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Interventi farmacologici nella demenza

Allo stato attuale, i farmaci impiegati per attenuare le manifestazioni cliniche nel AD di stadio lieve-moderato sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (Guaita & Vitali, 2004).

 

Il DSM-5 (APA, 2013) con Disturbi Neurocognitivi (DNC) fa riferimento a un’ampia categoria di disturbi acquisiti che rappresentano un declino rispetto al precedente livello di funzionamento e in cui il deficit clinico primario è di tipo cognitivo.

Relativamente al DNC Maggiore, esso si caratterizza per un significativo declino in uno o più domini cognitivi che interferisce con l’indipendenza nelle attività quotidiane. Il DSM-5, inoltre, presenta come specificatori cui prestare attenzione la gravità, la presenza di disturbi del comportamento e il sottotipo.

Prima di approfondire il trattamento farmacologico, è bene considerare le modificazioni neurobiologiche che avvengono nel cervello della persona con DNC di tipo Alzheimer (AD), il sottotipo più diffuso. Esso è una amiloidopatia, ovvero si caratterizza per un’alterazione del metabolismo delle proteine, in particolare i peptidi β-amiloidi che, accumulandosi formano le placche senili, e la proteina tau, che porta alla formazione dei grovigli neurofibrillari. Essi bloccano il normale funzionamento neuronale, portando alla morte cellulare con conseguente atrofia, specie a livello ippocampale. Per quanto riguarda i neurotrasmettitori, si verifica una riduzione dell’acetilcolina e un’eccessiva presenza di glutammato.

Trattamento farmacologico per lo stato cognitivo

Allo stato attuale, i farmaci impiegati per attenuare le manifestazioni cliniche nel AD di stadio lieve-moderato sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (AchEI) (Guaita & Vitali, 2004). Essi contrastano l’enzima acetilcolinesterasi, causa della diminuzione dell’acetilcolina necessaria ai processi di memoria ed apprendimento (Hogan et al., 2008). Donepezil (Rogers & Friedhoff, 1996); Galantamina (Wilkinson et al., 2001) e Rivastigmina (Corey-Bloom et al., 1998) vengono scelti in base a eziologia, tollerabilità ed effetti collaterali (Hogan et al., 2007). Queste terapie agiscono sulla sfera cognitiva, in particolare su memoria e attenzione (Birks, 2006), ma la loro efficacia è stata dimostrata di breve durata (Birks & Harvey, 2018). Inoltre, un limite dei trattamenti farmacologici è legato ai loro effetti collaterali, di cui i più comuni sono l’aumento dell’incontinenza urinaria, problemi gastrointestinali, vertigini e sincopi (Hogan et al., 2008).

In fase moderato-grave di malattia si prescrive spesso la Memantina che, inibendo i recettori NMDA, contrasta il glutammato (Peskind et al., 2006). Tale farmaco può, però, indurre eventi avversi di tipo cardiovascolare e gastrointestinale.

Trattamento farmacologico per i disturbi del comportamento

I problemi comportamentali sono la causa più frequente di istituzionalizzazione (Finkel & Burns, 2000) e l’approccio bio-medico individua come unica soluzione l’uso di farmaci sedativi: antipsicotici, ipnotici, stabilizzatori dell’umore e benzodiazepine. Queste ultime sono state per molto tempo utilizzate per il paziente geriatrico, ma le ricerche più recenti (Beers Criteria, American Geriatrics Society, 2015; Pasina et al., 2016) sottolineano l’inappropriatezza della loro prescrizione, poiché mal tollerate, causa di perdite mnesiche e della coordinazione motoria con conseguente aumento di cadute (Julien et al., 2015).

Per i disturbi del sonno, valide alternative alle benzodiazepine sono la melatonina, che si è dimostrata efficace nel ripristinare il ritmo circadiano in assenza di effetti collaterali (Cardinali et al., 2017; Reynolds, 2019), il Trazodone (Martinón‐Torres et al., 2004) o, quando l’insonnia è legata a sintomatologia depressiva, gli SSRI (Caltagirone et al., 2005). Per quel che riguarda gli stabilizzatori dell’umore, una esaustiva revisione della letteratura non ne raccomanda l’utilizzo routinario nelle demenze poiché i benefici sono inconsistenti e gli effetti collaterali rilevanti (Konovalov et el., 2008; Kwan et al., 2001).

Oggi di più largo impiego sono gli antipsicotici tipici, come Aloperidolo e Promazina, o atipici, come Risperidone, Olanzapina o Quetiapina, con preferenza per gli ultimi per la migliore tollerabilità e la minore tossicità (Sink et al., 2005; Connelly et al., 2010). Infatti, una recente review Cochrane (Mühlbauer et al., 2019), sottolinea l’influenza degli antipsicotici tipici sui sintomi extrapiramidali, sulla sonnolenza, sul peggioramento cognitivo e sull’aumento del rischio di morte (Randle et al., 2019).

Sostenere l’apprendimento: aiuto compiti, tutoring o potenziamento?

Parlando di apprendimento il termine “potenziamento” nasce dal concetto di intelligenza potenziale, ovvero dell’esistenza di un contenitore di abilità.

 

Ogni anno scolastico porta con sé nuove “sfide” per insegnanti, genitori e, non per ultimi, per bambini ed adolescenti. Dinanzi ad una serie di interventi che possono colmare difficoltà in ambito scolastico, è importante capire quali di questi possano realmente essere funzionali al fine di scegliere quelli realmente adeguati.

L’attività di studio può essere supportata ad un livello didattico, ad un livello metacognitivo ed in ultimo potenziando i processi sottostanti l’apprendimento.

Questo implica che i diversi interventi si collochino a livelli differenti, permettendo di:

  • prevedere un intervento mirato a colmare delle carenze puramente didattiche in una o più materie, in cui la ripetizione degli aspetti teorici ed una maggiore esercitazione, in un percorso di aiuto-compiti, possono mostrarsi risolutive;
  • intervenire in maniera trasversale sulle difficoltà di apprendere sia per la mancanza che per l’uso errato di strategie. La possibilità di “imparare ad imparare”, ha come obiettivo la costruzione dell’autonomia che avviene nei percorsi di tutoring in cui ciò che si co-costruisce non è il compito “corretto” per una specifica materia, ma il come fare i compiti in termini di organizzazione, scelta di strategie e risoluzione.

In molti casi l’utilizzo improprio del termine potenziamento non seguito da una specifica degli aspetti su cui si andrà a lavorare, finisce per creare confusione nella scelta che potrebbe essere non rispondente alla reale esigenza di quel bambino o di quell’adolescente. Gli aspetti su cui possiamo lavorare possono essere dunque puramente didattici, in altri casi legati ai processi metacognitivi, in altri ancora cognitivi.

Il lavoro che avviene in ambito didattico, a scuola o nei percorsi di aiuto-compiti, mira ad incrementare un certo grado di competenza in una specifica materia scolastica. Questa modalità di supportare lo studio, differisce dal tutoring in cui non è la ripetizione dei contenuti o un numero maggiore di esercitazioni a determinare la capacità di svolgere un compito ma la possibilità di accedere a quel contenuto in una maniera funzionale al proprio modo di apprendere. Entrambi questi percorsi differiscono dal potenziamento svolto da una figura sanitaria, che riguarda invece i processi coinvolti nell’apprendimento: dalla letto-scrittura al calcolo sino ai processi attentivi, di memoria ed elaborazione.

Come si traducono queste differenze nel lavoro pratico?

Facciamo un esempio: la stesura di un testo. Per questo compito delineo obiettivi diversi, raggiungibili attraverso percorsi differenti precedentemente citati e dunque posso:

  • scrivere un testo corretto privo di errori grammaticali per il compito di italiano (aiuto compiti);
  • scrivere un testo in termini di: progettazione, stesura e capacità di organizzazione delle informazioni affinchè ciò che comunico sia comprensibile e aderente alle idee che voglio esprimere (tutoring);
  • accedere alle informazioni contenute nella memoria affinché possa potenziare un’abilità di base, in questo caso la memoria, col fine di ricordare i contenuti appresi (potenziamento).

Il termine “potenziamento” nasce dal concetto, presente in letteratura, di intelligenza potenziale ovvero dell’esistenza di un contenitore di abilità: è proprio al suo interno che possiamo trovare processi e/o strategie cognitive non utilizzate appieno o carenti, ma a cui, possiamo offrire una serie di stimoli specifici che ci permettano di agire all’interno di un range di modificabilità. L’aspetto di “modificabilità” dell’attività di potenziamento, riferendoci al sistema nervoso, coinvolge la capacità dei sistemi neurali che, ricevendo stimoli adeguati, variano per struttura e funzione. In linea con quanto affermato da Feuerestein (1980) la modificabilità è possibile per ogni individuo in linea con le sue potenzialità.

Cosa scegliere per chi ha una difficoltà di apprendimento un BES o un DSA?

E’ importante definire il bisogno del bambino e/o dell’adolescente: una valutazione psicodiagnostica, la stesura di un profilo di funzionamento, in caso di DSA o nei casi di BES, il giudizio di un insegnante nei casi di semplici difficoltà scolastiche devono porci nella condizione di saper discriminare a che livello si situa quella difficoltà, quale processo è realmente coinvolto e di che natura è (didattica, metacognitiva, cognitiva…), al fine di rispondere con un intervento appropriato.

Tempi, differenze e modalità

L’aiuto compiti può essere svolto quotidianamente col fine di portare a termine i compiti per il giorno seguente. Differisce dal tutoring che prevede invece, la possibilità di svolgere una parte dei compiti assieme al tutor alternando giornate di piena autonomia per lo studente.

In ultimo il percorso di potenziamento, svolto da una figura sanitaria, prevede l’utilizzo di attività che sarà il clinico a strutturare, tagliandole sia sugli aspetti diagnostici emersi, sia sul profilo di funzionamento e tenendo conto tanto dei punti di debolezza, quanto dei punti di forza. Il potenziamento a seconda delle tecniche e degli strumenti utilizzati, prevede una frequenza settimanale ed una durata del training inferiore ad un’ora, in cicli che possono ripetersi più volte durante l’intero anno.

Sentirsi efficace…per esserlo!

Non possiamo scindere il processo di apprendimento dalle emozioni legate alla dinamica percettiva di fallimento e successo in ambito scolastico. Migliorare le abilità coinvolte nel processo di apprendimento significa acquisire un senso di autoefficacia, raggiungendo capacità che possiamo definire generalizzabili, ovvero non solo funzionali a migliorare in una materia scolastica, ma sopratutto utili a gestire strategie che permettano a bambini ed asolescenti di far fronte all’insuccesso, vedendo in quest’ultimo un’opportunità di cambiamento nel proprio percorso e non più un giudizio sulle proprie capacità.

 

Kafka sulla spiaggia: uno spirito solitario che vaga lungo la riva dell’assurdo – Recensione del libro

Kafka sulla spiaggia è un libro di Murakami Haruki, scrittore contemporaneo che ha la particolarità di catapultare il lettore in mondi paralleli, attraverso viaggi nell’assurdo e nei meandri dell’inconscio dei protagonisti.

 

Questo libro, attraverso una sorta di viaggi intrapsichici (e non solo), affronta molte tematiche legate all’adolescenza. Il protagonista, infatti, è un adolescente che sta per fuggire dalla casa natale nella quale ha vissuto con suo padre, uno scultore di successo e molto severo. Prima di partire ritrova una vecchia foto in cui vi sono ritratti lui e sua sorella, della quale non ricorda nulla, neanche il nome. Si intuisce da subito che non ha ricordi nemmeno della madre e la sua storia sembra circondata da segreti familiari. Il suo viaggio comincia così: zaino in spalla e una profezia che dovrà compiersi. La prima meta da raggiungere viene scelta “a pelle” e tutto il racconto è mosso da questa pseudo casualità, e si intuisce ben presto che niente è al caso.

Il giovane spirito solitario sceglie un nome fittizio per scollarsi dal suo passato e iniziare una nuova vita e decide di chiamarsi Tamura Kafka e così inizia il suo lungo viaggio, accompagnato dal “ragazzo di nome Corvo”, il suo alter ego che lo seguirà e lo consiglierà per tutta la sua avventura, fino al compimento della profezia.

Ma chi è Tamura Kafka? E’ un ragazzo di appena 15 anni che si sta preparando a fuggire di casa da ben 2 anni, allenandosi tutti i giorni per poter sembrare più grande dell’età che ha, così da evitare possibili problemi futuri e per affrontare ciò che lo aspetterà durante il suo viaggio. Ha vissuto da solo con il padre, con il quale non scambia nessuna parola e che cerca di evitare in tutti i modi, gli unici scambi comunicativi li ha con la domestica e qualche compagno di classe. Si può quindi definire un ragazzo solitario, che ha eretto intorno a sé un muro altissimo che non permette a nessuno di valicare (Murakami H., 2002) e con questo atteggiamento riesce a tenere lontani tutti i suoi pari. Kafka è mosso dal desiderio di conoscere di più sulla sua vita passata e di allontanarsi da un padre che con la sua presenza-assenza riempie ogni singola stanza come se la casa fosse permeata dalla sua essenza. Emerge da subito il desiderio di evadere da quel posto che non sente suo, desiderio che attraversa ogni adolescente, in quanto ci si stacca dalle figure di accudimento per dirigersi verso l’esplorazione del mondo e l’instaurarsi di nuove relazioni significative. Ed è ciò che il nostro Kafka mette in atto: esplora il mondo attraverso l’esplorazione di sé stesso, del suo passato e della profezia che dovrà compiere.

Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarla cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. E’ qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto e chiudendo forte gli occhi per non fare entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro. […] Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio:
tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi era entrato (ibidem).

Ho scelto questa citazione perché, a mio avviso, racchiude perfettamente ciò che avviene durante il cambiamento. L’adolescenza è il periodo per eccellenza dei cambiamenti, il corpo cambia, la voce cambia, l’identità cambia, mutandosi e trasformandosi. Ci si ritrova con un passo verso l’infanzia e un passo verso il mondo adulto e l’adolescente si ritrova in una posizione mediana e non sa quali panni dover indossare. Spesso è confuso dal turbinio emotivo e Murakami descrive con un’immagine visiva della tempesta ciò che avviene nel giovane Kafka ed è certo che, finita la tempesta, inevitabilmente ci si ritrova cambiati, mutati. Dunque, la tempesta è simbolo del cambiamento che è a volte necessario, a volte obbligato e il cambiamento in ogni caso è trasformazione di noi stessi.

Parlando di Kafka, non posso non fare cenno di un personaggio fondamentale: il vecchio Nakata. La storia, infatti, racconta di due vite apparentemente parallele, ma che in realtà sono intrecciate e collegate e proseguono di pari passo. La storia del giovane Tamura si affianca alla storia del vecchio Nakata, un personaggio simpatico che riesce a parlare con i gatti. Nakata tende a parlare in terza persona e a definirsi “l’unico stupido” della sua famiglia, a seguito di un evento misterioso avvenuto durante l’occupazione del Giappone da parte dell’esercito americano. Dopo un lungo coma, Nakata divenne “stupido”, in compenso però riusciva a capire il linguaggio dei gatti. Anche Nakata è un tipo solitario, trascorre le sue giornate in compagnia dei felini, con i quali instaura una certa complicità. Si rivelerà essere tutt’altro che un sempliciotto e sarà un personaggio cruciale per il compimento della profezia.

In questo libro, Murakami racconta i dilemmi adolescenziali (e non solo) attraverso eventi misteriosi e surreali e non ci fa mancare proprio niente, inserendo ciò che Freud chiamò “complesso di Edipo”: ovvero, l’identificazione con il genitore dello stesso sesso per conquistare il genitore del sesso opposto. Ma cosa succede se si considera il padre un estraneo, una sorta di coinquilino e la madre una sconosciuta della quale non ci si ricorda nemmeno un lineamento del volto? Murakami risponde a questa domanda facendo vivere al protagonista una lotta interiore tramite un vortice di eventi e vicissitudini che si intrecciano, attuando letteralmente il complesso edipico. Ricordo che Edipo, eroe della mitologia greca, uccise il padre e sposò la madre come aveva previsto l’Oracolo di Delfi.

Potrei scrivere pagine su pagine su tutti i significati intrinseci del libro, ma rischierei di svelare troppe cose e chi legge Murakami, sa che il mistero è alla base di tutti i suoi libri.

Ma quali analogie possiamo trovare con la storia di Kafka e i nostri adolescenti? La sensazione di essere soli contro il mondo, senza l’appoggio di nessuno. Gli adolescenti di oggi sono iper-connessi con il virtuale, ma sconnessi con loro stessi e di chi è la colpa? Il senso comune tende a puntare il dito contro i mass-media, ma non sono totalmente d’accordo, in quanto la tv negli anni ’50/60 (in Italia) ha cresciuto generazioni su generazioni, no non si può dare sempre la colpa alla tecnologia “cattiva”, ma piuttosto al nostro averli in balia di questi strumenti senza spiegare un utilizzo intelligente dei dispositivi elettronici e al non averli stimolati abbastanza. La responsabilità è di noi adulti, dobbiamo rieducare in primis noi stessi e poi i nostri giovani perché la tecnologia fa parte delle nostre vite, bisogna prenderne atto e renderla nostra alleata. Rimbocchiamoci le maniche e facciamo del nostro meglio per stare al loro fianco, ascoltiamo i loro silenzi, soprattutto se si oppongono, soprattutto se ci respingono. E non consideriamo le loro battaglie meno importanti delle nostre, non dimentichiamo che anche noi siamo stati adolescenti e proprio perché abbiamo percorso i loro passi, dobbiamo tendere la mano e aiutarli ad attraversare con maggiore sicurezza, ma con un occhio nuovo, al passo con i tempi. Inoltre, questa situazione pandemica ha fatto emergere in superficie ciò che la cultura italiana reprime da sempre: l’importanza delle emozioni, l’importanza di saper dare un nome a ciò che proviamo. Educhiamo i bambini e i ragazzi ad essere connessi con le loro emozioni, un bambino che cresce consapevole dei suoi stati emotivi, è un bambino che avrà maggiore successo nella vita (in tutti i campi, dallo scolastico al lavorativo, al relazionale) (Goleman D., 1995).

Dunque, dobbiamo guardare ai bisogni dei giovani e il sistema scolastico ha bisogno di una svolta in quanto la scuola strutturata come è concepita, poteva andare bene 20 anni fa, ma non oggi perché il mondo non sta cambiando, è già cambiato.

 

Attacchi di panico notturni: il ruolo della sensibilità all’ansia, dell’intolleranza all’incertezza e della responsabilità del danno

Il panico notturno, spesso in comorbilità con quello diurno, consiste nel risveglio improvviso in un forte stato ansioso (Craske & Barlow, 1989), non ricondotto a sogni o incubi e in assenza di alcuna causa apparente. 

 

Spesso è presente l’ansia anticipatoria verso il momento del sonno, che viene evitato, con insonnia conseguente responsabile della compromissione del funzionamento mentale, fisico e sociale dell’individuo (Craske & Tsao, 2005).

Coloro che soffrono di panico diurno e notturno, non riportano differenze negli aspetti di variabilità respiratoria, frequenza cardiaca e dei movimenti del corpo durante il sonno, gravità dei sintomi del panico, depressivi o ansiosi (Craske & Tsao, 2005).

In accordo con la teoria della paura della perdita della vigilanza, gli individui che soffrono di panico notturno, a differenza di quello diurno, temono le situazioni di riduzione della soglia di vigilanza poiché connotate dall’impossibilità di reagire al pericolo o proteggersi dalle minacce (Tsao & Craske, 2003a). Questo comporta ad esempio l’evitare di dormire per timore di un attacco di cuore durante il sonno e di non riuscire a richiedere l’aiuto medico (Tsao & Craske, 2003b).

Tre costrutti si legano alla teoria della paura della perdita della vigilanza, ovvero l’intolleranza dell’incertezza, la responsabilità del danno e la sensibilità dell’ansia.

L’intolleranza dell’incertezza, che consiste nell’incapacità disposizionale di sopportare la risposta aversiva innescata dall’assenza percepita di informazioni salienti (Carleton, 2016), comporta la percezione delle situazioni incerte come stressanti, ingiuste e dunque da evitare (Buhr & Dugas, 2002). Nel panico notturno, la preoccupazione eccessiva è generata da eventi imprevisti, interni (infarto o soffocamento) o minacce esterne (disastri naturali), che provocano il timore di venir danneggiati o uccisi prima di essere in grado di svegliarsi e chiedere aiuto. L’obiettivo diviene monitorare l’ambiente circostante, prepararsi e riducendo temporaneamente la preoccupazione verso gli imprevisti.

Il senso di responsabilità del danno, legato alla paura di perdita della vigilanza, consiste nel dubbio di causare un danno mediante azioni, o di non riuscire a prevenirlo (Wheaton et al., 2012). Questo fattore è presente anche negli schemi di pensiero tra coloro con disturbo ossessivo compulsivo che, afflitti dal dubbio patologico di aver causato o meno un determinato danno, attuano successivi e ripetuti controlli (Abramowitz et al., 2010). Similmente, chi soffre di panico notturno resta vigile poiché il concedersi di dormire comporterebbe il rischio di non riuscire a prevenire il danno.

Il terzo costrutto correlato è la sensibilità all’ansia, ossia la paura delle sensazioni legate all’attivazione emotiva, con il timore che abbiano conseguenze negative come morte, pazzia o rifiuto sociale (Taylor et al., 2007). Compresenti nel disturbo di panico, la vigilanza verso l’ansia e verso le sensazioni interne del corpo, risultano correlate e rendono l’individuo sensibile alle fluttuazioni fisiologiche interne, valutate come potenzialmente pericolose (Schmidt et al., 1997).

La teoria della paura della perdita della vigilanza è stata testata dallo studio di Smith et al. (2019), su un campione comunitario di 218 individui.

I risultati supportano tale teoria in quanto sia l’intolleranza all’incertezza che i sentimenti di responsabilità del danno sono maggiori nel gruppo avente panico notturno rispetto a quelli con panico diurno.

La capacità di tollerare l’incertezza di situazioni ambigue è stata valutata come intolleranza prospettica (cioè la preoccupazione per le conseguenze dell’incertezza futura) e inibitoria (ovvero i sintomi comportamentali in risposta all’incertezza, come l’evitamento del sonno).

Mentre non erano emerse differenze nell’intolleranza prospettica all’incertezza o sensibilità all’ansia fisica o cognitiva tra coloro con panico notturno e gli individui con panico diurno, tra i primi, coerentemente con la letteratura (Carleton et al., 2013; McEvoy & Mahoney, 2011), era emersa una maggiore componente inibitoria, risultando meno capaci di agire di fronte alle situazioni incerte, con timore di non rispondere in tempo alle potenziali minacce durante il sonno.

La credenza di non riuscire a tollerare le incertezze genera cognizioni catastrofiche tipiche dei soggetti ansiosi e promuove l’ipervigilanza, che ha un ruolo fondamentale nello sviluppo ed il mantenimento degli attacchi di panico notturni.

Il grado in cui i soggetti sentivano di non riuscire a prevenire eventi dannosi, ovvero la responsabilità per il danno, spiegava anch’essa nel campione i comportamenti di vigilanza notturna, come dormire con le luci accese o controllare che porte e finestre fossero chiuse.

Nonostante aspetti come arrossire, sudare e tremare in presenza di altri sembrino essere difficilmente attivabili durante il sonno, gli individui con panico notturno avevano riportato maggiore sensibilità all’ansia sociale, rispetto a coloro aventi panico diurno. Questo può essere ricondotto al timore di essere giudicati, socialmente rifiutati o ridicolizzati dal partner intimo per il proprio disturbo. Inoltre, l’ansia sociale potrebbe causare elevate preoccupazioni nella relazione, portando gli individui a impegnarsi in ruminazioni post-evento nella fase di addormentamento (Brozovich & Heimberg, 2008; Morrison & Heimberg, 2013) che a loro volta inducono risvegli frequenti in stati di agitazione.

In conclusione, oltre alla presenza di una componente ansiosa di origine sociale; l’intolleranza all’incertezza e la responsabilità per il danno contribuiscono allo sviluppo degli attacchi di panico notturni, ed andrebbero considerati nel loro trattamento.

La CBT per questa forma di panico ha mostrato prove di efficacia grazie all’impiego di esercizi di rilassamento e l’esposizione al sonno in condizioni appositamente progettate per aumentare le fluttuazioni fisiologiche (Craske et al., 2005), favorendo la riduzione della paura di perdita della vigilanza. Allo stesso modo è possibile agire sull’intolleranza all’incertezza mediante interventi volti a ridurre la percezione del sonno come situazione incerta e minacciosa, consentendo una modifica dei bias cognitivi sottostanti (computer-based Cognitive Bias Modification, CBM-I; Oglesby et al., 2017).

 

Strumenti Tecnologici a supporto della Psicoterapia – Il settimo episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Titolo del settimo incontro è stato: “Strumenti Tecnologici a supporto della Psicoterapia”, tema discusso dalla Dott.ssa Regina Gregori.

 

STRUMENTI TECNOLOGICI A SUPPORTO DELLA PSICOTERAPIA:

La cognizione spaziale nella terza età

Con abilità visuo-spaziali si intende “la capacità di rappresentare, trasformare, generare e recuperare informazioni simboliche di tipo non linguistico” (Linn & Petersen, 1985).

 

Con cognizione spaziale si intende quell’insieme di abilità che permettono all’individuo di muoversi nello spazio, creando e memorizzando la rappresentazione mentale della propria posizione in relazione all’ambiente circostante (Kelncklen et al., 2012). Essa è importante per il corretto svolgimento di tutte le attività quotidiane e con l’avanzamento dell’età subisce un decremento funzionale, limitando la quotidianità dell’individuo (Head & Isom, 2010).

Apprendimento di nuovi ambienti

La conoscenza dell’ambiente può essere acquisita direttamente tramite la navigazione o indirettamente attraverso l’utilizzo di strumenti simbolici come i sistemi di navigazione o le mappe (Siegel & White, 1975), comportando differenze nelle dinamiche di acquisizione delle conoscenze spaziali. Ad esempio, il conoscere un ambiente tramite mappa porta a una migliore stima delle distanze in linea d’aria, mentre l’apprendimento tramite navigazione comporta stime più accurate circa le distanze effettive (Thorndyke & Hayes-Roth, 1982). Inoltre, ciascuna modalità di apprendimento spaziale implica nella rappresentazione mentale un particolare tipo di prospettiva, che può essere ‘route’ o ‘survey’ (Siegel & White, 1975). La prospettiva route è tipica della navigazione e si basa sulla variazione della posizione del corpo rispetto all’ambiente e sull’informazione visiva direttamente accessibile al soggetto. La prospettiva survey offre, invece, una visione dell’ambiente dall’alto, come nelle mappe, tenendo conto della posizione dei punti di riferimento o landmark. Ogni tipo di input utilizzato presenta, dunque, vantaggi e svantaggi che influiscono sulla performance.

Dalla letteratura emergono numerosi compiti specifici per testare l’apprendimento spaziale, tra cui il compito di pointing (Pazzaglia & Taylor, 2007) e il disegno di mappa, corretto con appositi software (GMDA, Gardony et al., 2016).

Apprendimento di nuovi ambienti nell’invecchiamento

È stato dimostrato che le abilità di apprendimento e memoria spaziale sono influenzate negativamente dall’invecchiamento (Meneghetti et al., 2012). La letteratura si è focalizzata principalmente su due questioni: quale formato possa facilitare l’apprendimento ambientale negli anziani e quali meccanismi cognitivi sottostanti siano coinvolti nelle rappresentazioni mentali che formano (Borella et al., 2015).

In generale, si è notato che le differenze legate all’età si assottigliavano quando il compito proposto era coerente con il formato e la prospettiva utilizzati nella fase di apprendimento (Copeland & Radvansky, 2007). Ad esempio, l’apprendimento di una descrizione spaziale dal punto di vista egocentrico seguita dal disegno di mappa comporta cambiamenti sia nel formato (da verbale a visuo-spaziale) sia nella prospettiva (da route a survey) che richiedono il coinvolgimento di più processi cognitivi come la memoria di lavoro. Ciò può almeno in parte spiegare le differenze di età, dal momento che le abilità fluide declinano con l’invecchiamento (Salthouse, 1994).

Da diversi studi emerge che gli anziani hanno prestazioni migliori quando le informazioni spaziali sono presentate in modo allocentrico, per cui la mappa risulta il formato che può facilitare maggiormente l’apprendimento ambientale in questa fascia di età (Yamamoto & DeGirolamo, 2012).

Per quanto riguarda i meccanismi cognitivi coinvolti nell’apprendimento ambientale, le abilità visuo-spaziali risultano cruciali nello spiegare la rappresentazione mentale spaziale formata (Fields & Shelton, 2006). Infatti, con abilità visuo-spaziali si intende “la capacità di rappresentare, trasformare, generare e recuperare informazioni simboliche di tipo non linguistico” (Linn & Petersen, 1985). Tali abilità sono competenze complesse e possono essere classificate in tre sotto-fattori che risentono dell’effetto età: i più anziani hanno prestazioni inferiori su percezione spaziale, visualizzazione spaziale e capacità di rotazione mentale.

Uno studio (Borella et al., 2014) ha indagato gli effetti legati all’età sulle abilità spaziali lungo l’arco di vita adulta: sono emersi effetti non lineari legati all’età per la visualizzazione spaziale e l’assunzione di prospettiva, mentre sono emersi effetti lineari per la rotazione mentale. Dunque, l’età ha un’influenza considerevole sulle abilità spaziali nell’arco di vita, ma i suoi effetti cambiano in funzione del compito spaziale considerato.

Inoltre, diversi studi dimostrano il coinvolgimento della memoria di lavoro visuo-spaziale, meccanismo cognitivo di base dedicato al mantenimento e all’elaborazione delle informazioni visuo-spaziali, sia nella memorizzazione del percorso che nella capacità di posizionare i landmark (Meneghetti et al., 2018).

Con l’invecchiamento si assiste, dunque, a un declino generale della memoria e dell’apprendimento spaziale, mentre le abilità visuo-spaziali sembrano declinare in modo eterogeneo. Le prestazioni degli anziani in compiti di apprendimento spaziale dipendono principalmente dall’interazione tra il tipo di formato presentato nella fase di apprendimento e il compito proposto.

A questo si aggiungono una serie di fattori individuali che possono influenzare la relazione tra età e prestazione spaziale, come le proprie preferenze e credenze (Hertzog & Dixon, 1994). Questi fattori vengono generalmente valutati tramite questionari di autovalutazione, come quelli presenti nella Batteria VS (De Beni et al., 2014). È emerso che preferenze e stili spaziali tendono a rimanere piuttosto stabili nell’arco di vita (Borella et al., 2014), mentre l’ansia provata durante gli spostamenti ambientali aumenta con l’avanzare dell’età ma non in maniera significativa ed è maggiore nelle donne, probabilmente per l’influenza della minaccia dello stereotipo che le porta a sentirsi meno abili in compiti spaziali rispetto agli uomini.

La relazione tra emozione e spazio non è ancora stata molto approfondita poiché si tende a separare i due domini, si ipotizza però che le risposte emotive allo spazio possano avere un ruolo nella navigazione dell’ambiente, migliorando il ricordo e l’accuratezza delle decisioni di direzione. Diversi studi sulla percezione spaziale in giovani adulti hanno dimostrato che il modo in cui percepiamo l’informazione spaziale è anche influenzato dai nostri sentimenti e/o stati corporei (Stefanucci et al., 2008; Ruotolo et al., 2018). Sarebbe, dunque, interessante indagare se le emozioni influenzino anche negli anziani le prestazioni in compiti di apprendimento spaziale, agendo da fattore di compensazione e confermando ulteriormente l’effetto positività.

 

Can video games be used to improve people well-being? Suggestions from literature – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

I videogiochi vanno a soddisfare alcuni bisogni di base, quali la gratificazione, la capacità di superare la frustrazione della sconfitta e quindi di sviluppare una maggiore resilienza, la socialità, lo sviluppo di una propria identità.

 

La relatrice parte dalla definizione di videogioco. La letteratura scientifica e il dibattito interdisciplicare ne offrono tante. Quella seguita nei suoi studi si rifà prevalentemente alla definizione di Tavinor (2008), “Definition of videogames”.

Nato come forma di divertimento, il videogioco è un ambiente simulato – sebbene percepito come reale – dove si svolgono narrazioni o storie interattive.

Come concordano molti colleghi della Dott. Carissoli (Imm. 1), ci sono tanti videogiochi che hanno numerose caratteristiche che possono essere messe a fattor comune con innegabili ricadute negative sui fruitori del video.

Videogiochi come possono migliorare il benessere Report ECDP Imm 1

Imm. 1 Dott.ssa Claudia Carissoli

Ma non è questo aspetto il focus dell’intervento della relatrice, che cerca invece – attraverso ricerche ed esperimenti (dove c’è sempre un gruppo di controllo) – di scandagliare come i videogiochi possano migliorare il benessere degli individui. Molti sono i canali di questo effetto positivo: la migliore comprensione del Sé e delle proprie emozioni; la capacità di autogestire tali emozioni e quindi di irrobustire nell’individuo la capacità di autoregolamentazione e di resilienza all’ambiente; l’infittirsi delle relazioni sociali. Si possono incontrare infatti nuove persone con cui il gioco viene esperito, ci si confronta sulle emozioni provate, che possono essere diversissime fra soggetti, anche quando ci si confronta con lo stesso videogioco; attraverso queste interrelazioni personali, possono dunque crearsi nuovi amici. Ancora, la eventuale costruzione all’interno del gioco di un sistema di premialità e punizioni, porta l’individuo alla gratificazione e a una maggiore autostima se la condotta scelta nel gioco porta a un premio. Al contrario, strategie quali, ad esempio, la dominazione non viene premiata, con una conseguente frustrazione del giocatore.

Sotto il cappello di un videogioco sono sintetizzati molti aspetti quali il piacere sensoriale (lo stesso che si prova nel leggere un bel libro o vedere un bel film), una soddisfazione estetica, lo sfogo delle proprie emozioni. Infine, ma non per importanza, i giocatori interagiscono secondo varie modalità competitive o cooperative; da tali interazioni scaturiscono emozioni – anche nuove – da riconoscere e gestire. L’interazione assurge così a potente strumento di autoregolamentazione e promuove l’autoefficacia, favorendo così anche lo sviluppo dell’intelligenza emotiva. Inoltre, quando esiste, la narrazione assolve un ruolo particolarmente importante nei giochi di ruolo. Altri videogiochi, in cui manca una struttura narrativa, si concentrano su altri aspetti, ad esempio su sfide cognitive, sensoriali e motorie associate a quelle forme di gioco.

In tale prospettiva, i videogiochi vanno anche a soddisfare bisogni di base, quali la gratificazione, la capacità di superare la frustrazione della sconfitta e quindi di sviluppare una maggiore resilienza, la socialità, lo sviluppo di una propria identità.

Grazie a queste esperienze intense immersive, il videogioco si trasforma quindi in una scuola di apprendimento da trasferire nella vita reale.

Altro aspetto da considerare nel videogioco è il ruolo dell’avatar. Quest’ultimo assolve una funzione chiave in quanto strumento proiettivo. Infatti, all’interno della narrativa proposta dal gioco, il soggetto agisce tramite il proprio avatar. Esso gli fa da specchio riguardo alle emozioni esperite, alle proprie ambizioni e aspettative, fantasie, sentimenti, ecc., che scaturiscono durante il gioco. Il mondo reale frequentemente ci impone di dissimulare, cioè di evitare di mostrarsi per come si è o per come si vorrebbe essere: dunque l’avatar nel videogioco può consentire di sfogare le proprie fantasie identitarie e l’esplorazione di ruoli inaccessibili nella realtà, le emozioni e i sentimenti inconfessabili. Psicologicamente ciò permette di fare esperienze comunque significative, traendone magari degli insegnamenti da trasporre nella vita reale.

La Dottoressa Carissoli illustra i risultati di due ricerche condotte su una popolazione giovanile. In particolare una survey con ragazzi tra i 15 e i 18 anni, il cui campione era costituito da 500 adolescenti raggruppati per ore di gioco svolte durante la giornata. Di particolare rilievo, gli “hardgamers”, cioè i giovani che trascorrevano oltre 3 ore al giorno con i videogames, e i “moderate gamers”. I risultati convalidano che l’attività dei videogiochi promuove l’autoefficacia, la resilienza, la capacità di gestire le proprie emozioni. Un aspetto interessante è che, se gli “hardgamers” sviluppano maggiori competenze, dall’altro si crea un trade-off tra acquisizione di competenze e benessere individuale. Invece, è risultato che i “moderate gamers”, hanno una vita più articolata di esperienze, conoscenze, un arricchimento personale che ne accresceva il loro benessere.

Pertanto un fuoco d’attenzione è da porre sulla circostanza che solo un gioco moderato accresce il benessere personale.

Dai risultati validati emerge inoltre che il gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo è rimasto molto interessato, soddisfatto e sorpreso nel percepire il videogioco – ancorchè molto semplice – in una diversa prospettiva, dove l’esperienza del gioco creava tanti nuovi spunti mai scandagliati prima di allora in un videogioco.

Alla luce di tali riflessioni e risultati si evince come il videogioco possa diventare uno strumento terapeutico. Ma a una condizione: che si abbiano obiettivi precisi. Un esempio per tutti: se il problema del paziente è l’ansia e lo stress, l’obiettivo del videogioco deve essere quello di rilassare.

In altri termini, ogni viedeogioco è un grande cappello all’interno del quale possono trovarsi tante cose, ma lo snodo cruciale è l’individuazione di ciò che serve in relazione agli obiettivi.

 

L’incontro immaginario tra Dotan, Tom Walker e The Fray – Rubrica Psico-canzoni

L’articolo qui presente è un dialogo immaginario tra i tre brani No words, Leave a light on e How to save a life rispettivamente di Dotan, Tom Walker e The Fray.

Psico-canzoni – (Nr.9) L’incontro immaginario tra Dotan, Tom Walker e The Fray

 

I brani affrontano il tema del vuoto nell’incontro con se stessi da tre punti di vista differenti che sembrano integrarsi evidenziando la funzione d’aiuto della relazione.

And the wolves outside they come out my door, cold like the snow as they breathe on me. Il cantautore Dotan esprime con una frase il sentimento dell’angoscia del vuoto sperimentato nella solitudine.

Il primo incontro con questa sensazione si ha quando si resta in silenzio: no words, silence. Proprio nel silenzio infatti vi è la possibilità di restare in ascolto di sé stessi. Incontrarsi però vuol dire tenere per un attimo il mondo fuori ed entrare in contatto con la solitudine. Questa comporta che si vedano e affrontino dei conflitti interiori, che quando siamo con gli altri possiamo anche riuscire ad evitare, restando anche col vuoto promotore di un’angoscia che lentamente divora lo stomaco.

Almeno una volta durante il percorso alla scoperta di sé si entra in contatto con questa sensazione di vuoto e forse è il sentiero più ostico del viaggio, ma è anche quello che permette un incontro con la parte più autentica di sé. Non tutti però riescono a reggere la potenza lacerante di questo momento.

Mentre Dotan in No Words racconta la parte più dolorosa dell’incontro con sé, Tom Walker con Leave a light on sottolinea il ruolo della relazione come mezzo per affrontare questa situazione, mentre il gruppo The Fray con How to save a life mostra la limitatezza e l’impotenza umana, laddove non è possibile entrare nelle camere più oscure dell’altro se non si viene invitati. La relazione in questo caso nasce dall’unione di due solitudini che si integrano solo quando si dà all’altro il permesso di entrare nel proprio vissuto. Nasce così un dialogo immaginario tra tre brani dove autori di diversi Paesi si incontrano per dare voce alla relazione più profonda: quella dell’incontro con l’altro nell’incontro con se stesso.

If you look into the distance there’s a house upon a hill guiding like a lighthouse. It’s a place where you’ll be safe to feel our grace. If you’ve lost your way I will leave a light on. Potrebbe essere la risposta di Tom Walker alla disperazione soffocante raccontata da Dotan, tanto opprimente da non permettergli più di trovare delle parole che abbiano un significato per descriverla: out of control, words hurts the most when there’s no meaning.

I The Fray invece sembrano dare voce a chi è stato tenuto fuori, chi non è riuscito ad aiutare l’amico entrato nella disperazione perché non gli è stato permesso. Where did I go wrong I lost a friend, somewhere along in the bitterness and I would have stayed up with you all night, had I know how to save a life è il grido di dolore di chi non ha potuto salvare la persona a cui teneva, perché purtroppo non tutti riescono a far entrare l’altro nella parte più autentica di sé, che a volte è anche la più sensibile, fragile e dolorosa. E così anche se non è possibile un incontro reale, la relazione aiuta almeno l’amico, ormai solo, a stare con la propria impotenza. Sperimentarne il vuoto che questa lascia permette un ultimo incontro, seppur non più reale, con chi è stato risucchiato dalle sabbie mobili del proprio vuoto interiore.

La relazione può essere il mezzo per aiutare chi sta sprofondando nelle sabbie mobili finché ancora c’è un dito fuori, solo se questi riesce a porgere quel dito per farsi aiutare.

 

GUARDA I VIDEO DEI BRANI:

“No words” di Dotan:

“Leave a light on” di Tom Walker:

“How to save a life” di The Fray:

 

 

Benessere psicologico: una questione di relazioni e pensieri – Survey Online

Survey online per la valutazione del ruolo dei nostri stili di pensiero e del nostro modo di stare in relazione con le persone care nell’influenzare il nostro benessere psicosociale. 

 

L’attuale situazione di emergenza sanitaria ha portato la comunità scientifica a interrogarsi circa gli effetti della pandemia da COVID-19 sul benessere e sulla qualità della vita delle persone (es., Prati, 2020).

Ci siamo quindi chiesti: quali sono i processi di pensiero e relazionali in grado di influire sul nostro benessere? Ci sono dei modi di pensare a noi stessi, ad esempio il ricorso alla critica e al giudizio negativo, in grado di aumentare i livelli di ansia e depressione? I nostri legami sviluppati in età infantile hanno un ruolo nel determinare il nostro benessere oggi?

Ci sono alcune evidenze che la Self-Compassion, intesa come un atteggiamento presente, gentile e accogliente rispetto alla propria sofferenza, unito alla motivazione ad alleviarla, possa influenzare positivamente la qualità della vita delle persone (es., Gilbert, 2014). In altre parole, la Self-compassion sembra rappresentare un fattore protettivo rispetto allo sviluppo di problemi psicologici e influenzare positivamente la qualità della vita (es., Kim & Ko, 2018). Inoltre, questo atteggiamento “compassionevole” sembra diminuire i livelli di criticismo verso se stessi (Gilbert et al., 2012); criticismo che, a sua volta, contribuisce ad incrementare i livelli di ansia e depressione (Kulubinski et al., 2019) ed è un fattore transdiagnostico che accomuna diverse psicopatologie (Werner et. al, 2019).

Un effetto di mediazione della Self-compassion tra stili di attaccamento e benessere psicologico (in termini di benessere soggettivo e bassi livelli di distress psicologico) è stato illustrato dalla letteratura scientifica sul tema (es., Mackintosh et al., 2017). Inoltre, studi precedenti (es., Brophy et al., 2019; Pepping et al., 2014, Gilbert 2005, 2010a) hanno mostrato che stili di attaccamento insicuri (ansioso ed evitante) influenzano negativamente lo sviluppo della Self-compassion che inizia a svilupparsi in età infantile. Ciononostante, pochi studi hanno mostrato come gli stili di pensiero influenzino lo sviluppo di self-criticism (Kolubinski et al., 2019) e Self-compassion (Hochheiser et al., 2019). 
Le skills metacognitive, regolando l’autoregolazione dell’attenzione, permettono all’individuo di ridurre i pensieri negativi sul sé (Neff & Dham, 2015) consentendo il potenziamento della Self-compassion (Neff, 2003).

Data l’importanza del tema e le implicazioni per il benessere psicologico in questo momento storico, ci siamo proposti di esplorare l’associazione tra gli stili di attaccamento, gli stili di pensiero e il benessere psicologico.

Compilando il nostro questionario ci aiuterai a mettere in luce tutti questi aspetti. Con quale obiettivo? Permetterci di costruire degli interventi di prevenzione mirati alla promozione del benessere.

 

COMPILA IL QUESTIONARIO – CLICCA QUI 9733

 

Recensione del volume “I sette pilastri della mindfulness” (2020) di Maria Beatrice Toro

Nella prima parte del volume I sette pilastri della mindfulness, l’autrice e psicologa Maria Beatrice Toro, espone le basi della meditazione mindfulness: come nasce, che cos’è, come si può praticare e con quali scopi.

 

Dedica la seconda parte del volume alla descrizione dei pilastri di questa disciplina, prendendo in prestito sette storie vissute, una per ogni pilastro, per concludere, nella terza parte, con la presentazione di nuove applicazioni e prospettive, che hanno condotto la mindfulness da disciplina per la riduzione dello stress e dei pensieri negativi, ad approccio di consapevolezza alla vita.

In un mondo che ci offre ogni tipo di esperienza, la mindfulness ci apre a qualcosa di essenziale: il ritrovamento del nostro stato originario di presenza.

L’Autrice evidenzia come dagli anni Duemila, si siano moltiplicate le ricerche sui meccanismi psicofisici che si attivano quando si pratica la mindfulness e quali effetti neurologici emergano dagli studi sulla meditazione consapevole.

Considerevole è anche l’impatto che ha sul corpo, grazie al suo potere antinfiammatorio, di modulazione delle difese immunitarie e di rallentamento dei processi di invecchiamento.

Meditando non cambiano solo emozioni e pensieri, ma si creano dei nuovi percorsi sinaptici, tanto da portare  ad un ispessimento della corteccia cerebrale.

Esercitando la consapevolezza, prosegue l’Autrice, si può conseguire in modo progressivo, una presenza mentale tale da restituirci lucidità, centratura, solidità, che può permetterci di individuare quali siano le migliori scelte per noi.

Meditare, dunque, non e mai un ‘andare altrove’, ma permettere a se stessi di essere ciò che si è. Interi, completi, vivi: corpo e mente.

Non giudizio, fiducia e accettazione sono tre dei cosiddetti ‘pilastri’ della mindfulness: gli atteggiamenti che si sviluppano in noi meditando, e che poi ci sostengono in ogni momento, come salda roccia su cui costruire.

Ma cosa intende la dottoressa Maria Beatrice Toro con il termine pilastro?

Pilastro è ciò che è fondamentale, ciò che ‘sta sotto’, sottende, si pone come base e radicamento; la base della mindfulness è, per prima cosa, l’intenzione di calma e apertura che adottiamo ogni volta che ci apprestiamo a praticare.

E i sette pilastri, di cui il volume fornisce approfondita trattazione, altro non sono che sette atteggiamenti mentali in grado di sostenere la mente e il cuore del meditante.

L’Autrice conclude augurando ai praticanti di vivere le difficoltà prendendosi cura di se stessi e degli altri con saggezza e benevolenza.

Un giorno le onde, ovvero gli alti e bassi della vita, saranno un po’ meno impetuosi.

Se quel giorno sarai presente a te stesso, ti sentirai grato per ciò che sta accadendo… e potrai prenderti il tempo per assaporare la bellezza dell’attimo di silenzio tra due onde.

 

Ritiro Sociale e Solitudine

Il ritiro sociale patologico (PSW) è caratterizzato da una mancanza di interesse nelle relazioni sociali e da comportamenti evitanti estremi, tra cui trascorrere la maggior parte del tempo a casa. Può essere condizione psichiatrica o un tratto di personalità (Kato et al., 2012).

 

Alcuni studi hanno misurato la solitudine come fonte di distress negli individui con PSW (Teo et al., 2015). Tuttavia, non hanno confrontato la solitudine dei partecipanti con la comunità di riferimento, né valutato se la solitudine è legata al ritiro solo con i coetanei o altri gruppi sociali. La solitudine è concettualizzata come uno stato avverso ma adattivo, che emerge quando c’è una discrepanza tra le relazioni sociali desiderate e quelle percepite dagli individui (Adams, Openshaw, Bennion, Mills, & Noble, 1988). Essa agisce per segnalare una minaccia e funge da motivazione per alcune tipologie di comportamento sociale volte ad affrontare l’isolamento stesso (Cacioppo & Hawkley, 2009). La solitudine può seguire un ritiro sociale persistente (Cacioppo et al., 2015), ma anche precederlo (Hawkley & Cacioppo, 2010). Pertanto, la solitudine non è la stessa cosa dell’isolamento sociale: alcune persone possono essere sole ma non sentirsi sole, mentre altre possono essere circondate da contatti sociali, ma si sentono sole. Per quanto riguarda la PSW, alcuni ricercatori hanno sostenuto che la PSW sia una scelta di vita, quindi, ritirarsi non sarebbe necessariamente associato alla solitudine. Altri risultati suggeriscono che gli individui con PSW sono più motivati a interagire con gli altri (anche se in interazioni non faccia a faccia), ma non è chiaro se questo emerga dal sentirsi soli (Qualter et al., 2015). Il presente studio ha indagato la solitudine negli individui con PSW, ponendosi tre domande di ricerca:

  • Se ci fosse una minore vicinanza percepita nei soggetti con ritiro sociale patologico da altri gruppi sociali, rispetto ai soggetti non PSW.
  • Se ci fossero livelli di solitudine più elevati negli individui che soffrono di PSW rispetto a quelli che ne sono privi, esplorando, inoltre, se, tra quelli con PSW, la durata del ritiro e la vicinanza percepita con gli amici correlino con la solitudine.
  • Se ci fosse una correlazione tra solitudine e disturbi psichiatrici.

I partecipanti erano 343 individui di età compresa tra i 18 e i 45 anni, che hanno preso parte a un sondaggio online per valutare la frequenza della PSW a Taiwan (Wu, Catmur, Wong, & Lau, 2019).

Per valutare il ritiro sociale patologico, ai partecipanti è stato chiesto se avessero mai sperimentato i seguenti comportamenti (Koyama et al., 2010; Wong et al., 2015): “Passi la maggior parte del tuo tempo a casa?”  “Ti rifiuti di interagire con gli altri?” “Eviti di mantenere relazioni sociali?”. Le opzioni di risposta erano “sì” o “no”. In caso di risposta affermativa, hanno riferito quando il comportamento è iniziato e finito. Una versione modificata della overlap scale (Schubert & Otten, 2002) ha misurato la connessione sociale percepita con gli altri, indicando eventualmente i diversi partner sociali che potevano appartenere a diversi gruppi (famiglia/amici/estranei). In seguito, ai partecipanti è stato chiesto di scegliere un grafico tra 7 che mostravano due cerchi su una linea: i grafici differivano in base alla distanza tra i due cerchi, simbolo della distanza/vicinanza percepita tra il soggetto e ciascun partner. I grafici sono stati poi quantificati con numeri più grandi che rappresentavano la distanza percepita. L’UCLA loneliness scale (Russell, 1996) è un questionario composto da 10 item volti a misurare la percezione dei partecipanti di essere socialmente isolanti. Infine, il General Health Questionnaire 12-items (GHQ12; Chong & Wilkinson, 1989) ha permesso di valutare la presenza o meno di sintomi connessi ai disturbi psichiatrici.

I risultati hanno evidenziato che il 18.5% dei partecipanti era affetto da disturbi psichiatrici; la media della durata del ritiro sociale era dai 25 ai 33 mesi. Gli individui con PSW hanno riportato una minore vicinanza percepita con gli amici (ma non con la famiglia e gli estranei), e una maggiore solitudine rispetto a quelli senza PSW. La misura in cui si sono sentiti isolati dagli amici, insieme alla durata del ritiro, era associata con la solitudine. La solitudine e i disturbi psichiatrici erano positivamente correlati. Anche se gli individui con PSW evitano le interazioni sociali e le relazioni, il distacco con gli altri, soprattutto con i coetanei, si associa alla solitudine. Questi risultati sono tutti coerenti con le teorie psicologiche della solitudine (Cacioppo et al., 2015; Parkhurst & Hopmeyer, 1999). La solitudine può seguire il ritiro sociale, ma anche essere il fattore precipitante del ritiro sociale iniziale. Ipotizzata come uno stato adattivo per segnalare la minaccia di isolamento sociale, la solitudine può facilitare le opportunità di pianificazione di nuove strategie sociali volte alla riconnessione all’interno dei gruppi. Tuttavia, nel caso di insuccesso di tali sforzi, il ritiro sociale può protrarsi nel tempo, a sua volta alimentando la solitudine persistente. Rompere questo circolo vizioso facilitando le opportunità di riconnessione all’interno dei gruppi sociali (di amicizia) nelle prime fasi del ritiro sociale può essere estremamente utile. E’ emerso, inoltre, che le persone con comportamenti di ritiro borderline rispetto ai cutoff riportano livelli intermedi di solitudine: ciò è coerente con studi precedenti che hanno individuato che la solitudine è un fattore di rischio correlato ed anche longitudinale per molte malattie mentali (Cacioppo, Hughes, Waite, Hawkley, & Thisted, 2006).

 

Ansia: conoscerla, riconoscerla e poterla gestire – Video del Webinar organizzato da Scuola Cognitiva L’Aquila

L’ansia è un’emozione che fa parte dell’esperienza umana. A volte viene percepita come spiacevole e negativa, ma è davvero così?

 

In molte situazioni l’ansia si può rivelare come un’emozione utile per il raggiungimento di un nostro obiettivo. In questi casi si parla di ansia fisiologica o sana.

Cosa può succedere se l’ansia aumenta di intensità superando una certa soglia? In questi casi si parla di ansia patologica che può sfociare nei cosiddetti “disturbi d’ansia”.

Lo scopo di questo webinar è stato quello di illustrare l’emozione dell’ansia, i principali disturbi e i meccanismi di mantenimento ad essa collegati, come si manifestano, come identificarne i segnali e i trattamenti più indicati per poterla gestire.

Si è trattato di un evento divulgativo rivolto alla popolazione ed è stato condotto dalla dott.ssa Julianita Anselmini. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

ANSIA: CONOSCERLA, RICONOSCERLA E POTERLA GESTIRE

Guarda il video integrale del webinar

 

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Videoterapia: il passaggio alla terapia online nel periodo del Covid-19 – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

L’intervento della dott.ssa Staccini al Primo Convegno Europeo di Psicologia Digitale (ECDP) ha descritto i risultati della ricerca sulla videoterapia condotta durante il primo lockdown.

 

Nella prima giornata dell’European Conference on Digital Psychology 2021 è stato affrontato il tema molto attuale in questo momento della videoterapia. Infatti molti dei percorsi di psicoterapia già in atto oppure iniziati nel periodo da marzo a maggio 2020, periodo in cui è stato introdotto il lockdown per contenere la diffusione dei casi di Covid-19, sono stati svolti attraverso la modalità di videoterapia. Con il termine videoterapia si indicano le sedute di psicoterapia effettuate a distanza, con connessione audio video tra paziente e terapeuta. Se prima del Covid-19 questa modalità era utilizzata in maniera minoritaria, con la diffusione del virus è diventata sempre più comune e pazienti e terapeuti si sono dovuti rapidamente adattare.

Dai dati presenti in letteratura erano già noti gli effetti positivi e l’efficacia di questa forma di terapia in particolare su disturbi d’ansia e depressione, ma pochi studi hanno fino ad ora indagato gli aspetti connessi al grado di soddisfazione della videoterapia.

L’interessante studio presentato dalla dott.ssa Staccini all’ECDP ha coinvolto un campione di pazienti adulti in cura presso il Centro Medico Santagostino con diverse problematiche psicologiche, per verificare le variabili legate alla soddisfazione rispetto alla videoterapia. Sono stati presi in considerazione la familiarità e lo scetticismo rispetto alla videoterapia, l’aver avuto problemi tecnici, le difficoltà riguardo al setting e le variabili correlate alla relazione con il terapeuta.

La maggior parte dei pazienti non aveva mai fatto esperienza di videoterapia prima di quel momento, ma in gran parte avevano familiarità con l’utilizzo della tecnologia e le videoconferenze; circa un terzo inoltre era scettico sull’utilizzo della videoterapia.

Dal momento che questa modalità di terapia prevede la distanza fisica tra terapeuta e paziente e non si svolge in studio, uno degli aspetti che è stato indagato è quello del setting, cioè il posto fisico in cui si trovavano i pazienti durante le sedute: una buona percentuale dei pazienti non ha avuto difficoltà ad individuare un posto per la propria seduta, anche se sembra emergere comunque la tendenza a preferire la terapia faccia a faccia.

Altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione era quello strettamente tecnico, motivo per cui è stato richiesto di segnalare problemi tecnici e difficoltà nell’utilizzo di device o software, che sono però stati molto ridotti.

Per quanto riguarda la relazione con il terapeuta, un’alta percentuale dei partecipanti si è sentita supportata e connessa con il terapeuta nonostante la distanza fisica, non percependo grossi cambiamenti rispetto alla comunicazione con il terapeuta in presenza. Inoltre è stato rilevato come, dopo aver accettato di sottoporsi alla videoterapia, lo scetticismo nei confronti della stessa sia diminuito.

Non sembrano invece aver avuto un impatto significativo sul grado di soddisfazione l’età, l’aver avuto precedenti esperienze di videoterapia, il livello di scetticismo rispetto a questa modalità di terapia, l’efficacia percepita, l’orientamento della terapia e la durata.

Per concludere quindi questo studio ha fornito un rilevante contributo in un settore che non era mai stato centrale come in questo periodo. Si sottolinea l’importanza di assicurarsi, prima dell’inizio di una videoterapia, che il paziente possa trovare un luogo in cui si senta a proprio agio (setting) e che abbia le conoscenze minime necessarie per utilizzare la tecnologia; è risultato inoltre fondamentale per la soddisfazione la percezione di vicinanza a livello emotivo con il terapeuta nonostante la necessaria lontananza fisica. Infine, l’iniziale scetticismo ed i dubbi rispetto alla videoterapia non sembrano interferire con la soddisfazione del paziente rispetto all’intervento ed anzi il suo atteggiamento e la sua opinione a riguardo si modificano nel momento in cui gli si offre la possibilità di sperimentare questo tipo di psicoterapia.

 

Rendere umano lo psicoterapeuta: l’abbandono di idee onnipotenti e l’auto-somministrazione di questionari

Il presente articolo nasce dalla presa di consapevolezza delle necessità di mettersi continuamente in discussione e in gioco all’interno di un percorso psicoterapeutico, indipendentemente che tu sia paziente o sia il terapeuta. 

 

Inoltre, nella letteratura scientifica, è ben evidenziata l’importanza di non peccare di presunzione ritenendosi a conoscenza di tutto ciò che accade all’interno del percorso psicologico. Per tale ragione, di seguito sono riportati alcuni assunti teorici relativi al transfert e al controtransfert e la descrizione di un importante questionario self-report rivolto al clinico, finalizzato ad avere una maggiore consapevolezza delle dinamiche che si svolgono all’interno della relazione terapeutica.

Transfert e controtransfert: cenni teorici

Il transfert è un concetto psicodinamico fondamentale, che nel corso degli anni ha assunto molteplici sfumature. Secondo la tradizione classica, tale concetto riflette l’attribuzione – da parte del paziente – al terapeuta di caratteristiche proprie di una figura del passato e l’associazione dei sentimenti conseguentemente associati. Successivamente, i kleiniani e i teorici delle relazioni oggettuali hanno esteso la nozione di transfert attraverso il concetto di identificazione proiettiva, ossia ponendo attenzione al processo mediante cui il paziente proietta inconsciamente sul terapeuta una rappresentazione di se stesso o delle figure di attaccamento, esercitando una pressione interpersonale che porta il terapeuta ad assumere caratteristiche simili a quelle della rappresentazione proiettata. La psicologia del Sé, invece, ha ampliato la comprensione del transfert enfatizzando il fatto che i transfer da oggetto- Sé si realizza attraverso la ricerca di approvazione ed empatia. Il modello costruttivista ha posto l’attenzione su come i comportamenti del terapeuta contribuiscono inevitabilmente a generare la percezione che il paziente ha di lui e, in linea con tale prospettiva, tutte le più attuali concezioni concordano nell’affermare che le emozioni dei pazienti vissuti all’interno della relazione terapeutica è sempre una miscela di caratteristiche reali del terapeuta e aspetti di figure del passato, ossia esso è dato da una combinazione di vecchie e nuove relazioni (Gabbard, G. O. 2005).

Il controtransfert rappresenta l’altra metà della mela: fa riferimento alle reazioni emotive provate dal terapeuta. Più precisamente, quest’altro concetto cardine evidenzia come il paziente e il terapeuta hanno due soggettività distinte che interagiscono in maniera significativa nel corso della terapia e, analogamente al paziente, il terapeuta prova – elicitato dalla persona che ha di fronte – una variegata costellazione di reazioni emotive.

Tale visione moderna del controtransfert ha messo in luce come le reazioni emotive del terapeuta non rappresentano un ostacolo che impedisce di fornire aiuto al paziente, bensì ha evidenziato come tali vissuti forniscono preziose informazioni. Infatti, oggi, il controtransfert è ritenuto anche un strumento diagnostico e terapeutico fondamentale che dice al terapeuta molte cose sul mondo interno del paziente.

La maggior parte delle prospettive teoriche attuali considera il controtransfert come un processo che si crea nel terapeuta a partire da elementi diversi, ad esempio dalle relazioni passate del terapeuta e dai sentimenti indotti dai comportamenti del paziente (Gabbard, G. O. 2005).

Il controtransfert quindi costituisce una componente costante e imprescindibile della terapia, così come di ogni altra relazione in cui due o più soggettività distinte entrano in gioco (McWilliams, N, Caretti V., e al, 1999).

Alla luce di quanto esposto, si evidenzia la necessità – nel favorire l’efficacia del trattamento – che il terapeuta abbia acquisito un’elevata consapevolezza del proprio mondo interiore, anche perché il controtransfert è un’importante fonte informativa circa l’alleanza terapeutica.

Tuttavia, pensare di poter essere sempre pienamente coscienti di tutto che si prova – oltre a riflettere idee onnipotenti – risulta inverosimile. Per tale ragione, è importante l’utilizzo di self-report da parte del clinico nella pratica clinica.

Assessment delle dinamiche interpersonali: il Countertransference Questionnaire

Il Countertransference Questionnaire (Therapist Response) è un questionario clinician-report a 79 items, costruito per effettuare l’assessment del controtransfert in atto nella seduta: il terapeuta è chiamato ad attribuire un punteggio da 1 (per niente d’accordo) a 5 (assolutamente d’accordo) a ciascun item del report. Più precisamente, il questionario misura un ampio ventaglio di emozioni, pensieri e comportamenti dello psicoterapeuta nei riguardi del proprio paziente e può essere compilato indipendentemente dall’approccio teorico di riferimento.

Il Countertransference Questionnaire è costituito da 8 scale, le quali riflettono le seguenti tipologie di controtrasfert:

  1. impotente/inadeguato, determinato da sentimenti di inadeguatezza, incompetenza, mancanza di speranza, ansia;
  2. positivo, elicitato dall’esperienza di una positiva alleanza di lavoro e connessione/vicinanza al paziente;
  3. disorganizzato/sopraffatto, che riflette il desiderio di distanziamento dal paziente e potenti sentimenti negativi;
  4. speciale/ipercoinvolto, che riflette la sensazione che il paziente sia speciale rispetto agli altri e problemi nel mantenere i confini;
  5. erotizzato, il quale è determinato da sensazioni erotiche nei riguardi del paziente;
  6. disimpegnato, caratterizzato da senso di distrazione, distanza, fastidio, noia nelle sedute;
  7. genitoriale/iperprotettivo, elicitato dal desiderio di protezione, sostegno parentale, al di sopra e al di là dei comuni sentimenti nei riguardi dei pazienti;
  8. criticato/maltrattato, che riflette la sensazione di non essere apprezzato, di essere respinto o svalutato dal paziente.

Il terapeuta, prima e dopo la compilazione del questionario, è chiamato a riflettere sulle proprie reazioni emotive affinché queste possano favorire l’efficacia della psicoterapia, non rappresentando così un ostacolo al cambiamento del paziente.

 

I processi di costruzione identitaria nell’integrazione culturale

I giovani immigrati stranieri sono chiamati ad affrontare un duplice impegno: la ricerca della propria identità, cioè di un insieme organizzato di conoscenze, sentimenti, ricordi e rappresentazioni che si riferiscono all’individuo, e di un sentimento di continuità di sé nello spazio e nel tempo.

 

La presenza di minori e adulti di origine etnico-culturale differente nel territorio nazionale rappresenta un’affascinante sfida per la convivenza civile e i processi di trasformazione socio-culturale.

Parole come integrazione o coesione sociale non sono da ritenere nuove, bensì rappresentano parole chiave funzionali a comprendere le basi sociali di molte comunità.

Si tratta di processi che in contesti multiculturali, quali quelli delle attuali società, coinvolgono non solo dinamiche di ambientamento ma assumono un ruolo di primo piano nella definizione identitaria di soggetti immigrati adolescenti e adulti.

Il tema dell’identità è uno degli argomenti più trattati nella riflessione filosofica, sociologica e psicologica, nello specifico, in quella psico-sociale.

In particolare, in ambito filosofico, per esempio, Cartesio concepisce nel famoso Cogito ergo sum, ovvero nell’atto di ‘pensarsi’ come essere nel mondo, quindi essere ‘esistente’, l’essenza dell’identità dell’uomo: sensazioni, immagini, passioni e sentimenti riferiti a sé sono determinati dalla relazione con il mondo esterno. Secondo Aristotele, il processo identitario si può riscontrare nelle azioni pratiche che concernono l’attività politica e risiede nelle idee virtuose che risultano efficaci.

Più recentemente, il filosofo francese Jean Francois Lyotard afferma che la condizione postmoderna, caratterizzata dal veloce ed accentuato progresso in tutti i campi della scienza, provoca una crisi dei valori precedenti e, soprattutto, una crisi identitaria che comporta una frammentazione dell’identità.

La società postmoderna sarebbe caratterizzata dall’incertezza del domani, dal decentramento soggettivo, dall’egoismo individualistico cui fanno da sfondo paure che, molte volte, si riversano su possibili ‘capri espiatori’, catalizzatori delle proprie frustrazioni.

Il sociologo Zygmut Bauman, definisce ‘società liquida’ l’attuale società, di essa ne sottolinea i tratti incerti ed ambivalenti tipici di un periodo in cui vengono a mancare le abituali certezze e i valori che riguardano le istituzioni, la nazione, la famiglia ecc.

Una società caratterizzata dal bombardamento tecnologico e dalla rapidità del virtuale, offusca certamente l’introspezione funzionale alla definizione della propria identità e al riconoscimento delle proprie origini.

Da qualsiasi prospettiva venga analizzata, l’identità è, comunque, un costrutto che implica una distinzione tra sé ed il mondo esterno.

Facendo riferimento ai giovani immigrati stranieri, questi sarebbero, pertanto, chiamati ad affrontare un duplice impegno: la ricerca della propria identità, cioè di un insieme organizzato di conoscenze, sentimenti, ricordi e rappresentazioni che si riferiscono all’individuo, e di un sentimento di continuità di sé nello spazio e nel tempo.

Nel caso di tali giovani si fa riferimento a delle identità vestito o identità pelle, metafore che simbolizzano il fardello di identità sospese e, quindi, non ancora definite.

Al fine di comprendere in maniera più appropriata i delicati passaggi di cambiamento e di riorganizzazione identitaria che caratterizzano gli immigrati stranieri, e in particolare adolescenti, può essere utile richiamarci a Erikson. Egli concepisce la vita come una serie di stadi, ognuno dei quali è contrassegnato da un conflitto bipolare che deve essere risolto prima di passare allo stadio successivo. L’adolescenza è connotata dalla tensione tra identità e diffusione dell’identità, ovvero una confusione di ruoli determinata dal passare da una identificazione ad un’altra, finché il soggetto non sarà in grado di scegliere una prospettiva di sviluppo che, sebbene comporti delle rinunce, gli permetterà di incorporare un Io sicuro, grazie al quale potrà iniziare e completare compiti modellati da altri significativi, e un Io sensibile ai propri bisogni e talenti, che lo renderà capace di occupare un proprio spazio nel contesto sociale circostante. Al termine dell’adolescenza, quindi, l’identità ‘comprende tutte le identificazioni significative, ma anche le altera in modo da farne un complesso unico e possibilmente coerente’.

Superare la crisi ed impegnarsi in scelte precise conduce all’acquisizione di un’identità che, come sostiene W. Meeus, non va intesa come strutturata in modo definitivo, bensì passibile di cambiamento, quindi, dinamica. In tal senso, l’Autore preferisce sostituire il termine eriksoniano di crisi, che enfatizza il carattere strutturante dello sviluppo dell’identità, con quello di esplorazione, riferibile alla ricerca costante di un’identità appropriata.

Sempre secondo Erikson, il fallimento nel processo di acquisizione dell’identità può avere come risultato da un lato l’instaurarsi di un’identità negativa, caratterizzata dall’assunzione di modelli devianti, pericolosi o patologici; dall’altro quello della confusione dell’identità in cui prevale un senso di dispersione, incertezza circa i ruoli da assumere e di esclusione dal gruppo sociale.

Quest’ultima condizione potrebbe rappresentare una possibile opzione identitaria per i minori stranieri che non riescono a trovare un adeguato equilibrio tra la cultura di origine e quella italiana.

 

Il domatore del vento (2019) di Alberto Pellai – Recensione del libro

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta, nel libro Il domatore del vento racconta la storia di Jacopo, un bambino che, dopo una brutta esperienza, sviluppa una forte paura del vento, imparando ad addomesticarla solo grazie alla vicinanza del padre.

 

Questo piccolo libricino ha una doppia valenza: da una parte, attraverso un linguaggio semplice e diretto, aiuta il piccolo lettore a capire che anche lui come il protagonista può vincere le sue paure; dall’altra diventa per l’autore un espediente attraverso il quale spiegare agli adulti il modo per favorire lo sviluppo dell’intelligenza emotiva nei bambini, che è un fondamento indispensabile per la formazione della loro identità ed autostima.

Nei bambini la paura si manifesta in maniera differente in base all’età ed in ciascun individuo, spesso il disagio non riesce ad essere espresso o elaborato nella mente del bambino e viene trasferito sul piano somatico per esternarlo: tutto ciò che impone un adattamento troppo repentino suscita spavento ed anche un banale imprevisto può far sorgere delle paure. Nel processo di scoperta, per imparare a gestire tutte queste novità senza esserne sopraffatto, è fondamentale il sostegno e la protezione dell’adulto.

Compito di quest’ultimo è quindi quello di favorire lo sviluppo della regolazione emotiva attraverso tre stadi:

  • validare lo stato emotivo (significazione);
  • attribuirgli un significato (alfabetizzazione emotiva);
  • permetterne l’autoregolazione nel bambino che la sperimenta.

Facilitata da un metodo simbolico-concreto che permette una più semplice identificazione per i piccoli, la regolazione emotiva implica la costruzione, insieme al bambino, di un contenitore emotivo in cui travasare tutte le emozioni ed ordinarle in modo che non si senta in balia di esse ma riesca a comprenderle nel loro significato per riportare calma.

L’evitamento è un problema centrale nella gestione dell’ansia; per vincere le proprie paure è necessario affrontarle ma questo non significa forzare il bambino in modo improvvisato.

Da parte dell’adulto è importante in questo percorso sfuggire a due comportamenti molto comuni: in primo luogo di fornire al bambino una protezione totale, la cui conseguenza è lo sviluppo di una passività di fronte alla paura che in questo modo viene alimentata; in secondo luogo la negazione dell’emozione esperita, poiché il bambino sentendosi incompreso percepisce di non potersi affidare al sostegno degli adulti in situazioni di difficoltà.

In sintesi, lo sviluppo della regolazione emotiva comporta, da parte di genitori ed insegnanti, una capacità di sintonizzazione con gli stati emotivi del bambino e, all’interno della relazione privilegiata che egli stabilisce con gli adulti, la possibilità di riconoscerli come validi e densi di significato, per poi poterli gestire e autoregolare. Ciò significa compiere uno spostamento da una situazione di passività al riconoscimento di ciò che provoca turbamento, addomesticando il senso di disagio che deriva da esso, elaborandolo ed incorporandolo in un nuovo equilibrio.

 

Mindfulness per fronteggiare lo stress nelle liti di coppia

Gli autori hanno scelto di studiare se adottare strategie derivate dalla mindfulness durante una lite di coppia potesse limitare l’aumento dei livelli di stress.

 

“L’amore è bello se non è litigarello!” Si, ma che fatica discutere con il proprio partner! Chi ha avuto una relazione sentimentale, o chi attualmente fa parte di una coppia, sa quanto può essere stressante avere una lite con la propria metà. Sebbene sia noto che le relazioni amorose possano conferire numerosi vantaggi, i conflitti che vi si possono creare potrebbero compromettere il benessere dei partner sia a livello soggettivo, sia in termini fisiologici (Cramer, 2002; Kiecolt-Glaser et al., 2005). In particolare, il conflitto che coinvolge comportamenti aggressivi o di ritiro ed alti livelli di negatività affettiva appare davvero dannoso (Robles e Kiecolt-Glaser, 2003).

Una soluzione per regolare lo stress che si verifica durante le liti amorose può essere trovata nella mindfulness, disciplina in cui si praticano consapevolezza ed attenzione centrata sul momento presente, caratterizzata da apertura non giudicante e curiosità. Diversi studi su un programma di miglioramento della relazione basato sulla consapevolezza hanno mostrato progressi nella soddisfazione della relazione e nel benessere soggettivo, che a loro volta appaiono correlati a miglioramenti nel modo in cui i partner affrontano il conflitto (Carson et al., 2004; Gambrel e Piercy, 2015a, 2015b). In particolare, questi studi hanno riscontrato un incremento nell’accettazione reciproca dei partner, nonché nella capacità di assunzione di prospettiva dell’altro e nella risoluzione generale dei conflitti. Sulla base di queste ricerche è possibile affermare che la pratica della consapevolezza è d’aiuto non solo nel mutamento dei comportamenti che i partner usano durante il conflitto, ma anche nel miglioramento delle abilità che consentono loro di comprendere e resistere alle azioni negative del partner con maggiore equanimità.

Proprio per questi motivi, Laurent e colleghi hanno svolto uno studio il cui obiettivo era indagare se adottando un atteggiamento di consapevolezza non giudicante del momento presente, attitudine propria della mindfulness, un partner potesse tamponare gli effetti dei comportamenti negativi della sua dolce metà sulle risposte allo stress durante un litigio amoroso (Laurent et al., 2016). Insomma, gli autori hanno scelto di studiare se adottare strategie mindful durante una lite di coppia potesse limitare l’aumento dei livelli di stress.

Nella sperimentazione, 88 coppie eterosessuali hanno fornito 5 campioni di saliva per il dosaggio del cortisolo, ormone correlato ai livelli di stress, prima, durante e dopo una sessione di laboratorio che consisteva in un’attività di discussione centrata sui conflitti. Inizialmente ciascuna coppia ha scelto un argomento di discussione irrisolto, e in seguito è stata istruita sulle strategie mindful da mettere in pratica durante la conversazione, quali: prestare attenzione consapevole a qualsiasi cosa si verificasse nel colloquio, assumere quanto più possibile la prospettiva del partner, concentrarsi sui propri pensieri e sentimenti legati al problema in questione. Infine, ciascuna coppia ha dato inizio alla conversazione, applicando le tecniche apprese (Laurent et al., 2016). I comportamenti di conflitto sono stati codificati da osservatori esterni utilizzando il System for Coding Interactions in Dyads, ovvero il Sistema per la Codifica delle Interazioni nelle Coppie, mentre i partner hanno valutato la loro consapevolezza durante l’attività compilando la Toronto Mindfulness Scale (Malik & Lindahl, 2004; Lau et al., 2006). Le interazioni testate hanno rivelato che i partecipanti con livelli più elevati di consapevolezza durante il conflitto hanno mostrato un recupero più rapido dei livelli standard di cortisolo o un’assenza di rallentamento nel ritorno al normale livello di tale ormone. Ciò sta a significare che i partner più mindful riuscivano a gestire meglio lo stress derivato dal conflitto, applicando la pratica della consapevolezza nel momento della coppia più difficile da fronteggiare.

Si è potuto osservare che la curiosità, componente attitudinale della consapevolezza, ha moderato gli effetti del coinvolgimento negativo del partner nel conflitto cioè, tentativi di controllo sull’altro, coercitività, negatività e tendenza alla collisione. In poche parole, il compagno più aperto e mindful era meno incline a controllare e ad opprimere l’altro durante la lite, aveva un atteggiamento più positivo, e tendeva a mantenere un clima pacifico durante la discussione.

Veniamo poi al decentramento, o defusione, che è una componente attenzionale della consapevolezza per cui ci si de-identifica dai propri pensieri. Secondo l’Acceptance and Commitment Therapy, psicoterapia che trae origine dalla mindfulness, si tratta di un processo nel quale le persone arrivano a sperimentare i pensieri “semplicemente come pensieri”, eventi passeggeri che non bisogna necessariamente controllare (Hayes et al., 2005). Per fare un esempio, nella frase “Io sono una persona iraconda” chi parla è fuso con il pensiero riferito a se stesso, si identifica con esso. Apprendendo le basi teoriche della mindfulness si impara quindi che è bene decentrarsi dalle proprie credenze negative. Ne consegue che la precedente affermazione si trasforma in “Sto avendo un pensiero secondo cui sono una persona iraconda”. Ebbene, nella sperimentazione del team di Laurent il decentramento ha moderato la tendenza di ritiro del partner (Laurent et al., 2016). Ciò significa che il partner decentrato dal suo pensiero negativo tendeva a coinvolgere l’altro nella conversazione, limitandone la tendenza al ritiro e al rifiuto. Questi risultati supportano l’idea che utilizzare la mindfulness durante un’interazione stressante per la coppia possa mitigare gli impatti fisiologici dei comportamenti negativi. Se chi sta leggendo ha intenzione di migliorare la qualità dei diverbi di coppia per limitarne lo stress correlato, alla luce degli studi di cui sopra potrebbe tener conto di approcciarsi al mondo della mindfulness, apprendendo nuove tecniche volte al benessere con curiosità ed apertura.

L’applicazione della MCT nel disturbo da uso di alcol – Il sesto episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del sesto episodio della serie dedicato all’applicazione della MCT nel disturbo da uso di alcol.

 

L’APPLICAZIONE DELLA MCT NEL DISTURBO DA USO DI ALCOL

 

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