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Genitori, come gestire il problema alimentare – Report e video dal webinar condotto dal CIPda Milano in occasione della X giornata nazionale contro i Disturbi dell’Alimentazione

Report sul webinar tenuto dall’équipe multidisciplinare del CIPda, in occasione della giornata nazionale contro i Disturbi dell’Alimentazione (DA), per fornire ai genitori delle linee guida su come gestire le problematiche alimentari vissute dai loro figli.

 

L’incontro si è aperto con un saluto di benvenuto da parte della direttrice sanitaria del centro: la Dott.ssa Sassaroli; la quale ha ribadito la rilevanza di questo seminario, in quanto la figura del genitore assume un ruolo cruciale e determinante all’interno del quadro sintomatologico che il figlio sta esperendo. È stata focalizzata l’attenzione sui seguenti punti: l’importanza di cogliere la problematica tempestivamente, il maggiore rilievo clinico attribuito al disturbo alimentare oggigiorno rispetto al passato, la necessità di invitare il proprio figlio a rivolgersi a specialisti e soprattutto il bisogno di vicinanza emotiva costante. È stato introdotto anche il concetto di alleanza terapeutica: sia tra paziente e curante, sia tra curante e genitori, in quanto quest’ultimi possono essere una risorsa nucleare per un esito terapeutico proficuo.

Ha preso successivamente la parola la direttrice operativa della clinica: la Dott.ssa Nocita, la quale ha esplicitato l’obiettivo dell’incontro, che consiste nell’offrire ai genitori dei suggerimenti pratici per fronteggiare le criticità emergenti dei propri figli verso cibo e forma fisica.

L’impostazione dell’incontro si è articolata in 3 momenti:

  • Il primo dando voce ai vari specialisti dell’équipe che hanno offerto una prospettiva multidisciplinare rispetto alle strategie efficaci per la gestione delle principali criticità
  • Il secondo proiettando una video-testimonianza di genitori di una paziente che ha superato il disturbo alimentare
  • Il terzo dando spazio al pubblico per domande e curiosità

La Dott.ssa Nocita ha introdotto gli specialisti e stimolato il loro intervento, tramite quesiti specifici:

Dott.ssa Colantonio (psicologa): “Quali sono i campanelli d’allarme per poter individuare precocemente un possibile disturbo alimentare?”

È stato immediatamente ribadito quanto sia difficile individuare i segnali prodromici, in quanto nella società attuale comportamenti quali esercizio fisico protratto e diete dimagranti sono ben accettati e rinforzati: il confine tra un’”innocua” attenzione per l’alimentazione e la forma del corpo e l’esordio di una psicopatologia è, dunque, alquanto labile. Il genitore può, però, concentrare la sua attenzione su tre aspetti cruciali: ipervalutazione del peso e della forma fisica, comportamenti finalizzati alla perdita di peso (dieta ferrea, esercizio fisico eccessivo, abbuffate e meccanismi di compenso) e un’evidente modificazione ponderale (diminuzione o aumento del peso).

Dott.ssa Zagarese (psicologa): “Una volta appurati questi elementi, a quali specialisti è opportuno rivolgersi?”

Primariamente alla figura del medico di base, per poter attuare un primo filtraggio della problematica. Secondariamente a centri clinici con équipe multidisciplinari (psichiatra, psicoterapeuta, nutrizionista/dietista), specializzati nelle problematiche alimentari, che seguano protocolli evidence-based empiricamente efficaci.

Dott.ssa Tramontano (psicologa – psicoterapeuta): “Una volta accertata la diagnosi, come si possono orientare i genitori alla ricerca del trattamento più adeguato?”

Il consiglio è di orientarsi sempre verso terapie Gold-Standard indicate dalle linee guida internazionali (NICE, 2017) come terapie d’eccellenza per il trattamento del disturbo alimentare: la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy, CBT-E), grazie alla sua concettualizzazione transdiagnostica del disturbo, è indicata per tutte le sotto-categorie diagnostiche del disturbo. Il centro CIPda adopera come modello teorico e clinico proprio la CBT-E, indicata come trattamento d’elezione per tutti i target d’età. Si tratta di una terapia individuale e personalizzata: nonostante siano previste procedure implementate in maniera sequenziale, vengono sempre adattate alle esigenze e caratteristiche del paziente, il quale assume un ruolo attivo e cooperativo all’interno del trattamento. Il format individuale prevede anche il coinvolgimento dei genitori o degli altri significativi: nel caso degli adolescenti i genitori vengono sempre coinvolti, mentre nel caso di pazienti adulti vengono coinvolti se e solo se possono configurarsi come una risorsa ai fini del trattamento.

Dott.ssa Ranzini (psicologa – psicoterapeuta): “All’interno di un trattamento individuale, come possono i genitori rappresentare una risorsa per il cambiamento di loro figlio?”

Nonostante la CBT-E preveda un format individuale, i dati di ricerca affermano che i genitori assumono un’importanza cruciale per l’esito del trattamento, potendo diventare una risorsa attiva e determinante. In merito a ciò spetta al terapeuta fornire ai genitori sia spiegazioni sul razionale del trattamento, sia indicazioni psicoeducazionali sulle procedure pratiche ed efficaci da mettere in atto. L’obiettivo del coinvolgimento genitoriale consiste, dunque, nel favorire un ambiente familiare accogliente che possa facilitare il cambiamento; grazie anche alla fiducia che i genitori nutrono verso l’impegno del figlio per il trattamento.

Dott.ssa Ramponi (dietista): indicazioni pratiche per gestire proficuamente il momento del pasto

Il pasto e il seguente post-pasto costituiscono momenti di cruciale difficoltà sia per i pazienti, sia per gli altri significativi. A tal proposito, la prima strategia utile consiste nel prepararsi ai pasti anticipatamente: coinvolgendo il proprio figlio nella pianificazione del menù, individuando insieme a lui gli alimenti soggettivamente più semplici da gestire e concordando la porzione di consumo. La seconda direttiva consiste nel creare un clima più idoneo possibile, attraverso l’attenzione focalizzata su argomenti che non concernono minimamente i temi dell’alimentazione, del peso e della forma fisica. Il terzo punto consiste nel conoscere e saper gestire eventuali difficoltà emergenti: in questi casi è opportuno non costringere il proprio figlio a mangiare, bensì gli si rimanda che sta consumando quanto precedentemente concordato. Queste difficoltà potrebbero essere esacerbate da una sensazione di pienezza durante e post-pasto: è doveroso rimandare che queste sensazioni possono essere fortemente influenzate da stimoli emotigeni o essere conseguenti al sottopeso. Anche nel post-pasto risulta fondamentale proporre attività distraenti per distogliere l’attenzione dal cibo, dal corpo e da tutte le emozioni connesse.

Dott.ssa Amianti (biologa – nutrizionista): indicazioni pratiche per gestire i pasti fuori casa

L’alimentazione sociale si rivela un’esperienza notevolmente complessa, motivo per cui la reazione più frequente è l’evitamento, a cui segue un circolo vizioso di frustrazione, ansia e sensi di colpa. Il genitore può cercare di supportare il proprio figlio pianificando l’uscita, in quanto la pianificazione può aumentare il senso di controllo e conseguentemente abbassare l’ansia.

La specialista invita a focalizzare l’attenzione su tre momenti particolari:

  • Pre-pasto: risulta utile contestualizzare l’evento, definendo tutti gli aspetti che comportano l’uscita stessa: location, tipologia di menù proposto (es. scaricare menù online) per poter concordare a priori i dettagli del pasto
  • Durante il pasto: un ruolo cruciale è assunto dalla rete familiare e amicale che circonda l’individuo, dovrebbero essere totalmente evitati temi connessi a cibo, peso e forma fisica; orientando la conversazione su temi distraenti di altra natura
  • Post-pasto: potrebbero subentrare sensi di colpa e ansia per essere usciti dalla propria zona di comfort; il genitore, per essere di aiuto, potrebbe organizzare attività distraenti e interattive

Conclusi gli interventi dei singoli specialisti, ha avuto inizio il secondo momento dell’incontro: la video-testimonianza dei genitori la cui figlia ha superato il suo disturbo alimentare, a seguito della presa in carico al CIPda. Dalla video-testimonianza dei genitori sono emerse le seguenti indicazioni:

  • Ricordarsi che la causa del disturbo alimentare è sempre multifattoriale: non è mai solo “colpa” del genitore, il quale spesso può provare sensi di colpa per la condizione del figlio
  • Viene ribadita l’importanza di rivolgersi a protocolli validati scientificamente (“Nonostante la rigidità, si è rivelato efficace”), aiutando il proprio figlio a scegliere il percorso più adeguato
  • Manifestare supporto costante ai propri figli, ma sempre rispettando il loro spazio di cura
  • Tenere a mente la metafora dell’orchidea paragonata ad un figlio con disturbo alimentare: “Un’orchidea spoglia, se ben curata, può sempre rifiorire in tutta la sua bellezza; bisogna, però, ricordarsi di tenerla annaffiata!”

Il webinar si è concluso con un ultimo spazio dedicato alle domande dal pubblico: le risposte ai quesiti rimanenti sarebbero state reperibili sulla pagina Facebook, sotto forma di brevi video, che hanno riscontrato un elevato livello di gradimento dagli ascoltatori.

 

GENITORI: COME GESTIRE IL PROBLEMA ALIMENTARE – Guarda il video integrale del webinar:

 

 


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Meditazione su Netflix? Sì con le guide di Headspace

Headspace si presenta come una guida alla meditazione, rappresentata da disegni morbidi e colori vivaci che, accompagnata da una voce narrante, introduce in ogni puntata una diversa tecnica di meditazione.

 

Quante volte accendendo la tv o altro dispositivo, ci siamo detti “avrei bisogno di qualcosa che mi aiuti a rilassare” magari dopo un’intensa giornata lavorativa o semplicemente per trascorrere del tempo in tranquillità. Ebbene sì, Netflix ha da poco introdotto nel suo catalogo una nuova esperienza chiamata “Headspace”, portando comodamente a casa tua la meditazione.

Il 2020 sarà senz’altro ricordato come uno degli anni più difficili e complessi, a causa della diffusione del Covid-19 che ha coinvolto tutto il mondo. Questo ha portato con sé maggiori insicurezze economiche e sociali e nuove sfide da affrontare per la sanità globale. Le persone, a causa di limitazioni e restrizioni imposte, hanno sofferto molto, con ripercussioni non solo sulla salute fisica ma anche psicologica. Difatti, sono aumentate notevolmente sintomatologie ansiose-depressive, disturbi del sonno, stress e problemi relazionali. Inoltre, ha portato ad una maggiore riflessione interna, su tematiche di vita esistenziali e profonde che non troveranno risposte immediate. Il mondo che conoscevamo è cambiato e ha portato inesorabilmente cambiamenti anche dentro noi stessi.

A gennaio 2021, dopo anni dalla creazione della prima app di meditazione, “Headspace” fa il suo debutto sulla piattaforma Netflix, proponendo una nuova esperienza on-demand chiamata “Le Guide di Headspace”, una facile guida alla meditazione che permette a tutti di svolgerla nella comodità di casa propria. Headspace si presenta come una guida alla meditazione, rappresentata da disegni morbidi e colori vivaci che, accompagnata da una voce narrante, introduce in ogni puntata una diversa tecnica di meditazione, prima spiegando la tecnica e poi guidando nella pratica.

Questa novità si compone di 8 episodi. Ognuno di questi ha una durata di 20 minuti: 10 minuti di introduzione alla tecnica meditativa e i suoi benefici e altri 10 minuti di pratica meditativa.

Cosa vuol dire meditare?

La meditazione permette, attraverso una pratica quotidiana, di divenire maggiormente consapevoli dei propri stati interni, pensieri, emozioni, percezioni e del proprio stato corporeo. Generalmente alcune forme meditative propongono di iniziare con il porre l’attenzione ad alcune attività che svolgiamo comunemente nelle nostre vite o che mettiamo in atto in maniera automatica, come ad esempio, spostare l’attenzione sul nostro corpo e prendere consapevolezza delle superfici con cui entra in contatto, per poi spostare l’attenzione al respiro, l’aria che entra ed esce dalle narici oppure l’addome che si alza e si abbassa. Prendere consapevolezza significa ascoltare le sensazioni del nostro corpo, prendere dimestichezza con la natura della nostra mente e osservare il flusso di pensieri, accettandolo per quello che è e sospendendo qualsiasi tipo di giudizio. Così la meditazione si propone di offrire una vita molto più ricca e intensa, caratterizzata dalla consapevolezza, disinnescando il “pilota automatico”.

In particolare, Jon Kabat-Zinn (1994), teorico del protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), definisce con la parola Mindfulness “porre attenzione in un modo particolare, ovvero: essere, nel momento presente e in modo non giudicante”.

Accettare di vivere nel momento presente significa non abbandonare noi stessi, ma anzi prenderci cura.

Perciò la presa di consapevolezza e poi l’accettazione, sono i primi passi necessari per qualsiasi persona che voglia intraprendere un vero cambiamento, che tenga conto dei propri valori reali.

“Capire chi siamo, e sapere dove vogliamo andare è l’inizio di un lungo percorso nel rispetto di noi stessi e degli altri”.

Quali sono i benefici?

I benefici della meditazione non comportano soltanto una maggiore consapevolezza a livello fisico e mentale, ma anche una riduzione dello stress, ansia, paura e aggressività.

Ulteriori studi hanno confermato come praticare meditazione quotidianamente possa portare ad un miglior recupero post-operatorio, aumento delle difese immunitarie, miglioramento del sistema cardio-circolatorio, miglioramento del tono dell’umore (Krygier et al., 2013).

Inoltre, negli ultimi trenta anni, il proliferare di ricerche hanno permesso di verificare l’efficacia meditativa nella gestione delle diverse forme di dolore cronico (Kabat-Zinn, Lipworth, & Burney, 1985).

Visto i promettenti benefici e l’assenza di effetti avversi, non resta che l’invito a provare anche voi questa nuova esperienza. Di questa, potranno beneficiare tutti indistintamente, sia i principianti sia gli esperti di meditazione.

Quali prospettive future?

Intanto, la piattaforma digitale di streaming, ha già pensato ad un’altra sfida che farà il suo debutto il prossimo 28 aprile, lanciando “Le guide di Headspace: il Sonno” offrendo consigli utili e un rilassamento guidato per dormire meglio.

Netflix, promuovendo contenuti di questo tipo, ha dimostrato come possa essere versatile e facile raggiungere gran parte della popolazione, proponendo di tanto in tanto contenuti pensati per essere utili anche al benessere psicofisico delle persone. Chissà se tale esperienza, potrà essere di aiuto in alcuni momenti di difficoltà nella vita quotidiana.

Detto ciò, in futuro potremmo pensare di far arrivare altri messaggi e contenuti, ma anche fornire strumenti pratici, mirati alla prevenzione e alla promozione della salute mentale, come ha fatto con headspace.

 

La principessa che aveva fame d’amore (2017) Come imparare a nutrire se stesse – Recensione del libro

Nel libro La Principessa che aveva fame d’amore, di Maria Chiara Gritti viene affrontato, attraverso la favola, il tema del nutrimento dell’anima e del cuore. Di come molte donne imparano che l’unico modo per essere amate sia quello di sacrificare se stesse pur di avere vicino il principe che le nutrirà con il vero amore. Un principe che però spesso resta un rospo, a cui si dà tutto, ricevendo in cambio poche briciole, oppure niente.

 

Un libro definito “geniale”, che, attraverso il racconto di ambientazioni magiche, affronta con delicatezza il dolore della dipendenza affettiva, ma soprattutto che sa rendere speciale il passaggio verso la rinascita di queste donne-principesse che necessitano soltanto di una guida e una bussola che le aiuti a rimettersi sulla giusta strada, quella verso se stesse.

Parte tutto da una leggenda, quella dei Pani che hanno un grande potere nutritivo, tanto da aiutare i bambini lungo la loro crescita a diventare adulti forti e capaci di trovare felicità e soddisfazione nella loro esistenza. Scopriamo così il Pane del Gioco, dell’Immaginazione, dell’Amicizia, dell’Impegno e tanti altri, fino a quello che completa tutto: il Pane dell’Amore. E’ il Pane più difficile da impastare, i suoi ingredienti sono nascosti nel cuore e solo chi ha il coraggio di avventurarsi li raggiunge. Ed è proprio su questa avventura che ruota il libro, l’avventura che è ricerca dell’amore, della pienezza nella propria vita, di ciò che rende davvero sazi.

Inizialmente però, quest’avventura nasce per trovare il principe che sazierà per sempre la fame della nostra protagonista (che da tempo è affamata); molte energie sono spese e investite per questo scopo. Viene così da pensare, leggendo di questo investimento: energie utilissime ma incanalate male. Quante volte capita infatti nella vita? Si investono tempo, risorse e abilità mentali, emotive e sociali in qualcosa che non funziona, nel ripetere ostinatamente la stessa strada nella speranza che stavolta possa essere diverso, che finalmente tutte quelle energie non siano state spese a vuoto ma avessero un senso, e il senso era ottenere l’amore tanto agognato di un principe.

Ma quello che si domanda l’autrice è questo: Come può una ragazza poco nutrita d’affetto riconoscere il sapore del vero amore?

Non è forse questa la strada per scambiare ogni rospo per un principe a cui darsi completamente, senza però ricevere granché in cambio? Ecco, questo è ciò che definisce la Dipendenza Affettiva, quella strana cecità del cuore che porta ad accontentarsi di un riempitivo qualunque.

Parliamo infatti di Dipendenza Affettiva quando il bisogno di stare con l’altra persona è così rigido da far dimenticare se stessi, i propri bisogni e la propria individualità; quando tutti gli sforzi, reali o mentali, sono concentrati sull’altro e sulla relazione, nonostante la palese infruttuosità. Solitamente si sviluppa a fronte di una forte insicurezza circa la propria identità, di un senso di vuoto affettivo, del non sentirsi riconosciuti e amabili se non attraverso la presenza dell’altro. “Se c’è l’altro allora esisto, allora mi amo”. Ed è per questo che si mette in gioco di tutto pur di avere l’altro vicino, per allontanare il dolore del sentire di non esistere e di non essere degni di amore.

La principessa di questa favola incarna perfettamente tutto ciò; attraverso l’annullamento totale dei propri bisogni, appare come la figlia perfetta. Questo perché, come succede alla protagonista, nella vita di chi sviluppa una dipendenza affettiva, le figure di riferimento sono presenti ma in modo ambivalente, e questo porta spesso a situazioni caratterizzate da una sorta di scambio di ruoli tra genitore e figlio (bambino- adultizzato e genitore-bambino). Nella favola i genitori sono troppo impegnati a cercare di soddisfare il loro vuoto nutritivo e si dimenticano di nutrire la figlia come si deve; da un lato, un padre il cui bambino interiore, denutrito e trascurato, prende il sopravvento richiedendo costantemente ciò che non ha mai ricevuto e dall’altro, una madre pronta ad annientarsi per quel bambino denutrito pur di averlo al suo fianco per sentirsi amata e degna. Ed è in tutto questo che la principessa-protagonista impara a non chiedere più nulla, a non dare “fastidio” ai genitori, anzi, a cercare lei stessa di alleviare i loro dolori facendo di tutto per accontentarsi dei Pani stanchi e senza sapore che le vengono propinati. Diventa col tempo una “brava bambina”, buona e obbediente, al completo servizio dei bisogni (esclusivamente) degli altri, perché, come tante donne, ha imparato che solo così si può essere amate, e, nonostante sia capace e piena di talenti, sacrifica tutto per soddisfare la sua vorace fame d’amore.

La principessa avrà molte difficoltà a riconoscere il vero amore, perché quel vuoto scavato dentro di lei è molto richiedente, distruttivo e pretende di essere riempito con qualsiasi cibo e come le donne che si aggrappano a storie deludenti, perfino violente, anche lei perde l’autostima, la fiducia in sé e la propria vitalità. Finisce col perdere se stessa in questa ricerca affannosa del principe che avrebbe dovuto riempire quel vuoto d’amore. Anni di denutrizione e di percorsi sbagliati le portano via anche la speranza e la convincono di non meritare amore.

Ma è proprio qui che può cominciare la rinascita, è proprio fermandosi dalla frenesia e dal rumore assordante del mondo che si ha la possibilità di ascoltare e comprendere la fame che ci si porta dentro. E attraverso la bellissima metafora che richiama il percorso della psicoterapia, la principessa persa comincia ad imparare tante cose su di sé che neanche immaginava, condivide il suo dolore con altre principesse come lei e intraprende il percorso verso ciò che davvero può nutrirla.

Proprio come molte donne, non è facile risalire dalla voragine in cui si sprofonda, il percorso è fatto di tanti ingredienti sconosciuti da scoprire dentro di sé più che al di fuori: amor proprio, autenticità, fiducia in sé, perdono per i propri errori, capacità di rendersi felice e di rendere piena la propria vita. E’ la metafora del salvare la propria bambina interiore, dimenticata in un angolo remoto del proprio cuore, a cui non è stato permesso di esprimere se stessa e a cui è stato fatto credere che solo un uomo potesse salvarla.

La principessa dovrà dedicare diverso tempo alla bambina nel suo cuore grazie alla scoperta dei suoi talenti e questo le consentirà di tornare a se stessa, di tornare a casa e diventare così la regina del suo cuore. Quando queste donne imparano a non accontentarsi più delle briciole possono prendere in mano la valigia dei sogni e andare nel mondo a realizzare i loro desideri, perché come insegna questa favola, l’unico modo di nutrire il vero amore è imparare a nutrire noi stesse.

 

Yoga in adolescenza: effetti sulla regolazione emotiva, autostima ed affettività

Janjhua et al. (2020) si sono occupati di studiare gli effetti dello yoga sulla regolazione emotiva, l’autostima e l’affettività confrontando tra loro 52 adolescenti che praticavano yoga, con 58 che non lo hanno mai praticato.

 

L’adolescenza è una fase di vita caratterizzata da cambiamenti, oltre che fisici, psicologici, sociali ed emotivi.

Le trasformazioni e gli eventi di vita possono essere esperienze profondamente impattanti, che aumentano la vulnerabilità ed il rischio di insorgenza di disturbi psicologici, come stress, ansia, rabbia, depressione ed esaurimento emotivo.

Ansia e depressione comportano uno scarso rendimento scolastico (Bhasin et al., 2010), difficoltà di comunicazione con amici e familiari (Brooks et al., 2002; Gregory, 2007), abuso di sostanze ed incremento del rischio suicidario (Kumar et al., 2014; Pollock et al., 1995). Inoltre, possono insorgere sensazioni di inadeguatezza sociale (Clarke, 2006), frustrazione e percezione di fallimento (Clark & Rieker, 1986).

Gli adolescenti emotivamente vulnerabili riportano difficoltà nella regolazione emotiva, bassa autostima e problematiche affettive, con insorgenza di disturbi dell’umore.

Agire precocemente sugli aspetti di regolazione emotiva, oltre a migliorare la salute psicologica, può contrastare l’insorgenza di disturbi dell’umore in giovane età adulta (Roza et al., 2003).

Secondo la letteratura, l’autostima, declinata nella percezione delle relazioni interpersonali, gestione delle emozioni negative e controllo sugli eventi di vita (Fiorilli et al., 2019), è il più forte predittore di depressione adolescenziale. Mentre in questa fascia della popolazione, bassi livelli di autostima predicono maggiori difficoltà psicologiche (Kernis et al., 1998; Orth et al., 2008), un’adeguata fiducia di sé aumenta la soddisfazione di vita, la felicità, riduce ansia, depressione e solitudine (Cacioppo et al., 2009).

Nel corso degli anni, lo yoga si è rivelato un ottimo strumento di intervento per contrastare i disturbi dell’umore, difficoltà di autostima e regolazione emotiva, oltre che consentire un miglioramento della salute mentale e contrastare i sintomi ansiosi (Ross & Thomas, 2010).

In particolare, lo yoga è stato integrato nelle attività scolastiche apportando un contributo significativo nell’alleviare lo stress, l’ansia, migliorare la resilienza, l’umore e le capacità di autoregolazione emotiva (Hagen & Nayar, 2014). Oltre ad aver incrementato i livelli di autostima e consapevolezza di sé tra i ragazzi alle scuole superiori (Van Yperen, 2003), ha migliorato le loro capacità cognitive (Van Yperen, 2003), in particolare quelle di memoria e di concentrazione (Galantino et al., 2008).

Coloro che lo praticano divengono consapevoli dei suoi benefici nel controllo emotivo in quanto non va ad agire solo sulla dimensione fisica, ma rafforza gli aspetti mentali ed affettivi.

Rispetto alla semplice ora di educazione fisica praticata nelle scuole superiori, lo yoga ha contribuito in modo rilevante alla gestione della rabbia e al controllo degli impulsi, sostenendo i ragazzi nell’individuare condotte alternative a quelle aggressive (Setty A.G et al., 2017).

Un’ulteriore indagine ha riportato un aumento significativo del benessere mentale ed una diminuzione dello stato di ansia tra i partecipanti, dopo solo 15 giorni di pratica (Telles et al., 2019). Nello studio di Newman et al. (2020), ha aumentato i livelli di autostima, sostenuto nella formazione dell’identità, nella capacità di affrontare la rabbia in modo adattivo e nella pianificazione e concentrazione.

Oltre a promuovere maggiore benessere tra gli individui sani, lo yoga agisce positivamente in persone che soffrono di malattie fisiche apportando benefici nei casi di allergia respiratoria, diabete, malattie coronariche e durante gli interventi di riabilitazione.

Secondo la letteratura, lo yoga ha il potenziale per aiutare gli adolescenti ricoverati per problematiche acute presso gli ospedali psichiatrici, in quanto offre loro uno strumento efficace per regolare gli affetti spiacevoli e trovare sollievo durante il periodo di degenza (Re et al., 2014).

Il linea con le ricerche precedenti, Janjhua et al. (2020) si sono occupati di studiare gli effetti dello yoga sulla regolazione emotiva, l’autostima e l’affettività confrontando tra loro 52 adolescenti che praticavano yoga, con 58 che non lo hanno mai praticato.

In generale, gli studenti che praticavano yoga riportarono un’affettività più positiva, migliore autostima e più efficaci abilità di regolazione emotiva.

Coerentemente con la letteratura precedente, lo yoga apportava un contributo significativo alle abilità di regolazione degli affetti spiacevoli, non presente tra coloro che praticavano solamente educazione fisica (Kumari & Sahu, 2018).

Inoltre, chi praticava yoga aveva riportato maggiore accordo alle affermazioni positive sull’autostima rispetto a quelle negative, a testimonianza di una maggiore fiducia verso di sé, soprattutto legata al contesto sociale. Chi non praticava yoga aveva riportato maggiori affermazioni negative sull’autostima, ed suoi livelli erano significativamente inferiori (Telles, 2017).

Mentre chi lo praticava aveva riportato una maggiore affettività positiva e bassi sentimenti negativi; chi non lo praticava era vittima di sentimenti negativi, maggiore tristezza, rabbia e stanchezza. Inoltre, gli studenti che lo praticavano mostravano una migliore regolazione degli affetti spiacevoli essendo più felici, energici, concentrati e generalmente più sani.

In conclusione, per l’impatto positivo ed i benefici che può apportare nella salute fisica e mentale degli adolescenti, lo yoga dovrebbe essere integrato nel contesto scolastico, accanto alle ore di educazione fisica.

Al fine di offrire programmi di yoga fin dalla tenera età, è necessario formare gli insegnanti, renderli consci dei vantaggi che può offrire, affinché offrendosi come esempio positivo, possano motivare gli studenti all’apprendimento di tale pratica.

 

L’altro volto della divisa

Essere militare è una scelta di vita, una vocazione con la quale si nasce, lo chiamano “amor di Patria”, ma è veramente solo questo? O dietro a quella divisa si nasconde qualcosa di più?

 

La verità? Non si può essere forti da soli, non basta un duro addestramento a trasformare un giovane ragazzo in un uomo dalle spalle forti, ci vuole chi gli insegni a tenere duro, qualcuno che rappresenti un posto più sicuro di una trincea, nel quale fare ritorno dopo una qualsiasi battaglia: la famiglia.

Stress, ansia e difficoltà nelle famiglie dei militari

Le famiglie di militari sono quelle più sottoposte a stress dovuto non solo alle frequenti missioni all’estero, specie nei primi periodi di impiego nelle FF.AA,  ma anche ai numerosi trasferimenti. È noto infatti come questi ultimi influiscano pesantemente sull’equilibrio familiare. Ogni trasferimento determina cambiamenti per tutti i membri della famiglia, da svariate abitudini alle amicizie e impone di dover ridefinire costantemente una nuova routine. Questo spesso porta la famiglia a rinunciare a tutti i benefici conseguiti in un determinato contesto sociale, soprattutto quando si è costretti ad adattarsi ad un habitat scarsamente dotato di servizi, imponendo così a tutti i componenti della famiglia di accontentarsi delle risorse disponibili sul territorio.

Stress, ansia e difficoltà non possono essere considerati problemi legati solo ed esclusivamente alla famiglia del militare, in quanto evidenze empiriche hanno provato come soldati in missione, preoccupati per la propria situazione familiare, siano meno affidabili e meno efficienti nelle prestazioni lavorative. È stato dimostrato però come attraverso l’aiuto e il sostegno, le famiglie siano in grado di risolvere i propri problemi in maniera più efficace, senza pesare psicologicamente sul proprio caro lontano da casa.

Un altro fenomeno alquanto importante, che ha delle ripercussioni nel contesto familiare, è quello del pendolarismo. Spesso, soprattutto quando i figli (se presenti) superano l’età della scuola dell’obbligo, è concesso al militare di alloggiare fuori dalla sede di servizio. Questa soluzione sembra garantire l’unità della famiglia ma solo a prima vista, in quanto il militare pendolare, oltre a sopportare il peso delle ore di viaggio, è costretto a trascorre un tempo estremamente limitato nella propria abitazione, limitando così il dialogo e l’interazione con i cari. Questo fenomeno, se gestito scorrettamente, induce stanchezza, irritabilità, difficoltà di comunicazione, ecc. che possono sfociare in problematiche correlate allo stress quali depressione, traumi e disturbi psicofisici di vario genere. Tutto questo incide fortemente sulla vita del militare caratterizzata pertanto da una serie di limitazioni e vincoli imposti ai progetti personali.

Le difficoltà che emergono, a seguito dei ricorrenti distacchi prodotti dall’invio in missione del partner militare, sono condivise da più famiglie. Il distacco è sempre percepito come negativo e tende a sua volta a generare stress e un senso di privazione, specie in chi resta a casa ad aspettare. Quello che spesso accade è che problematiche come queste vengono taciute per evitare di gravare ulteriormente sulla condizione psicologica di chi, per giuramento, non può sottrarsi ai suoi obblighi professionali.

Con il passare del tempo l’impatto iniziale e le difficoltà del distacco diventano sempre meno forti, ma dover ridefinire costantemente una propria routine, in assenza del partner, risulta essere piuttosto difficile se non si ha qualcuno accanto sul quale poter contare.

Al problema del distacco è correlato quello del ritorno, non è semplice ri-adattarsi ad un contesto con abitudini e routine completamente diverse da quelle alle quali si è stati sottoposti nel periodo di assenza da casa, e alle quali si è costretti a rinunciare nuovamente dopo poco tempo, a tal proposito questo richiede uno forzo, non indifferente, da entrambe le parti.

Famiglia e vita militare: un po’ di storia

Per un lungo periodo, le forze armate hanno ostacolato i militari nel costruirsi una propria famiglia, in quanto si temeva potesse essere un impedimento al lavoro e allo svolgimento della professione di soldato. Questo divieto, in passato, veniva imposto specialmente ai più giovani di età e ai più bassi in grado ma non accadeva lo stesso con i giovani Ufficiali.

Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che negli Stati Uniti si iniziò a comprendere l’importanza del ruolo della famiglia nella vita di un soldato, come meccanismo di sostegno a chi era costretto a combattere al fronte. Questa attenzione però, in un primo momento, era del tutto “strumentale”, in quanto mirava al benessere del militare, e quindi responsabile delle sue prestazioni positive sul lavoro.

A tal proposito a partire dagli anni ’50 era permesso alle famiglie di seguire i militari/congiunti continuamente trasferiti da una base all’altra e si arrivò a comprendere che la famiglia doveva essere pronta a sostenere il peso e le difficoltà di una missione, tanto quanto un soldato.

Ma allora cosa possiamo fare per tutte le famiglie costrette a sopportare il peso dell’attesa?

Supporto alle famiglie dei militari

Il supporto alle famiglie dei militari è utile per creare un equilibrio tra vita privata e esigenze lavorative. Sono state proposte diverse attività di sostegno:

  • un’organizzazione istituzionale interna gestita localmente presso ogni reparto, in grado di fornire assistenza e aiuto in diversi campi professionali (medico, psicologico..);
  • un’associazione volontaria, esterna all’Istituzione, senza legami o vincoli con l’organizzazione militare;
  • un’associazione volontaria che però riceve riconoscimento e sostegno istituzionale a livello locale ovvero dal reparto presso il quale sorge e opera, utilizzando spazi, mezzi di comunicazione e supporto logistico interni;
  • sportello di ascolto gestito da personale militare specializzato nel fornire indicazioni e informazioni.

Spesso vengono organizzati incontri e riunioni per spiegare a mogli/mariti e figli (chiamati in inglese military brat) lo scopo della missione in cui viene impiegato il proprio congiunto.

Nonostante le tante possibili soluzioni alcuni nuclei familiari sentono di non dover condividere le proprie difficoltà, i motivi sono generalmente due: il primo è quello di ritenere che la diffusione di notizie possa nuocere alla carriera del soldato interessato, il secondo è la completa autonomia da parte della famiglia nello gestire la situazione problematica.

In passato si usava inviare lettere ai propri cari, i tempi di attesa erano estremamente lunghi e ogni volta si doveva sperare che non andassero perse, l’invenzione del telefono ha permesso di accorciare i tempi e ha reso la lontananza dal proprio caro più sopportabile. Oggi con lo sviluppo delle tecnologie (Skype, WhatsApp, ecc.) le distanze si riducono ulteriormente e tutti questi strumenti consentono a militari e familiari di rimanere in contatto psicologico ed emotivo.

Supporto alle famiglie dei militari in Italia

In Italia il supporto alle famiglie dei militari non si è del tutto affermato. Purtroppo ancora oggi quando si cerca di parlare con qualcuno dei propri disagi, provati a seguito della mancanza del partner o di un genitore, ci si sente rispondere con frasi del tipo: “sapevi a cosa andavi incontro”, “ma guadagna un sacco di soldi” e si finisce per chiudersi in se stessi perché poco o per nulla compresi. Tutto questo porta all’insorgenza di disagi familiari che spesso si traducono in divorzi (non a caso il tasso di divorzi di membri delle FF.AA in Italia è altissimo).

Nel 1993 un gruppo di mogli e fidanzate ha dato vita a un’organizzazione di supporto chiamata “3M-Moglie, Marina, Militare” e nel 2013 è nata a Grottaglie (TA) l’associazione “L’altra metà della divisa” con l’obiettivo di fornire sostegno completo alle famiglie del personale militare favorendo serenità e benessere. Alla base di questa associazione vi è il motto “insieme possiamo fare la differenza”, l’idea che si vuole trasmettere è quella che qualunque problema può risultare meno spaventoso se condiviso con altri.

La presenza di questi gruppi/associazioni può essere considerata come un duplice aiuto offerto da una parte alle famiglie e dall’altra al militare che potrà assolvere al proprio ruolo con maggiore concentrazione, certo del fatto che i propri  cari non verranno mai lasciati soli.

L’importanza della famiglia e il suo ruolo centrale a sostegno della figura del militare sono ormai noti e, a tal proposito, una poesia di Giuseppe Ungaretti, il grande poeta soldato, che mi ha sempre affascinata per la semplicità e chiarezza nelle parole, recita così “Sorpresa dopo tanto d’un amore. Credevo di averlo sparpagliato per il mondo”. È evidente come il poeta esprima un concetto ampio quale quello del ritorno a casa e la sua successiva sorpresa nel realizzare che l’amore per i cari sia rimasto sempre lo stesso, nonostante lo scorrere del tempo.

Quella di Ungaretti rappresenta per noi la testimonianza di un uomo che ha vissuto due realtà tanto diverse tra loro: quella del campo di battaglia e quella dell’ambiente familiare in cui ogni soldato spera sempre di far ritorno.

In un’intervista ai corpi speciali delle FF.AA un giovane incursore (del quale non è possibile, per privacy, riportare il nome) ha dichiarato:

Una notte durante un addestramento mi è passata la vita davanti, ho pensato alla mia famiglia, ma quando mi sono chiesto perché lo stessi facendo e se ne valesse la pena arrivare fino alla fine del tunnel la mia risposta è stata…Sì.

Di questa affermazione ciò che mi ha colpita di più è stato il pensiero, che questo ragazzo ha rivolto, anche solo per un istante, alla sua famiglia, alla quale, per scelte professionali, è costretto a togliere del tempo.

Ma cosa potrebbe accadere se non si fornisse il giusto supporto psicologico ai membri delle FF.AA?

Suicidi in ambito militare

In un’intervista il Gen. Claudio Graziano, ricordando la figura del nonno, soldato al fronte durante la prima guerra mondiale, afferma:

Lui non aveva voglia di morire, per lui la vita era importante, si accettava la morte perché all’epoca la dimensione della guerra era diversa.

Gli antenati degli attuali corpi speciali delle FF.AA: gli Arditi erano guardati con ammirazione e anche con un po’ di invidia in quanto addestrati a prendere decisioni autonomamente, sfidavano la morte ma erano desiderosi di vita.

Ma allora cosa spinge questi uomini al suicidio?

Il suicidio non può essere mai considerato l’effetto di una sola causa, sono diversi i fattori che intervengono a determinarlo e ancora oggi è concepito come un fenomeno sottovalutato e negato.

Da un militare ci si aspetta che sia perfetto, un eroe chiamato ad intervenire per salvaguardare la nostra sicurezza e sono tutte queste false credenze, ancora purtroppo condivise, che impediscono all’uomo sotto quella divisa di esprimere il suo disagio, portandolo a ricorrere al suicidio come unica soluzione al problema, come ricerca di una libertà che porta alla perdita della libertà stessa.

Quest’ultimo si verifica quando passato, presente e futuro non forniscono più nessuna ragione di vita.

Il suicidio costituisce la terza causa di morte nelle Forze Armate, come riportato nell’articolo Suicidio: linee di comprensione e di epidemiologia dell’Osservatorio Epidemiologico della Difesa:

Dei 155 suicidi notificati all’Osservatorio dal 2006 al 2014, la percentuale maggiore dei casi pari al 60% riguarda l’Arma dei Carabinieri, seguono l’Esercito con una percentuale del 28%, l’Aeronautica con il 7% e infine la Marina con il 5% dei casi.

Potrà apparire come una soluzione banale ma il semplice colloquio, pur non essendo un vero e proprio intervento terapeutico, permette di individuare quelli che possono essere definiti, come riportato nell’articolo sopra citato, “primi indizi di un disagio”. Un passo avanti in questa direzione è stato fatto proprio negli Stati Uniti, dove è stata proposta una serie di programmi educativi al fine di facilitare la comunicazione del disturbo.

Solitudine, ansia, stress, depressione, traumi sono tra le principali cause del suicidio in ambito militare, pensate a quanto possa essere difficile parlarne per chi ogni giorno “rischia la carriera”.

Al pari del suicidio, anche il tentato suicidio richiede un’attenta analisi, il sociologo Emile Durkheim lo definisce così:

Il tentativo di suicidio è l’atto così definito ma arrestato prima che ne risulti la morte.

In queto caso intendiamo sia fenomeni di autolesionismo che il “mancato suicidio”, ovvero un atto di suicidio pianificato ma fallito per cause accidentali.

Nell’articolo in questione, tra le dimensioni psicologiche, costituenti fattori di rischio, viene riportato

Hopelessness, una tendenza a percepirsi disperato, senza via d’uscita.

I costrutti mentali connessi a quest’ultimo si riferiscono a schemi cognitivi alla base dei quali vi è l’aspettativa negativa verso il futuro. Ciò che si vuole evidenziare è che vi è uno stretto legame tra visione negativa del futuro, presenza di sindromi depressive e la tendenza a commettere atti quali il tentato suicidio o il suicidio.

Ritengo importante sottolineare che non possiamo prevedere il suicidio, ma sicuramente è possibile prevenirlo assicurando, anche e soprattutto in ambito militare, la presenza di personale specializzato (psicologi, psicoterapeuti, medici ecc.).

La figura dello psicologo nelle forze armate

Come riportato nel documento ufficiale dello Stato Maggiore della Difesa il supporto psicologico offerto alle famiglie è fondamentale per aiutarle a metabolizzare un lutto o un evento potenzialmente traumatico.

In aggiunta a questo anche il militare stesso viene accompagno in un percorso di riabilitazione al fine di ristabilirsi dopo un incidente/ferimento più o meno grave. Viene effettuato su richiesta di personale specializzato (psicologi, psicoterapeuti, medici) e generalmente tali attività vengono assicurate a livello di singola F.A..

Eventi di questo tipo producono un’interruzione improvvisa nel presente delle famiglie, dei militari o di entrambe le parti, offuscando momentaneamente la possibilità di progettare un futuro degno di essere vissuto. È in contesti come questi che lo psicologo interviene per massimizzare le potenzialità di rispondere in maniera resiliente a tali situazioni, al fine di ristabilire l’equilibrio e riprendere nella maniera migliore possibile il proprio cammino.

Nonostante i continui addestramenti per essere pronti ad affrontare rischi, incertezze e minacce, non si è di certo esenti da ripercussioni a livello emotivo e psicologico. Per un militare perdere un proprio compagno equivale a perdere un membro della propria famiglia ed è noto come il supporto psicologico, sociale e familiare acceleri il processo di ripresa.

L’intervento di sostegno psicologico può essere svolto individualmente o in gruppo, ma non può essere imposto e non può prescindere da una consapevole richiesta da parte della famiglia e/o del militare/civile interessato. Esso dovrebbe essere garantito, se possibile, da psicologi militari/civili della Difesa o da personale appartenente a strutture convenzionate.

A seconda della situazione (decesso, ferimenti, evento traumatico, infermità e malattia) vengono applicati percorsi differenti, progettati su misura.

Le abitudini ci rendono più forti, più sicuri, ma siamo davvero certi del fatto che “prima o poi ci si abitui a tutto?”.

Il supporto psicologico in ambito militare è fondamentale sia per chi parte, e a volte non sa quando farà ritorno, sia, e soprattutto, per chi, con il tempo ha solo imparato ad attendere, non si tratta di “farci l’abitudine”, ma di essere disposti ad aspettare, un’arte che in pochi conoscono, ma che le famiglie dei militari esercitano da sempre.

Biomarcatori della Pedofilia: può la scienza riconoscere un pedofilo? 

L’attuale letteratura suggerisce come i biomarcatori possano essere degli strumenti potenzialmente utili non solo nel coadiuvare il clinico nella diagnosi, ma anche nel trattamento e nella valutazione del rischio nei soggetti pedofili.

 

Introduzione

Il Disturbo Pedofilico viene definito come “un’eccitazione sessuale ricorrente intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età)” (DSM-5, 2014, p.810). Inserito all’interno dei disturbi parafilici, il disturbo pedofilico risulta essere un argomento connotato da una forte sensibilità. Più generalmente, la pedofilia riguarda il marcato e persistente interesse sessuale per bambini prepuberi, come manifesto da fantasie, desideri, pensieri e comportamenti sessuali dell’individuo (Seto, 2009). Ad oggi rimane tuttavia largamente sconosciuta la prevalenza della pedofilia nella popolazione a causa della mancanza di studi epidemiologici su larga scala. Il DSM-5 (2014) stima una prevalenza attuale del disturbo nella popolazione maschile del 3-5%, tuttavia non basata su forti dati scientifici. Inoltre, restano ancora da chiarire i possibili fattori di rischio alla base dello sviluppo della pedofilia. Dalla letteratura emergono evidenze rispetto al fatto che l’aver subito abusi sessuali in età infantile possa comportare lo sviluppo di un interesse di tipo pedofilico (DSM-5, 2014; Nunes et al., 2013). Nunes e colleghi (2013) mostrano tuttavia come soltanto una minima percentuale delle vittime manifesti poi in età adulta questo disturbo. Proprio per la complessità e la mancanza di robuste evidenze riguardo alla pedofilia risultano particolarmente interessanti alcune recenti ricerche che sembrerebbero suggerire la possibilità di identificare uno o più biomarcatori per questo disturbo.

Si definisce biomarcatore una proprietà oggettivamente misurabile che funge da indicatore di processi biologici anomali e/o normali e il loro nesso con gli esiti clinici (Strimbu & Travel, 2010). In altre parole, è stata indagata la possibilità di riconoscere un pedofilo attraverso dei parametri oggettivi; se ciò fosse possibile, questo si tradurrebbe in un aiuto significativo per il clinico nell’identificazione di un interesse pedofilico. Tanto è vero che l’attuale letteratura suggerisce come i biomarcatori possano essere degli strumenti potenzialmente utili non solo nel coadiuvare il clinico nella diagnosi, ma anche nel trattamento e nella valutazione del rischio nei soggetti pedofili. Una recente review (Jordan, Wild, Fromberger, Muller & Muller, 2020) presenta e analizza i principali studi circa i potenziali biomarcatori della pedofilia, a partire da una concettualizzazione multifattoriale e complessa di quest’ultima.

Fattori genetici e neurobiologici

Considerando le influenze genetiche sulla pedofilia, uno studio riporta una probabilità significativamente più diffusa di incorrere in tale disturbo per i parenti di primo grado di pazienti con diagnosi conclamata, rispetto a parenti di primo grado di soggetti affetti da altre parafilie o depressione (Gaffney, Lurie & Berlin, 1984). La piccola dimensione del campione dello studio sopra citato (33 uomini) e la sua datazione non gli consentono un elevato grado di affidabilità, comunque suggerisce quanto l’interesse scientifico nei confronti di tale disturbo abbia radici ben lontane nel tempo. Ricerche più recenti hanno messo in relazione la prevalenza dell’uso della mano sinistra (handedness) o di entrambe ad interessi sessuali devianti (Bogaert, 2001). Tuttavia, nessuno tra questi elementi sembra godere di una solidità tale da porsi come substrato biologico determinante della pedofilia.

La letteratura si è espressa anche sul versante neurologico identificando come la pedofilia si accompagni a delle compromissioni delle capacità cognitive del soggetto: ridotto QI, attenuazione dell’attenzione e ridotta flessibilità cognitiva (Cantor et.al, 2004). A tal proposito delle ricerche hanno impiegato la tecnica del tracciamento oculare (eye-tracking) come mezzo per valutare le preferenze sessuali devianti. Tale tecnica consente, mediante il tracciamento dei movimenti oculari dell’individuo, di identificare gli stimoli visivi che maggiormente attirano la sua attenzione e verso i quali direziona lo sguardo. Grazie all’eye-tracking è possibile realizzare un effettivo monitoraggio oculare dell’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione di determinati stimoli, osservando, ad esempio, la dilatazione e la contrazione delle pupille, ricavandone informazione sui processi attenzionali.

Renaud et al. (2013) hanno implementato un disegno sperimentale che prevedeva la misurazione dei movimenti oculari in tre gruppi durante la presentazione di immagini che ritraevano bambini o adulti. Il primo gruppo era costituito da pedofili, il secondo da autori di reati sessuali non pedofili ed infine il terzo gruppo era di controllo. I risultati hanno mostrato come i pedofili, rispetto agli altri, abbiano riportato dei tempi di fissazione significativamente più lunghi per gli stimoli raffiguranti bambini. Altri autori hanno implementato un disegno sperimentale simile in cui i soggetti erano chiamati a risolvere un compito cognitivo e parallelamente a questo venivano loro presentati degli stimoli sessuali: immagini di bambini o adulti (Jordan et.al, 2016). I partecipanti per riuscire nel compito erano chiamati ad esercitare un buon controllo dell’attenzione. Si evince come quest’ultimo sia venuto meno nei soggetti pedofili in cui gli stimoli raffiguranti dei bambini erano molto distraenti.

A parere di chi scrive risulta centrale riportare alcune evidenze circa lo sviluppo della pedofilia come fattore acquisito a seguito di lesioni cerebrali soprattutto prima dei 13 anni che avrebbero sortito un effetto iatrogeno sullo sviluppo neurale (Blanchard, 2003). Ulteriori studi osservano una generale ipersessualità a seguito dell’insorgenza di tumori cerebrali, accompagnata da cambiamenti di personalità e/o impulsività (Burns & Swerdlow, 2003). Nell’eventualità in cui in tali soggetti sviluppassero un interesse di tipo pedofilo questo era da considerare come acquisito a seguito del tumore e collocato in un quadro di ipersessualità favorito dalla malattia. Le evidenze sin qui esposte rendono difficile trarre delle conclusioni definitive sui correlati neurali della pedofilia.

Ultimo, non per importanza, aspetto da analizzare sotto il profilo biologico è quello ormonale. Appartiene allo scibile comune la credenza che i pedofili siano connotati da concentrazioni più elevate di testosterone, ma la scienza dimostra che ciò non corrisponde al vero. Nonostante questo, il trattamento per abbassare il testosterone (TLT) viene utilizzato su soggetti pedofili riducendo l’attivazione delle aree cerebrali collegate alle funzioni sessuali, con l’intento di diminuire il loro desiderio sessuale (Shiffer et.al, 2009). Quanto appena constatato va a supportare il fatto che neanche sotto il profilo ormonale sia possibile risalire ad un biomarcatore.

Si ritiene utile illustrare alcune delle tecniche ad oggi implementate per studiare l’interesse di tipo pedofilico.

Pletismografia del pene (PPG)

Appare rilevante ricordare che la pletismografia del pene è ritenuta una tecnica d’elezione per valutare l’interesse pedofilico, tanto da essere indicata dal DSM-5 come un elemento diagnostico aggiuntivo della pedofilia. Tale tecnica rileva l’interesse di tipo pedofilo attraverso le variazioni di circonferenza e volume del pene in risposta a stimoli sessuali (che variano per età e sesso) (McPhail et al., 2019). In altre parole, di fronte all’immagine di un bambino/a il soggetto pedofilo, rispetto al teleiofilo, ovvero colui che è attratto da persone adulte, mostrerà una oggettiva e misurabile eccitazione genitale. Si vuole infine sottolineare che il ruolo della pletismografia del pene è di supporto alla diagnosi e che di certo non può sostituirla.

Risonanza magnetica funzionale

Un’ulteriore tecnica rivelatasi promettente nell’assessment di un interesse sessuale deviante è quella della risonanza magnetica funzionale, la quale permette la raccolta di informazioni emodinamiche, ovvero della circolazione sanguigna del cervello in risposta a stimoli sessuali, certamente più affidabili, rispetto a questionari self-report, nell’individuazione di un interesse pedofilico della persona. L’idea di base è che gli aspetti rilevanti degli stimoli sessuali siano elaborati in maniera preferenziale, catturando l’attenzione del soggetto in maniera più rapida e significativa (Spiering et.al, 2007). Nella review di Jacobs et al. (2020) viene discusso come per ovviare alla possibile manipolazione dei soggetti che osservano passivamente diversi stimoli di natura sessuale, siano utilizzati stimoli visivi subliminali, ovvero una presentazione di stimoli per un tempo inferiore ai 50 ms, ovvero un quantitativo di tempo insufficiente affinché lo stimolo venga percepito ad un livello consapevole.

Approcci comportamentali

Infine, con l’introduzione dei marcatori “bio-comportamentali” Loth ed Evans (2019) suggeriscono l’utilizzo di approcci comportamentali per la valutazione oggettiva dell’interesse sessuale deviante. Questa valutazione può essere ad esempio fatta attraverso misurazioni dei tempi di reazione, misure di precisione in compiti cognitivi o valutazioni di valenza ed eccitazione rispetto ad uno stimolo (Jordan et al., 2020). Jordan e colleghi (2020) spiegano come questi possano rappresentare dei promettenti strumenti “oggettivi” per il processo diagnostico, come ad esempio il tempo di visualizzazione, basato sul fatto che il soggetto tenda ad osservare per un tempo maggiore uno stimolo per lui/lei erotico rispetto ad uno non-erotico, tuttavia i risultati emersi dagli studi scientifici mostrano effetti ancora troppo piccoli o moderati. Nonostante ciò, è proprio il DSM-5 (2014) ad elencare il tempo di visualizzazione tra i marcatori diagnostici del disturbo pedofilico.

Conclusioni

E’ innegabile come il disturbo pedofilico eserciti un peso notevole all’interno della società anche e soprattutto per la sofferenza fisica e psicologica di chi ne è vittima. Indagini condotte in Europa mostrano che 18 milioni di bambini siano vittime di abusi sessuali, con una prevalenza del 9.6% (13.4% nelle bambine e 5.7% nei bambini) (WHO, 2013). D’altro canto, studiare i processi psico-fisiologici di coloro i quali sviluppano tale disturbo può condurre ad una conoscenza più approfondita di una patologia tanto complessa; ciò consentirebbe infatti di agire, laddove possibile, in termini preventivi così da limitare i danni. Da una disamina di quanto presente in letteratura, emerge come la ricerca abbia ancora molto da fare in tal senso e gli studi riguardo ai possibili biomarcatori sono ancora in fase esplorativa. Come si è ampiamente ribadito, i biomarcatori non sono altro che proprietà oggettivamente misurabili che fungono da indicatori di processi biologici anomali e/o normali e il loro nesso con gli esiti clinici (Strimbu & Travel, 2010). Al termine delle evidenze argomentate, in linea con la letteratura (Jordan et al., 2020), è importante sottolineare come nel caso del disturbo pedofilico sia più opportuno parlare di un biomarcatore composito, ovvero di più parametri che, solo se considerati nel loro insieme, potrebbero rivelarsi utili per diagnosi, valutazione del trattamento e prevenzione in soggetti pedofili.

Dal punto di vista diagnostico, come è stato precedentemente illustrato, emerge la considerevole utilità derivante dall’utilizzo di biomarker che possano oggettivamente discriminare un soggetto pedofilo da uno con interessi sessuali teleiofilici, così come risulterebbe certamente vantaggioso poter valutare l’andamento dei trattamenti e della terapia, nonché i loro progressi, positivi o negativi, tramite l’utilizzo dei biomarcatori. Per esempio, come spiegano Jordan e colleghi (2020), i tempi di reazione visiva (Visual Reaction Times, VRT), che permettono di misurare l’interesse sessuale rispetto a degli stimoli (es. immagini di bambini) sulla base del tempo di visualizzazione di essi, possono essere utilizzati per il monitoraggio dell’andamento della terapia in soggetti con interesse sessuale pedofilico: tempi di reazione visiva minori ad ogni follow-up indicherebbero l’effettiva diminuzione dell’interesse pedofilico, nonché un esito positivo del trattamento (per approfondimento si veda: Gray, Abel, Jordan, Garby, Wiegel & Harlow, 2015).

Per quanto concerne il versante preventivo, lo studio di un biomarcatore composito della pedofilia risulterebbe particolarmente utile nel supporto e monitoraggio di soggetti pedofili. Infatti, grazie alla rete si è assistito, soprattutto in tempi recenti, al dilagare di una molteplicità di materiali pedopornografici, facilmente accessibili e diffusi attraverso chat, social, ecc., così come è sempre più agevole l’accesso al dark web, nel quale, come riportato dalla cronaca, sono spesso scoperte numerose chat nelle quali vengono diffusi video di violenze sessuali ai danni di minori. Un articolo del 2004 (Malesky & Ennis, 2004) sottolinea come la partecipazione ad un forum per individui che condividono tendenze pedofiliche rinforzi il senso di appartenenza dell’individuo e la tendenza a normalizzare la percezione dei propri interessi sessuali devianti in quanto condivisi con altre persone. Gli autori suggeriscono inoltre un utilizzo limitato di comunità virtuali per individui con interessi sessuali devianti e soprattutto per individui autori di reati sessuali, prediligendo per questi individui un focus sullo sviluppo e il consolidamento di relazioni sociali adulte. Se grazie ad un biomarcatore composito fosse dunque possibile non solo diagnosticare e valutare gli esiti dei trattamenti in soggetti pedofili, ma anche prevenire la fruizione o il contributo alla diffusione di questo materiale e la normalizzazione di questi atti da parte di coloro che potrebbero tramutare in azioni il contenuto di ciò che osservano e condividono, è chiaro quale importante strumento questo rappresenterebbe nel prevenire i rischi che ne conseguono.

 

Psicoterapia e neuroscienze: uno spazio di integrazione. Il successo della psicoterapia mostrato da specifici cambiamenti a livello cerebrale

La persona in terapia, durante il colloquio, rielabora ed interiorizza i messaggi inviati dal clinico, consentendo così la modifica delle aree implicate nel malessere emotivo. Il terapeuta, grazie al suo lavoro, potrà quindi promuovere dei comportamenti più adattivi e stati emotivi funzionali.

 

L’efficacia di un trattamento psicoterapico può essere verificato tramite molti strumenti, tra questi troviamo ad esempio l’utilizzo di questionari. Tuttavia, possiamo vedere l’efficacia di una psicoterapia anche grazie a tecniche neurofisiologiche che consentono di osservare i cambiamenti sul piano neurobiologico che questo intervento comporta (Basile, n.d.).

L’integrazione tra psicoterapia e studi di neuroscienze ha consentito in particolare di mostrare in maniera concreta quali sono gli effetti della psicoterapia sul cervello umano (Del Corno & Lingiardi, 2010).

Buona parte dei comportamenti messi in atto dalle persone, sono frutto di apprendimenti nel corso di vita e tutto ciò che viene appreso, viene impresso in memoria provocando dei cambiamenti nel nostro cervello. Grazie agli studi di neuroimaging, tecniche che consentono di verificare l’attività cerebrale, è emerso come anche la psicoterapia si basa su queste dinamiche e quindi, quando funziona, va a modificare i circuiti neuronali implicati nelle psicopatologie. Attraverso la psicoterapia, possono essere fissate in memoria nuove esperienze, più funzionali ad uno stato di benessere. Il cambiamento si basa sull’ importante relazione che si instaura tra terapeuta e paziente (Lazzerini & Cammarata, 2015).

La psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale, in particolare, ha diversi studi in quest’ambito che ne supportano l’efficacia per svariate condizioni psicopatologiche, con effetti paragonabili a quelli degli psicofarmaci.

Che cos’è una psicoterapia?

Con il termine psicoterapia si indicano diverse tipologie di tecniche terapeutiche accomunate dall’obiettivo di intervenire sulla sofferenza umana utilizzando metodi e strumenti psicologici.

La pratica della psicoterapia diventa di interesse scientifico verso la fine dell’Ottocento, discostandosi da pratiche quali lo sciamanesimo, l’esoterismo e così via.

Grazie allo sviluppo scientifico di nuovi modelli psicologici, le tecniche psicoterapiche si sono sempre più diversificate e ad oggi vi sono numerosi approcci che consentono di spiegare ed intervenire sul malessere psicologico. La psicoterapia offre al paziente uno spazio relazionale in cui potrà beneficiare di tranquillità, protezione e comprensione. La persona in terapia potrà sentirsi libera da accuse e criticismi, avendo modo di esprimersi con il terapeuta in piena fiducia. Inoltre, durante la psicoterapia, il paziente potrà fare propri alcuni aspetti positivi del terapeuta, come ad esempio determinati atteggiamenti e qualità. Tutto ciò avviene in un contesto relazionale che è regolato da vincoli etici e professionali, come ad esempio tempistiche, luogo e modalità del colloquio. Tali condizioni sono utili per tutelare la relazione d’aiuto che si instaurerà tra le parti.

Ogni psicoterapia sarà caratterizzata da rapporti relazionali molto diversi da paziente a paziente.

Il rapporto che si instaura tra terapeuta e paziente è comunque sempre basato sulla reciprocità: da un lato, consente al paziente di imparare a stare bene, dall’altro, anche il terapeuta impara qualcosa dal proprio paziente e che può aiutarlo ad esempio a migliorarsi come professionista. (Bressi & Invernizzi, 2017).

Il colloquio come mezzo di accesso alla mente

La psicoterapia si concretizza con i colloqui tra terapeuta e paziente. Un colloquio è uno scambio di interazioni tra due soggetti, non è assimilabile ad una comune conversazione, poiché è finalizzato ad un obiettivo che viene concordato tra le parti. In particolare, in ambito psicologico, il colloquio è indirizzato a comprendere il malessere della persona che si rivolge al clinico e grazie al quale potrà condurlo ad uno stato di maggiore benessere (Del Corno & Lang, 2005).

Il colloquio in ambito psicoterapico si differenzia da altre tipologie di colloqui, come potrebbe essere il colloquio con il giudice o con un poliziotto, poiché è finalizzato a comprendere la realtà psichica della persona che si rivolge al clinico (Semi, 2019).

Il colloquio psicologico richiede specifiche competenze professionali per essere gestito ed è parte di un percorso generalmente più lungo, l’esito di un lavoro che gradualmente si raffina. Durante il colloquio si addensano elementi professionali e tecnici, elementi umani e relazionali, si riattivano vissuti e si elaborano trasformazioni. Non si esaurisce mai a fine seduta, poiché psicologicamente continua sia nella mente del paziente che ne conserva il ricordo attraverso immagini e sensazioni, sia nella mente del clinico che rielaborerà il materiale attraverso osservazioni ed ipotesi, riflettendo anche sul suo stesso comportamento (Di Giorgio, 2018).

Come la psicoterapia modifica il cervello

Per diverso tempo i risultati della psicoterapia sono stati studiati mediante osservazione dell’attenuazione dei sintomi, di alcune nuove abilità psicologiche e più in generale, del miglioramento del funzionamento sociale del paziente. Questo la distingue dall’utilizzo degli psicofarmaci il cui effetto è dato dal solo cambiamento biologico a livello cerebrale. Grazie all’avvento delle tecniche di neuroimaging funzionale è stato possibile osservare i cambiamenti dei sistemi cerebrali che la psicoterapia comporta (Karlsson, 2011).

Studi di neuroimaging sui disturbi d’ansia hanno evidenziato come i sintomi (ad esempio mani sudate, voce esitante, agitazione motoria) sono attivati da specifici circuiti neuronali che predispongono ad identificare un pericolo e a preparare il corpo ad agire. Inoltre, grazie a queste tecniche, si è potuto osservare come l’amigdala e la corteccia orbitofrontale siano deputate a mantenere in memoria i ricordi spiacevoli che le persone possono accumulare nel corso della vita.

Durante il colloquio di psicoterapia, per accedere alla sofferenza del paziente, il terapeuta si rappresenta mentalmente la situazione e solo grazie a ciò potrà aver luogo l’intervento psicoterapico. La comprensione della sofferenza del paziente viene fatta trasparire da parte del clinico mediante segnali sul piano emotivo e cognitivo. Se questo importante processo va a buon fine, il paziente interiorizza gli stimoli che gli giungono dal terapeuta in modo positivo, poiché si sentirà capito. Questo processo fa sì che riattivino ed inibiscano le aree cerebrali deputate al mantenimento dello stato di sofferenza. Durante il corso della psicoterapia, il paziente inizierà ad associare il miglioramento del suo malessere e le emozioni positive che prova, alla figura del terapeuta facendo sì che si attivino le aree celebrali della ricompensa o quelle deputate alla ricezione di stimoli relazionali positivi, ovvero quelle zone cerebrali che consentono di accedere ad uno stato di piacere e di provare benessere. In un percorso di psicoterapia, in cui la persona si senta accolta e protetta, il terapeuta potrà quindi offrire uno spazio per ridefinire le proprie difficoltà sul piano emozionale.

Studi sulla relazione tra bambino e caregiver, ovvero la figura che presta cure, riportano inoltre come uno stile di attaccamento sicuro sia correlato in maniera positiva ad una diminuzione dell’attivazione dei circuiti deputati alle reazioni di allarme e ad una maggiore attivazione delle aree connesse alla sensazione di gratificazione. L’attaccamento sicuro è infatti un legame speciale che si instaura tra bambino e figura di accudimento, in un contesto di affetto, cura e protezione ed è connesso ad emozioni positive. La psicoterapia potrà essere quindi un percorso volto a promuovere questo legame speciale, che consentirà al clinico di poter accedere alla sofferenza del paziente. (Del Corno & Lingiardi, 2010).

Le neuroscienze hanno scoperto anche un importante gruppo di neuroni che sono implicati nel processo di psicoterapia: i neuroni specchio. Questa è una categoria di neuroni che ci consente di dare significato alle azioni degli altri quando li stiamo osservando, consentendoci di attribuirvi emozioni e intenzioni e quindi risultano estremamente utili per consentirci di muoverci all’interno delle interazioni sociali. Nello specifico i neuroni specchio (mirror neurons) sono una categoria di cellule neurali che consentono alle persone di imitare un comportamento che viene eseguito da un’altra persona: vedere svolgere uno specifico comportamento attiva tali neuroni, il che consente di codificare quella determinata azione e successivamente, di imitarla. Questa categoria di neuroni è fondamentale anche nel riconoscimento delle emozioni di chi ci sta difronte, perché ne consentono la codifica attraverso il volto e ci fanno immedesimare nelle emozioni che la persona che abbiamo di fronte prova. Sono quindi fondamentali per provare empatia (Matarazzo & Zammuner, 2015).

Il buon esito del percorso di psicoterapia deriverebbe in particolare dai continui rispecchiamenti tra i sistemi dei neuroni specchio delle due persone coinvolte. La persona in terapia potrà rispecchiare l’empatia del clinico interiorizzando il suo atteggiamento: le emozioni negative verranno attenuate dall’atteggiamento positivo ed equilibrato dello psicoterapeuta consentendo così che vengano sbloccati nuovi circuiti cerebrali volti ad una migliore gestione della sofferenza emotiva (Del Corno & Lingiardi, 2010).

Grazie agli studi delle neuroscienze e allo sviluppo delle tecniche di neuroimaging è stato possibile quindi osservare concretamente cosa succede al nostro cervello durante un percorso di psicoterapia e quali cambiamenti provoca su questo, cosa che un tempo non era possibile.

Studi di neuroimaging sugli interventi della TCC

Per diverso tempo i trattamenti psicoterapici sono stati sottoposti a diverse critiche a causa della loro carenza di basi scientifiche, attualmente si sta assistendo ad un importante cambiamento in quest’ambito e alcuni orientamenti psicoterapici promuovono i propri interventi basandoli su studi che ne provano l’efficacia. In particolare, la psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale è il trattamento che vanta il maggior numero di studi, anche in ambito neuroscientifico, che ne supportano l’efficacia per svariate condizione psicopatologiche tra le quali spiccano in particolare depressione maggiore, disturbi d’ansia e disturbo ossessivo-compulsivo. (Del Corno & Lingiardi, 2010). Questa psicoterapia si muove appunto a livello cognitivo, con una ristrutturazione dei pensieri negativi della persona e dei comportamenti, con prescrizioni comportamentali.

In particolare, studi di neuroimaging su soggetti con fobia sociale e sottoposti allo stimolo di dover parlare in pubblico, dopo un percorso di terapia cognitivo comportamentale, hanno evidenziato una normalizzazione dell’attività dell’amigdala, zona cerebrale coinvolta nel mantenimento di questa psicopatologia, esattamente come avviene con il trattamento mediante psicofarmaci. La medesima efficacia si è riscontrata nei casi di fobia specifica a cui alle persone era chiesto di esporsi allo stimolo temuto; a seguito del trattamento, durante l’esposizione i pazienti risultavano avere una minor attivazione delle zone cerebrali implicate nelle fobie. Anche per quanto riguarda gli studi sul disturbo depressivo maggiore, dal punto di vista neurocerebrale sono emersi risultati che provano l’efficacia della TCC in relazione agli psicofarmaci, riportando risultati anche più duraturi nel tempo (Bellamoli et al., n.d.).

Uno studio condotto da Linden e collaboratori nel 2006 in quest’ambito, ha avvalorato l’efficacia degli interventi della terapia cognitivo-comportamentale. In particolare dai risultati è emerso come questa sia efficace nei casi di disturbo ossessivo-compulsivo. Attraverso l’utilizzo di neuroimaging funzionale è stata riscontrata una riduzione dell’attività del nucleo caudato destro, implicata nella genesi e mantenimento di questa condizione psicopatologica, in maniera analoga all’utilizzo degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), categoria di psicofarmaci utilizzati per la cura di questo disturbo (Linden, 2006).

In conclusione

La psicoterapia, grazie ai suoi interventi mediati da fattori comunicativi ed emotivi consente quindi di accedere ai circuiti cerebrali del paziente modificandone la conformità. La persona in terapia, durante il colloquio, rielabora ed interiorizza i messaggi inviati dal clinico consentendo così la modifica delle aree implicate nel malessere emotivo. Il terapeuta, grazie al suo lavoro, potrà quindi promuovere dei comportamenti più adattivi e stati emotivi funzionali.

Grazie a questi importanti studi nel campo delle neuroscienze, possiamo comprendere concretamente quali dinamiche consentono alle persone che si sottopongono alla psicoterapia, di uscire dallo stato di sofferenza e ricominciare a stare bene, mostrando inoltre come la psicoterapia sia un importante mezzo di cura che non genera effetti collaterali.

 

Corpi in trasformazione e ritiro sociale. Quanto il diniego dei cambiamenti puberali incide sull’isolamento in adolescenza

In alcuni casi, durante l’adolescenza, il corpo può diventare un inquietante estraneo che fa prepotentemente la sua comparsa sulla scena psichica e impegna la mente nella ricerca di senso rispetto a sensazioni, impulsi e fantasie fino a quel momento inedite.

 

Inevitabilmente, quando si parla di adolescenza, non possono essere ignorate le profonde trasformazioni di ordine fisico, relazionale e psichico che caratterizzano questo periodo dell’arco di vita e che coinvolgono profondamente l’adolescente, richiedendogli un lungo e delicato processo di elaborazione e simbolizzazione, la cui risoluzione, in una prospettiva evolutiva, è lo strutturarsi dell’identità da parte del soggetto.

La pubertà può dunque perturbare il sentimento di familiarità che l’adolescente, fino a quel momento, ha intrattenuto con sé stesso e cimentarne la stabilità identitaria raggiunta fino ad allora. Il corpo può, in alcuni casi, diventare un inquietante estraneo che fa prepotentemente la sua comparsa sulla scena psichica e impegna la mente nella ricerca di senso rispetto a sensazioni, impulsi e fantasie fino a quel momento inedite. Solo gradualmente si giunge alla costruzione di una rappresentazione del nuovo corpo dotato di sesso, momento in cui l’adolescente approda ad una immagine di sé come adulto, con una specifica identità di genere (Monniello, 2016).

Affinché l’adolescente riesca a simbolizzare e farsi una rappresentazione psichica dei mutamenti, è necessario che disponga di uno spazio mentale sufficiente a poter pensare il nuovo corpo. In alcuni casi, invece, le trasformazioni somatiche, le nuove sensazioni e fantasie sessuali, possono essere sentite come eccessivamente invasive e difficilmente integrabili. Possono prodursi così svariate difficoltà nel processo di mentalizzazione dei cambiamenti, che possono culminare nella negazione di questi e ad un ripudio del corpo.

Il diniego delle trasformazioni puberali può giungere fino alle forme estreme di dissociazione mente-corpo, caratterizzate non soltanto da una mancata rappresentazione mentale del sé fisico ma da un corpo sensorialmente muto e costantemente allontanato dalla realtà mentale (Ruggiero, 2019).

Quando si denotano queste problematiche è spesso possibile rintracciare, nella storia evolutiva dell’adolescente, una difficoltà genitoriale nel distinguere il proprio corpo da quello dell’allora neonato e a pensare al funzionamento corporeo del loro figlio, come diverso e separato dal proprio. Quando infatti vi è la tendenza da parte del genitore, a spiegare ciò che osservano nel proprio bambino, riferendosi al proprio funzionamento mentale e corporeo, vi è una pressione nel ragazzo a far suo quel determinato funzionamento, finendo così per scindere, senza avere la possibilità di elaborare e simbolizzare, quelli che invece sono aspetti differenti e originali del proprio funzionamento corporeo e mentale (Ruggiero, 2019).

Queste situazioni avvengono tipicamente all’interno di relazioni caratterizzate da uno stringente contratto narcisistico (Kaës, 2010) fatto di vincoli rigidi e forti idealizzazioni familiari in cui l’adolescente si ritrova bloccato. All’interno di queste dinamiche i genitori vivono il ragazzo come un prolungamento non differenziato di sé, minandone così l’acquisizione di capacità elaborative e simboliche soggettive necessarie perché l’adolescente svolga quello che Raymond Chan chiama “soggettivazione” (Chan, 1998), cioè un processo di differenziazione che coincide con la sensazione, da parte dell’individuo, di sentire di disporre di un corpo sessuato, di un proprio pensiero e di una propria modalità creativa e originaria di presenziare al mondo, il cui procedere comincia dall’appropriazione soggettiva dell’adolescente della propria motricità, sensorialità ed esperienza percettiva, che si attivano e arricchiscono con gli stimoli sensoriali puberali (Monniello, 2016).

Il quadro si fa ulteriormente complesso se si considera che in adolescenza, insieme all’affiorare delle pulsioni, c’è un riproporsi del complesso edipico.

L’aumento della forza e le effettive possibilità fisiche maturate con l’adolescenza, spaventano inconsciamente l’adolescente e lo inducono non solo ad allontanarsi dai genitori ma anche ad assumere su sé stesso quegli aspetti adulti e di responsabilità prima affidati alle figure genitoriali, rispetto la propria vita, la propria autonomia ed emancipazione. Tutto questo implica la necessità di uno scontro-confronto con i propri genitori i quali si oppongono e promuovono questa dinamica di responsabilizzazione in un modo non meno ambivalente dei  propri figli (Loewald, 1979).

Ma in contesti familiari invischianti, l’adolescente può non avere gli strumenti mentali per procedere in questo secondo processo di separazione e individuazione e perciò sentirsi non legittimato e paralizzato rispetto ad un processo che porterebbe a differenziarsi, avvertendo come sbagliati questi nuovi impulsi e sentendosi inadeguato e spaventato nel presentarsi così mostruoso agli occhi degli altri.

Il ragazzo che difensivamente attiva una dinamica dissociativa nei confronti dei cambiamenti in atto, finirà con l’avvertire di star subendo in maniera passiva queste trasformazioni e si porrà, rispetto ad esse, in un atteggiamento di remissione e isolamento, come una vittima il cui aguzzino, oltretutto, è il proprio corpo.

Il ritiro sociale può allora assumere, per l’adolescente, una valenza anestetizzante e difensiva nei confronti di quei vissuti conflittuali e angoscianti attivati da trasformazioni avvertite come troppo perturbanti e invasive.

L’isolamento, nei vari modi in cui va delineandosi, può esser categorizzato come un fenomeno ricercato oppure subito (Corsano et al., 2011).

L’isolamento subito si manifesta con l’emarginazione e la denigrazione di un ragazzo da parte del gruppo dei pari. Questa situazione ripropone e conferma il vissuto di passività avvertito dall’adolescente nei confronti dei mutamenti puberali a cui il proprio corpo è esposto, poiché è proprio in quei ragazzi con un difetto integrativo della relazione mente-corpo che si evincono maggiormente caratteristiche come goffaggine, meccanicità, disarmonia e sbadataggine (Monniello, 2016).  D’altro canto, le stesse vessazioni utilizzate dai gruppi dei pari altro non sono che una modalità per proiettare e allontanare da loro stessi quei sentimenti di estraneità e inadeguatezza a cui il loro stesso sé è sottoposto e di cui l’adolescente con più evidenti difficoltà integrative, diventa ricettacolo e capro espiatorio.

L’isolamento ricercato può invece configurarsi secondo modalità comportamentali e aspetti mentali diversi:

  • Un ritiro all’interno degli ambiti accademici. Questa declinazione coincide con quei casi in cui, a seguito della dissociazione mente-corpo, il sé psichico giunge a coincidere con la totalità del sé e il soggetto è dominato da un’estrema intellettualizzazione e razionalizzazione. Queste persone risultano particolarmente promettenti negli studi professionali e il successo ottenuto in tali ambiti permette loro di rinsaldare la propria autostima e senso di autoefficacia, che tuttavia si scontra con una difficoltà a relazionarsi col mondo e le altre persone.
  • Un rifugiarsi all’interno di mondi di fantasia fatti di videogiochi, film o serie tv. Il controllo dato dal riuscire a gestire ciò che accade nel gioco o sulle emozioni che si riescono a sperimentare a seconda del film o serie tv che si sceglie di guardare; la semplicità con cui è possibile variare o interrompere date emozioni, premendo semplicemente un tasto, permette all’adolescente di entrare in un’atmosfera onnipotente e di avere l’illusione momentanea di essere tornato a padroneggiare la realtà psichica e somatica. Questa modalità di ritiro, in particolare, può manifestarsi in quegli adolescenti in cui la rinuncia all’utilizzo di modalità difensive più infantili verso altre più adulte risulta più conflittuale e difficile.
  • Infine, possiamo osservare un ritiro sociale la cui funzione è creare uno spazio in cui isolarsi da quell’ambiente che impedisce il compito evolutivo dell’adolescenza. L’adolescente che, in maniera preconscia cerca l’isolamento con questo scopo, può sentire il bisogno di star solo per elaborare, riflettere su sé stesso, crearsi gradualmente un proprio pensiero e compiere delle scelte autonome (Corsano, 2003). Il soggetto cerca così di sperimentare un’autonomia nella presa di responsabilità della propria vita, facendosi carico delle proprie decisioni, sensi di colpa e conseguenze delle proprie azioni (Palmonari, 2011). Tuttavia, anche la traiettoria di questa terza modalità rimane di dubbia utilità poiché l’adolescente non ha ancora completato l’interiorizzazione dell’imago parentale che gli fornisce il supporto necessario ad un’autentica autonomia psichica (Cahn, 1998) e il ragazzo, così facendo, si trova a privarsi del confronto e rispecchiamento dato dallo sguardo genitoriale e dei pari che, in questo momento della sua vita, rivestono un ruolo centrale.

 

La Sindrome da alimentazione notturna e la sua relazione con il nevroticismo

La Sindrome da alimentazione notturna (Night Eating Syndrome-NES) è stata inserita, all’interno del DSM-5, nella categoria dei Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione non altrimenti specificati (American Psychiatric Association, 2013).

 

Essa è associata da una perdita di appetito al mattino, iperfagia serale, ingestioni notturne e disturbi del sonno e dell’umore (Runfola et al., 2014). Ulteriormente, può essere definita come il consumo di almeno il 25% dell’apporto calorico giornaliero dopo il pasto serale e/o il risveglio notturno, con ingestioni che si presentano almeno due volte a settimana.

Gli individui affetti da tale sindrome sono consapevoli delle loro abbuffate notturne e sperimentano un disagio e senso di colpa o, in casi più gravi, una compromissione del funzionamento, con segni e sintomi che perdurano per almeno tre mesi (Allison et al., 2010).

La Sindrome da alimentazione notturna, essendo associata ad un considerevole aumento dell’assunzione di cibo, determina un aumento indesiderato del peso e, di conseguenza, può condurre all’obesità (Gluck et al., 2011).

È bene specificare, però, che il fenomeno delle abbuffate notturne è associato anche ad una scarsa qualità del sonno (Yahia et al., 2017), ad un elevato umore negativo (He et al., 2018), alla dipendenza dal cibo (Nolan & Geliebter, 2016), alla cosiddetta “fame emotiva” (Nolan & Geliebter, 2012) ed ai disturbi da uso di sostanze (Lundgren et al., 2006).

Precedenti revisioni sistematiche hanno suggerito che anche il nevroticismo, ovvero quel tratto della personalità caratterizzato da una prevalenza di emozioni negative, insicurezza e vulnerabilità (Costa & McCrae, 1992), è positivamente associato alla sintomatologia connessa ai disturbi alimentari (Cassin & Von Ranson, 2005), nonché un fattore predisponente per lo sviluppo dei suddetti (Lilenfeld, Wonderlich, Riso, Crosby, & Mitchell, 2006). Tuttavia, nessuno studio empirico ha esaminato la possibile relazione tra nevroticismo e alimentazione notturna ma, sulla base dei risultati delle revisioni sistematiche, è possibile ipotizzare che il suddetto tratto possa essere un considerevole predittore delle abbuffate notturne.

A ciò va aggiunto che, secondo alcuni studi esiste una stretta relazione tra l’alimentazione notturna e il distress psicologico (He et al., 2018), una condizione che può comportare la manifestazione di sintomi depressivi e/o ansiosi (Préville, Boyer, Potvin, Perreault, & Légaré, 1992). Difatti, i pazienti affetti dalla sindrome da alimentazione notturna hanno ricondotto l’insorgenza di quest’ultima ad eventi di vita estremamente stressanti (Allison, Stunkard, & Thier, 2004). In occasione di tali avvenimenti, la “cascata” neuro-endocrinologica coordinata da cortisolo, insulina, grelina (ormone della fame) e leptina (ormone della sazietà), influisce sulle modalità di assunzione del cibo (Masih, Dimmock, Epel, & Guelfi, 2017). Allo stesso tempo, lo stress può alterare il sistema di attivazione della ricompensa, incrementando la ricerca di cibi “comfort” altamente appetibili e ricchi di grassi, in modo tale da poter ottenere una ricompensa da questi ultimi (Morris et al., 2015).

Un aspetto particolarmente rilevante nell’ambito della problematica dello stress e, dunque, del disagio psicologico, concerne le strategie di coping, ovvero quei meccanismi di difesa che l’individuo mette in atto per far fronte ad avvenimenti percepiti come stressanti o comunque ritenuti superiori alle proprie capacità (Lazarus & Folkman, 1984). Talvolta però, è possibile mettere in atto delle strategie di coping tentando di ridurre il disagio psicologico percepito, finendo però con mantenere – o rinforzare – le emozioni e le sensazioni fisiche negative (Umeh, 2004), dando vita a dei meccanismi di difesa disfunzionali.

Alcuni autori hanno scoperto che gli studenti universitari, che sperimentano livelli elevati di stress, hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti alimentari notturni, a causa dell’uso di strategie di coping disfunzionali (Wichianson et al., 2009).

Sulla base di quanto appena esposto, è stato ipotizzato che possa esistere una relazione tra nevroticismo ed alimentazione notturna e che questa relazione possa essere mediata dal distress psicologico e dalle strategie di coping disadattive.

Al fine di dimostrare tali ipotesi, un gruppo di ricercatori ha reclutato 578 studenti universitari con un’età media di 20 anni e un indice di massa corporea di 20,61 kg/m2.

Rispetto agli strumenti utilizzati, al fine di valutare il tratto del nevroticismo, ai partecipanti è stato somministrato il Revised Eysenck Personality Questionnaire Short Scale (Qian, Wu, Zhu, & Zhang, 2000) mentre, per quanto concerne la valutazione della sintomatologia connessa alla sindrome da alimentazione notturna, gli studenti hanno completato il Night Eating Questionnaire (Tu, Tseng, Chang, & Lin, 2017).

La Depression Anxiety Stress Scale (Gong, Xie, Xu, & Luo, 2010) e il Simplified Coping Style Questionnaire (Xie, 1998) sono stati utilizzati per stimare, rispettivamente, il distress psicologico e le strategie di coping maladattive.

I risultati ottenuti hanno mostrato che il nevroticismo era positivamente correlato al fenomeno delle abbuffate notturne e che questa relazione era mediata dal distress psicologico, ma non dal coping disadattivo.

La scoperta dell’esistenza di una relazione tra il nevroticismo e i comportamenti alimentari notturni è coerente con i risultati di studi precedenti che hanno mostrato un’associazione tra il suddetto tratto e altri comportamenti alimentari disordinati (Ferguson, Munoz, Winegard, & Winegard, 2012). Dunque, gli individui che presentano livelli più elevati di nevroticismo, che mostrano pertanto una considerevole variabilità dell’umore, ed una maggiore insicurezza, sono da considerarsi come soggetti maggiormente a rischio per quanto concerne lo sviluppo di comportamenti alimentari inadeguati, in cui rientrano le abbuffate notturne.

All’interno di tale relazione si inserisce l’effetto di mediazione svolto dal distress psicologico, che porta ad ipotizzare che l’associazione sopradescritta possa essere in gran parte spiegata dalla presenza di questa variabile, ma saranno necessari ulteriori studi al fine di verificare se possano esservi altri fattori che possano mediare l’associazione tra nevroticismo ed alimentazione notturna.

Ad ogni modo, i risultati emersi comportano delle considerevoli implicazioni dal punto di vista clinico. In primo luogo, la presenza di alti livelli di nevroticismo dei pazienti potrebbe fungere da campanello d’allarme rispetto alla messa in atto di comportamenti alimentari notturni.

In secondo luogo, la scoperta del ruolo di mediazione svolto dal distress psicologico potrebbe essere particolarmente significativo per la pianificazione del trattamento. Difatti, il distress psicologico risulta essere maggiormente suscettibile al cambiamento, anche attraverso interventi a breve termine (Deckro et al., 2002), rispetto al nevroticismo.

 

ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento (2021) A cura di Claudio Mencacci e Giovanni Migliarese – Recensione del libro

Il volume ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento è diviso in cinque parti, nella prima si affrontano l’eziologia e le manifestazioni sintomatologiche, nella seconda l’iter della valutazione diagnostica, nella terza la progettazione dell’intervento e nella quarta la comorbilità.

 

L’Attention Deficit and Hyperactivity Disorder (ADHD) descrive una modalità di funzionamento con esordio in età evolutiva che spesso permane, influenzando il soggetto in tutte le fasi della vita. Si caratterizza per una gestione problematica dell’attenzione che genera difficoltà e fallimenti e condiziona la qualità della vita di chi intrattiene il disturbo. Recenti studi epidemiologici attestano che questa sindrome si presenta in modalità eterogenee, impulsività, disorganizzazione, disattenzione, iperattività, disregolazione emotiva, possono variare da soggetto a soggetto e nello stesso individuo in momenti diversi, e colpisce circa il 2,8% della popolazione con età maggiore di diciotto anni.

Fare diagnosi per questi motivi non è semplice e sono necessarie una buona formazione e competenze specifiche. Il testo ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento si propone come riferimento per fornire indicazioni circa l’eziologia, le manifestazioni cliniche, la diagnosi e il trattamento.

Il volume è diviso in cinque parti, nella prima si affrontano i temi legati all’eziologia e alle manifestazioni sintomatologiche, nella seconda è trattato l’iter complesso della valutazione diagnostica, nella terza si prende in considerazione la progettazione dell’intervento, nella quarta si approfondisce la comorbilità, perché spesso nell’adulto il disturbo si trova sovrapposto ad altra psicopatologia, mentre l’ultima parte si apre agli sviluppi della clinica e della ricerca.

Il testo è stato scritto a più mani, e ogni capitolo può essere letto come un contributo autonomo all’interno di un’impostazione unitaria e organica. Gli autori hanno maturato una lunga esperienza sul tema.

L’obiettivo che si sono posti è quello di sviluppare un’attenzione scientifica sul disturbo e proporre il testo come un primo contributo di riferimento da cui partire per un’ampia riflessione.

Nel trarre le conclusioni, infatti, Mencacci e Migliarese sperano in una sempre maggiore partecipazione e coinvolgimento nelle esperienze innovative di trattamento legate alla sperimentazione di tecnologie bio-mediche e interventi psicologici personalizzati per permettere uno sviluppo rapido e coordinato della ricerca scientifica e della pratica clinica.

Il volume ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento tratta in modo accurato il disturbo con un’impostazione biologica, psicologica e sociale. Rappresenta un’ottima lettura per chi tratta l’ADHD sia in età evolutiva, sia nell’adulto nei servizi pubblici o in regime di libera professione.

Cognizione ed emozioni nell’invecchiamento

Si parla spesso di “paradosso dell’invecchiamento” intendendo quel fenomeno per cui, nonostante all’aumentare dell’età ci sia un deterioramento a livello fisico e cognitivo, la capacità di controllare l’esperienza e l’espressione delle emozioni funziona efficacemente e può addirittura migliorare.

 

L’avanzare dell’età porta con sé una serie di cambiamenti a livello fisico-sensoriale, cognitivo, sociale ed emotivo-motivazionale oltre che una forte eterogeneità: non tutti gli anziani sono uguali, ma vi è una notevole variabilità intra e interindividuale determinata dalle esperienze di vita, dalle opportunità educative avute, dal contesto familiare, dal tipo di lavoro svolto (De Beni & Borella, 2015). L’invecchiamento è, dunque, un fenomeno multidimensionale e multidirezionale in quanto le varie dimensioni che caratterizzano l’individuo seguono traiettorie differenti.

La risposta dell’anziano sano alla diminuzione dei propri ambiti di efficacia, spiegata dalle normali perdite fisiologiche e sensoriali dettate dall’età, è delineata dal modello SOC (Baltes & Baltes, 1990) secondo cui l’individuo è in grado di mantenere un adeguato livello di funzionamento per mezzo di tre processi: la selezione, l’ottimizzazione e la compensazione. Tramite la selezione restringe il proprio campo d’azione individuando degli obiettivi prioritari, per mezzo dell’ottimizzazione investe le proprie energie e adopera le risorse disponibili per raggiungere gli obiettivi prefissati e infine tramite la compensazione mette in atto strategie volte ad arginare i deficit.

Cambiamenti cognitivi

Per quanto riguarda i meccanismi cognitivi di base, l’età sembra avere un effetto diretto sulla memoria di lavoro o mediato da inibizione e velocità di elaborazione (Birren, 1959; Borella et al., 2008). È stato dimostrato, per esempio, che gli anziani hanno maggiore difficoltà a sopprimere informazioni e item attivati precedentemente ma che nel compito attuale non sono rilevanti, portando a una saturazione della memoria di lavoro (Hasher & Zacks, 1988).

Anche l’intelligenza subisce dei cambiamenti e in questo contesto è necessario far riferimento al modello bifattoriale dell’intelligenza di Horn e Cattell (1966), che distingue l’intelligenza fluida da quella cristallizzata. La prima, determinata biologicamente, è legata alla comprensione di nuovi dati, all’adattamento a nuove situazioni e problemi; la seconda, strettamente influenzate dalla cultura, è legata all’esperienza e alle conoscenze e capacità acquisite con essa. Questi due tipi di intelligenza nell’arco di vita seguono traiettorie ben distinte: la cristallizzata, misurata di solito con prove di vocabolario, rimane stabile con l’età, mentre la fluida, misurata con prove di ragionamento, tende a declinare.

Per quanto riguarda le prestazioni mnestiche, gli effetti legati all’età non sono uniformi ma alcuni sistemi di memoria ne risentono più di altri (De Beni & Borella, 2015). I sistemi più compromessi risultano essere la memoria di lavoro, la memoria prospettica, la memoria a breve termine visuo-spaziale e la rievocazione episodica (in quanto richiede un accesso consapevole o controllato alle informazioni), mentre la memoria a lungo termine, esplicita e implicita, risulta preservata. Bopp e Verhaeghen (2005) in una meta-analisi hanno evidenziato che le differenze tra giovani e anziani sono più accentuate in prove di memoria di lavoro rispetto a prove di memoria a breve termine poiché queste ultime richiedono, rispetto alle prime, il solo mantenimento passivo delle informazioni.

Questi cambiamenti possono essere spiegati a livello anatomico da una riduzione progressiva del volume cerebrale, un assottigliamento delle circonvoluzioni e allargamento dei solchi e ventricoli (De Beni & Borella, 2015). L’atrofia risulta essere specialmente a carico della corteccia prefrontale e parietale e dell’ippocampo, spiegando così i cambiamenti cognitivi, specie attentivi e mnesici (Raz, 2000). A ciò si aggiungono cambiamenti nelle strutture dendritiche, nella mielinizzazione delle fibre nervose e nella sintesi, produzione e ricaptazione di vari neurotrasmettitori, in particolar modo nelle vie dopaminergiche frontostriatali, la cui minore densità spiegherebbe nell’anziano l’aumento dei tempi di reazione.

Infine, bisogna considerare anche il ruolo della metamemoria, ovvero della metacognizione relativa alla memoria. Gli anziani sembrano, infatti, avere concezioni fatalistiche della dimenticanza e pessimismo verso le proprie capacità mnestiche (De Beni & Borella, 2015).

Le emozioni nell’invecchiamento

Riguardo alle emozioni, si parla spesso di “paradosso dell’invecchiamento” intendendo quel fenomeno per cui, nonostante all’aumentare dell’età ci sia un deterioramento a livello fisico e cognitivo, la capacità di controllare l’esperienza e l’espressione delle emozioni funziona efficacemente e può addirittura migliorare (Charles & Carstensen, 2003). A questo consegue il cosiddetto “effetto positività”, secondo cui gli anziani avrebbero la tendenza a prediligere ricordi positivi ai fini del loro benessere o a rielaborare vicende negative del passato in chiave positiva.

Tra i vari approcci teorici che trattano l’elaborazione emotiva nell’invecchiamento di particolare importanza è la teoria della Selettività Socioemotiva (Carstensen et al., 2003) secondo cui all’aumentare dell’età si riscontra una maggiore selettività nelle scelte e nelle relazioni sociali finalizzata alla soddisfazione emotiva. Secondo Carstensen e colleghi, con l’invecchiamento il tempo davanti a sé viene percepito come limitato per cui le proprie azioni sono guidate principalmente da obiettivi emotivi, volti a raggiungere la soddisfazione emotiva attraverso una regolazione della rete sociale incentrata su pochi contatti ma sicuri e familiari. Una serie di studi ha infatti dimostrato che giovani e anziani prediligono esperienze emotive diverse: i giovani mostrano una maggiore attenzione verso gli aspetti negativi di un evento (Baumeister et al., 2001) mentre gli anziani dimostrano maggior interesse per quelli positivi (Mather & Carstensen, 2005).

Cognizione ed emozione

Gli effetti della regolazione emotiva sugli anziani possono essere riscontrati anche in compiti cognitivi di tipo verbale. Un esempio è lo studio di Mammarella e colleghi (2013) che ha indagato le differenze di età tra giovani (20-33 anni), giovani-anziani (60-73 anni) e anziani-anziani (75-85 anni) in una versione affettiva del classico Working Memory Operation Span Test. Esso includeva parole neutre, negative e positive e i risultati hanno mostrato che le parole emotive possono compensare il declino correlato all’età quando è richiesta la memoria di lavoro. Infatti, in linea con gli studi precedenti, i giovani hanno avuto in generale una performance più elevata rispetto agli anziani (ad esempio, Borella et al., 2008), inoltre hanno mostrato un pregiudizio di negatività, ricordando più parole negative che positive. Il risultato più interessante è stato che tutti i partecipanti anziani hanno mostrato un pregiudizio di positività rispetto al gruppo più giovane in quanto hanno richiamato un maggior numero di parole positive rispetto alle neutre. Si è quindi concluso che stimoli emotivi possono influenzare le differenze legate all’età in un compito classico di memoria di lavoro.

Gli anziani presentano un effetto positività anche in altri compiti cognitivi di richiamo e riconoscimento di stimoli. In uno studio (Charles, Mather & Carstensen, 2003) giovani e anziani sono stati confrontati, dopo un compito di distrazione, sul richiamo del maggior numero possibile di stimoli visti in precedenza, distinguendoli da un insieme di nuovi e vecchi stimoli. Gli stimoli in questione erano immagini al computer positive, negative e neutre: il numero di immagini negative richiamate e riconosciute era diminuito rispetto alle neutre e positive con l’aumentare dell’età. Tali risultati sono quindi coerenti con la teoria della selettività socio-emotiva secondo cui ci sarebbe un maggiore investimento nella regolazione emotiva con l’aumentare degli anni.

Dunque, con l’invecchiamento si assiste a un normale declino fisico e cognitivo, che coinvolge principalmente la memoria di lavoro, rendendo più difficoltose molte attività quotidiane. Al contrario, la regolazione emotiva funziona efficacemente e può addirittura migliorare con l’età. Gli effetti del paradosso dell’invecchiamento sono riscontrabili anche in compiti cognitivi, come dimostrato dalla letteratura.

 

L’ acne in età adulta: un problema medico (ma non solo)

A tutti sarà certamente capitato, davanti allo specchio, di scorgere sul proprio volto una macchiolina rossa, sporgente. Che un’imperfezione (detta volgarmente “brufolo”) appaia, di tanto in tanto, è normale. Tuttavia, quando questa impurità si fa più diffusa, ci possiamo trovare di fronte ad un vero e proprio problema di acne.

 

L’acne, scientificamente classificata con il nome di “acne vulgaris”, è una condizione infiammatoria cronica della pelle che colpisce l’unità pilosebacea, ovvero il complesso costituito dalla ghiandola produttrice di sebo e dal follicolo pilifero (affossamento dell’epidermide in cui risiede il pelo). Si tratta di un disturbo comune della pelle – contraddistinto da comedoni, papule, pustole, noduli e cicatrici (Zaenglein et al., 2016) – che può essere scatenato o peggiorato da fattori sia endogeni (predisposizione genetica, concentrazioni ormonali,…) che esogeni (alimentazione, fumo, stress, mascherina COVID-19,…). Riguarda in particolar modo gli adolescenti ma non risparmia nemmeno gli adulti.

Acne in età adulta

Per ragioni ancora in parte sconosciute, negli ultimi venti anni l’acne è aumentata di frequenza anche in età adulta, fase della vita in cui si osserva una maggiore prevalenza di casi nelle femmine piuttosto che nei maschi (Dréno, Bagatin, Blume-Peytavi, Rocha, & Gollnick, 2018) ed in cui tale malattia cronica assume caratteristiche differenti rispetto alla giovinezza (ad esempio, lesioni infiammatorie più pronunciate su mento, mascella e collo e più punti bianchi che neri) (Dréno et al., 2013).

L’acne in età adulta può persistere dall’adolescenza oppure può esordire per la prima volta verso i 20-25 anni, fascia di età a cui la letteratura tende a ricondurre la sua insorgenza nella fase post-adolescenziale (Preneau, & Dréno, 2012). Risulta essere caratterizzata da un andamento cronico con ricadute frequenti (Dréno, 2015) e da una gravità solitamente di tipo lieve-moderato (Dréno et al., 2013). Sebbene non tenda alla severità, essa pare provocare maggiore stress nelle donne adulte che in quelle giovani (Dréno, Bagatin, Blume-Peytavi, Rocha, & Gollnick, 2018).

In queste ultime, diverse ricerche hanno rilevato la presenza di: depressione, ansia sociale, pensieri suicidari (Golchai, Khani, Heidarzadeh, Eshkevari, Alizade, & Eftekhari, 2010; Halvorsen, Stern,  Dalgard, Thoresen, Bjertness, & Lien, 2011), imbarazzo, compromessa immagine di sé, bassa autostima, frustrazione e rabbia (Magin, Adams, Heading, Pond, & Smith, 2006).

Che l’acne abbia conseguenze non solo sul fisico ma anche sul piano sociopsicologico è ormai dimostrato: le persone con acne soffrono tanto quanto i pazienti affetti da malattie sistemiche (diabete, asma, artrite,…) (Zeichner, 2013) e mostrano spesso un decremento nella produttività e nella performance (lavorativa o scolastica) (Tan, 2004). In letteratura, tuttavia, scarseggiano gli studi relativi all’impatto psicosociale dell’acne in età adulta (Altunay et al., 2020).

Effetti dell’acne in età adulta

L’acne in femmine post-adolescenti, benché venga presa poco in considerazione, appare colpire sempre di più: i ricercatori che analizzano i dati epidemiologici hanno registrato un notevole incremento in donne a partire dai 26 anni (Rocha, Sanudo, & Bagatin, 2017). Essa sembra talvolta essere resistente al trattamento (Dréno et al., 2013) e pare avere un maggiore impatto negativo sulla qualità della vita nelle femmine post-adolescenti piuttosto che adolescenti (Dréno, 2015).

In una ricerca che ha esaminato l’acne in differenti gruppi di età, i punteggi totali relativi alla qualità di vita (Quality of Life, QoL) peggioravano più la malattia durava nel tempo (Tan et al., 2008). In un’altra compiuta su un campione di 38 donne dai 26 ai 44 anni con un’acne lieve-moderata i punteggi all’Acne-Quality of Life (AQOL), strumento psicometrico specifico per l’acne, risultavano bassi in tutti i domini (Rocha, Sanudo, & Bagatin, 2017).

Tali risultati sono in accordo con gli studi finora esistenti e dimostrano che le lesioni dell’acne provocano nella fase di vita adulta importanti conseguenze psicosociali, che sorprendentemente non appaiono sempre correlare con il grado di intensità del disturbo stesso.

In uno studio multicentrico che ha coinvolto 213 pazienti adulte colpite da un’acne non grave e 213 controlli (individui senza alcun problema di pelle) provenienti da 13 Paesi europei, si è visto che i punteggi ad una scala per l’ansia e per la depressione (The Hospital Anxiety and Depressione Scale, HADS) non si legavano con la gravità o con la durata del disturbo dermatologico bensì con il livello di preoccupazione circa la malattia (Altunay et al., 2020).

In linea con ciò, vari ricercatori (Niemeier,  Kupfer, Demmelbauer-Ebner, Stangier, Effendy, & Gieler, 1998; Uslu, Sendur, Uslu, Savk, Karaman, & Eskin, 2008; Welp, & Gieler, 1990; Yazici et al., 2004) hanno constatato che le problematiche mentali non si associavano alla severità oggettiva dell’acne.

Quanto menzionato può significare, da una parte, che gli effetti psicologici dell’acne appunto non correlano necessariamente con la severità della malattia; dall’altra che, piuttosto che la gravità, potrebbero essere i fattori individuali (ad esempio, disturbi di personalità, temperamento, percezioni dell’immagine corporea,…) ad influire sulla sfera psicologica dei pazienti adulti con l’acne.

Alcuni studi supportano quest’ultima ipotesi. Sarkar (Sarkar, Patra, Mridha, Ghosh, Mukhopadhyay, & Thakurta, 2016) ha trovato che i disturbi di personalità (in particolare, il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, il disturbo evitante ed il disturbo borderline) erano presenti nel 29.2% di un campione di 65 pazienti con l’acne e che i pazienti con un disturbo di personalità mostravano più sintomi di ansia e di depressione. Ozturk (Ozturk, Orhan, Ozer, Karakas, Oksuz, & Yetisir, 2013) ha scoperto che alcune tendenze temperamentali (come quella a preoccuparsi e ad essere pessimisti) risultavano più frequenti nelle persone con l’acne piuttosto che nei controlli tanto che hanno suggerito di includere nel trattamento per i pazienti affetti da tale condizione cronica un assessment mirato sul temperamento e sulla personalità. E ancora, Turan (Turan, Turan, & Özbağcıvan, 2020) ha visto che i pazienti del suo campione, affetti da acne, mostravano punteggi significativamente più elevati alla scala che misurava le difficoltà nella regolazione delle emozioni (Difficulties in Emotion Regulation Scale, DERS) rispetto a 100 controlli sani.

Quest’ultima indagine non è stata effettuata su un campione di soggetti adulti, bensì su 96 ragazzi con acne, aventi dai 12 ai 17 anni. Nonostante ciò, essa depone a favore dell’ipotesi sopra menzionata. Ossia che, più della gravità del disturbo dermatologico in oggetto, a costituire per i pazienti un “carico” dal punto di vista psicosociale siano altre variabili. Tra queste, potrebbe esserci il deficit nella regolazione delle emozioni.

Secondo la ricerca scientifica, le difficoltà nella regolazione emotiva, oltre a rappresentare uno degli aspetti chiave dei disturbi di personalità, contribuiscono allo sviluppo ed al mantenimento dei disturbi mentali (ansia, depressione, panico, fobia sociale, disturbo da stress post-traumatico…). Di conseguenza, diversi studi riportano come promettente target transdiagnostico di trattamento e di prevenzione la focalizzazione sulla promozione delle abilità di regolazione delle emozioni (Turan, Turan, & Özbağcıvan, 2020).

Le indagini citate indicanti un nesso tra l’acne e la difficoltà a regolare le emozioni e tra l’acne e svariate altre psicopatologie, benché necessitino di approfondimenti in campioni di adulti e di fare maggiore chiarezza a fronte di alcuni risultati riportanti una correlazione tra la gravità dell’acne e la depressione e tra la severità dell’acne e l’ansia (Layton, Seukeran, & Cunliffe, 1997; Lukaviciute, Navickas, Navickas, Grigaitiene, Ganceviciene, & Zouboulis, 2017), sottolineano l’importanza di considerare nel trattamento dell’acne la presenza di eventuali disturbi concomitanti e di trasmettere ai pazienti abilità efficaci di regolazione delle emozioni.

Ignorare il link tra l’acne ed eventuali sintomi psicologici così come trascurare una possibile componente psichiatrica sottostante potrebbe infatti esitare proprio in una peggiore qualità di vita ed in sintomi di ansia e di depressione.

Questi ultimi, nel recente studio di Cengiz (Cengiz, & Gurel, 2020), risultavano associarsi positivamente con i punteggi alla DERS-16. I pazienti con acne presentavano inoltre, a differenza dei controlli, maggiori difficoltà nella regolazione emotiva che, a sua volta, prediceva la qualità della vita più della severità dell’acne stessa (nessuna correlazione significativa sussisteva, infatti, tra la gravità dell’acne ed i punteggi alla DERS-16).

Implicazioni terapeutiche

Trattare donne adulte con l’acne comporta non solo la gestione medica dei sintomi, ma anche un approccio olistico e comprensivo, che preveda innanzitutto uno screening psichiatrico così da fornire ai pazienti con una comorbilità psichiatrica ed una difficoltà a regolare le proprie emozioni appropriati medicamenti ed efficaci strategie psicoterapeutiche. Tra queste, le tecniche di rilassamento e di gestione dello stress potrebbero ottimizzare il trattamento della malattia del follicolo pilo-sebaceo.

 

L’aborto come scelta individuale e di coppia – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Nel dodicesimo episodio della serie tv Workin’ Moms, Anne, una delle protagoniste, decide di abortire quello che sarebbe stato il terzo figlio, la cui gravidanza era completamente inaspettata.

Moms – (Nr.13) L’aborto come scelta individuale e di coppia

 

 Interrompere una gravidanza non è una scelta facile. Richiede un tempo di elaborazione, che forse non si può condensare in tre mesi, ma che è tutto quello che una donna ha. La coppia e la rete sociale possono essere dimensioni di supporto per chi che si trova davanti a questa decisione così intima, soggettiva e delicata.

Nel maggio del 1978 è stata legalizzata in Italia la possibilità di ricorrere all’aborto fino al termine del terzo mese di gravidanza e del quinto per motivazioni di natura terapeutica. Da quel momento ogni donna italiana ha avuto la facoltà di scegliere della propria vita e di quella di suo figlio, senza doversi appellare a pratiche illegali e rischiose per la propria salute. Nonostante questo, la scelta di abortire resta una decisione emotivamente complessa.

Nel dodicesimo episodio della serie tv Workin’ Moms, Anne, una delle protagoniste, decide di abortire quello che sarebbe stato il terzo figlio, la cui gravidanza era completamente inaspettata. È interessante notare come la creatrice del telefilm Catherine Reitman si soffermi per diverse puntate sulla scelta prima di Anne e poi della coppia di cui fa parte.

Il processo che porta a preferire una strada anziché un’altra richiede un tempo di elaborazione che permetta un incontro tra sentire e pensare. Si basa su una valutazione interna dei vissuti intimi individuali e, nei casi in cui è presente, di quelli del partner.

Come si evince in alcuni episodi che precedono il dodicesimo, Anne in un primo momento resta sconvolta nell’appurare di essere nuovamente incinta dopo pochi mesi dall’ultimo parto, ma nonostante questo non prende subito in considerazione l’idea di abortire. Solo nel tempo, dopo essere stata costretta a rimanere ferma in seguito a delle perdite e prevedendo di trovarsi in difficoltà lavorativa, economica ed organizzativa rispetto alle due figlie inizia a prendere in considerazione l’idea.

La prima persona che Anne vuole avere accanto è la migliore amica Kate, da cui si fa accompagnare in un poliambulatorio. Una volta arrivata lì, scopre che alcune scelte è meglio non attuarle impulsivamente, per darsi la possibilità di digerirle. Kate è lì perchè incarna l’amica che non giudica, ma resta accanto nel pieno rispetto dell’altro.

Tornata dal poliambulatorio, Anne, racconta al marito Lionel dubbi, vissuti e perplessità, dividendo con lui il peso della decisione e dandogli lo spazio di cui ha bisogno per elaborarla. All’interno di una coppia funzionale alcune scelte vengono prese di comune accordo e/o le ragioni di un’eventuale scelta vengono comunicate prima di attuarla.

Le gravidanze possono essere indesiderate per motivazioni soggettive e ogni coppia, così i rispettivi individui al suo interno, ha il diritto di scegliere cosa sia meglio per se stessa, per il figlio che dovrebbe nascere ed eventualmente per quelli già nati. Il feto potrebbe essere un bambino con una madre e/o un padre che emotivamente, economicamente o per altri fattori non riescono ad adempiere al ruolo richiesto loro. Tre mesi rappresentano il giusto compromesso tra psiche e biologia, il tempo necessario dunque, anche se a volte non sufficiente, per vagliare e digerire le diverse opzioni.

L’aborto in alcuni casi è ancora un tabù, anche in alcune culture dove legalmente è permesso, e la negazione imposta può portare a gravi conseguenze psicologiche e fisiche per genitori e figli.

Workin’ Moms dona una possibilità di andare a fondo rispetto ad un argomento difficile e ad una scelta estremamente intima, non giudicabile, non trovandosi nei panni di chi la compie, e che necessita di tempo e di ascolto di sé e dell’altro.

Il ruolo della rete sociale e della dimensione di coppia vengono evidenziate laddove rappresentano una risorsa per una donna che si trova davanti ad una delle decisioni più difficili nella vita per sé e per l’essere umano di cui è inevitabilmente responsabile. Una madre sa cosa è meglio per sé e per il suo bambino, rispetto alle risorse che ha, anche se a volte vuol dire non vederlo venire al mondo.

Anne e Lionel appaiono come una coppia matura poiché davanti ad una decisione difficile scelgono di far leva sull’ascolto di se stessi e del partner, stringendosi la mano davanti all’incontro col vuoto dell’addio.

 

I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto (2021) di Eugenio Borgna – Recensione del libro

La relazione che cura. Nel libro I grandi pensieri vengono dal cuore Eugenio Borgna parla dello spirito che dovrebbe stimolare l’animo di psichiatri e psicologi, affinché si eserciti una scienza che sia naturale ma soprattutto umana.

 

Eugenio Borgna scrive dell’importanza della relazione, dell’ascolto e della capacità di immedesimazione, ingredienti indispensabili a lenire le sofferenze dell’uomo.

Nel libro I grandi pensieri vengono dal cuore Eugenio Borgna accompagna il lettore alla scoperta dei pilastri della psichiatria, intesa non solo come scienza medica, ma anche e soprattutto come scienza dell’uomo, disciplina dell’anima e dell’interiorità. Borgna si rivolge ai giovani e ai meno giovani, nell’intento di educare a una psichiatria ‘gentile’, nella quale risuonano le fondamenta umane, ancor prima di quelle farmacologiche e biologiche. Difatti, non è solo somministrando farmaci che si possono lenire le sofferenze. Il processo di cura deve passare attraverso relazione, dialogo, capacità di ascolto e di immedesimazione. È così che nelle pagine di quest’opera i tecnicismi lasciano spazio ad immagini, metafore e intrecci poetici. Il cuore diventa simbolo di una psichiatria portatrice di cura, capace di restituire dignità all’animo ferito. È solamente affacciandosi alla propria interiorità, aprendosi all’ascolto delle emozioni e delle intuizioni provenienti dal cuore, che lo psichiatra può dare significato alla vita degli altri. In quest’ottica la conoscenza intuitiva, così diversa da quella razionale, è portatrice di verità. “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non intende”, scriveva Pascal.

Borgna ci parla di come all’interno della relazione terapeutica non si possa non dare importanza alle parole, poiché è attraverso il dialogo, la comunicazione, che passa la cura. E allora come scegliere quelle giuste? Se la parola può essere curativa, parole sbagliate possono fare danni, scavando in ferite profonde che sanguinano. Il professionista della salute mentale dovrebbe armarsi di sensibilità e attenzione, selezionando di volta in volta parole prudenti, caute e gentili. Non esistono manuali che insegnano quest’arte, che non ha nulla a che fare con gli anni di studio e i titoli conseguiti. Quella della cura è una dote che certamente può essere allenata, ma affonda le sue radici in attitudini personali e in esperienze di vita. A tal proposito, Emily Dickinson scrive che non ci si può avvicinare a un cuore spezzato se non abbiamo sofferto. Borgna parla poi del pericolo delle troppe parole che, nella loro ridondanza, perdono di efficacia comunicativa, svuotandosi di significato. All’opposto, il silenzio può essere curativo. Tipicamente l’assenza di dialogo spaventa, spingendoci a colmare quel vuoto che solo all’apparenza ci separa dal nostro interlocutore. Nulla di più sbagliato, perché anche nel silenzio può esserci comunicazione. Gli sforzi dovrebbero essere piuttosto indirizzati a cogliere i significati che si celano dietro a timidi sguardi, pause e non detti, cadenzandone il ritmo. Si può essere molto vicini a un paziente che abbiamo in cura rimanendo in silenzio con lui, così come si può essere molto lontani scegliendo parole sbagliate. E’ un complesso gioco di equilibri in cui si avrà accesso alle verità di chi si affida alle nostre cure solo se avremo il coraggio di andare oltre all’interpretazione di comportamenti manifesti lasciandoci guidare dalle intuizioni. In questa altalena il tema del confine diventa fondamentale. Il professionista deve essere in grado di porsi alla giusta distanza dal suo paziente, creando legami che non invadano, ma che al contempo siano base sicura per costruire la relazione terapeutica.

Molti sono gli spunti di riflessione portati da Eugenio Borgna, che è stato capace di trattare tematiche di straordinario rilievo per chiunque si approcci alla psichiatria ricorrendo a parole semplici, di uso comune, senza impoverirne il significato. In ogni pagina traspare la passione di Borgna per la sua professione, un entusiasmo che l’autore spera possa essere contagioso per le nuove generazioni, a cui si rivolge con una tenera speranza. Il carattere del testo è tutt’altro che impersonale: il lettore divorerà le pagine in cui Eugenio Borgna ci permette di fare conoscenza di alcuni pazienti avuti in cura durante gli anni di lavoro nel manicomio di Novara.

I grandi pensieri vengono dal cuore si rivolge a tutti quei coraggiosi capaci di superare i tecnicismi che si ritrovano nei comuni manuali di scienza, la cui conoscenza è certamente necessaria ma non sufficiente ad esercitare una psichiatria che sia davvero al servizio delle persone che chiedono aiuto.

 

Incubi, terrori notturni, sonnambulismo… Quali trattamenti utilizzare per gestire le parasonnie?

Le parasonnie sono comportamenti anormali che si verificano durante il sonno. Si ritiene che i meccanismi neurobiologici alla base delle patologie siano da ricondurre ad una dissociazione tra veglia e sonno con comportamenti caratteristici di uno stato che succedono all’altro 

 

Possono essere associate a qualità del sonno compromessa, disfunzioni diurne e, occasionalmente, a comportamenti notturni violenti e dannosi. Esse sono solitamente classificate in base alla fase del sonno durante la quale si verificano, distinguendosi tra disturbi nella fase REM (ing. Rapid Eye Movements, Rapidi Movimenti Oculari), e in fase NREM (Non REM).

Le parasonnie NREM includono sonnambulismo, terrori notturni, risvegli confusionali, enuresi notturna e disturbi alimentari legati al sonno, mentre le parasonnie REM comprendono disturbo da incubi, disturbo del comportamento del sonno REM e paralisi del sonno isolata (APA, 2013).

Si ritiene che i meccanismi neurobiologici alla base delle patologie siano da ricondurre ad una dissociazione tra veglia e sonno con comportamenti caratteristici di uno stato che succedono all’altro (Ntafouli et al., 2020). Il funzionamento diurno degli individui con parasonnie è spesso compromesso: nella sintomatologia rientrano affaticamento, sonnolenza e sintomi neuropsichiatrici come ansia, depressione, sintomi ossessivi compulsivi, disturbi fobici e deficit cognitivi. Nei casi in cui i comportamenti notturni siano violenti e pervasivi, è consigliabile intervenire con delle terapie per limitarne la sintomatologia. Secondo recenti studi, le psicoterapie CBT (ing. Cognitive-Behavioral Therapy, terapie cognitivo-comportamentali) sono risultate davvero benefiche per le parasonnie, in quanto incentrate sulla riduzione dei classici fattori scatenanti come stress e ansia. In seguito, sono riportate le evidenze tratte dalla recente revisione di Ntafouli e colleghi sull’argomento, che racchiude brevi descrizioni di ogni disturbo del sonno e tecniche comportamentali (o CBT) risultate più efficaci per ciascuna tipologia di parasonnia (Ntafouli et al., 2020).

Parasonnie NREM:

Sonnambulismo:

È l’insieme di comportamenti che hanno solitamente inizio con un’attivazione durante il sonno e che culminano nel camminare in uno stato alterato di coscienza con una compromessa capacità di giudizio. Si verifica prevalentemente durante il primo terzo della notte.

Le strategie di gestione standard per questo tipo di disturbo includono:

  • risveglio programmato, consistente in un risveglio del soggetto circa 15-30 minuti prima dell’episodio previsto;
  • introduzione di misure di sicurezza, consistenti nella rimozione di oggetti potenzialmente pericolosi e taglienti dalla stanza, la chiusura delle finestre e la protezione dalle cadute;
  • rassicurazione dell’individuo colpito;
  • educazione all’igiene del sonno;
  • intervento CBT affiancato ad un protocollo di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) per la gestione dello stress.

Terrori notturni:

I terrori del sonno si verificano principalmente nella prima parte della notte e hanno durata compresa tra 30 secondi e 5 minuti. Durante l’episodio, l’individuo è solitamente amnesico e si sente confuso e stressato. Esiste un’associazione tra i terrori del sonno e i disturbi psichiatrici, infatti i soggetti colpiti tendono spesso a manifestare sintomi di ansia e depressione.

Tra le tecniche segnalate da recenti studi emergono:

  • creazione di un ambiente di sonno sicuro;
  • risveglio programmato;
  • rassicurazione dell’individuo colpito;
  • psicoterapie CBT e MBSR.

Risvegli Confusionali:

Essi sono caratterizzati da confusione mentale e insensibilità all’ambiente, che si verificano dal primo terzo fino alla prima metà del periodo di sonno. Tipicamente sono eventi brevi che, oltre alla confusione, possono includere disorientamento e sonnambulismo.

Trattamenti:

  • miglioramento dello stato dell’ambiente in cui si dorme;
  • misure di sicurezza all’interno della stanza;
  • massimizzazione della stabilità del sonno e dell’igiene del sonno.

Enuresi Notturna:

Questa parasonnia consiste in un rilascio involontario di urina durante il sonno notturno. La fisiopatologia potrebbe essere legata a tre fattori causali principali: eccessiva produzione di urina, iperattività vescicale e mancato risveglio in risposta alle sensazioni della vescica.

Tra i trattamenti comportamentali risultati efficaci per questa problematica spiccano:

  • ricompensa per le notti asciutte;
  • addestramento della vescica al controllo e alla ritenzione dei liquidi;
  • per il bambini, il lifting, procedimento in cui il caregiver solleva il bambino dal letto mentre dorme e lo accompagna in bagno, senza necessariamente svegliarlo.

Tra gli interventi più complessi, troviamo:

  • CBT per il trattamento di problematiche psicologiche correlate;
  • terapia dell’allarme per enuresi, che consiste in un sistema di allarme attivato dalla minzione che si concentra sul potenziamento dell’attivazione in risposta alla sensazione di vescica piena.

Disturbi alimentari legati al sonno:

Questi disturbi sono definiti dal parziale risveglio dal sonno per la consumazione di cibo. Si verificano solitamente entro le prime 3 ore dall’addormentamento, e gli episodi sono caratterizzati da una rapida ingestione di cibo, spesso molto calorico.

Dati recenti suggeriscono che un tipo di terapia risulta essere promettente:

  • la fototerapia, tecnica basata sull’utilizzo di lampade per esporre il soggetto ad una forte fonte luminosa in grado di contrastare la sintomatologia regolando i ritmi circadiani.

Parasonnie REM:

Disturbo da incubi:

Consiste nella ripetizione di vividi sogni spaventosi che portano al risveglio.

Tra i trattamenti psicologici suggeriti, troviamo:

  • Image Rehearsal Therapy, che mira a trasformare l’incubo in uno scenario positivo;
  • Exposure Relaxation and Rescripting Therapy, che si rivolge agli aspetti fisiologici, emotivi, comportamentali e cognitivi legati agli incubi;
  • terapia di auto-esposizione, che aiuta il paziente ad affrontare eventi stressanti con un’esposizione graduale ad essi;
  • trattamento del sogno lucido, che insegna a diventare lucidi nell’incubo attraverso specifici esercizi svolti durante il giorno;
  • EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing), che comporta una stimolazione sensoriale bilaterale durante l’elaborazione dell’evento traumatico, in questo caso, l’incubo.

Disturbo del comportamento del sonno REM:

Questo disturbo è caratterizzato da comportamenti anomali che si verificano durante il sonno accompagnati da sogni vividi e spesso spaventosi. I trattamenti concentrano il focus su:

  • limitazione della privazione di sonno;
  • cura di insonnia e disturbi respiratori nel sonno;
  • misure di sicurezza nell’ambiente del riposo.

Paralisi del sonno isolata:

Si verifica quando l’immobilità corporea della fase REM persevera nella veglia, generando incapacità di muoversi o parlare; è spesso accompagnata da inquietanti allucinazioni. Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di questa parasonnia, rientrano insonnia, stress, ansia, traumi e disturbi psichiatrici. Per il trattamento sono suggerite:

  • tecniche CBT incentrate sull’attenzione focalizzata;
  • rilassamento muscolare;
  • cambiamento della posizione e della durata del sonno.

In conclusione, la review del team di Ntafouli ha raccolto le principali tecniche di trattamento delle parasonnie, ma è auspicabile una maggiore ricerca sull’argomento per delineare nuove e specifiche terapie da utilizzare per questi particolari disturbi.

 

 

Le parole per raccontare ai bambini la salute mentale – I progetti dell’Associazione Contatto

Come raccontare ai bambini le problematiche di salute mentale dei genitori?

 

Come sostenerli nella comprensione dei momenti difficili della malattia, del percorso terapeutico e riabilitativo? Come promuovere il benessere dei bambini e dei loro genitori attraverso un intervento di narrazione?

L’Associazione Contatto per la promozione delle Reti Sociali Naturali tenta di dare una risposta concreta al mondo dell’infanzia che vive queste situazioni attraverso la proposta di un intervento di narrazione progettato ad hoc per spiegare ai bambini il problema del disagio psichiatrico e per sostenerli nei momenti complessi della malattia.

L’Associazione Contatto è impegnata sin dal 2004 in questo settore, promuove e favorisce percorsi di inclusione sociale e miglioramento della qualità della vita di persone affette da un disturbo psichico.

Nell’ambito di questa area di intervento ha realizzato il primo progetto italiano di prevenzione e promozione del benessere per i figli di genitori che vivono una situazione di malessere psichico.

La proposta si articola nella realizzazione di percorsi psico-educativi rivolti a genitori e figli tra cui la progettazione e lettura accompagnata di racconti creati con l’obiettivo di “offrire le parole” ai genitori e operatori per raccontare i problemi di salute mentale ai bambini e per favorire la comprensione della loro storia famigliare e delle difficoltà quotidiane vissute.

L’ipotesi del progetto individua nel sostegno informativo alla famiglia e ai bambini lo strumento per favorire la comprensione dei comportamenti di malessere e la gestione dei vissuti e delle emozioni che vivono nella loro quotidianità, proteggendoli dal disorientamento collegato al vuoto informativo, alle false credenze e, anche, alle emozioni provate verso se stessi e i genitori con particolare riferimento alla tristezza, al senso di colpa e alla paura.

All’interno di questo progetto sono stati scritti quattro racconti finalizzati a descrivere la storia famigliare o personale di quattro personaggi che vivono esperienze di malessere psichiatrico: Agata il Castoro, la mamma che pensava di essere un uccellino; Ottavio il Polpo, che non riusciva a smettere di mettere in ordine e classificare; Gerry il Camaleonte, che era così triste da non riuscire neanche a mangiare e proteggersi; Pino il  Pavoncino, che cambiava il colore della coda quando era molto arrabbiato o molto felice, forse troppo!

Le autrici in questo modo introducono il bambino nel tema della salute mentale descrivendo con parole e immagini suggestive e fantasiose il comportamento della persona che vive un disagio psichico: in particolare attraverso l’animazione di personaggi fantastici raccontano cosa può osservare un bambino che vive con un adulto che soffre di un malessere psichiatrico o cosa può vivere nelle dinamiche famigliari quotidiane, avvicinandosi con delicatezza ai temi della trascuratezza e del rischio del maltrattamento.

Ogni storia parte dalla descrizione del cambiamento del comportamento del protagonista (Agata, Ottavio, Gerry, Pino), per arrivare alla descrizione del disturbo e alla narrazione del percorso di riabilitazione soffermandosi sull’importanza della rete sociale di supporto e del percorso di cura.

Le splendide illustrazioni che accompagnano il testo sono uno strumento per aiutare il bambino a entrare nel racconto e confrontarsi con i vissuti dei diversi personaggi, ma anche con le soluzioni realizzate dai partner e della rete sociale per affrontare e gestire i momenti di difficoltà e crisi.

La rete di supporto alla famiglia e il percorso di cura sono descritti con parole e metafore suggestive che  catturano la fantasia dei bambini come la Psicanatra o il dott. Morsiconi esperto di “animali strani e originali” o gli amici che sostengono  e tutelano nel momento della sofferenza come Bollicina per il polpo Ottavio, Walter la cavalletta per Gerry il camaleonte.

Ogni storia termina con un messaggio di fiducia e speranza: è possibile gestire il problema grazie al sostegno sociale (Bollicina e Walter), al supporto psicologico (Psicanatra e il dott. Morsiconi) o, a volte, a un periodo in ospedale (Agata il Castoro) e a una gestione diligente delle cure farmacologiche.

Quattro storie per capire il malessere psichiatrico e per “dare le parole ai bambini” per parlare e confrontarsi  sui comportamenti e sulle emozioni della depressione, del disturbo compulsivo-ossessivo e in generale della salute mentale sia di chi li vive, sia di chi li osserva e ci convive.

Un progetto che lavora sulla potenza emotiva e cognitiva della narrazione e sul suo ruolo nei processi di prevenzione e di promozione del benessere delle famiglie e dei bambini che vivono queste particolari situazioni sociali.

Per ulteriori informazioni sul progetto e sulle risorse per affrontare questa tematica è possibile accedere al portale My Blue Box e reti sociali naturali.

 

Sindrome della capanna e Covid-19

La Sindrome della capanna, chiamata anche Sindrome del prigioniero, non è attualmente inserita nei principali sistemi nosografici usati in ambito psicologico e psichiatrico anche se, in tempi recenti, si è trasformata in un argomento di notevole interesse per la comunità scientifica, rivelandosi un’innovativa prospettiva di ricerca per il futuro.

 

La diffusione del Coronavirus, che nel 2020 ha prodotto una pandemia a livello globale, ha reso necessaria l’adozione di drastiche misure restrittive da parte di molti dei paesi coinvolti nel tentativo di tutelare il più possibile la salute dei cittadini e mantenere sotto controllo l’espansione di COVID-19. La popolazione ha vissuto l’esperienza di uno o più lockdown, che hanno dato origine ad una forma di isolamento “protettivo”, durante il quale le occasioni per uscire fuori dalla propria abitazione sono state limitate a favore di un aumento del tempo trascorso tra le mura di casa. Durante questo periodo di confinamento, che è durato anche svariate settimane a seconda dei casi e dei contesti, sono cambiati numerosi aspetti della nostra vita: abitudini, modalità di lavoro, didattica scolastica e universitaria e approcci relazionali. Ma cosa è accaduto quando, terminata la fase di lockdown, è stato possibile riprendere nuovamente contatto con l’esterno? Molti studiosi hanno introdotto il concetto di Sindrome della capanna.

Sindrome della capanna: che cos’è e come si manifesta?

La Sindrome della capanna, chiamata anche Sindrome del prigioniero, non è attualmente inserita nei principali sistemi nosografici usati in ambito psicologico e psichiatrico a causa della scarsità di significativi studi al momento presenti in letteratura, anche se, in tempi recenti, si è trasformata in un argomento di notevole interesse per la comunità scientifica, rivelandosi un’innovativa prospettiva di ricerca per il futuro.

La Sindrome della capanna si configura come uno stato di malessere

che si presenterebbe quando, a seguito di un protratto periodo di distacco dalla realtà, arriva il momento di riprendere contatto con il mondo esterno,

è una condizione di disagio che si può manifestare

all’idea di uscire nuovamente di casa dopo un periodo protratto di isolamento e distanziamento sociale. (Giunti Psychometrics, 2020)

I principali sintomi tipici della Sindrome della capanna (Senese, 2020) sono:

  • ansia
  • irritabilità
  • tristezza e angoscia
  • difficoltà di concentrazione
  • mancanza di energia e motivazione
  • sentimento di non appartenenza alla società
  • letargia

Si tratta di una condizione tendenzialmente temporanea che però, qualora si protragga per un periodo di tempo prolungato (oltre 3 settimane), può sfociare in patologie maggiormente gravi, quali depressione, attacchi di panico e disturbi di adattamento (Giunti Psychometrics, 2020).

Sindrome della capanna e COVID-19: qual è il collegamento?

I periodi di auto-quarantena cui la popolazione è stata sottoposta nei mesi precedenti (fase 1), nonché l’invito alla stessa ad uscire il meno possibile al fine di limitare la diffusione del Coronavirus, hanno contribuito ad aumentare nella gente la percezione della propria casa come garanzia di sicurezza e tranquillità. L’abitazione,

con le sue superfici disinfettate, è diventata un rifugio, un involucro protettivo dall’incertezza e dal pericolo del mondo esterno e dall’invisibile minaccia del virus. (Giunti Psychometrics, 2020)

Questa nuova quotidianità vissuta tra le mura domestiche si è cristallizzata di settimana in settimana come “normalità”. Così, quando, agli inizi della fase 2, i cittadini sono stati incoraggiati a riprendere le proprie precedenti consuetudini nel mondo esterno, sia pur nel rispetto delle norme di sicurezza anti-contagio, uscire da quella che era diventata una zona di comfort, per adattarsi ad una nuova routine, si è rivelato per alcuni fonte di disagio e disorientamento, corrispondente all’insorgenza della Sindrome della capanna. Nello specifico gli esperti ritengono che alla base di questa condizione vi sia una paura da parte delle persone di non riuscire o non volere affrontare questa convivenza forzata e stressante con il COVID-19 (Giunti Psychometrics, 2020).

Sindrome della capanna, Cabin fever e Agorafobia a confronto.

La Sindrome della capanna non è sinonimo di Cabin Fever, la quale è una condizione psicologica che ha caratterizzato maggiormente le prime settimane di lockdown e che rappresenta una reazione ad un isolamento o ad un confinamento che si protraggono per un periodo di tempo esteso (Fritscher, 2020). I principali sintomi della Cabin fever includono (Lucattini, 2020):

  • ansia
  • irritabilità claustrofobica
  • mancanza di motivazione
  • letargia
  • tristezza e angoscia
  • senso di solitudine
  • riduzione della pazienza
  • noia
  • alterazione della fame e del sonno

La Cabin fever, pertanto, si configura come una forma di disagio che insorge allorché un soggetto vive una condizione di confinamento e desidera riprendere il contatto con l’esterno, mentre nel caso della Sindrome della capanna l’individuo manifesta malessere all’idea di uscire nuovamente di casa dopo un periodo di ritiro.

La Sindrome della capanna differisce anche dall’Agorafobia, la quale secondo il DSM-5 rientra tra i disturbi d’ansia e può manifestarsi nelle seguenti situazioni:

  • essere fuori da soli
  • essere fuori in mezzo alla folla
  • trovarsi in luoghi aperti ed ampi
  • trovarsi in luoghi chiusi di dimensioni limitate
  • utilizzare mezzi pubblici

Dunque, mentre la Sindrome della capanna ha a che fare con la paura della convivenza forzata col Coronavirus e delle sue conseguenze sulla salute, l’Agorafobia riguarda il timore di provare un malessere e di non riuscire ad ottenere assistenza (Giunti Psychometrics, 2020).

Sindrome della capanna: come uscirne?

È possibile mettere in atto una serie di strategie (Giunti Psychometrics, 2020) per affrontare e superare la Sindrome della capanna:

  • non chiudersi in se stessi ma relazionarsi con gli altri: condividere emozioni e pensieri e ricevere dei feedback riduce la tensione e ci fa sentire meno soli;
  • allenarsi quotidianamente al cambiamento: modificare anche semplici azioni quotidiane così da migliorare la flessibilità, la resilienza e la capacità di adattamento;
  • esporsi al mondo esterno in modo graduale: inizialmente uscire per effettuare delle semplici passeggiate all’aria aperta o delle commissioni in luoghi familiari, anche rimanendo vicino casa e/o lasciandosi accompagnare da persone fidate;
  • svolgere degli esercizi di respirazione per favorire il rilassamento psicofisiologico;
  • non rimuginare su ciò che sarà: il futuro rappresenta per tutti un’incognita, perciò è meglio focalizzarsi e agire sul presente;
  • non avere timore o vergogna nel chiedere aiuto ad uno specialista (psicologo, psichiatra, psicoterapeuta): non c’è nulla di male nel formulare una richiesta d’aiuto al fine di migliorare la propria qualità di vita.

Naturalmente la Sindrome della capanna può riguardare varie situazioni (es. lungo ricovero, catastrofe naturale, condizioni climatiche), tuttavia risulta evidente come essa trovi terreno particolarmente fertile in un periodo storico come quello che stiamo vivendo attualmente, in cui, a causa della pandemia di COVID-19, sono molto frequenti le fasi di isolamento. Ciò consente di ipotizzare che una percentuale di popolazione abbia sviluppato e potrebbe sviluppare un tipo di malessere come quello fino ad ora descritto. È pertanto importante che i professionisti della salute mentale come psicologi, psichiatri e psicoterapeuti siano pronti ad intervenire sul territorio a supporto di quelle persone che ne hanno più bisogno.

 

Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) e Autismo: implicazioni future

Il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) e il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) condividono molte caratteristiche, tra cui i gesti autolesivi e i comportamenti suicidari. Quale effetto ha la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) nel prevenire questo genere di condotte in pazienti con ASD?

 

Molte persone con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) sono trattate con cure specialistiche a lungo termine. In questa popolazione, il comportamento suicidario rappresenta il sintomo di più difficile trattamento (Hedley, 2018; Segers, 2014) poiché, al momento, non esiste una terapia efficace documentata.

La terapia dialettico-comportamentale (DBT) è un programma di trattamento efficace per i comportamenti cronicamente suicidari e/o autolesionistici in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD) (Linehan, 1993). Gli studi RCT hanno infatti dimostrato l’efficacia della DBT in particolare nella riduzione dell’uso di alcol e/o di sostanze, dei comportamenti autolesivi e/o dei tentativi di suicidio, estendendone il suo utilizzo anche nel trattamento della dipendenza da sostanze (Dimeff & Linehan, 2008), della depressione, del PTSD (Bohus et al, 2020) e dei disturbi alimentari (Klein et al. 2013; Safer et al. 2010; Chen et al., 2015).

Uno studio promettente in fase di raccolta dei dati (Huntjens et al. 2020) ha esteso l’utilizzo della DBT al trattamento dei comportamenti anticonservativi e autolesionistici che si riscontrano frequentemente nei disturbi dello spettro dell’autismo.

Il background su cui poggia tale studio è che l’ASD e il BPD condividono molte caratteristiche, ossia: problemi nella regolazione delle emozioni (Samson et al. 2014), importanti problemi nelle relazioni interpersonali, disturbi dell’identità, impulsività, comportamenti suicidari ricorrenti e/o autolesionismo, instabilità affettiva dovuta ad una marcata reattività dell’umore, sentimenti cronici di vuoto, rabbia intensa o inappropriata o difficoltà a controllare la rabbia, ideazione paranoide correlata allo stress e incapacità di inibire vari impulsi, comportamenti o desideri (Fitzgerald, 2005)

Lo studio RCT di Huntjens et al. (2020), valuterà in primo luogo l’efficacia della DBT nel ridurre i comportamenti suicidari e/o autolesionistici.  Successivamente studierà l’efficacia della DBT rispetto al trattamento TAU (Treatment As Usual) nella riduzione degli stati ansiosi, nel migliorare le prestazioni sociali, nel ridurre la depressione e migliorare la qualità della vita, oltre che la sua utilità in termini di rapporto costi/benefici.

Il campione sarà costituito da centoventotto persone con diagnosi di autismo e comportamento suicidario e/o autolesionistico in associazione, reclutate da servizi di salute mentale specializzati e assegnate a due condizioni: 1) la condizione sperimentale DBT in cui i partecipanti avranno sessioni settimanali di terapia cognitivo-comportamentale individuale e una sessione di skills training di gruppo due volte a settimana per 6 mesi e 2) la condizione di controllo caratterizzata da un trattamento usuale che consiste in sessioni di terapia individuale settimanale di 30-45 minuti.

I criteri di inclusione nel campione saranno: età compresa tra 18 e 65 anni; criteri DSM-5 soddisfatti per il disturbo dello spettro autistico; presenza di ideazione suicidaria (punteggio SIDAS ≥ 21); livello di suicidio e/o comportamento autolesionistico valutato come grave sulla LPC; trattamento ambulatoriale. Tra i criteri di esclusione troviamo: QI <80; dipendenza da sostanze illecite e necessità di disintossicazione clinica; padronanza insufficiente della lingua olandese.

Poiché non ci sono dati empirici per guidare i professionisti nella riduzione del rischio suicidario nelle persone con ASD, è importante determinare se la DBT sia un intervento efficace per ridurre o prevenire l’ideazione e i tentativi di suicidio. Questo studio ha diversi punti di forza. Innanzitutto, è il primo studio clinico controllato randomizzato in singolo cieco per esaminare l’efficacia del DBT nelle persone con autismo e suicidio. Inoltre, la possibilità di generalizzare i risultati ottenuti è migliorata perché condotto nei servizi di salute mentale ordinari. Infine, il campione è relativamente ampio e bilanciato. Uno degli ostacoli principali sembrerebbe rappresentato dal reclutamento poiché alcuni terapisti potrebbero essere più riluttanti a raccomandare questo trattamento ai loro clienti. Un’altra limitazione è l’idoneità del terapeuta nel lavorare sia su pazienti autistici che a somministrare la DBT. Oltre a questo, le qualifiche dei terapisti TAU non sono chiare e il limite a 6 mesi della durata del trattamento DBT piuttosto che a 1 anno, come nel trattamento originale, potrebbe influenzare l’esito del trattamento stesso.

Il suicidio nelle persone con autismo rimane un fenomeno scarsamente compreso e poco studiato. Gli studi precedenti hanno sottolineato la necessità di ulteriori ricerche di approfondimento sull’efficacia delle strategie di prevenzione e degli interventi di trattamento allo scopo di trovare interventi utili nel prevenire il comportamento suicidario.

 

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