter Nguura, un medico africano impegnato in prima persona nella lotta alle Mutilazioni Genitali Femminili nelle comunità Masai in Kenya, il primo passo per modificare una tradizione consiste nell’intervenire sul pensiero di coloro che la praticano (Graamans, E., et al., 2018).

 

Disforia di genere e comorbilità

Con disforia di genere si intende il malessere percepito da un individuo che non si riconosce nel suo sesso fenotipico o nel genere assegnatogli alla nascita.

 

Disforia di genere (DG) e transessualismo sono i termini usati per descrivere la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un’intensa e persistente identificazione col sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si presenta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta disforia di genere) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.

Uno dei punti cruciali nella diagnosi di disforia di genere è quello di escludere quei fattori che sono legati ad uno stato di confusione legata all’identità sessuale di una persona. Il disturbo borderline di personalità può essere associato ad una confusione legata alla propria identità, e lo scopo del presente articolo è quello di indagare questo aspetto.

Il disturbo borderline di personalità include tra le caratteristiche essenziali la paura del rifiuto, l’instabilità delle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, nell’identità e nel comportamento.

Secondo Jorgensen (2006), il disturbo dell’identità è uno dei sintomi chiave del disturbo insieme all’instabilità relazionale. Un’alta percentuale di pazienti donne con DBP (disturbo borderline di personalità) va incontro ad una diagnosi di disturbo dell’identità. Questo disturbo si presenta come incertezza su diversi fronti, ad esempio la propria immagine, l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

Il legame tra disforia di genere e altre psicopatologie

Per quanto riguarda il legame tra disforia di genere e altre psicopatologie, si postula che la disforia di genere si associ spesso a Disturbi di Personalità.

Gli psicoanalisti, ad esempio, ritenevano che i pazienti con disforia di genere fossero gravemente psicopatologici; Sperber (1973) credeva che coloro che mostravano una Disforia di Genere presentassero personalità di tipo Borderline; Chiland (2000) considerava il transessualismo come un Disturbo Narcisistico con disturbo dell’immagine di sé. Hoening e coll. (1971) affermavano che il 70% dei transessuali mostrava una diagnosi psichiatrica, sebbene solo il 13% di questi fosse effettivamente psicotico. Meyer (1974) e Steiner (1985) riscontrarono Personalità Narcisistica, Borderline e Antisociale, oltre a tratti schizoidi, depressione, ansia e tendenze suicidarie.

Per quanto concerne la popolazione femminile, Lothstein (1983,1984) constatò una significativa comorbilità psichiatrica e Bockting e Coleman (1992) rilevarono la presenza di Ansia e Depressione e Disturbi dell’Asse II, nel disturbo di identità di genere. Hartmannn e coll. (1997), inoltre rilevarono una notevole disregolazione in senso narcisistico.

Sulla base di queste ricerche e dati, è importante comprendere se la patologia mentale mostrata dalle persone con una disforia di genere sia dovuta alla disforia stessa, oppure sia dovuta all’esposizione a fattori stressanti e alle difficoltà derivanti dal trovarsi a vivere in una società che tende a stigmatizzare e ad ostracizzare la diversità.

Alla luce di queste considerazioni, è doveroso anche citare quella parte della letteratura scientifica che mostra, invece, come le persone con varianza di genere non debbano mostrare necessariamente una grave comorbilità con disturbi psicopatologici.

Bentler e colleghi (1970), ad esempio, non osservarono importanti diversità sulle scale nevrotiche o psicotiche tra transessuali e soggetti di controllo. Cole e coll. (1997), evidenziarono che, su un campione di 435 transessuali, meno del 10% mostrava precedenti disturbi mentali. Carroll (1999) affermò che le persone transgender non evidenziavano livelli di disturbi mentali più elevati della popolazione non clinica. Un dato interessante fu fornito da Miach e coll. (2000), i quali rilevarono in soggetti definiti come transessuali bassi livelli di psicopatologia; mentre riscontrarono psicopatologie da moderate a gravi nei soggetti a cui era stato diagnosticato un ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’adolescenza e dell’età adulta, tipo non transessuale’.

Per quanto riguarda la comorbilità tra disturbo dell’identità di genere e le patologie in Asse I, è stata osservata, un’associazione tra disforia di genere e i Disturbi Alimentari, i quali richiedono un’attenta categorizzazione, poiché è possibile che l’ossessione di modificare il proprio corpo possa essere legata a temi dismorfofobici tipici di tali disturbi (Dettore, 2005). Questa comorbilità è stata osservata quasi esclusivamente in soggetti maschi, e il disturbo alimentare prevalentemente rilevato in associazione a DG era l’anoressia nervosa.

Un’ulteriore area di interesse è quella che concerne il rischio suicidario. In uno studio, Mathy osservò come le persone transgender riferissero significativamente maggiori ideazioni e comportamenti suicidiari rispetto a tutti gli altri gruppi (maschi eterosessuali, femmine eterosessuali e maschi omosessuali), con l’eccezione delle donne omosessuali.

In definitiva, è difficile affermare con certezza la presenza di specifiche psicopatologie associate alla disforia di genere, anche a causa della grande variabilità individuale dovuta a una moltitudine di fattori, quali il sesso biologico, la cultura di appartenenza, le esperienze precoci, l’aver subito esperienze di stigmatizzazione per la propria identità di genere e così via.

Tuttavia, è doveroso segnalare quei disturbi che sono stati associati frequentemente alla disforia di genere: il disturbo di Asse I che più di frequente è stato osservato in comorbilità al DG è il disturbo da abuso di sostanze, e questo è stato confermato anche da Hepp e coll. (2005), i quali riscontrarono anche una massiccia presenza di disturbi dell’umore, in particolare di depressione maggiore. Nel 41% del loro campione, inoltre, gli autori riscontrarono la presenza di uno o più disturbi di personalità, appartenenti prevalentemente al Cluster B (22,6%) e rilevarono che il disturbo di personalità più diffuso era il disturbo di personalità Borderline. Questi risultati ricalcano quelli riportati da un articolo di Collier e coll. (1997), i quali mostrarono che il disturbo in Asse I più diffuso in pazienti con disforia di genere fosse la depressione maggiore, e che il disturbo di personalità prevalente fosse quello Borderline. Recentemente, Duisin e coll. (2008) hanno confermato questi risultati, affermando che i disturbi di personalità più diffusi nel loro campione di soggetti con DG, erano il disturbo di personalità borderline e il disturbo di personalità paranoide.

Devita Singh e coll. (2010) hanno valutato l’ipotesi che il DG fosse maggiormente associato al Disturbo Borderline di Personalità nei soggetti femminili. Per farlo, hanno indagato un campione di 100 donne affette da DBP utilizzando i criteri diagnostici del DSM-IV-Tr. I risultati della loro ricerca non mostrano differenze significative nella comorbilità del DG mettendo a confronto un campione di donne affette da DBP e il gruppo di controllo. Nonostante ciò, il primo gruppo ha mostrato punteggi più alti in relazione alla comorbilità fra i 2 disturbi, anche se non statisticamente significativi. Quello che emerge da questo studio, suggerisce che non ci sia una corrispondenza abbastanza solida fra i due disturbi. I disturbi legati all’identità del DBP non sembrano influire in modo significativo su un possibile sviluppo del DG.

Disforia di genere e disturbo borderline di personalità

Uno studio di Sonia Marantz e coll. (1991) ha confrontato madri di ragazzi con disturbo dell’identità di genere (DG) con madri di ragazzi non affetti da patologie mentali per determinare se le differenze nella psicopatologia, negli atteggiamenti e nelle pratiche di educazione risultassero significative. I risultati dell’intervista diagnostica per il DBP e il Beck Depression Inventory hanno rivelato che le madri di ragazzi con DG avevano più sintomi di depressione e più spesso soddisfacevano i criteri per DBP rispetto ai controlli. Nello specifico, il 53% delle madri di figli affetti da DG presentavano un quadro sintomatologico che soddisfaceva i criteri per il DBP e per la depressione, mentre solo il 6% dei controlli mostrava una di queste patologie.

Differenze significative si sono verificate nelle seguenti aree: relazioni interpersonali, psicosi e affettività. Sebbene nessuna delle madri nel gruppo di controllo abbia ottenuto punteggi nell’intervallo borderline della psicopatologia, il 25% delle madri di ragazzi con DG lo ha fatto.

Le madri in quest’ultimo gruppo che non hanno ottenuto punteggi tali da soddisfare i criteri per DBP, mostravano comunque punteggi più alti nelle scale di misura del comportamento patologico rispetto al gruppo di controllo.

I risultati suggeriscono che le madri di figli con DG abbiano difficoltà di lunga data nella regolazione dell’affetto e nelle relazioni interpersonali. Particolari difficoltà su questioni di separazione, depressione e gestione dell’aggressività. Si descrivono come alla ricerca compulsiva di compagnia, inclini a relazioni intense, emotivamente tempestose, rabbiose e a intensi sentimenti di solitudine, vuoto e depressione. Tendono a fare richieste eccessive alle persone e a sentirsi in diritto di farlo.

Conclusioni

Da quanto emerge dagli studi e le ricerche presi in esame, esistono dati contraddittori per quanto riguarda il tema centrale. Vari studiosi hanno provato a verificare se esistesse oppure no una correlazione fra DG e disturbi psicologici di asse 1 o asse 2. La domanda che ci poniamo è se i disturbi che si associano al DG siano connessi a questo, oppure se siano maggiormente legati alle problematiche sociali che il DG fa emergere, come ad esempio lo stigma sociale (come già trattato all’interno di questo articolo in relazione agli studi di Bentler e Prince (1970), Cole e coll. (1997), Carroll (1999), Miach e coll. (2000)). In effetti i soggetti affetti da questo disturbo si trovano ad affrontare delle situazioni stressanti, che riguardano sia il pregiudizio e la non accettazione degli altri, sia l’incongruenza riguardo all’identità di genere ed i sentimenti e il giudizio che provano verso sé stessi. Nonostante questa contraddittorietà, esistono numerose ricerche su questo argomento la cui rilevanza sembra aumentare giorno dopo giorno, visto il periodo storico attuale, in cui, almeno a livello superficiale, vi è stata una notevole apertura nei confronti delle questioni sociali relative al genere e alla sessualità. Anche se a livello statistico la comorbilità con altri disturbi risulta essere nelle maggior parte dei casi non significativa, questo dato si contrappone spesso con la realtà empirica, che mostra un elevato grado di sofferenza nei pazienti affetti da DG, e che stimola e motiva nuove ricerche atte ad indagare la natura di questo disturbo così complesso.

 

 

Terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio (2021) di Craig J. Bryan e M. David Rudd – Recensione

In Italia ogni anno circa 4.000 persone si suicidano. Se consideriamo i tentativi di suicidio e i comportamenti autolesivi ci rendiamo immediatamente conto di quanto il problema sia rilevante; Terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio affronta proprio queste tematiche.

 

Dagli studi compiuti, sono emerse diverse tendenze nei trattamenti che prevengono efficacemente i tentativi di suicidio. In particolare, le terapie cognitivo-comportamentali presentano diverse somiglianze che sembrano essenziali per prevenire il suicidio: un modello teorico; la manualizzazione e la fedeltà clinica; l’enfasi sull’aderenza del paziente; l’allenamento delle competenze; il rispetto dell’autonomia del paziente; la capacità di gestione delle crisi; e un format che preveda la terapia individuale.

Il corposo manuale di Bryan e Rudd illustra la terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio (BCBT), un approccio psicoterapeutico innovativo fondato su solide evidenze empiriche.

I due autori descrivono tutte le procedure e gli interventi che compongono il protocollo.

La prima parte di questo manuale fornisce una discussione sui principi teorici e concettuali alla base dell’approccio e della sua implementazione.

La seconda parte si concentra sulla prima seduta, la più strutturata dell’intero trattamento.

La parte terza descrive le procedure e gli interventi della prima fase della BCBT, che generalmente abbraccia le sedute dalla due alla cinque.

La quarta parte del manuale illustra le procedure e gli interventi che compongono la seconda fase del protocollo. In questa fase del trattamento, l’attenzione si sposta sul sistema di convinzioni suicidarie del paziente, ipotesi e credenze di base che sostengono pensieri e comportamenti legati al suicidio.

L’attività di prevenzione delle ricadute è svolta nelle sedute undici e dodici con esercizi d’immaginazione guidata.

Il manuale termina con due appendici che includono le copie di tutti i fogli di lavoro per i pazienti, le dispense richieste per effettuare la BCBT, e le copie degli strumenti clinici come le check-list, i modelli di documento per la valutazione del rischio di suicidio e gli script per gli esercizi di rilassamento e mindfulness.

Nel volume gli autori riportano numerosi casi di studio con dialoghi estrapolati da sedute per fornire esempi di come il protocollo possa essere utilizzato con pazienti che riflettono un’ampia gamma di livelli di rischio e complessità clinica.

Inoltre, mostrano come sia possibile stabilire una forte relazione collaborativa con un paziente suicida, valutare il rischio di un atto anticonservativo e lavorare per riportare il paziente in sicurezza.

Sono descritti strumenti d’intervento di efficacia comprovata per sviluppare la regolazione delle emozioni e la capacità di gestione delle crisi e per smantellare il sistema di credenze suicidarie proprie del paziente.

Alla prima seduta, come già rilevato, è data la massima importanza. Dopo aver fornito una panoramica della BCBT e aver descritto la struttura del trattamento, attraverso la valutazione narrativa, il clinico costruisce l’alleanza e la concettualizzazione del caso e ottiene le informazioni necessarie per valutare il rischio di suicidio.

La prima fase del trattamento, che è tipicamente della durata di quattro sedute, si concentra sulla disattivazione della modalità suicida e sulla stabilizzazione dei sintomi attraverso il training delle abilità di regolazione delle emozioni.

Nelle successive cinque sedute la BCBT si concentra sul sistema di credenze suicidarie che è alla base della vulnerabilità a lungo termine al suicidio.

Nelle due ultime sedute, l’attenzione si sposta sull’integrazione delle competenze e la prevenzione delle ricadute.

Il protocollo prende in considerazione due tipi di rischio suicidario, il rischio di base che varia da individuo a individuo in relazione alla propria costellazione di predisposizioni storiche e di sviluppo e il rischio acuto che comporta l’aspetto del rischio temporaneo o transitorio.

Dal punto di vista della teoria della vulnerabilità fluida, i fattori di rischio cognitivo e comportamentale meritano un’attenzione particolare nel trattamento perché attuare un cambiamento in questi due domini può modificare direttamente e in modo affidabile il rischio di base.

Una lettura quella del manuale Terapia cognitivo comportamentale breve per la prevenzione del suicidio che va consigliata a ogni clinico che prima o poi si troverà ad affrontare un paziente con rischio suicidario o che ha già compiuto un tentativo e potrà giovarsi in quel caso delle preziose indicazioni che troverà illustrate nel volume.

La neuropatia a piccole fibre: indagini neurofisiologiche e ruolo diagnostico della biopsia di cute

La Neuropatia delle Piccole Fibre (NPF, in inglese Small Fiber Neuropathy, SFN) è una patologia che colpisce le fibre nervose periferiche di piccolo calibro. Questa patologia del sistema nervoso periferico spesso viene sottostimata e sottodiagnosticata.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

Alterata percezione del dolore e degli stimoli termici, disturbi sensitivi quali formicolii, bruciori e punture di spillo agli arti costituiscono i sintomi caratteristici di una patologia del sistema nervoso periferico spesso sottostimata e sottodiagnosticata: la Neuropatia delle Piccole Fibre. La normalità dei reperti agli esami di routine per lo studio del sistema nervoso periferico fa sì che la diagnosi sia spesso difficoltosa. Il progressivo peggioramento del quadro clinico e le conseguenti ripercussioni sul tono dell’umore e sulla qualità della vita dei pazienti conducono spesso ad erronee diagnosi di fibromialgia o disturbi psichiatrici, quali il disturbo somatoforme. Da queste considerazioni risulta evidente l’importanza di fare chiarezza sulle caratteristiche di tale disturbo e sulle specifiche metodiche di indagine indispensabili per la diagnosi.

La Neuropatia delle Piccole Fibre (NPF, in inglese Small Fiber Neuropathy, SFN) è una patologia che colpisce le fibre nervose periferiche di piccolo calibro. Tali fibre, classificate come fibre C e fibre A-Delta, sono specificatamente coinvolte nella trasmissione di stimoli termici (caldo, freddo) e dolorifici e sono presenti non solo all’interno dei nervi del sistema nervoso periferico, ma anche nei muscoli, nel tessuto fibromuscolare degli organi interni e nel sistema nervoso autonomo.

Nella maggior parte dei pazienti non è identificabile una causa responsabile dalla patologia (forme idiopatiche), anche se è noto che esse possono presentarsi più frequentemente in associazione a malattie autoimmuni o patologie sistemiche, tra cui il diabete mellito, l’amiloidosi, la malattia di Fabry, la sindrome di Sjögren, la sarcoidosi, la malattia di Lyme, il lupus eritematoso sistemico. Alla base delle forme idiopatiche, sono state ipotizzate disfunzioni congenite o indotte dei canali del sodio, specie quello denominato Nav1.7

La neuropatia delle piccole fibre è caratterizzate da una sintomatologia di tipo sensitivo, muscolare e autonomico. Nei soggetti affetti, si riscontra frequentemente una maggiore sensibilità sia agli stimoli dolorosi (iperalgesia), sia a normali stimoli cutanei, che possono essere percepiti di maggiore intensità (iperestesia) oppure dolorosi (allodinia). Tipicamente, si osserva un’alterata percezione degli stimoli termici, che può declinarsi in una ridotta capacità di discriminazione fra caldo e freddo; frequenti sono le sensazioni di bruciore, intorpidimento o punture di spillo (parestesie) agli arti. Al contrario, la sensibilità tattile e vibratoria è conservata, così come i riflessi osteo-tendinei. I disturbi motori e muscolari sono costituiti da crampi e facile faticabilità.

I disturbi del sistema autonomo/vegetativo sono più rari, ma possono comportare ripercussioni a carico di differenti organi, con alterazioni del ritmo cardiaco, della pressione arteriosa, sintomi gastroenterici e genito-urinari.

Come anticipato, la complessità della diagnosi di neuropatia delle piccole fibre deriva dal fatto che gli accertamenti di prima linea per lo studio del sistema nervoso periferico (come ad esempio l’elettromiografia) risultino nella norma. L’elettroneurografia/elettromiografia è infatti utile ad esplorare le fibre nervose di grande calibro, ma non quelle di piccolo calibro, specificatamente colpite in tale patologia.

Pertanto, un importante contributo per la diagnosi è offerto da accertamenti diagnostici specifici, come i potenziali evocati laser, i test quantitativi sensitivi (QST), il test quantitativo del riflesso assonale sudori motorio (QSART), il test del sudore termoregolatorio, i test autonomici cardiovagali ed adrenergici ed infine lo studio delle fibre nervose intraepidermiche (IENF) mediante biopsia cutanea neurodiagnostica. Quest’ultimo esame rappresenta la metodica più affidabile per la diagnosi, poiché consente di valutare direttamente la densità delle fibre nervose di piccolo calibro nel tessuto esaminato tramite una procedura semplice e precisa.

La biopsia cutanea neurodiagnostica è stata applicata per la prima volta nel 1990 presso il Karolinska Institute e successivamente standardizzata presso l’Università del Minnesota, dove  il prof. W.R.Kennedy e i suoi collaboratori l’hanno utilizzata a partire dal 1993 per lo studio dei pazienti con neuropatia diabetica. (48)

Oltre a fornire un dato quantitativo, la biopsia cutanea neurodiagnostica ha il vantaggio di essere ripetibile, minimamente invasiva ed applicabile in un contesto clinico ambulatoriale. Tuttavia, l’uso corrente di questa metodica è limitato dalla necessitò di personale altamente specializzato e dalla disponibilità di strumentazione di laboratorio specifica.

Previa anestesia locale con lidocaina, la biopsia viene eseguita utilizzando uno strumento a punta metallica cilindrica che consente una piccola incisione sulla cute, con prelievo di un piccolo campione di epidermide (3 mm di diametro). Il sito privilegiato è la parte distale della gamba, ma la sede può variare in base al quadro clinico.

Figura 1. Metodica di prelievo bioptico di campione di cute nella regione distale della gamba.

Il campione viene successivamente fissato, congelato e infine processato con differenti reagenti. La quantificazione delle piccole fibre presenti per millimetro quadrato può essere effettutata o con il conteggio diretto al microscopio (ingrandimento 40x) eseguito da due differenti operatori, oppure utilizzando un software per l’analisi di immagine. La prima metodica è attualmente la più utilizzata, ma presenta il limite dato dalla necessità di personale altamente formato ed esperto.

Il riscontro di una riduzione della densità delle piccole fibre nervose intraepidermiche è l’elemento chiave per la diagnosi. Sono inoltre riscontrabili segni suggestivi di sofferenza delle fibre nervose, quali rigonfiamento dell’assone, presenza di fibre nervose sparse o riunite in “ciuffi”, aumento delle ramificazioni dei dendriti.

Figura 2. Fibre nervose epidermiche (frecce) identificate mediante immunofluorescenza all’arto inferiore di un soggetto normale (in verde, colorazione di fibre nervose; in rosso, colorazione di collagene di tipo Ⅳ della membrana basale e vasi sanguigni). E: epidermide; D: Derma; BM: membrana basale; A: Arteria.

Figura 3. Denervazione completa dell’epidermide (e del derma) in un paziente con neuropatia. E:Epidermide; D: Derma; BM: membrana basale

La biopsia cutanea neurodiagnostica, oltre che di fondamentale importanza per la diagnosi di neuropatia a piccole fibre, è stata inserita nelle linee guida per la diagnosi delle neuropatie periferiche dalla European Federation Of Neurological Society (ENFS), dove le è attribuito valore predittivo diagnostico molto elevato (livello di raccomandazione A).

La terapia, nel caso in cui la neuropatia a piccole fibre sia secondaria ad una patologia sistemica, è in primis il trattamento della malattia di base.

Nei casi idiopatici e in tutti i casi in cui i sintomi sensitivi siano particolarmente invalidanti, la terapia farmacologica prevede l’utilizzo di farmaci appartenenti alla categoria degli antiepilettici (gabapentin, la carbamazepina e il pregabalin), degli antidepressivi SSRI e SNRI (Duloxetina) o degli antidepressivi triciclici  (amitriptilina). Nel caso in cui tali terapie di prima linea non diano risultati soddisfacenti, è possibile utilizzare, in alternativa o in associazione,  farmaci oppioidi come il tramadolo, la codeina e il tapentadolo, o anestetici locali. Recenti evidenze scientifiche evidenziano un possibile effetto dei cannabinoidi, come tetraidrocannabinolo e cannabidiolo, nel trattamento della sintomatologia dolorosa. E’ stato inoltre evidenziato, nelle forme particolarmente resistenti, il possibile utilizzo del trattamento con immunoglobuline per via endovenosa o corticosteroidi.

 

Potere e autorità: i processi psicologici alla base

L’obbedienza all’autorità è l’elemento fondamentale della struttura sociale. Non è né giusta né sbagliata, l’eticità dell’obbedienza dipende unicamente dalle disposizioni a cui si è sottoposti e dal contesto entro cui si obbedisce.

 

La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. (Sigmund Freud)

Il potere è un concetto molto controverso, spesso identificato in una relazione causale diretta. Chi detiene il potere si impone su chi lo subisce. È una relazione tra individui che porta alla capacità di ottenere obbedienza. L’aspetto che si colloca nel rapporto di accettazione o rifiuto del potere è l’autorità. Nell’obbedienza gioca un ruolo fondamentale l’influenza esercitata sul sistema sociale. L’obbedienza prevede una disuguaglianza sociale, ovvero presuppone una persona di posizione sociale superiore che detta il comportamento, la fonte, e una persona di posizioni inferiore che vi obbedisce, il bersaglio (Mucchi Faina et al., 1996). Ci sono azioni che la fonte non può compiere e che quindi richiede al bersaglio. Vi è un’indipendenza tra il comportamento del richiedente e quella di colui che esegue. Queste richieste sono dei comandi espliciti ai quali conformarsi, quindi vi è consapevolezza dell’uniformarsi alla regola o meglio un’intenzionalità del processo d’influenza (Mucchi Faina et al., 1996). Il rapporto tra individuo e autorità può essere inteso come una negoziazione di significati che definiscono l’influenza che l’autorità può esercitare sull’individuo.

La compiacenza è il processo psicologico che sta alla base del fenomeno dell’obbedienza all’autorità (Moscovici & Lage, 1976; Maass & Clark, 1983). Può corrispondere o no all’accettazione privata ed emerge nel momento in cui il bersaglio pensa di evitare sanzioni o di ricavarne un vantaggio, accondiscendendo a quell’ordine. Nel processo dell’obbedienza l’individuo entrando a far parte di un sistema gerarchico viene a trovarsi in uno stato eteronomico, ovvero l’individuo non si considera più libero di intraprendere libere condotte e neanche responsabile delle sue azioni, ma strumento per eseguire gli ordini dell’autorità (Milgram, 1963). Ciò porta ad atti di obbedienza solo se l’autorità dà ordini specifici che definiscono l’azione e contengono l’imperativo di eseguirla. In questo stato cognitivo il soggetto ridefinisce il significato della circostanza accettando e adattandosi alla prospettiva di chi detta le disposizioni. La persona non concepirà più l’ordine a cui obbedisce come scaturito da motivazioni personali, non avrà quindi ripercussioni sul giudizio dell’immagine che ha di sé. Vi è una perdita di attribuzione che porta il bersaglio a sentirsi responsabile nei confronti dell’autorità piuttosto che delle conseguenze delle azioni da lui messe in atto, si ha un dislocamento della responsabilità (Bandura et al., 1996; Caprara et al., 1996). Quando l’individuo entra in uno stato eteronomico è influenzato da fattori distali che lo riportano ad esperienze personali di educazione all’obbedienza, e da fattori prossimali (Milgram, 1963) legati alla relazione tra soggetto ed autorità come l’adesione volontaria al sistema d’autorità, la giustificazione ideologica e la percezione di un’autorità legittima. Attraverso quest’ultima si può motivare e giustificare la posizione dominante, aspetto cardine della fonte. Quindi, possiamo immaginare l’autorità come esercizio legittimato di potere.

La norma dell’obbedienza è insita in tutti noi, in quanto gli individui tendono ad obbedire a chi è dotato di legittima autorità. Con l’idea di potere legittimo, Weber (1961) distingue tre categorie di legittimazione: legittimità tradizionale che sottende la convinzione della validità di una autorità fondata sulla prassi quotidiana, “così è sempre stato, e così sempre sarà”; legittimità carismatica che poggia sulla convinzione del valore esemplare di una specifica persona ovvero il leader; e legittimità legale-razionale che sottoscrive la convinzione basata sulla credenza del valore legale dell’ordinamento statuito. L’autorità produce un modellamento verso il pensiero dell’ordine impartito, senza necessariamente che quest’ultimo lo ritenga giusto o sbagliato (convergenza cognitiva – Nemeth, 1986; Nemeth et al., 1992).

L’obbedienza all’autorità è l’elemento fondamentale della struttura sociale. Non è né giusta né sbagliata, l’eticità dell’obbedienza dipende unicamente dalle disposizioni a cui si è sottoposti e dal contesto entro cui si obbedisce. Si può effettuare una differenziazione tra obbedienza costruttiva e obbedienza distruttiva. La prima afferma la libertà individuale e un’armonia sociale, poiché l’assenza di regole alimenterebbe il caos. La seconda non tiene conto delle conseguenze delle azioni e qui ritroviamo i “crimini di obbedienza”, dove troviamo un basso sviluppo morale. Per Bauman (1992) lo sviluppo morale può essere ostacolato da determinate caratteristiche: una divisione funzionale dei compiti così da non percepire la visione dell’insieme, il distanziamento sociale in modo da depersonalizzare il destinatario, la produzione dell’indifferenza e la sostituzione della responsabilità morale con quella tecnica, così da sentirsi responsabili solo del ruolo all’interno dell’apparato e non delle conseguenze morali delle proprie azioni.

 

Terapia ‘trasformazioni mente-corpo’ (MBT-T): effetti psicologici sulle donne affette da cancro al seno

Uno studio oncologico pilota indaga gli effetti psicologici e infiammatori della terapia psicoterapeutica mente-corpo (MBT-T) nelle donne con cancro al seno, rilevando una interessante determinazione, come emerge dai risultati preliminari.

 

Uno studio italiano, condotto dai ricercatori dell’Istituto Nazionale Tumori “Fondazione Pascale” di Napoli, ha rilevato una interessante connessione tra l’attuazione di una specifica terapia mente-corpo e l’entità dello stato infiammatorio insito nello stato di malattia, in particolare qui si fa riferimento al cancro al seno, laddove pare ne sia risultata una riduzione infiammatoria, come evidenziato dalla diminuzione del rilascio di alcune citochine e chemochine, il cui ruolo è noto in processi che mediano l’infiammazione cronica alla base di numerose patologie. I risultati preliminari suggeriscono infatti, che tale terapia detta anche MBT-T possa rappresentare un approccio promettente, per migliorare il benessere e l’esito del trattamento farmacologico nelle pazienti affette da tumore al seno.

Il cancro al seno, in quanto patologia neoplasica maligna più comune, si stima sia la seconda causa più frequente di morte collegate al cancro nella popolazione femminile, con 276.480 nuovi casi nel 2020 negli USA e rappresenta circa il 30% di tutte le diagnosi tumorali. Nonostante l’elevata mortalità della malattia, il tumore al seno ha una prognosi migliore rispetto ad altri tumori aggressivi. In accordo all’aggiornamento biennale dell’American Cancer Society sulle statistiche del cancro al seno femminile, il tasso totale di sopravvivenza a cinque anni è del 99% per quei pazienti con malattia localizzata e dell’86% con pazienti con malattia regionale e tende a scendere al 27% per coloro che invece hanno metastasi. Si stima infatti, che il 20-30% dei tumori al seno in stadio iniziale (eBC) svilupperà metastasi (Cozzolino et al. 2021) legate alla malattia, mentre il 6-10% di tutte le donne diagnosticate presenta una malattia al quarto stadio al momento della diagnosi (1,2).

Diversi studi hanno dimostrato il ruolo chiave dell’infiammazione cronica nello sviluppo del cancro al seno, nella sua progressione, nella formazione di metastasi e nel risultato terapeutico. Tali processi sono mediati da molteplici citochine e ormoni, che esercitano le loro azioni biologiche localmente o a distanza attraverso la circolazione sistemica. Le recenti scoperte suggeriscono che le esperienze psicosociali positive, compresi gli interventi psicoterapeutici che intervengono sulla connessione mente-corpo, possono modulare la risposta infiammatoria riducendo l’espressione di geni e proteine associati all’infiammazione e alle vie legate allo stress. Risultati preliminari dello studio che porta la firma partenopea del gruppo di ricercatori dell’Istituto Pascale di Napoli, evidenziano il legame tra la terapia MBT e il decremento di citochine quali SC, GFbeta, SDF 1alfa, MCP3, GROalfa, LIF e IL-18, come confrontato nelle pazienti affette dalla malattia e pazienti appartenenti al gruppo di controllo.

A causa della elevata eterogeneità, sia a livello cellulare che molecolare, il cancro al seno comprende diversi sottotipi di malattia e secondo l’espressione dei profili genici, questi si distinguono in 3 sottotipi principali: tumori luminal, che sono positivi per i recettori degli estrogeni e/o del progesterone (ER/PgR), Her-2- arricchito, che sovra esprime l’oncogene ERBB2(Her2), o basali simili, anche noti come tumori tripli negativi (TNBC), i quali mancano di recettori ormonali e di amplificazione Her2. Ciascun sottotipo ha differenti caratteristiche sia per quanto concerne l’incidenza, per la risposta al trattamento, il rischio di progressione della malattia e per i siti di metastasi. Ovviamente, la presenza o assenza di tali recettori indirizza la scelta terapeutica farmacologica da sottoporre alle pazienti (terapia ormonale, chemioterapia, immunoterapia ed altre terapie mirate). Poiché le cellule cancerose e il microambiente sono coprotagonisti, il processo infiammatorio deve essere considerato un meccanismo cruciale per la recidiva e la formazione di metastasi. Esso consiste in un processo fisiologico in risposta ad un danno tessutale acuto derivato da molteplici cause quali danni ischemici, infezioni, esposizione a tossine, irritazione chimica e/o diversi tipi di trauma. Quando lo stimolo infiammatorio persiste, l’infiammazione diventa cronica così che nel sito infiammatorio si va a creare una complessa rete di segnalazioni che coinvolge un gran numero di fattori di crescita, citochine, diversi tipi di leucociti, linfociti, altre cellule infiammatorie e chemochine. L’infiammazione cronica è coinvolta in tutte le fasi dello sviluppo del tumore: inizio, progressione e metastasi. Inizialmente, l’infiammazione gioca un ruolo nella soppressione del tumore, stimolando una risposta immunitaria antitumorale, successivamente sembra invece che stimoli la crescita del tumore. L’intensità, la durata e la natura dell’infiammazione possono spiegare questa apparente contraddizione. Un aspetto importante del microambiente tumorale, come spiegato dagli autori, è la comunicazione cellula-cellula. Una delle principali differenze tra cellule tumorali e cellule sane è rappresentata infatti, dalla continua proliferazione delle prime, che presto si traduce in una carenza di nutrienti e di ossigeno, per cui lo stato di ipossia creato durante la crescita tumorale induce alcune citochine e chemochine. Poiché la produzione di citochine è estremamente complessa ed è un meccanismo multifattoriale, l’identificazione di un ruolo specifico nella patogenesi della malattia di una singola citochina resta comunque difficile e forse inutile, mentre potrebbe essere utile esplorare la complessa rete di interazioni utilizzata per regolare sia la sintesi delle citochine che di recettori similari.

Inoltre, come è noto, i geni possono interagire con l’ambiente per modulare il comportamento e la cognizione in condizioni di malattia e salute. Queste interazioni coinvolgono una classe particolare di geni frequentemente definiti come ‘geni di attività’ o ‘geni dipendenti dall’esperienza’, che possono essere attivati da segnali provenienti dal fisico e dall’ambiente psicosociale, che modula le complesse funzioni fisiologiche e psicologiche dell’organismo. I fattori di stress psicosociali sembrano avere effetti dinamici dipendenti dall’esperienza sull’espressione genica, attraverso il coinvolgimento di  numerosi circuiti interrelati, che mediano gli effetti di stress psicosociali sulla fisiologia, sulla biologia cellulare e infine sull’espressione genica (3). Recenti evidenze suggeriscono inoltre, che esperienze psicosociali positive, inclusi interventi psicoterapeutici mente-corpo possono modificare la dinamica trascrizionale dei leucociti in condizioni patologiche legate allo stress, come malattie croniche, cancro e disturbi psichiatrici, riducendo l’espressione dei geni associati alla risposta infiammatoria e alle vie legate allo stress, migliorando la salute mentale corporea, attraverso una corretta negoziazione delle vie per la risposta allo stress. Vivere una patologia come il cancro al seno, infatti, per una donna costituisce inevitabilmente una sfida non solo fisica bensì anche psicologica e sociale. In queste donne, lo stress psicologico cresce notevolmente quando si affronta la diagnosi di cancro e si subisce il trattamento farmacologico. Tali livelli alti di stress, possono spesso incrementare l’infiammazione e sembra essere in realtà mantenuta anche nel periodo post-trattamento nelle donne sopravvissute alla malattia, così come tendono a sottolineare gli autori. Per tale ragione, lo sviluppo dell’assistenza multidisciplinare basata sull’evidenza durante la fase di post trattamento costituisce un’area chiave di grande interesse per la ricerca sul cancro.

Negli ultimi anni gli studi si sono concentrati sia sull’origine psicosociale e culturale dello stress cronico, inteso questo come fattore di rischio serio per lo sviluppo di recidiva di malattia al seno, così come sui bisogni insoddisfatti dei sopravvissuti al tumore al seno, che inevitabilmente induce allo sviluppo di approcci terapeutici basati sull’integrazione dei bisogni medici e psicologici insieme del paziente. Tali studi sono risultati molto interessanti in quanto, hanno chiarito il ruolo della regolazione neuroendocrina alla base delle vie fisiologiche e biologiche rilevanti per lo sviluppo del cancro, dimostrando come le esperienze stressanti soggettive (fattori biocomportamentali) possano influenzare la crescita e la progressione del tumore, tramite il sistema nervoso simpatico (SNS) e l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA). Inoltre, il processo infiammatorio è stato recentemente associato alla trasformazione del neoplasma e alla crescita del tumore. In particolare, la trasduzione del segnale mediata da NF-kB è implicita nella regolazione virale, nelle malattie autoimmuni, nella risposta infiammatoria, nella genesi dei tumori e nell’apoptosi. Gli studi di genomica funzionale mostrano connessioni interessanti tra terapie mente-corpo e sistema immunitario. In particolare, studi recenti hanno dimostrato che terapie mente-corpo sono in grado di generare una riduzione complessiva dell’espressione dei fattori correlati alla risposta infiammatoria, come appunto NF-kB e per regolare numerose vie coinvolte nell’apoptosi e proliferazione cellulare. Nei malati di cancro, gli effetti di questi interventi sono in grado di contrastare i processi correlati alla crescita del cancro, attraverso la riduzione dell’infiammazione e l’aumento della risposta immunitaria. Le terapie mente –corpo sono in grado proprio di ridurre lo stress stimolando la risposta di rilassamento (RR), che a sua volta modula l’espressione dei geni associati alla risposta infiammatoria (4). Inevitabilmente, tutto ciò determina un miglioramento della qualità di vita, che incide positivamente anche sulla sopravvivenza delle pazienti (5).

Come spiegato nella pubblicazione di Cozzolino e colleghi, la genomica psicosociale costituisce infatti un nuovo approccio definito ‘dall’alto verso il basso’ (ovvero dalla mente al corpo), che esamina la modulazione dell’espressione dei geni in risposta alle esperienze psicologiche, sociali e culturali. Diversi studi hanno mostrato che l’esperienza di un ambiente nuovo e le situazioni mentali promuovono l’espressione genica dipendente dall’attività e dall’esperienza, la plasticità cerebrale, la risposta antinfiammatoria, i processi di guarigione delle cellule staminali, nonché la capacità del genoma di rispondere rapidamente alle esperienze psicosociali degli individui(6,7). Più nello specifico, il paradigma teorico della genomica psicosociale suddetta, comprende un metodo clinico chiamato MBT T, terapia di trasformazione mente-corpo, ovvero un approccio terapeutico integrato, in quanto fondato sugli studi di Erickson e sulla terapia mente-corpo di Rossi, che si applica a gruppi e individui e che si muove da una prospettiva naturalistica della terapia, basata quindi sull’uso di ritmi biologici naturali dell’individuo, in modo da creare le migliori condizioni per attivare i processi di guarigione interiore e affrontare così le diverse sfide dell’organismo (disfunzioni legate allo stress di diversa natura psicologica e disturbi cronici).

I ricercatori inoltre, descrivono la Terapia MBT come un approccio che segue un protocollo strutturato, basato su un processo creativo a 4 fasi, caratterizzato da una semplice procedura da imparare e che consente agli individui di ottenere la riduzione di stress senza necessità di impiegare metodi complessi, tradizionali e intricati. Tale protocollo clinico, infatti, prevede che il terapista mostri ai pazienti dei movimenti dei palmi delle mani, per cui i pazienti si esibiranno a turno imitando tali movimenti, all’interno di ciascuna delle 4 fasi del processo creativo:

  • Fase1- Iniziazione e Aspettativa creativa in cui ci si focalizza sulle sensazioni percepite nell’hic et nunc;
  • Fase2 – Incubazione e Accesso all’esperienza emergente (implica la revisione dei problemi);
  • Fase 3 – Insight e Problem Solving
  • Fase 4 – Valutazione e Pianificazione di valutazione della realtà e cura di sé.

Tutto ciò consente di avviare un dialogo terapeutico mente-corpo in grado di generare una nuova consapevolezza per la gestione, il confronto e la soluzione del problema che il paziente affronta quotidianamente nella sua condizione di malattia.

Nello studio citato, inoltre, non solo si è fatto ricorso al metodo Bioplex Assay, con l’intento di valutare i livelli di citochine in 7 pazienti con cancro al seno inclusi nel gruppo di controllo e 16 pazienti affette dalla stessa neoplasia facente parte del gruppo sperimentale (studio MBT-T randomizzato durante il follow up dopo il trattamento creativo), prima (T0), dopo 1 ora di trattamento (T1) e al termine del trattamento (Tf) , ma i ricercatori si sono anche focalizzati sulle misure di vari altri fattori tramite: la scala di benessere CORE-OM, nota come scala self report impiegata nella valutazione degli esiti della psicoterapia, costituita da 34 items che indagano diverse aree quali benessere soggettivo, problemi e sintomi, funzionalità, rischio), l’HADS ovvero la scala dell’ansia e della depressione ospedaliera, poi una scala di autovalutazione sviluppata per rilevare stati di depressione, ansia e stress emotivo. I risultati ottenuti e descritti ampliamente in precedenza, induce ad una conclusione condivisa ovvero che date le molteplici evidenze, è fondamentale ampliare gli studi clinici in tale direzione.

 

La leva calcistica della classe del ’68 – Rubrica Psico-canzoni

Francesco De Gregori, attraverso uno dei suoi brani più famosi, rassicura la parte di noi titubante che emerge nel momento in cui ci approcciamo a quello che più amiamo. Ci invita ad usare la fantasia al posto di permettere ai pensieri giudicanti di regnare.

Psico-canzoni – (Nr.11) La leva calcistica della classe del ’68 

 

Nino cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma dura, dodici anni e il cuore pieno di paura.

Così Francesco De Gregori descrive il protagonista della canzone La leva calcistica della classe del ’68.

L’autore ci presenta un ragazzo che si approccia al mondo del calcio. Le emozioni riportate sono proprie non solo della fase pre-puberale, ma anche del momento in cui ogni persona sceglie di avvicinarsi a quello che ama, mettendo in gioco se stesso e le proprie capacità. Il cuore è pieno di paura a dodici anni come a trenta, dipendentemente dall’esperienza che si sta vivendo.

Nino è il ragazzino davanti al pallone, ma sono anche gli uomini e le donne dietro al regista al suo primo film, alla cantautrice sul suo primo palco, all’avvocato alla sua prima disputa, alla psicologa davanti al primo paziente, all’artista alla sua prima mostra e così via.

Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia. 

De Gregori rassicura Nino come se fosse una parte di sé, la più insicura, la più titubante, la stessa che trema quando siamo di fronte a qualcosa che amiamo ma che abbiamo paura di non saper affrontare “bene”. Questo artista spiega che non c’è un modo migliore o peggiore di fare le cose, c’è un proprio modo ed è quello il più giusto. Un atteggiamento giudicante e critico rispetto a se stessi è la causa di in uno stato d’ansia tale da commettere un auto-goal.

Il giudizio va a braccetto con la paura di sbagliare, di fare “male”, di non essere all’altezza delle proprie aspettative e di quelle altrui incamerate. Sin dalla scuola siamo abituati a ricevere valutazioni per il nostro operato, ma la scuola non è la vita. Così l’autore esorta non solo Nino, ma anche tutti noi a fare quello che amiamo senza pensare al fine e godendoci appieno il momento in cui lo stiamo facendo.

La fantasia di cui parla De Gregori è la creatività attraverso cui possiamo esprimere noi stessi. Nessun calciatore, così come nessun artista, è stato mai ricordato per qualcosa che era già stata fatta da un altro. Ognuno di noi ha l’opportunità di sentirsi realmente soddisfatto seguendo la propria via, che non può essere quella sterrata da altri. Le impronte segnate su un territorio sono più facilmente riconoscibili se differenti e poste in punti diversi da quelle di altre persone.

Nino capì fin dal primo momento. L’allenatore sembrava contento. E allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse veloce più del vento.

È il momento in cui ci diamo la possibilità di essere riconosciuti e riconoscerci per il talento che portiamo dentro. Trascorrere una vita a fare quello che non si ama a volte è la scusa per non mettersi in gioco, intimoriti dal fallimento.

Il fallimento non esiste, se la soddisfazione sta già nel darsi la possibilità di tirare quel calcio di rigore a modo proprio. E così, come fosse la polvere magica di Trilly di Peter Pan, la fantasia lasciata libera può far divenire quel pallone stregato, tanto da farlo entrare nella porta avversaria.

 

LA LEVA CALCISTICA DELLA CLASSE DEL ’68
Ascolta il brano:

EMDR e psicosomatica: il dialogo tra mente e corpo (2020) Elisa Faretta – Recensione del libro

L’applicazione del metodo EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing) si dimostra uno strumento efficace anche per una vasta gamma di disturbi somatici, agendo sulle cause o concause psicologiche ed emotive antecedenti l’esordio della patologia organica.

 

Elisa Faretta, psicologa e psicoterapeuta, con il contributo di altri esperti, scrive questo manuale con l’intento di fornire ai terapeuti gli strumenti teorici e pratici per l’applicazione dell’EMDR in psicosomatica; promuove, inoltre, una maggiore consapevolezza su come interventi mirati dal punto di vista psicoterapeutico, in sinergia con quelli medici, possano migliorare la comprensione dello stato di malattia nella sua totalità, creando così fattori di protezione, oltre ad eliminare quelli di rischio.

Anche se si tratta di concetti abbastanza recenti nella cultura occidentale, la visione olistica dell’essere umano e la consapevolezza di una connessione tra mente e corpo, sono nozioni ormai universalmente riconosciute grazie ai numerosi studi che hanno dimostrato il legame diretto tra variabili psicologiche e malattie somatiche. L’approccio psicosomatico, che postula un’interconnessione tra mente e corpo, evidenzia la necessità di considerare entrambi gli aspetti come imprescindibilmente legati anche nella pratica medica e psicoterapeutica.

L’applicazione del metodo EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing), riconosciuto dall’OMS come trattamento d’elezione per il Disturbo da stress post-traumatico, si dimostra uno strumento efficace anche per una vasta gamma di disturbi somatici. Esso agisce sulle cause o concause psicologiche ed emotive antecedenti l’esordio della patologia organica ed è caratterizzato da una prospettiva di interconnessione tra mente e corpo volta a promuovere una migliore integrazione, grazie ad un approccio multidisciplinare.

Ad oggi l’approccio EMDR è considerato a tutti gli effetti il metodo maggiormente efficace per la risoluzione dei traumi psicologici. Questi ultimi hanno, infatti, sempre un’importante componente somatica: gli studi hanno dimostrato che, le esperienze traumatiche avvenute in età evolutiva, contribuiscono significativamente allo sviluppo di disturbi fisici in età adulta. L’EMDR consente di lavorare sulle criticità derivanti dal passato, su quelle che sussistono al momento presente e sulle loro proiezioni nel futuro. I cambiamenti psicofisiologici che intervengono durante il percorso psicoterapeutico con l’EMDR consistono nell’acquisizione di nuove competenze e nel rafforzamento delle risorse e della capacità di resilienza del soggetto. Queste modifiche favoriscono una migliore modulazione alla risposta allo stress rendendo il corpo meno vulnerabile e, al contempo, l’intervento EMDR determina un aumento della sensibilità agli stimoli provenienti dall’interno del corpo, che rafforza l’integrazione mente e corpo e, quindi, le capacità di adattamento della persona.

Il testo integra la pratica EMDR con altri strumenti metodologici di comprovata efficacia e presenta, con modalità chiare e precise, le linee-guida per l’intervento psicologico. Si suddivide in una parte teorica ed una operativa in cui sono illustrati i protocolli specifici per tipologia di disturbo, target, metodologia e descrizione di casi clinici. I protocolli EMDR presentati nel libro, sono stati formulati a partire dal lavoro di Francine Shapiro e sono declinati in otto fasi per garantire affidabilità, coerenza e concordanza interna al lavoro. Naturalmente la conoscenza di un protocollo non è sufficiente a garantire una presa in carico appropriata: per un intervento realmente efficace e duraturo sono indispensabili le competenze psicoterapeutiche che permettono all’esperto di integrare la tecnica con la relazione.

 

Uso problematico dei social media, disagio psicologico e sonnolenza diurna: il ruolo del cronotipo individuale

Il cronotipo indica la propensione individuale a dormire in momenti specifici della giornata, e rimanda alla regolazione dell’orologio circadiano nelle 24 ore (Wittmann et al., 2006).

 

Vengono riconosciute tre dimensioni cronotipiche: quella mattiniera, caratteristica di individui che privilegiano l’andare a letto la sera presto, per svolgere le attività nelle ore mattutine; quella serale che si riferisce ai nottambuli, ovvero coloro che preferiscono alzarsi tardi la mattina e svolgere le attività nel tardo pomeriggio/sera. Infine, esiste un sottogruppo di individui che non si schierano in nessun cronotipo, poiché hanno schemi di sonno e attività tra il mattino e la sera.

I cronotipi estremi (ovvero mattiniero e serale), che possono avere una discrepanza tra le 2-12 ore, influiscono sulla salute fisica e mentale come riscontrato dalla letteratura (Adan et al., 2012).

In particolare, il cronotipo serale è maggiormente associato a problemi di salute: all’abuso di sostanze nella popolazione adulta, alla tendenza ad adottare abitudini alimentari malsane e minore impegno nell’attività fisica (Fabbian et al., 2016).

Inoltre, correla con un maggiore stress tra le donne lavoratrici (Haraszti et al., 2014), deprivazione del sonno, sonnolenza diurna (Bakotic et al., 2017), dipendenza da Internet e da smartphone, oltre che con un uso problematico dei social media (Bakotic et al., 2017; Blachnio et al., 2015; Demirhan et al., 2016; Kervran et al., 2015).

Adolescenti e giovani adulti con cronotipo serale, riferiscono una più breve durata del sonno nei giorni feriali, un inizio di sonno ritardato e prolungato fino a tardi nei fine settimana, livelli più alti di sonnolenza diurna e maggiori difficoltà di sonno (Fernández-mendoza et al., 2010). Inoltre, tendono a riportare un rischio maggiore di umore depresso, ideazione suicidaria ed affettività negativa (Biss & Hasher, 2012).

La veglia prolungata, correla tra gli adolescenti con un atteggiamento meno positivo nei confronti della vita e una minore autostima; mentre tra gli studenti universitari con uso di caffeina, tabacco, alcol, basso rendimento accademico e tendenza alla procrastinazione (Digdon & Howell, 2008).

A partire da queste evidenze, Lin et al. (2021), hanno indagato in un campione di 1.791 studenti universitari l’associazione tra cronotipi, uso problematico dei social media, disagio psicologico, sonnolenza diurna, qualità del sonno e insonnia. Nel dettaglio, la qualità del sonno e l’insonnia sono state analizzate come mediatori nella relazione tra cronotipo mattiniero e serale e funzionamento comportamentale ed affettivo diurno (uso problematico dei social media, stress psicologico e sonnolenza diurna).

In linea con la letteratura, l’indagine ha riscontrato una peggiore qualità del sonno tra i cronotipi serali, oltre che insonnia più grave, un utilizzo più problematico dei social media, maggiore disagio psicologico e sonnolenza diurna.

L’uso problematico dei social media possiede caratteristiche simili al disturbo da uso di sostanze, associato in letteratura al cronotipo serale.

Entrambi infatti condividono fattori legati alla salienza, svolgono un’azione di modifica dell’umore, comportano tolleranza, sintomi di astinenza, conflitto e ricaduta (Griffiths et al., 2014).

Probabilmente, la veglia fino a tarda notte si associava all’uso problematico dei social media per l’insorgenza di modelli di sonno sfavorevoli che questo comportava; per cui nel cronotipo serale emerge maggiore discrepanza tra il ritmo di sonno nel fine settimana e quello dei giorni feriali. Tuttavia, questo fattore può non essere l’unica spiegazione, poiché bisogna considerare ulteriori aspetti come la personalità e lo stile di vita degli individui.

Per quanto concerne il disagio psicologico, la presente indagine conferma l’associazione in letteratura tra cronotipo serale e stato depressivo, livelli più elevati di ideazione suicidaria e riduzione degli affetti positivi (Biss & Hasher, 2012; Gau et al., 2007).

Infatti le alterazioni di sonno tra coloro inclini alla veglia serale aumentavano i livelli di stress, generando uno stato affettivo negativo, responsabile a sua volta dell’insorgenza dell’insonnia (Simor et al., 2015). Inoltre, la scarsa qualità del sonno, l’accumulo di sonno e la tendenza ad andare a letto ad orari irregolari, sono fattori potenziali antecedenti l’umore depresso tra coloro con cronotipo serale (Bakotic et al., 2017).

Nell’indagine, l’incremento della sonnolenza diurna si associava a cronotipo serale per la presenza di un sonno insufficiente e povero (Bakotic et al., 2017). Inoltre gli irregolari modelli del sonno tra gli individui serali, alterano i ritmi circadiani predicendo maggiore sonnolenza diurna soprattutto nei giorni feriali (Giannotti et al., 2002; Yang & Spielman, 2001).

La qualità del sonno e l’insonnia sono emersi come fattori rilevanti nella relazione tra cronotipo e le tre variabili comportamentali ed affettive analizzate.

Infatti, l’aumento dell’uso problematico dei social media, del disagio psicologico e della sonnolenza diurna tra coloro con cronotipo serale, venivano ricondotti alla qualità del sonno e/o alla gravità dell’insonnia tra gli individui.

Sulla base di queste evidenze, il cronotipo individuale assume un ruolo rilevante per gli operatori della salute mentale, e andrebbe valutato al fine di superare alcune problematiche disadattive ad esso connesse.

Inoltre è importante individuare precocemente i problemi del sonno tra gli individui con un cronotipo serale, promuovendo comportamenti di igiene del sonno e sane abitudini al fine di ottenere un miglioramento significativo della salute.

 

ACT: Acceptance and Commitment Therapy in azione – Video dal Webinar organizzato da Scuola Cognitiva di Firenze

La Scuola Cognitiva di Firenze, in collaborazione con Studi Cognitivi, organizza un ciclo di webinar formativi e di confronto fra modelli. Ogni incontro tratta un argomento di interesse clinico con una particolare attenzione alla pratica. Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar sull’Acceptance and Commitment Therapy.

 

L’ACT (Acceptance Commitment Therapy) è una forma di psicoterapia di recente diffusione che fa parte delle psicoterapie cognitivo-comportamentali note come approcci di “terza generazione”. Per quanto l’acronimo rimandi alla descrizione dei punti centrali del modello va letto come una parola unica “act” che non a caso richiama il verbo inglese to act (agire). L’ACT è stata sviluppata da Steve Hayes e i suoi collaboratori nel 1986 e da allora è stata oggetto di numerosi studi arrivando a rappresentare oggi una delle psicoterapie con le maggiori prove di efficacia verificate sperimentalmente; parliamo quindi di una psicoterapia cosiddetta evidence-based.

Secondo l’ACT, così come secondo la terapia di terza ondata, più lottiamo per cercare di respingere la tristezza o una qualsiasi emozione negativa, evitandola, più questa aumenta, amplificando così la nostra sofferenza. Il tentativo di controllo degli eventi interni, e a maggior ragione dei cosiddetti “sintomi”, non fa altro che intensificarne la portata ma soprattutto, in chiave ACT, ci allontana dal perseguire quei valori che farebbero diventare la nostra vita ricca e soddisfacente. Parliamo quindi di una terapia sul benessere che non ha nella riduzione della sintomatologia l’obiettivo primario ma ne diventa una conseguenza per il cambiamento di prospettiva rispetto ai propri pensieri.

Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video del webinar sull’ACT, condotto dal Dott. Luca Calzolari.

ACT IN AZIONE

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Clubhouse: perché tutti lo vogliono?

Clubhouse è un social network messo a punto nel 2020, ma il boom in Italia c’è stato solo tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio 2021. Perché tutti vogliono potervi avere accesso?

 

Negli ultimi tempi, abbiamo assistito all’esplosione di un nuovo trend: quello di Clubhouse. È un nuovo social a cui, almeno per ora, si può accedere solo su invito e, proprio per questo, nei siti di e-commerce si sta osservando un fenomeno piuttosto interessante: molte persone, pur di aver accesso alla piattaforma, sarebbero disposte anche a pagare somme che vanno oltre il centinaio d’euro. Che cos’è che farebbe scattare questa molla?

Prima di rispondere alla domanda, spieghiamo brevemente di che cosa si tratta.

Clubhouse è un social network messo a punto nel 2020, ma il boom in Italia c’è stato solo tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio 2021.

Dalla home, l’utente può accedere alle diverse room, dove gli speaker comunicano utilizzando un unico canale: la propria voce. Non ci sono immagini, né chat scritte. Nessun filtro fotografico e nessun effetto speciale: solo la voce.

L’applicazione di Clubhouse, al momento, è disponibile solo su iOS ed è ancora in fase beta. Questo apre lo spazio per un’altra importante riflessione: quella sull’esclusività.

Torniamo quindi alla nostra domanda iniziale: perché tutti lo vogliono? Uno dei motivi principali è proprio il fatto che Clubhouse, in questo momento, non è accessibile a tutti ma solo a un’élite: chi ha un dispositivo Apple e chi ha avuto il privilegio di “esser stato nominato” .

Quali meccanismi psicologici entrano in azione in questo caso? Senza soffermarci sulle singole motivazioni individuali, che come tali restano uniche e personalissime, in linea generale possiamo rifarci, essenzialmente, a tre modelli teorici: il principio di scarsità, la teoria dei bisogni di Maslow e la teoria dei sistemi motivazionali di Lichtenberg.

Il principio di scarsità, noto anche come “la regola dei pochi”, è ben enunciato da Robert Cialdini (1989): le opportunità ci appaiono più desiderabili quando la loro disponibilità è limitata (Mannetti, 2002). Lo sanno bene i collezionisti: i pezzi più ambìti sono proprio quelli meno disponibili (Cialdini, 1989). Questo principio lo possiamo intravedere non solo nell’esclusività dell’accesso alla piattaforma (che, ricordiamo, al momento è solo su invito), ma anche nell’irripetibilità dei suoi contenuti: su Clubhouse tutto è in diretta, senza possibilità (attualmente) di registrare le conversazioni. Non è, dunque, un podcast che possiamo riascoltare in qualsiasi momento, ma una conversazione di gruppo di cui puoi fruire solo nel qui ed ora: se non ci sei, ti stai perdendo qualcosa.

Abraham Maslow, nel 1954, propose un modello motivazionale basato sui bisogni. Dispose questi ultimi, secondo un ordine gerarchico, lungo una piramide, tanto che questa teoria divenne nota come la “piramide dei bisogni” di Maslow. Alla base troviamo quelli fondamentali, necessari per la sopravvivenza dell’individuo e della specie (i cosiddetti “bisogni fisiologici” come respirare, mangiare, dormire, bere e avere una vita sessuale) mentre, salendo verso l’alto, troviamo via via quelli più immateriali: i bisogni di sicurezza, di appartenenza, di stima e, al vertice della piramide, quelli di autorealizzazione (Maslow, 1954; Gennaro, 2009; Avallone, 2011). A proposito del successo di Clubhouse, il bisogno di appartenenza gioca sicuramente un ruolo importante. Questo livello della piramide, infatti, ha a che fare con la necessità di sentirsi amati, riconosciuti e accettati come membri di un gruppo e di una comunità. Rappresenta la voglia di cooperare e d’identificarsi in un’entità collettiva. Questo bisogno potrebbe divenire ancora più irrefrenabile quando il gruppo in questione è particolarmente attraente, per il motivo che spiegavamo prima: essendo nato su una base elitaria, la desiderabilità che esercita è ancora più forte.

Lichtenberg (1989), a proposito di motivazione, ha elaborato la cosiddetta teoria dei sistemi motivazionali. Al suo interno troviamo un sistema motivazionale preciso, che è quello dell’affiliazione: ogni essere umano, cioè, proverebbe un innato impulso verso l’aggregazione, che si manifesterebbe nel desiderio di appartenenza e, specularmente, nel dolore del non sentirsi parte di alcunché. Alla base di questo sistema vi sarebbe, quindi, la necessità di appartenere a un gruppo, da cui si svilupperebbe poi l’identità sociale dell’individuo stesso. (Lichtenberg, 1989; Amadei et al., 2015). Se vogliamo utilizzare questo modello teorico per rispondere alla nostra domanda iniziale, potremmo declinarlo dicendo che, quando una piattaforma diventa particolarmente in voga, il desiderio di entrarne a far parte risponderebbe, da un lato, alla necessità innata di sentirsi parte di un gruppo più ampio; dal’altro, in maniera simmetrica, alla frustrazione del sentirsene esclusi. Due bisogni complementari, dunque, che sono  insiti nella natura stessa dell’essere umano.

Queste teorie potrebbero, almeno in parte, spiegare perché ultimamente la “corsa agli inviti” per Clubhouse sia letteralmente impazzata.

 

Tra amore romantico e manifestazioni patologiche

Risulta difficile il tentativo di definire univocamente l’esperienza di amore romantico e ancor di più lo è definirne le manifestazioni patologiche. La distinzione tra espressione sana o patologica di una passione naturale come l’amore richiede l’adozione di criteri condivisi, non sempre disponibili.

 

L’amore, nella sua accezione di amore romantico, è un’esperienza universale. Poeti ed artisti di tutti i tempi lo hanno rappresentato; filosofi e pensatori ne hanno discusso; amici e parenti ci hanno offerto le loro interpretazioni; emozioni di gioia o di dolore ci hanno insegnato a riconoscerlo. Eppure una sua definizione è ancora sfuggente.

La recente prospettiva psicobiologica mostra l’intervento di specifici ormoni e neurotrasmettitori, in distinte aree cerebrali, per ognuna delle componenti di cui l’antropologa americana Hellen Fisher ritiene essere composta una relazione amorosa: “Lust”, “Romance” e “Attachment” [Fisher, 2004]. Altri autori [Sternberg & Barnes, 1988; Sternberg & Sternberg, 2006] tuttavia propongono differenti suddivisioni, dinamiche e considerazioni che mostrano la non riducibilità dell’amore romantico alle pur preziose conoscenze biologiche, come forse, in quanto fenomeno complesso, la sua non riducibilità tout court.

Manifestazioni patologiche

Se risulta difficile il tentativo di definire univocamente l’esperienza di amore romantico, ancor più lo è definirne le manifestazioni patologiche. La presenza di intense passioni è comune nella fase di innamoramento, nel sentimento di gelosia, o nella malinconia conseguente la fine di un rapporto [Lorenzi, 2010]: distinguere tra espressione sana o patologica di una passione naturale richiede l’adozione di criteri condivisi, non sempre disponibili.

Lo psichiatra Primo Lorenzi suggerisce di adottare quelli proposti da De Clérambeaut [1942]: quantità (abnorme), persistenza (eccessiva durata), incoercibilità (dei contenuti ideici), impermeabilità (di fronte ai riscontri di realtà). Tali criteri richiedono tuttavia l’identificazione di cut-off diagnostici che, disponibili in letteratura per molte patologie, non lo sono per le affezioni amorose.

Dipendenza affettiva

Il costrutto di “dipendenza affettiva” (love addiction) – diverso dalla dipendenza sessuale (sex addiction) – non è presente nei principali manuali diagnostici e di classificazione dei disturbi (DSM 5, ICD 10 e PDM-2). Non si dispone, quindi, di criteri diagnostici ufficiali e universamente riconosciuti, ma possiamo avvalerci unicamente dell’esperienza degli autori che si sono occupati del tema.

Lo psichiatra francese Michel Reynaud [2010] ritiene che il passaggio da una sana passione amorosa alla dipendenza avvenga quando: il desiderio diventa bisogno; la sofferenza si sostituisce al piacere; la relazione prosegue nonostante la ragione ci suggerisca di interrompere a causa delle troppe conseguenze negative. L’autore vi ravvisa il soddisfacimento dei criteri per la dipendenza da sostanza: sforzi infruttuosi per controllare la relazione; notevole assorbimento temporale; importante riduzione o abbandono di attività sociali e ludiche; incapacità di interrompere la relazione malgrado i problemi procurati; come pure una vera e propria crisi d’astinenza con sofferenza e irritabilità.

Propone per la diagnosi la presenza di almeno 3 dei seguenti criteri diagnostici (coesistenti per almeno 12 mesi):

  1. Esistenza di una sindrome d’astinenza caratterizzata, in assenza della persona amata, da una sofferenza importante ed un bisogno compulsivo dell’altro.
  2. Considerabile quantità di tempo dedicato alla relazione.
  3. Importante riduzione della attività sociali, professionali o di piacere.
  4. Desiderio persistente, o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la relazione.
  5. Proseguimento della relazione malgrado i problemi da essa causati.
  6. Esistenza di un problema dell’attaccamento, manifestato da:
  • o la ripetizione di relazioni amorose esaltate, in assenza di periodi d’attaccamento duraturo;
  • o la ripetizione di relazioni amorose dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro.

Eziologia, prevalenza, comorbilità e strumenti

L’eziologia di una dipendenza affettiva sembra implicare alterazioni dei normali percorsi neurobiologici attivi nell’esperienza amorosa e/o dei processi di apprendimento sociale, nonché risentire di influenze socioculturali [Sussman, 2010]. In particolare, i bassi livelli di serotonina – e le conseguenti caratteristiche ossessive – propri della fase di innamoramento [Fisher, 2004], se mantenuti bassi nelle successive fasi di una relazione, potrebbero favorire l’insorgenza di una dipendenza affettiva.

La tesi di una “fixation on early phase” trova supporto in uno studio sulla durata e la felicità delle relazioni di coppia [Acevedo & Aron, 2009] che distingue tra componente romantica e componente ossessiva, mostrando la presenza della prima nei rapporti duraturi e felici, mentre la seconda appare inversamente proporzionale alla soddisfazione dichiarata nei rapporti duraturi (o ha già provocato l’interruzione del rapporto).

  La differenziazione tra componente romantica e ossessiva dell’esperienza amorosa emerge anche da una meta-analisi [Graham, 2011] che sottopone ad analisi fattoriale i dati raccolti da 81 articoli, per un totale di 19.387 individui, cui sono stati somministrati i più comuni test sull’amore (Loving and Liking di Rubin, Love Attitude Scales di Hendrick e Hendrick, Passionate Love Scale di Hatfield e Sprecher, Triangular Love Scale di Sternberg), mostrando che le correlazioni delle sottoscale di cui i test sono composti saturano su tre fattori, identificabili come: love, practical friendship, romantic obsession – quest’ultima strettamente collegata alla sottoscala di “mania” della LAS.

La dipendenza affettiva appare inoltre correlata con lo stile di attaccamento ansioso-ambivalente [Feeney & Noller, 1990], a sua volta correlato con la sottoscala “mania” della LAS [Hendrick & Hendrick, 1989]. Relativamente al genere non sembrano esservi differenze rilevanti; quanto alla personalità i disturbi borderline e di personalità narcisistica appaiano frequenti, ma risultano necessari ulteriori approfondimenti [Sussman, 2010].

La predisposizione comportamentale creata dai meccanismi neurobiologici e dallo stile di attaccamento sembra trovare rinforzo, ed essere indirizzata verso la specifica forma della dipendenza affettiva, da fattori socioculturali, tra cui l’influenza dei media. Tra essi, uno studio [Vannini & Myers, 2002] analizza il contenuto dei più diffusi album musicali, di genere “teen pop”, trasmessi da canali specializzati nel 2000. Su 169 canzoni, 155 affrontano il tema della relazione di coppia, in ogni sua fase. L’analisi dei contenuti mostra una comune rappresentazione dell’esperienza amorosa come: conferitrice di senso ad un’esistenza che ne è altrimenti priva; mai sufficiente; caratterizzata da astinenza, craving, ossessioni, dipendenza. Per quanto la ricezione dei testi musicali non sia passiva, come nella stato “trance-like” descritto da Adorno [1976], ma caratterizzata da un processo di attribuzione attiva del tipo descritto da Hall [1980], la forte ricerca di informazioni per la costruzione di una propria identità personale e sociale, propria dell’età adolescenziale cui il genere è indirizzato, associata all’ingente consumo di tale materiale, suggerisce che questi, ed altri simili stimoli, siano influenti nello sviluppo di una dipendenza affettiva [Sussman, 2010].

Non trattandosi di un disturbo elencato dal DSM 5, dall’ICD 10 o dal PDM-2, la sua prevalenza è di difficile stima. Oltre all’ipotesi di autori [Timmreck, 1990] che la valutano tra il cinque e il dieci per cento della popolazione, può essere indicativo il crescente numero di gruppi di auto-aiuto dedicati all’argomento nei paesi anglofoni (Sex and Love Addicts Anonymous; Love Addicts Anonymous), basati sulla tecnica dei 12 passi. Recentemente è stata proposta una scala di misurazione specifica, la Love Addiction Inventory (Costa et al., 2019) che ci auguriamo potrà essere di aiuto a stime più accurate.

 

Screening e assessment dello spettro autistico: le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale.

Nella valutazione dei disturbi dello spettro autistico ci si affida molto all’osservazione del comportamento della persona e l’intelligenza artificiale può divenire uno strumento oggettivo da integrare nella pratica clinica. 

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 15) Screening e assessment dello spettro autistico

 

Il disturbo dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder – ASD) è un disturbo dello sviluppo neurologico caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e nell’interazione con modelli di comportamento, interesse o attività limitati o ripetitivi (APA, 2013). La diagnosi per ASD può essere difficile poiché non ci sono test medici tipici, come un esame del sangue; per avviare il processo di diagnosi, i medici di medicina generale (spesso pediatri) esaminano i pazienti per la possibilità di tratti autistici e quindi indirizzano i casi potenzialmente positivi a psicologi specializzati o psichiatri per un’ulteriore valutazione comportamentale. La diagnosi di autismo può essere effettuata su bambini di età pari o superiore a 18 mesi, sebbene la ricezione di una diagnosi definitiva possa avvenire in età avanzata (Thabtah, 2017). Il processo diagnostico ASD richiede ai professionisti di condurre una valutazione clinica dell’età evolutiva sulla base di una varietà di categorie (ad esempio eccessi comportamentali, comunicazione, cura di sé e abilità sociali). Esistono strumenti diagnostici comuni per lo spettro autistico come l’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS) e l’Autism Diagnostic Interview-Revised (ADI-R); tuttavia, in assenza di biomarcatori chiaramente identificabili, l’attuale gold standard nei criteri diagnostici si basa su osservazioni comportamentali somministrate da professionisti sanitari (Thabtah, 2017). Il sistema attuale di screening fa dunque molto affidamento sui dati di osservazione comportamentale; tuttavia, nella raccolta di informazioni basate su azioni o risposte anche molto labili a situazioni sociali e sulla loro interpretazione da parte dell’amministratore, i dati di osservazione comportamentale affrontano numerose sfide. A differenza delle scansioni genetiche e di neuroimaging, che hanno un protocollo ottimizzato e consolidato per la raccolta e l’analisi, non esiste un sistema oggettivato per catturare i cambiamenti costanti nel comportamento di un individuo. Per questo motivo, nelle valutazioni rispetto al disturbo dello spettro autistico, i ricercatori si stanno focalizzando sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA) per percepire in modo indipendente e accurato le informazioni rilevanti: la combinazione dell’osservazione clinica e dell’intelligenza artificiale può aiutare a superare i limiti della raccolta dei dati durante lo screening e il processo diagnostico (Song, Kim, Bong, Kim & Yoo, 2019). Infatti l’affidabilità e la validità dei risultati prodotti dalla sola osservazione comportamentale vengono messe in discussione quando si tiene conto della soggettività, che può derivare da differenze nella formazione e nelle esperienze professionali, dalla mancanza di risorse o dall’adattabilità culturale delle valutazioni (Al Maskari, Melville & Willis, 2018). Tali limitazioni all’attuale sistema diagnostico vengono superate, secondo recenti ricerche scientifiche, grazie all’intelligenza artificiale, indicata come un’alternativa promettente nello screening e nell’assessment di questo disturbo (Song, Kim, Bong, Kim & Yoo, 2019). Costruita sulla base delle reti biologiche del cervello umano, l’IA copre un’ampia gamma di tecnologie in grado di eseguire funzioni cognitive imitando l’intelligenza umana (Noorbakhsh-Sabet, Zand, Zhang & Abedi, 2019). Diversi studi hanno applicato l’intelligenza artificiale nel riconoscimento dei sintomi, nella classificazione, nella diagnosi e nella previsione degli outcome delle terapie di numerosi disturbi. Equipaggiata per migliorare l’accuratezza attraverso la ricorsività della sua applicazione, l’intelligenza artificiale può ridurre la probabilità di introdurre inevitabili errori umani: ad esempio, l’IA è in grado di acquisire dati che potrebbero non essere visibili all’occhio umano durante le osservazioni comportamentali, il che può portare a precisa rappresentazione dei dati (Noorbakhsh-Sabet, Zand, Zhang & Abedi, 2019).

L’obiettivo principale degli studi che utilizzano l’intelligenza artificiale e le sue applicazioni nella diagnosi dell’autismo è quello di migliorare l’accuratezza delle scale di classificazione esistenti ma, anche, di creare nuove scale basate su reti neurali (Van Hieu & Hien, 2018).

Vi sono diverse applicazioni dell’intelligenza artificiale nello screening del disturbo dello spettro autistico, alcune di esse implicano la Machine Learning, il Natural Language Processing e le nuove applicazioni su smartphones.

Uno dei sottocampi più comunemente usati dell’IA nella ricerca è la machine learning (ML) ovvero l’apprendimento automatico (Song, Kim, Bong, Kim & Yoo, 2019). I modelli ML sono in grado di produrre conoscenze sulle relazioni di dominio contenute nei dati, spesso denominate interpretazioni. Estraendo informazioni utili e costruendo modelli complessi che superano le prestazioni umane nell’analisi di grandi set di dati, la machine learning può migliorare la comprensione dell’ASD e può ulteriormente aiutare a costruire una base più solida e migliore per effettuare lo screening e fornire una diagnosi di tale disturbo (Song, Kim, Bong, Kim & Yoo, 2019). Il metodo di screening intelligente ha dunque lo scopo di sviluppare un modello di classificazione in grado di prevedere i tratti autistici utilizzando casi storici presenti in memoria; ogni volta che il set di dati di input viene aggiornato, la struttura del modello si modifica automaticamente senza alcun intervento umano. In un recente studio, Stevens (2019) ha identificato sottogruppi dello spettro autistico utilizzando metodi di machine learning linear analysis (LDA) per quanto riguarda le caratteristiche cinetiche della deambulazione: le previsioni hanno raggiunto una percentuale di accuratezza dell’82,5% e una bassa percentuale di errore. Lo scopo di questo studio è stato quello di utilizzare i sottogruppi emersi per realizzare interventi personalizzati e i risultati dimostrano che l’apprendimento automatico è in grado di riconoscere i fenotipi dell’autismo.

Un’altro metodo IA utilizzato per la diagnosi dell’autismo è il Natural Language Processing (NPL). La NPL è un dominio dell’informatica incentrato sulle interazioni tra computer e il linguaggio umano (linguaggio naturale). Alcuni dei compiti più comunemente ricercati nella natural Language processing sono la comprensione del linguaggio naturale, il riconoscimento vocale, la correzione dell’ortografia, il controllo grammaticale e la traduzione automatica (Anagnostopoulou et al., 2020). Un software che utilizza la NPL è il chatbot, uno strumento frequentemente utilizzato nel campo della salute. L’utente sottoposto a chatbot riceve come feedback domande o risposte scritte che assomigliano a quelle che un essere umano darebbe e ogni risposta digitata dall’utente viene salvata e confrontata con le altre presenti e registrate nel sistema. Esattamente queste parole salvate costituiscono la chiave per diagnosticare il sintomo. Successivamente, vengono esaminate le frasi utilizzate dal paziente per diagnosticare la gravità del sintomo. Di conseguenza, le parole chiave vengono esaminate e quando tutte le domande sono terminate, vengono salvati anche i sintomi emersi come output e un albero decisionale fornisce il risultato della diagnosi, con una precisione dell’83,4%.

Un’altra nuova tecnologia di intelligenza artificiale è WearSense, che utilizza le capacità dei moderni smartwatch per il rilevamento di comportamenti stereotipati nei bambini con autismo (Amiri et al., 2017). La tecnologia WearSense è composta da uno smartwatch, uno smartphone con un’applicazione che raccoglie i dati sensoriali dell’accelerometro e anche da algoritmi di machine learning che rilevano e classificano i comportamenti ripetuti, tipici delle persone che appartengono allo spettro autistico. I dati forniti come output presentano un’accuratezza del 96,7% al rilevamento dei comportamenti autistici (Amiri et al., 2017).

In conclusione, l’intelligenza artificiale viene sempre più studiata in relazione agli effetti positivi che può eventualmente avere sulla valutazione dell’autismo. L’apprendimento automatico, l’elaborazione del linguaggio naturale, le reti neurali e le applicazioni telefoniche hanno molto da offrire alla diagnosi dell’autismo e di altri disturbi dello sviluppo neurologico. Di conseguenza è evidente come l’uso delle nuove tecnologie possa aiutare famiglie, medici e bambini nel processo di valutazione, riducendone le tempistiche. Inoltre, l’IA offre l’opportunità di elaborare e classificare una maggiore quantità di dati, con percentuali di successo e accuratezza molto elevate. L’obiettivo principale dello sviluppo e applicazione delle nuove tecnologie è la diagnosi precoce del disturbo, in modo che gli individui affetti da autismo ottengano un intervento adeguato e tempestivo. Pertanto, è importante continuare la ricerca su questo argomento al fine di sviluppare metodi innovativi che rendano il processo di diagnosi più facile, veloce, accurato e meno costoso.

 

Il piacere digitale (2020) di Michele Spaccarotella – Recensione

La bellezza del libro Il piacere digitale è data dalla sua interattività. Michele Spaccarotella ha disseminato per ogni argomento degli esercizi che guidano verso esperienze in grado di stimolare importati riflessioni e prese di consapevolezza personale sul rapporto che stiamo sviluppando con il digitale.

 

Ricordo la prima volta che ebbi tra le mani uno Sharp J-SH04, un telefono cellulare con la fotocamera, correva l’anno 2000. La sensazione che due funzioni tecnologiche potessero fondersi in un solo strumento sapeva quasi di magico. Erano gli anni in cui subivo il fascino indiscutibile dell’innovazione tecnologica. Ricordo vivamente il rumore del modem a 56k che comunicava con la rete telefonica. Quella strana melodia con cui, a led lampeggianti, chiedevo il permesso di entrare in quello spazio da esplorare noto come internet. Ero lì, fremente che attendevo di essere condotto in ogni possibile capo del mondo per poter sbirciare infinite novità, culture e bizzarrie senza muovere un passo dal confort di casa. La sensazione di essere potenzialmente connesso con chiunque e poter scambiare e apprendere una sconfinata infinità di novità era intrisa di euforia e frenesia. Ricordo ancora che c’era un sito in grado di predire con poche domande il giorno della morte di chiunque (di cui oggi posso testimoniarne con gioia l’imprecisione), oppure la webcam con cui osservavo le condizioni delle spiagge di Malibù in tempo reale immaginandomi lì con una tavola da surf, e ancora le primissime riviste di racconti on line che prendevano forma arricchendosi di storie e contenuti. Non sapevo dove mi avrebbe condotto questa avventura mentre mi facevo una scorpacciata di byte, ma nel mio sistema esplorativo c’erano più lampadine accese che sul modem e il mondo appariva sempre più grande, diversificato e ricco di nuovi sapori.

Oggi, percorrendo le strade della città, assisto a piccole scene che rappresentano una parte consistente dell’evoluzione e della diffusione del digitale: una donna che si spalma in posa accattivante su un muretto mentre il fidanzato si contorce cercando l’angolatura migliore per ritrarla con un monumento di sfondo; una giovane adolescente dall’abitacolo di un auto con la madre riprende sorridente entrambe in un momento “interessantissimo” di traffico cittadino probabilmente per dare vita a una stories di Instagram destinata a dissiparsi in 24 ore; la vettura che mi segue, quasi mi tampona perché il suo autista sta controllando qualcosa sullo schermo del suo smartphone che probabilmente non può attendere. Il tutto avendo guidato meno di cento metri. Insomma, in tutta sincerità, personalmente non me l’aspettavo proprio cosi. La mia abitudine di pormi delle domande me ne sta sventolando una davanti agli occhi in questo preciso momento: che cosa ci è successo?

Parcheggio e, facendo uno slalom sul marciapiede, tra il passo confuso e disorientato delle persone portate a spasso da un telefono che assorbe in toto la loro attenzione, entro in una libreria.

Il Piacere Digitale di Michele Spaccarotella è ben in vista ad attendermi tra i ripiani della sezione di psicologia per darmi una mano nella ricerca di risposte.

Aprendo le pagine per andare all’indice non posso fare a meno di soffermarmi sul profumo della carta stampata e penso “questa caratteristica un tablet non l’avrà mai”.

Trovo subito interessante la divisione con cui l’autore organizza gli argomenti del libro: corpi, relazioni, applicazioni e il piacere fuori controllo. Questa organizzazione in macro temi permette da subito di inquadrare l’universo delle interazioni umane con il mondo digitale in un modo comprensibile e puntuale. Una foto in bianco e nero su come le nostre vite sono cambiate in rapporto all’evoluzione digitale degli ultimi vent’anni frutto di un lavoro puntuale e attento. Questa inquadratura è quella di un osservatore privilegiato: dalla poltrona del terapeuta. Una posizione che permette una visione della vita umana da una prospettiva intima e profonda, dove pregi e debolezze della nostra esistenza fanno capolino spogliandosi dei filtri che normalmente li offuscano. Michele Spaccarotella è lì con la penna in mano e taccuino sul bracciolo pronto a non farsene sfuggire neanche uno. Raccoglie osservazioni che non hanno a che fare unicamente con la dimensione del piacere, ma con la nostra essenza umana che si esprime e si racconta attraverso la nostra esperienza con il digitale oggi. Pregi e debolezze sono minuziosamente appuntati attraverso recenti dati clinici e di letteratura sull’argomento e il tutto viene descritto andando a soddisfare curiosità e rigore scientifico, fornendo anche dati e statistiche su i vari fenomeni descritti.

Come ogni bellissimo inizio pieno di entusiasmo e sorpresa oggi osserviamo il lato oscuro di quella rivoluzione sociale che vede come protagonista “l’Homo Digitans” in tutte le sue caratteristiche osservabili. Lo osserviamo curvo sullo schermo di uno smartphone o di un PC, un po’ più disinteressato dal mondo analogico e costantemente assorbito dalla vita on-line rischiando di perdere di vista ciò che è realmente importante, la vera dimensione del piano interpersonale. Una figura che viene assorbita da un mondo che sembra offrire facili risposte alla propria esistenza, restando sulla superficie di uno schermo dove l’ipotesi peggiore rischia di essere proprio quella dello specchiarsi su di essa senza conoscersi realmente.

Michele Spaccarotella descrive come le nostre abitudini sono cambiate e se ne siano aggiunte di nuove. Lo fa con spirito critico, ma non con quello di chi emette una sentenza di condanna, anzi, non tralascia di evidenziare le potenzialità di questa opportunità evolutiva disseminando i giusti avvertimenti e stimolando riflessioni importanti che riguardano tutti.

Lo comprendiamo subito dalla prima parte del libro quando viene descritto un fenomeno che non risparmia quasi nessuno di noi: il selfie. Una pratica tecnologica diffusissima, in grado di illuderci a tal punto tanto da farci provare la sensazione di poter manipolare la nostra rappresentaIone del Sé. Uno strumento ambivalente che ci fa provare la brezza del potere di piacere esponendoci a critiche incontrollabili e aumentando esponenzialmente in noi il nostro senso di fragilità. Siamo esposti a un rapporto con l’altro che non è facilmente confrontabile attraverso la realtà materiale. È un altro fluido, volatile e inafferrabile a cui basta un like per farci oscillare tra il sentirci apprezzati e il sentirci criticati o rifiutati. Affrontiamo questa insicurezza cercando di rendere questa nostra immagine digitale sempre più desiderabile. Possiamo farlo senza limiti, modificandola per apparire sempre meglio, perdendo di vista però quanto ogni filtro che utilizziamo ci allontana da un confronto sincero e clemente con la realtà. La soluzione? Semplice, aumentiamo l’investimento là dove è facile sentirsi migliori ovvero nella rete, magari con l’ausilio di un nuovo filtro, divenendo sempre più prigionieri di un Sé ideale che racconta sempre meno di noi.

La dimensione del Selfie non è certo l’unico fenomeno ad essere raccontato con il puntuale occhio clinico dell’autore. “Lo smartphone sembra essere divenuto un oggetto transizionale digitale” afferma Spaccarotella nel descrivere il panorama delle nuove “patologie da iperconnesione”: nomofobia, f.o.m.o (fear of missing out) e il vamping sono tra queste. Tutto il libro è un aggiornamento continuo di una terminologia che descrive come la nostra essenza umana abbia cercato spazio nel mondo digitale e on-line, attraverso termini che descrivono le nostre difficoltà umane: ghosting, caspering, benching sono solo alcune delle definizioni con cui è possibile raccontare la nostra crescente difficoltà nel vivere relazioni in modo sano, appagante e profondo.

La bellezza di questo libro è data dalla sua interattività. Nonostante le sue parole siano impresse nella cellulosa, Michele Spaccarotella ha disseminato abilmente per ogni argomento degli esercizi che guidano verso esperienze in grado di stimolare importati riflessioni e prese di consapevolezza personale sul rapporto che stiamo sviluppando con il digitale.

Le schede inserite nel libro, sono occasioni che l’autore ci dà per considerare e riflettere riguardo ad aspetti della realtà che rischiamo di perdere o sminuire, smettendo di sottoporli alla nostra mente analogica, affidandoli sempre più a funzioni digitali esterne a noi, spinti da una ricerca di piacere a appagamento che forse ancora non abbiamo compreso del tutto.

Rinunciamo alla nostra attenzione, riduciamo l’uso della memoria e alla nostra capacità di problem solving per utilizzarli come moneta di scambio al fine di acquistare riconoscimento, senso di potere per la nostra comunicazione, riducendo e semplificando la percezione del tempo e degli spazi. Ora chi è del mestiere sa molto bene quanto spesso il paziente in un momento di fragilità sia disposto ad accogliere a braccia aperte una soluzione facile in grado di abbassargli ansia e senso di frustrazione. Sappiamo anche quanto questa rassicurazione immediata, semplice e momentanea possa indirizzare una persona verso una direzione fragile e precaria, riducendo la sua esplorazione e la sua agency. Proprio attraverso le schede “in treatment” presenti nei vari capitoli ci si affaccia nella stanza della terapia, dove è possibile assistere a scorci di vissuti clinici dove l’autore descrive storie e modi in cui il digitale accoglie le nostre fragilità divenendo uno strumento che, dopo aver offerto facili soluzioni, spesso si scopre esser divenuto parte integrante delle pareti che tengono chiuso il paziente in una stanza di malessere.

Come Susanna che riesce a dare vita alla sua fantasia di essere guardata e ammirata senza esporsi a un diretto pericolo. Oppure Luca che assorbito dal porno, ha perso la strada del piacere nella relazione con la propria compagna.

Sapete cos’è “il numero di Dunbar”? Vi sorprenderebbe sapere quanta differenza vi sia tra il numero di persone con cui si possono mantenere relazioni sociali stabili e il numero di contatti che abbiamo sui social.

Spaccarotella parte dal concetto di “amore liquido” descritto dal sociologo Bauman (2003) per raccontare come i rapporti umani stiano inevitabilmente cambiando allo scopo di adattarsi a una nuova realtà. Il caso di Lorenzo descrive molto bene come la fragilità e l’incertezza relazionale trovino facile e illusorio conforto nella facilità di reperire dal web relazioni facili. “Una pesca a strascico” in grado di regalare piccole dosi dell’emozione umana della conoscenza e della conquista, senza però risparmiarsi di indebolire la nostra capacità di creare legami appaganti e duraturi.

La relazione è un posto complicato da sempre, nel quale ci muoviamo spesso accompagnati da un senso di equilibrio precario. Costantemente mettiamo in pratica dei tentativi di equilibrio; occorre molta pratica per imparare a farlo. Utilizziamo molti strumenti per riuscirci, alcuni interni a noi, altri esterni. Questi ultimi rischiano di essere insidiosi perché pre-costituiti da facili soluzioni che non dicono realmente molto di ciò che siamo. Vivere le nostre relazioni esclusivamente sui social ci espone esattamente a questo, a precarietà e conoscenza superficiale di noi stessi e degli altri.

Byte e neuroni hanno creato connessioni invisibili e indissolubili con cui dobbiamo necessariamente imparare a convivere. Nessuno ci aveva preparato a tutto questo, ma è necessario prenderne consapevolezza e spirito critico per evitare che le nostre fragilità subiscano un duro colpo da parte di questa dimensione così potente, fluida e condizionante che è divenuta un amplificatore della nostra esistenza.

Se non ne siete convinti provate a passare una settimana senza Smartphone facendo caso a come vi possiate sentire.

Insomma prenderne coscienza è non solo opportuno, ma una reale necessità e l’opera di Michele Spaccarotella è indubbiamente uno strumento analogico dettagliato e ben strutturato a tale scopo.

 

Psicoterapia single-session per il disturbo d’ansia sociale: utilità e accettabilità di singole sessioni di ristrutturazione cognitiva e di interventi mindfulness

Lo studio ha esaminato l’accettabilità e l’utilità percepite da individui con disturbo d’ansia sociale, relative sia a strategie di ristrutturazione cognitiva, fondamentali negli interventi CBT, sia a tecniche mindfulness, estrapolate da sessioni di pratica della consapevolezza, riferendosi in particolare a singole sedute

 

La terapia cognitivo-comportamentale (ing. Cognitive-Behavioral Therapy, CBT) e gli interventi basati sulla mindfulness sono trattamenti fondati sulle evidenze ampiamente utilizzati per moltissimi disturbi psicologici. In alcune circostanze, tali terapie possono essere sintetizzate in singole sessioni al bisogno, specifiche per determinati tipi di disturbi. Alla luce di ciò, è interessante prestare attenzione all’opinione dei pazienti riguardo le suddette single sessions. Infatti, anche se molte ricerche hanno dimostrato la loro efficacia, sono stati condotti pochi studi su considerazioni ed atteggiamenti dei pazienti verso questi trattamenti (Shikatani et al., 2019). Le single sessions sono ritenute utili ed accettabili o ad esse si preferisce piuttosto non svolgere alcun tipo di intervento psicologico? In seguito, sarà illustrato uno studio pilota che si è proposto di rispondere a tale interrogativo.

Lo studio di Shikatani e collaboratori ha esaminato proprio l’accettabilità e l’utilità percepite relative sia a strategie di ristrutturazione cognitiva, fondamentali negli interventi CBT, sia a tecniche mindfulness, estrapolate da sessioni di pratica della consapevolezza (Shikatani et al., 2019). In particolare, gli autori hanno indagato l’utilità percepita di singole sedute delle terapie sopracitate in individui con disturbo d’ansia sociale (ing. Social Anxiety Disorder, SAD) per la ruminazione post-evento (ing. PostEvent Processing, PEP), cioè il periodo di intensa riflessione su un evento sociale passato che è tipicamente negativo e di natura ruminativa (APA, 2013; Kocovski, et al., 2005).

Il motivo per cui è stato preso in esame il PEP è che si suppone che esso sia un fattore chiave nel mantenimento del SAD e dei suoi vari sintomi, e ciò ha portato ad una maggiore attenzione nei confronti di questa variabile nello studio in questione. Nella sperimentazione, 58 adulti con SAD e ansia relativa al parlare in pubblico hanno completato diversi questionari sui loro sintomi di ansia sociale e sul loro livello di disagio con l’eloquio, ed hanno inoltre eseguito un discorso improvvisato che inducesse il PEP. In seguito, i partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a singole sessioni di mindfulness, di ristrutturazione cognitiva, o a condizioni di controllo attivo (Shikatani et al., 2019). Le condizioni di controllo consistevano in 20 minuti in cui i soggetti svolgevano un discorso a braccio che non fosse seguito da alcun tipo di sessione terapeutica. In questa condizione è stato detto ai partecipanti che spesso è utile pensare ad eventi passati percepiti come negativi per abituarsi ai pensieri che possono avere su di essi: sono state somministrate queste istruzioni per facilitare la generazione del PEP nei partecipanti. Nella condizione in cui i soggetti hanno partecipato ad un incontro mindfulness di circa 40 minuti, essi sono stati preparati allo svolgimento di alcune pratiche della consapevolezza. In seguito, i soggetti hanno completato un esercizio guidato di 3 minuti incentrato sul respiro e tre esercizi guidati di 7 minuti che incoraggiavano a notare e accettare pensieri ed emozioni relativi al discorso precedentemente svolto.

Nella condizione di ricostruzione cognitiva (circa 40 minuti), è stata fornita ai partecipanti una dettagliata psicoeducazione su ansia, pensieri ansiosi e distorsioni cognitive, ed in seguito è stato svolto un lavoro di modificazione e ristrutturazione dei pensieri disfunzionali. Il giorno seguente, i partecipanti hanno completato un questionario per valutare l’accettabilità e l’utilità percepita della strategia svolta il giorno prima (Shikatani et al., 2019). Gli individui che avevano praticato una sessione di mindfulness e coloro che avevano svolto un intervento di ristrutturazione cognitiva avevano valutato entrambe le strategie apprese nelle singole sessioni come significativamente superiori rispetto alla condizione di controllo attivo per quanto riguardava le misure di utilità attuale e prevista, e avevano considerato un uso continuato della strategia (Shikatani et al., 2019). Per ciò che concerne il confronto tra i due tipi di sessioni singole di ciascun intervento, non sono state trovate differenze significative tra le strategie di mindfulness e di ristrutturazione cognitiva su nessuna delle variabili dipendenti (cioè, credibilità della strategia, utilità percepita, uso continuato previsto e gradimento) (Shikatani et al., 2019).

In conclusione, da questo studio è emerso che singole sessioni di strategie mindfulness e di ristrutturazione cognitiva sono state ritenute utili ed accettabili da persone con SAD. Secondo il campione di soggetti con disturbo d’ansia sociale, infatti, sia la single session CBT, sia quella mindfulness-based sembrano aver passato un esame preliminare che ne ha confermato la validità. Questo primo studio sull’argomento ha mostrato valutazioni favorevoli dei pazienti per le single sessions dei due tipi di terapia in questione. Sarebbe auspicabile ulteriore ricerca sull’argomento per generalizzare tali risultati, nonché per individuare l’utilità e l’accettabilità relative a single sessions di altri tipi di terapia secondo differenti tipologie di pazienti.

La prospettiva scientifica nella concettualizzazione del caso – Il nono episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del nono episodio della serie dedicato alla prospettiva scientifica nella concettualizzazione del caso. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Sandra Sassaroli.

 

LA PROSPETTIVA SCIENTIFICA NELLA CONCETTUALIZZAZIONE DEL CASO

Le implicazioni psicologiche del ramadan sulla prestazione sportiva – Osservanze religiose e attività sportiva: un’integrazione possibile

Una comprensione degli effetti del Ramadan sulle prestazioni atletiche è essenziale per preparatori e scienziati sportivi al fine di riuscire meglio a far fronte a questo vincolo annuale, senza aggravare i fattori fisiologici e psicologici implicati.

 

Ramadan è il nome del nono mese dell’anno nel calendario lunare musulmano. La prescrizione coranica stabilisce che in questo mese, nel quale avvenne la prima rivelazione, i musulmani debbano quotidianamente osservare, dall’aurora al tramonto, l’astinenza totale da cibi e bevande, dai rapporti sessuali e dal fumo. (Treccani)

Ma quanto influiscono queste alterazioni nella vita di uno sportivo? È possibile conciliare la vita religiosa con quella atletica, anche durante il Ramadan?

Sebbene, la maggior parte degli atleti continui ad allenarsi e gareggiare durante il nono mese lunare, gli studi dimostrano che il Ramadan è associato a cambiamenti comportamentali che influenzano le risposte metaboliche, fisiologiche e psicologiche di una sessione di allenamento o di una competizione (Chtourou et al., 2014). Il digiuno e in particolare l’assenza di assunzione di liquidi durante la giornata ha inevitabilmente, infatti, una forte implicazione per la prestazione (Ani set al., 2009).

Tuttavia, l’impatto dell’osservanza del Ramadan sulle prestazioni fisiche presenta risultati incoerenti (Boukhris et al., 2019): alcuni studi hanno dimostrato che la forza e le prestazioni aerobiche e anaerobiche ad alta intensità sono influenzate negativamente, mentre altri non sono riusciti a osservare sostanziali decrementi delle prestazioni.

Sebbene gli studi rivelino risultati differenti, un allenatore non può trascurare i fisiologici scompensi derivati sul singolo atleta.

È innegabile, infatti, che l’impatto del Ramadan sul sonno e sull’assunzione di cibo e liquidi possono rappresentare potenziali fattori negativi sulle prestazioni (Trabelsi et al.2017).

Di conseguenza, i decrementi della funzione fisica possono portare ad un aumento dello sforzo percepito e dello stress mentale durante l’allenamento e, più gravemente, a una maggiore incidenza di infortuni e malattie (Chtourou et al., 2011). Inoltre, durante il Ramadan gli atleti musulmani segnalano un aumento di percezione della stanchezza, della malattia ed evidenti sbalzi d’umore che potrebbero portare alla loro incapacità di sostenere lo sforzo fisico, soprattutto se è richiesto un impegno prolungato ed intenso (Boukhris et al., 2019).

Nonostante, infatti, ci siano poche ricerche volte ad indagare gli effetti psicologici del Ramadan sulle prestazioni sportive è ipotizzabile un calo motivazionale, un cambio del tono dell’umore contraddistinto da emozioni di rabbia, irritazione, scoraggiamento, apatia, etc, legati ai cambiamenti alimentari, all’ipoidratazione e alle alterazioni del ciclo sonno-veglia.

L’ipotesi è sostenuta anche da alcune ricerche sulla comunità musulmana (non sportivi) che mostrano un aumento significativo dell’irritabilità durante il mese, a seguito dei grandi cambiamenti delle abitudini quotidiane (Kandri et al., 2000).

Non si può, però, non sottolineare che il mese lunare non coincide sempre con lo stesso mese; per questo capita di dover adempiere a tale pilastro in qualsiasi stagione dell’anno.

Questa apparente irrilevanza contribuisce ad una significativa flessibilità di adattamento.

Un fedele, ed in questo caso un atleta, potrebbe incontrare maggiori difficoltà nei mesi estivi rispetto a quelli invernali sia per motivi climatici, di temperatura, sia per la durata delle ore del giorno.

Ma per un credente (di qualsiasi religione) è davvero così impegnativo integrare la dimensione spirituale con gli impegni della vita che conduce?

A questa domanda non esiste, ovviamente, una risposta generalizzabile a tutti gli individui ma è importante indagare cosa rappresenta la componente religiosa nella vita del soggetto per trovare un responso.

Assecondare un proprio bisogno di spiritualità rappresenta per molti una dimensione imprescindibile della propria identità, pertanto l’osservanza a certi precetti non va intesa come un sacrificio a cui si chiede di dover sottostare passivamente. Per i musulmani, anzi, il Ramadan è un’occasione virtuosa che insegna a controllare i propri impulsi e che invita a riflettere sul proprio corpo e sulla propria mente.

A tal proposito, è importante ribadire che, tra i fattori che influenzano le strategie di coping, il background religioso e spirituale gioca un ruolo importante. Dunque, poiché i musulmani prestano maggiore attenzione ai loro compiti religiosi nel mese sacro del Ramadan, si ritiene che il loro stato fisico e psicologico possa, invece, comunque essere influenzato positivamente in questo mese (Pargament et al., 1990).

Addirittura per un atleta queste settimane di astinenza potrebbero rappresentare un allenamento mentale di notevole efficacia per affrontare positivamente anche la stagione agonistica.

Ma come gestire competizioni imminenti durante il mese sacro?

In passato il Ramadan ha coinciso più volte con importanti appuntamenti sportivi, come ad esempio Olimpiadi, Campionati di Calcio Europei, etc, rendendo per uno sportivo di fede musulmana molto difficoltosa la possibilità di rispettare le norme religiose.

A tal proposito, in occasioni eccezionali esistono delle deroghe da parte delle autorità spirituali musulmane, che consentono di interrompere o posticipare il digiuno e l’astinenza; tra questi rientrano i casi in cui i fedeli si trovano, per motivi di viaggio, ad una distanza superiore agli 84 km dal loro luogo abituale di preghiera.

Ciò significa che, seppure il rapporto possa sembrare difficile, è comunque possibile!

A prescindere dal mese in cui coinciderà il Ramadan e dalle competizioni previste in quei giorni, un allenatore è dunque chiamato a sostenere i bisogni individuali dei suoi atleti proponendo allenamenti con un’intensità diversificata, in orari più agevoli.

Una comprensione degli effetti del Ramadan sulle prestazioni atletiche è, infatti, essenziale per preparatori e scienziati sportivi al fine di riuscire meglio a far fronte a questo vincolo annuale, senza aggravare i fattori fisiologici e psicologici implicati.

 

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