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eSPORT e Internet Gaming Disorder: il confine tra gioco e dipendenza

I bambini e gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili a comportamenti a rischio e forme di dipendenza. Il tempo eccessivo trascorso giocando/impegnandosi in eSport può, difatti, influire considerevolmente sul loro apprendimento, sul benessere mentale e sullo sviluppo.

 

Negli ultimi due decenni giocare ai videogiochi è diventata un’attività popolare in tutto il mondo, al punto che esiste una percentuale di giocatori che ha fatto di questo momento ricreativo una vera e propria professione e trascorre ogni giorno molte ore a padroneggiare e a migliorare le proprie abilità (Bányai et al., 2019).

La sempre più diffusa disponibilità ed il successo dei giochi online e il crescente numero di appassionati, infatti, ha dato vita a competizioni virtuali, rendendo quello che era un passatempo ludico una pratica sempre più professionalizzata e per la quale serve allenarsi in maniera costante, al pari di qualsiasi disciplina atletica (Giunti, 2018).

Gli sport elettronici, anche definiti eSport, si riferiscono, pertanto, a forme di videogiochi agonistiche e organizzate che possono essere giocate individualmente o in squadra ed essere seguite dagli spettatori di persona o tramite servizi di streaming.

Con il progresso delle tecnologie digitali, c’è stato un aumento esponenziale in tutto il mondo della popolarità degli eSport e di conseguenza, un aumento considerevole del numero di tornei nazionali e internazionali con introiti monetari tali da garantire ai players una vera e propria possibilità lavorativa a tutti gli effetti (Brevers, King, & Billieux, 2020).

Ma è corretto paragonare gli eSports agli sport tradizionali?

Al momento, il ruolo e l’impatto degli eSport non sono chiari e riscuotono ancora molte polemiche.

Molti, infatti, non considerano queste nuove attività competitive come forme di sport poiché non è implicata nessuna prestazione fisica. Tra questi, il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) nel 2018 ha messo in dubbio la generale mancanza di atletismo e fisicità degli eSport, non ritenendo, di conseguenza, per il momento di inserire il gaming nelle discipline olimpiche.

Ma soprattutto, da non sottovalutare, si ritiene che la violenza, le esplosioni, le uccisioni e la discriminazione di alcuni dei giochi violino i valori olimpici (Chung et al., 2019).

Nonostante queste valutazioni è importante riconoscere che in queste attività sono necessarie capacità motorie raffinate e ad alta intensità, nonché una coordinazione occhio-mano rapida e accurata, paragonabile ad esempio a quella richiesta nel tiro con l’arco.

La preparazione fisica non è, quindi, totalmente esclusa nella riuscita degli eSport; se non si è allenati fisicamente ogni gesto è semplicemente più lento e meno efficiente. I giocatori d’élite dei giochi online sostengono, inoltre, che un alto livello di cooperazione, coordinamento e pensiero strategico sono componenti essenziali per vincere. Alla base di una prestazione di successo è indispensabile, dunque, non solo l’ottima conoscenza del gioco, ma un allenamento regolare e pianificato volto ad affinare soprattutto la capacità di pensare in maniera strategica, di prendere decisioni rapidamente e con intelligenza, di mantenere alta la concentrazione e di affrontare eventuali imprevisti e sconfitte; bisogna sapersi adattare agli avversari, comunicare in maniera efficace con i compagni di squadra, avere fiducia nelle proprie abilità e definire dei piccoli obiettivi da conseguire volta per volta (Chung et al., 2019).

Ma siamo sicuri che una preparazione costante di molte ore settimanali, in questo caso, faccia bene alla salute?

Negli ultimi anni c’è stata una crescente preoccupazione, anche da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), degli effetti che l’uso eccessivo di videogiochi comporta sia in termini di salute fisica che mentale.

Alcune ricerche evidenziano una sintomatologia varia che si esprime attraverso: stress, disturbi del sonno, problemi di vista, dolori muscoloscheletrici, lesioni da uso eccessivo, disturbi metabolici o aumento di peso, e altri problemi comportamentali (ad esempio, dipendenza, violenza, aggressività) (Yin et al., 2020).

Secondo alcuni clinici il crescente fenomeno degli eSport potrebbe promuovere pratiche di gioco disfunzionali e disagio psicologico, che potrebbe culminare in una vera e propria esperienza patologica.

Tra tutti, i bambini e gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili a comportamenti a rischio e forme di dipendenza. Il tempo eccessivo trascorso giocando/impegnandosi in eSport può, difatti, influire considerevolmente sul loro apprendimento, sul benessere mentale e sullo sviluppo.

Di fronte a questa evidenza, l’Oms ha voluto introdurre il Gaming disorder nell’ICD-11 all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze.

Il disturbo da gioco – gaming disorder (GD) – è caratterizzato da una perdita di controllo che comporta l’incapacità di regolare la durata delle sessioni di gioco o il contesto in cui si svolgono (Brevers,  King, & Billieux, 2020), con effetti deleteri anche negli altri ambiti di vita del soggetto. Anche nella quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5) compare una diagnosi molto simile.

L’ Internet Gaming Disorder (IGD) viene inserito, infatti, nel 2013 dall’American Psychiatric Association ed è spiegato attraverso nove criteri comportamentali. Si considera una condizione clinica l’uso persistente e ricorrente di internet per partecipare a giochi che porta ad una compromissione o disagio significativo per un periodo di almeno 12 mesi. L’individuo con tale diagnosi manifesta:

  1. Preoccupazione riguardo ai giochi su Internet
  2. Sintomi di astinenza quando viene impedito il gioco
  3. Tolleranza – bisogno di trascorrere crescenti quantità di tempo
  4. Tentativi infruttuosi di limitare la partecipazione
  5. Perdita di interesse verso i precedenti hobby e divertimenti
  6. Uso continuativo ed eccessivo dei videogiochi nonostante la consapevolezza dei problemi psicosociali
  7. Avere ingannato i membri della famiglia, i terapeuti o altri riguardo alla quantità di tempo passata giocando su Internet
  8. Uso dei giochi su internet per eludere o mitigare stati d’animo negativi
  9. Perdita di una relazione, un lavoro o un’opportunità formativa o di carriera a causa della partecipazione costante all’attività di gaming.

Alla luce di questi sintomi, il disturbo del gioco, pertanto, condivide molte caratteristiche con le dipendenze dovute a sostanze psicoattive e con il disturbo del gioco d’azzardo, nelle quali sono peraltro attivate aree cerebrali simili (Saunders et al., 2017).

Come superare allora il dualismo sport – disturbo?

L’attuale formulazione dei criteri proposti dal DSM 5 non sembra distinguere il gioco problematico dal gioco competitivo. Difatti, come è già stato affermato, attualmente gli eSport rappresentano una possibile carriera professionale al pari di altri sport fisici o altre attività lavorative. Ciò significa che, come in qualsiasi altro lavoro, è normale dedicare molto tempo per il raggiungimento di un obiettivo, a scapito anche di altri interessi e relazioni (Nielsen & Karhulahti, 2017).

Tuttavia, è importante ribadire che il successo non nasce da un impegno ostinato e improvvisato, anzi!

Come in qualsiasi sport, appunto, l’eccessivo sovrallenamento è sempre controindicato e controproducente. La preparazione deve essere misurata e graduale, frutto di una pianificazione attenta.

Il giocatore, soprattutto, non deve sentirsi solo nella sua attività e, specialmente agli inizi, non deve mai trascurarne la dimensione ludica e ricreativa che implica la disciplina.

Sulla base di queste ultime considerazioni si ritiene pertanto necessario un supporto emotivo e sociale da parte di esperti e della famiglia del player. Lo psicologo dello sport, in particolar modo ha il ruolo, infatti, non solo di promuovere tecniche di ottimizzazione della prestazione, ma di favorire il benessere dei soggetti implicati nell’attività sportiva e di individuare, eventualmente, segnali clinici.

Al fianco di un team desideroso non solo di vincere, le emergenti squadre e associazioni di eSport dovrebbero sostenere innanzitutto un’interazione tra i giocatori, non solo in modalità online.

Garantire una dimensione umana e reale dell’attività consentirà, difatti, una continuità interpersonale sia online che offline, volta ad assicurare allo stesso tempo un maggior affiatamento di squadra.

 

Corteggiamento romantico e molestie sessuali, qual è il confine?

Il confine tra corteggiamento romantico e molestie sessuali non è sempre chiaro (Mainiero & Jones, 2013). Ciò che passa come seduzione per una persona (ad esempio, chi fa un’avance romantica) può essere fastidioso, o peggio, per un’altra (ad esempio, chi riceve l’avance).

 

Una domanda chiave nei casi di molestie riguarda spesso come la vittima abbia risposto alle iniziali avances romantiche o sessuali del colpevole. In un mondo ideale, a chi riceve delle avances potrebbe bastare dire “no, grazie, non sono interessato” per fare in modo che l’approccio finisca lì. Tuttavia, ci sono molte ragioni per cui le vittime non rifiutano esplicitamente queste proposte indesiderate: preoccupazioni per le ripercussioni, sia professionali (Fitzgerald, Swan, & Fischer, 1995) che reputazionali (Perilloux & Buss, 2008); preoccupazioni che il proprio comportamento venga frainteso (Jensen & Gutek, 1982); dubbi sulla propria esperienza o interpretazione dell’evento (Gutek & Koss, 1993). A queste motivazione si aggiunge un altro aspetto fondamentale che impedisce il rifiuto di un’altra persona, aspetto che spesso viene classificato come banale: è imbarazzante e scomodo (Bohns, 2016). Questo disagio può manifestarsi in una varietà di modi, a seconda del contesto. Chi riceve delle avances romantiche spesso riferisce di sentirsi in colpa per aver rifiutato i pretendenti e di essere preoccupato/a di aver ferito i loro sentimenti (Joel, Teper, & MacDonald, 2014). Le vittime di molestie sessuali esplicite riferiscono di sentirsi spaventate e acquiescenti (Woodzicka& LaFrance, 2001, 2005). In entrambi gli scenari, chi riceve le avances alla fine si trova in una situazione scomoda, al punto che, come risultato di queste preoccupazioni, spesso trova più facile sorridere, ridere o ignorare un’osservazione sessuale inappropriata piuttosto che affrontarla (Woodzicka & LaFrance, 2001, 2005). Allo stesso modo, chi riceve delle avances romantiche indesiderate può comunicare il rifiuto indirettamente (Baumeister et al., 1993), o addirittura accettare le avances di corteggiatori poco attraenti (Joel et al., 2014), al fine di evitare il disagio di rifiutare qualcuno apertamente. Bohns e DeVincent (2019) hanno condotto due studi per indagare le preoccupazioni dei destinatari delle avance indesiderate, la percezione da parte dei corteggiatori di tali preoccupazioni e la loro capacità di riconoscere le varietà dei modi in cui i destinatari delle avances modificano i loro comportamenti per far fronte al disagio sperimentato nel rifiutare le avances: nel primo studio i ricercatori hanno sollecitato i ricordi di persone che hanno fatto tali esperienze, mentre nel secondo studio i partecipanti sono stati assegnati a caso a due diverse condizioni utilizzando vignette ipotetiche.

Il primo studio è stato condotto su studenti laureati in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica (STEM). Questo contesto è stato scelto perché, come mostrato dalla precedente letteratura, risulta più difficile per le donne ricoprire e mantenere posizioni lavorative in questo campo e, tra i fattori che rendono difficile questo obiettivo, vi è la presenza di comportamenti che inizialmente vengono scambiati per un corteggiamento romantico per poi degenerare in molestie sessuali (Blickenstaff, 2005; Jagsi et al., 2016; Roberts & Ayre, 2002; Servon & Visser, 2011; Settles, Cortina, Malley, & Stewart, 2006). Pertanto, è stato ritenuto un contesto idoneo a esplorare se i corteggiatori sottovalutano l’impatto emotivo delle loro avances sui “corteggiati”, così come se ci sono differenze di ruolo nell’apprezzare le potenziali conseguenze a valle di queste avances, in particolare quelle che potrebbero colpire sproporzionatamente le donne. I partecipanti sono stati reclutati tramite mail: dei 2.764 studenti a cui era stata inviata, 942 hanno risposto ad almeno una domanda, e 277 di essi hanno dichiarato di aver fatto delle avances a qualcuno che non era interessato all’interno del proprio settore, o sono stati oggetti di avances indesiderate da parte di qualcuno del proprio settore. Tutti i partecipanti hanno risposto a tre domande iniziali:

  1. E’ mai stato corteggiato romanticamente da qualcuno nel suo laboratorio, campo accademico o posto di lavoro accademico a cui non era interessato?
  2. Ha mai mostrato eccessivo interesse a qualcuno nel suo laboratorio, campo accademico o luogo di lavoro accademico che ha scoperto non essere interessato a lei?
  3. Ha mai sentito parlare di qualcuno (diverso da lei) che è stato importunato da qualcuno con cui lavorava nel suo laboratorio, campo accademico o luogo di lavoro accademico e a cui non era interessato?

Per ogni domanda, i partecipanti hanno anche riferito quante volte è successo. I partecipanti che hanno risposto in maniera affermativa hanno dovuto compilare un questionario con ulteriori domande a riguardo volte a indagare: (1) i dettagli dell’esperienza (come si sono verificate le avances o il rifiuto, il motivo della mancanza di interesse alla/della persona, la relazione tra le persone coinvolte); (2) quanto è stato difficile e scomodo per chi riceveva le avances rifiutare il corteggiatore; (3) le preoccupazioni dei “corteggiati” riferite alle ripercussioni professionali e sociali del rifiuto delle avances; (4) le conseguenze comportamentali a valle per chi riceveva le avances (ad es., se il “corteggiato” si è impegnato in comportamenti di evitamento e di reazione, se la sua produttività ne ha risentito).

Il secondo studio ha previsto la partecipazione di 400 soggetti divisi in due gruppi, a cui è stata assegnata, in maniera casuale, la lettura di una stessa vignetta in cui un collega chiede ad un altro collega single, sessualmente compatibile, di uscire per una cena romantica, dal punto di vista del corteggiatore o del “corteggiato”:

Immagina di essere romanticamente interessato a uno dei tuoi colleghi [sospetti che uno dei tuoi colleghi sia romanticamente interessato a te] e ti piacerebbe avere l’opportunità di conoscere meglio questa persona [e sta cercando di trovare un’opportunità per conoscerti meglio]. Sai che il tuo collega è [Sei] single e tu [e il tuo collega] avete orientamenti sessuali compatibili. Una sera state lavorando fino a tardi, e mentre state finendo, tu guardi il tuo collega [questa persona ti guarda], fai un respiro profondo e dici: “Posso portarti fuori a cena?” 

In entrambe le condizioni, dopo aver letto questa vignetta, ai partecipanti è stato detto che colui/colei che ha ricevuto l’avance non era interessato/a al corteggiatore ed è stato chiesto di rispondere a quattro domande: “Quanto sarà difficile per questa persona [tu] dire “no” alla tua [loro] richiesta di portarti fuori a cena?” e “Quanto [male, a disagio, in colpa] si sentirà questa persona [tu] dicendo “no” alla tua [loro] richiesta di portarla [tu] fuori a cena?” Infine, i partecipanti hanno indicato se avevano mai avuto un’esperienza come quella descritta e hanno riportato il loro sesso.

I risultati del secondo studio hanno confermato quelli del primo studio. Precisamente, da quest’ultimo è emerso che dell’intero campione di 942 partecipanti, il 22,8% ha riferito di essere stato corteggiato da qualcuno nel proprio ambito o laboratorio a cui non era interessato, il 14,3% ha riferito di aver corteggiato qualcuno nel proprio ambito o laboratorio che non era interessato a loro, e il 54,2% ha riferito di aver sentito che qualcuno nel proprio ambito o laboratorio è stato corteggiato da qualcuno a cui non era interessato. La maggior parte (88,2%) dei partecipanti, che hanno riferito di averci provato con qualcuno che non era interessato a loro, hanno indicato che è successo soltanto una o due volte. Nello specifico, le donne hanno assunto il ruolo di bersaglio con una frequenza nettamente superiore rispetto agli uomini. Analizzando le reali paure e ripercussioni comportamentali di chi ha ricevuto le avances e la percezione di essi da parte dei corteggiatori, è emerso che i bersagli rispetto a quanto percepito dai corteggiatori: hanno riportato più disagio nel rifiutare le avances indesiderate; hanno riferito di sentirsi obbligati ad assecondare le avances (23.2% dei “corteggiati” v/s 5.2% dei corteggiatori); hanno riferito di essere preoccupati per le ripercussioni professionali di un’eventuale risposta negativa e per ciò che un corteggiatore avrebbe detto di loro ad altre persone; hanno riferito di essersi impegnati in comportamenti di evitamento e di coping, legati alla produttività e alla ritenzione.

Pertanto, in generale, i destinatari delle avance hanno riportato più conseguenze comportamentali rispetto a quanto i corteggiatori si fossero immaginati. Inoltre, è emerso che le differenze di ruolo nella percezione delle conseguenze comportamentali sono il risultato del fallimento dei corteggiatori nel riconoscere la varietà di modi in cui i destinatari delle avances cambiano il loro comportamento per far fronte al disagio di rifiutare qualcuno. Infine, è emerso che per un corteggiatore indesiderato, l’aver avuto una precedente esperienza come bersaglio di avances non gradite influenzava i pensieri su quanto sia difficile per i destinatari di queste avance dire “no” (hanno valutato il disagio di dire “no” più alto rispetto a quei corteggiatori che non hanno fatto questa esperienza). Nello specifico, quest’ultimo risultato suggerisce che gli interventi progettati per favorire la presa di prospettiva potrebbero essere potenzialmente efficaci nel ridurre il bias egocentrico identificato dai in questi studi.

 

Separazioni conflittuali. Conflitto, demonizzazione e paradossi nella coppia in fase di separazione – Intervista agli autori del libro

Renzo Marinello e Davide Sacchelli sono gli autori del volume Separazioni conflittuali. Conflitto, demonizzazione e paradossi nella coppia in fase di separazione, Edra Edizioni. L’intervista di Marco Schneider.

 

Renzo Marinello è psicologo e psicoterapeuta sistemico-relazionale ad indirizzo narrativo costruttivista, opera presso un Consultorio Familiare dell’azienda sociosanitaria territoriale Fatebenefratelli-Sacco. È stato Responsabile dei Centri di Terapia Familiare e dei Poli di Mediazione Familiare dell’ASL Città di Milano, e ha ricoperto l’incarico di Presidente della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica (SIRTS). È docente in Master di terapia di coppia e, con una collega, ha elaborato un modello di consultazione terapeutica sulla crisi di coppia integrando approccio sistemico e approccio psicodrammatico. È autore di diversi articoli apparsi su riviste specializzate, alcuni dei quali dedicati al fenomeno delle separazioni conflittuali.

Davide Sacchelli è psicologo e psicoterapeuta e specialista in Counseling psicologico, lavora da tempo  nell’ambito dei servizi di Tutela Minorile della provincia di Milano come psicologo e come coordinatore di  équipes psico-sociali. È presidente di ASP – Associazione italiana Psicologi. Si occupa di formazione in  psicologia clinica, di terapia individuale, familiare e di coppia utilizzando un approccio sistemico ad indirizzo  socio-costruzionista. E’ didatta presso il CMTF – Centro Milanese di Terapia Familiare. Da alcuni anni si dedica allo studio del fenomeno delle conflittualità post-separative e dell’alienazione parentale.

In fase di redazione dell’intervista, fondamentale è stato il contributo di Irene Colombo, psicologa in formazione presso l’Università Bicocca di Milano.

Schneider: Buongiorno Renzo, buongiorno Davide, sono molto felice di discutere con voi del tema delle separazioni, con particolare riferimento a quelle più conflittuali, sia per la vostra esperienza su questo tema che per la recente pubblicazione del vostro libro. 

Inizio con il dire che parlare di famiglia oggigiorno significa sempre più parlare anche di separazioni coniugali, tanto che all’interno del ciclo di vita delle famiglie si è ormai pensato di inserire la “fase” della separazione. Oggi abbiamo percentuali di separazione coniugale che variano tra il 35 e il 40% in Italia mentre nei paesi del nord Europa la percentuale arriva addirittura all’80%, come ad esempio in Belgio. Alcuni studiosi dicono, secondo me a ragione, che esiste una correlazione positiva tra il livello di sviluppo industriale di un paese o di una società e le separazioni coniugali, nel senso che tanto più un paese è sviluppato industrialmente e culturalmente, tante maggiori sono le separazioni coniugali.  

Ne consegue quindi che in un paese “avanzato” è più “normale” separarsi. Ma è anche più semplice farlo? Separarsi fa parte davvero secondo voi di un processo fisiologico normale nella società in cui siamo inseriti? 

Marinello: Credo che se si vuole considerare la separazione come un processo normale, dobbiamo allora pensare al matrimonio come ad un contratto “a termine” mentre in realtà noi ci sposiamo con un progetto a lungo termine. Ciò spiega secondo me perché la separazione è molto spesso un processo difficile e doloroso. Le coppie oggi sono in qualche modo la sostituzione di quel sociale che manca (non c’è la comunità, non c’è la classe, non c’è la parentela) e quando si sfaldano è un problema importante.

Schneider: Separarsi è difficile in tutti i casi? 

Sacchelli: No, non direi in tutti i casi. Ci sono situazioni nelle quali dopo la separazione alcune persone riescono a ri-raccontarsi dentro ad una storia nuova. Molte altre però non riescono e rimangono ancorate alla storia precedente. In tutto ciò un concetto fondamentale è quello di identità: la relazione definisce l’identità delle persone e quando la relazione si interrompe, soprattutto in modo traumatico ed improvviso, le persone rischiano di avere una crisi, una frammentazione della propria identità.

Certamente la separazione porta sempre con sé una dose di stress, alla quale ciascuno reagisce in modo particolare. Credo dunque che sia difficile generalizzare mentre è più opportuno guardare al caso singolo.

Schneider: E’ certamente vero che la separazione coniugale è un evento fortemente stressante: le varie scale di valutazione la collocano tra gli eventi più stressanti per una persona. Concordo poi quando dite che ogni separazione ha variabili proprie e sul fatto che l’elemento più favorevole per superare bene una separazione sia la capacità di raccontare una nuova storia, rispetto al restare ancorati a vecchie narrazioni di sé dentro a storie vecchie. L’identità si recupera nelle nuove configurazioni relazionali, il senso di sé non si perde se si riesce ad evolvere. 

Sacchelli: Io parlerei proprio di “perdita di senso” nelle separazioni non elaborate e traumatiche. Quando si va incontro ad una perdita di senso si soffre e se non si riesce a ricostruire un nuovo senso si rischia di soccombere al dolore provato.

Aggiungo anche che una parte importante del senso che diamo alla nostra vita prima della separazione è legato ai figli; mai come oggi infatti le persone si riconoscono a livello identitario in qualità di genitori.

Marinello: Il legame con il figlio diventa l’ultimo legame assolutamente irrevocabile; il figlio è per sempre, e per questo è sempre più importante per l’identità.

Sacchelli: Teniamo conto che questo non vale solo per le donne: nasce l’idea dei “mammi”, padri che si occupano tanto dei figli ed instaurano un legame molto forte con loro. In alcuni casi, quando la concentrazione sul figlio diviene eccessiva, si arriva a vere e proprie situazioni di “schiavismo genitoriale”.

Schneider: Certo, i figli oggi sono per un verso sempre più centrali nella vita delle persone. Si dice che il figlio oggi debba “riuscire bene” perché questo rinforza l’autostima spesso fragile del genitore in tempi nei quali la famiglia come istituzione è in difficoltà. 

Marinello: Oggi i figli sono desiderati e per tutta la vita dovranno fare i conti con questo desiderio che li ha generati.

Schneider: Il forte desiderio genera aspettative, e questo non sempre è un bene. 

Chiedo a voi, tecnici con una specifica formazione sistemico-relazionale, di dirci qualcosa rispetto all’idea che la psicologia sistemica ha delle separazioni coniugali. Quali sono le variabili secondo voi fondamentali a cui dare importanza in ambito sistemico

Sacchelli: La sistemica approccia queste situazioni con due idee: l’idea di circolarità e l’idea di contesto. Da una parte le cose succedono in maniera ricorsiva (circolarità) mentre dall’altra tutto ciò che accade nella coppia in separazione accade in un luogo (fisico e mentale) dentro al quale si muove una serie di attori i quali contribuiscono a co-determinarne gli esiti (il contesto). Ritengo che il pregio dell’approccio sistemico sia che non esiste un’idea di causalità ma che esista una connessione tra le varie parti di un fenomeno, mentre contemporaneamente si pensa alle persone come inserite in un contesto sempre ampliabile e definito da diversi autori.

Schneider: Molto interessante. Questo apre anche a possibilità differenti sia di lettura dei vari fenomeni che di intervento terapeutico; mi piacerebbe più tardi tornare su questo tema.  

Noto invece che nel titolo del vostro libro è presente il tema della “demonizzazione”. Che cosa intendete esattamente? 

Marinello: Il tema della circolarità viene rappresentato dalla demonizzazione: si tratta di un processo circolare ricorsivo nel quale l’altro da cui ci si è separati diventa sempre più odiato perchè sempre più temuto. In questo senso il tema della paura è molto importante: lo spavento rispetto all’altro. La demonizzazione fa ad un certo punto il suo esordio nel sistema della coppia separata: attraverso il conflitto che si crea in alcune coppie, la demonizzazione permette di recuperare un pezzo della coppia che è andato perso durante la separazione. Possiamo infatti vedere la separazione come la frantumazione di una narrazione condivisa, dell’assoluto di coppia. Si è in una deriva di senso e la demonizzazione va a sostituire quella coesione, quel senso di sé e della coppia che è stato perso. Consente di mantenere un legame tramite l’odio, dove la demonizzazione ne è il prodotto concreto. Quindi all’interno di una dinamica per la quale mi difendo dall’altro tramite azioni che vengono percepite dalla persona opposta come azioni di attacco, mantengo il legame.

Sacchelli: Nel libro si tratta anche il tema dell’incapacità umana di vedere la propria aggressività o violenza. Noi percepiamo quella altrui ma difficilmente facciamo riferimento a noi stessi. Non siamo capaci di auto-osservazione. Soprattutto quando siamo presi da un momento di rabbia vediamo solo la violenza dell’altro. Noi parliamo di demonizzazione incrociata perché si tratta di un fenomeno reciproco che si auto-alimenta: ciascuno dei due personaggi coinvolti si sente vittima e vede l’altro come “carnefice”.

Schneider: Dunque mi pare di capire che la paura da voi citata nasce dal fatto di vedersi come vittima dell’altra persona, che è vista come un carnefice? 

Sacchelli: Si anche se ovviamente si parla di un “demone” mitizzato.

Schneider: La demonizzazione quindi è un aspetto individuale interpretativo del soggetto che a seguito di una rottura traumatica di una relazione arriva a coprire con esso una mancanza di senso e proietta la sua fragilità sull’altro vedendolo come un qualcuno di cui aver paura? 

Sacchelli: Si. Si tratta però di un processo effettivamente molto pratico. Ad esempio le persone si sentono molto sole e questo le spinge a dipingere l’altra persona come un mostro. Inoltre devono affrontare tutta una serie di questioni quali la gestione dei figli, la separazione economica, ecc..

Schneider: Mi interessa molto la vostra idea per la quale vi sarebbe la volontà delle persone di mantenere il legame con l’ex partner tramite la demonizzazione. Ci aiutate a comprenderla meglio? 

Sacchelli: Su questo aspetto abbiamo discusso durante la stesura del testo. Io non direi che c’è la voglia di mantenere un legame ma che il mantenimento del legame è semplicemente un effetto della demonizzazione. L’effetto di questa situazione, della demonizzazione, è infatti un effetto di mantenimento: le persone sono legate dai sentimenti e in questo caso rimangono legate non da un amore ma da un odio.

Schneider: Quindi il mantenimento del legame è un effetto secondario del circolo della demonizzazione?

Sacchelli: E’ un effetto secondario che fornisce senso, il senso di essere vittima.

Marinello: Vero, abbiamo discusso su questo punto. La mia idea iniziale in merito era che in qualche misura io vedevo queste coppie come aventi tra di loro una passione enorme (anche passione erotica). Credo quindi che la demonizzazione dia la possibilità certamente di sperimentare una nuova identità, la quale però resta molto collegata all’identità dell’altro, visto ora come il mio carnefice. Il legame dunque non viene perso.

Sacchelli: A proposito della demonizzazione voglio aggiungere un altro elemento, importante. Ciò che crea conflitto è la distanza. Il conflitto viene infatti alimentato dalla distanza: quando le persone si mantengono distanti tra loro non c’è bisogno di trovare una soluzione al conflitto. Quanto più si mantengono le distanze per cercare di evitare il conflitto, tanto più in realtà si evita che ci sia la risoluzione dello scontro e il conflitto può perdurare.

Schneider: Il conflitto in altre parole si mantiene in equilibrio e in vita anche grazie alla distanza tra le persone in lotta? 

Marinello: Certo. Aggiungo anche che il contesto stesso ha una forte influenza sul mantenimento delle dinamiche interne alla coppia, e naturalmente anche quelle di conflitto. A questo proposito e allargando il campo di discussione dobbiamo dire che i sistemi clinici [della cura, ndr] tendono a separare le persone, a vederle separatamente e ciò in qualche misura implica l’idea che la distanza sia necessaria per evitare il conflitto, ma non è così. Anzi, ciò alimenta la paura.

Schneider: Davvero interessante. Ci avete dato un’idea da un punto di vista individuale di cosa succede durante le separazioni e di cosa sia la demonizzazione vista in un’ottica interattiva. Vorrei adesso riprendere quanto Renzo diceva prima sul contesto. Cosa ne pensate in particolare del ruolo del contesto familiare, dal punto di vista sistemico, nel mantenimento della demonizzazione?  

Sacchelli: Le famiglie hanno un ruolo importante, spesso di amplificazione della demonizzazione. Spesso tendono a rinforzare il processo di vittimizzazione del proprio figlio anche se ci sono casi in cui la famiglia di origine vede la figlia/o come carnefice e sostiene questo ruolo.

In particolare però soprattutto nei casi di separazioni conflittuali la famiglia contribuisce a definire il senso degli eventi secondo una bipolarità (buono-cattivo, abusante-abusato, chi ha torto e chi ha ragione) e definisce una logica “bipolare” di funzionamento delle cose.

Marinello: Mentre la coppia si muove sulla bipolarità vittima-carnefice, il sistema giuridico e la famiglia si muovono sulla bipolarità colpevole-innocente. Si tratta di logiche in realtà molto simili che vanno ad amplificare la demonizzazione. Il modo in cui si muove la coppia è dunque omologo nella sostanza al sistema giuridico e a quello familiare. L’interazione di questi sistemi fornisce dunque un incremento e un mantenimento della demonizzazione.

Schneider: Considerando adesso i vari contesti che intervengono soprattutto nelle situazioni più conflittuali, vi faccio una domanda sull’aspetto terapeutico. Come clinici che cosa guadagnate e che cosa perdete con il vostro approccio? 

Marinello: Abbiamo costruito un modello di intervento coerente con le premesse da cui siamo partiti. Nella prima fase si lavora con le famiglie di origine, con gli avvocati, introducendo eventualmente nel macrosistema anche dei conoscenti, degli amici che possono aiutare gli ex partner e facendo varie proposte alla coppia, in particolare quella di lavorare con il macrosistema.

Sempre importante è la comunicazione, e lo è ancora di più in questa fase. Considerando come abbiamo detto che la distanza mantiene il conflitto, può essere utile far comunicare le persone direttamente. Si propone alle persone un progetto dicendo loro che la comunicazione diretta aiuta, si cerca di fare in modo che il macrosistema da elemento amplificatore diventi un elemento di ostacolo, di blocco del conflitto.

Sacchelli: L’obiettivo è sia quello del depotenziamento del conflitto sia del riconoscimento; quando si è all’interno di una situazione conflittuale ci si riconosce come vittime e si pensa semplicemente a difendersi dal carnefice, non si riescono a riconoscere le proprie responsabilità nel conflitto. Una parte importante del processo terapeutico è quindi riuscire a fornire questa consapevolezza.

Sostengo che con questo approccio perdiamo “fin troppo poco”: questo approccio si occupa infatti della complessità. Stare in mezzo ad un conflitto è difficile ed essendo le situazioni molto complesse tendiamo a tenere in conto tutti i fattori.

Schneider: Vi chiedo come si liberano secondo voi le persone da questa posizione e da questo coinvolgimento nel conflitto, visto che spessissimo è un conflitto particolarmente accesso e le persone difficilmente riescono a decentrare il loro punto di vista. 

Marinello: Parlando di esternalizzazione. Proviamo a vedere se c’è la possibilità di risignificare per le persone ciò che sta accadendo ponendo il conflitto come una parte terza, un ente dotato di vita e dimensione propria che va a schiacciare i due partner. In questo modo entrambi sono vittime di questo conflitto. Se questo passaggio avviene, si prosegue; esternalizzare è dunque il primo punto, il passaggio successivo consiste nell’assunzione di responsabilità nei confronti del conflitto.

Schneider: Mi pare di capire che secondo la vostra proposta per “curare” le persone da questo conflitto sia necessario in primo luogo unire la coppia “contro” il conflitto stesso, e in secondo luogo è necessario riconoscere le proprie responsabilità: bisogna insomma far capire la posizione di ciascuno rispetto a questo “organismo esterno” che è il conflitto, per modificarla. 

Quanto è importante secondo voi focalizzarsi sul singolo e sulle sue responsabilità o all’opposto comprendere le logiche triadiche alla base del conflitto?  

Sacchelli: Nelle separazioni conflittuali la relazione triadica esiste più tra i partner e i figli piuttosto che con la famiglia d’origine.

Schneider: Questo è interessante perché la letteratura ci dice che la grandissima parte delle coppie che si separa in maniera conflittuale è composta da coppie con figli: la percentuale di coppie che non ha figli e che ha una separazione conflittuale è infatti molto bassa. I figli sembrano quasi essere una condizione necessaria affinchè si sviluppi una separazione altamente conflittuale. 

A tal proposito oggi una delle questioni più dibattute è il tema della sindrome da alienazione genitoriale. Ci aiutate a capire che cos’è? Come avviene? Cosa ne pensa la psicologia sistemica? 

Sacchelli: La sistemica non si occupa molto della sindrome da alienazione genitoriale. Noi abbiamo cercato di trattarla nel libro.

Marinello: Noi la definiamo come una “condizione sistemica” della relazione familiare. I figli non hanno una narrazione condivisa sulla separazione, le narrazioni sono generalmente speculari e opposte; l’alienazione ha a che fare con queste narrazioni ed è scelta del figlio a quale narrazione aderire. L’alienazione in qualche modo è la forma più stabile di adattamento perchè consente di togliersi dal conflitto. Qualsiasi adattamento i figli mettano in atto diventa sempre un potenziatore del conflitto. La demonizzazione attraverso il processo di alienazione cresce sempre di più.

Schneider: Possiamo forse pensare all’alienazione come ad un modo da parte dei figli per sottrarsi ad una situazione insostenibile che è lo stare dentro a due narrazioni inconciliabili? 

Marinello: L’alienazione riesce ad affrontare la marginalizzazione del figlio e riesce a porre un fine al conflitto di lealtà in quanto si ha un’alleanza forte con una parte.

Sacchelli: L’alienazione è sostanzialmente un rifiuto dell’altro genitore, del genitore non convivente. Noi pensiamo che i figli siano dei soggetti attivi nello scegliere di rifiutare l’altro genitore e pensiamo anche che condividano la relazione demonizzante del genitore convivente, in quanto questo serve per mantenere il legame.

Schneider: Molto interessante. Vi chiedo ora se secondo voi un genitore collocatario di un figlio alienante riesca meglio a staccarsi dal partner perchè ritrova il senso nel legame costruito con il figlio. L’alienazione consente quindi di “liberarsi” in modo più veloce ed efficace dell’ex partner? 

Sacchelli: Nella nostra esperienza i genitori “se ne lavano le mani” e dicono al figlio di decidere. Una cosa che caratterizza il nostro approccio è la non intenzionalità; non si tratta di una manipolazione ma di assorbire anche da parte dei figli la paura verso l’altro genitore in quanto fanno parte della relazione demonizzante. Questo approccio ci permette dunque di non colpevolizzare i genitori. Tengo anche a dire che il genitore rifiutato ha anch’esso un ruolo attivo: vengono infatti da lui messi in atto una serie di comportamenti basati su paura, insicurezza e sulla vergogna che sono comportamenti di ritiro. Ad esempio il genitore non si fa sentire proprio per paura di essere rifiutato ma ciò viene percepito dal figlio come abbandono e va a rinforzare l’alienazione.

Importante è anche la questione dell’assenza di aspetti normativi; nell’alienazione il figlio rifiuta la normatività, le regole del genitore alienato, rifiuta il ruolo genitoriale del genitore non convivente.

Schneider: Quali sono le vostre linee terapeutiche rispetto all’alienazione? 

Sacchelli: La linea terapeutica usata si propone un riavvicinamento all’altra persona. In questo senso fondamentale è ridurre la paura e arrivare ad un incontro tra le due parti. Durante l’incontro si cerca anche in questo caso di esternare il conflitto.

Schneider: Importantissimo quindi mi sembra per voi il lavorare sulla meta-comunicazione, sull’uscire dalla dimensione del contenuto per lavorare su una dimensione di più alto livello logico. Inoltre mi sembra che riteniate fondamentale disinnescare la paura dell’altro. 

Sacchelli: Noi parliamo di intervento di “innesco della generatività”. La demonizzazione crea una situazione di impoverimento: vediamo l’altra persona solamente come un mostro, un demone e subiamo dunque un impoverimento della capacità creativa di sviluppare e inventare nuovi significati. Abbiamo un blocco della cosiddetta mentalizzazione. E’ utile aiutare le persone a sbloccarsi e a riuscire a trovare nuove narrazioni che non siano quelle della demonizzazione per spiegare quello che è successo e quello che succede in quanto ciò consente di ridurre la paura. Questo meccanismo aiuta a vedere le persone come essere umani e non più come demoni.

L’intervista è stata fatta nel mese di gennaio 2020.

 

Affrontare il trauma. Verso una psicoterapia integrata (2021) a cura di Giancarlo Dimaggio – Recensione del libro

Un volume in cui alcuni tra gli autori più importanti nella letteratura internazionale e italiana per il trattamento del Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) descrivono i loro lavori con grande ricchezza di esempi clinici.

 

 Giancarlo Dimaggio, psichiatra, psicoterapeuta e fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma, cura questo volume in cui alcuni tra gli autori più importanti nella letteratura internazionale e italiana per il trattamento del Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) descrivono i loro lavori con grande ricchezza di esempi clinici.

Il disordine da stress post-traumatico (PTSD), definito e studiato negli Stati Uniti soprattutto a partire dalla guerra del Vietnam e dai suoi effetti sui veterani, è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito ad esperienze fortemente traumatiche. Può anche essere causato da una esposizione ripetuta e continua a episodi di violenza e di degrado e si manifesta in persone di tutte le età. I sintomi sono classificabili in tre categorie ben definite:

  • episodi di intrusione, cioè ricordi improvvisi che si manifestano in modo molto vivido e sono accompagnati da emozioni dolorose;
  • volontà di evitare e mancata elaborazione, quando un individuo cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che lo riporti al trauma e, al contempo, manifesta frequentemente senso di colpa;
  • ipersensibilità e ipervigilanza, ovvero quando le persone si comportano come se fossero costantemente minacciate dal trauma.

Questo volume descrive alcuni tra gli approcci più diffusi e validati per trattare il PTSD semplice insieme a lavori dedicati alla sua forma complessa; in particolare per quanto riguarda quest’ultima, le ricerche più recenti hanno registrato migliori outcome nei trattamenti combinati. Nell’ottica della possibilità di una terapia integrata nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico, vengono dunque illustrate sia terapie espositive che non, come, ad esempio, la teoria di Esposizione prolungata, la Psicoterapia Interpersonale, l’EMDR, la Schema-Therapy, la Terapia Cognitivo-Evoluzionista integrata all’EMDR, la Control-Mastery Theory, l’Emotion-Focused Therapy, e naturalmente, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) dell’autore, che mira a migliorare la metacognizione, cioè la capacità di comprendere i pensieri, le emozioni, le cause psicologiche dei propri comportamenti disfunzionali, oltre che a promuovere ed affinare la capacità di capire cosa gli altri pensano, provano e cosa li muove ad agire, per promuovere modi di relazionarsi più funzionali attraverso la comprensione degli schemi interpersonali che guidano le azioni.

Non esiste un consenso generale sul modo di curare le persone affette da PTSD, i numerosi trattamenti attualmente validati generano tutti buone risposte ma allo stesso tempo hanno dei limiti. Solamente staccandosi da un’ottica competitiva, in cui si cerca la terapia migliore, ci si potrà focalizzare sulla peculiarità della persona in difficoltà e trovare il trattamento più efficace. In questo modo il clinico potrà conoscere la cura del PTSD nelle sue sfaccettature e arricchire il proprio repertorio, trovandosi pronto a fronteggiare le difficoltà che questi pazienti presentano in modo flessibile, grazie ad un repertorio aggiornato di tecniche e all’attenzione alla relazione terapeutica.

 

Musica per la mente del bambino in terapia intensiva neonatale

La musica è un linguaggio universale, capace di unire culture e popoli totalmente differenti fra loro. Il suo ruolo terapeutico però è ancora poco conosciuto, in particolare, in alcuni settori come quello della terapia intensiva neonatale (TIN).

 

Nonostante diversi studi abbiano riscontrato benefici apportati dalla musica in varie aree della salute del neonato pretermine (es. respiro e battito cardiaco regolarizzati; Anderson & Patel, 2018), non ci sono evidenze per quanto riguarda l’esposizione alla musica e i suoi possibili effetti sullo sviluppo cerebrale dei bambini in Terapia Intensiva Neonatale (TIN).

Proprio per questo lo studio di Lordier e colleghi (2019) è così importante ed innovativo. In particolare questo team di ricerca, afferente all’università e agli ospedali universitari di Ginevra, ha dimostrato attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica (MRI), come inserire la musica (in particolare piccole composizioni musicali fatte da strumenti come l’arpa e le campanelle) all’interno del protocollo di care della Terapia Intensiva Neonatale fino al raggiungimento della quarantesima settimana di vita dei bambini nati pretermine, possa migliorare le connessioni fra network cerebrali normalmente meno connessi a causa della brusca interruzione del loro sviluppo dovuta alla nascita prematura (Smyser et al., 2010).

In particolare, le regioni cerebrali che hanno beneficiato dell’esposizione alla musica durante la degenza in TIN sono state quelle deputate al processamento sensoriale ed uditivo delle informazioni. Questo è di particolare importanza considerando che l’apprendimento del bambino, in particolare durante i primi mesi di vita, avviene attraverso il bisogno di processare e unificare stimoli derivanti da diversi canali sensoriali (es. tatto, gusto). In particolare, gli autori hanno osservato un aumento delle connessioni fra il salience network (network della salienza), deputato al processamento degli stimoli importanti, e quelli deputati al processamento cognitivo di tali stimoli.

Questo risultato evidenzia come l’esposizione alla musica non solo possa migliorare abilità cognitive come attenzione e memoria in bambini che suonano uno strumento musicale (Habibi et al., 2018), ma che, fin da subito, possa anche favorire lo sviluppo cerebrale del bambino nato pretermine con possibili ricadute positive sul suo futuro neuro-evolutivo.

 

L’azione del trauma in età evolutiva: una spiegazione clinica in ottica neurocostruttivista

Presso i Servizi di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza accade che afferiscano, spesso su segnalazione dei Servizi Sociali, bambini e ragazzi con storie traumatiche di abuso o maltrattamento alle loro spalle, fin dalle più precoci fasi di vita.

 

In Italia, ogni anno, vengono presi in carico dai Servizi Sociali per maltrattamento circa 100.000 minori. Su 1000 minorenni, quasi 10 (il 9,5% della popolazione minorile italiana) subiscono qualche forma di maltrattamento: trascuratezza materiale e/o affettiva, violenza assistita, maltrattamento psicologico, patologia delle cure (discuria/ipercura), maltrattamento fisico, abuso sessuale (CISMAI, Terres des Hommes, 2015).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce abuso o maltrattamento all’infanzia

tutte le forme di maltrattamento fisico e/o psicologico, abuso sessuale, trascuratezza o trattamento trascurante o sfruttamento commerciale o di altro tipo, che ha come conseguenza un danno reale o potenziale alla salute del bambino, alla sua sopravvivenza, sviluppo o dignità nel contesto di una relazione di responsabilità, fiducia o potere. (OMS, 2002)

Ci accade quotidianamente di essere sollecitati da stressors che possono impattare il nostro stato di equilibrio interno (omeostasi), ma siamo anche programmati neurobiologicamente affinché le reazioni chimiche interne al nostro organismo scatenate dagli stressors ci attivino al fine di fronteggiarli tramite l’applicazione di strategie di coping e il coinvolgimento di risorse esterne, consentendoci di tornare a un buon funzionamento.

Eventi potenzialmente traumatici (il maltrattamento e l’abuso, ad esempio) determinano uno squilibrio talmente forte del nostro sistema nervoso, da alterare la fisiologica alternanza tra l’attività del sistema nervoso simpatico (fight-or-flight) e di quello parasimpatico (rest-and-digest). A seguito di tali eventi, infatti, il sistema nervoso simpatico e la risposta di stress si attivano anche se lo stressor che aveva fatto inizialmente scaturire la risposta non è più presente, determinando una situazione di sovraccarico dei sistemi allostatici (deputati invece, in condizioni normali, a consentirci un funzionale adattamento in condizioni di stress).

Lo sviluppo del cervello, durante la gravidanza, così come nel corso dell’evoluzione, avviene “dal basso verso l’alto”. La parte più primitiva, chiamata cervello rettiliano e corrispondente al tronco encefalico e all’ipotalamo, è attiva già alla nascita ed è responsabile del coordinamento e del mantenimento dell’omeostasi, ossia dello stato di equilibrio dei sistemi vitali di base. Al di sopra vi è il sistema limbico, noto come cervello mammaliano, il cui sviluppo inizia dopo la nascita: è la sede delle emozioni, del sistema di controllo del pericolo, di ciò che è percepito come piacevole o spaventoso, giudicando anche ciò che è determinante o meno per la sopravvivenza. Esso si plasma con l’esperienza, intrecciando anche componente genetica e temperamento innato. Gli eventi che accadono al bambino contribuiscono alla creazione, da parte del cervello in via di sviluppo, di una mappa emotiva e percettiva del mondo: è ciò che i neuroscienziati chiamano “neuroplasticità”. Quando un circuito neurale si attiva ripetutamente, può tradursi in uno schema predefinito, ossia in una risposta che in seguito verrà innescata con maggiore probabilità. Dunque, in un bambino che si sperimenta come al sicuro e amato, il cervello si specializzerà nell’esplorazione, nel gioco e nella cooperazione; in un bambino spaventato, invece, che percepisce un costante senso di pericolo e di disamore, il cervello si specializzerà nella gestione di emozioni quali la paura, il terrore, il senso di abbandono, non lasciando spazio all’esplorazione del mondo e alla creazione di relazioni interpersonali adattive. Cervello rettiliano e mammaliano costituiscono assieme il cervello emotivo, il quale avvia risposte di attacco o fuga pre-programmate, automatiche, senza mediazione dei processi di pensiero. Lo strato superiore del cervello, ossia la neocorteccia, inizia invece a svilupparsi nel corso del secondo anno di vita: è il cervello razionale, che ci consente di progettare, riflettere, immaginare, creare scenari futuri (van der Kolk, 2015).

Il bambino necessita, per crescere fisicamente ed emotivamente, di una “nicchia evolutiva”, di un sistema in grado di prendersi cura della sua sopravvivenza, permettendogli un felice adattamento all’ambiente. Se la sede in cui si verificano abusi o maltrattamenti è il contesto intra-familiare, il bambino si trova a sperimentare la paradossale condizione in cui gli stessi soggetti che gli dovrebbero fornire cura e protezione, sono anche coloro che agiscono nei suoi confronti comportamenti spaventanti. Se poi, l’evento potenzialmente traumatico non fosse singolo, bensì ripetuto o sequenziale, l’impatto sullo sviluppo dell’individuo sarà ancora maggiore, determinando conseguenze sia prossimali che distali a molteplici livelli: disregolazione del sistema biologico di gestione dello stress, alterazioni nello sviluppo cerebrale, compromissioni neurocognitive e psicosociali, problemi di salute fisica e disturbi psichiatrici.

È stato anche dimostrato che il trauma è preverbale: nel cervello dell’individuo che sta vivendo un’esperienza di vita avversa, traumatica, si disattiva l’area di Broca, deputata a tradurre in parole pensieri ed emozioni (van der Kolk, 2015). È proprio per questo che per un soggetto traumatizzato risulta enormemente difficoltoso organizzare l’esperienza traumatica in un racconto coerente, ossia in una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. Se il linguaggio non è quindi disponibile a causa della disattivazione, durante l’evento, delle aree cerebrali a esso connesse e a causa delle limitate competenze linguistiche del bambino, in relazione alla sua fase di sviluppo, le immagini finiscono col catturare l’esperienza, ripresentandosi sotto forma di incubi o flashback, che egli rappresenta e riattualizza solitamente nel gioco. Per un bambino traumatizzato, infatti, spesso i giochi sono i suoi discorsi e i giocattoli le sue parole, la strategia che egli trova per raccontare la sua storia.

Si stima che il costo annuale sul bilancio dello Stato italiano della mancata prevenzione del maltrattamento sui minori, diretto e indiretto, sia di circa 13 miliardi di euro (CISMAI, Terre des Hommes, Università Bocconi, 2013). Alla luce delle evidenze di letteratura presentate sugli esiti a lungo termine del trauma infantile, sarebbe quindi essenziale lo sviluppo di un sistema integrato e multiprofessionale di tutela del minore, agendo in ottica preventiva su tutti i sistemi che Bronfenbrenner individua come costituenti la rete sociale che si muove attorno a lui, in primis supportando la costruzione di “nicchie evolutive” sufficientemente adattive e protettive.

 

E-THERAPY – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Durante la European Conference on Digital Psychology, negli interventi dedicati alla E-Therapy il dott. Stefano Porcelli, il dott. Tommaso Ciulli e la dott.ssa Laura Staccini ci parlano di videoterapia, intelligenza artificiale e salute mentale.

 

La possibilità di comunicare, con le tecnologie attualmente disponibili, descrive un modo di adeguarsi nonché di concepire differenti tipologie di relazioni; più specificamente, riguarda le modalità con cui l’uomo arricchisce i “vecchi” legami con l’altro.

McLuhan, parecchi anni fa, definì i media «come estensioni del sé», ma quel che più interessa – e che emerge dai contenuti di questo articolo –  è l’”aura” che circonda il messaggio rispetto al suo contenuto. Così, possiamo dire, che “la videoscrittura non è una lettera” e “la videoterapia non è un incontro vis-à-vis”, non per mero riscontro sensoriale ma per le qualità della comunicazione stessa. Tuttavia, non va commesso l’errore di stabilire una rigida gerarchia che veda più importante l’una rispetto all’altra.

Va tenuto presente che, ogniqualvolta comunichiamo con un medium, oltre l’estensione c’è da prendere in considerazione la «narrazione del sé»: l’individuo ritrova o, meglio, incontra il proprio sé nell’immagine “reale” del virtuale.

Ma così com’è importante incontrarsi con sé stessi, bisogna anche respirare all’unisono con il mondo e le persone che ci circondano. Per tale motivo, in una società che sempre più “virtualizza” le funzioni cognitive (cit. Pierre Lévy) e pronta a combattere ogni forma di “malnutrizione tecnologica”, è necessario esaminare i fatti più intimi che intessono la biografia del virtuale (‘qualcosa che non esiste in atto’), mettendo a fuoco gli elementi oggettivi, a volte controintuitivi: “le terapie on-line possono considerarsi come un surrogato, una seconda scelta, delle sessioni faccia a faccia?”

La videoterapia è stata a lungo disapprovata da alcuni specialisti – e stigmatizzata da molti utenti – per la gracilità dell’effetto terapeutico dovuta ad un “impasto” (la teoria di vista, udito e sensazioni comunicati nel virtuale) troppo decadente per rivelarci le peculiarità dei rapporti interpersonali a cui siamo stati per tanto tempo abituati. A tutto ciò si aggiunga il rischio di una navigazione “in rete” contaminata o, a volte, l’impossibilità di utilizzare un luogo dove effettuare la consulenza on line. Come comprenderemo con le testimonianze scientifiche e statistiche in questa sede, è presente una certa compiacenza nel “virtuosismo creativo” della videoterapia da parte del paziente che fa intendere come, tale gracilità, soprattutto questo periodo, si riveli preziosa.

“Adattarsi” ai periodi pandemici grazie alla videoterapia

Durante la European Conference on Digital Psychology, negli interventi dedicati alla E-Therapy, il dott. Stefano Porcelli, medico del Centro Santagostino, traccia la ricchezza delle percentuali delle videoterapie effettuate durante il periodo pandemico Covid-19, facendo intendere un presagio più che positivo sulla loro efficacia. Durante tale periodo, le prestazioni specialistiche di salute mentale definite “urgenti“ sono state erogate dal nostro sistema sanitario, ma si è utilizzato questo arco temporale come un’opportunità al passaggio sulla videoterapia, spiega Porcelli che, in modo accurato e meticoloso, illustra le statistiche dei differenti periodi pandemici:

  • 1° periodo: pre-emergenza Covid-19  (dal 1° gennaio 2020 al 22 febbraio);
  • 2° periodo emergenza: pre-lockdown (dal 24 febbraio all’11 marzo);
  • 3° periodo di lockdown (dal 12 marzo al 4 maggio).

In questi tre periodi sono stati registrati il numero medio di visite per settimana.

Nel 1° periodo (preso come paragone) erano presenti circa 1900 prestazioni a settimana con una piccolissima percentuale di videoterapie (1,6%); all’arrivo del 2° periodo si è assistito ad un abbassamento delle prestazioni erogate (di circa il 9%) in cui è stato presente un progressivo coinvolgimento dei pazienti in terapia modalità video. Con il 3° periodo la percentuale di tutte le visite sale al 90%. Lo stesso incremento è stato registrato per le prime visite o per le visite psichiatriche. Tuttavia le visite di psicoterapia hanno dimostrato una riduzione nettamente inferiore rispetto alle visite psichiatriche con una riduzione del 6,2% in fase iniziale e 11,90% in fase di lockdown.

E Therapy il passaggio della psicoterapia al virtuale Report ECDP Imm 1

E’ interessante notare come, nella fase iniziale, quando è stato proposto ai pazienti di passare in modalità on line, una buona parte ha preferito attendere per svolgere la terapia di presenza (si è registrato in questo frangente un calo del 45% circa delle prestazioni per 2 settimane).  Tuttavia, quando è stato chiaro a questi pazienti che l’emergenza fosse proseguita, tanti tra questi hanno aderito alla modalità on line. Al contrario le prime visite hanno avuto una riduzione progressiva ( durante il lockdown sono precipitate, con un calo del 60%).

Altra interessante rilevazione è emersa con l’autunno del 2020 in cui le misure sociali per contenere il virus erano davvero minime, tuttavia, per quanto concerne tutte le visite e le prime visite e quelle psichiatriche, (rispettivamente il  23%; 44%; 38,9%) i pazienti hanno preferito mantenere la modalità on-line. Con l’arrivo della “seconda ondata” (novembre 2020) – e le restrizioni maggiori – hanno provocato un ulteriore aumento dell’utilizzo delle video-terapie, riferisce Porcelli.

Questi dati descrivono come il “sistema” è stato reattivo all’emergenza in atto adattandosi rapidamente grazie alla videoterapia.

Salute mentale e Intelligenza Artificiale

Il secondo intervento del tema E-therapy è del dott. Tommaso Ciulli, psicologo e psicoterapeuta, esperto di realtà aumentata che ci spiega come alla ricerca sono emerse tre macrocategorie legate alla salute mentale: Persone, Società, Servizi. Le persone hanno dimostrato un certo stigma e drop-out verso i servizi connessi alla salute mentale e anche la disponibilità economica ha influito durante il Covid-19.

Spostandoci sui servizi  vengono evidenziate le risorse, soprattutto a livello umano – e non solo economico – in diminuzione, questo ha spinto le persone a rivolgersi al privato.

Infine, spostandoci sulla categoria Società, notiamo un abbassamento di investimenti ma un aumento della digitalizzazione, dell’ICT (‘Tecnologie della Comunicazione e Informazione’). Il vantaggio dell’ICT (nella fattispecie app, software, chat, mail, etc.) – connesse alla Mental Health – riguarda la riduzione dei costi, l’aumentata accessibilità ai servizi, la riduzione del drop-out, etc.

Soffermandoci alle APPs, sono programmi che principalmente hanno il vantaggio di raggiungere milioni di persone e di essere  economiche; hanno la potenzialità di raccogliere una serie di dati (‘data collection’); possono essere disturbo-specifici anche se, purtroppo, rispecchiano un meccanismo “preconfigurato” a livello generale, spiega Ciulli. Ma il difetto più interessante (e sul quale porre rimedio) mancano di “relazione” e computazione dello stile di vita del paziente.

E-Therapy: il passaggio della psicoterapia al virtuale - Report ECDP

Si mira pertanto alla conversational agent, ovvero un sistema IA (affiancato all’app) in grado di conversare, comprendere, analizzare e fare una sintesi di quello che la persona scrive e riproporlo con determinati “intent” alla stessa col fine di incrementare il successo della terapia. Gli scopi principali: “disegnare” l’intervento sulla persona; aumentare la scalabilità degli interventi; migliorare la relazione tra l’app e l’utente, etc. Tutto ciò  in un sistema in cui le informazioni che circolano vengono “reintegrate” e riutilizzate per la ri-progrettazione del sistema stesso.
Altresì, Ciulli, ci parla del progetto di ricerca Co-Adapt, atto a migliorare le capacità di adattamento delle persona. Nello specifico si propone di sostenere il benessere psicologico (le capacità di adattamento) e la qualità di vita degli individui mediante l’utilizzo di strumenti di IA.

Ciulli si interroga su «come aumentare queste capacità?» che sono coinvolte sul piano dell’Ambiente, le Abitudini, le Strategie Adattative e la Consapevolezza (e loro interazione). Illustra così un framework  composto da quattro aspetti principali: 1) le app di salute mentale (che ci permettono di inserire note, seguirci durante gli esercizi fisici, guardare dei video, scambiare sms con lo psicologo, etc.); le wearable device, ovvero i ‘dispositivi elettronici indossabili’ in grado di raccogliere dati (battito cardiaco, risposta cutanea, etc.) per tutta la durata della supervisione; il conversional agent, capire ciò che la persona scrive e restituirla al soggetto aumentando la consapevolezza su ciò che accade intorno. Tutto questo all’interno di una metodologia SMT (‘stress management training’) e CBT (‘Psicoterpia Cognitivo-comportamentale’) al fine di fornire alla persona tutti gli strumenti per fronteggiare lo stress e migliorare le sue capacità di adattamento (e.g. strategie di problem solving).

È indispensabile, in quest’ottica, acquisire più dati possibili per utilizzarli al fine di migliorare la potenza di intelligenza del conversational agent a tal punto da permette la personalizzazione dell’intervento.

La soddisfazione del paziente per le videoterpia

L’ultimo contributo di questa sezione è della dott.ssa Laura Staccini, che spiega come la videoterapia stia rimpiazzando quella tradizionale:

c’è una sincronicità temporale tra paziente e terapeuta ma non esiste uno spazio fisico condiviso. La videoterapia è adatta per chi presenta difficoltà logistiche o vive in aree geografiche in cui è limitata o non sussiste una adeguata risposta al trattamento, ma anche per quei pazienti che desiderano risparmiare in termini economici.  

La videoterapia ha degli outcome, dei risultati clinici, simili alla psicoterapia classica anche se è sono poche chiare le  variabili che influenzano e predicono la soddisfazione del paziente rispetto alla psicoterapia vis-à-vis.

Questo argomento ha riguardato la sua ultima pubblicazione. Obiettivo dello studio è stato concentrarsi sulle variabili che predicono la soddisfazione del paziente. È stato così coinvolto un campione di 111 pazienti (età media 34 anni; range di età 18 ai 70 anni; in prevalenza donne) tramite questionario inviato via mail.

Dai dati acquisiti emerge come il 37% dei pazienti non conosceva l’orientamento del proprio psicoterapeuta; mentre, per la psicoterapia adottata da quest’ultimo: il 30 % seguiva la CBT, il 17% quella sistemica o interpersonale  e il 16 % la psicodinamica o psicoanalisi.

I primi risultati riguardano lo scetticismo  e la familiarità rispetto alla videoterapia. Si sottolinea che il 92% non ha mai avuto esperienza di terapia on line e circa 1/3 dei pazienti era scettico.

Tuttavia, è emerso che una buona soddisfazione rispetto alla location in cui l’88% circa dei pazienti non ha mai avuto difficoltà a trovare un luogo per la psicoterapia: poco più della metà si sentiva a proprio agio nel luogo dove svolgerla, anche se c’era una preferenza per la videoterapia vis-à-vis. Il 36% di pazienti si è sentito a proprio agio non percependo alcuna differenza rispetto quest’ultima.

Una bassa percentuale di pazienti (14%) si è sentito privato dello spazio fisico abituale della terapia e un’altra piccola percentuale (circa il 12%) si è sentito infastidito a non vedere il terapeuta nel solito luogo.

Per quanto riguarda le problematiche tecniche legate all’usabilità degli apparati tecnologici è stata registrata una percentuale trascurabile (3% circa) che ha avuto difficoltà sull’utilizzo degli apparati o dei software, mentre una percentuale considerevolmente maggiore (l’8,1%) con la connessione.

I risultati dimostrano come l’83% circa dei pazienti si è sentito sempre “connesso emotivamente” con il terapeuta nonostante la modalità video e addirittura il  44% si è sentito più disinibito e spontaneo rispetto alla modalità vis-à-vis. Inoltre, dato altrettanto interessante, il 60% dei pazienti non ha avuto dubbio sull’efficacia della comunicazione con il terapeuta.  Complessivamente la percezione dell’efficacia delle videoterapie hanno prodotto risultati molto buoni in cui la soddisfazione è stata indipendente dalla tipologia di psicoterapia utilizzata.

È fondamentale, dunque, porre attenzione sul luogo dove il paziente svolge la videoterapia e le capacità sull’utilizzo del device; prima di iniziare la psicoterapia mettere in chiaro il luogo, le capacità tecniche del paziente e fare di tutto affinché egli non percepisca la distanza emotiva dal terapeuta.

 

Una vita degna di essere vissuta (2021) di Marsha Linehan – Recensione del libro

Nel suo ultimo libro, Una vita degna di essere vissuta, la Linehan, superando la paura e la vergogna, ci racconta il vero percorso di nascita della DBT, percorso strettamente connesso alle sue vicissitudini personali, come conseguenza del soffrire lei stessa di un disturbo borderline di personalità.

 

Quello di Marsha Linehan è attualmente uno dei nomi più conosciuti e autorevoli nel campo della salute mentale: è stata infatti l’ideatrice della Terapia Dialettico-Comportamentale – DBT (Linehan, 2011), ad oggi terapia d’elezione per i comportamenti disfunzionali che si associano frequentemente al Disturbo Borderline di Personalità; gli studi RCT (Randomized Controlled trial) condotti hanno infatti dimostrato l’efficacia della DBT in particolare nella riduzione dell’uso di alcol e/o di sostanze (Dimeff & Linehan, 2008), dei comportamenti autolesivi e/o dei tentativi di suicidio.

Il Sé indegno è lo stato mentale tipico dei pazienti borderline e si caratterizza per la percezione di se stessi come sbagliati, difettosi o mostruosi (Fiore & Semerari, 2003); tale stato si accompagna spesso a modificazioni nella percezione dello schema corporeo o a somatizzazioni. Dalla percezione di se stessi come indegni si attiva uno stato di auto-invalidazione che porta a nutrire sentimenti di rabbia e disprezzo verso se stessi.

Una vita degna di essere vissuta rappresenta la capacità di costruire una vita che abbia dei motivi per cui sentire che ne vale la pena, che abbia un numero sufficiente di cose positive (attività che ci piacciono, persone con cui ci piace stare) tali per cui si desidera alzarsi dal letto e viverle, a fronte dell’accettazione di eventi o emozioni negative che comunque non si possono evitare.

Nel corso degli anni Marsha Linehan ha coniugato la ricerca con la pratica clinica curando personalmente centinaia di pazienti considerati gravi a causa della presenza di comportamenti anticonservativi.

Nel suo ultimo libro, dal titolo Una vita degna di essere vissuta, la Linehan, superando la paura e la vergogna, ci racconta il vero percorso di nascita della DBT, percorso strettamente connesso alle sue vicissitudini personali, come conseguenza del soffrire lei stessa di un disturbo borderline di personalità.

Il libro è suddiviso in quattro parti, che affrontano interessanti tematiche di vita, di carriera accademica e di lavoro di Marsha, attraverso una lettura fluida e scorrevole.

Parte prima: La discesa all’inferno

Marsha era una giovane adolescente quando, nel 1961, venne ricoverata presso l’Institute of Living,  rinomato istituto psichiatrico di Hartford, nel Connecticut. Prima di allora era stata una studentessa spensierata, sicura di sé e molto popolare. Marsha proveniva da una famiglia religiosa, benestante e numerosa, che sotto molti aspetti era per lei e per la società di Tulsa, la sua città d’origine, una famiglia meravigliosa; eppure era sempre presente in lei l’idea di una diversità caratteriale e fisica che si adattavano poco alle aspettative familiari, aspettative che portavano la madre a compiere sforzi continui di trasformarla in una ragazza carina, di bell’aspetto e socialmente adatta.

Tale divario tra ciò che Marsha sentiva di essere e la preoccupazione costante di non dover deludere le aspettative altrui, unito ad un ambiente familiare invalidante, aveva gradualmente instillato in lei il pensiero di essere lei stessa il problema perché non adatta. Nel corso dell’ultimo anno di liceo l’apparente sicurezza di Marsha iniziava così a scomparire lasciando spazio ad un grave stress e ritiro sociale e al conseguente ricovero; ricovero che divenne determinante nell’aggravamento sintomatologico. Infatti Marsha iniziò proprio durante la sua permanenza presso l’istituto a mettere in atto comportamenti autolesivi e tentativi di suicidio, seguiti da contenzione e lunghi periodi di isolamento punitivi, in una sorta di circolo vizioso dove l’autolesionismo e l’isolamento, attenuando le emozioni negative legate al contesto di cura, diventavano potenti meccanismi di mantenimento e di peggioramento del disturbo. Dopo due anni Marsha venne dimessa poiché dichiarata incurabile. Fu allora che promise a Dio (e a se stessa) di guarire con l’obiettivo di curare altre persone con disturbi mentali gravi e di dimostrare agli altri di potercela fare da sola.

Parte seconda: Il cambiamento

La nuova vita di Marsha iniziò con il trasferimento a Chicago, con l’obiettivo di allontanarsi dalla famiglia, lavorare per essere economicamente indipendente e studiare per diventare, nell’idea iniziale, una psichiatra. Iniziò così la sua carriera universitaria, in un difficile equilibrio tra ricadute depressive e comportamenti autolesivi da un lato e volontà di riuscire ad accettare i propri stati emotivi e se stessa dall’altro. Gli anni universitari vennero così vissuti tra l’entusiasmo per i successi accademici e la sensazione di diversità che la portavano spesso a sperimentare stati di solitudine. Marsha iniziò così ad escogitare delle strategie comportamentali per padroneggiare la disregolazione emotiva e le difficoltà relazionali, strategie che diventeranno in seguito parte del protocollo DBT. Si laureò in psicologia e in seguito conseguì un dottorato di ricerca che le permise di perfezionare le sue conoscenze sul comportamentismo e di applicarle alla pratica clinica. Il lavoro nella clinica per suicidi di Buffalo rappresentò una tappa molto importante per l’esperienza sul campo della Linehan che iniziò così ad applicare i principi del comportamentismo al contrasto dei comportamenti anticonservativi.

Parte Terza: Breve descrizione della DBT

La DBT è un programma di trattamento comportamentale, caratterizzato dalla combinazione di sedute di psicoterapia individuale a cadenza settimanale, skills training di gruppo, supporto telefonico per la gestione delle crisi, team di consultazione terapeutica e interventi rivolti alla famiglia allo scopo di rendere più adattivo il contesto familiare del paziente. Fondamentale è l’acquisizione di abilità che si suddividono in quattro categorie, ognuna delle quali è progettata per risolvere una diversa serie di problemi, in un costante equilibrio tra accettazione e cambiamento della realtà. Le prime due, abilità di mindfulness e di tolleranza alla sofferenza,  indicano la via per accettare la realtà così com’è, mentre le ultime due, abilità di regolazione emotiva e di efficacia interpersonale, sono abilità di cambiamento.

Parte quarta: Il cerchio si chiude

Nella quarta ed ultima parte del libro la Linehan descrive i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni della sua vita, quali il percepirsi finalmente parte di una famiglia, l’abbandono della sensazione di solitudine e di vuoto e la decisione di voler rendere pubblica la sua storia attraverso una conferenza  presso l’istituto in cui venne ricoverata molti anni prima, chiudendo così il cerchio.

Per la Linehan la sfida della DBT è ancora aperta: molto è stato fatto ma tanto bisogna ancora fare per far si che la DBT possa essere condivisa a livello mondiale ed entrare in altri ambiti, oltre quello clinico, come quello scolastico, nell’idea che le abilità contenute in essa possano essere coltivate sin da piccoli. Negli ultimi anni la DBT si è affermata, oltre che negli Stati Uniti, anche in America Latina, Europa, Asia e Medio Oriente. Il trattamento si è rivelato utile anche per persone con dipendenza da sostanze (Dimeff & Linehan, 2008), depressione, PTSD (Bohus et al, 2020) e disturbi alimentari (Klein et al. 2013; Safer et al. 2010; Chen et al., 2015) ed è in via di sperimentazione un lavoro sull’applicazione della DBT a soggetti con cancro.

 

La comunicazione non verbale con persone affette da demenza e l’uso della mascherina durante la pandemia di Covid-19: il metodo ABC

Le attuali condizioni dovute alla pandemia di Covid-19 non favoriscono la comunicazione in generale, specialmente quella non verbale. L’uso di mascherine impedisce il riconoscimento delle espressioni facciali, in modo particolare ai pazienti con demenza

 

Non si può non comunicare. Questo è il primo degli assiomi di Watzlawick (1967) sulla comunicazione. Ciò vuol dire che le parole, il silenzio o l’attività sono un messaggio, influenzano gli altri e gli altri a loro volta rispondono a tale comunicazione. Tutto è comunicazione.

Nelle interazioni sociali il linguaggio non può fare a meno della comunicazione non verbale.

Albert Mehrabian (1981) aveva diffuso alcuni dati abbastanza sorprendenti sulla comunicazione non verbale: in un messaggio vocale la comunicazione non verbale (movimenti del corpo e soprattutto del volto) inciderebbero al 55% nella sua comprensione, mentre l’aspetto verbale conterebbe solo il 7%. Il 38% è dato dalla comunicazione para-verbale, quindi tono, volume e velocità. Ciò dimostra l’importanza di tutti gli elementi che compongono la comunicazione non verbale e para-verbale, oltre chiaramente al messaggio verbale.

Questo tipo di comunicazione ha un ruolo fondamentale con persone che soffrono di demenza.

La cura degli anziani affetti da patologie degenerative come l’Alzheimer è legata molto alle interazioni sociali: familiari, operatori sanitari tutti devono approcciarsi considerando le difficoltà cognitive e quindi linguistiche della persona con cui si relazionano.

L’uomo, in quanto essere sociale, ha bisogno delle interazioni con gli altri. Dal momento che il declino delle abilità del linguaggio può portare a incomprensioni, conflitti e isolamento è importante capire come affrontare la comunicazione quando ci si prende cura di una persona affetta da demenza.

La comunicazione verbale diviene sempre più povera e decadente, sia in produzione che in comprensione, mentre la comunicazione non verbale rimane per lo più intatta (Ge, et al., 2020). Per questo dovremmo cercare di favorire e arricchire l’interazione con il paziente con l’utilizzo di aspetti della comunicazione non verbale altrettanto fondamentali per una comunicazione efficace.

In questo momento storico vanno considerate le chiare difficoltà nella gestione del paziente affetto da demenza e anziani fragili legate alla pandemia Covid-19 (Caratozzolo, et al., 2020).

Inoltre, studi hanno dimostrato come le persone anziane sembrano essere particolarmente vulnerabili all’attuale pandemia da un punto di vista sia fisico che psicologico e la narrazione autobiografica dei pazienti anziani ospedalizzati per Covid-19 (raccontare storie, dar loro la parola e ascoltarli attivamente) può avere un effetto positivo (Poli et al., 2020). Questa è un’ulteriore conferma dell’importanza di un’efficace comunicazione.

Purtroppo, però, le attuali condizioni dovute alla pandemia Covid-19 non favoriscono di certo la comunicazione in generale, specie quella non verbale. In particolare, ciò a causa dell’uso di mascherine che impediscono il riconoscimento delle espressioni facciali (Feng, et al., 2020): i pazienti con demenza riescono a leggere un sorriso come gioia o capire dal tono di voce uno stato di rilassamento o agitazione e così via.

Ed è chiaro poi che queste difficoltà nella comunicazione non verbale si ripercuotono nell’interazione nonché nella vita sia con i familiari che con gli operatori sanitari.

Di seguito solo alcuni esempi di difficoltà a cui si può andare incontro: le persone con demenza tendono a distogliere frequentemente l’attenzione, le famiglie non possono entrare in ospedali e case di riposo e, nella migliore delle ipotesi, possono parlare con i loro cari solo con videohiamate, possono entrare in stanza solo pochi operatori per volta indossando i dispositivi, inclusi camici, maschere e protezioni per gli occhi. Ora, tutto ciò va sovrapposto alla complessità dell’assistenza a persone con demenza e alle sfide comunicative come: fornire cattive notizie, supportare durante periodi di declino funzionale o cognitivo e stabilire obiettivi di cura appropriati nel contesto di malattie gravi o pericolose per la vita. Inoltre, il delirium o la depressione possono confondere ulteriormente.

A tal proposito, l’American Geriatrics Society (Schlögl, et al., 2020) ha messo a punto una serie di istruzioni che aiutano nella comunicazione efficace con pazienti che soffrono di demenza. Questo “metodo” è chiamato ABC e si fonda sui seguenti principi:

A – Attend mindfully

È importante che chi entra in relazione con una persona con demenza sia ben consapevole del proprio modo di comunicare. Solo se ciò si ha ben chiaro, solo se si conosce la propria mimica e i gesti che di solito si fanno ci si può rendere davvero consapevoli delle asimmetrie tra la comunicazione verbale e non verbale. Eliminando tali asimmetrie e sottolineando tutto ciò che si dice con gesti e mimiche adeguati, il linguaggio diventerà nettamente più interpretabile per la persona con demenza che ascolta.

B – Behave calmly

È fondamentale creare un’atmosfera positiva e di fiducia tra l’operatore o il familiare di riferimento e la persona. Bisogna trasmettere un senso di sicurezza, facendo in modo che il messaggio verbale concordi con quello non verbale della voce, degli occhi e della postura. Inizialmente ci si può presentare dicendogli chi siamo e che funzione abbiamo, porci davanti alla persona, all’altezza degli occhi mantenendo il contatto visivo e facendolo sentire a suo agio. Il tutto va correlato ad una voce lenta, calma e chiara. La relazione andrebbe stabilita in modo lento e graduale, secondo i ritmi della persona.

C – Communicate clearly

È importante dare alla persona il tempo sufficiente per comprendere il messaggio, cercando un luogo adatto e tranquillo con una buona illuminazione, senza distrazioni visive o acustiche. Utilizzare frasi brevi, chiare, sottolineando le parole con i gesti delle mani. Il tono deve essere gentile e né troppo alto né troppo basso. Per rafforzare il messaggio che si vuole comunicare può essere utile affiancare al messaggio verbale oltre che con i gesti anche con l’utilizzo di oggetti familiari alla persona. Si può anche ripetere il messaggio detto utilizzando sempre le stesse parole, senza aggiungere concetti nuovi che possono creare confusione.

Certamente, queste semplici linee guida non risolveranno tutti i problemi di comunicazione legati alla pandemia con le persone anziane vulnerabili e con demenza, ma possono aiutare l’operatore sanitario e familiare a comunicare chiaramente e in modo efficace con loro. Anche se si indossano i presidi obbligatori in questo periodo, in particolare la mascherina che non permette, come detto, una comunicazione non verbale agevole, soprattutto per pazienti con demenza, la comunicazione non verbale deve essere in qualche modo salvaguardata.

 

 

Metacredenze e vissuti emotivi nell’ortoressia – Partecipa alla ricerca

L’ortoressia (ON) viene definita come un’ossessione per uno stile alimentare sano e consapevole, caratterizzato da pensieri rigidi e assolutistici, preoccupazioni eccessive e regole riguardanti il cibo. Partecipa alla ricerca.

 

Quando una scelta di vita alimentare sana potrebbe sfociare in un disturbo? Possono essere le metacredenze a segnare il confine tra benessere e patologia?

Seguire una corretta alimentazione è uno degli aspetti a cui si deve prestare attenzione per avere una vita salutare e longeva. Tuttavia, ciò che inizialmente è una buona e sana abitudine può diventare talmente rigida e invalidante da trasformarsi in un vero e proprio disturbo psicologico (Pollan, 2006).

L’ortoressia (ON) viene definita come un’ossessione per uno stile alimentare sano e consapevole, caratterizzato da pensieri rigidi e assolutistici riguardanti gli effetti e i benefici sulla salute, da preoccupazioni eccessive sulla qualità e la provenienza del cibo e da regole alimentari severe ed auto-imposte (Donini et al., 2004).

Qualsiasi trasgressione può essere vissuta con un forte senso di colpa a cui si tenterà di porre rimedio irrigidendo sempre di più il controllo e le regole, attivando così un meccanismo che porterà non solo ad un peggioramento del disturbo ma anche ad una sua ripercussione su altre aree importanti della vita.

Quale potrebbe essere il fattore che segna il confine tra salute e patologia?

Abbiamo visto che ciò che caratterizza l’ortoressia è la preoccupazione eccessiva per uno stile alimentare sano.

La preoccupazione è un meccanismo psicologico funzionale che ci aiuta a fronteggiare meglio le situazioni e a pianificare in anticipo le cose in modo da evitare problemi in futuro (Wells, 1995).

Quando preoccuparsi diventa una costante allora i pensieri diventano così pervasivi che distraggono la persona, minando la sua capacità di concentrazione, il suo umore e la sua produttività sul lavoro, inficiando notevolmente sulla sua qualità di vita (Brosschot, J. F., & Thayer, J. F., 2004).

Sembra pertanto che la modalità con cui si reagisce al pensiero fonte di preoccupazione sia fondamentale nel determinare la funzionalità del preoccuparsi.

Il modo in cui tendiamo a pensare e gestire i nostri pensieri prende il nome di meta-credenza.

Tanto più la metacredenza circa il preoccuparsi è che sia un meccanismo non solo utile ma anche necessario e incontrollabile, tanto più il ricorrere ad esso diventa pervasivo e invalidante sia in termini comportamentali che emotivi (Wells, 1995; Purdon, C., & Clark, D. A.,1999).

Lo scopo della nostra ricerca è di indagare se, e quali, metacredenze hanno un ruolo significativo anche nel discriminare tra attenzione funzionale per l’alimentazione sana e ortoressia.

Parallelamente si cercherà di sondare se la presenza di specifiche metacredenze sia correlata a specifici vissuti emotivi.

La ringraziamo se vorrà partecipare alla nostra ricerca compilando il questionario riguardante le metacredenze e i vissuti emotivi nell’ortoressia. La invitiamo a condividere il link del questionario, in modo da raggiungere più persone ed avere un gruppo ampio e diversificato da cui poter raccogliere dati.

 

PARTECIPA ALLA RICERCA,
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Come la danza aiuta l’interiorizzazione

Il presente studio è stato inserito all’interno di una ricerca controllata e randomizzata (RCT) di un intervento di danza per ragazze adolescenti con problemi di internalizzazione (Duberg et al., 2013).

 

La ricerca mostra che i problemi di salute mentale sono attualmente tra le maggiori sfide di salute pubblica a livello globale (Ferrari et al., 2013) e colpiscono il 10-20% dei bambini e degli adolescenti di tutto il mondo (Kieling et al., 2011). La frequenza attuale dei problemi di salute mentale tra gli adolescenti è più alta di quanto sia stata negli ultimi decenni (Bor, Dean, Najman, & Hayatbakhsh, 2014), e le ragazze mostrano una maggiore prevalenza di disturbi mentali rispetto ai ragazzi (Bor et al., 2014). È stato dimostrato che le ragazze sono più esposte allo stress interpersonale, tendono ad essere più sensibili alle reazioni degli altri sui loro successi e fallimenti (Murberg & Bru, 2004), e si sforzano di essere all’altezza dei bisogni e delle aspettative degli altri più dei ragazzi (Wiklund, Bengs, MalmgrenOlsson, & Ohman, 2010). L’adolescenza, come sappiamo, è una fase di transizione dall’infanzia all’età adulta, ed è caratterizzata da trasformazioni sia psichiche che fisiche, pertanto anche il corpo assume una forma e un valore simbolico differente: infatti, sperimentiamo il mondo attraverso il nostro corpo, ed è presente in tutte le nostre sensazioni, pensieri, comunicazione e azioni.

La danza è una forma sociale e culturale di attività fisica popolare tra le ragazze e le giovani donne (O’Neill, Pate, & Liese, 2011). È anche collegata a una maggiore consapevolezza dell’elaborazione delle emozioni e a una maggiore capacità di interpretare le emozioni degli altri (Bojner Horwitz, Lennartsson, Theorell, & Ullen, 2015). Le esperienze durante un’attività fisica come la danza possono essere complesse e possono includere sottili cambiamenti nella connessione corporea, percezioni del sé all’interno di un gruppo e aspetti emotivi. Un approccio qualitativo è utile per indagare le esperienze di questo tipo di intervento (Verhoef, Casebeer, & Hilsden, 2002).

A tale scopo, il presente studio è stato inserito all’interno di una ricerca controllata e randomizzata (RCT) di un intervento di danza per ragazze adolescenti (N=59, 24 delle quali hanno partecipato all’intervista) con problemi di internalizzazione (Duberg et al., 2013), condotto in una città svedese di medie dimensioni, al fine di esplorare questo tipo di esperienza.

L’intervento di danza ha avuto luogo in una palestra, dopo la scuola, due volte alla settimana per 8 mesi, sotto la guida di tre istruttori di danza formati (uno alla volta). Ogni lezione di danza durava 75 minuti e comprendeva: 15 minuti di riscaldamento, 40 di danza effettiva e 15 di rilassamento. L’obiettivo principale dell’intervento era il piacere del movimento. La danza era per lo più coreografata, ma l’improvvisazione e i movimenti spontanei erano sempre inclusi per incoraggiare la creatività. Le partecipanti avevano anche l’opportunità di fare proposte circa la musica e gli stili di danza. Non erano previste vere e proprie esibizioni, in quanto l’intenzione era quella di offrire un’esperienza di danza positiva priva di pressioni esterne, per godere della musica, della socializzazione con i coetanei (circa 20 ragazze per gruppo), e per migliorare la consapevolezza del corpo. Le interviste erano faccia a faccia, semi-strutturate, e tutte sono state condotte dalla stessa persona, il primo autore (AD), per garantire la coerenza interna. La durata delle interviste variava tra i 35 e i 90 minuti a seconda delle risposte individuali dei partecipanti, e le domande erano del tipo “Cosa ti è piaciuto di più/meno della sessione di danza?” e “Come si sente il tuo corpo quando danzi? È cambiato? Come?”. Le interviste sono state poi analizzate con l’analisi qualitativa induttiva del contenuto (Elo & Kyngas, 2008). La trascrizione delle interviste è stata letta da diversi autori che hanno scritto delle note sul contenuto a margine del testo, in un processo di codifica aperta. I dati sono stati poi analizzati utilizzando il programma software NVivo 10 (QSR International, 2014). Successivamente, si sono incontrati per discutere la codifica e creare delle categorie, a loro volta suddivise in sottocategorie.

L’analisi ha prodotto cinque categorie generiche e una categoria principale, intitolata “Trovare la fiducia in se stessi, che apre nuove porte”, che rappresenta la loro principale esperienza di una maggiore fiducia in se stesse e la capacità di affrontare la vita con un senso di libertà e apertura. Nello specifico, l’intervento di danza, secondo quanto riportato dalle adolescenti, dava accesso alle risorse personali e le arricchiva: all’interno di un’atmosfera non giudicante e di supporto reciproco come base sicura, il divertimento e la responsabilizzazione nella danza hanno dato origine all’accettazione, alla fiducia nelle capacità e all’espressione emotiva. Ciò può essere spiegato dal fatto che, quando si usa il corpo in modi nuovi, una persona può imparare a vedere le cose in modo diverso (Anderzen-Carlsson, Persson Lundholm, Kohn, & Westerdahl, 2014). Le categorie generiche sono le seguenti: (1) un’oasi dallo stress, (2) supporto reciproco, (3) divertimento e responsabilizzazione, (4) trovare accettazione e fiducia nelle proprie capacità, (5) danza come espressione emotiva.

Nel complesso le ragazze hanno definito lo stress come un qualcosa con cui vivevano ogni giorno sotto forma di pressione delle norme socioculturali e dalle valutazioni critiche: hanno riferito che a volte era difficile gestire la pressione interna ed esterna e spesso si sentivano suscettibili all’influenza dei media. L’intervento di danza è stato descritto come un’oasi, un rifugio dalle pressioni, una zona libera dalle aspettative e dai giudizi, in cui potevano essere semplicemente se stesse. Una ragazza ha detto: “nel nostro contesto è sempre tutta una questione di voti o crediti, ed è così bello andare a ballare. Perché lì puoi lasciare andare tutto il resto ed essere e basta. Senza cercare sempre di ottenere qualcosa. È fantastico.”

Il supporto reciproco e la possibilità di stare insieme offerto dall’intervento ha dato alle partecipanti la possibilità di connettersi con altre adolescenti con gli stessi problemi di interiorizzazione, che hanno sperimentato le stesse pressioni e richieste, e di sentirsi a proprio agio all’interno di un gruppo. Una delle partecipanti ha riferito: “E’ come se, dopo dieci anni, fossi abbastanza stanca di stare sempre da sola, senza fare nulla e gironzolare per casa. All’improvviso vedi degli amici che sembrano voler passare del tempo con te e allora è tutta un’altra cosa”.

Le intervistate hanno riconosciuto che all’inizio dell’intervento, c’era senza dubbio insicurezza sociale, ma l’unione e l’atmosfera permissiva hanno contribuito a sviluppare rapidamente un sentimento di accettazione e inclusione amichevole: il confronto competitivo diminuiva man mano che la connessione con gli altri nel gruppo migliorava e l’unione diventava più prominente. Un altro aspetto evidenziato da quasi tutte le ragazze era che il ballo dava una sensazione di divertimento: “Ci si sente come se, sai, ti liberassi di quello che hai fatto prima di quel giorno e andassi davvero lì e dare tutto quello che hai. Qui non devo pensare a nient’altro, devo solo essere felice, dare tutto quello che ho, e divertirmi con tutti gli altri”. La parte creativa della sessione di danza è stata descritta come giocosa ed utile per esplorare nuovi movimenti. Inoltre, il fatto di non dover essere sempre perfette, ha dato spazio all’aumento dell’accettazione personale: una delle ragazze ha detto “Se ho delle battute d’arresto, so che, tipo, ehi, andrà tutto bene … le cose possono essere difficili a volte, è sempre così, ma migliorano”. Ancora, è stata riferita una fiducia nelle proprie capacità, che secondo le ragazze non dipendeva dal confronto con le altre, piuttosto era basata su un crescente sentimento di competenza personale. Infine, un aspetto centrale dell’esperienza dell’intervento di danza è stato il modo in cui le diverse coreografie hanno permesso l’affermazione e l’espressione di diversi tipi di emozioni attraverso il movimento di tutto il corpo, invece delle parole. Ciò ha arricchito la consapevolezza e il linguaggio del corpo, facilitando l’espressione dei sentimenti attraverso un canale di comunicazione nuovo. Ad esempio, una ragazza, riferendosi ad una coreografia che includeva delle cadute a terra, ha detto: “E’ come la vita… cadi e ti rialzi”. Questo movimento ha aiutato queste ragazze ad accettare la caduta e a concentrarsi sulla parte positiva di esso: il momento in cui ci si rialza.

In conclusione, questi risultati possono fornire informazioni pratiche agli operatori sanitari riguardo quali aspetti potrebbero essere utili nella progettazione di interventi che mirano a ridurre i problemi di interiorizzazione per le ragazze adolescenti. Come descritto in questo studio, la danza potrebbe costituire un esempio di intervento non farmacologico promettente come trattamento complementare. Inoltre, potrebbe anche motivare questo gruppo-target a impegnarsi in forme attive e positive di auto-cura, alleviando così il carico di lavoro sanitario e contribuendo a sostenere abitudini sane.

 

Dalla teoria alla clinica: il rimuginio e la ruminazione ai tempi del Covid-19

La pandemia (e i suoi fattori correlati) sta causando non pochi problemi di salute mentale, tra cui stress, ansia e sintomi depressivi. L’aumento di disturbi d’ansia e depressione si porta inevitabilmente dietro anche processi mentali che sappiamo essere in forte associazione con essi: rimuginio e ruminazione

 

Durante questo difficile periodo di emergenza sanitaria da Covid-19, in cui le persone hanno imparato ad utilizzare dai media termini come “Tampone”, “Asintomatico” o “Quarantena”, è facile pensare a come la pandemia mondiale abbia colpito e manifestato i suoi effetti non solo nel fisico delle persone affette dal virus ma anche nella mente di ciascuno di noi. La riorganizzazione della nostra quotidianità, del nostro lavoro e dei rapporti con gli altri, possono essere vissute in modo fortemente ansiogeno anche da un soggetto non incline alla sofferenza psicologica. Ora siamo in grado di dire che la pandemia (e i suoi fattori correlati) stia causando non pochi problemi di salute mentale sia negli operatori sanitari che nelle persone comuni: le evidenze ad oggi registrate comprendono stress, ansia e sintomi depressivi (De Nardin, 2020).

L’aumento di disturbi d’ansia e depressione si porta inevitabilmente dietro anche processi mentali che sappiamo essere in forte associazione con essi: il rimuginio (associato al disturbo d’ansia generalizzato) e la ruminazione (associato ai sintomi depressivi) (Sassaroli, & Ruggiero, 2003; Broderick & Korteland, 2004).

Rimuginio

Il rimuginio è uno stile di pensiero tipico dei soggetti ansiosi ma non esclusivo di questa categoria, di per sé non è patologico ed infatti tutte le persone rimuginano. È caratterizzato dalla costante autoripetizione di pensieri negativi e catastrofici, solitamente di natura verbale, che hanno come oggetto situazioni, eventi o cose che il soggetto percepisce come altamente minacciosi (Borkovec, 1998; Molina et Al., 1998; Williams et Al., 1997; Borkovec, 1990). Spesso la minaccia viene rappresentata dal soggetto come indefinita, povera di dettagli e di dinamicità ma comunque capace di sferrare un attacco catastrofico ed irreversibile (Williams et al., 1997). È proprio questa mancanza di dettagli nella rappresentazione della minaccia che potrebbe far sì che il virus, spesso definito anche come “nemico invisibile”, si presti molto bene ad essere oggetto dei pensieri rimuginatori delle persone.

Il rimuginio (worry in inglese) ha comunque una sua funzione adattiva: razionalizza la minaccia andando a ridurre l’ansia per la stessa e ponendo il soggetto ruminatore in uno stato di semi-allerta utile per affrontare la situazione temuta. Al contempo il rimuginio può possedere una valenza maladattiva poiché, a lungo andare, l’inibizione protratta della processazione emozionale determina una persistenza delle stesse emozioni sgradevoli (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Questo può aiutarci a discriminare un soggetto ruminatore normale da uno patologico, in cui le predizioni catastrofiche persistono ripetutamente, per più tempo e senza mai trovare una strategia di intervento utile alla soluzione del problema (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Il soggetto ansioso tende anche ad attribuire delle funzioni negative e/o positive al proprio rimuginare. Borckovec, in uno studio del 1998, ha descritto molto bene lo scopo che i pazienti attribuiscono al loro rimuginio. Emerge come spesso questi credano che il rimuginio li possa aiutare a trovare soluzioni al problema, a ridurre gli stati ansiosi che la minaccia causa in loro o che li possa aiutare nel prepararsi alla sopportazione della situazione temuta (nel caso in cui dovesse effettivamente verificarsi) e così non soffrirne troppo, proprio come in una sorta di palestra mentale (Borkovec et al 1998).

Ruminazione

La ruminazione è molto simile, ma non combacia perfettamente con il rimuginio. Nonostante le similitudini, il rimuginio sembra essere caratterizzato dall’immaginare pericoli e minacce riferite ad un tempo futuro mentre la ruminazione appare maggiormente duratura ed orientata a comprendere le cause stesse del proprio malessere e dei propri stati d’animo passati e presenti (Papageorgius & Wells, 2004). La ruminazione è caratterizzata da una catena di pensieri e quesiti che la persona inizia a porre a se stessa in risposta ad uno stato emotivo negativo esperito che spesso provoca o ha provocato sofferenza. Ne sono un esempio domande del tipo: perché è successo proprio a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo? Tali forme di pensiero possono essere causa della comparsa di sintomi depressivi e del loro mantenimento (Broderick & Korteland, 2004). La ruminazione viene definita come un fattore transdiagnostico riscontrabile in numerosi disturbi psichiatrici: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi trauma-correlati ed ovviamente depressione (Birrer & Michael, 2011; McLaughlin & Noel-Hoekesma, 2011).

Anche la ruminazione, come il rimuginio, rappresenta un tentativo di controllo delle emozioni negative che porta inevitabilmente a peggiorare lo stato d’animo negativo già presente. È inoltre possibile che la ruminazione possa andare a distorcere, in termini negativi, la percezione stessa dell’oggetto del pensiero ruminatorio e di se stessi (Wells, 2009).

Spesso la ruminazione può riportare alla mente sentimenti che provocano rabbia nel soggetto, questa tipologia viene definita “ruminazione rabbiosa”; ha la caratteristica di focalizzare l’attenzione del soggetto su cause e conseguenze dell’evento passato aumentando l’attivazione emotiva negativa e la probabilità di rispondere con comportamenti aggressivi (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012; Pedersen et al., 2011; Anestis et al., 2009).

Come è stato precedentemente accennato, in questi mesi di quarantena era possibile che le persone sviluppassero sintomi ansiosi e depressivi alla cui radice risiedono i processi di cui abbiamo parlato. Attraverso la letteratura scientifica, che attualmente è ancora molto scarsa, andiamo ad analizzare come si sono presentati il rimuginio e la ruminazione durante il periodo di allerta a causa del COVID-19.

Lo studio di Ye et al., (2020), condotto su una popolazione di giovani studenti cinesi, ha proposto un modello per analizzare come fattori di stress relativi al COVID-19 generassero conseguenze stressanti nelle persone e hanno ipotizzato che questa relazione fosse mediata dalla ruminazione.

È emerso che la ruminazione non è solo la conseguenza della presenza di fattori di stress relativi al COVID-19, ma anche un parziale catalizzatore delle conseguenze stressanti.

Covid-19, ruminazione e stress

Analizziamo per gradi la relazione tra fattori stressanti relativi al covid-19, ruminazione e conseguenze stressanti.

Per quanto riguarda la prima parte (fattori di stress relativi al COVID-19 – ruminazione) è emerso che gli stressor hanno causato la messa in atto di meccanismi di ruminazione. Questo risultato è in linea con quanto già sappiamo sulla ruminazione, cioè che essa è mutevole in risposta a eventi di vista stressanti. Fattori di stress e fattori incontrollabili possono creare nelle persone una dissonanza tra lo stato obiettivo di realtà e lo stato ideale che li porta a ruminare. Infatti, coloro che non hanno buone strategie per gestire le emozioni possono essere suscettibili ad una improvvisa mancanza di controllo sul proprio ambiente, e questo è quanto accaduto durante il COVID-19.

Per la seconda parte della relazione (ruminazione – conseguenze stressanti) è stato evidenziato che la ruminazione era associata a maggiori conseguenze stressanti. Ovvero, impegnarsi nella ruminazione portava gli studenti a ritrovarsi in un circolo di emozioni e pensieri negativi rendendoli così più vulnerabili a conseguenze stressanti come l’ansia, una peggiore qualità del sonno e la depressione. Allo stesso tempo è stato evidenziato che i fattori di stress sono rimasti significativi predittori delle conseguenze stressanti anche dopo aver tenuto sotto controllo la ruminazione.

Sun et al., (2020) hanno preso in esame l’esperienza psicologica dei pazienti ospedalizzati. Attraverso interviste telefoniche o mediate dal computer, i ricercatori hanno messo in luce che le reazioni del corpo e della mente di questi pazienti includevano risposte dipendenti dallo stato di malattia, eccessiva attenzione ai sintomi, ruminazione, cambiamenti della dieta, del sonno e del comportamento. Per quanto riguarda la ruminazione, è emerso che la metà dei pazienti mostrava un comportamento di ruminazione, accompagnato da paura e senso di colpa. La ruminazione iniziava ripensando alle scene precedenti e successive al ricovero con particolare attenzione ai contatti interpersonali che avevano prima di ammalarsi, all’arrivo dei sintomi, all’ingresso e al ricovero in ospedale.

Un altro studio degno di nota è stato condotto nel Regno Unito con il fine di indagare l’impatto del COVID-19 sulla salute mentale e cognitiva della popolazione. Il campione era composto da donne con tumore al seno, le quali hanno subito conseguenze emotive legate al COVID-19 particolarmente negative. È infatti accaduto che nel Regno Unito, a causa dell’emergenza coronavirus, il servizio sanitario nazionale abbia deciso di interrompere i servizi a disposizione delle pazienti oncologiche per dedicare queste risorse alla cura dei pazienti malati di coronavirus; alle signore è stata anche recapitata una lettera da parte del governo in cui c’era scritto che avrebbero dovuto proteggersi evitando situazioni sociali per dodici settimane.

Dai risultati è emerso come l’interruzione dei servizi oncologici abbia causato un livello più elevato di ansia e depressione e una maggiore vulnerabilità emotiva correlata al coronavirus. Inoltre, le pazienti che avevano ricevuto la lettera hanno riportato ai questionari, di percepire un funzionamento cognitivo peggiore. Clinicamente questo significa che le conseguenze indirette del COVID-19 che queste signore hanno vissuto, hanno portato ad esiti peggiori a livello di salute mentale e cognitiva.

Nel valutare l’impatto della vulnerabilità emotiva al COVID-19 su ansia, depressione e percezione del funzionamento cognitivo sono stati considerati anche il rimuginio e la ruminazione. In accordo con le basi teoriche di riferimento, è emerso che il rimuginio e la ruminazione sono predittori significativi rispettivamente di ansia e depressione. Dalle analisi statistiche infatti si può ben vedere che analizzando l’impatto del COVID-19 su ansia e depressione, i soli fattori demografici e clinici (grado di istruzione, la gravità della malattia, lo stato del trattamento, l’età al momento della diagnosi, il tempo trascorso dalla diagnosi e la comorbilità con altri problemi di salute) da soli erano in grado di predire dal 3% al 7% della variabilità dell’ansia e della depressione; quando invece venivano considerati nell’ANOVA anche il rimuginio e la ruminazione, la percentuale di varianza spiegata saliva significativamente. Queste evidenze rappresentano un’ulteriore prova del fatto che il rimuginio e la ruminazione sono predittori e componenti fondamentali dell’ansia e della depressione.

L’ultimo studio presente in letteratura è stato condotto da Simor et al. (2020) con l’obiettivo di indagare in modo prospettico le associazioni tra la qualità soggettiva del sonno e la salute psicologica nel contesto del confinamento domestico a causa della pandemia. La caratteristica importante di questo studio è il fatto che esso ha un disegno longitudinale, ovvero i medesimi individui sono stati intervistati due volte al giorno per 15 giorni durante il lockdown circa la qualità del sonno e le esperienze psicologiche negative.

Dai risultati è emerso che i rapporti giornalieri sul numero di decessi che venivano comunicati ai cittadini erano in grado di predire un aumento dell’umore negativo dei soggetti, esperienze psicotiche e disturbi somatici con sintomi simili a quelli del coronavirus durante lo stesso giorno e una qualità del sonno peggiore la notte successiva. A sua volta, e questo è particolarmente importante ai fini di questo articolo, la peggiore qualità del sonno era associata alla ruminazione diurna il giorno successivo. Questa relazione è di tipo unidirezionale, perché, se da un lato è vero che la riduzione della qualità del sonno durante la notte, predice una maggiore ruminazione il giorno successivo, dall’altro la ruminazione diurna non fa diminuire la qualità del sonno la notte successiva.

Per concludere possiamo affermare che, se eventi stressanti sono in grado di elicitare cofattori di ansia e depressione quali rimuguino e ruminazione, l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo può benissimo essere etichettata come fattore di rischio per la salute ed il benessere psicologico delle persone. È infatti possibile che all’aumento di situazioni stressanti dovute alla pandemia si rifletta anche un egual aumento di strategie cognitive volte al controllo dell’ansia che esse generano (e che gli individui mettono in atto credendo così di proteggersi dagli stati emotivi spiacevoli).

 

Elettroneurografia ed Elettromiografia. In che cosa consistono? Per quali patologie sono indicate?

Con il termine elettromiografia si indica genericamente un’indagine che comprende due metodiche differenti: l’elettromiografia propriamente detta (EMG) e l’elettroneurografia (ENG). Le due metodiche vengono frequentemente utilizzate entrambe nel corso dello stesso esame diagnostico e differiscono sia per la modalità di esecuzione sia per le informazioni in grado di fornire.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

L’elettromiografia è una metodica neurofisiologica utilizzata per lo studio del sistema nervoso periferico ed è attualmente lo strumento diagnostico più utilizzato e affidabile per la diagnosi di patologie neurologiche a carico delle radici, dei plessi nervosi e dei nervi periferici, di cui fornisce indicazioni specifiche relative a sede, entità e tipo di lesione. E’ inoltre un esame diagnostico utilizzato per patologie della giunzione neuromuscolare (quali Miastenia Gravis) e dei muscoli.

Con il termine elettromiografia si indica genericamente un’indagine che comprende, di fatto, due metodiche differenti: l’elettromiografia propriamente detta (indicata anche come EMG) e l’elettroneurografia (ENG). Le due metodiche vengono frequentemente utilizzate entrambe nel corso dello stesso esame diagnostico, in quanto hanno una funzione complementare; tuttavia, si differenziano notevolmente sia per la metodica di esecuzione sia per le informazioni in grado di fornire. Su tali aspetti, regna, tuttavia, parecchia confusione sia da parte dei pazienti sia di medici, psicologi e operatori sanitari non specialisti nel settore. Pertanto, cercheremo qui di rispondere alle domande più comuni: in cosa si differenziano elettroneurografia ed elettromiografia? Come vengono effettuate? Per quali patologie è maggiormente indicata l’una o l’altra tecnica? Hanno effetti collaterali o limitazioni?

L’elettroneurografia studia la conduzione nervosa dei nervi motori, sensitivi e misti. All’interno dei nervi, le fibre sensitive, o afferenti,  trasportano le informazioni sensoriali (tatto, pressione, dolore, caldo/freddo), sotto forma di impulsi elettrici, dai recettori periferici sino ai gangli sensitivi adiacenti al midollo spinale, da cui vengono inviate al sistema nervoso centrale; le fibre motorie, o efferenti, veicolano l’informazione generata dai neuroni del sistema nervoso centrale (motoneuroni) sino ai muscoli in periferia.

Nell’ENG, grazie ad elettrodi di superficie applicati sulla cute (più frequentemente della mano o del piede), viene registrato uno stimolo elettrico a bassa intensità erogato a distanza, in prossimità del nervo oggetto di studio (a livello del polso, avambraccio o gomito per i nervi dell’arto superiore; alla gamba per quelli dell’arto inferiore). Lo stimolo elettrico, attivando le fibre sensitive e motorie del nervo, genera segnali elettrici, i potenziali d’azione, che viaggiano lungo di esso e che sono registrabili nelle corrispondenti sedi di innervazione. Studiando le risposte motorie e sensitive registrate, è possibile misurare differenti parametri: la velocità di conduzione dell’impulso elettrico lungo il nervo, la latenza e l’ampiezza della risposta motoria e/o sensitiva. Alterazioni di questi parametri, come una riduzione della velocità di conduzione, dell’ampiezza e un aumento della latenza sono indici di una sofferenza a carico del segmento nervoso esaminato.

L’elettromiografia (EMG) è, invece, una metodica volta allo studio dell’attività elettrica dei muscoli e delle fibre nervose che li innervano, mediante un elettrodo ad ago inserito nel muscolo. L’esame con agoelettrodo viene svolto da un medico specialista in neurologia o in neurofisiopatologia che, in base al quesito clinico, può scegliere quali e quanti distretti muscolari esaminare. Una volta inserito all’interno del muscolo, l’agoelettrodo consente di studiare, nello specifico, i potenziali di unità motoria (PUM).  L’unità motoria costituisce la più piccola unità funzionale dell’apparato neuromuscolare, costituita da una cellula nervosa (detta motoneurone) e dalle fibre muscolari da essa innervate; il potenziale di unità motoria rappresenta, invece, l’attività elettrica generata dall’impulso nervoso che da quel motoneurone si propaga sino alle rispettive fibre muscolari. Lo studio con EMG viene effettuato in diverse condizioni del muscolo: a riposo, durante una contrazione volontaria lieve-moderata e durante una contrazione muscolare effettuata con sforzo massimale. In un soggetto sano, nel muscolo a riposo, non si osserva attività elettrica, mentre man mano che il muscolo viene contratto volontariamente è possibile rilevare dapprima singoli potenziali di unità motoria, che diventano sempre più numerosi con l’aumentare della forza di contrazione e, pertanto, del numero di fibre muscolari coinvolte. L’eventuale presenza di attività elettrica nel muscolo a riposo, salvo alcune eccezioni, è considerata patologica ed è, nella maggior parte dei casi, indice di danno nervoso (denervazione). L’attività da denervazione può presentare patterns caratteristici, come fibrillazione o onde lente positive, che tipicamente sono evidenziabili soltanto a partire da 3-4 settimane dalla manifestazione iniziale del danno. Per tale motivo, in caso di lesione acuta (ad esempio, conseguente ad un trauma), è auspicabile aspettare alcune settimane prima di effettuare tale esame. Lo studio dell’attività muscolare nel corso di una contrazione volontaria, mediante analisi di caratteristiche dei potenziali di unità motoria (PUM) quali ampiezza, forma e durata, numero di unità motorie attivate, consente di ricavare informazioni sull’entità e la cronicità del danno, oltre che sull’eventuale insorgenza di fenomeni riparativi. L’aumento dell’ampiezza dei PUM e della loro durata, associata a un’alterazione della loro forma (irregolare o polifasica) ed a una riduzione della loro numerosità è indice di un danno neurogeno, a carico delle fibre nervose. Al contrario, la presenza di PUM piccoli, di breve durata, alterata morfologia e riccamente rappresentati nel corso di minime contrazioni muscolari è tipico di un danno miogeno, a carico del tessuto muscolare.

L’elettromiografia e l’elettroneurografia vengono prescritte generalmente da un medico specialista o, meno frequentemente, dal medico di medicina generale, ed effettuate da un medico neurologo o neurofisiopatologo con l’ausilio di un tecnico di neurofisiopatologia.

La sintomatologia che può indurre il sospetto clinico di una patologia muscolare o del sistema nervoso periferico, indagabile con ENG/EMG è la seguente:

  • Riduzione o perdita di sensibilità tattile o dolorifica (ipoestesia)
  • Alterazioni della sensibilità, con sensazione di formicolio, bruciore, punture di spillo (parestesie)
  • Dolore o crampi muscolari
  • Riduzione della forza muscolare (o ipostenia)

Nello specifico, l’elettroneurografia è particolarmente utile per la diagnosi delle neuropatie da compressione, conseguenti ad intrappolamento di uno o più tronchi nervosi. Tra le più frequenti neuropatie da intrappolamento si annovera la sindrome del tunnel carpale, dovuta ad una compressione del nervo mediano al polso e caratterizzata da dolore e/o alterazioni della sensibilità (formicolii, bruciore) a carico del palmo della mano e delle prime 3 dita; relativamente frequenti sono inoltre la neuropatia da intrappolamento del nervo ulnare al gomito e quella del nervo sciatico popliteo esterno a livello del cavo popliteo. L’ENG è inoltre l’esame di elezione per la diagnosi di polineuropatia in cui, a causa di un disturbo metabolico, autoimmune, genetico e/o tossico vi è sofferenza di più nervi periferici; ne è un esempio la polineuropatia diabetica, caratterizzata da riduzione della sensibilità ai piedi e, in fase più tardiva, alle mani, con tipica distribuzione dei sintomi “a calza” e “a guanto”. L’elettromiografia ad ago (EMG) è invece frequentemente utilizzata per la diagnosi di radicolopatia, ossia di sofferenza a carico di una o più radici nervose spinali da compressione o infiammazione secondaria a ernie discali, artrosi o traumi, a carico della colonna vertebrale. Le radicolopatie più frequenti sono le radicolopatie cervicali e lombari, che si manifestano frequentemente con una sintomatologia dolorosa (rispettivamente cervicalgia o lombosciatalgia). L’elettromiografia consente inoltre di diagnosticare patologie muscolari di varia natura (distrofie muscolari, miositi..) ed è di supporto per la diagnosi di patologie del motoneurone (come la sclerosi laterale amiotrofica, SLA) e della giunzione neuromuscolare (come la miastenia gravis). In base al tipo di sospetto clinico, la durata dell’esame è variabile, e dipende dal numero di muscoli e nervi presi in esame.  E’ prevista mediamente una durata di circa 20-30 minuti se l’indagine è effettuata solo a uno-due arti o è limitata alla sola esecuzione di elettroneurografia, mentre può estendersi a 40-50 minuti se l’esame è effettuato ai 4 arti o se l’EMG ad ago viene applicato a più distretti muscolari. L’indagine può risultare lievemente fastidiosa, poiché la stimolazione elettrica dell’ENG viene avvertita come una leggera scossa, mentre l’utilizzo dell’agolettrodo per l’EMG viene percepito come fastidio o dolore nella sede di inserzione. Tali sintomi sono tuttavia limitati alla durata dell’esame e regrediscono al termine della seduta. Non vi è indicazione ad effettuare alcuna preparazione particolare, ma è consigliabile non applicare creme sulle parti del corpo che verranno sottoposte all’esame. L’esame non presenta a priori controindicazioni specifiche; la presenza di estese ulcerazioni cutanee o fasciature non rimovibili nelle sedi da esaminare può tuttavia limitarne o impossibilitarne l’esecuzione. Utile, prima dell’esame, segnalare sempre al medico esecutore se si è affetti da specifiche patologie, se si è in trattamento con farmaci anticoagulanti e antiaggreganti, o portatori di stimolatori elettrici.

 

La valutazione dei disturbi alimentari maschili: una riflessione sulle criticità degli strumenti diagnostici

Sembra necessario utilizzare i test diagnostici per i disturbi alimentari con cautela quando si tratta di soggetti di genere maschile, in quanto gli strumenti attualmente presenti e maggiormente utilizzati potrebbero non individuare i soggetti a rischio o comunque fornire una lettura incompleta del disturbo

 

I disturbi del comportamento alimentare sembrano essere diffusi in misura maggiore tra le donne rispetto agli uomini, anche se l’esatta prevalenza tra i maschi rimane ancora incerta (Dahlgren & Wisting, 2016). Sono poche le patologie psichiatriche, e mediche in generale, ad avere una così marcata disparità di genere come i disturbi alimentari. Uno dei motivi di tale divario potrebbe essere spiegata in parte da una componente culturale, dovuta al fatto che permane ancora una certa difficoltà dei maschi ad accedere ai servizi di cura per una patologia considerata tipicamente femminile, ma anche da una mancanza di strumenti diagnostici e di screening adatti a intercettare i disturbi alimentari della sfera maschile. Infatti la maggior parte degli strumenti di assessment oggi disponibili sono basati sull’osservazione clinica dei disturbi del comportamento alimentare nelle donne e che non riflette necessariamente la sintomatologia dei maschi. In particolare, gli uomini con un disturbo alimentare sarebbero più propensi a raggiungere un corpo atletico e muscoloso e meno interessati alla magrezza rispetto alla controparte femminile, sarebbero poi più a rischio di sviluppare forme di esercizio fisico compulsivo (Danielsen et al., 2018). Inoltre, gli studi di validazione degli strumenti diagnostici per i disturbi del comportamento alimentare sono eseguiti su campioni di popolazione quasi esclusivamente femminile (Stanford & Lemberg, 2012; Limber et al., 2018).

A scopo esemplificativo si consideri l’Eating Disorder Examination (EDE), uno degli strumenti più utilizzati, considerato gold standard per la diagnosi dei disturbi del comportamento alimentare. L’EDE è un’intervista semi strutturata focalizzata sul comportamento alimentare dei 28 giorni precedenti e il cui punteggio globale ottenuto viene distribuito su quattro sottoscale: restrizione alimentare, preoccupazione per l’alimentazione, preoccupazione per la forma del corpo e preoccupazione per il peso (Fairburn ,Cooper & O’Connor, 1993). L’EDE è stato creato e ampiamente studiato per la popolazione femminile e per tale motivo gli item dell’intervista sono in grado di catturare in maniera efficace solo gli indicatori tipicamente femminili dei disturbi del comportamento alimentare. A tal proposito Darcy e collaboratori (2012) confrontando i punteggi ottenuti all’EDE di un campione di pazienti femmine e maschi con diagnosi di anoressia nervosa, hanno scoperto che questi ultimi avevano ottenuto punteggi globali più bassi rispetto alle pazienti femmine e in particolare nelle sottoscale “preoccupazione per la forma del corpo” e “preoccupazione per il peso”. Analisi più approfondite sugli item hanno poi rilevato che gli uomini sono meno propensi rispetto alle donne a voler percepire lo stomaco vuoto, avere la pancia piatta, a mangiare in segreto e a desiderare di perdere peso. Risultati analoghi sono stati trovati su uno studio sulla popolazione non clinica, anche in questo caso i punteggi dei maschi erano notevolmente più bassi rispetto alle femmine e nessun uomo del campione è risultato clinicamente significativo al test (Reas et al., 2012). L’unica eccezione degna di nota riguardava l’esercizio fisico eccessivo, segnalato da un terzo dei partecipanti maschi. Dai punteggi dei test inoltre emergerebbe che la correlazione tra Indice di Massa Corporea (IMC) e patologia alimentare sia notevolmente più debole per i maschi rispetto alla controparte femminile. Tale disparità potrebbe derivare dalle differenze di genere riguardanti il corpo ideale. Più nel dettaglio, se per le donne prevale una spinta al dimagrimento (drive for thinness), negli uomini ci sarebbe la duplice presenza della drive for thinness e della drive for muscularity, ovvero della tendenza a desiderare l’aumento della massa muscolare, che naturalmente costituisce un aumento dell’IMC. I dati appena evidenziati qui sopra confermerebbero quanto emerso da uno studio di Pope e collaboratori (2000) che ha coinvolto 200 studenti universitari provenienti da Francia, Austria e Stati Uniti e da cui è emerso che gli uomini prediligono un corpo ideale che abbia in media 13 kg in più di massa muscolare rispetto alla loro attuale. Gli strumenti tradizionalmente usati per la valutazione dei disturbi del comportamento alimentare non prevedono item che misurino il desiderio di guadagnare peso o aumentare la massa muscolare e, per tale motivo, potrebbero non intercettare quelle forme di disagio riguardanti il peso e la forma del corpo tipicamente maschili. Un altro elemento di criticità dello strumento EDE nella valutazione dei maschi potrebbe riguardare la dicitura “perdita di controllo” nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione”, infatti da alcune ricerche è emerso che i maschi sarebbero meno propensi a utilizzare questa definizione per indicare gli episodi di iperalimentazione, pur avendo caratteristiche perlopiù simili alla abbuffate delle pazienti femmine con un disturbo del comportamento alimentare (Reslan & Saules 2011, Carrey, Saules & Carr, 2017).

Un altro test molto utilizzato nell’ambito della valutazione dei disordini alimentari è l’EDI-3 (Eating Disorder Inventory – 3), uno strumento di autovalutazione dei sintomi comunemente associati ad anoressia e bulimia (Garner, 2004). Anche in questo caso alcuni item intercettano la preoccupazione riguardante la magrezza, come già detto meno presente nei disturbi alimentari della sfera maschile e quelli che interessano la valutazione della forma del corpo riguarderebbero esclusivamente la dimensione femminile, come la preoccupazione per la grandezza di glutei, fianchi e cosce (Andersen, Cohn & Holbrook, 2000).

A partire da queste osservazioni Stevie C. Stanford e Raymond Lemberg (2012) hanno sviluppato l’EDAM (Eating Disorder Assesment for Men), un questionario self-report per la valutazione dei disturbi del comportamento alimentare specifico per i maschi. Lo strumento è composto da 50 item in grado di rilevare i sintomi del comportamento alimentare tipici degli uomini, è composto da 5 scale che riguardano i problemi legati al cibo, le preoccupazioni per il peso, i problemi legati all’esercizio fisico, le preoccupazioni legate al corpo e i disordini della condotta alimentare. La particolarità dell’EDAM è quella di essere il primo strumento realizzato a partire dalle osservazioni della sintomatologia degli uomini con un disturbo alimentare e validato su una popolazione clinica maschile. Stanford e Lemberg hanno ideato tale strumento partendo dall’esperienza dei terapeuti della Prescott House in Arizona, una struttura specifica per uomini dedicata al trattamento delle dipendenze. Infatti, le testimonianze riportate nel corso degli anni dagli operatori del centro sottolineavano la necessità di trovare un modo per diagnosticare i disturbi alimentari nei loro utenti, in quanto una buona parte di quest’ultimi accedeva al servizio per problemi legati alle dipendenze e tendevano a nascondere, durante il corso della terapia, problematiche legate al peso, alla forma del corpo e all’alimentazione. Gli studi preliminari sull’EDAM indicano che lo strumento ha buone proprietà psicometriche ed è in grado di distinguere i maschi con un disturbo del comportamento alimentare da chi non lo ha, tuttavia mancano studi più approfonditi e sono in corso di validazione le versioni in altre lingue, tra cui quella italiana (Lavender, Brown & Murray, 2017; Folla, De Caro & Di Blas, 2018).

In conclusione, si segnala la necessità di usare i test diagnostici per i disturbi del comportamento alimentare con cautela quando si tratta di soggetti di genere maschile, in quanto gli strumenti attualmente presenti e maggiormente utilizzati (come l’EDE e l’EDI) potrebbero non individuare i soggetti a rischio o comunque fornire una lettura incompleta del disturbo, in quanto tarati sulla sintomatologia tipicamente femminile. Inoltre, si sottolinea l’importanza di continuare la ricerca sugli strumenti diagnostici e di screening per i disturbi del comportamento alimentare maschile in modo da individuare più facilmente i soggetti a rischio e ridurre il pregiudizio di genere ancora presente per questo tipo di patologie.

 

Hikikomori e ritiro sociale: dall’assessment all’intervento – Report dal webinar

Considerata per molto tempo una sindrome culturale prettamente giapponese, l’hikikomori comincia alla fine degli anni ’90 a divenire una grave forma di ritiro sociale in diffusione in gran parte del mondo, compresa anche l’Italia.

 

Da poco si è concluso un webinair organizzato da Tages Personality, il gruppo di lavoro interno a Tages Onlus che si occupa dello studio e del trattamento dei disturbi di personalità, che ha affrontato il tema inerente gli hikikomori e che ha visto come relatore il Prof. Takahiro A. Kato, psichiatra e professore presso la Scuola di Medicina dell’Università di Kyushu a Fukuoka, in Giappone. Grande esperto di fama mondiale sul tema dell’hikikomori e del ritiro sociale, è fondatore del Mood Disorder Hikikomori Reasearch Clinic dell’Ospedale Universitario di Kyushu, impegnato in attività di formazione e ricerca sul fenomeno hikikomori, modern type depression e suicidio.

Definizione del fenomeno hikikomori

Considerata per molto tempo una sindrome culturale prettamente giapponese, l’hikikomori comincia alla fine degli anni ’90 a divenire una grave forma di ritiro sociale in diffusione in gran parte del mondo, compresa anche l’Italia.

Seppur ancora non inserita come sindrome all’interno degli attuali sistemi diagnostici, sottolinea il prof. Kato, si vanno sempre più a delinearne le caratteristiche distintive quali:

  • Spiccato isolamento sociale nel proprio domicilio;
  • Durata dell’isolomanto continuo per almeno 6 mesi;
  • Significativa menomazione funzionale o disagio associato all’isolamento;
  • L’esordio è tipicamente durante l’adolescenza o la prima età adultà;

Tale disagio può verificarsi in comorbidità con altre forme di disturbi psichiatrici.

Il prof. Kato inoltre sottolinea l’esigenza di sviluppare strumenti come test e questionari, utili nella fase di assessment, sui quali comunque sta già lavorando col suo gruppo di collaboratori.

Da studi e ricerche del Prof. Kato, inoltre, tale forma di ritiro sociale sembra essere associato a forme di depressione, anzi la sua ipotesi è considerare la depressione come possibile primo passo verso l’hikikmori.

Si evidenziano altri fattori psicologici come senso di solitudine, vergogna, bassa autostima, associati a fattori socio-culturali come l’enfasi data alla qualità dello studio e del lavoro, alte e rigide aspettative sociali, educazione genitoriale, rapporto dipendente e morboso con la figura materna, verso la quale sempre in Giappone ne sono state rilevate manifestazioni aggressive e atti violenti.

Il Professore ha fornito informazioni dettagliate, materiale, e slide su ogni contenuto qui sinteticamente esposto.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm5Imm. 1 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm9Imm. 2 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm7Imm. 3 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm6Imm. 4 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

La seconda parte del webinar è entrata più nel vivo de trattamento: in questo caso il Prof. Kato ha illustrato l’esigenza del lavoro con le famiglie, i suoi programmi di intervento e l’intervento con il soggetto hikikomori.

All’intervento alla famiglia, l’approccio individuale, l’approccio di gruppo ed il reinserimento sociale, speso può essere affiancato anche un trattamento farmacologico (a base di antidepressivi).

Un fenomeno da conoscere e di cui è bene parlare, visto il tempo che si passa a casa e l’uso massiccio che ad oggi facciamo di internet, soprattutto a causa della pandemia da covid-19. I nostri giovani si trovano spesso da soli, per scelta o perché i genitori purtroppo sono assorbiti dai ritmi frenetici del lavoro, e tanti ragazzi, temendo di non possedere abilità resilienti, si ritirano dal mondo reale per rifugiarsi in una realtà virtuale meno minacciosa e più controllabile, fatta di giochi e tutto ciò che internet permette. Per tali motivi anche per noi addetti ai lavori è doveroso conoscere tali fenomeni non così lontani da noi. Ritengo che il webinair di cui ho avuto il piacere di riportarvi in questa sede, abbia dato ai partecipanti un valido contributo in tal senso.

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm8Imm. 5 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm4Imm. 6 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm3Imm. 7 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm2Imm. 8 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Hikikomori e ritiro sociale assessment e intervento - Report dal webinar imm1Imm. 9 – Slide dal webinar del Prof. Kato

 

Vivere e sorridere (2020) di Matteo Perrone e Martina D’Agostino – Recensione

Vivere e sorridere (2020) di Matteo Perrone e Martina D’Agostino è la storia narrata in prima persona della lotta del giovane Matteo con una rara malattia genetica: la sindrome di Wolfram

 

Vivere e sorridere è un libro che si legge tutto d’un fiato, che seppur breve riesce a raccontare gioie e dolori di una vita fuori dall’ordinario, dando uno sguardo delicatamente umano alle vicende di un giovane ragazzo che ha dovuto reinventare le sue abitudini e la sua vita a seguito della diagnosi di una malattia genetica rara, ricevuta tardivamente all’età di 19 anni. I medici infatti per anni hanno pensato di trovarsi di fronte ad una forma di diabete giovanile, ma Matteo in cuor suo sapeva che qualcosa non tornava, perché pur essendo ligio ai protocolli, quei sintomi non gli davano tregua, anzi peggioravano e i picchi glicemici facevano il loro decorso, indipendentemente. Poi, finalmente, grazie ad un Centro specializzato in Toscana si è giunti alla diagnosi, sollievo e croce allo stesso tempo.

Matteo, sostenuto dalle sapienti mani di Martina che scrive, racconta in modo molto chiaro quali vissuti, in termini di cognizioni ed emozioni accompagnano questo percorso.. emozioni pure, che non lasciano spazio ad interpretazioni e che bene rappresentano ciò che vive. A partire dalla sensazione assordante di avere a che fare con qualcosa di sconosciuto, Matteo spiega bene quel che accade, navigando dolorosamente per cercare di dare un senso, di capire, conoscere, dare un nome, per poi accettare la sua Sindrome di Walfram.

Le malattie genetiche rare e il loro impatto psicologico

È difficile comprendere la connessione fra le manifestazioni organiche di una patologia e i vissuti psico-affettivi ad esse connessi. Il rapporto mente-corpo è stato da decenni oggetto di un’ampia teorizzazione (Bion, M. Klein, Winnicott e altri) e risale al pensiero di Freud. Il campo di indagine è complesso, siamo ancora lontani dal comprendere le reciproche influenze tra malattia somatica e psiche. Le emozioni stesse, con i loro correlati fisiologici, possono essere considerate l’area di congiunzione fra l’evento psichico e l’evento somatico.

La cronicità̀ e la rarità sono elementi specifici della patologia descritta in questo libro. Le malattie rare, per definizione, colpiscono meno di una persona su 2000, nel caso specifico 300 al mondo.

I malati rari, e i loro familiari, provano una sensazione di grande insicurezza rispetto al supporto offerto dal sistema sanitario, con la percezione di non avere lo stesso tipo di accesso alle cure e all’assistenza di altri tipi di malati, tanto più quando la malattia è rara e dunque poco conosciuta e con un percorso di diagnosi e trattamento non consolidato. Altro sentimento molto forte è quello della solitudine, della certezza di doversi confrontare con un problema che nessuno dei propri conoscenti ha mai incontrato prima, sensazione che può sfociare nello sconforto e provocare quindi l’aggravio del tono dell’umore e della capacità di reagire e affrontare la malattia stessa. I pazienti e le famiglie si sentono infatti “diversi tra i diversi”. Questi fattori possono rappresentare un rischio per la salute mentale; in un recente studio quantitativo, alte percentuali di pazienti con diverse malattie rare hanno mostrato un aumento dei livelli di depressione e sintomi di ansia rispetto alla popolazione generale. La depressione e l’ansia associate ad una malattia cronica sono correlate a una ridotta qualità della vita e possono influenzare negativamente il decorso della patologia.

Nonostante l’eterogeneità di queste condizioni, i pazienti con malattie rare potrebbero avere molte esperienze in comune. In una recente revisione sistematica di studi qualitativi, ciascuno incentrato su una singola malattia rara specifica o su un gruppo di malattie rare, i pazienti hanno descritto problemi tra loro simili. Questi includono limitazioni (ad es., nel lavoro), carico psicologico, stigmatizzazione e mancanza di opzioni di trattamento disponibili. Le esperienze comuni tra pazienti con diverse malattie rare potrebbero essere utilizzate nei servizi di promozione della salute per strutturare interventi ad hoc.

Da questo punto di vista, nel libro emerge l’importanza delle associazioni per i malati rari, inestimabile fonte di supporto reciproco per chi soffre di questo tipo di patologie.

La musica come medicina per l’anima

Il filo rosso che accompagna le parole del libro, giornata dopo giornata, è la musica, quella di Vasco Rossi, di cui Matteo è appassionato, e che riesce, ogni giorno con un testo diverso, a rappresentare e a fare da colonna sonora, con una speciale risonanza emotiva, agli eventi narrati.

Il potere della musica è risaputo, i suoi effetti benefici sulla psiche sono noti da millenni: la musicoterapia produce ottimi risultati in individui di ogni età e sono dimostrati i suoi risultati positivi nei Disturbi dello Spettro Autistico, nei disturbi dell’Umore, per alleviare la stanchezza psicologica e lo stress in generale, in quanto la musica facilita il rilassamento.

Gli studi sulla musicoterapia hanno dimostrato la loro efficacia a livello di neuroimaging, attraverso il miglioramento  delle funzioni neuro-cognitive (ideazione, attenzione, concentrazione, memoria), della capacità di regolazione dell’umore e delle attività cognitive superiori, come l’apprendimento e l’immaginazione.

L’interesse per la musica nel campo delle neuroscienze si è sviluppata notevolmente negli ultimi anni. Recenti ricerche hanno dimostrato che la musica produce plasticità neuronale, ossia la capacità del cervello di modificare la propria struttura e la propria funzionalità, in base sia a stimoli interni che a stimoli ricevuti dall’ambiente esterno.

Le recenti scoperte dimostrano che l’ascolto della musica è un’esperienza gratificante che attiva il sistema dopaminergico, rendendo questa esperienza ottima anche ai fini della riabilitazione.

Ma la forza di Matteo sta nel non farsi sopraffare dallo sconosciuto, accettarne i colpi bassi, riconoscere e gestire le Emozioni intense, ma allo stesso tempo, riuscire a costruire buone relazioni con i curanti, puntare forte lo sguardo, laddove la vista cala, verso le risorse, le relazioni profondamente sane con amici e familiari, rappresentando uno straordinario esempio di come sia possibile sentire una piena accettazione della vita, ed essere grati per poterne godere, nonostante le molte difficoltà.

Ciò che maggiormente traspare da questo libro è proprio l’entusiasmo per la vita e per tutto quello che essa ci dona, la capacità costruire scenari nuovi a fronte di una invalidazione forte, di inventarsi nuovi occhi con cui guardare, perché, come fa notare saggiamente il protagonista del libro, ogni ostacolo superato può donarci la forza per superare il successivo, e la serenità per apprezzare a pieno ogni momento.

Questa testimonianza rappresenta un importante faro per le persone che soffrono di questa sindrome, e può esserlo anche per tutti coloro che hanno bisogno di sentire che nonostante tutto vivere è magnifico e domani arriverà lo stesso.

 

Ipersessualità e noia

Nel linguaggio comunemente utilizzato, la noia è definita come uno stato di eccitazione e soddisfazione relativamente bassa, attribuita ad una situazione inadeguatamente stimolante (Mikulas & Vodanovich, 1993). Qual è la sua relazione con l’ipersessualità?

 

Mikulas e Vodanovich (1993) hanno definito la noia in termine di “stato”, vista come uno stato di coscienza con una combinazione particolare tra cognizione, affetti, percezioni e attribuzioni. Dato che gli stati sono transitori, una persona può essere in uno stato di noia in un momento e non nel momento dopo (Mikulas & Vodanovich, 1993).

La noia è considerata uno stato affettivo e psicologico transitorio (Leary et al., 1986; Chaney & Chang, 2005; De Oliveira & Carvalho, 2020), un’emozione che si prova quando una situazione viene percepita dal soggetto come monotona, ripetitiva o poco stimolante (De Oliveira & Carvalho, 2020). Dato che la noia è uno stato umorale disforico, Kafka suggerì come tale emozione potesse essere correlata a un comportamento sessuale iperattivo: i tratti affettivi negativi e altri stati umorali, come tristezza e ansia, sono collegati ad un aumento dell’iperattività sessuale e di comportamenti sessuali a rischio (Bancroft et al., 2003; 2003; Bancroft & Vukadinovic, 2004; Carvalho et al., 2015, Walton et al., 2017).

Attraverso una revisione sistematica, De Oliveira e Carvalho (2020) hanno indagato una possibile associazione tra ipersessualità e noia. Nello specifico, le espressioni problematiche eccessive della sessualità studiate sono state etichettate in diversi modi, tra cui dipendenza sessuale, compulsività sessuale, iperattività o impulsività sessuale (De Oliveira & Carvalho, 2020). Nonostante vari resoconti comportamentali all’interno delle prime opere dei sessuologi (Kafka, 2010), la “dipendenza sessuale” è stata aggiunta alla categoria dei disturbi sessuali non altrimenti specificati solo all’interno del DSM-III-R, descritta come il “disagio riguardo ad un pattern di ripetute conquiste sessuali o altre forme di dipendenza sessuale non parafilica, che coinvolgono una successione di persone che esistono come cose da usare” (American Psychiatric Association, 1987). Successivamente, tale definizione è stata rimossa dal DSM-IV-TR (De Oliveira & Carvalho, 2020).

Dalla ricerca iniziale di 76 articoli, solo 19 articoli sono stati inclusi nella selezione finale di De Oliveira e Carvalho (2020). Nello specifico, 16 studi sono quantitativi e 3 sono qualitativi: 4 studi sono stati svolti per validare le misure relative al ipersessualità, 11 riguardano l’attività sessuale online e i restanti la noia legata alla sessualità. Per quanto riguarda il genere, 5 studi hanno utilizzato campioni sia con donne che con uomini, 1 ha utilizzato solo un campione di donne e 7 hanno utilizzato un campione composto da uomini omosessuali (De Oliveira e Carvalho, 2020). I risultati ottenuti dalla revisione indicano una relazione generale tra noia e ipersessualità: lo studio di Chaney (Chaney & Dew, 2003) riconosce la noia come un trigger per impegnarsi in attività sessuali online, mentre un altro studio ha rilevato che 9 partecipanti su 14 riportano la funzionalità della messa in atto di comportamenti sessuali per evitare emozioni negative come solitudine, noia e tristezza (Giugliano, 2006). Gli studi qualitativi analizzati dei due autori evidenziano casi in cui i pazienti associano i loro impulsi sessuali alla noia e al tempo libero, anche se gli studi non mirano a indagare direttamente l’emozione sopra citata (Cooper & Lebo, 2001; Shepherd, 2010) quanto l’ipersessualità. Un recente studio ha trovato un’associazione tra la tendenza alla noia e la dipendenza sessuale in un campione di genere misto, composto da soggetti che ricercano partner sessuali online (Zlot et al., 2018). Un altro studio evidenzia come soggetti di sesso maschile mostrano una correlazione positiva tra la noia e comportamenti ipersessuali, dove l’ipersessualità stessa è positivamente correlata con ansia, con la tendenza a diventare facilmente frustrati, con disregolazione emotiva e depressione (Reid et al., 2011).

Nonostante questa revisione evidenzia come possa esistere una possibile relazione tra noia e ipersessualità, la ricerca d’oggi non è in grado di stabilire i potenziali meccanismi tra queste due variabili, cioè se la noia può essere un evento scatenante o un risultato dell’ipersessualità (De Oliveira & Carvalho, 2020).

 

Ossessioni e Covid-19: quando il timore diventa realtà! – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

Webinar organizzato da Centro Clinico Studi Cognitivi l’Aquila sul tema delle ossessioni nel periodo di pandemia e sugli effetti del Covid-19 e dei cambiamenti ad esso associati su persone con disturbo ossessivo compulsivo. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

La presenza di un virus con un alto tasso di contagiosità, associato alla sua scarsa conoscenza, costituiscono variabili che amplificano la sintomatologia delle persone affette da disturbo ossessivo compulsivo e che paradossalmente determinano una legittimazione da parte della società di comportamenti che un tempo sarebbero stati ritenuti patologici.

Per ridurre la diffusione del COVID-19 sono state messe in atto misure restrittive che hanno previsto un periodo di lockdown, il mantenimento delle distanze sociali, lavaggi frequenti delle mani, ecc. In questo modo coloro che soffrono di un DOC da contaminazione potrebbero soggettivamente “sentirsi meglio”, sia perché avvertono i loro comportamenti come meno bizzarri e meno oggetto di giudizio altrui, sia perché sono ufficialmente autorizzati dalla reclusione forzata e ad evitare l’esposizione a ciò che solitamente più li spaventa. Attraverso specifici percorsi psicoterapeutici è possibile individuare le caratteristiche della sintomatologia manifestata, allo scopo di incrementare le abilità e le risorse personali.

Il Centro Clinico Studi Cognitivi l’Aquila ha organizzato un webinar sull’argomento, condotto dalla Dott.ssa Alessandra Curtacci.

 

OSSESSIONI E COVID-19: QUANDO IL TIMORE DIVENTA REALTÀ!

Guarda il video integrale del webinar:

 

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