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Pazienti psicotici e condotte aggressive: le correlazioni

Solitamente i pazienti affetti da psicosi non sono violenti, ma se si confrontano con la popolazione generale hanno una maggiore probabilità di manifestare condotte aggressive (Volavka, 2008).

 

Laddove si evidenziano le condotte violente, esse sono dirette prevalentemente verso i propri familiari e verso gli operatori sanitari (Faay e al., 2020). I comportamenti ostili nei confronti dell’alterità sono inversamente proporzionali alla percezione della qualità della vita. In pratica, essi decrescono man mano che migliora la qualità della vita dei pazienti psichiatrici.

Le condotte violente sono state correlate con l’impoverimento dei rapporti sociali, che sovente si instaura nei pazienti affetti da psicosi (Lahera e al., 2015). In aggiunta, alcune peculiarità quali il sesso maschile, le condizioni economiche disagiate, l’uso della cannabis (Witt e al., 2013; Moulin e al., 2018), che caratterizzano alcuni pazienti psicotici, predispongono all’incremento delle condotte violente. Inoltre, alcuni soggetti psicotici, che manifestano tendenze suicide, un’impulsività marcata e fasi di eccitazione maniacale, hanno maggiori probabilità di sviluppare comportamenti violenti (Witt e al., 2014).

Alcune criticità, che si sono verificate durante il periodo infantile, possono incrementare nell’età adulta i comportamenti aggressivi e violenti nelle persone a cui è stata diagnosticata una sindrome schizofrenica. Infatti, l’aver subito abusi fisici e sessuali nell’età evolutiva può implementare la tendenza alla violenza (Swanson e al., 2006; Bosqui e al., 2014). In aggiunta, difficoltà nelle relazioni sociali con deficit delle abilità sociali durante l’infanzia e l’adolescenza possono aumentare le condotte violente negli adulti psicotici (Fresán e al., 2004).

Nei pazienti psicotici, che hanno dei comportamenti aggressivi nei confronti dell’alterità, si trovano con una certa costanza una serie di tentativi di suicidio. Questa constatazione conduce all’ipotesi che esiste una stretta correlazione fra aggressività verso se stessi e aggressività verso gli altri (Witt e al., 2013; Witt e al., 2014). Alla base di questa aggressività ci sarebbe, probabilmente, una spiccata tendenza all’impulsività.

Una recente ricerca (Faay e al., 2020) ha seguito per 6 anni 1119 pazienti ai quali era stata diagnosticata una sindrome psicotica. Solo il 2,8% dei soggetti monitorati ha messo in evidenza dei comportamenti aggressivi. Di questa percentuale, lo 0,8% si è reso responsabile di azioni che hanno messo in pericolo l’incolumità altrui e l’1,8% è stato protagonista di maltrattamenti verso persone del proprio entourage. I comportamenti violenti nei confronti dell’alterità sono stati più frequenti nei soggetti che hanno manifestato un’ideazione suicidaria e sono di sesso maschile. Si sono resi responsabili di maltrattamenti gli individui che nella loro infanzia hanno subito un abuso o sono stati oggetto di trascuratezza genitoriale.

In conclusione, i pazienti psicotici hanno una bassa probabilità di sviluppare comportamenti violenti. Tale condotte appaiono più frequenti nei soggetti che manifestano una spiccata impulsività, presentano un’ideazione suicidaria, hanno una qualità della vita scadente con scarse frequentazioni sociali e mostrano una tendenza alla maniacalità. Inoltre, la tendenza all’aggressività viene implementata da alcune caratteristiche socio – demografiche, quali il sesso maschile e le condizioni economiche disagiate. Frequente è l’associazione dei comportamenti violenti con alcune peculiarità presenti nella storia di vita, quali l’essere stati oggetto di abuso durante l’infanzia, l’aver avuto difficoltà sociali nel periodo adolescenziale e il provenire da una famiglia inadeguata.

 

Mindful Parenting. Per costruire una relazione consapevole con i nostri figli (2020) di Susan Bogels – Recensione del libro

Alzi la mano chi non ha ancora sentito parlare di mindfulness. Ora alzi la mano chi, tra quelli che leggono, è un genitore che non hai mai pensato almeno una volta di avere bisogno, magari in una giornata frenetica, di cinque minuti per sé in totale calma. 

 

Essere genitori è una delle sfide più grandi della vita, se chiedessi a un genitore di descrivere il proprio ruolo sicuramente riceverei un racconto fatto di felicità e emozioni positive ma anche di giornate frenetiche, di scuola e di compiti e di impegni sportivi, in poche parole di quotidianità. In questa normalità della vita ci sono anche emozioni (legittime) quali lo stress e la paura della responsabilità che il ruolo genitoriale ricopre in riferimento al legame che ogni giorno costruisce con i propri figli.

Di mindfulness, legami genitore-figli e di come rispondere in maniera funzionale alle emozioni che incombono parla il libro Mindful Parenting di Susan Bolges, edito da Enrico Damiani editore e curato nella versione italiana da Nicoletta Cinotti, che firma l’introduzione al volume raccontando con uno stile personale ed empatico il proprio incontro con la mindfulness durante l’adolescenza del figlio.

Olandese di nascita, l’autrice del libro, Susan Bolges, dedica parte della prefazione e dell’introduzione al volume a spiegare come la mindfulness le abbia cambiato la vita professionale e privata. Genitore, psicoterapeuta e ricercatrice sviluppa nel corso degli anni il programma Mindful Parenting interamente dedicato ai genitori, dalle otto sessioni di questo protocollo traggono ispirazione gli undici capitolo del libro.

Un volume che spiega il valore della pratica all’interno delle interazioni personali con uno stile accessibile dedicato a genitori, nonni, educatori o a chiunque abbia a che fare con le relazioni e i legami che da queste nascono. Ma in che modo possiamo applicare la mindfulness al nostro essere genitori? Secondo l’autrice la consapevolezza mindful può aiutare a vivere il ruolo genitoriale scevro da sentimenti quali paura e frustrazione che attivano, in certi casi, risposte eccessive. Tali risposte condizionate deriverebbero da quelli che il testo definisce “genitore esigente” e “genitore punitivo” che, interiorizzati a nostra volta dalla relazione con i nostri genitori, agiscono come schemi mentali automatici influenzando il rapporto con i figli e fanno vivere il nostro ruolo da mamma e papà come stressante. In quest’ottica il programma Mindful Parenting può aiutarci ad essere maggiormente consapevoli del nostro modo di reagire e conseguentemente della nostra immagine da genitori.

Il libro presenta undici capitoli e invita ad affrontarne uno a settimana avviando una sorta di programma. Non esiste mindfulness senza pratica, ecco perché dopo la parte teorica di ogni capitolo che aiuta a comprendere l’intento delle sessioni, troviamo una serie di esercizi accompagnati da tracce audio (direttamente scaricabile dal sito dell’editore) per provare quanto finora appreso. L’intero libro propone diverse pratiche da sperimentare alcune anche insieme ai nostri figli, perché di questo si sta parlando.

I capitoli iniziali introducono alle diverse meditazioni con uno stile accogliente, il lettore si può immedesimare nei racconti personali dell’autrice richiamando alla mente esperienze personali vissute. Affrontate le diverse pratiche, l’autrice propone la creazione di un programma settimanale personale per permettere di decidere in autonomia quanto e quando praticare. Sul finire del volume la riflessione si eleva ancora di più, viene infatti chiesto al lettore di pianificare in che modo introdurre quanto ormai appreso all’interno della quotidianità propria e della famiglia.

Dopo averlo svolto di settimana in settimana paragonerei Mindful Parenting a un sentiero di montagna da percorrere passo dopo passo sentendo la fatica ma godendosi il viaggio per scoprirsi ogni giorno di più esploratori di sé e godere poi alla fine della nuova consapevolezza conquistata e di ciò che il cammino ha lasciato in noi. Nota di merito per l’appendice finale che oltre a proporre alcuni consigli mindful nella vita da genitori, offre utili informazione sulla diffusione di questo programma nel panorama italiano: suggerisce infatti il modo di trovare i diversi professionisti formati, informa sulle modalità per diventare istruttore e cita l’Associazione Family Connections di Genova che si occupa di diffondere la conoscenza del Disturbo Borderline di personalità e grazie alla quale si è diffuso il programma Mindful Parenting.

Per concludere, Mindful Parenting è un ottimo volume grazie anche all’egregio lavoro svolto dalla curatrice italiana, un’unione di ricerca scientifica ed esperienza personale che apre le porte a una riflessione ampia, e al tempo stesso propria di ognuno, riguardante il carico emotivo che accompagna l’essere genitori che pare sia, come si dice, il mestiere più difficile del mondo.

 

Resilienza, attivazione e disregolazione emotiva: quali implicazioni nell’insonnia?

L’insonnia è uno dei più frequenti disturbi del sonno (Darien, 2014) che colpisce circa un terzo della popolazione adulta.

 

Trattandosi di una problematica che compromette il funzionamento individuale e che provoca alti costi diretti ed indiretti per il sistema sanitario, (Léger & Bayon, 2010; Damien Léger et al., 2014), è stata classificata dal DSM-5 come condizione indipendente, spesso in comorbilità con malattie mentali e fisiche (Damien Léger et al., 2014).

La letteratura ha studiato i meccanismi coinvolti nello sviluppo e nel mantenimento dell’insonnia, che secondo il modello 3P (Spielman, Caruso, Glovinsky, 1987) si suddividono in fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.

Mentre i fattori predisponenti sono antecedenti l’insonnia e costituiscono una vulnerabilità, quelli precipitanti, con cui interagiscono, ne aumentano il rischio e sono rappresentati dagli eventi stressanti di vita.

Gli aspetti di mantenimento della patologia, sono un’elevata attivazione cognitiva e fisiologica in risposta allo stress (Bonnet & Arand, 2010). Infatti, il fattore stressante precipitante, comporta iperattivazione tra coloro che sono normalmente più reattivi; interrompendo e compromettendo repentinamente il normale riposo (Bonnet & Arand, 2010).

La resilienza, etichettata come capacità di superare in modo adattivo lo stress mantenendo un normale funzionamento psicologico e fisico (Masten, 2007), si sviluppa dall’esperienza individuale e costituisce nel quadro dell’insonnia, un fattore di tratto o predisponente (DiCorcia & Tronick, 2011).

Bassi livelli di resilienza correlano con disregolazione emotiva e difficoltà nella risposta allo stress (Britt et al., 2016), che comportano maggiore vulnerabilità ad eventi stressanti e suscettibilità a disturbi psichiatrici (Wu et al., 2013).

Inoltre, una bassa resilienza tra coloro con insonnia, oltre a contribuirne lo sviluppo, rischia di cronicizzare tale condizione interagendo con la reattività del sonno legata allo stress, la disregolazione e l’attivazione emotiva (aspetti che ne favoriscono il mantenimento).

Lo studio di Palagini et al. (2018) ha confrontato 58 individui con insonnia e 38 senza insonnia valutandone la resilienza, la reattività del sonno legata allo stress, l’attivazione nella fase di addormentamento e la regolazione delle emozioni, monitorando la presenza di ansia e dei sintomi depressivi associati.

In seguito, ha testato se tra coloro aventi insonnia una bassa resilienza fosse associata a reattività del sonno ed attivazione emotiva elevata, aspetti che a loro volta potevano contribuirne allo sviluppo ed al suo mantenimento.

I soggetti con insonnia riportavano maggiore reattività nel sonno nella fase di addormentamento e, sebbene non soddisfacessero i criteri per un disturbo d’ansia o depressivo, hanno mostrato una variabilità sintomatologica, coerentemente con il fatto che l’insonnia è altamente in comorbidità con queste condizioni (Harvey, 2008).

Inoltre, similmente alle indagini precedenti, chi soffriva di insonnia aveva livelli più bassi di resilienza e maggiori difficoltà nella regolazione delle emozioni rispetto a chi dormiva bene (Baglioni et al., 2010).

In accordo con la letteratura, bassi livelli di resilienza tra questi individui correlavano con una maggiore reattività del sonno legata allo stress al netto di ansia e depressione, oltre che iperattivazione cognitiva e somatica in fase di addormentamento e disregolazione emotiva, coerentemente con indagini precedenti (Baglioni et al., 2010). Queste associazioni non sono emerse tra coloro che dormivano bene.

Nel dettaglio, chi dormiva bene riportava livelli più elevati di resilienza, mentre coloro che soffrivano di insonnia mostravano maggiori difficoltà nella capacità di pianificazione orientata agli obiettivi, di organizzare il tempo e la routine, oltre che difficoltà nel pianificare in anticipo e formulare obiettivi chiari.

Una bassa resilienza predispone all’insonnia in quanto rende scarsamente adattabili allo stress, aumentando la reattività del sonno a causa della situazione stressante vissuta come ingestibile, che a sua volta porta ad un aumento della risposta fisiologica ed emotiva. Alla base c’è una difficoltà nella regolazione emotiva ed un’attivazione che provocano maggiore arousal in fase di addormentamento, perpetuando l’insonnia.

Inoltre, una scarsa capacità di adattarsi alle difficoltà della vita è anche il fattore di mantenimento dell’insonnia, poiché favorisce la disregolazione emotiva e l’iperattivazione in fase di addormentamento.

Le difficoltà nella regolazione emotiva, agivano come mediatore nella relazione tra fattori predisponenti di tratto (bassa resilienza) e fattori di stato che perpetrano l’insonnia (come l’attivazione cognitiva in fase di addormentamento), mettendo in luce una complessa interazione tra i fattori di rischio riscontrata anche in letteratura (Baglioni et al., 2010).

Da parte dei clinici, poter valutare tali elementi di vulnerabilità è prioritario in quanto consente di individuare quei soggetti più a rischio, che possono beneficiare di strategie di prevenzione e di intervento precoce per l’insonnia e le sue condizioni di comorbilità. Ad esempio, l’incremento della resilienza potrebbe prevenire l’insorgenza di psicopatologie indotte dallo stress, tra cui l’insonnia stessa.

Inoltre, considerare gli aspetti di regolazione emotiva, strettamente implicati con la capacità di far fronte allo stress in modo adattivo (Britt et al., 2016), rende necessario un trattamento mirato alla componente affettiva, da integrare a quello standard per l’insonnia.

 

Covid 19: i risvolti psicologici sulla popolazione e sulla psicoterapia. Accettazione, resilienza e malessere generalizzato – Editoriale di Cognitivismo Clinico

Pubblichiamo con piacere l’editoriale dell’ultimo numero della rivista Cognitivismo Clinico. Nell’articolo Giuseppe Femia presenta i contributi che tutti possono scaricare gratuitamente dai seguenti siti (come anche i numeri arretrati):

Si tratta di un numero speciale dedicato alla pandemia e che ha per titolo: Covid 19: i risvolti psicologici sulla popolazione e sulla psicoterapia. Accettazione, resilienza e malessere generalizzato.
Il numero contiene inoltre un articolo speciale di particolare di interesse scritto da  Francesco Mancini e Guyonne Rogier che illustra “Le linee guida per il trattamento psicologico del disturbo ossessivo compulsivo”.

 

Il numero monografico di Cognitivismo clinico che presentiamo (n. 2 dicembre 2020) vuole contribuire ad indagare l’impatto che la pandemia da SARS-CoV-2 (COVID-19) e le conseguenti misure di isolamento sociale hanno avuto sia sui professionisti della salute mentale che sui pazienti. Come riportano i dati in letteratura (Giallonardo et al., 2020), l’impatto della pandemia sulla salute mentale della popolazione mondiale è, o potrebbe divenire, inevitabilmente negativo (Rajkumar, 2020). Pertanto, appare rilevante indagarne gli effetti anche nel nuovo contesto delle psicoterapie online, oltre che nelle strutture di cura.

Nel primo contributo di Perdighe, Brasini, Giacomantonio et al., l’accento è posto sui fattori potenzialmente protettivi per fronteggiare l’impatto psicologico ed esistenziale della pandemia: l’accettazione di un evento negativo straordinario, intesa come capacità di far rientrare l’evento nella propria rappresentazione dell’ordine naturale delle cose. La spiegazione che soggettivamente, e come comunità, si è in grado di darsi di un evento di tale portata – come vendetta della natura che si ribella all’uomo, come complotto ordito da un gruppo di malvagi, come espressione di un piano divino o come, appunto, rientrante nel flusso naturale degli eventi, quindi legato all’epidemiologia e alla virologia. Dunque, la spiegazione individuale che ciascuno formula riguardo l’epidemia modifica l’impatto dell’evento avverso sulla vita psichica degli individui. A riguardo è noto come la mancata accettazione degli eventi avversi possa giocare un ruolo nel mantenimento della sofferenza psicopatologica.

Il secondo contributo di Femia, Federico, Ciullo et al. approfondisce le strategie di coping messe in atto nel contesto pandemico in relazione ai tratti personologici. In particolare, l’accettazione e l’evitamento, posti ai poli di un continuum ideale, appaiono fattori cruciali nel favorire o meno lo sviluppo e la persistenza della sofferenza psicologica e delle manifestazioni sintomatiche. Un funzionamento caratterizzato da tratti di affettività negativa e tratti di distacco insieme a strategie di coping di evitamento, negazione e conflitto, appaiono correlati all’insorgenza e all’aggravamento della sintomatologia ansiosa e di un generale assetto emotivo che non consente di fronteggiare questo evento in modo funzionale e adattivo.

Il successivo contributo di Attili è uno studio svolto nella popolazione medico-sanitaria e nei pazienti affetti da COVID-19 alla luce della teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1979). I modelli mentali dell’attaccamento individuali possono fare da “diatesi da stress”; secondo l’Autrice, l’attivazione parallela dei Sistemi di Difesa, Attaccamento e Accudimento, determina una condizione di natura stressogena. Nello specifico, viene evidenziato come coloro che hanno un modello di attaccamento insicuro, rispetto a coloro che hanno invece avuto un’esperienza di attaccamento connotata da sicurezza e protezione, rischiano di sviluppare maggiori sintomi di ansia e malessere psicologico e, dunque, si mostrano maggiormente vulnerabili rispetto a quei fenomeni di facile riscontro in manifestazioni da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD).

Il quarto contributo di Femia, Gragnani, Federico et al. raccoglie i punti di vista dei terapeuti e dei pazienti allo scopo di osservare il tema della psicoterapia online indagandone la qualità, l’autoefficacia percepita e le difficoltà legate al setting online, evidenziandone limiti e vantaggi. Ciò che emerge è che l’essere stati costretti dalla pandemia a questo notevole cambiamento di setting ha sollevato difficoltà sia nei pazienti che nei terapeuti, dove per questi ultimi le preoccupazioni riguardo all’autoefficacia percepita rispetto all’intervento e alla qualità della comunicazione con i propri pazienti, non è solo ascrivibile ad una maggiore o minore familiarità con i device tecnologici o con l’esperienza di terapia online pregressa, ma è legata a doppio filo col pregiudizio e le credenze al negativo dei pazienti circa il setting online, che sembrano avere un’influenza sulla percezione della qualità degli interventi erogati in questa modalità. Lo studio però non manca di sottolineare come i dati rimandino vantaggi tali da poter pensare il setting online non solo come funzionale alla gestione dell’emergenza, ma anche come possibile alternativa al setting standard, senza ovviamente escludere o sostituire l’osservazione clinica in presenza.

Nei due successivi contributi di Amadei, Bucci, Benetta et al. e di Arcuri, Castellani, Pellegrini et al. si approfondisce il tema dell’impatto della pandemia e delle conseguenti misure di isolamento sociale nel personale sanitario. I primi (Amadei et al.) spiegano come a fronte di una attivazione ansiosa legata alla continua e maggiore esposizione al virus, con tutto il correlato di responsabilità cui le persone che svolgono professioni di aiuto sono state esposte, si è osservato un basso rischio di burnout e minori livelli di alessitimia, contrariamente a quanto si potesse intuitivamente pensare. Dunque, partecipare attivamente all’emergenza sanitaria sembra avere contribuito al mantenimento di un maggiore senso di efficacia, nonostante la maggiore esposizione allo stress lavorativo e ai rischi psicofisici. I secondi (Arcuri et al.), mettono invece in luce come l’intervento basato sull’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes et al.,1999), che ha lo scopo di aiutare ad accettare ciò che è fuori dal proprio controllo personale, ha mostrato nella popolazione di operatori sanitari che hanno partecipato allo studio, una riduzione dei sintomi ansiosi e depressivi, fino alla loro completa remissione. È fondamentale, quindi, continuare a sottolineare come, per le professioni di aiuto, siano essenziali tempi e spazi di attenzione alle necessità del singolo operatore, al fine di imparare a non contrastare gli eventi, ma ad accettarli volgendo lo sguardo ai propri valori, tanto più se sollecitati da un contesto pandemico così doloroso e complesso.

Il contributo di Cazzola, Castegnaro, Buscaglia et al. amplia l’indagine e la concentra sui vissuti sia dei pazienti che dei componenti dell’équipe multidisciplinare dell’Unità Funzionale per i Disturbi dell’Alimentazione (U-DA) della Casa di Cura “Villa Margherita” di Arcugnano: appare indispensabile non solo ripensare tutti i livelli di cura per patologie gravi come i DA, ma anche migliorare i protocolli di cura e la formazione degli operatori coinvolti.

Segue la proposta di Battagliese, Ledda, Attilia et al., vale a dire un’indagine sui comportamenti maladattativi nella popolazione generale, che sottolinea e conferma come la situazione pandemica, in particolare il primo lock-down, abbia contribuito all’emergere di comportamenti disadattativi, poco salutari, che potrebbero essere letti come potenziali fattori di rischio per possibili effetti negativi sulla salute mentale a lungo termine. L’aspetto preventivo appare dunque necessario e da potenziare, al fine di contenere e gestire in modo funzionale i rischi che il confinamento sociale ha comportato e comporterà per la salute mentale.

Chiudiamo questo numero dedicato agli effetti psicologici della pandemia da COVID-19 offrendo due ulteriori contributi. Mancini e Rogier forniscono, come intervento conclusivo di questa ricca monografia, una panoramica dettagliata circa le Linee Guida internazionali (NICE e APA) esistenti nel trattamento psicoterapeutico del DOC, a cui fare riferimento al fine di offrire al clinico, sulla base delle più influenti evidenze empiriche, una sintesi pragmatica e clinica circa i diversi trattamenti di elezione per i pazienti con DOC, vale a dire il gold standard: la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) che si basa essenzialmente su tecniche di tipo comportamentale quali ad esempio l’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP). Inoltre, viene ribadita l’importanza di promuovere un trattamento combinato sia di tipo psicoterapeutico che farmacologico e forniti suggerimenti circa la gestione delle recidive e la fine del trattamento. Non si trascura la soggettività di ciascun caso al fine di fornire procedure terapeutiche pensate ad hoc per ogni paziente; ad esempio, viene discussa la necessità di fornire sedute di ERP a domicilio nei casi di DOC in cui il soggetto è compromesso al punto tale da non poter uscire dalla propria abitazione, o in quei casi gravi in cui si potrebbe proporre un trattamento intensivo di tipo domiciliare, o coinvolgere un convivente nei casi di DOC resistente alla terapia TCC, oltre che ribadire l’importanza di far partecipare i familiari all’interno del trattamento del DOC in età evolutiva, soprattutto con lo scopo di agire sui fattori di mantenimento che questi possono involontariamente promuovere. Al contempo appare necessario collocare questo contributo nella più ampia cornice di riferimento riguardante gli effetti psicologici della pandemia sulla salute mentale. Si sottolinea infatti un significativo aumento nella popolazione generale dei comportamenti a connotazione ossessiva e compulsiva in aggiunta a livelli elevati di preoccupazione, ansia e vissuti di tipo depressivo.

Per tale ragione, appare necessario leggere tale contributo in riferimento all’attuale situazione legata al COVID-19, che proprio sui pazienti con DOC potrebbe avere avuto e avere in futuro (tema questo controverso) un impatto del tutto peculiare, elicitando alcuni temi salienti di tale disturbo nella più ampia popolazione, quali il disgusto, la paura del contagio, il controllo e la temuta responsabilità.

Infine, Giuseppe Nicolò recensisce il libro “CBT Case Formulation as Therapeutic Process”, curato da Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli, in cui il concetto fondamentale riguarda la condivisione della formulazione del caso quale strumento che consente di gestire vari aspetti del processo psicoterapeutico, aumentando anche le capacità metacognitive del soggetto e la consapevolezza circa il proprio funzionamento e disagio.

Una vita degna di essere vissuta (2021), il nuovo libro di Marsha Linehan – Recensione di Giovanni M. Ruggiero

Una vita degna di essere vissuta racconta la storia di Marsha Linehan e del suo percorso di guarigione, e forse di redenzione, che la portò a cercare di aiutare le persone nella sua stessa condizione, persone con una sofferenza mentale estrema, quella autolesiva, e a rischio di suicidio.

 

Il primo insegnamento dell’autobiografia personale, professionale e intellettuale di Marsha Linehan Una vita degna di essere vissuta proviene dalla sua forma, che è appunto quella dell’autobiografia. La Linehan ci dice che ogni sapere proviene dall’esperienza e che, come scriveva Nietzsche, tutto è biografia. Inizia come una smisurata confessione. Che investe il lettore con violenza imprevedibile: la storia di Marsha Linehan è una storia di sofferenza inaudita, in cui la protagonista ha sfiorato la pazzia, quella vera, quella da manicomio. Come racconta essa stessa, Linehan cadde nella tarda adolescenza in un gravissimo stato depressivo accompagnato da comportamenti estremamente autodistruttivi, come lanciarsi ripetutamente sul pavimento da una sedia o il tagliarsi la pelle delle braccia: nello stato di sofferenza emotiva in cui versava, il dolore dell’urto brutale del corpo e perfino delle ossa sulle superfici dure era un sollievo. Per questa strada Marsha Linehan finì per essere ricoverata in strutture psichiatriche manicomiali e ci rimase per 26 mesi, rischiando davvero l’internamento definitivo.

Per fortuna lo schivò. Fortuna sua ma anche nostra, perché da quel momento iniziò un percorso di guarigione, e forse di redenzione data l’affascinante vena mistica, sia cristiana che non, che accompagna la vita di questa autrice. Redenzione che la portò a cercare di aiutare gli altri che si trovavano nella sua condizione, la sofferenza mentale estrema, quella autolesiva e a rischio di suicidio. Redenzione che passa per pubbliche confessioni già prima di questo libro: note sono le stigmate che Linehan si porta addosso, le cicatrici dei tagli e delle bruciature che marcano il suo corpo.

A questo punto l’autobiografia da personale si tramuta in professionale e intellettuale. Attenzione, però: non si perde nulla dell’aspetto personale, sempre presente. Linehan continua a confidarci i suoi sentimenti, i suoi stati più intimi, le sue relazioni di amicizia e d’amore, i suoi problemi. Linehan, com’è noto, intraprese il percorso comportamentale, formandosi con Jerry Davison e Marvin Goldfried. Questa impronta non la ha mai persa, e ha improntato tutto il suo sviluppo successivo, che comportamentale è rimasto. Colpisce come in questa evoluzione Linehan non abbia avuto mai nulla a che fare con il cognitivismo standard di Beck, la cui impostazione sembra da lei più che lontana: estranea. Gli interventi di Linehan sono tutti focalizzati sulla modificazione comportamentale e vedremo che, anche quando aggiungerà la dimensione mentale, essa sarà tutta informata a una gestione dei processi mentali come eventi interni in grado di influenzare ed essere influenzati. In Linehan, da brava processualista, i pensieri sono fenomeni dotati di effetti contestuali e non di significati essenziali profondi e in quanto tali vanno valutati, in base alle loro mere conseguenze pratiche e non in base a un’essenza intrinseca. È una concezione che deve molto al pragmatismo di Dewey e ancor prima a quello di Pierce.

Il comportamentismo della Linehan è però qualcosa che va oltre il comportamento esterno e si focalizza sui processi mentali. Il suo può considerarsi uno dei primi di quei modelli processualisti di terza onda, anche se esso li precede di alcuni anni e non ne fa parte storicamente. Rimane però ad essi fortemente imparentato. Come tutti i processualismi, questo modello rappresenta una sorta di ritorno al funzionalismo comportamentista e, anzi lo è in una forma più accentuata o, forse, più prossima alle origini non essendosene mai allontanata.

Vediamo così la Linehan raccontarci come negli anni, pescando nella letteratura psicoterapeutica funzionalista, rielaborò decine e decine di interventi funzionalisti in abilità mentali e comportamentali di gestione delle situazioni avversive, le ben note skills che hanno fatto la fortuna di quel modello, la terapia dialettico comportamentale o DBT (Dialectical Behavioral Therapy). Sovrapposte a quegli interventi, alle skills, nelle quali il confine tra mente e comportamento è sempre più fine e impalpabile e in questo si percepisce tutta la radice funzionalista della Linehan, vi era poi un modello del funzionamento mentale semplice e comprensibile al limite della divulgazione eppure per nulla rozzo. Si tratta del ben noto modello della mente saggia, della mente razionale e della mente emotiva. Questo modello teorico esemplifica bene come il passaggio da uno schema come quello di Beck focalizzato sui contenuti cognitivi, le credenze sul sé, a un modello che invece rappresenta la mente in termini di funzioni. Tra queste funzioni quelle più importanti sono quelle regolative e metacognitive, quelle in cui le informazioni, i contenuti di Beck, sono regolate a un secondo livello e utilizzate in vista di scopi esistenziali. La mente saggia, al di là di un certo sapore naive di questo termine, rappresenta quella funzione regolativa per eccellenza che per la Linehan è carente nel paziente suicidario (che è il paziente che davvero interessa alla Linehan e nel quale vi è più sostanza clinica che nella diagnosi di disturbo di personalità borderline con il quale la DBT è stata associata) e che va rafforzata attraverso un vero e proprio addestramento per apprendimento delle abilità. Un esempio di queste abilità, che la Linehan denomina usando degli acronimi che ne facilitano la denominazione, è il noto D.E.A.R. M.A.N., abilità interpersonale con la quale i pazienti imparano in sette passi -uno per ognuna delle lettere dell’acronimo: Describe, Express, Assert, Reinforce, Mindful, Appear, e Negotiate- a esprimere i loro bisogni e i loro disaccordi con il prossimo senza cedere alla conflittualità. In questa commistione tra addestramento pratico e modello agile e comprensibile delle funzioni regolative della mente risiede il segreto del successo della DBT di Linehan. Non basta. Linehan ci racconta anche le difficoltà della sua carriera e i problemi organizzativi del mettere su una ricerca su pazienti così complessi, illuminando come questi aspetti pratici abbiano confluito nella ricerca e viceversa, proprio perché ciò che rende difficile la cura di questi pazienti è proprio la loro scarsa collaborazione e quindi le difficoltà organizzative che pongono diventano oggetto di analisi. E così via.

Man mano che il racconto prosegue incontriamo infine la spiritualità e la meditazione che sono un po’ il coronamento delle abilità regolative più funzionali incontrate precedentemente. Il livello comportamentale, nella visione pragmatica della Linehan, arriva alla spiritualità attraverso la meditazione in ogni sua forma compresa la mindfulness, meditazione che può essere definita la forma più consapevole di comportamento mentale. E intanto proseguono anche le confessioni sulla vita quotidiana di Marsha Linehan e sulle persone con le quali ha a che fare, a volte trovando una parziale conciliazione -ad esempio con sua madre- a volte accettando l’inevitabilità di certe incomprensioni. In questo continuo alternarsi di esperienze cliniche, nozioni scientifiche e confessioni personali risiede il fascino del libro e il suo insegnamento.

 

La CBT-E per i disturbi alimentari – L’ottavo episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’ottavo episodio della serie dedicato alla CBT-E per i disturbi alimentari.

 

LA CBT-E PER I DISTURBI ALIMENTARI

La verità che si cela dietro a un sorriso: la depressione in gravidanza

Il presente articolo è finalizzato ad individuare, dopo un breve inquadramento diagnostico dei disturbi dell’umore, le caratteristiche della depressione postnatale, quale fenomeno che si presenta in una specifica fase della vita di una donna.

Manuela Tedeschi e Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitva e Ricerca Milano

 

Nell’ambito della depressione post-partum, sono infatti presenti un’ampia gamma di sintomatologie sia di natura cognitiva ed emotiva, che neurovegetative di tipo più lieve. Le relative terapie si pongono in un ambito sia di stampo psicoterapeutico che farmacologico. Di seguito verrà approfondita la terapia cognitivo-comportamentale, prendendo in considerazione l’ambiente ecologico della persona, data la rilevanza delle componenti esterne come elemento di condizionamento di tale patologia. Trattandosi di una patologia correlata a molti fenomeni propri della nostra epoca, lo studio della depressione, ed in particolare di specifiche transizioni critiche come la gravidanza, è materia di crescente interesse.

I disturbi dell’umore: breve introduzione e definizione

La depressione è una patologia dell’umore, caratterizzata da fattori biologici, sociali, emotivi e psicologici che emergono nelle esperienze personali di vita fino alla compromissione di tutte le funzioni vitali e di relazione. La depressione è caratterizzata da un profondo doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto-rimproveri e auto-ingiurie, culminanti nell’attesa dolorante di una punizione (S. Freud, 1980). L’esistenza del depresso è affiancata da correlati fisici oltre che cognitivi, quali: stanchezza e scarsa energia, problemi di insonnia, apatia, tristezza, mancanza di appetito o in caso contrario un notevole aumento di appetito, rallentamento psicomotorio oppure agitazione psicomotoria.

Questa situazione fu rappresentata da Eugenio Montale come “Il male di vivere”, laddove si percepisce che niente è come si vorrebbe, non c’è soluzione a questo dolore presente e non si riesce a dare un significato alla propria esistenza.

Ciò che differenzia questa patologia dalla normale sensazione di tristezza, che la maggior parte delle persone prova in qualche momento della vita, sono l’intensità e la durata dei sintomi correlata ad una modificata percezione del mondo e della propria esistenza, che porta ad un’incapacità di sostenere le relazioni sociali e le attività quotidiane.

Ippocrate, con la teoria umorale, fu il primo medico a concepire la depressione come una malattia, descrivendola come un’alterazione della bile nera, uno dei quattro umori corporali (bile nera, bile gialla, flegma e sangue). In passato la depressione ebbe una “interpretazione prevalentemente organica con relative prescrizioni dietetiche e un’interpretazione demoniaca”, seguita da interpretazioni diagnostiche di stampo psicodinamico dal 1500 sino al 1952, anno della pubblicazione del manuale nosografico per i disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of MentalDisorders- DSM-I) dell’Associazione statunitense degli Psichiatri.

Nell’ultima edizione di tale manuale (DSM-5), la caratteristica comune della depressione è la presenza di umore triste, vuoto o irritabile, accompagnato da modificazioni somatiche e cognitive che incidono in modo significativo sulla capacità di funzionamento dell’individuo (American Psychiatric Association, 2013).

I criteri diagnostici comprendono 5 (o più) dei seguenti sintomi durante un periodo di due settimane:

  • almeno uno dei sintomi è umore depresso e/o perdita di interesse o piacere;
  • significativa perdita di peso o aumento di peso (oppure diminuzione/aumento dell’appetito);
  • insonnia o iperinsonnia;
  • agitazione o rallentamento psicomotorio;
  • faticabilità o mancanza di energia;
  • sentimenti di autosvalutazione, di colpa eccessivi o inappropriati;
  • ridotta capacità di pensare, di concentrarsi o indecisione;
  • pensieri ricorrenti di morte, ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, tentativo di suicidio o un piano specifico per commettere suicidio.

Specifiche transizioni critiche: la depressione in gravidanza

Come la depressione può essere connotata come il “male di vivere”, così anche la depressione postnatale si declina in un vissuto emotivo che crea sofferenza, con caratteristiche simili al disturbo dell’umore, ma che spesso passa come invisibile agli occhi degli altri.

Da fuori, guardando dentro
Vedi un sorriso, e tutto va bene
Però se osservi un po’ più da vicino
Scopri il dolore in cui vivo.
[…]
Perché avete così paura di sentire
La verità che si cela dietro al mio sorriso?
Ho bisogno che capiate
Che mi ascoltiate un attimo. (Sherri Hardy, 1996)

Sherri Hardy, l’autrice della poesia ci mostra come poter comprendere la depressione postnatale da un punto di vista di una madre che ha sofferto di questo male invisibile e che spesso non viene visto.

La gravidanza rappresenta un cambiamento unico nella vita di una donna. I profondi cambiamenti biologici, intrapsichici e relazionali che caratterizzano la gravidanza, il parto e i mesi immediatamente successivi alla nascita del bambino possono mettere alla prova l’equilibrio e il benessere della donna, chiamata a ridefinire la propria identità anche attraverso il completamento di un processo di separazione e individuazione della propria madre, iniziato durante l’infanzia e mai completamente concluso (Saita, 2010). Questa transizione critica può scatenare una serie di disturbi dell’umore.

La depressione post-partum costituisce un problema di grande rilievo sociale, difatti circa il 15% delle madri presenta sintomi riconducibili a un disturbo depressivo maggiorenei mesi successivi al parto. Durante la gravidanza e nei primi mesi successivi alla nascita del bambino sono frequenti le reazioni emotive di carattere depressivo, che possono andare dalla semplice disforia post-partum o maternity blues fino alle vere e proprie depressioni post-partum.

Il maternity blues rappresenta una condizione di accentuata vulnerabilità che la madre può avvertire nei giorni immediatamente successivi al parto e che tende a risolversi spontaneamente nell’arco di 7-10 giorni. Si tratta di una forma lieve e transitoria di ipersensibilità, ma estremamente diffusa: infatti l’80% delle donne mostra una certa instabilità emotiva nelle prime due settimane dopo il parto. Fragilità emotiva, facilità al pianto, oscillazione del tono dell’umore ed iper-reattività agli stimoli ne costituiscono i sintomi caratteristici (Saita, 2010). Questa condizione transitoria che fa riferimento allo stato di malinconia (“blues”) è dovuta ad una combinazione tra il cambiamento nei livelli ormonali, l’esaurimento fisico mentale ed emotivo, nonché alla privazione del sonno tipica della genitorialità di un neonato. Secondo alcuni autori, forme gravi di maternity blues costituirebbero un fattore di rischio per l’insorgenza della depressione post-partum (Beck, 1996).

La psicosi puerperale è un fenomeno più raro (ne soffrono 1-2 donne su 1000) e si presenta in una manifestazione decisamente più grave rispetto alla lieve forma della maternity blues, in quanto la prima ha un esordio più acuto, che si manifesta solitamente nei primi 15 giorni dopo il parto, esibendo una sintomatologia di tipo psicotico. Gli episodi infatti tendono a presentare una certa gravità: compaiono confusione mentale, incoerenza ed elementi deliranti collegati alla maternità. Da una parte le madri tendono a manifestare sul versante depressivo senso di colpa e inadeguatezza nei confronti del proprio ruolo, mentre su quello espansivo vi è un’attribuzione grandiosa della maternità (Saita, 2010).

La depressione post-partum (PPD o postnatale) si colloca nel mezzo, in quanto a gravità, tra il maternity blues e la psicosi puerperale. La depressione post-partum si può anche presentare in forme più lievi (depressione minore) tra le quali si ritrovano un esaurimento fisico, irritabilità, diminuzione dell’appetito, riduzione del desiderio sessuale, insonnia, sintomi somatici di varia natura (3-6 mesi dopo il parto); oppure in forme più severe che, presentando una sintomatologia più persistente, può essere associata a confusione e avere un esordio acuto (Saita, 2010).

Circa il 10/20% delle donne si ammala di depressione post-partum. Questa condizione può manifestarsi durante la gravidanza o nelle settimane successive al parto e comporta un vissuto personale caratterizzato da: sentimenti di tristezza, ansia e/o colpa; senso di inutilità; pensieri sul suicidio e sulla morte; difficoltà di concentrazione e nel prendere le decisioni; sintomi neurovegetativi come disturbi del sonno e dell’appetito; mancanza di interessi e di energia (Milgrom, 1999).

Vi sono una molteplicità di fattori che concorrono nell’insorgenza di tale disturbo:

  • privazione del sonno ed esaurimento fisico ed emotivo;
  • fattori biologici e ormonali dovuti ad un calo dei livelli di estrogeni e progesterone;
  • fattori cognitivi come l’auto-svalutazione, il senso di delusione e di insoddisfazione;
  • ed infine psicosociali, come la giovane età, il basso status socioeconomico oppure eventi di vita stressanti.

Per quando riguarda i fattori di rischio psicosociali vi sono differenti variabili che incidono sull’insorgenza di questa patologia: il cambiamento del ruolo della donna nella sfera sociale, problemi di coppia, sostegno sociale inadeguato, fattori di personalità, locus of control esterno e pensiero negativo disfunzionale, umore durante la gravidanza tendente all’ansia, all’ostilità e/o alla depressione, storia personale di depressione, temperamento del bambino, esperienze infantili ed aspettative sociali rispetto alle gioie della maternità.

Il ruolo del marito in questo momento è cruciale, poiché consiste nel fornire un supporto emotivo e una base di sicurezza alla moglie, aiutandola a superare le difficoltà che si presentano. Questo supporto fornito dal marito protegge la moglie dal rischio di sviluppare una sintomatologia depressiva.

La gravidanza rappresenta un periodo di profondi cambiamenti per la donna, non solo a livello fisico ma anche psicologico: alcune donne hanno difficoltà ad accettare lo stato sperimentando sentimenti contrastanti di felicità e paura, di preoccupazione per ciò che le attende. Queste reazioni sono piuttosto diffuse e condivise, ma non sono sempre espresse dalla futura madre nel timore di sentirsi diversa e considerata inadeguata per il suo ruolo futuro (Milgrom, 1999).

Entrano quindi in gioco fattori cognitivi.

Tra i pensieri irrazionali più tipici che caratterizzano questa fase di vita, ritroviamo il sentirsi inadeguata nella cura del bambino, pensare di essere mogli e madri incapaci, non riuscire a provare emozioni verso il bambino, ed infine credere di non essere in grado di concentrarsi sulle cose quotidiane che hanno a che fare con l’interazione madre-bambino (riconoscimento dei bisogni reciproci, sintonia emotiva, semplice cura dei genitori).

Olioff (1991) ha identificato tre temi cognitivi specifici delle donne che soffrono di depressione postnatale, che le differenziano dalla depressione che colpisce le donne in altre fasi della vita: in primo luogo la percezione di autoefficacia come madre, secondariamente l’autovalutazione delle proprie capacità materne, ed infine la vulnerabilità percepita del bambino.

Questo autore identificò tre differenti tipologie di depressione postnatale:

  • con presenza di contenuti cognitivi depressivi,
  • con presenza di schemi di pensiero distorti inerenti la maternità,
  • con presenza di ricorrenti episodi depressivi.

La depressione post-partum sembra quindi essere più debilitante della depressione che colpisce le donne in altre fasi della vita e durare di più, infatti circa il 50% delle madri sperimentano questa condizione sintomatica fino ai 2 anni del bambino (Dennerstein, 1986). Inoltre, chi soffre della depressione post-partum ha il doppio delle probabilità di sperimentare depressione nei cinque anni successivi (Cooper, 1995).

Trattamento con la terapia cognitivo – comportamentale

La psicoterapia ha come scopo principale il cambiamento: vuole fornire al paziente una diversa percezione degli eventi e la possibilità di ricollocarli in un’altra posizione, per avere una visuale diversa che comporta nuove opportunità.

La terapia cognitivo- comportamentale (CBT) è uno degli approcci più moderni delle psicoterapie, che tratta in particolare i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore. Dalle ricerche di Hollon et al. (2002) risulta che questo trattamento sia particolarmente efficace.

Nell’ottica di Aaron Beck, considerato il fondatore degli approcci cognitivisti classici, questa terapia è atta a modificare le modalità disadattive del pensiero. Il terapeuta cerca di aiutare il paziente depresso a cambiare le proprie opinioni riguardo a sé stesso e agli eventi che accadono, modificando le proprie aspettative, valutando la ragionevolezza dei propri pensieri automatici e sostituendoli con una più sensata interpretazione degli eventi. Il terapeuta istruisce il paziente ad individuare schemi di pensiero negativi che contribuiscono a perpetuare il suo stato di depressione (Kring, 2007).

Questo approccio si pone in modo direttivo nei confronti della persona, esso tenta di far individuare al paziente i suoi pensieri distorti, le emozioni disfunzionali ei comportamenti disadattivi, in modo tale da riuscire a prendere coscienza di questi fattori che determinano l’insorgenza di stati emotivi disturbanti, insegnando loro specifiche abilità per far fronte a situazioni stressanti (coping).

Le tecniche cognitive che funzionano anche per la depressione post-partum comprendono la ristrutturazione cognitiva, le procedure di autocontrollo e modalità per contrastare le distorsioni cognitive, aiutando a riconoscere il legame tra pensieri, sentimenti e comportamenti.

Secondo la teoria comportamentale, la depressione in generale è causata da un numero insufficiente di esperienze positive o fonti di rinforzo che la persona ha a disposizione. Perciò, facendo riferimento a queste teorie, vengono introdotte le seguenti tecniche per far fronte alla depressione post-partum:

  • aumentare la frequenza delle attività piacevoli e ridurre il numero degli eventi spiacevoli;
  • training per l’acquisizione delle abilità sociali, le quali influenzano l’umore;
  • incrementare le abilità di autocontrollo in quanto vi sono delle carenze nelle capacità di automonitoraggio, autovalutazione e autorinforzo;
  • potenziare abilità di problem-solving, le quali sembrano modificare la relazione tra stress e depressione;
  • ed infine sviluppare abilità di rilassamento, utili per gestire l’ansia, l’agitazione psicomotoria e l’insonnia (Milgrom, 1999).

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico con antidepressivi, si evidenzia un’efficacia nell’intervento sulla depressione. Tuttavia, a proposito dell’assunzione di farmaci durante la gravidanza o nel periodo dell’allattamento, le madri sembrano abbastanza restie ad assumere queste sostanze per quanto concerne l’effetto che i farmaci possono avere sul loro bambino se allattano al seno. In conclusione, il trattamento cognitivo-comportamentale sembra quindi essere una migliore alternativa e più accettata terapia rispetto a quella farmacologica (Milgrom, 1999).

Una donna che soffre di depressione post-partum ha bisogno di riguadagnare fiducia nelle sue capacità di madre, a volte deve lavorare per ricostruire il suo rapporto con il figlio. Dovrebbe sempre essere accolta, ascoltata, sostenuta e liberata da sentimenti di colpa e vergogna che questa sofferenza le ha causato, minando profondamente la sua autostima e l’immagine di sé stessa come donna e come madre.

 

Le 9 logiche in terapia breve: una guida all’intervento per i terapeuti

Attraverso un’accurata analisi della letteratura, Flavio Cannistrà e Micheal Hoyt hanno individuato 9 logiche sottostanti gli interventi di terapia breve, che possono aiutare i terapeuti a orientare i loro interventi e a utilizzare e prescrivere le tecniche più adatte.

 

Gli interventi attivi da parte del terapeuta sono alla base del processo delle terapie brevi (Cannistrà, Hoyt, 2020). Nel momento in cui il terapeuta breve – o meglio, qualsiasi terapeuta – assegna un compito o fa un determinato intervento durante la seduta, egli è sicuramente guidato dallo scopo di ottenere un effetto specifico attraverso quella data tecnica o intervento.

Cannistrà e Hoyt si sono interrogati sulla possibilità, per le tecniche di terapia breve, di rientrare in un limitato numero di scopi a cui esse possono condurre. La domanda che si sono posti è stata: “Quali sono le logiche (cioè le ragioni sottostanti) che guidano la scelta di una tecnica piuttosto che di un’altra?”. Il loro lavoro ha portato all’individuazione di 9 logiche sottostanti gli interventi di terapia breve.

Metodologia

Cannistrà e Hoyt hanno basato il loro lavoro sulla consultazione e lo studio della letteratura in terapia breve, ad esempio negli ambiti della terapia strategica modello MRI (Fisch et al., 1982; Watzawick et al., 1974), della terapia breve strategica (Nardone & Watzlawick, 1993) della terapia breve centrata sulla soluzione (de Shazer et al., 2007) e tecniche derivanti direttamente dagli studi di Milton Erickson. In principio sono state analizzate approfonditamente 77 tecniche (Cannistrà, 2019), ma il lavoro è tuttora in fieri e ad oggi si sono superate le 150.

I due autori hanno così individuato 9 diverse logiche a cui le varie tecniche afferiscono. Per ogni tecnica è stata individuata una “logica principale” e un’eventuale “logica secondaria”.

Le 9 logiche

Dopo averle presentate tramite la descrizione di un caso clinico (Cannistrà, 2019) e in una serie di conferenze, l’ultima sistematizzazione delle 9 logiche è stata pubblicata sul Journal of Systemic Therapies (Cannistrà & Hoyt, 2020). Di seguito riportiamo un’estrema sintesi di quest’ultima elaborazione.

  • Bloccare direttamente le azioni. L’obiettivo di questa logica è quello di interrompere direttamente uno o più comportamenti, tenuti dal cliente, che stanno perpetuando il problema. Si chiede direttamente – in maniera esplicita quindi – alla persona di smettere di fare una certa cosa, che sta mantenendo in vita il problema. Ad esempio, alla base di questa logica vi è la richiesta del terapeuta al paziente ipocondriaco di sospendere le visite mediche (Nardone, 1996)
  • Creare avversione. Scopo di questa logica è quello di indurre un’avversione del paziente verso un certo comportamento (o relazione, interazione, ecc.), ad esempio con lo scopo di bloccare indirettamente un comportamento, oppure con l’idea di indurre una nuova significazione concettuale. Rientrano in questa logica, a titolo esemplificativo, le ordalie (Haley, 1984; Hoyt, 2019), il cui proposito è per l’appunto rendere il comportamento sintomatico più spiacevole di quanto sia piuttosto interromperlo, oppure le ristrutturazioni di significati in senso appunto avversivo.
  • Creare consapevolezza. Questa logica è utile per aiutare il paziente a prendere consapevolezza di qualcosa, che sia un suo punto di forza o un atteggiamento problematico, senza necessariamente avere lo scopo di indurre a compiere o bloccare un determinato comportamento. A tal fine possono essere usate tecniche più dirette, come i complimenti per determinate capacità e competenze, o interventi più indiretti, come il ricorso a metafore, aforismi, storie.
  • Evocare nuove risorse. Questa logica comprende tecniche che conducono a creare o amplificare nuovi comportamenti e percezioni. Degli esempi sono la “domanda del miracolo” (de Shazer, 1988), che porta la persona a immaginare, descrivere ed eventualmente attuare uno scenario futuro desiderato, o tutte le tecniche “come se” (Watzawick, 1987), in cui si chiede appunto di attuare determinati comportamenti come se certe condizioni fossero in essere (ad es. comportarsi come se gli altri fossero gentili e cordiali con noi).
  • Incrementare per ridurre. Rientrano generalmente in questa logica tutti quegli interventi volti ad annullare un certo sintomo o comportamento problematico chiedendo al cliente di alimentarlo o perpetuarlo volontariamente. Le prescrizioni paradossali sono l’esempio più noto: ne è un esempio la tecnica della peggiore fantasia (Haley, 1985; Nardone e Watzlawick, 1993), in cui si chiede alla persona che soffre di attacchi di panico di aumentare in maniera arbitraria le sensazioni di ansia, ottenendo come risultato la riduzione di tali sensazioni.
  • Piccoli cambiamenti. Attraverso questa logica si cerca di risolvere il problema in maniera graduale, attraverso piccoli cambiamenti, minime variazioni o leggere violazioni nelle modalità di un singolo comportamento o di una serie di comportamenti: citando Haley (1982), “il piccolo cambiamento porta invariabilmente a uno più grande”. Questo tipo di logica viene in aiuto quando la richiesta del paziente è composta da diversi passaggi o quando un cambiamento troppo rapido o troppo grande potrebbe spaventarlo.
  • Rafforzare la relazione. In questa logica rientrano tutti quegli interventi che non intendono produrre direttamente un risultato terapeutico, ma che risultano essenziali per rafforzare la relazione con il terapeuta. Ne sono un esempio le domande costruite ad hoc per rimandare al paziente l’interesse del terapeuta nel condividere il processo di co-costruzione degli obiettivi e dei mezzi della terapia, o nell’assicurarsi di una reale comprensione dei suoi significati.
  • Spostare l’attenzione. Rientrano all’interno di questa categoria le tecniche che chiedono ai pazienti di compiere una certa azione in modo da distoglierli da un’attività disfunzionale. Un esempio è la tecnica del diario di bordo (Nardone e Watzlawick, 1993), secondo cui si chiede alla persona in stato di ansia acuta di compilare un diario in quell’esatto momento, spostando di fatto l’attenzione della persona dal controproducente monitoraggio dei parametri fisiologici a un compito totalmente diverso, consentendo il normalizzarsi delle risposte fisiologiche.
  • Esprimere ed elaborare. Questa logica viene seguita nei casi in cui una situazione di sofferenza si mantenga a seguito di una ritenzione emotiva (ad esempio, trattenere la rabbia come risposta abituale) o di una sua mancata elaborazione. Le tecniche che afferiscono a questa logica permettono di far emergere emozioni, sentimenti e cognizioni legate a quell’esperienza: ne è un esempio la tecnica di regrieving (Budman & Gurman, 1988), in cui alla persona che vive ancora intensamente la fase del lutto si chiede di ripercorrerne esperienze ed emozioni ad esso legato, ad esempio con manovre immaginative o con l’uso di oggetti connessi.

In che modo le 9 logiche possono rivelarsi utili?

Gli autori considerano le logiche come un “riduttore di complessità” del processo terapeutico: una mappa concettuale che favorisca una scelta più consapevole e pragmatica dell’intervento più appropriato per uno specifico paziente, o per un suo specifico problema, o per uno specifico momento della sua terapia.

 

Stili cognitivi e apprendimento

Un’interessante sfida per psicologi ed educatori è quella di variare lo stile di insegnamento, strutturare metodi di apprendimento e strumenti didattici che siano il più possibile personalizzati e vari, rispettando le caratteristiche individuali di ognuno e valorizzando punti di forza, talenti ed inclinazioni personali.

Definizione degli stili cognitivi

Per stile cognitivo s’intende la: “modalità di elaborazione dell’informazione che la persona adotta in modo prevalente, che permane nel tempo e si generalizza a compiti diversi”. (Boscolo, 1981)

È un modo di pensare preferito, ossia una propensione ad analizzare la realtà secondo i criteri ritenuti più funzionali e comodi (Sternberg, 1998).

Non si tratta di un’abilità, intesa come capacità e grado di bravura nello svolgere una determinata attività o compito, bensì della maniera attraverso cui un individuo tende e preferisce utilizzare le abilità di cui è dotato.

Non possediamo un unico stile cognitivo, bensì un profilo di stili di pensiero diversi.

Tipologie di stili cognitivi

Esistono diverse tipologie di stili cognitivi. Cornoldi et al. (Cornoldi et al., 2001) propongono la seguente suddivisione:

  • stile globale/analitico: chi ha uno stile globale predilige in primis una visione d’insieme di uno stimolo per poi spostarsi verso i particolari, mentre chi ha uno stile analitico privilegia la percezione dei dettagli che solo in un secondo momento vengono collegati al quadro di riferimento generale;
  • stile visuale/verbale: lo stile visuale si caratterizza per una propensione verso la rappresentazione visuo-spaziale ed iconica (es. immagini e schemi), mentre quello verbale per una preferenza per il codice linguistico e sonoro (es. esposizione orale e riassunti);
  • stile sistematico/intuitivo: il soggetto che adotta uno stile sistematico tende ad analizzare procedendo a piccoli passi in modo graduale, così da prendere in considerazione tutti i dettagli, mentre il soggetto che adotta uno stile intuitivo cerca di arrivare alla soluzione per prove ed errori, formulando delle ipotesi da confutare o confermare;
  • stile impulsivo/riflessivo: l’individuo impulsivo utilizza tempi decisionali brevi per svolgere un compito, mentre quello riflessivo ricorre a tempi decisionali più lunghi.

De Caroli (De Caroli, 2009) approfondisce altri stili di pensiero:

  • stile livellatore/puntualizzatore: i livellatori tendono a mescolare le nuove e le vecchie informazioni, condensando i contenuti già noti e le novità, mentre i puntualizzatori sono in grado di diversificare e mantenere distinti i vari elementi;
  • stile visuale/tattile: i soggetti con stile visuale si comportano da “spettatori” e presentano un approccio conoscitivo principalmente fondato sulle informazioni visive, mentre quelli con stile tattile partecipano più attivamente e mostrano un approccio che si basa sulla manipolazione;
  • stile innovatore/adattatore: gli innovatori sono aperti al cambiamento e sono favorevoli a sperimentare nuove soluzioni sfruttando le specifiche potenzialità del contesto, mentre gli adattatori sono più conformisti e preferiscono ricorrere a strategie già consolidate e utilizzate precedentemente;
  • stile convergente/divergente: l’individuo con stile convergente utilizza schemi di ragionamento lineari e convenzionali, mentre la persona con stile divergente si avvale di schemi più creativi e originali.

A Sternberg si deve la teoria dell’autogoverno mentale (Sternberg, 1998), nella quale le forme di governo tipiche della società umana, che secondo l’autore non esistono per caso ma sono lo specchio delle nostre menti, sono metaforicamente associate a vari stili di pensiero. La teoria di Sternberg si articola secondo 3 funzioni, 4 forme, 2 livelli, 2 sfere e 2 propensioni e suggerisce in totale 13 stili cognitivi:

  • stile legislativo: è tipico di quei soggetti che amano creare, progettare, decidere autonomamente e fare le cose a modo proprio;
  • stile esecutivo: gli individui con questo stile di pensiero preferiscono aderire alle regole indicate e ricevere istruzioni da seguire su cosa fare e come fare le cose;
  • stile giudiziario: è proprio di chi predilige giudicare, valutare, confrontare ipotesi ed esprimere opinioni;
  • stile monarchico: caratterizza quelle persone che sono trascinate da un’idea fissa e che rivolgono la propria attenzione ad un obiettivo per volta, perseguendolo con determinazione e portandolo a termine;
  • stile gerarchico: i soggetti gerarchici prendono in considerazione vari obiettivi, ma, nella consapevolezza che non tutti abbiano la stessa importanza, tendono a stabilire delle priorità, decidendo in modo organizzato e sistematico come collocare le proprie risorse;
  • stile oligarchico: è tipico di chi risulta motivato da vari obiettivi che vengono percepiti di uguale importanza;
  • stile anarchico: i soggetti con questo tipo di stile di pensiero rifiutano le regole e le procedure rigide e sono stimolati da vari obiettivi cui si approcciano in modo casuale;
  • stile globale: è proprio di coloro che preferiscono questioni ampie e astratte e vedono “la foresta piuttosto che gli alberi”;
  • stile analitico: caratterizza gli individui che amano i problemi concreti e che attenzionano i dettagli, vedendo prima “gli alberi rispetto alla foresta”;
  • stile interno: le persone interne sono tendenzialmente introverse e riservate e preferiscono lavorare da sole;
  • stile esterno: le persone esterne sono estroverse ed espansive e amano lavorare in gruppo;
  • stile radicale: contraddistingue coloro a cui piace andare oltre le regole vigenti e favorire il cambiamento;
  • stile conservatore: gli individui conservatori si conformano alle norme esistenti e cercano di mantenere la stabilità.

È importante sottolineare che nessuno stile di pensiero è migliore o peggiore rispetto agli altri, sono semplicemente diversi, ma tutti possono rivelarsi utili a seconda dei diversi compiti e contesti; è una questione di congruenza e compatibilità tra lo stile e le richieste dell’ambiente.

Per valutare gli stili cognitivi è possibile fare riferimento ai questionari presenti nei volumi Imparare a studiare 2 (Cornoldi et al., 2001) e Stili di Pensiero (Sternberg, 1998).

Stili cognitivi e apprendimento

Gli stili cognitivi influenzano notevolmente l’apprendimento e lo svolgimento di compiti, ecco perché è fondamentale tenerli in considerazione e non trascurarne il ruolo nel settore scolastico e in quello lavorativo.

In ambito lavorativo l’analisi degli stili cognitivi favorisce una più valida individuazione dei candidati che risultino maggiormente in grado a lungo termine di ricoprire un certo ruolo professionale o di svolgere una specifica mansione soddisfacendo le richieste di un’azienda, mentre in ambito scolastico ciò si traduce nel supportare gli studenti in modo appropriato: ad esempio aiutare il bambino con stile anarchico, insegnandogli l’autodisciplina, a incanalare in modo costruttivo e non distruttivo il suo potenziale creativo derivato dal suo mettere in discussione il sistema vigente, o guidare gli alunni oligarchici strutturando insieme a loro le priorità, o innestare l’argomento di interesse dei bambini monarchici in ciò che si vorrebbe che facessero, come consigliare a uno studente che ama lo sport e odia leggere un libro sullo sport, oppure prevedere attività di apprendimento sia individuale che di gruppo così da far sentire a proprio agio alunni con stile interno ed esterno. È importante variare lo stile di insegnamento, altrimenti se si usa un unico setting di lavoro si rischia di avvantaggiare alcuni alunni a discapito di altri.

Si tratta di una sfida ambiziosa per psicologi ed educatori, cui spetta il compito di strutturare metodi di apprendimento e strumenti didattici che siano il più possibile personalizzati e vari e non eccessivamente standardizzati e rigidi, affinché vi sia un incremento del rendimento complessivo stimolando interesse e motivazione, rispettando le caratteristiche individuali di ognuno e valorizzando punti di forza, talenti ed inclinazioni personali. Infatti, come scrive Pennac

ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. (Pennac, 2008)

 

“L’ultimo episodio e poi smetto”: l’incremento del Binge Watching durante la pandemia da Covid-19.

Con l’espressione “binge watching” si fa riferimento al consumo intenso e consecutivo degli episodi di una serie televisiva in una sola seduta (Pittman & Sheehan, 2015) e il periodo di isolamento determinato dal Covid-19 ha creato la condizione ideale per la diffusione di tale fenomeno. 

 

Al giorno d’oggi, i servizi di distribuzione online di film e serie televisive, come Netflix e Amazon Prime Video, costituiscono la principale fonte di intrattenimento. Difatti, queste piattaforme consentono ai loro utenti di poter accedere ai propri programmi favoriti in qualsiasi momento e indipendentemente dal luogo in cui si trovano.

Questo importante sviluppo dell’intrattenimento digitale ha dato vita ad un’autonomia quasi illimitata nella selezione e nel consumo di contenuti mediatici ma, allo stesso tempo, tale autonomia rischia di sfuggire di mano, andando drasticamente a modificare l’utilizzo di tali piattaforme.

Con l’espressione “binge watching” si fa riferimento al consumo intenso e consecutivo degli episodi di una serie televisiva in una sola seduta (Pittman & Sheehan, 2015) e, il periodo di isolamento determinato dal Covid-19, ha creato la condizione ideale per la diffusione di tale fenomeno.

Le società di distribuzione stanno investendo per realizzare serie tv che spingano le persone verso il binge watching e, difatti, per promuovere questo comportamento, spesso tutti gli episodi di una determinata stagione vengono rilasciati contemporaneamente (Umesh & Bose, 2019).

Diversi studi hanno dimostrato che l’intrattenimento mediatico può influenzare il benessere degli utenti sia positivamente che negativamente (Reinecke & Oliver, 2017). Naturalmente tali effetti variano a seconda del contenuto mediatico e della sua modalità di utilizzo.

Nell’attuale situazione pandemica, in cui le persone vivono in un totale stato di stallo che comporta un decremento delle attività ludiche, alcuni autori (Dixit et al., 2020) hanno ipotizzato che vi fosse stato un aumento del fenomeno del binge watching. Essi si son proposti di indagare come fosse dunque cambiata la frequenza di utilizzo delle piattaforme di distribuzione online, quali fossero state le eventuali motivazioni e, ancora, se gli utenti avessero avvertito delle ripercussioni dovute all’evoluzione di questo fenomeno.

Lo studio in questione è stato condotto su un campione della popolazione generale di quattro paesi del sud-est asiatico. Nello specifico, all’indagine hanno preso parte 548 partecipanti, con un’età media di 32 anni, a cui è stato richiesto di completare un sondaggio online.

I risultati hanno mostrato che, mentre prima del dilagarsi della pandemia, il tempo medio trascorso dagli utenti su queste piattaforme era di circa 1-3 ore al giorno; durante il lockdown, il 73,7% degli intervistati si è mostrato concorde nel riportare un considerevole incremento del fenomeno di binge watching, sottolineando come il tempo medio trascorso dinanzi al computer sia esponenzialmente salito a 3-5 ore o più.

Questo fenomeno ha avuto considerevoli ripercussioni sulla qualità di vita sei soggetti. Alcuni hanno riportato di aver sperimentato disturbi del sonno, altri hanno perso il lavoro e il 28 % dei partecipanti ha riferito di aver vissuto situazioni conflittuali con i propri conviventi, proprio a causa del tempo trascorso sulle piattaforme di distribuzione online.

Rispetto alle motivazioni esplicitate, si è evinto che la maggior parte dei partecipanti è stata spinta dal desiderio di sfuggire alla noia, mentre alcuni hanno riferito di averlo utilizzato come un metodo per alleviare lo stress percepito e superare il senso di solitudine. Quanto appena detto ha portato gli autori ad assimilare il fenomeno del binge watching ad un meccanismo di coping disfunzionale. Difatti, è possibile che le persone stiano tentando di sopprimere determinate sensazioni spiacevoli elicitate dall’isolamento, attraverso la fantasia, l’immaginazione e lo svago generati dalle serie e dagli show televisivi (Lazarus & Folkman, 1984). Inoltre, bisogna tener conto del fatto che la costante disponibilità dei contenuti online determina una gratificazione immediata dei bisogni ma, allo stesso tempo, può compromettere altri obblighi ed esigenze (Reinecke, Hartmann, & Eden, 2014). Ricerche precedenti nel campo dell’intrattenimento mediatico hanno dimostrato che cedere al desiderio di trascorrere il tempo sui media, a costo di altri obiettivi o responsabilità, spesso genera un senso di colpa, ovvero un’autovalutazione negativa, innescata dalla contrapposizione tra il comportamento attuale (ad esempio, l’uso dei social-media) e gli standard personali, gli obiettivi e le responsabilità a lungo termine dell’individuo (Reinecke, Vorder & Knop, 2014; Panek, 2014).

Il senso di colpa, a sua volta, può ridurre il benessere percepito durante o poco dopo l’episodio visto (Reinecke, Hartmann, et al., 2014) ed avere, nel lungo termine, effetti negativi sul senso di soddisfazione personale, soprattutto se gli obiettivi, come ad esempio il rendimento scolastico, sono cronicamente trascurati, a causa dello scarso autocontrollo dei soggetti (Hofmann et al., 2014; Panek, 2014).

Dunque, più gli utenti trascorrono il tempo guardando serie tv consecutivamente, più possono correre il rischio di perdere il controllo sull’utilizzo dei media, dando origine a conflitti interiori, in quanto rimandano attività necessarie all’assolvimento di obiettivi a lungo termine, a favore delle gratificazioni a breve termine (Wagner, 2016).

Naturalmente, data la mancanza di autocontrollo dei soggetti e il successivo senso di colpa, si potrebbe assimilare il binge watching ad una vera e propria forma di dipendenza comportamentale ma, non essendovi ancora evidenze in merito, tale affermazione potrebbe apparire precoce. Ad ogni modo, le prove attualmente esistenti supportano la presenza di un’associazione tra il binge watching e i disturbi dell’umore, i disturbi del sonno, l’affaticabilità e la compromissione dell’autoregolazione (Zhang et al., 2017), dunque non è considerarsi come un fenomeno da sottovalutare.

Saranno dunque necessarie ulteriori ricerche, ma limitare tale comportamento potrebbe essere benefico e potrebbe prevenire lo sviluppo di una sintomatologia connessa ad uno stile di vita disfunzionale. Ulteriormente, sarà necessario indagare gli effetti a lungo termine del binge watching sulla popolazione generale, in quanto potrebbe fornire una migliore comprensione degli aspetti patologici connessi con tale comportamento.

 

Non saper smettere di odiare – L’ottavo episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.

 

NON SAPER SMETTERE DI ODIARE:

L’umorismo nel rapporto di coppia

Le persone dotate di un buon senso dell’umorismo sono anche caratterizzate da altri tratti desiderabili, quali l’essere amichevoli, disponibili, estroversi, piacevoli, interessanti e stabili emotivamente. Per questo motivo, il senso dell’umorismo è spesso utilizzato come fattore guida nella ricerca del partner.

 

L’umorismo risulta essere un fattore molto importante nella scelta del partner: le persone, infatti, preferiscono avere relazioni con chi è capace di far divertire, non solo perché ridere facilita la relazione, ma anche perché gli individui dotati di senso dell’umorismo riescono a reagire in maniera più positiva agli imprevisti e alle difficoltà della vita (Dionigi & Gremigni, 2010; Tornquist & Chiappe 2015).

Nel corso degli anni, sempre più studiosi si sono avvicinati a questo tema, cercando di cogliere l’essenza e l’importanza del ridere insieme, nel legame di coppia. Ad esempio, in uno studio condotto venti anni fa, in cui vennero intervistate 700 persone (Sprecher & Regan, 2002), aveva mostrato come il senso dell’umorismo sia una delle caratteristiche maggiormente ricercate nel partner, insieme all’affettuosità e all’estroversione. Il motivo di questa attenzione è dato dal fatto che gli individui più simpatici sono anche quelli maggiormente in grado di risollevare il morale del partner, in quanto non si lasciano scoraggiare dalle avversità della vita.

A suffragare l’idea che l’umorismo sia un importante fattore nel favorire l’intimità, vi sono i risultati di uno studio condotto da Fraley & Aron (2004). I ricercatori chiesero a coppie di sesso diverso di svolgere insieme un compito: ad una parte del campione fu assegnato un compito divertente, all’altra un compito non divertente. Come previsto, le coppie impegnate in un’attività divertente condividevano risate e un maggiore sentimento di intimità rispetto alle altre impegnate in un compito non divertente.

Come visto, vi sono buone indicazioni che ridere insieme sia un fattore di protezione dei rapporti affettivi. Qui di seguito viene approfondito il ruolo dell’umorismo in due ambiti specifici: il corteggiamento ed il matrimonio.

Umorismo e corteggiamento

Una recente revisione della letteratura (Hofmann et al., 2020), condotta per valutare la variabilità di genere nell’utilizzo dell’umorismo, ha evidenziato che la maggioranza degli studi effettuati per valutare le differenze di genere nelle risposte umoristiche, ha riportato come uomini e donne, tendenzialmente, mostrino preferenze diverse.

Uno dei risultati emersi in questo articolo è la differenza nel modo in cui entrambi i sessi tendono a rispondere a commenti umoristici in base al contesto delle relazioni e all’attrazione interpersonale. Bressler e colleghi (2006) hanno chiesto a uomini e donne di stabilire la piacevolezza del partner, in riferimento al fatto che valutassero positivamente o meno il proprio umorismo. Lo studio ha rilevato che entrambi i sessi tendono a percepire in maniera più positiva chi apprezza il proprio umorismo, mentre sono le donne a reputare in maniera più importante la capacità di essere divertente nel partner. Una scoperta che è stata replicata anche da diversi autori (Bressler & Balshine, 2006, Hone et al., 2015; Tornquist & Chiappe, 2015) mostrando come le donne appaiono maggiormente sensibili all’umorismo maschile in fase di corteggiamento, rispetto a quanto non succeda agli uomini. Quindi, almeno nelle situazioni di corteggiamento, i ruoli di genere tradizionali prevalgono quando si tratta di umorismo.

Inoltre, emerge che gli uomini tendano a produrre un numero di commenti umoristici maggiore rispetto alle donne quando si trovano in compagnia mista, sottolineando come l’apprezzamento dell’umorismo maschile da parte delle donne è correlato con l’interesse nell’intrattenere una relazione romantica (Wilbur & Campbell, 2011). Fra le varie motivazioni per spiegare questo fenomeno, alcuni autori sostengono che le differenze di genere nella produzione di umorismo possano essere dettate da una prospettiva evoluzionistica, favorendo quindi la possibilità di essere selezionati come partner. Tuttavia, guardando alla qualità del contenuto umoristico, solo l’umorismo affiliativo, e non quello aggressivo, viene percepito positivamente dalle donne, mentre gli uomini hanno risposto allo stesso modo a entrambi i tipi di umorismo (Cann et al., 2016). Infine, in uno studio sperimentale (Bippus et al., 2012) sono state presentate ad un gruppo di partecipanti misto una serie di vignette raffiguranti una femmina o un maschio che utilizzano l’umorismo per rispondere alle lamentele dei loro partner. Gli uomini hanno valutato le vignette come più divertenti e si sono dimostrati più propensi a controbattere rispetto alle donne.

Umorismo e matrimonio

Un dato interessante proviene dal fatto che, nelle coppie sposate, la soddisfazione del rapporto sia legata alla valutazione positiva del senso dell’umorismo dell’altro: più le coppie sono soddisfatte, più affermano che il partner ha un grande senso dell’umorismo, a prescindere dal reale apprezzamento delle sue battute (Martin, 2010).

A tal proposito, c’è chi parla anche di umorismo come “linguaggio segreto” (Ziv, 1984). Lo humor fungerebbe la funzione di specifica tipologia di comunicazione privata, comprensibile solo dai partner, che permette di divertirsi insieme e aumentare la soddisfazione del proprio rapporto. Questa teoria è confermata anche da una ricerca successiva (Lauer et al., 1990), in cui vennero intervistate un gruppo di coppie sposate da almeno 45 anni, che confermarono che ridere frequentemente con il proprio partner è uno dei tre aspetti più importanti per il successo del matrimonio, insieme all’affettuosità e all’estroversione. In maniera simile, un altro aspetto legato alla soddisfazione di coppia è dato dalla presenza di quello che viene definito “bonding humor” (legame umoristico, Bippus, 2000). Si tratta di una particolare forma di umorismo, specifico per ogni coppia, che ha lo scopo di aumentare l’intimità, il sostegno, il rafforzamento ed il supporto reciproco nei momenti difficili.

Studi basati sull’analisi della conversazione di discussioni fra coniugi della durata di circa 15 minuti mostrano che gli individui maggiormente soddisfatti sono coloro che utilizzano più contenuti umoristici e che ridono di più insieme (Gottman, 2008). Un altro interessante studio (Gottman et al., 1998) ha rilevato come l’uso di espressioni umoristiche delle mogli durante una discussione problematica sia indicativo di una maggiore stabilità matrimoniale. Proprio in ragione del fatto che i mariti, rispetto alle mogli, si infervorano di più durante le discussioni, i risultati di questo studio dimostrano come la comicità utilizzata dalle donne sia in grado di svolgere un’azione positiva per la relazione di coppia, placando le reazioni degli uomini quando queste si fanno eccessive.

Bazzini e colleghi (2006) hanno dimostrato che non solo condividere esperienze divertenti, ma anche ricordare vicende passate e ridere di avvenimenti (anche non divertenti) accaduti nel passato aiuta a mantenere a lungo relazioni sentimentali. L’abilità di ridere di eventi neutri o potenzialmente negativi (come ad esempio un incidente imbarazzante) porta ad una migliore percezione di solidità e soddisfazione della relazione. Le coppie che ricordano eventi divertenti vissuti da entrambi ridono di più rispetto a quelle che richiamano alla mente situazioni nelle quali il partner non era coinvolto. Questa condivisione più leggera porta a una migliore elaborazione critica e rivalutazione positiva dell’evento, facendo in modo che questo possa essere re-interpretato e percepito nuovamente come divertente.

Riassumendo, gli studi condotti finora hanno permesso di dimostrare come l’umorismo sia un fattore importante sia nella costituzione iniziale della coppia, sia nel mantenimento della relazione, ma solo se si tratta di un umorismo positivo e bonario. Inoltre, nella vita quotidiana, in cui ci si deve confrontare con numerosi stressors, l’umorismo del partner appare essere una risorsa preziosa per la regolazione delle emozioni.

 

La relazione tra difficoltà di calcolo, ansia per la matematica e funzioni esecutive: uno studio nelle classi terze, quarte e quinte della scuola primaria

L’ansia per la matematica è una reazione affettiva negativa a situazioni che coinvolgono numeri, matematica e calcoli matematici e può manifestarsi fin dalla scuola primaria.

Adelina Di Napoli e Jessica Anselmi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

… Questo grandissimo libro (io dico l’universo)… non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica.
(Galileo Galilei, 1623)

Il numero è sicuramente uno dei concetti matematici più difficili e complessi anche se, fin da molto piccoli, tutti si trovano a dover “fare i conti” con il mondo dei numeri. Esso fa parte della nostra vita in modo così profondo che anche i bambini ne fanno uso ancora prima di sapere che cos’è. Ritroviamo il numero ovunque, in qualsiasi epoca e in molte società, anche le più primitive, ovviamente con forme e aspetti diversi, e principalmente allo scopo di contare.

Quello che al giorno d’oggi conosciamo sullo sviluppo del concetto di numero nel bambino e dei vari processi che caratterizzano l’apprendimento aritmetico è sicuramente il frutto di ricerche che si sono interessate all’evoluzione del numero nella storia e alle abilità numeriche più semplici, presenti addirittura negli animali.

La rappresentazione del numero si è evoluta attraverso migliaia di anni, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui la capacità di elaborare e utilizzare le informazioni numeriche fa ormai parte della nostra struttura cognitiva.

Oggi la ricerca psicologica dimostra che nasciamo predisposti all’intelligenza numerica così come all’intelligenza verbale. Se allora è fondamentale, dal punto di vista educativo, accompagnare lo sviluppo del linguaggio attraverso una adeguata istruzione, è altrettanto necessario accompagnare lo sviluppo delle capacità di “intelligere” i fenomeni attraverso la quantità e i suoi principi.

La conquista della conoscenza numerica costituisce senza dubbio uno dei processi più affascinanti e complessi dello sviluppo infantile.

Ma come giungono i bambini a riconoscere le quantità, a rappresentarle e a manipolarle attraverso un sistema simbolico complesso quale quello dei numeri?

Per anni la teoria predominante che spiegava lo sviluppo delle abilità matematiche è stata quella di Piaget (1965). Per Piaget il bambino non impara il concetto di numero dagli adulti, ma in qualche modo deve scoprirlo da sé dando senso alla propria esperienza, e ciò non avviene prima dei 6-7 anni di età. Egli ritiene che il concetto di numero è acquisito solo dopo quello di cardinalità (idea d’invarianza di un valore, equivalenza tra gli oggetti, modificando la loro posizione nello spazio) e di seriazione (comprendere che un oggetto può essere contemporaneamente più grande di uno e più piccolo di un altro).

Oggi, invece, la più recente ricerca psicologica ha dimostrato come la capacità di comprendere il mondo in termini numerici sia innata e condivisa dall’uomo con animali che si trovano a diversi livelli della scala filogenetica (Rugani, Regolin e Vallortiga 2007).

I bambini, come gli adulti, sembrano possedere un particolare processo di percezione visiva, chiamato subitizing, che permette loro di ricavare la numerosità di un insieme in modo immediato, senza attivare particolari abilità di conta (Mandler e Shebo, 1982) e ciò dimostra una sensibilità alle quantità da uno a tre che sembra essere innata.

Se ancor prima di saper contare, la specie umana sa capire i fenomeni anche in termini di quantità se ne deduce che la conoscenza numerica dipenda da principi cognitivi innati che, integrati con i principi appresi (conoscenze quantitative e conoscenze verbali), determinano sia la competenza nei meccanismi di conteggio, sia la capacità di usare il linguaggio simbolico del sistema numerico verbale e scritto.

Le competenze matematiche dei bambini variano notevolmente durante tutti gli anni della scuola e, alcuni di essi possono mostrare gravi difficoltà con l’acquisizione di adeguate competenze in uno o più domini della materia (Berch & Mazzocco, 2007; Duncan et al., 2007). Infatti, la matematica è una capacità multiforme, di alto livello, che si basa su un certo numero di abilità cognitive quali la memoria di lavoro, le funzioni esecutive, la memoria semantica a lungo termine e la velocità di elaborazione delle informazioni (Andersson, 2007; Berg, 2008; Passolunghi, Mammarella, e Altoè, 2008). Come per gli altri processi di apprendimento, la memoria di lavoro è sicuramente un fattore chiave anche per quello matematico. Essa, infatti, entra in gioco in maniera considerevole nel momento in cui, ad esempio, si devono eseguire dei calcoli a mente, in cui è necessario mantenere informazioni in memoria come il riporto, le tabelline ecc., e al contempo elaborare nuove informazioni (Adams e Hitch, 1998). Infatti, per automatizzare i calcoli mentali, gli esseri umani sono tenuti a mantenere il problema nella memoria di lavoro verbale, mentre calcolano la risposta al fine di costruire associazioni a lungo termine.

Negli anni, l’attenzione dei ricercatori si è sempre più spostata verso l’identificazione di processi cognitivi specifici di base del numero che non sono sufficientemente sviluppati nei bambini con difficoltà di apprendimento matematico.

La ricerca che si è interessata nello specifico delle difficoltà di apprendimento matematico ha messo in luce anche l’influenza di altri due fattori cognitivi, quali l’inibizione e la velocità di elaborazione delle informazioni (Geary, 1994; D’Amico e Passolunghi, 2009), che sono strettamente legate alla memoria di lavoro.

Temple e Sherwood (2002) hanno riscontrato che bambini con difficoltà matematiche sono più lenti rispetto ai controlli nella denominazione di colori ed oggetti. Indagando nello specifico le informazioni di tipo numerico, Geary (1994), ad esempio, ha confrontato la velocità di conteggio tra bambini di classe prima con difficoltà matematiche e controlli, dal quale è risultato che non c’è differenza trai gruppi per quanto riguarda il conteggio, ma che il gruppo con difficoltà matematiche risulta significativamente più lento in altri processi quali la lettura e la denominazione di numeri. D’Amico e Passolunghi (2009) hanno riscontrato una lentezza nei bambini con difficoltà matematiche rispetto ai controlli in prove di denominazione e di capacità di accesso alla memoria a lungo termine, seppure non specifica per il codice numerico, ma anche per quello verbale, dimostrando una generale lentezza nell’elaborazione delle informazioni, non solo di carattere numerico.

Anche il processo di inibizione, dunque, risulta essere molto importante nell’apprendimento in generale e, in particolare, nell’apprendimento matematico. Passolunghi e Siegel (2004) hanno dimostrato che bambini con difficoltà matematiche compiono più errori di intrusione nel compito di Listening span rispetto ai controlli.

Engle (2002), ritiene che la differenza nelle capacità di memoria di lavoro tra bambini con difficoltà matematiche e controlli risieda nell’incapacità di inibire le informazioni irrilevanti che sovraccaricano la memoria di lavoro.

Quindi, la memoria di lavoro ed altre funzioni cognitive ad essa legate, sono cruciali nel determinare le differenze individuali nell’apprendimento matematico e un danno a loro carico può rappresentare la causa delle differenze dei bambini discalculici rispetto al normale sviluppo delle abilità aritmetiche.

I deficit che conseguono il mal funzionamento cognitivo si considerano veri e propri disturbi dell’apprendimento. E, tanto più la disfunzione è estesa, tanto più generalizzato sarà il disturbo. Il danneggiamento di un modulo può produrre disturbi circoscritti, senza necessariamente compromettere il funzionamento del sistema cognitivo nel suo insieme. A tale livello si collocano i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

Bambini con difficoltà di apprendimento nel calcolo matematico: il ruolo dell’ansia

Sono numerosi i bambini che già nella scuola dell’obbligo esperiscono serie difficoltà nell’area matematica, sviluppando stati d’ansia e comportamenti demotivanti, che poi hanno come conseguenza l’evitamento, o in taluni casi, l’abbandono di percorsi scolastici che implicano lo studio di tale disciplina. Ancora forti sono gli stereotipi relativi alla matematica «si è o non si è portati», «si ha o non si ha il pallino», ciò ha una forte influenza sugli aspetti emotivo-motivazionali e sul comportamento degli alunni. Per sottrarsi a possibili insuccessi e allo stato d’ansia, chi è convinto di “non essere capace” spesso mette in atto comportamenti di evitamento, che hanno l’effetto di impoverire ulteriormente le sue capacità.

Le abilità matematiche di base sono molto importanti per il successo sia scolastico che della vita di tutti i giorni. Eppure molte persone sperimentano apprensione e paura quando hanno a che fare con informazioni numeriche; questo fenomeno prende il nome di “ansia per la matematica”.

L’ansia per la matematica è una reazione affettiva negativa a situazioni che coinvolgono numeri, matematica e calcoli matematici, “un sentimento di tensione e ansia che interferisce con la manipolazione dei numeri e la risoluzione di problemi matematici in un’ampia varietà di situazioni scolastiche e di vita quotidiana” (Richardson & Suinn, 1972, p.551). Essa può manifestarsi con sentimenti di apprensione, disgusto, tensione, preoccupazione, frustrazione e paura. Infatti, le reazioni all’ansia per la matematica possono variare da lievi a gravi, da una frustrazione apparentemente “leggera” ad un opprimente crollo emotivo (e fisiologico).

Molti studi suggeriscono che esiste una notevole proporzione di bambini della scuola primaria e secondaria che soffrono di ansia per la matematica (Ashcraft & Kirk, 2001; Maloney & Beilock, 2012) che è negativamente correlata con le abilità di calcolo (Vukovic, Kieffer, Bailey & Harari, 2013).

Ma perché l’ansia per la matematica è legata a scarse prestazioni in matematica?

Un’idea è che gli individui ansiosi per la matematica manifestando continuamente comportamenti di evitamento, tendendo ad esempio a star lontani dalle classi in cui si svolge questa disciplina, imparano meno matematica e quindi non sviluppano adeguate capacità di calcolo e di conseguenza non sono flessibili nelle abilità del problem solving aritmetico. Infatti, alcuni autori affermano che il comportamento di evitamento causato dall’ansia per questa materia è molto probabilmente legato ad un circolo vizioso caratterizzato da meno pratica nel calcolo, che causa un rallentamento nell’apprendimento e quindi maggiore delusione e problemi emotivi (Ashcraft, 2002; Dowker, 2005).

Già nel 1968, Lang ha affermato che l’ansia per la matematica è come ogni altra fobia che influenza gli individui su livelli differenti:

  • Emotivi: sentimenti/emozioni negative;
  • Cognitivi: preoccupazioni e pensieri intrusivi;
  • Fisiologici: aumentato arousal, battito cardiaco, sudorazione, di fronte a stimoli numerici;
  • Comportamentali: evitamento di contesti o carriere professionali che richiedono l’uso di abilità matematiche.

Tra i principali fattori di rischio dell’ansia per la matematica troviamo:

  • Aspetti cognitivi: Alcuni fattori cognitivi (bassa attitudine in matematica o scarsa capacità di memoria di lavoro) possono indurre l’ansia per la matematica; quest’ultima disturba le risorse di memoria di lavoro, necessarie per poter svolgere compiti matematici rendendo difficile la capacità di concentrarsi e interferendo con la memorizzazione dei contenuti.
  • Fattori di personalità e fattori emotivo-motivazionali: L’ansia per la matematica può essere indotta da aspetti legati alla personalità e da componenti emotivo-motivazionali, quali pensieri di fallimento, scarsa percezione delle proprie abilità matematiche, mancanza di fiducia in se stessi e scarsa autostima, scarsa motivazione, atteggiamento negativo verso la matematica, differenze di genere.
  • Fattori ambientali: Tra i fattori ambientali che possono contribuire all’insorgere e allo sviluppo dell’ansia per la matematica ci sono la condizione socio-economica e culturale della famiglia, le esperienze scolastiche, il rapporto con gli insegnanti.

Uno studio nelle classi terze, quarte e quinte della scuola primaria

Le competenze matematiche dei bambini variano notevolmente durante tutti gli anni della scuola e, alcuni di essi possono mostrare gravi difficoltà con l’acquisizione di adeguate competenze in uno o più domini della materia.

I risultati presenti in letteratura, infatti, convergono nel sostenere che, da un punto di vista cognitivo:

  • Le prestazioni dei bambini in matematica sono supportate da abilità quali la memoria di lavoro, le funzioni esecutive, la memoria semantica a lungo termine e la velocità di elaborazione delle informazioni (Andersson, 2007; Berg, 2008; Passolunghi, Mammarella, e Altoè, 2008;)
  • La memoria di lavoro è sicuramente un fattore chiave per l’apprendimento matematico. Essa, infatti, entra in gioco in maniera considerevole nel momento in cui, ad esempio, si devono eseguire dei calcoli a mente, in cui è necessario mantenere informazioni in memoria come il riporto, le tabelline ecc., e al contempo elaborare nuove informazioni (Adams e Hitch, 1998).
  • La ricerca che si è interessata nello specifico delle difficoltà di apprendimento matematico ha messo in luce anche l’influenza di altri due fattori cognitivi, quali l’inibizione e la velocità di elaborazione delle informazioni (D’Amico e Passolunghi, 2009).

Da un punto di vista emotivo-motivazionale e comportamentale, la letteratura ha messo in luce i seguenti risultati:

  • Il processo di apprendimento relativo alla matematica è fortemente influenzato da una serie di variabili emotivo-motivazionali relative al soggetto che apprende.
  • Sono numerosi i bambini che già nella scuola dell’obbligo esperiscono serie difficoltà nell’area matematica, sviluppando stati d’ansia e comportamenti demotivanti, che poi hanno come conseguenza l’evitamento, o in taluni casi, l’abbandono di percorsi scolastici che implicano lo studio di tale disciplina.
  • Le frequenti prestazioni deficitarie in matematica o i frequenti fallimenti nel comprendere i concetti matematici, conducono verso emozioni negative come l’ansia per la matematica, che a sua volta è probabile che porti a comportamenti di evitamento.
  • L’ansia specifica per la matematica è stata associata con una riduzione della capacità di memoria di lavoro e con una lenta e inaccurata risoluzione di problemi aritmetici.

E’ all’interno di questa cornice che si inserisce uno studio da noi effettuato nelle classi terze, quarte e quinte della scuola primaria al fine di indagare quali sono le principali cause dell’insuccesso in matematica includendo, tra le variabili considerate, sia fattori di tipo cognitivo che fattori di tipo emotivo-motivazionale. In particolare sono state analizzate le differenze tra bambini con buone prestazioni in prove di matematica e bambini con scarse prestazioni nelle medesime prove al fine di identificare le variabili che li differenziano.

Ci aspettavamo che i bambini con basse prestazioni in matematica riportassero maggiori livelli di ansia specifica in matematica, ma non di ansia generalizzata rispetto ai bambini con buone prestazioni in matematica, e maggiori difficoltà nelle funzioni esecutive.

In un primo momento sono state somministrate delle prove per distinguere tra bambini con e senza difficoltà di calcolo; successivamente sono state prese in considerazione le differenze tra i gruppi rispetto ai fattori emotivo-motivazionali e cognitivi utilizzando questionari e prove per valutare le funzioni esecutive e in particolare la capacità del bambino di inibire le informazioni irrilevanti ai fini del compito.

Il risultato interessante è stato che le variabili che meglio discriminano tra i due gruppi sono riferite a due prove non specifiche per l’elaborazione di materiale numerico, una che indaga i processi di inibizione di una risposta verbale, e l’altra che riguarda l’ansia specifica per la matematica. Infatti, non solo i bambini che presentavano difficoltà nel calcolo esperivano maggiori livelli di ansia specifica per la matematica, ma tendevano anche a commettere più errori di interferenza poiché non riuscivano ad inibire le risposte automatiche di tipo verbale.

Conclusioni

Comprendere i fattori che sono implicati nell’ansia della matematica, fornisce indizi su come prevenirne la comparsa. Se le carenze nelle competenze aritmetiche predispongono gli studenti a sviluppare ansia per la matematica, allora l’identificazione precoce di questi studenti a rischio può aiutare a prevenire lo sviluppo dell’ansia per la matematica. Non solo l’ansia per la matematica può emergere sin dall’inizio degli anni scolastici ma il suo sviluppo è probabilmente legato sia a fattori sociali sia alle vere e proprie competenze numeriche di base dello studente, le cui carenze possono predisporlo verso giudizi negativi circa la matematica.

Se le preoccupazioni in situazioni che coinvolgono la matematica compromettono in modo significativo, da un punto di vista cognitivo la memoria di lavoro, l’attenzione e l’inibizione e, da un punto di vista comportamentale favoriscono l’evitamento di situazioni in cui è coinvolta la matematica, è cruciale discriminare bambini con difficoltà matematiche da bambini che falliscono in matematica a causa dell’ansia specifica per la matematica per sviluppare ed implementare il trattamento migliore.

 

Lo sviluppo di un sé compassionevole rende più accettabili le possibili colpe? Uno studio pilota con Compassion Focused Therapy nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Gli effetti della Compassion Focused Therapy di gruppo sono stati confrontati con la baseline iniziale in pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo e dimostratisi resistenti al trattamento standard.

 

Numerosi studi, sia sperimentali che correlazionali, e osservazioni cliniche dimostrano la centralità del senso di colpa nella genesi e nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsivo (per una rassegna, Mancini, 2016), suggerendo che l’attività ossessiva sia finalizzata alla prevenzione e alla neutralizzazione della possibilità di essere colpevole e disprezzabile sul piano morale, possibilità che appare catastrofica agli occhi degli ossessivi che, più di altri pazienti, riferiscono il timore che possano essere oggetto del disprezzo altrui nel caso in cui dovessero rendersi responsabili di errori e/o provocare danni.

Con una ricerca di recente pubblicata sulla rivista Frontiers (Petrocchi, Cosentino et al., 2021) abbiamo voluto verificare se il favorire un atteggiamento compassionevole nei confronti di sé e di auto-perdono produca un abbassamento degli standard morali solitamente impiegati dal paziente per giudicare la propria condotta, una maggiore accettazione della propria imperfezione morale che dovrebbe poi tradursi in una maggiore disposizione ad assumere qualche rischio in più nel dominio sintomatologico rinunciando, in parte o completamente, ai provvedimenti preventivi o di neutralizzazione. In altre parole, ci siamo chiesti: “se il paziente matura una prospettiva più compassionevole nei confronti di se stesso, mediata dall’idea che lui, come ogni altro essere umano, non sia tenuto a fare tanto per prevenire la minaccia temuta, sarà poi più disposto a rinunciare alle condotte preventive o di neutralizzazione e ad esporsi al rischio temuto?”. Nelle nostre aspettative ne sarebbe derivato nell’immediato una riduzione della sintomatologia e, nel lungo termine, della possibilità di ricadute e riacutizzazione del disturbo.

Per promuovere un’attitudine compassionevole nei confronti di se stessi e incline all’auto-perdono ci siamo avvalsi della Compassion Focused Therapy (Gilbert, 2014) in un setting di gruppo. La CFT è un approccio terapeutico riconducibile alla terza onda della terapia cognitivo-comportamentale che sta accumulando sempre più evidenze sperimentali a supporto della sua efficacia. Lo scopo della CFT è quello di aiutare i pazienti a sviluppare un atteggiamento di cura e compassione nei propri confronti e ridurre l’attitudine autocritica che solitamente caratterizza il loro dialogo interiore. Diversi studi stanno confermando l’efficacia di queste pratiche nel ridurre differenti manifestazioni psicopatologiche (disturbi alimentari, PTSD, ansia, depressione e psicosi; per una rassegna si veda Sommers-Spijkerman et al., 2018).

Il disegno sperimentale adottato è stato Multiple Baseline Design per confrontare gli effetti Compassion Focused Therapy di gruppo con la baseline iniziale in pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo e dimostratisi resistenti al trattamento standard. Questo disegno consente di fare inferenze causali e controlla molte minacce alla validità interna. Poiché ogni partecipante agisce come se fosse il proprio controllo, sono necessari meno partecipanti per dimostrare che il cambiamento sia la conseguenza dell’intervento. Le valutazioni frequenti infatti forniscono informazioni, oltre che sulla stabilità dei cambiamenti dei sintomi, sulla coincidenza delle variazioni con l’introduzione del trattamento specifico.

L’intervento si è svolto nell’arco di otto settimane, con incontri settimanali della durata di due ore e ha coinvolto otto pazienti affetti da diversi sottotipi di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Ciascun incontro iniziava con un breve esercizio esperienziale di respirazione e focalizzazione dell’attenzione nel qui ed ora, dopo il quale venivano introdotte diverse pratiche finalizzate a far sperimentare al paziente una maggiore compassione verso se stesso, verso gli altri, e una maggiore accettazione della compassione che proviene dagli altri (il luogo compassionevole, il colore compassionevole, la figura compassionevole; incarnare il sé compassionevole; utilizzare il sé compassionevole nell’incontrare gli altri; visualizzazione dell’autocritica e “incontro” fra il sé critico e il sé compassionevole; il compassionate body scan, lo specchio compassionevole, la lettera compassionevole). Ogni incontro terminava con l’assegnazione di homework (solitamente l’ascolto, almeno una volta al giorno, della registrazione di una pratica sperimentata durante l’incontro precedente) e con una pratica di focalizzazione dell’attenzione nel qui ed ora.

Seppure con le doverose cautele visto il numero esiguo di partecipanti, i risultati dello studio hanno confermato le aspettative di partenza dimostrando una riduzione clinicamente e statisticamente significativa dei sintomi ossessivo-compulsivi in tutti i pazienti, perlopiù stabile a distanza di un mese dal termine del trattamento. Interessante notare, in linea con il modello del disturbo di Mancini (Mancini, 2016), che il miglioramento sintomatologico, dunque, si è registrato a prescindere dal sottotipo del disturbo, a dimostrazione del fatto che il timore di colpa e l’investimento sulla prevenzione di tale evenienza sia l’ingrediente sovraordinato nelle diverse tipologie di DOC. Il risultato dunque è in linea con altri studi precedenti (Perdighe, Mancini, 2012; Cosentino, Mancini, 2012; Cosentino, D’Olimpio, et al., 2012; Tenore, Basile et al., 2020) che dimostrano come l’intervento su questo elemento specifico, il timore di colpa, produca una sostanziale riduzione della sintomatologia anche senza intervenire direttamente su di essa. Questo filone di studi, oltre che dimostrare la centralità del costrutto nella genesi e nel mantenimento di questo disturbo, apre nuove prospettive di trattamento anche in pazienti resistenti al trattamento cognitivo standard.

 

Il respiro e la relazione

Il lavoro psicologico svolto dai Terapisti della Riabilitazione Respiratoria potrebbe essere considerato come una ricerca pilota per quello che attualmente sta accadendo nel mondo come conseguenza del diffondersi del Covid-19.

 

Introduzione

In questo periodo di governo un po’ tiranno, giustificato da un virus che minaccia globalmente, ancora più del solito il nostro organismo viene trattato come una ‘macchina senz’anima’. Si misurano i parametri respiratori, l’efficienza cardiaca, la risposta immunitaria e la funzionalità di tutti gli altri apparati del corpo, gli organi e i sistemi e di conseguenza si accettano di buon grado consigli per cui bisogna stare attenti al contagio, a non ammalarsi, e riguardarsi restando in casa e curando l’osservazione della distanza dagli altri.

Dato che questo virus aggredisce innanzi tutto i polmoni, il contagio è paventato a carico del sistema respiratorio che, visto così, assume un valore meccanico spogliandosi della sua vera funzione che è quella di svolgere un ‘atto’ complesso, quello respiratorio appunto.

Questa deriva rende più che mai necessario riprendere un discorso ‘organismico’ del corpo umano, inteso nel senso di complessivo, che metta al centro dell’attenzione i risvolti relazionali ed emozionali. Nel presente articolo si cerca di perseguire questo intento avvalendosi della rivisitazione di un articolo, pubblicato su Med. Psicosom. 42: 27-36, del 1997 scritto da G. Marciano e G. Pizzi: ‘Riabilitazione respiratoria: la lampada di Aladino’ e che può essere consultato integralmente nella sezione ‘Articoli’ del sito dell’AEPCIS.

Emersione di un problema

Anche se un po’ datato, il lavoro di Marciano e Pizzi è di una sorprendente attualità.

L’articolo descrive l’esperienza clinica psicologica di un gruppo di Terapisti della Riabilitazione Respiratoria (TdR) che, nel corso dell’applicazione delle proprie tecniche chinesioterapiche, avvertono sottili interferenze psicologiche nelle interazioni con i propri assistiti. Notano poi che queste interferenze rischiano di compromettere l’efficacia della tecnica riabilitativa usata, modificando il loro stesso assetto respiratorio e provocando uno stress che definiscono: ‘strapazzo respiratorio’.

In pratica gli operatori si accorsero con sorpresa che i pazienti con cui lavoravano non erano solo corpi fisici ‘passivi’ da rieducare ma che, pur nel disagio della malattia, conservavano il valore di ‘persona’ e che, con la loro competenza fenomenologica, erano capaci di suggerire nessi associativi e diagnostici.

Orientati ad un approccio organismico di tipo biologico, i TdR interpretavano i vissuti delle persone con cui lavoravano come un’invasione indebita, specie quando contraddicevano le verifiche sperimentali. Per esempio quando i pazienti dichiaravano di provare meno dispnea nel salire le scale a fronte di un quadro sanitario rimasto pressoché invariato, l’informazione era considerata un’ingerenza che non poteva competere con le informazioni tecniche rilevate sperimentalmente.

Di fronte a queste incongruenze il gruppo di TdR chiese la collaborazione della cattedra di Psicofisiologia Clinica dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, allora condotta dal Prof. Vezio Ruggieri, che propose un’esperienza di gruppo Balint.

Una ricerca esperienziale

Negli incontri Balint vengono proposte esperienze di simulazione che promuovono atteggiamenti di auto osservazione per aumentare la consapevolezza corporea.

Dall’esperienza suggerita i TdR compresero quanto l’autosservazione poteva essere fondamentale nel lavoro di riabilitazione respiratoria. L’osservazione dettagliata degli elementi del proprio corpo coinvolti nel processo riabilitativo poteva diventare una componente esemplificativa della tecnica riabilitativa. Per esempio l’osservazione del proprio respiro, e l’approfondimento della consapevolezza relativa, poteva assumere un posto centrale nell’orientamento riabilitativo.

Questa maggiore sensibilizzazione condusse alla rivalutazione dell’Eco respiratoria che fino ad allora era stata considerata interferente.

L’Eco respiratoria è un fenomeno multi determinato che si realizza in un contesto relazionale. È più evidente in un contesto in cui l’intento è quello di modificare, assecondandolo, il comportamento di una persona. Per esempio può essere osservato nel gesto della mamma che imbocca il suo bambino oppure quando lo culla. Per un buon esito di tali attività è necessario che la madre adegui il proprio ritmo respiratorio a quello del bambino immedesimandosi nella sua esperienza ritmica di succhiare, ingoiare o essere dondolato (Persico, 2002).

Nella riabilitazione respiratoria accade qualcosa di analogo. Nel cercare di insegnare i dettagli di un corretto e coordinato movimento respiratorio, l’operatore replica inconsapevolmente l’onda respiratoria del paziente per avere una mappa (immagine corporea) del percorso da modificare. Tale processo potrebbe essere definito come una sorta di atto empatico, o imitativo (‘Decodificazione Imitativa’ di Ruggieri, 1997), del comportamento respiratorio adottato, per meglio relazionarlo allo schema corretto del respiro e meglio descriverlo al paziente.

Nei TdR questi eventi così naturali erano complicati dall’attivarsi di difese inconsce. Di fronte alla competenza fenomenologica espressa dai pazienti, i TdR tendevano ad essere sempre più formali e usare formule tecniche standardizzate. Così facendo però, gli operatori trasformavano inconsapevolmente i pazienti in realtà astratte e si autorassicuravano rispettando il protocollo. La spinta di questa dinamica derivava dall’angoscia del contatto che a volte si rivelava in una sorta di ansia espressa nella pratica operativa (per esempio poteva accadere di dimenticare di usare i consueti presidi disponibili per la rieducazione).

Il lavoro Balint consentì d’individuare queste paure che l’analisi consentì di depotenziare e la cui comprensione consentì una sorta di approvvigionamento energetico che si rivelò un ‘lusso’ capace di alimentare la resilienza.

Secondo i conduttori dell’esperienza, perché tali processi si possano compiere pienamente, è necessario l’’appoggio’.

La condizione dell’appoggio è il contrario della sensazione di ‘sospensione’ fisica e psichica.

Per dirla con un’immagine onirica, il vissuto di ‘non-appoggio’ corrisponde allo stato di chi si trova sul limitare di un dirupo reso pericolante dal proprio stesso peso. In quel caso qualunque movimento è rischioso, ma lo è anche restare immobili. Il tempo smette di scorrere e rimane solo uno stato di allerta. È come non potersi lasciare andare alla forza di gravità e non poter cedere al riposo. La sospensione è dovuta alla produzione dell’aumento della tensione muscolare che rende i passi leggeri, i movimenti lievi e gli spostamenti inavvertiti come se l’esistenza potesse trascorrere senza rumore e senza vibrazioni così da evitare le catastrofi. In tale stato il movimento e i processi vitali ed esistenziali vengono vissuti come pericolosi, il respiro diventa lieve riducendosi al minimo indispensabile e fornendo un limitato apporto energetico. Il respiro si realizza con la parte alta del torace, il collo si infossa, il petto si solleva e dilata, le spalle si sollevano e il diaframma riduce la sua espansione.

Nel corso della crescita evolutiva ogni preoccupazione può produrre un certo grado di sospensione e il vissuto che ne consegue è probabilmente analogo a quello indicato come empasse da Perls (Perls, 1980) che si realizza quando ci si trova ad un bivio ritenuto importante nella propria vita.

Tale definizione porta a considerare che cedere o meno al piacere di ‘appoggiarsi’, a sé e all’altro, riveste un ruolo essenziale nella costruzione delle difese, fisiche e psichiche, che partecipano alla formazione del carattere. Carattere che, appare allora evidente, prende forma e si struttura conformemente al movimento respiratorio per cui, infine, ‘appoggiarsi’ può equivalere a ‘respirare’.

Allora il frutto di questo lavoro, che potrebbe essere positivamente utilizzato anche nell’attuale contesto epocale del coronavirus, è che per offrire appoggio è necessario essere, a propria volta, in possesso di un solido appoggio personale. È per questo che non è vero che le condizioni di aiuto specialistico generino automaticamente la possibilità di comprensione e di sostegno e non è neanche vero che qualsiasi aiuto, per quanto metodico, sistematico e attento, possa ricondursi ad un valido sostegno per una sana guarigione.

Si può essere un solido puntello solo se prima si è imparato a stare a proprio agio nella funzione da riabilitare, agio che corrisponde appunto all’appoggio. Nel caso del respiro quindi solo se si è appoggiati a sé stessi e alle proprie strutture, fisiche e cognitive, il respiro si fa morbido e ampio. Si approfondisce e comunica tranquillità e solidità permettendo all’altro di appoggiarsi a sua volta e sperimentare un fiducioso abbandono alla cura.

Riflessioni aggiuntive

Il lavoro psicologico svolto dai TdR potrebbe essere considerato come una ricerca pilota per quello che attualmente sta accadendo nel mondo come conseguenza del diffondersi del Covid-19.

Nel caso della cura delle patologie respiratorie, sembra evidente che non ci si può limitare alla cura dei soli aspetti fisici e corporei. Siccome anche gli operatori sanitari cercano e realizzano un proprio ‘appoggio’ corrispondente al modo in cui respirano e si relazionano agli altri allora anche quando sembrano magicamente capaci di rapportarsi con qualunque paziente, in realtà vivono e sono vissuti da dimensioni relazionali conflittuali che li rendono, sì amorevoli e attenti, ma anche critici, parziali e superficiali in certe condizioni.

Questi sentimenti, conformi a specifiche modalità respiratorie, condizionano e sono condizionati (e quindi comunicano) dai modi con cui le altre persone respirano a loro volta. Se queste condizioni comunicative implicite e subliminali non vengono riconosciute, è possibile che permangano in una sospensione emotiva che può rivelarsi stressogena.

Inoltre, siccome la pandemia sospende il contatto diretto tra le persone in genere, vale per tutti la necessità di apprendere nuove pratiche relazionali attraverso cui togliere i camici, i guanti e le mascherine, almeno virtualmente, per disporsi ad un vero ascolto.

Il rischio dell’intervento standardizzato, anche se preciso e puntuale, porta con sé il rischio della scomparsa dell’empatia sotto i caschi per l’ossigeno, sotto le mascherine, negli schermi spersonalizzati, sotto le tute asettiche e igienizzanti vari.

Il rischio dei presìdi, usati da soli e senza accorgimenti relazionali, è che svuotano il vocabolario degli sguardi così che, sottratto alla vista il corpo, l’incontro si fa virtuale anche nei suoi aspetti intimi. Allora alla vista resta solo una minaccia in cui si paventa un tono, una tensione e un respiro colorati di superficialità, frettolosità, stanchezza e paura.

Specialmente in questo contesto pandemico dobbiamo riappropriarci e conservare la consapevolezza del fatto che, quando manca il contatto, gli organi smettono di fremere e trasmettere vibrazioni emotive e rischiano l’estromissione dal gioco delle parti. La possibile conseguenza di questa caduta informativa potrebbe essere la compromissione della comunicazione e del rapporto con il depauperamento del movimento e della relazione.

Il Covid-19 non aggredisce solo i polmoni ma tocca le relazioni. E non solo perché separa e distanzia le persone ma perché inficia l’atto respiratorio nel suo complesso e il valore relazionale di cui quest’ultimo è portatore.

Compromettendo la capacità respiratoria compromette l’intera capacità delle persone di entrare in contatto, entrare in sintonia e comprendersi. Compromette la capacità di incontrarsi nel mondo degli oggetti e degli affetti che ‘qui ed ora’, in questo preciso momento, realizzano e affollano lo spazio della mente.

 

La famiglia Savage (2007): diagnosi e istituzionalizzazione – Recensione del film

Il film La famiglia Savage è una riflessione su come la malattia e la perdita delle autonomie di un genitore comportino spesso il riemergere di dinamiche familiari congelate per anni.

 

Di sicuro il rovescio della medaglia dell’aumento della speranza di vita, e del conseguente aumento della popolazione anziana, è l’incremento dei tassi di prevalenza di malattie croniche e degenerative come la demenza. Negli ultimi decenni sempre più film trattano questa problematica, ognuno dando peso a differenti aspetti della care. Uno di questi è La famiglia Savage (2007), scritto e diretto da Tamara Jenkins.

Il film vede come protagonisti Jon e Wendy, fratello e sorella, che vivono in zone diverse degli States e si sentono raramente, entrambi con una vita sentimentale e professionale insoddisfacente. All’improvviso ricevono una notizia: l’anziano padre, con cui i rapporti si sono interrotti da un po’, sembra avere i sintomi tipici della demenza e, dopo la morte della compagna, viene cacciato dalla casa in cui si trovava. Ora che è rimasto senza tetto e non più autosufficiente, come non occuparsene? Questo evento improvviso e repentino porta i due fratelli a riconciliarsi al fine di decidere circa l’assistenza del padre, cambiando le proprie abitudini quotidiane. Viene rappresentata, quindi, l’intensa, coinvolgente e complessa esperienza del prendersi cura del proprio genitore anziano fragile.

Ogni famiglia vive momenti di difficoltà e crisi che portano a un disequilibrio e che necessitano di una nuova organizzazione dei rapporti tra i membri della famiglia stessa. Nel caso della non-autosufficienza, il primo passo per organizzare la care è individuare un familiare o una persona fidata che assuma il ruolo di caregiver principale. Nel caso dei Savage, Jon e Wendy decidono di prendersi entrambi la responsabilità di compiere delle scelte per il padre, optando per l’istituzionalizzazione.

Diventano allora protagoniste le dinamiche relazionali che si innescano tra i membri della famiglia coinvolti, in particolare alla luce del loro passato. Il film è, quindi, una riflessione su come la malattia e la perdita delle autonomie di un genitore comportino spesso il riemergere di dinamiche familiari congelate per anni. Due sono gli aspetti su cui è bene concentrare l’attenzione, ovvero la modalità con cui viene comunicata la diagnosi e la difficile scelta di inserire il proprio caro in una struttura.

La comunicazione della diagnosi

Fin dalle prime scene vediamo un anziano scorbutico, offensivo e con disturbi del comportamento evidenti. Ai figli viene riferito che “non è più quello di prima” e che “si dimentica tutto”. Raggiunto l’ospedale in cui è ricoverato, i figli trovano il padre a letto, agitato, confuso, con misure di contenzione. Qui hanno modo di interfacciarsi con il medico che li accompagna velocemente a visionare i risultati di neuroimaging. Il medico adotta un linguaggio molto tecnico e sbrigativo, elencando una serie di segni e sintomi riscontrati nel padre (caduta dei freni inibitori, fissità dello sguardo, aggressività, inespressività del volto) che lo fanno propendere più per una diagnosi di morbo di Parkinson, prospettando ai familiari un crescendo di complicazioni e deficit.

Il medico adotta, quindi, un modello di comunicazione della diagnosi che Emanuel ed Emanuel (1992) definiscono informativo: il professionista è simile a un tecnico esperto che deve fornire al paziente tutte le informazioni, sarà poi il paziente o chi per lui a decidere su come intervenire. I limiti di questa modello, riscontrati dagli autori, sono la presunzione che il paziente o caregiver siano in grado di prendere decisioni che sono il più delle volte complesse e la semplificazione della realtà clinica e del ruolo del medico.

Più attuale e adeguato è invece il modello deliberativo, secondo cui il medico è tenuto a instaurare un dialogo con il paziente su quale azione potrebbe essere la migliore da intraprendere, andando al di là degli obiettivi immediati della relazione professionale. Il professionista dovrebbe rispettare le difese del paziente e non distruggere la speranza, dal momento che è sempre possibile intraprendere interventi utili, almeno per diminuire la sofferenza. Soprattutto nel caso di prognosi infausta, il medico dovrebbe cercare di comprendere il peso del sapere che il paziente può sopportare e, nella comunicazione della diagnosi, dovrebbe saper coniugare il “diritto alla verità” con il “diritto alla speranza”.

J: E quindi che cosa ci dobbiamo aspettare?

M: Beh non è più giovanissimo e una crisi cardiaca o polmonare potrebbe risparmiargli il peggio. Tuttavia, non mancheranno tremori, un incedere saltellante, improvvise immobilità, difficoltà nel controllo degli arti… insomma un crescente deficit motorio.

L’istituzionalizzazione

Il prendersi cura di un genitore è un’esperienza complessa che riporta a galla legami, relazioni e “conti in sospeso”.

Ogni scelta presa, sia essa temporanea o permanente, comporta un costo emotivo, facendo emergere sentimenti ambivalenti e contrastanti. Mentre Wendy appare più coinvolta emotivamente e in preda ai sensi di colpa, Jon risulta più distaccato e razionale. Nella scelta di inserire il padre in una struttura per anziani, mentre Wendy si sente un “mostro orripilante” e valuta attentamente la qualità dei servizi offerti per garantire al genitore la migliore assistenza possibile, Jon individua e sceglie una struttura in base alla vicinanza e risponde ai sensi di colpa della sorella con un “gli stiamo dando più di quello che lui ha dato a noi”.

Aspetti della relazione precedente hanno, dunque, un impatto sul modo in cui la relazione di cura funziona e su come viene vissuto il ruolo di caregiver.

Wendy cerca di fare il possibile per lenire il proprio senso di colpa: personalizza la stanza del padre arredandola in modo che faccia più “casa”, porta con sé il fratello a gruppi di sostegno per familiari di anziani con demenza e prova a inserire il padre in una struttura qualitativamente superiore a quella in cui risiede, con scarso successo.

Questa esperienza avvicinerà i due fratelli, portandoli a conoscersi meglio, a cambiare e migliorare, riprendendo in mano la loro vita.

J: Non è a lui che non piace la casa di riposo dove sta adesso.

W: Voglio solo migliorare la sua situazione, è un delitto?

J: La situazione di papà va benissimo com’è, ma non ci si abituerà mai se continuiamo a sbatacchiarlo a destra e sinistra… Anzi per dirla tutta, questa tua fissa per i posti chic è controproducente e spaventosamente egoista!

W: Egoista?

J: Sì perché lui non c’entra, sei tu e il tuo senso di colpa.. che è la cosa su cui puntano loro [le case di riposo]

W: Io osservo soltanto che qui è più dignitoso!

J: È logico, perchè sei il loro consumatore ideale: una garantista coi sensi di colpa! Il parco tenuto bene e il paesaggio carino non sono per gli ospiti, sono per i parenti… persone come noi che non vogliono ammettere cosa succede qui!

W: Perchè cosa succede qui?

J: Qui si viene a morire, Wendy! Dentro quel delizioso edificio, in questo istante, è peggio di un castello degli orrori […]

 

LA FAMIGLIA SAVAGE – GUARDA IL TRAILER:

 

Dipendenze patologiche e il modello delle “tre colline” – Intervista al Dott. Maurizio Frisina

Il modello delle “tre colline” offre una visione allargata e complessa alla tematica delle dipendenze e ha permesso di formalizzare il mio modo di lavorare, basato sull’idea che non si possa cogliere la complessità clinica con una sola chiave di lettura (Maurizio Frisina).

 

Maurizio Frisina è psicologo e psicoterapeuta, formatore alla Scuola di specializzazione in psicoterapia a orientamento sistemico e socio-costruzionista del Centro Panta Rei di Milano.

Si occupa da anni del trattamento delle dipendenze e co-dirige il servizio U1 della Clinique La Ramée – Groupe Epsylon a Bruxelles.

Nel 2020 pubblica Sul bordo del caos – Complessità, terapia sistemica e dipendenze, edito da Mimesis, un testo sulla dipendenza da sostanze, frutto di anni di esperienza sul campo e di insegnamento, nel quale l’autore propone delle mappe innovative per orientarsi nel mondo delle dipendenze.

Edoardo Perini (EP): Maurizio, come arrivi ad occuparti di dipendenze dal punto di vista sistemico relazionale in Belgio?

Maurizio Frisina (MF): Ho iniziato a lavorare in ospedale, occupandomi di disturbi alimentari, per poi proseguire nel settore delle dipendenze, nel quale ho deciso di rimanere. Questo ambito continua ogni giorno ad appassionarmi perché se è vero che si tratta di un problema pervasivo, è tuttavia anche fluido, ovvero crea possibilità di cambiamento nei pazienti. La relazione terapeutica è molto intensa, contrassegnata dalla velocità tra perturbazione e cambiamento.

EP: Nell’immaginario collettivo, in un contesto come quello delle dipendenze, pensare al cambiamento può essere difficile. Infatti molti Sert, anche in Italia, sono più orientati alla gestione della cronicizzazione.

MF: Parlare solo di cronicità è un po’ una tautologia, una costatazione. Uno dei motivi per i quali ho proposto una classificazione delle dipendenze lungo il continuum tra caos e periodicità è proprio la varietà clinica dei casi con i quali sono entrato in contatto. Ho voluto soffermarmi su quali siano i meccanismi e i processi che portano al cambiamento.

EP: Il modello sistemico abbraccia la complessità e cerca di comprendere il problema in tutti i suoi aspetti, prospettiva opposta a quella del riduzionismo, approccio più economico e rassicurante ma meno efficace in quanto porta alla perdita di tante connessioni.

Nella realtà in cui lavori, è stato semplice far capire, anche a livello istituzionale, quanto sia utile affrontare un “problema complesso in modo complesso”?

MF: Nella mia Istituzione c’è già uno spazio previsto per l’approccio sistemico: ogni paziente è seguito da uno psichiatra, uno psicoterapeuta individuale e uno familiare. Inoltre, da quando co-dirigo il servizio, ho dato sempre più spazio a tale approccio, pur considerando una ricchezza il confronto con altri orientamenti.

EP: Entrando più nello specifico, quanto del modello delle “tre colline”, che offre una visione allargata e complessa alla tematica delle dipendenze, è preso dai modelli classici sistemici, dallo strutturalismo e dalla pragmatica della comunicazione umana?

MF: Con questo modello ho voluto formalizzare il mio modo di lavorare, basato sull’idea che non si possa cogliere la complessità clinica con una sola chiave di lettura. Qualsiasi modello lascia sempre fuori qualcosa, e questo mi ha incoraggiato ad integrare più modelli, per rendere conto della ricchezza delle dipendenze. In riferimento alle tre colline, citate nel libro, quella dell’organizzazione si avvicina maggiormente allo strutturalismo, concentrandosi sulla struttura del sistema, su come esso si organizza intorno alla sostanza e sulle ridondanze relazionali.

La collina narrativa si focalizza sul linguaggio: sul modo in cui, attraverso esso, costruiamo la realtà e su come la perdita di libertà si rifletta sull’impoverimento del discorso. Spesso il soggetto grammaticale è la sostanza e non la persona e, dato che il linguaggio è il modo in cui pensiamo, se la storia è ridotta è difficile pensare al cambiamento.

Infine, la collina temporale evidenzia il ruolo del tempo: come le dipendenze si modificano in rapporto al tempo, sia a livello esperienziale/fenomenologico che cronologico. La sostanza agisce nel tempo sempre nello stesso modo, creando un vero e proprio rituale, che a mano a mano prende il posto dei rituali familiari.

EP: Facendo riferimento alla tua esperienza clinica professionale, hai trovato delle associazioni tra i tipi di sostanze di abuso, le personalità dei pazienti o la loro storia clinica?

MF: Quando si pensa alle dipendenze si possono avere due porte di entrata: ci si può focalizzare sui diversi prodotti e le loro specificità, ragionando sulle proprietà del prodotto in sé, oppure si guarda più la relazione con il prodotto, al di là della sua specificità. Io ho deciso di utilizzare la seconda prospettiva per due ragioni:

  • dal punto di vista teorico, nella teoria sistemica l’unità di analisi è la relazione con il prodotto più che il prodotto in sé;
  • a livello di esperienza clinica, i pazienti sono più variegati rispetto alle categorie che abbiamo per descriverli. Infatti, da un lato, lo stesso prodotto rimanda a funzioni diverse (ad esempio, la cocaina: per alcuni può servire a disinibire i freni e perdere il controllo, mentre per altri può avere una funzione calmante); dall’altro, alcune persone fanno uso di più prodotti che, nonostante non abbiano lo stesso grado di dipendenza, sono tra loro in connessione, rendendo difficile la classificazione in un’unica categoria. Quindi, in generale, preferisco guardare più alle connessioni che alle specificità.

È bene comunque evidenziare alcune specificità interessanti, come quelle tra:

  • prodotti illegali, caratterizzati da un consumo più trasgressivo e nascosto, e prodotti legali, più banalizzati e inseriti più facilmente nel lessico familiare;
  • dipendenza fisica dal prodotto e dipendenza senza sostanza: la prima agisce sul corpo, producendo uno scollamento tra schema corporale e stato effettivo del corpo, che si traduce nella difficoltà a parlare di emozioni e distinguerle; nella seconda, invece, c’è un’attivazione globale ma è meno presente l’effetto fisico sul corpo (es. gioco d’azzardo).

EP: In merito al tema della trasgressione, sappiamo quanto esso sia centrale in adolescenza. A tal proposito ci chiedevamo se questa tendenza potesse emergere anche in età adulta o fosse tipica solo del periodo adolescenziale?

MF: L’adolescenza è una fase di transizione e di esplorazione dell’identità, la trasgressione è qualcosa di funzionale con cui l’adolescente mette alla prova le regole e i valori familiari, e porta ad un equilibrio dinamico tra il bisogno di differenziazione e quello di appartenenza. È un momento tanto di crisi quanto generativo.

Si possono riscontrare delle similitudini in età adulta: anche in questa fase, si osserva un mettere alla prova le relazioni, i dispositivi di cura e le sue regole, e il voler oltrepassare i limiti per vederli.

Quando, in età adolescenziale, l’equilibrio tra appartenenza e differenziazione non va a buon fine, può riproporsi in età adulta.

EP: Quanto la famiglia può ostacolare o promuovere un cambiamento e portare ad una guarigione?
Quali potrebbero essere i comportamenti più indicati per favorire il processo di cura?

MF: La problematica e il sintomo del paziente si estendono all’intero sistema, influenzando le sue relazioni significative. È quindi importante coinvolgere la famiglia nel processo di cura, non come ricerca delle cause ma come ricerca delle soluzioni.

Se dovessi dire qualcosa ad una famiglia di un soggetto dipendente direi: “siate pronti ad accompagnare il cambiamento e ad accettare perdite di riferimenti che non riguardano solo la persona in cura”. Il cambiamento non si ferma quando la persona smette di diventare dipendente da quella sostanza, ma inizia proprio in quel momento.

EP: Quanto affermi ci fa capire che se non si lavora sugli effetti che l’assenza della sostanza crea anche nel contesto più allargato, le ricadute sono più facili.

MF: Quando l’astinenza è percepita come obiettivo e non come mezzo, il paziente è più soggetto ad una ricaduta. Non affrontando la tematica in modo diverso e limitandoci a togliere la “cattiva soluzione”, il sistema tende a ritornare ad essa, per ritrovare un equilibrio.

Da questo punto di vista, quando si ha un’alternanza di ricadute e astinenza, bisogna vedere il consumo e l’astinenza sullo stesso piano: sono entrambe importanti ed è lì che inizia il vero processo di cambiamento.

EP: Nel tuo libro parli di tre livelli di dipendenza (A, B, C). Nel caso del tipo C, in cui il soggetto sembra aver perso le risorse necessarie per fronteggiare il suo problema, è possibile una completa remissione dal disturbo? Oppure, il paziente con una dipendenza di tipo C presenterà sempre una debolezza, che lo porterà ad essere più a rischio di ricadute rispetto a soggetti con una dipendenza di tipo A o B?

MF: Il tipo C è la situazione più complicata, dove vi sono rotture relazionali, il corpo è più colpito e ci sono meno risorse, con perdita di autonomia. All’inizio c’è bisogno di stabilizzare e ridurre il rischio e da lì è possibile far leva sulle risorse rimaste e sulla resilienza.

Io credo nel cambiamento, rimango sempre sorpreso dalle persone che riescono a rialzarsi da situazioni anche estremamente drammatiche; tuttavia, nel caso del tipo C è molto difficile: questi pazienti sono più vicini all’entropia. Riuscire a scivolare verso il tipo A e B è come risalire la corrente di un fiume: si può ma non è sempre possibile.

EP: Questo concetto rimanda al tema della precocità dell’intervento: quando il problema è presente da poco tempo, il cambiamento è più facile da ottenere. Viceversa, più aumenta l’età della persona e il tempo di permanenza nelle difficoltà, più tutte le relazioni si strutturano intorno ad essa, quindi è difficile “risalire la corrente”.

MF: Nel paziente di tipo C permane sempre una fragilità, poiché per anni ha strutturato il suo funzionamento attorno al prodotto.

Anche io credo nell’importanza della precocità di intervento, tuttavia è raro che il paziente si presenti in terapia all’inizio del problema, poiché il sintomo non è ancora visibile.

A tal proposito, per riuscire ad anticipare l’intervento, da un paio di anni abbiamo creato un sito rivolto a coloro che iniziano ad interrogarsi sulla loro relazione al prodotto, senza che sia già connotata come patologica e senza che abbia delle ricadute sulla quotidianità. In questo modo, iniziano ad arrivare pazienti a stadi più precoci. I loro problemi, non essendo così radicati, possono essere risolti attraverso alcune sedute. All’inizio, infatti, le possibilità di cambiamento sono più fluide e più facili, e se si interviene velocemente si ha molta più possibilità di ritrovare una relazione normale con la sostanza. Non bisogna aspettare di aver toccato il fondo per chiedere aiuto.

EP: Credo sia importante aprire la porta anche ai familiari e, qualora il soggetto non voglia chiedere aiuto, interrogarsi sui motivi sottostanti questo rifiuto, il più delle volte non banalizzabili ad una semplice contrarietà agli psicologi, ma riguardanti tematiche relazionali conflittuali con la famiglia.

MF: Esatto, spesso il processo di cura non inizia con la persona che esprime il sintomo ma con qualcuno nel nucleo famigliare che ha più coraggio di esprimersi e di “andare verso l’esterno”. Fortunatamente l’approccio sistemico offre diverse porte d’entrata al cambiamento.

EP: Grazie Maurizio per le tue risposte. A questo punto lascerei spazio alle due giovani colleghe, Sara Pegoraro e Sara Ranieri, che, all’interno del loro tirocinio pre-lauream, hanno letto il tuo libro e desiderano porti due domande.

Prima domanda: Ha avuto occasione di trattare pazienti adolescenti un po’ restii e non sempre pronti ad aprirsi con un terapeuta, come lavora con loro?

MF: Incontro maggiormente pazienti adolescenti nel mio studio privato, mentre in ospedale vi sono meno casi.

Per riuscire ad agganciarsi a loro è importante interessarsi a loro: alla loro vita ma anche alla loro dipendenza. Prima di vedere il prodotto come qualcosa da eliminare, è importante capire cosa gli adolescenti trovano nell’oggetto di dipendenza. Questo permette di entrare in connessione con loro, con ciò che li appassiona, per poterli accompagnare verso la guarigione.

Seconda domanda: Secondo l’approccio sistemico, dove è fondamentale coinvolgere nel trattamento la famiglia e il sistema di interazione, come si potrebbe agire nel caso in cui la famiglia non ne comprenda l’importanza e non riesca a farsi coinvolgere in tale trattamento?

MF: In primo luogo è importante capire il motivo per cui la famiglia decide di non rientrare nel processo terapeutico, poiché spesso hanno delle “buone” ragioni, nella loro ottica.

Inoltre, spesso il cambiamento nella relazione viene visto come una minaccia, non come un’evoluzione, quindi sarebbe importante analizzare anche questo aspetto.

Nel caso in cui non sia possibile coinvolgere la famiglia, è importante agire comunque sul singolo individuo, attraverso “porte di entrata” differenti.

Concludo dicendo che, al di là di quante persone siano presenti nello spazio terapeutico, è possibile utilizzare tale approccio: la grande ricchezza della teoria sistemica è il fatto che sia un modo di vedere la realtà, un’epistemologia e non una tecnica di intervento vero e proprio. Va oltre la terapia, è un modo di vedere le cose, ed è questo che continua ad appassionarmi ogni giorno.

Nda: Si ringraziano Sara Pegoraro e Sara Ranieri, per il loro essenziale contributo nella stesura di questa intervista

 

Dilatazione del tempo depressivo: la concezione del tempo in soggetti depressi

La dilatazione del tempo è un rallentamento temporale ben consolidato, percepito da parte dei soggetti nell’esperienza consapevole. Questo fenomeno può essere sperimentato dalle persone affette da depressione.

 

Nella teoria della relatività, Einstein (1920) osserva come il tempo sembra scorrere più lentamente in determinate contingenze: la “dilatazione del tempo” è stata coniata nel campo della fisica (Kent, Van Doorn & Klein, 2019). Nel campo psicologico, la dilatazione del tempo non viene misurata in intervalli di secondi, minuti o ore, bensì viene misurata in termini di

velocità o rallentamenti percepiti individualmente con il passare del tempo. (Kent, Van Doorn & Klein, 2019)

È noto come la depressione sia in grado di influenzare la percezione in generale e la percezione del tempo (Bech, 1975; Dilling & Rabin, 1967; Hawkins et al., 1988; Mezey & Cohen, 1961). Alcuni ricercatori si sono focalizzati sulla valutazione compromessa del tempo da parte di soggetti depressi (Bech, 1975; Bschor et al., 2004; Aneto & Rabin, 1967; Gallagher, 2012; Kornbrot, Msetfi & Grimwood, 2013), mentre altri hanno evidenziato come il tempo “passa più lentamente” quando si è depressi (Kent, Van Doorn & Klein, 2019; Kitamura & Kumar, 1982; Stanghellini et al., 2017; Thönes & Oberfeld, 2015). Questo effetto è noto come “dilatazione del tempo depressivo” ed è un rallentamento temporale ben consolidato, percepito da parte dei soggetti nell’esperienza consapevole (Kent, Van Doorn & Klein, 2019; Thönes & Oberfeld, 2015).

Thönes e Oberfeld (2015) hanno misurato la percezione del tempo nella depressione attraverso una scala analogica visiva: quest’ultima ha un continuum che parte da “molto veloce” a “molto lento”. Secondo il modello della percezione del tempo “dell’orologio interno” (Allman et al., 2014; Burle & Casini, 2001; Treisman, 1963; Zakay & Block, 1995), dilatazione e accelerazione possono essere interpretate grazie a due fattori che contribuiscono alla durata percepita (Glicksohn, 2001), cioè la 1) “dimensione” delle unità di tempo e il 2) “numero” di unità di tempo percepite (Kent, Van Doorn & Klein, 2019). In sostanza, si presume che la durata percepita sia un multiplo di questi due fattori (Kent, Van Doorn & Klein, 2019).

Un fenomeno curioso è come la percezione di unità del tempo più grandi sia vissuta in modo rallentato (come se il tempo scorresse più lentamente), mentre la percezione di unità di tempo più piccole richiedono più tempo per essere percepite (come se il tempo scorresse più velocemente; Kent, Van Doorn & Klein, 2019). Nella depressione, il passaggio dalla dilatazione e all’accelerazione del tempo implica che le unità fluiscono più rapidamente, oppure diventano più piccole man mano che gli intervalli di tempo si allungano (Kent, Van Doorn & Klein, 2019).

Nonostante le persone depresse vivano il tempo come lento, Kent e colleghi (2019) hanno svolto una meta analisi per osservare come mai le persone depresse riescono a sovra produrre brevi durate di tempo e a sotto produrre durate di tempo più lunghe. Escludendo due studi su sei, Kent e colleghi (2019) hanno osservato l’accelerazione del tempo in soggetti depressi: il tempo soggettivo accelera (1 secondo circa) dalla dilatazione iniziale alla successiva accelerazione all’interno della memoria di lavoro (con una durata di circa 30 secondi). Gli autori suggeriscono come l’effetto dell’accelerazione si verifichi a causa della congruenza dell’umore tra lunghi intervalli, noia e depressione: questa congruenza dell’umore porta al richiamo automatico di memorie autobiografiche intrusive a lungo termine, memorie negative e non specifiche che sono state utilizzate per giudicare gli intervalli dall’esperienza precedente (Kent, Van Doorn & Klein, 2019). Nonostante gli studi revisionati siano pochi, questa metanalisi fornisce la spiegazione di un potenziale legame tra il giudizio soggettivo in persone depresse e l’esperienza del tempo accelerato all’interno dello stesso modello esplicativo (Kent, Van Doorn & Klein, 2019).

 

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