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Plusdotazione e regolazione emotiva: quale rapporto?

Essere plusdotati non significa solamente avere una intelligenza ampiamente sopra la media, ma implica spesso la presenza di diverse problematiche, quali difficoltà nella regolazione delle emozioni, isolamento e solitudine.

Anselmini Julianita e Paolini Valentina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Condurre dei programmi per il potenziamento dell’Intelligenza Emotiva a scuola potrebbe contribuire, almeno in parte, alla riduzione di tali criticità.

Con il termine plusdotazione o giftedness si fa riferimento a una complessa costellazione di caratteristiche cognitive, emotive e comportamentali che si esprimono in modi differenti.

Il soggetto “plusdotato” (gifted), adulto o bambino, è solitamente un individuo che, rispetto ai pari, mostra o ha il potenziale per mostrare un’abilità sorprendente in un determinato momento e in specifiche aree considerate importanti (Keating, 2009; Pfeiffer, 2012).

La rilevazione di un quoziente intellettivo superiore o uguale al 130 è sicuramente la determinante più evidente per ottenere la “certificazione” di alto potenziale, anche se non sarebbe corretto parlare di certificazione o diagnosi, in quanto la plusdotazione non è un disturbo. Questo parametro è necessario ma non sufficiente, perché non dà una immagine rappresentativa della complessità dell’intelligenza, oltre che delle diverse forme che essa può assumere: vi sono, infatti, manifestazioni di tipo emotivo, comportamentale, artistico e morale tipiche in questi individui che non vengono considerate nel concetto classico di intelligenza.

Sono presenti numerosi stereotipi sull’argomento, secondo cui i bambini plusdotati sarebbero ben regolati, indipendenti, efficaci, in sostanza dei piccoli geni senza particolari difficoltà o problemi di adattamento.

La realtà è ben diversa: avere un’intelligenza così spiccata può portare a isolamento, solitudine e difficoltà di regolazione emotiva. Relativamente a quest’ultimo aspetto, nei bambini gifted si evidenzia spesso una asincronia dello sviluppo, ossia una discrepanza tra le competenze cognitive (che sono appunto sopra la media) e le competenze emotivo-relazionali (Fornia & Frame, 2001).

Questi bambini sono dotati infatti di una elevata intensità emotiva e di una sensibilità estrema, aspetti che li portano talvolta ad avere reazioni apparentemente esagerate, tipiche di bambini con un’età cronologica inferiore (Pfeiffer & Stocking, 2000).

I bambini gifted tendono a vivere ogni emozione in modo intenso, sono molto sensibili e più reattivi di fronte a stimoli che, in altri bambini della stessa età, non provocherebbero particolari reazioni. Essi sono facilmente sopraffatti dai propri sentimenti e questa caratteristica li porta ad avere numerose difficoltà nella regolazione delle proprie emozioni e dei propri comportamenti (Lovecky, 2009).

Essi sono emotivamente attivati da un numero maggiore di eventi rispetto ai coetanei, e provano emozioni intense anche in situazioni in cui altri non proverebbero nulla.

Parliamo in questo caso di ipereccitabilità emotiva: i plusdotati percepiscono e processano le informazioni in modo qualitativamente differente, e le loro emozioni forti e la spiccata sensibilità possono essere scambiati per immaturità da chi li circonda (Dabrowski & Piechowski, 1977).

L’asincronia e l’ipereccitabilità rendono spesso complessa e difficoltosa la relazione con questi bambini, sia da parte degli adulti, sia da parte dei pari.

I plusdotati sono immersi in un mondo di coetanei che si interessano ad argomenti da loro percepiti come banali, in contrapposizione ai loro interessi peculiari, difficilmente condivisi dagli altri. A causa dell’assenza di condivisione, essi possono sentirsi inadeguati o rifiutati dal gruppo dei pari.

I bambini gifted sperimentano con malessere il loro essere diversi rispetto agli altri, con conseguenti reazioni di rabbia intensa, fino ad arrivare all’isolamento e alla rinuncia della relazione.

Può capitare che i genitori dei plusdotati arrivino a richiedere una consulenza specialistica perché i figli non vogliono più andare a scuola, si annoiano, sono distratti in classe, oltre che derisi e isolati dai compagni.

Tutti questi aspetti possono creare delle difficoltà nella costruzione di una rete sociale di supporto, e ciò rappresenta un fattore di rischio soprattutto in adolescenza: essere sprovvisti di tale rete aumenta la probabilità di sviluppare un disturbo dell’umore o di problemi comportamentali.

In uno studio del 2008 (Morawska & Sanders, 2008) gli autori hanno cercato di individuare i fattori più rappresentativi delle difficoltà dei bambini gifted, fattori che li renderebbero maggiormente vulnerabili allo sviluppo di problemi comportamentali ed emotivi. A questo scopo, è stato somministrato a 211 genitori di ragazzi ad alto potenziale uno strumento, lo “Strengths and Difficulties Questionnaire” (SDQ; Goodman, 1997), un questionario di 25 item che indaga 5 aree: problemi di condotta, iperattività, disattenzione, sintomi emotivi e problemi coi pari.

I genitori che hanno partecipato allo studio hanno riportato che i propri figli presentano difficoltà principalmente nelle ultime due aree, nelle quali i punteggi ottenuti sono inferiori rispetto alle norme di riferimento. Tali difficoltà avrebbero un impatto significativo nel funzionamento dei loro figli.

I bambini appartenenti al campione presentano livelli più elevati di sintomi di tipo emotivo (ad es., sono più spesso preoccupati) e maggiori difficoltà coi pari.

La ricerca confermerebbe quindi che i problemi coi pari costituiscono, per i plusdotati, un fattore di vulnerabilità, e tali difficoltà potrebbero essere causate proprio dall’asincronia dello sviluppo che caratterizza i bambini gifted, oltre che dai diversi interessi rispetto ai compagni.

I difficili rapporti con gli altri bambini potrebbero far aumentare la gravità dei sintomi di tipo emotivo, che a loro volta possono rendere i plusdotati maggiormente suscettibili a sviluppare un vero e proprio disturbo.

Oltre a questo, può capitare che essi vengano bullizzati a scuola dai pari, a causa della loro maggiore intelligenza e della constatazione, da parte dei compagni di classe, di una forte differenza tra i loro interessi e quelli dei plusdotati.

L’essere vittima di bullismo può comportare un aumento di ansia e preoccupazione in questi bambini, che non capiscono perché qualcosa di così ingiusto stia accadendo proprio a loro, senza aver fatto nulla di sbagliato (Casino-Garcia, Garcia-Perez & Llinares-Insa, 2019).

Intelligenza Emotiva e proposte di intervento a scuola

Negli ultimi anni, si sta dando sempre più importanza e considerazione alle abilità emotive e allo sviluppo affettivo in tutti i bambini, gifted e non. La percezione, comprensione e padroneggiamento delle emozioni può giocare un ruolo importante nel successo scolastico e nella regolazione della classe, ambiente in cui tutti i bambini esperiscono una miriade di emozioni, tra cui ansia, rabbia, disprezzo e invidia, ma anche felicità e orgoglio.

Per far fronte alle difficoltà di gestione della classe con bambini plusdotati, sono stati proposti degli interventi finalizzati al potenziamento dell’Intelligenza Emotiva (Emotional Intelligence, EI).

Secondo Salovey e Mayer (1990), l’intelligenza emotiva consiste nell’abilità di ragionare riguardo le emozioni. Essi partono da due presupposti:

  • L’intelligenza è l’abilità di eseguire un ragionamento astratto;
  • L’intelligenza può essere considerata come un sistema di abilità mentali.

L’EI sarebbe costituita da un set di abilità di base organizzate gerarchicamente utili a identificare, esprimere, processare, assimilare e gestire le emozioni, sia in se stessi che negli altri.

Essa comprende quattro abilità emotive:

  • Percezione: identificazione ed espressione dell’emozione;
  • Assimilazione dell’emozione nel pensiero: integrazione delle emozioni nel processo di pensiero;
  • Comprensione delle emozioni: capirne gli antecedenti, gli effetti e le loro transizioni;
  • Gestione delle emozioni: regolazione delle proprie e altrui emozioni, per modulare quelle negative e accrescere quelle positive.

Le persone con una buona intelligenza emotiva percepiscono quindi le emozioni in modo accurato, le utilizzano per facilitare il ragionamento e per comprendere le emozioni altrui e, infine, riescono a gestire le proprie ed altrui emozioni.

L’EI è sicuramente un fattore importante per il benessere generale: essa correla positivamente con la salute mentale e negativamente con la depressione. Chi possiede una EI sviluppata presenta solitamente una più ampia rete sociale e ha meno probabilità di incappare in comportamenti a rischio.

I bambini plusdotati presentano un funzionamento emotivo molto variegato: alcuni di essi sono resilienti, mostrano comportamenti prosociali e sono ben adattati alla classe, ma non è per tutti lo stesso. Come mostrato in precedenza, la plusdotazione è spesso associata a problemi di regolazione emotiva, isolamento da parte dei pari e difficoltà nella costruzione di una rete sociale.

Purtroppo, non sono numerose le ricerche che si sono occupate di EI nei bambini plusdotati, in quanto la maggior parte delle indagini si è sempre focalizzata soltanto sugli aspetti cognitivi. Anche le tradizionali definizioni di “plusdotazione” hanno sempre fatto riferimento alle straordinarie capacità cognitive di questi bambini e al loro talento in aree specifiche.

Dato che la giftedness è stata tradizionalmente definita soltanto sulla base del funzionamento cognitivo, l’effetto dell’essere plusdotato sulle capacità emotive è stato spesso lasciato da parte.

Una ricerca del 2019 (Casino-Garcia, Garcia-Perez & Llinares-Insa, 2019) ha confrontato l’EI e i livelli di benessere soggettivo di bambini e adolescenti plusdotati e non. Il benessere soggettivo dipende dalle esperienze soggettive di ciascuno, non da fattori oggettivi, ed è quindi diverso da persona a persona. L’EI è legata al benessere e costituisce sicuramente un fattore protettivo nelle situazioni difficili che questi ragazzi possono esperire a scuola, come ad esempio l’essere vittime di bullismo. I risultati di questo studio mostrano che i ragazzi gifted presentano una intelligenza emotiva meno sviluppata rispetto ai coetanei. Nel momento in cui si va a confrontare la loro esperienza con quella dei pari, i ragazzi ad alto potenziale riferiscono di percepirsi diversi, rifiutati e riportano un numero minore di esperienze positive, insieme a numerose situazioni di imbarazzo e di ingiustizie subite. Il fatto di non capire perché si subiscano tali ingiustizie provoca in loro una forte ansia.

Sono stati ideati degli interventi da condurre in classe per favorire lo sviluppo dell’intelligenza emotiva: essi fanno generalmente parte dei programmi di apprendimento sociale ed emotivo. Questi interventi si focalizzano sui processi attraverso cui i bambini rafforzano la loro abilità di integrare pensieri, sentimenti e comportamenti per raggiungere degli obiettivi.

Implementare questo tipo di programmi ha sicuramente un impatto positivo sui risultati ottenuti dall’intera classe, sia a livello scolastico che emotivo; essi sono utili per tutti i bambini, sia che presentino difficoltà emotive o problemi comportamentali, sia che non ne abbiano.

È stata condotta una meta-analisi da Durlak, Weissberg, Dymnicki, Taylor e Schellinger (2011) basata su 213 programmi di apprendimento sociale ed emotivo condotti a scuola, da cui è emerso che i partecipanti presentavano un incremento significativo delle competenze sociali ed emotive a seguito della partecipazione al programma.

I training sulla EI possono fare molto per aumentare le competenze emotive negli studenti, motivandoli ad apprendere dalle esperienze emotive di tutti i giorni.

La scuola può anche trarre dei benefici a breve termine da questi programmi, che aiutano a infondere ai partecipanti un senso di crescita personale e motivazione, contribuendo in questo modo alla costruzione di una atmosfera positiva in classe (Zeidner, 2017).

 

Colloquio psicologico durante una pandemia: capacità di adattamento professionale di uno psicoterapeuta – Lo psicologo del futuro

La terapia online è una risorsa fondamentale in questa epoca, soprattutto in seguito alla pandemia da Covid-19. Lo sviluppo esponenziale della tecnologia e la sua conseguente integrazione con le varie professioni, ha richiesto a discipline come psicologia una notevole capacità di adattamento.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 14) Colloquio psicologico durante una pandemia

 

Dall’inizio della pandemia, team di psicologi e operatori socio-sanitari si sono attivati per fornire assistenza telematica alla popolazione che, colpita improvvisamente dal diffondersi esponenziale di un virus, ha sviluppato vari tipi di sofferenza psicologica. Un esempio è l’iniziativa lanciata da SIPEM (Società Italiana Psicologia dell’Emergenza) che ha attivato diversi numeri verdi di servizi gratuiti di supporto psicologico telefonico. Ma SIPEM non è stata l’unica realtà che si è attivata per proporre iniziative a favore della salute psicologica:

Sportello Coronavirus

Lo Sportello Coronavirus è uno sportello psicologico online attivato da SIPO (Servizio Italiano di Psicologia Online) per contenere l’ansia e la paura derivanti dal dilagarsi della pandemia da Coronavirus. Il servizio prevede due incontri gratuiti con uno psicologo che viene selezionato dal cliente tramite una lista di professionisti, in base all’approccio teorico e alle aree di intervento. Prima di richiedere un colloquio è necessario inviare un “questionario di entrata” per far comprendere la tematica di disagio riscontrata dal soggetto. Ai due colloqui segue un “questionario di uscita” che ha lo scopo di apportare eventuali miglioramenti al servizio.

Gli Psicologi Online

Gli Psicologi Online è un portale che offre supporto psicologico gratuito alla popolazione. L’obiettivo principale è quello di fornire sostegno durante l’epidemia da Coronavirus in Italia fornendo interventi di psico-educazione, orientamento nel presente, ristrutturazione degli automatismi di pensiero, regolazione degli stati emotivi. Il soggetto richiedente assistenza può prenotare un colloquio tramite un calendario virtuale, selezionando un professionista in base alle aree di competenza di quest’ultimo.

Oltre a questi servizi creati ad hoc per questo periodo storico, esistono altre piattaforme create in precedenza per fornire assistenza psicologica da remoto. Il caso di Twende!, esploso durante la pandemia, ne è un esempio concreto.

Twende! di IDEGO

Twende! è una piattaforma online che, dal 2016, offre un servizio di consulenza psicologica. Lo psicologo che si iscrive, versa una quota annua e riceve gratuitamente una formazione specializzata sulla prestazione psicologica a distanza. Inoltre l’organizzazione fornisce un supporto nella gestione dei social network tramite un Social Media Kit, pensato per promuovere la propria figura professionale sul web. Il paziente ha la possibilità di selezionare un professionista in base alle sue aree d’intervento e può selezionare una data disponibile su un calendario virtuale.

Psicologi.me

Psicologi.me è un sito web che offre assistenza psicologica online tramite video-colloqui.

La piattaforma permette di selezionare il professionista che si adatta meglio alle esigenze del cliente, la fascia di prezzo che si intende spendere, il raggio di chilometri tra terapeuta e paziente e il mezzo con cui si preferisce svolgere i colloqui. Inoltre, come altri servizi, fornisce un calendario online in cui si possono visionare i giorni e gli orari disponibili per prenotare un colloquio.

Vantaggi e svantaggi della terapia online

La terapia online è una risorsa fondamentale in questa epoca, ma già da qualche anno è una pratica diffusa. Lo sviluppo esponenziale della tecnologia e la sua conseguente integrazione con le varie professioni, ha richiesto a discipline come psicologia una notevole capacità di adattamento. L’evoluzione della disciplina psicologica si è manifestata, tra le altre cose, con la nascita della tele-psicologia che, nel 2013, è stata definita come

l’erogazione di servizi psicologici mediante l’utilizzo di tecnologie di telecomunicazione

dalla Task Force per lo sviluppo di linee guida di tele-psicologia per psicologi. Con l’espandersi di questa modalità terapeutica l’ordine degli psicologi della Lombardia ha pubblicato il Kit pronto all’uso per lo psicologo online, un documento condiviso nel 2017, in cui si forniscono chiarimenti sulla terapia online. In questo kit viene fornita una documentazione ritenuta utile per lo psicologo che sceglie di prestare assistenza da remoto.

Da anni ricercatori e terapeuti di tutto il mondo disquisiscono su questo tema, sottolineando diversi punti di forza e problematiche connesse.

Secondo alcune ricerche scientifiche la terapia online può essere efficiente, valida ed efficace in egual misura alla terapia tradizionale (Chakrabarti, 2015). L’e-therapy è caratterizzata da una grande flessibilità in termini di luogo e di tempo. Soggetti che abitano in aree rurali, geograficamente remote o in luoghi con un numero ridotto di psicologi disponibili, possono accedere con semplicità ad un’assistenza psicologica da casa (Luxton, 2016). Allo stesso modo, lavoratori molto impegnati che difficilmente potrebbero dedicare del tempo alla terapia possono accedervi in fasce orarie prestabilite da casa o dall’ufficio, azzerando i tempi di spostamento. Un altro vantaggio è quello economico, è riportato che la terapia online sia economicamente più vantaggiosa per il paziente, il terapeuta e per la società in generale (Morland, 2015). Per esempio il terapeuta ha la possibilità di raggiungere più pazienti e le liste di attesa per i colloqui vis-à-vis potrebbero ridursi (Mallen, 2005). Inoltre il cliente ha la libertà di contattare ed incontrare un professionista le cui aree di intervento corrispondono alle sue esigenze (Fenichel, 2002).

Parallelamente esistono diversi svantaggi della e-therapy. In primo luogo la questione della privacy. Un utilizzo di siti web non sicuri o strumenti di comunicazione non criptati potrebbe non tutelare la privacy del paziente (Fantus, 2013), provocando di conseguenza una violazione del codice deontologico. Inoltre, il paziente potrebbe sentirsi a disagio a partecipare ad un colloquio psicologico nella propria casa, specialmente se non vive da solo. Uno degli svantaggi più discussi è l’assenza del linguaggio non verbale, che può portare a malintesi e a problemi di comunicazione (Bauman, 2015). Il clinico infatti, potrebbe non notare qualche aspetto utile per inquadrare al meglio il quadro clinico del paziente (Van Wynsberghe, 2009). Il ridotto numero di stimoli non verbali potrebbe portare ad una mancanza di intimità che provocherebbe un altro limite ampiamente trattato: una minore qualità della relazione terapeutica. Molti autori si sono domandati se fosse possibile costruire una buona alleanza con il proprio paziente da remoto (Richards, 2013) e se i molteplici benefici della relazione terapeutica potessero ridursi o sparire nella psicoterapia online (Baker, 2011).

Conclusioni

Nonostante i numerosi svantaggi, la lista dei vantaggi è notevole, soprattutto se si considera la flessibilità: in un mondo caotico dove i mezzi informatici eliminano sempre di più le distanze territoriali, la terapia online diventa una risorsa fondamentale. Ciò che risulta fondamentale è rimanere aggiornati e svolgere corsi per arrivare ad una competenza adeguata dei mezzi tecnologici in modo da poterli usare al meglio nel processo psicologico e psicoterapeutico.

Di sicuro il padre della psicologia Sigmund Freud non si sarebbe mai immaginato di appoggiare sul lettino del suo studio un computer, eppure, a distanza di un secolo, per abbattere i limiti dati dalle contingenze, gli psicologi e gli psicoterapeuti di tutto il mondo si sono dovuti interfacciare con un paziente nello schermo.

 

 

Siamo qui per te. Come sviluppare un attaccamento sicuro dalla gravidanza ai quattro anni (2018) di A. Montano, R. Rubbino e A.C. Massolo – Recensione

Grazie alla loro esperienza clinica le autrici del libro, due psicoterapeute ed una pediatra, hanno sviluppato la consapevolezza di quanto fosse importante redigere, con un intento preventivo basato sui maggiori studi nel settore, una guida per genitori, semplice e pratica, su come costruire un attaccamento sicuro con il proprio figlio e perché sia importante farlo come investimento per il suo futuro.

 

L’attaccamento è un legame biologico, innato, duraturo e finalizzato alla ricerca di protezione che il bambino sviluppa già nei primi mesi di vita con i genitori o le figure a lui più vicine. La costruzione di una relazione sicura, in cui si possa sentire protetto e riconosciuto nei suoi bisogni e nella propria singolare identità, rappresenta una tappa fondamentale nella crescita di ogni individuo per diventare un adulto funzionale.

La necessità di questo legame è talmente intrinseca per gli esseri umani che si sviluppa anche nei casi in cui i genitori adottano comportamenti trascuranti, violenti o abusanti, creando un paradosso: le figure che i bambini sono spinti a cercare nei momenti di difficoltà sono le stesse da cui cercano di scappare poiché provocano disorientamento e paura. Quando questo accade il bambino non è in grado di sviluppare un equilibrio e, di conseguenza, il suo attaccamento sarà disorganizzato e caotico; ciò provoca la totale sfiducia nei confronti delle figure più importanti che dovrebbero invece aiutarlo a capire il mondo e ad affrontarlo.

Le autrici illustrano come, invece, sia possibile promuovere il benessere del bambino, favorendone una crescita armonica attraverso comportamenti genitoriali che trasmettano sia una presenza sollecita che un incoraggiamento a sperimentarsi e ad esplorare il mondo, con la certezza di un sostegno quando necessario.

Vengono poi approfonditi i principali stili di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante ed insicuro-ambivalente) facendo riferimento ai maggiori studi ed esperimenti in questo settore: a partire dalle indagini di Bowlby ed Ainsworth, fino ad arrivare all’identificazione di un quarto stile di attaccamento, quello disorganizzato, individuato da Main e Solomon. Il libro è reso più fruibile grazie alle schede pratiche annesse ad ogni capitolo ed ai numerosi esempi concreti con la spiegazione delle conseguenze a cui vanno incontro bambini e genitori. Nel corso dei capitoli vengono illustrate le principali tappe dello sviluppo fisico ed emotivo del bambino suddivise per fasce di età, con proposte di attività, giochi e comportamenti adeguati allo sviluppo. Il libro non trascura elementi importanti nella crescita come il sonno e l’alimentazione e prende, inoltre, in esame il periodo prenatale poiché già durante la gravidanza è possibile gettare le fondamenta di un sano legame di attaccamento.

In sintesi la relazione che lega i genitori al bambino rappresenta il punto di riferimento per tutte le relazioni future. Un attaccamento sicuro nasce nei primissimi mesi di vita del bambino, ma deve essere sviluppato e favorito durante tutto il periodo di crescita: essenziale è entrare in relazione con lui nel rispetto della sua indole e dei suoi bisogni, e costruire una relazione serena basata sulla presenza di regole e sane abitudini.

 

Corona-fobia: il nuovo volto dell’ansia

La pandemia di COVID-19 ha stravolto le nostre vite, dove ogni cambiamento è avvenuto rapidamente e in modo radicale (Nardi & Cosci, 2021).

 

Nel 2020 la distanza sociale, le restrizioni sulle uscite e la non partecipazione a varie attività hanno avuto un impatto decisivo sulle nostre vite. Di fronte alla pandemia, l’agenda sanitaria ha richiamato l’attenzione sulla salute mentale, dove le stime della popolazione forniscono dati preoccupanti (Brailovskaia et al., 2021; Twenge & Joiner, 2020). Nello specifico, molti problemi mentali sono stati causati, direttamente e non, dall’infezione del virus e dalle conseguenze secondarie (Nardi & Cosci, 2021). Il COVID-19 è riconosciuto come una malattia “sistemica” che non colpisce solamente le vie respiratorie. Oltre ad un percorso fisico, il COVID-19 “entra nella mente” degli individui dal momento che sta esponendo la popolazione a condizioni di vita sfavorevoli, condizioni che innescano disturbi e sintomi psicologici anche in persone con livelli adeguati di resilienza (Nardi & Cosci, 2021). I cambiamenti nel funzionamento dei circuiti cerebrali sono influenzati dall’interazione dell’esposizione all’ambiente: a causa di un fenomeno chiamato epigenetica, i fattori ambientali possono alterare l’espressione genica (Nardi & Cosci, 2021). La coesistenza prolungata a casa può aumentare i disadattamenti delle dinamiche familiari (Crepaldi et al., 2020), inoltre il cambiamento nella routine a causa di misure di distanza sociale da adottare, i cambiamenti nel lavoro e nelle relazioni affettive hanno un impatto evidente sulla popolazione. A tutto questo si aggiungono le difficoltà economiche e la disoccupazione, la morte dei propri cari e la difficoltà nell’eseguire i rituali di addio (Crepaldi et al., 2020).

I dati indicano un aumento di ansia, depressione, disturbo da stress post traumatico e disagio generale da parte dei pazienti ricoverati a causa dell’incertezza e della solitudine nelle stanze ospedaliere o in terapia intensiva (Rogers et al., 2020; Pineo & Schwartz, 2020). Uno studio ha confrontato i tassi di prevalenza di ansia e depressione nel 2019 con quelli di aprile e maggio 2020 negli Stati Uniti d’America: gli individui avevano tre volte più probabilità di avere disturbi d’ansia, una sintomatologia depressiva o entrambi (Twenge & Joiner, 2020). Nardi e Cosci (2021) evidenziano come il carico allostatico riflette l’effetto cumulativo delle esperienze quotidiane che coinvolgono eventi ordinari e le grandi sfide. Di conseguenza vengono inclusi comportamenti dannosi per la salute (ad esempio, mancanza di esercizio fisico, sonno scarso, consumo di alcol, fumo, diete grasse). Questo effetto è una conseguenza delle sfide ambientali che superano la capacità individuale di far fronte a determinati eventi (Fava et al., 2019) e rappresenta una transizione verso uno stato estremo in cui lo stress e i sistemi di risposta vengono attivati ripetutamente in modo non adeguato.

Nell’articolo, gli autori evidenziano differenti situazioni che possono portare allo sviluppo del carico allostatico, ad esempio “stressors frequenti” che determinano lo stato di stress cronico, la “mancanza di adattamento” ai ripetuti fattori e “l’incapacità di spegnere la risposta allo stress” dopo che l’effetto dello stressor è terminato (Nardi & Cosci, 2021). Nell’attuale pandemia, gli autori evidenziano come gli individui spesso siano esposti a fattori stressanti che creano difficoltà di adattamento e che possono avere una risposta allostatica insufficiente per essere fronteggiati. Un altro fattore di stress è dovuto alla valanga crescente di notizie senza basi scientifiche sul COVID-19 (Asmundson & Taylor, 2020). Esistono diversi sistemi fisiologici che interagiscono, con diversi gradi di attività, in risposta agli eventi stressanti: l’asse ipotalamo-ipofisario-adrenale gioca un ruolo fondamentale nella fisiologia del carico allostatico, mentre il sistema immunitario e neuroendocrino rispondono promuovendo l’adattamento di minacce o avversità (Nardi & Cosci, 2021). In questo articolo, gli autori evidenziano come gli individui possono reagire in modo diverso a una condizione che minaccia la salute in base al loro comportamento, possono rispondere alle indicazioni corporee, monitorando e interpretando i sintomi, facendo attribuzioni o intraprendendo azioni correttive (Nardi & Cosci, 2021).

Le reazioni alla pandemia documentate in letteratura riguardano delle preoccupazioni disfunzionali (come difficoltà di concentrazione, problemi a dormire, controllare costantemente le notizie e una mancata produttività del lavoro) (Busch et al., 2021), ansia per la salute (come una preoccupazione transitoria e generica sull’infezione da COVID-19 e le varie preoccupazioni corporee) e ipocondria (paure persistenti o l’idea di avere il COVID-19 a causa di una interpretazione errata dei sintomi). La ricerca è necessaria per comprendere come i singoli fattori possano influire e per capire come suggerire alle persone di regolare i loro comportamenti (Nardi & Cosci, 2021). Gli autori sistematizzano alcune utili indicazioni, è importante

  1. “Cercare di capire che cosa si può controllare o meno”, in quanto molte persone sentono di aver perso il controllo della propria vita. Questa sensazione può essere scomoda in un momento di tale incertezza: è bene basare le decisioni sulla base di fonti di informazioni affidabili.
  2. “Realizzare i fattori di rischio” (attuare diversi comportamenti preventivi in base alla salute individuale)
  3. “Evitare l’automedicazione” (come sospendere terapie farmacologiche o variarle autonomamente).
  4. Alcuni studi trasversali evidenziano come sia importante “impegnarsi in esperienze ottimali” che possono verificarsi in qualsiasi contesto quotidiano. Tali esperienze riguardano la coltivazione di vari interessi, relazioni, valori e obiettivi utili per il miglioramento dello stile di vita.
  5. “Non isolarsi” che evidenzia come il distanziamento non sia per forza sinonimo di isolamento sociale
  6. “Accettare la preoccupazione come normale”
  7.  “Evitare comportamenti malsani”
  8.  “Mantenere una routine nella vita quotidiana”, come svegliarsi alla stessa ora, regolare i pasti, fare esercizio fisico o impegnarsi in diverse attività.

Tutti stiamo cambiando la nostra vita e le nostre prospettive: prendersi cura di se stessi è utile per prendersi cura della propria salute mentale. È bene ricordare come una crisi sia sempre un momento di apprendimento in cui tutti possono imparare qualcosa di nuovo e dove ognuno può avere l’opportunità di migliorare la propria condizione (Nardi & Cosci, 2021).

 

Gli hater: perché ci sono e dove erano prima? – Il settimo episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.

 

GLI HATER: PERCHÉ CI SONO E DOVE ERANO PRIMA?

I disturbi di linguaggio nella malattia di Alzheimer: correlati metabolici di errori semantici, fonemici e formali ad un compito di denominazione

Un recente studio (Isella et al., 2020) ha esplorato i correlati metabolici specifici degli errori semantici, fonemici e formali prodotti da pazienti con malattia di Alzheimer in un compito di denominazione di figure.

Maria Gazzotti – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La malattia di Alzheimer (Alzheimer’s disease, AD) è la forma più comune di demenza, ha un esordio insidioso e graduale, che nella variante tipica riguarda principalmente l’ambito mnesico, e progredisce in modo inesorabile con un deterioramento che si estende coinvolgendo domini multipli delle abilità cognitive. L’ Alzheimer ha un’origine neurodegenerativa, con diffusa atrofia cerebrale dovuta a morte neuronale, riduzione dello spessore delle circonvoluzioni cerebrali, ampliamento di solchi e ventricoli e riduzione del peso cerebrale; si associano inoltre la formazione di grovigli neurofibrillari intraneuronali di proteina tau e di placche extracellulari di β-amiloide (Aβ) e un’insufficienza neuro-trasmettitoriale nel sistema dell’acetilcolina (Ropper & Brown, 2006; Bianchetti & Trabucchi, 2001; Brookmeyeret al., 2011).

Nonostante uno dei sintomi più tipici della malattia di Alzheimer siano i disturbi di memoria, fin dai primi stadi della malattia ha inizio un progressivo deterioramento del linguaggio che, secondo alcune evidenze, potrebbe essere utile per distinguere situazioni patologiche da mutamenti attribuibili all’età. Infatti, è stata dimostrata la presenza di sottili cambiamenti nelle abilità linguistiche in soggetti che in seguito svilupperanno malattia di Alzheimer già anni o decadi prima della comparsa della demenza vera e propria (Ahmed et al., 2013).

All’esordio i pazienti possono riferire sintomi come ‘perdita del filo del discorso’ o difficoltà nel recupero di parole, specialmente a bassa frequenza d’uso. Nel loro eloquio spontaneo si possono riscontrare un ridotto contenuto informativo ed un incremento nell’utilizzo di pronomi; i pazienti manifestano difficoltà nel recupero dei nomi sia nella comunicazione orale che nella scrittura, il loro vocabolario diviene limitato ed il linguaggio stereotipato. Mentre inizialmente la comprensione è preservata, con il progredire della malattia emergono difficoltà nella capacità di capire comandi complessi e peggiora anche il vocabolario, con sempre maggior presenza di anomie e parole passe-partout, fino ad arrivare ad una grave compromissione nella comunicazione (Luzzatti, 1996;Ropper& Brown, 2006).

Nei pazienti con malattia di Alzheimer la valutazione del linguaggio viene realizzata sia con specifici test cognitivi che attraverso l’esame dell’eloquio spontaneo.

In particolare, i compiti di denominazione rilevano deficit già nelle fasi iniziali di malattia. Silagie collaboratori (Silagiet al., 2015) hanno sottoposto soggetti con Alzheimer lieve o moderato e controlli sani ad un compito di denominazione di figure. Gli errori prodotti dai pazienti comprendevano principalmente parafasie semantiche ed anomie, il cui numero tendeva ad aumentare con il progredire della malattia, così come per le parafasie verbali; inoltre, nei pazienti in fase più avanzata, si riscontrava una maggiore varietà di errori commessi.

Diversi studi hanno indagato la correlazione tra le prestazioni in compiti di denominazione di figure e la distribuzione dell’atrofia alla MRI o l’ipometabolismo alla FDG-PET, mostrando il coinvolgimento della corteccia temporale ventrale anteriore sinistra, classicamente associata alla memoria semantica (Apostolovaet al., 2008; Melrose et al., 2009), ma hanno anche evidenziato il contributo di altre aree dell’emisfero sinistro che intervengono in fasi diverse del processo di denominazione: la superficie temporale dorsolaterale o mesiale, la giunzione occipito-temporale, il lobulo parietale inferiore e la corteccia frontale posteriore (Ahn et al., 2011; Zahn et al., 2004; Frings et al., 2011; Domoto-Reilly, 2012; Apostolova et al., 2008; Hirono et al., 2001; Teipel et al., 2006; Melrose et al., 2009).

Questi studi, tuttavia, hanno considerato solo il numero totale di risposte corrette. Lo studio di Isella e collaboratori (Isella et al., 2020) si è concentrato sui sottotipi di errore al compito di denominazione al fine di ottenere una topografia più fine dei livelli postsemantici e prearticolatori. Sono stati esplorati i correlati metabolici specifici degli errori prodotti da 63 pazienti con malattia di Alzheimer in uno stadio di malattia da lieve a moderato in un compito di denominazione di figure, con l’obiettivo di confermare, e possibilmente definire meglio, le mappe neurali dei deficit lessicali-fonologici nella generazione di parole. Le tipologie di errore prese in considerazione sono state:

  • Errori semantici: parole reali con una relazione puramente concettuale con il target, che implicano un legame con il lessico e la consapevolezza dell’identità dello stimolo (es. cane per gatto).
  • Errori fonemici: parole fonologicamente simili altarget, che implicano un accesso alla forma fonologica della parola ma non sono rappresentate all’interno del lessico (es. asparo per asparago).
  • Errori formali: parole vere, la cui somiglianza puramente fonologica con la parola target denota consapevolezza della sua forma fonologica (es. cavolo per tavolo).

I modelli di produzione di parole ipotizzano un processo di rappresentazione ed elaborazione a più livelli e sottolivelli: l’attivazione del concetto nel sistema semantico è seguita del recupero della corrispondente voce lessicale e della forma fonologica della parola e dall’attivazione del programma articolatorio associato. Le fasi lessicali e fonologiche di questo processo sono state ulteriormente suddivise in un livello lessicale-semantico, uno lessicale-fonologico e uno postlessicale-fonologico, il cui contenuto è presumibilmente correlato, rispettivamente, al significato, alla struttura lessicale-fonologica e alle caratteristiche articolatorie fonologiche della parola (Schwartz et al., 2006; Dell et al., 2013; Indefrey, 2011; Indefrey e Levelt, 2004; Hickok, 2014; Rapp e Goldrick, 2006).

Il substrato neuroanatomico di questi processi e degli errori nel recupero delle parole non è ancora completamente definito.

Lo studio di Isella e collaboratori (Isella et al., 2020) ha esaminato gli errori commessi dai pazienti in un compito denominazione di figure, che è stato effettuato come parte di una batteria neuropsicologica che tocca i principali domini cognitivi (attenzione, memoria verbale a breve e lungo termine, capacità visuospaziali ed esecutive, fluidità verbale e comprensione del linguaggio, umore e comportamento), utilizzando un test standardizzato (Laiacona et al., 1993) composto da 80 stimoli appartenenti a 8 categorie: animali, frutta, verdura, parti del corpo, mobili, attrezzi, veicoli e strumenti musicali. Gli errori fonemici, semantici e formali sono stati classificati in base al consenso tra due valutatori.

Il punteggio medio nel test di denominazione di figure indicava solo un lieve deterioramento della denominazione, ma c’era una grande variabilità interindividuale. Gli errori più numerosi sono stati gli errori semantici, seguiti da quelli fonemici e per ultimiquelli formali.

La correlazione tra il metabolismo cerebrale FDG-PET e le prestazioni al compito di denominazione ha identificato vari loci di anomalie metaboliche nell’emisfero sinistro. La performance globale, cioè il numero di risposte corrette, correlava con la disfunzione della corteccia temporale ventrale, in accordo con le prove precedenti, che supportano un ruolo cruciale del giro fusiforme sinistro nel recupero semantico-lessicale (Grossman et al.,2004; Hirono et al., 2001; Teipel et al., 2005).

Per i tre tipi di errori considerati nello studio (semantici, fonemici e formali) è emerso uno specifico correlato metabolico: gli errori semantici sono risultati associati a ipometabolismo nel giro temporale medio posteriore sinistro e nel giro temporale inferiore posteriore, quelli fonemici a ipometabolismo nel giro sopramarginale sinistro e quelli formali a ipometabolismo nel segmento medio anteriore del giro temporale medio sinistro.

Nonostante gli errori fonemici e formali siano stati prodotti in piccole quantità, cosa che potrebbe aver influenzato l’affidabilità e la generalizzabilità delle correlazioni rilevate, SPM ha prodotto cluster chiari per tutte e tre le tipologie di errori.

In conclusione, i risultati dello studio delineano una mappa neuroanatomica degli errori prodotti da pazienti con malattia di Alzheimer nella denominazione di figure che associa errori semantici a neurodegenerazione in due aree della corteccia temporale posteriore sinistra che si suppone sottostiano a rappresentazioni visive e semantiche più generali, errori formali ad ipometabolismo nel giro temporale medio anteriore sinistro, che potrebbe quindi rappresentare il locus di processi lessicali fonologici, ed errori fonemici a degenerazione nel giro sopramarginale sinistro, sottostante alla memoria a breve termine verbale o a rappresentazioni pre-articolatorie.

 

Keep calm and abbasso lo stress

Al giorno d’oggi, il benessere individuale è sempre più messo alla prova dallo stress, che è una componente normale della vita di ciascuno; tuttavia, se presente in modo eccessivo e prolungato, può implicare un costo sia per la salute psichica che per quella fisica.

 

Lo stress rappresenta la risposta dell’organismo a qualsiasi stimolo interno o esterno di intensità e durata tale da minacciare la sopravvivenza e l’integrità o evocare meccanismi di adattamento atti ristabilire l’omeostasi (Selye, 1956). Tra i diversi tipi di stimoli stressanti, o stressors, una categoria importante è quella ambientale, relativa alle fatiche ed irritazioni quotidiane (Lazarus, 2000).

All’interno della Scala degli eventi di vita, sono state elencate 43 situazioni stressanti di diversa natura ed intensità. (Holmes & Rahe, 1967). Gli eventi riportati sono sia negativi che positivi, infatti la reazione allo stress è soggettiva.

Generalmente le donne affrontano lo stress meglio degli uomini (Bodenmann et al., 2015). Le prime, infatti, cercano cooperazione e sostegno nella rete sociale, mentre i secondi, quando sono sotto stress e percepiscono una situazione di pericolo, tendono ad allontanarsi dallo stimolo o combatterlo.

È possibile rispondere in modo adattivo allo stress, utilizzando alcune tecniche che permettono di modificare la propria reazione fisiologica, riducendo la pressione sanguigna, la frequenza respiratoria e cardiaca (Barinaga, 1997).

Per migliorare il proprio benessere e gestire meglio le situazioni potenzialmente stressanti, sarebbe opportuno aumentare la consapevolezza di sé e delle proprie reazioni corporee. La riduzione dello stress porterà anche un miglioramento del rendimento e della qualità del lavoro.

Per gestire in modo efficace lo stress, possono essere utilizzate diverse tecniche, tra cui la respirazione quadrata e il rilassamento muscolare progressivo (Jacobson, 1938), che arrivano dal mondo orientale ma oggi sono molto usate anche in Occidente (Cosentino, Bove e Nicolò, 2004). Sono entrambe tecniche di rilassamento, infatti sono molto utili nel ridurre lo stato di attivazione generato dall’evento stressante, in modo da poter migliorare la capacità di controllo sulle risposte corporee.

In particolare, il rilassamento progressivo è una tecnica che diminuisce la tensione muscolare e permette di migliorare il tono dei muscoli, contrastando lo stato cronico di stress e ansia. Tale esercizio è costituito da tecniche che riguardano gruppi muscolari diversi, il cui tempo di apprendimento dura circa quattro giorni. L’apprendimento si basa su una serie di esercizi che insegnano a riconoscere la tensione del muscolo stesso e, infine, allenare la consapevolezza del proprio corpo.

La respirazione quadrata, invece, è una tecnica efficace per le reazioni da stress. Infatti, può essere utilizzata sia prima che durante una situazione stressogena. In particolare, agisce sul ritmo respiratorio, rallentandolo e regolarizzando il respiro e l’iperventilazione, aumentando la concentrazione. Questa tecnica è relativamente facile da apprendere e si può adoperare in ogni contesto ci si trovi, senza dover ricorrere ad un aiuto esterno. E’ particolarmente utile nelle situazioni di stress e di tensione quando la respirazione diventa irregolare e superficiale, causando una riduzione della vitalità dell’organismo e un aumento della stanchezza e l’affaticamento.

Un altro modo per combattere lo stress integra due strumenti che, a prima vista, sembrano molto distanti tra loro: l’ipnosi e la realtà virtuale. La prima è una procedura in cui si suggerisce al soggetto di provare un cambiamento delle sue sensazioni, percezioni, pensieri o comportamenti (Kirsch 1994). La seconda è una tecnologia che permette di sincronizzare l’ambiente psicologico reale con quello virtuale. Alcuni ricercatori hanno pensato di unire questi due strumenti, arrivando a concludere che l’ipnosi condotta con la realtà aumentata è molto più efficace nel combattere lo stress rispetto a quella tradizionale (Askay et al, 2009).

Un’altra tecnica per combattere lo stress è lo Stress Inoculation Training (SIT) (Meichenbaum e Deffenbacher, 1988). Tale procedura implica un “allenamento” (training) della persona a gestire e dominare i propri comportamenti, pensieri ed emozioni, utilizzando tecniche diverse a seconda delle esigenze di ciascuno. Il termine “inoculation” invece, si riferisce al fatto che l’allenamento deve essere calibrato e dosato, come se fosse un vaccino, in modo da sviluppare una sorta di anticorpi contro lo stress. Questa tecnica prevede tre fasi.

La prima è la concettualizzazione, che implica l’analisi dei bisogni dell’individuo e il racconto della sua storia. In questo modo si allena l’automonitoraggio, focalizzando la propria attenzione sulle situazioni valutate stressanti e sugli aspetti sui quali si può agire, riflettendo sui pensieri e sulle emozioni associati.

La seconda fase è l’acquisizione delle abilità di coping, mirata allo sviluppo di un repertorio di tecniche per fronteggiare l’evento stressante, evidenziando gli aspetti relativi alla preparazione della situazione (prima), la gestione (durante) e la riflessione su come si è agito e su cosa si è imparato dall’esperienza (dopo).

La terza e ultima fase è l’applicazione e il completamento, in cui la persona deve mettere in pratica ciò che ha appreso nei vari contesti di vita reali in modo graduale. Si dovrebbe partire dall’immaginazione di possibili situazioni stressanti, a giochi di ruolo e analisi di strategie attuate da altri, fino ad arrivare all’uso delle competenze acquisite di fronte a situazioni della propria vita quotidiana.

Tale tecnica valorizza i punti di forza di ciascuno, offrendo strumenti utili nella propria quotidianità. Imparare ad essere consapevoli dei propri pensieri ed emozioni in un particolare evento, analizzando ciò che può essere migliorato e ciò che invece ha contribuito ad una risoluzione efficace, aumenta la possibilità di essere maggiormente attivi nelle situazioni quotidiane.

La vita di ogni giorno pone davanti a ciascuno sempre nuove sfide e molti ostacoli, ma sfruttando al meglio le proprie potenzialità, tutti saranno in grado di affrontare ogni genere di situazione che si presenterà davanti.

Il miglior momento per rilassarsi è quando non abbiamo neanche un momento per farlo. (S. J. Harris)

 

Al di là delle cure. Interventi complementari e di supporto in oncologia (2011) di P. Pantaleo – Recensione del libro

Ricevere una diagnosi di cancro è per il paziente un’esperienza traumatica. L’essere un malato tumorale sconvolge l’intera vita della persona, comportando una rivalutazione e una ristrutturazione di sé, che coinvolge il sistema valoriale, la prospettiva temporale e il vissuto quotidiano.

 

La paura dell’ignoto, le manifestazioni di collera e di impotenza […], la tristezza, l’angoscia, il senso di colpa, la perdita del proprio ruolo sociale e dell’identità personale, il senso di solitudine, l’alterazione dell’immagine corporea, i rimpianti, la ricerca del “perché”, la disperazione … sono quindi soltanto tra gli stati d’animo più frequenti, gli aspetti emotivi di forte intensità, che si riscontrano nei malati di cancro. (Pantaleo, 2011, p. 16)

Per far fronte a questi vissuti il paziente deve ricorrere alle sue risorse interiori, che frequentemente in tali circostanze sono ipotecate negativamente dalla sintomatologia tumorale e dagli effetti avversi delle cure utilizzate in oncologia. Attualmente la medicina basata sull’evidenza considera il cancro una patologia d’organo, ovvero come un insieme di cellule che sono andate incontro ad uno sviluppo patologico, confermato da una diagnosi istologica. Questa prospettiva dimentica, però, che ad ammalarsi è l’intera persona e non una parte del suo corpo.

Le terapie proposte riflettono tale approccio, ovvero una cura finalizzata alla riduzione e all’eventuale scomparsa della massa tumorale, che si avvale della chirurgia, della chemioterapia, della radioterapia e delle terapie biologiche. In aggiunta a queste terapie, per alleviare i sintomi molti pazienti ricorrono alle medicine complementari, ossia all’agopuntura, alla medicina omeopatica e alla fitoterapia. Nello specifico, l’agopuntura sembra intervenire positivamente nel controllo del dolore e nel ridurre gli effetti collaterali della chemioterapia, la medicina omeopatica nel diminuire le vampate di calore dopo la mastectomia e la fitoterapia nell’incrementare le difese immunitarie.

La medicina basata sull’evidenza, come detto, non prende in considerazione la totalità del paziente, ovvero gli aspetti psicologici e comportamentali che lo caratterizzano in quel particolare momento del suo ciclo di vita. Occuparsi della cura di queste dimensioni significa aiutare il paziente a migliorare la qualità della vita, cosa che si riflette positivamente sul percorso terapeutico intrapreso. Porsi come obiettivo il miglioramento della qualità della vita significa supportare l’ammalato a ritrovare il proprio benessere fisico, psicologico, sociale e spirituale. Affinché questo possa accadere, di valido aiuto risultano gli interventi complementari e di supporto, purché siano eseguiti da professionisti qualificati. Ci si riferisce agli interventi finalizzati alla cura del corpo, alla cura della mente, alle pratiche energetiche e alle terapie artistico – espressive.

Le terapie legate alla cura del corpo si avvalgono di più tecniche terapeutiche riportabili alla massoterapia, come, ad esempio, il massaggio tradizionale, i cui effetti positivi si palesano, soprattutto, nel controllo dello stress emotivo e nel miglioramento della circolazione sanguigna e linfatica. Fra le terapie relative alla cura della mente sono da citare la psicoterapia e il supporto psicologico, che si rivelano fra le terapie più efficaci

nell’aiutare il malato di cancro a rafforzare la fiducia verso se stesso e nell’individuare gli atteggiamenti e le convinzioni negativi che lo tengono imprigionato al contesto di malattia. (Pantaleo, 2011, p. 102)

Fra le pratiche energetiche sono da menzionare il Tai chi e il Qi Gong che derivano dalla medicina tradizionale cinese e che possono essere inquadrati nelle ginnastiche dolci. Tali metodiche migliorano l’autocontrollo e l’armonia fra il corpo e la mente. Per quanto riguarda le terapie artistico – espressive, sono da citare il laboratorio di teatro, di danza e di scrittura creativa. Queste tecniche offrono la

possibilità di vivere le proprie emozioni, dando loro corpo e nome “rappresentandole” (Pantaleo, 2011, p. 143) – con la finalità di – un recupero d’identità dell’individuo, un aumento dell’autostima e un consolidamento del proprio “io” (Ibidem).

In conclusione, il libro di Pantaleo illustra in maniera chiara quelle che sono le terapie complementari e di supporto in oncologia, finalizzate a migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da neoplasia.

 

Intelligenza artificiale e benessere psicologico: l’idea di IDEGO presentata all’European Conference on Digital Psychology

L’European Conference on Digital Psychology si è svolta nei giorni 19 e 20 Febbraio 2021, ed ha ospitato numerose figure di spicco del settore provenienti da tutta Europa, tra questi è intervenuto anche Tommaso Ciulli, Chief Research Officer presso Idego, azienda che lavora per innovare gli strumenti a disposizione di psicologi, formatori e aziende.

 

Se c’è una cosa che abbiamo imparato in quest’ultimo anno, è che molte professioni possono essere svolte da remoto con l’ausilio di strumenti tecnologici. Si, perché la pandemia di COVID-19 ha creato un’improvvisa distanza tra le persone, a cui molti professionisti hanno risposto con una vera e propria rivoluzione informatica con il fine di mantenere i contatti con gli utenti, e ciò ha catalizzato il processo di digitalizzazione. C’è di nuovo, rispetto agli anni precedenti, che non solo molti impieghi possono essere svolti a distanza attraverso dispositivi fissi e mobili, ma anche che certe tecnologie possono essere utilizzate per potenziare la qualità dei servizi, creando nuovi spunti ed opportunità in molti settori. La psicologia rientra proprio tra questi: seppur la nascita della psicologia digitale sia da ricondurre a qualche decennio addietro, mai come ora lo psicologo si è servito delle tecnologie per erogare i propri sevizi. Compito di psicologi e psicoterapeuti, professionisti che fanno della relazione con l’altro la base di ogni intervento, è quello di conoscere e anticipare gli eventi, immaginando come sarà̀ la società̀ nel suo insieme tra qualche anno, infatti, non casualmente, uno studio dell’università̀ di Oxford ha segnalato che in un ventennio il 47% delle prestazioni lavorative, comprese quelle mediche e psicologiche, sarà̀ automatizzato (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, 2017; Frey & Osborne, 2017).

È proprio da queste riflessioni che è nata l’idea da parte della Sigmund Freud University di Milano di creare una conferenza, per l’appunto online, che aprisse una finestra sul futuro, ma anche sul presente, della psicologia digitale. L’European Conference on Digital Psychology si è svolta nei giorni 19 e 20 Febbraio 2021, ed ha ospitato numerose figure di spicco del settore provenienti da tutta Europa. In questa Flash News sarà descritto l’intervento di Tommaso Ciulli, Chief Research Officer presso Idego, azienda che lavora per innovare gli strumenti a disposizione di psicologi, formatori e aziende (Idego, 2021). L’intervento del dottor Ciulli, intitolato Intelligenze artificiali e benessere psicologico: uno strumento per lo psicologo del domani, era appunto incentrato sulla e-therapy, intesa come insieme di sessioni psicoterapeutiche realizzate tramite mezzi elettronici in un contesto in cui utente e terapeuta si trovano in luoghi differenti e/o remoti (Ciulli et al., 2021). Per comprendere appieno l’idea del dottor Ciulli, è opportuno accennare alla teoria di riferimento, ovvero la Terapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive-behavioral Therapy, CBT), identificata come il gold standard dei trattamenti psicologici di nuova generazione per molte tipologie di disturbi psicologici. Come riportato dal dottor Ciulli, il nucleo di questa terapia è il focus sull’identificazione di pensieri, emozioni e comportamenti del paziente affinché avvenga una successiva modifica in grado di rendere rispettivamente i pensieri più razionali e i comportamenti più funzionali (Ciulli et al., 2021). Da questo assunto, risulta evidente che l’automonitoraggio è una delle capacità di base di questa tecnica, ed implica sia la capacità di riconoscere i propri pensieri automatici, sia il riconoscimento dei propri stati emotivi. Ciò può portare ad un accrescimento della consapevolezza emozionale e ad una conseguente regolazione delle proprie emozioni. Il responsabile della ricerca di Idego sottolinea però il fatto che l’auto-monitoraggio può essere poco accurato, in quanto potenzialmente influenzato da alcune distorsioni del ricordo. L’azienda in questione ha pertanto ideato dei dispositivi in grado di sopperire a tale mancanza (Ciulli et al., 2021).

Esistono già molti strumenti in grado di monitorare in tempo reale le esperienze delle persone, prime fra tutti le Mental Health Apps, applicazioni disponibili su smartphone e orologi intelligenti in grado di limitare il bias di auto-monitoraggio, nonché di potenziare le abilità di riflessione degli utenti su ciò che si verifica a livello fisiologico nel corpo. I principali vantaggi di queste applicazioni consistono nel fatto che sono accessibili in ogni momento della giornata, sono solitamente gratuite, e contengono una vasta quantità di dati. Tuttavia, questi software presentano anche molti limiti, primi tra tutti il fatto che non permettono di instaurare una relazione comunicativa (come avviene tra professionista e paziente), che spesso non sono testate scientificamente e che non incoraggiano gli utenti all’utilizzo di tecniche per la gestione di stati problematici in differenti contesti (Ciulli et al., 2021). Insomma, il problema principale di queste applicazioni è che spesso non sono progettate e gestite da esperti di salute mentale. Per questo motivo il team multidisciplinare di Idego, composto da professionisti delle scienze psicologiche, si è proposto di designare un’intelligenza artificiale in grado di aumentare l’efficacia degli interventi CBT attraverso un’app per smartphone e dispositivi indossabili, quali un bracciale e un anello in grado di rilevare dati fisiologici, con l’obiettivo di aumentare l’efficacia degli interventi terapeutici (Ciulli et al., 2021). Con il supporto del progetto europeo Co-Adapt, Idego sta sviluppando assieme all’Università di Trento un’intelligenza artificiale denominata Conversational Agent, in grado di interagire e dialogare con la persona, di riconoscerne gli stati di ansia e stress, e di supportarla con un insieme di tecniche prese in prestito dalla psicoterapia e dal counseling psicologico (Co-Adapt, 2020). Secondo Ciulli e collaboratori, l’utilizzo simultaneo dell’app con Conversational Agent e dei dispositivi indossabili permetterebbe di creare uno strumento personalizzato in grado di individuare dati rilevanti per il percorso psicologico, inviando informazioni direttamente alla dashboard dello psicologo, ovvero un pannello di controllo che permette al professionista di monitorare lo stato psico-fisiologico del paziente. Lo studio prevede otto sessioni basate sui modelli CBT e Stress Management Training svolte in videochiamata durante due mesi di protocollo, e la sua finalità sarà quella di produrre un aumento delle abilità di coping dell’utente e un migliore adattamento generale nella gestione dello stress psicologico (Ciulli et al., 2021). Ciò permetterà ad Idego di generare un sistema in grado di aiutare le persone a generalizzare ed applicare ciò che apprendono durante il percorso CBT e ad usarlo quando necessario. Questa, sembra essere la chiave per accrescere notevolmente l’efficacia delle terapie, nonché la consapevolezza e il benessere degli utenti.

 

Nessuno è perfetto: come affrontare perfezionismo e procrastinazione – VIDEO dal Webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Il webinar organizzato da PTCR di Mestre si è proposto come momento di riflessione sul perfezionismo e sulla tendenza alla procrastinazione, indagandone le cause, le conseguenze e le possibili strategie per affrontarli.

 

Quando si mira alla perfezione, si scopre che è un bersaglio in movimento

Molte persone hanno quotidianamente standard di comportamento elevati che permeano moltissimi aspetti della propria vita (lavoro, sport, relazioni) e che compromettono il proprio benessere psicologico. La tendenza a fissarsi obiettivi difficili da raggiungere e a misurare il proprio valore in base alla capacità di realizzarli, può risultare a lungo termine davvero stressante. A volte, questa pressione è tale da portarci a procrastinare, rimandare a un momento che però sembra non arrivare mai, con importanti costi in termini di ansia e frustrazione.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre, un incontro che ha consentito un’interessante riflessione sul perfezionismo e sulla tendenza alla procrastinazione, indagandone le cause, le conseguenze e le possibili strategie per affrontarli.

Il webinar è stato condotto dalla Dott.ssa Marta Ferrari.

 

NESSUNO È PERFETTO: COME AFFRONTARE PERFEZIONISMO E PROCRASTINAZIONE

Guarda il video del webinar:

 

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Gli Action Video Games Migliorano i Meccanismi Multisensoriali di Esclusione del Rumore nei Bambini con Dislessia Evolutiva – ECDP 2021 / Poster Session

POSTER PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY 2021

Giovanna Puccio (1), Sara Bertoni (1,2), Sandro Franceschini (1), Martina Mancarella (1,3), Simone Gori (2) e Andrea Facoetti (1)

1 – Università di Padova
2 – Università di Bergamo
3 – Katholieke Universiteit Leuven

Dislessia Evolutiva gli effetti positivi degli Action Video Games ECDP ITA

Dislessia Evolutiva gli effetti positivi degli Action Video Games ECDP ENG

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Introduzione

 La dislessia evolutiva (DE) è definita come una difficoltà nell’acquisizione della lettura spesso caratterizzata da deficit fonologici (Snowling et al., 2019), motori (Iversen et al., 2005) e dell’attenzione visiva (Vidyasagar & Pammer, 2010). Alcuni studi, in particolare, hanno indagato il ruolo svolto dai processi attenzionali di esclusione del rumore nei meccanismi uditivi e visivi nei bambini con DE (Hancock et al., 2017; Sperling et al. 2005).

Proprio a partire dal ruolo causale che questi meccanismi sembrano svolgere nelle abilità di lettura, in questo studio abbiamo proposto un training con gli action video game (AVG) e uno con i non-action video game (NAVG) a un gruppo di 14 bambini con DE. Le abilità di lettura e l’efficienza dei processi di esclusione del rumore sono quindi stati misurati sia prima che dopo le sessioni di allenamento con gli AVG e senza (NAVG).

I risultati della nostra ricerca mostrano che le abilità di decodifica fonologica (la velocità di lettura di pseudo-parole) così come l’efficienza nei processi di esclusione del rumore (uditivo e visivo) migliorano significativamente solo dopo una sessione di training con gli AVG.

Questi dati permettono di sostenere una relazione causale fra le abilità di lettura e i meccanismi multisensoriali di esclusione del rumore, dimostrando l’efficacia del trattamento con AVG per la DE e arricchendo con nuove evidenze quanto dimostrato in letteratura (e.g., Bavelier & Green, 2019, Mancarella et al., under review; Franceschini et al., 2013; 2017; Franceschini & Bertoni, 2019; Bertoni et al., 2021).

Introduction

Keywords: reading (dis)abilities, selective attention, neuropsychological rehabilitation, neural noise, multisensory processing

Developmental dyslexia (DD) is not only characterized by a reading difficulty, but also by phonological (Snowling et al., 2019), motor (Iversen et al., 2005) and visual attention deficits (Vidyasagar & Pammer, 2010). Some studies have argued the crucial role played by altered auditory and visual mechanisms of perceptual noise exclusion in DD (Hancock et al., 2017; Sperling et al. 2005).

To test the causal role of perceptual noise exclusion in reading abilities, we proposed two different training with action and non-action video games (AVG and NAVG) to a group of 14 children with DD (aged 7 to 11 years, mean = 8,8 years) using a randomized, controlled crossover experiment. Reading and phonological decoding skills as well as auditory and visual perceptual noise exclusion efficiency were measured before and after AVG and NAVG training sessions.

Our findings show that phonological decoding skills (i.e., pseudoword reading speed) as well as multisensory (auditory and visual) perceptual noise exclusion efficiency were significantly improved only after the AVG training session.

This study supports the conclusion that a disorder of the multisensory perceptual noise exclusion mechanism is causally linked to the reading deficits that characterize DD. Indeed, a training that enhances the efficiency of this attentional mechanism appears to improve phonological decoding skills in children with DD.

This research is consistent with some previous studies that have shown that AVG training appears to improve, not only visual selective attention, but also auditory and phonological processing in healthy adults (Green & Bavelier, 2019, Mancarella et al., under review) and in children with DD (Franceschini et al., 2013; 2017; Franceschini & Bertoni, 2019; Bertoni et al., 2021). In this study we directly investigated the causal role of multisensory mechanisms of perceptual noise exclusion in children with DD by using AVG training.

 

Associazione tra disturbi dello spettro schizofrenico e morbo di Parkinson: il ruolo del sistema dopaminergico

Secondo un recente studio, condotto da ricercatori dell’Università di Turku in Finlandia, soffrire di un disturbo dello spettro schizofrenico aumenta le possibilità di sviluppare, nel corso della vita, la malattia di Parkinson. Il ruolo del sistema dopaminergico e gli effetti dei farmaci antipsicotici sono fondamentali per comprendere l’associazione tra queste due patologie.

 

I disturbi dello spettro della schizofrenia sono caratterizzati da anomalie psicopatologiche che si esprimono a livello sintomatologico con deliri, allucinazioni, pensiero disorganizzato, comportamento motorio anormale e sintomi negativi come ad esempio la diminuzione dell’espressione delle emozioni o la diminuzione della capacità di provare piacere. La compromissione che queste patologie determinano si manifesta in ambito sociale, interpersonale, relazionale, cognitivo e percettivo. I sintomi differiscono per durata e modalità di espressione, a seconda degli ambiti maggiormente intaccati dalla malattia (De Jong MH, Zemel D, Van Gool AR. 2014; McCutcheon RA, Reis Marques T, Howes OD 2020). I disturbi dello spettro schizofrenico hanno un’eziologia multifattoriale, tra le varie ipotesi che cercano di spiegarne la causa vi è quella dopaminergica che teorizza, in questi disturbi, un’iperattività del sistema dopaminergico specie nelle vie mesolimbocorticali (Brisch R, Saniotis A, Wolf R et al. 2014; Howes OD, Kapur S. 2009).

Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenertiva che fa parte di un gruppo di patologie denominate ‘’Disordini del Movimento’’. I principali sintomi motori che lo caratterizzano sono il tremore a riposo, la rigidità, la bradicinesia e, in fase avanzata, l’instabilità posturale con disturbi dell’equilibrio. Le strutture cerebrali colpite da neurodegenerazione, nel Parkinson, sono i gangli della base che partecipano alla corretta esecuzione dei movimenti. In questo morbo si verifica una perdita progressiva di dopamina nelle vie mesostriatali (Kalia LV , Lang AE . 2015).

I disturbi dello spettro schizofrenico e la malattia di Parkinson sono accomunati dal coinvolgimento di un’alterazione, anche se in senso opposto, del sistema dopaminergico. Dal punto di vista farmacologico i sintomi del Parkinson possono essere alleviati con gli agonisti del recettore per la dopamina mentre i disturbi schizofrenici sono comunemente trattati con antagonisti del recettore per la dopamina (De Jong MH , Zemel D , Van Gool AR. 2014; Lan CC , Su TP , Chen YS , Bai YM. 2011). Proprio perché le due patologie si associano ad alterazioni opposte del sistema dopaminergico, la comorbidità del Parkinson con i disturbi dello spettro schizofrenico è considerata un fatto raro. (DSM-5 2013)

Un recente studio ha indagato quale sia il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson dopo una diagnosi di disturbo dello spettro schizofrenico (Kuusimaki T, Haidar Al,Andulrasul MD et al. 2021). Si tratta di uno studio caso-controllo basato su record retrospettivo. I ricercatori hanno esaminato una coorte che comprendeva 3045 pazienti, della Finlandia sud-occidentale, con malattia di Parkinson. Sono stati inclusi nella ricerca anche pazienti con disturbi dello spettro schizofrenico diagnosticati precedentemente alla comparsa del Parkinson.

In base all’analisi dei dati, gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che i disturbi di tipo schizofrenico aumentano il rischio di sviluppare nel corso della vita la malattia di Parkinson. Questa associazione è stata osservata nonostante l’aspettativa di vita nei pazienti, con disturbi di tipo schizofrenico grave, è diminuita di 15-25 anni rispetto alla popolazione generale e ciò diminuisce la possibilità di sviluppare nel tempo il Parkinson (Saha S , canto D , McGrath J 2007).

L’aumento del rischio per il morbo di Parkinson, nei pazienti con disturbi dello spettro schizofrenico, potrebbe essere correlato alla maggiore vulnerabilità del sistema dopaminergico indotta dalla disregolazione della dopamina presente in questi disturbi o agli effetti degli antagonisti del recettore della dopamina (Grace AA .  1991, Howes OD , Kapur S . 2009). I ricercatori hanno preso in considerazione il ruolo dei farmaci antipsicotici, questi inducono il parkinsonismo bloccando i recettori dopaminergici post-sinaptici (Erro R , Bhatia KP , Tinazzi M .  2015). I neurolettici potrebbero predisporre i pazienti con disturbi schizofrenici alla malattia di Parkinson per gli effetti neurotossici che queste sostanze hanno sui neuroni dopaminergici (Leucht S , Cipriani A , Spineli L , et al. 2013).

 

ISRIB: nuovo farmaco contro il declino cognitivo?

Importante scoperta effettuata da uno studio italo-americano condotto dalla neuroscienziata aretina Susanna Rosi, circa il declino cognitivo dovuto all’invecchiamento e la sua possibile reversibilità grazie al farmaco ISRIB.

 

In precedenza, i numerosi studi condotti negli anni tra il 2013 e il 2018 hanno consentito di raggiungere traguardi interessanti nell’ambito delle neuroscienze e lo studio attuale pubblicato su eLife nel dicembre 2020, condotto dalla Professoressa Susanna Rosi, docente di Chirurgia neurologica e neuroscienziata a San Francisco, ne costituisce ulteriore conferma. Infatti, uno dei principali meccanismi chiave del farmaco ISRIB (ISR Inhibitor) riguarda l’inibizione della ISR, ovvero della risposta integrata allo stress. Tale farmaco è  già noto per la sua utilità nel ripristinare la memoria in seguito a traumi cranici, prevenendo anche la perdita dell’udito, nei topi con cancro alla prostata e nel potenziamento in animali sani. La sua somministrazione pare abbia effetti sulla ISR che sappiamo essere coinvolta in patologie croniche quale Parkinson, Alzheimer, Sclerosi multipla, demenze fronto-temporali, in quanto una sua attivazione cronica determina un blocco nella produzione di proteine, ragion per cui inibendo tale meccanismo e la disfunzione immunitaria connessa, pare si allevino i deficit di memoria in topi anziani, ed è quanto emerso dallo studio pubblicato su eLife (Krukowski et al. 2020).

E’ recente la scoperta derivata dallo studio di UCSF Università della California a San Francisco guidato dalla dott.ssa Susanna Rosi, Professoressa nei dipartimenti di Chirurgia Neurologica e di Scienze della Terapia Fisica e della Riabilitazione, secondo cui la perdita della memoria legata all’invecchiamento possa considerarsi una disfunzione reversibile e da qui la memoria una funzione ripristinabile, grazie ai risultati sperimentali positivi ottenuti con la somministrazione di ISRIB, che ha prodotto un recupero rapido in topi anziani. Il recupero funzionale della memoria pare sia accompagnato da un ringiovanimento del cervello e ha dimostrato inoltre di determinare una modificazione della funzionalità del sistema immunitario che potrebbe spiegare, secondo gli studiosi, i miglioramenti nella funzionalità del cervello. Infatti, come dichiarato dalla stessa Professoressa Rosi:

Gli effetti estremamente rapidi di ISRIB mostrano per la prima volta che una componente significativa del declino cognitivo legato all’età può essere causata da una sorta di ‘blocco’ fisiologico reversibile , non da una degradazione permanente.

Peter Walter, docente al Dipartimento di biochimica della UCSF, aggiunge:

I dati ottenuti quindi, dimostrerebbero che il cervello nell’anziano non perde in modo definitivo le sue abilità cognitive, bensì queste sarebbero ancora disponibili, ma risulterebbero in qualche modo bloccate dallo stress cellulare

Rosi e i suoi colleghi spiegano più semplicemente quanto la ‘risposta integrata allo stress’ costituisca un meccanismo complesso, che interviene normalmente nel monitorare la qualità della produzione di proteine, eliminando cellule malfunzionanti. Tuttavia, la controversia consiste nel fatto che l’attività impropria della ISR produce delle difficoltà, facendo perdere alle cellule la loro normale funzionalità.

Interessante inoltre, nel medesimo studio, è il ruolo dell’ippocampo su cui si sono concentrati i ricercatori e il cui coinvolgimento è già noto nei processi di apprendimento e nel sistema di memoria. L’avanzamento dell’età infatti, porta a cambiamenti strutturali e funzionali nei neuroni ippocampali e più specificatamente negli animali anziani si evidenzia un incremento nella iperpolarizzazione neuronale dopo l’attività di spike (postiperpolarizzazione o AHP), che decrementa l’eccitabilità intrinseca neuronale correlata al deficit mnestico (Disterhoft e Oh, 2007; McKiernan e Marrone, 2017; Oh et all., 2010;Rizzo et al.,2014;Kaczorowski e Disterhoft, 2009).

L’invecchiamento inoltre, si manifesta con cambiamenti nell’eccitabilità sinaptica a livello della medesima struttura dell’ippocampo, che si collega ad una riduzione delle proiezioni alla membrana bulbare, che forma le specializzazioni postsinaptiche delle sinapsi eccitatorie, chiamate spine dendritiche. Dal punto di vista neurologico, tale modificazione della densità delle spine dendritiche risulta critica per l’apprendimento spaziale e la memoria. In aggiunta a tali cambiamenti neuronali legati all’età, l’attivazione ISR può modificare la risposta immunitaria tramite alterazioni nella produzione di citochine (Onet et al,2019) Un sistema immunitario adattativo (infiltrazione delle T-cell nel cervello anziano) può regolare la funzione neuronale tramite produzione dell’IFN-gamma (Interferone-gamma) detto anche Interferone di Tipo II e che sappiamo essere una citochina che appartiene alla famiglia degli interferoni ed è prodotto dai linfociti B e T attivi. Pertanto, risposte immunitarie disadattative collegate al declino cognitivo cerebrale da invecchiamento suggeriscono un legame con l’ISR.

Nello studio di Krukowski, Walter, Rosi e collaboratori, si è esplorata la possibilità di inibire la ISR tramite somministrazione di ISRIB come potenziale strategia per indurre modificazioni alle disfunzioni neuronali collegate all’età, a disfunzioni immunitarie e cognitive ed i risultati derivanti hanno mostrato che il suddetto farmaco consente di ripristinare o di indurre un reset dell’ISR nel cervello di topi anziani e nello specifico, pare che l’attivazione di ISR conduca ad una globale riduzione nella sintesi proteica ma anche ad una sovra regolazione transazionale di un sottoinsieme selezionato di RNA messaggeri, la cui traduzione di tali RNAmessaggeri pare sia controllata da un piccolo frame di lettura iniziale, incorniciata nella loro 5-UTRs. Una nota proteina bersaglio ISR sovra regolata è l’ATF4 (noto anche come fattore 4 attivante la trascrizione). Gli studiosi hanno mostrato che la somministrazione di ISRIB ha prodotto una inversione nell’elevazione della proteina ATF4 indotta da lievd trauma cranico. Utilizzando un paradigma di somministrazione di IRSIB con iniezioni giornaliere per 3 giorni consecutivi, si sono inoltre registrate delle diminuzioni dei livelli di proteina ATF4 associata all’età nei lisati cerebrali dei topi, quando questi erano comparati ai controlli durante il periodo di somministrazione del farmaco. Interessante è stato scoprire che anche a distanza di 18 giorni dopo la cessazione del trattamento con il farmaco, i livelli della proteina AFT4 età-correlati fossero ancora in riduzione in modo persistente rispetto ai valori della proteina indistinguibili nei topi più giovani.

Altri notevoli risultati dello studio, come accennato, hanno riguardato l’influenza che la somministrazione di ISRIB ha mostrato sul declino dell’apprendimento spaziale e della memoria indotto dall’invecchiamento. Pare infatti, sia emerso che la ISR abbia un ruolo rimarchevole sulle disfunzioni della memoria a lungo termine, confrontando ad esempio le performance in prove di memoria a cui sono stati sottoposti topi giovani in confronto con i topi anziani sia prima che successivamente al trattamento con ISRIB per una settimana, notando una netta riduzione di errori commessi tra il primo e il secondo periodo.

Conseguentemente alla somministrazione di questo farmaco, si è registrata anche una fondamentale riduzione del tono infiammatorio indotto dall’età. In conclusione, è stato possibile dimostrare con questo studio, la possibilità di attenuare farmacologicamente il processo di ISR, che allevia i cambiamenti neuronali e immunitari connessi all’età e potenzialmente ripristinare una funzionalità cognitiva migliore, auspicabile ciò anche nel trattamento di patologie di cui numerose persone sono affette, al fine di ottenere per essi una qualità di vita quanto più possibile vicina alla normalità.

 

Le cose che nessuno ha il coraggio di dirti prima dei 10 anni (2020) di A. Pellai e B. Tamborini – Recensione del libro

I due esperti di psicologia dell’età evolutiva Alberto Pellai e Barbara Tamborini in questo libro affrontano 22 temi chiave della vita e ne esplorano gli aspetti emotivi per aiutare bambini ed adulti a trovare le risposte a tutto ciò che i più piccoli non osano chiedere o che i grandi non osano spiegare.

 

Capita a tutti di avere dubbi e paure su argomenti che non conosciamo e che ci spaventano, spesso la vergogna impedisce di esternarli. Eppure, per diventare grandi bisogna fare domande, tante domande, ed il modo migliore per sconfiggere la paura è informarsi su ciò che più ci intimorisce.

Gli adulti lo sanno ma a volte faticano a dare delle risposte o le danno in modo vago perché ritengono alcune domande dei bambini impossibili anche se sono più che naturali.

Alcune non hanno risposte certe perché ognuno deve crearsi le proprie; appartengono a questo genere le domande dei bambini relative a questioni complicate o dolorose, con cui uno non vorrebbe mai avere a che fare come quelle che riguardano un lutto, la malattia di un caro o la separazione dei genitori. Purtroppo trovare risposte, in questi casi, significa attraversare anche emozioni negative. Ma per crescere, della vita dobbiamo imparare a conoscere tutto, sia il bello che il brutto, perché purtroppo è inevitabile che quest’ultimo, a piccole o grandi dosi, prima o poi entri nella vita di ognuno. E allora è meglio essere preparati, sapere di cosa è fatto il male e come va affrontato per imparare ad attraversarlo e magari sconfiggerlo.

Affrontare temi così delicati spesso crea stati di ansia negli adulti che non sanno come gestire gli argomenti o che parole usare, perché i più piccoli vanno sempre protetti per cui certe cose è meglio non dirle per non spaventarli o farli soffrire inutilmente. Ma ciò non fa che aumentare le domande dei bambini senza risposta e l’immaginario dei bambini che restano sospesi in una condizione di incertezza la quale, a sua volta, non fa che alimentare ancor di più questa condizione in un circolo vizioso.

Le cose che nessuno ha il coraggio di dirti prima dei 10 anni non parla solo di cose brutte, al suo interno contiene anche le risposte che i grandi non riescono a dare perché farlo li riempie di imbarazzo o di vergogna, come ad esempio ciò che ha a che fare con la sessualità. Ed infine ci sono le risposte urgenti, quelle che riguardano la vita di tutti i giorni e il fatto che tutti dobbiamo darci da fare per rendere il mondo un posto migliore, argomenti come cyberbullismo, razzismo, pandemie e disabilità.

Queste sono solo alcune tra le complicate domande che i bambini e i ragazzi fanno: il volume le esplora e per ogni tema parte da un luogo comune che confonde e dice false verità, per esempio l’idea che per piacere agli altri non bisogna mai mostrarsi tristi, affrontandolo e smontandolo così da favorire un confronto aperto tra adulti e ragazzi e aiutare entrambi ad esprimere le proprie emozioni.

 

Osservare e scegliere: effetto odd-ball e decision making

Effetto odd-ball, elaborazione e decisione: tutti i comportamenti concepiti dall’uomo possono essere definiti come comportamenti basati su decisioni (Strauch et al., 2020). Qualsiasi decisione, presa in un determinato momento, ha il potere di modellare la cognizione e il comportamento del soggetto. Ma quali sono i processi che ci portano a decidere?

 

Oltre ad analizzare misure comportamentali, come tempi di reazione, la ricerca si è focalizzata sugli indicatori psicofisiologici che sono sempre più popolari in quanto possono fornire informazioni su come la presa di decisione si svolge nello specifico (Satterthwaite et al., 2007). In neuroscienze, il paradigma o effetto odd-ball è utilizzato per capire se un soggetto sia in grado o meno di riconoscere uno stimolo in base alle sue caratteristiche fisiche. Nello specifico, all’interno di un flusso di stimoli disturbanti ci sono stimoli con una bassa probabilità di bersaglio (odd-ball) che suscitano una differenza fisiologica (ad esempio, dilatazione della pupilla) e comportamentale (ad esempio, un cambiamento nei tempi di reazione). De Gee e colleghi (2014) hanno mostrato come la dilatazione della pupilla consente di indagare sul processo decisionale di un soggetto. Le pupille si dilatano in modo differente quando si osservano stimoli particolari o rari piuttosto che stimoli frequenti (Strauch et al., 2020). Il perseguimento di un obiettivo spesso include uno stimolo specifico desiderato che deve essere selezionato, da parte del soggetto, in base ad un’ampia serie di stimoli irrilevanti (ad esempio, serve una chiave specifica per aprire una porta specifica oppure si passano in rassegna vari autobus con lo sguardo per capire quale sia quello giusto da prendere). In molte situazioni, il processo decisionale coincide con la probabilità di elaborazione. Di conseguenza è difficile capire quale parte di una risposta fisiologica o comportamentale può essere attribuita al processo decisionale e quale parte alla probabilità di elaborazione dello stimolo (Strauch et al., 2020).

Nonostante sia possibile utilizzare un’indagine che osserva la dilatazione della pupilla (Qiyuan et al., 1985), i risultati sull’interazione tra elaborazione e decisione sono ancora scarsi. Oltre ai cambiamenti di luminosità o a quelli dovuti alla sistemazione, il diametro della pupilla riflette le fluttuazioni nell’attivazione nervosa centrale (Strauch et al., 2020). Guardando le variazioni del diametro, sono stati studiati molti processi psicologici come il carico cognitivo (Hess & Polt, 1964), l’attivazione emotiva (Ehlers et al., 2016), la ricompensa e l’anticipazione (Schneider et al., 2018), la rilevanza decisionale (De Gee et al., 2014) e gli effetti della probabilità dello stimolo (Murphy et al., 2014). Differenti autori (Simpson & Hale., 1969; van Olst et al., 1979; Einhauser et al., 2010) hanno osservato come il processo decisionale e il dover effettuare una scelta è associato ad una dilatazione della pupilla.

Strauch e colleghi (2020) hanno investigato il ruolo chiave della presa di decisione (scelta) legata a stimoli che hanno una probabilità di elicitare una dilatazione della pupilla (midriasi). Attraverso due esperimenti, gli autori vogliono osservare i cambiamenti psico fisiologici e comportamentali come i tempi di reazione del cambiamento (Strauch et al., 2020). Dato che molti esperimenti valutano soltanto gli effetti della probabilità dello stimolo – e dato che i tempi di reazione sono minori con stimoli bersaglio piuttosto che con stimoli disturbanti (De Gee et al., 2014) – gli autori hanno considerato anche l’effetto del processo decisionale e la sua interazione con la probabilità dello stimolo (Strauch et al., 2020). Nel primo esperimento, sono stati mostrati dei brevi video a 56 soggetti: lo scopo era quello di replicare gli effetti della probabilità della scelta di uno stimolo utilizzando il paradigma odd-ball, valutando la dilatazione della pupilla e il tempo di reazione. Nel secondo esperimento, lo scopo era di chiarire sperimentalmente quale livello di rilevanza dello stimolo fosse correlato con la probabilità della scelta dello stimolo: gli autori hanno indagato inoltre se la sola probabilità di scelta dello stimolo influisce sulla dilatazione della pupilla e sui tempi di reazione (Strauch et al., 2020). I risultati osservati dagli autori sono stati i seguenti: per la a) dilatazione pupillare (midriasi), nel primo esperimento sono stati riscontrati effetti significativi per il processo decisionale dei soggetti, per la probabilità di scelta di uno stimolo e per la loro interazione. Il processo decisionale ha influito sulla dilatazione della pupilla, con una dilatazione maggiore per gli stimoli bersaglio rispetto a quelli distraenti (Strauch et al., 2020). Nel secondo esperimento, l’interazione tra processo decisionale e probabilità di stimolo è stata significativa. Per i 2) tempi di reazione, nel primo esperimento sono stati riscontrati effetti sia per il processo decisionale – dove i partecipanti rispondono più velocemente agli stimoli bersaglio – sia per lo stimolo di probabilità. Nel secondo esperimento, la rilevanza dello stimolo ha influenzato significativamente i tempi di reazione: le reazioni erano più veloci per stimoli frequenti e non rari.

In generale, i risultati ottenuti dimostrano come sia stata trovata una rilevanza dello stimolo come precondizione per gli effetti della probabilità dello stimolo ma non viceversa. La rilevanza e la probabilità di uno stimolo presentato hanno influenzato sia il diametro della pupilla che i tempi di reazione. Tuttavia, per la dilatazione (midriasi), l’analisi suggerisce come l’effetto odd-ball emerga quando gli stimoli sono rilevanti per un obiettivo.

 

Plasticità Neurale e Psicologia Clinica – Il sesto episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema del sesto incontro è stato il rapporto tra Plasticità Neurale e Psicologia Clinica, discusso dal Dott. Mattia Ferro

 

PLASTICITÀ NEURALE E PSICOLOGIA CLINICA:

 

Asse intestino-cervello: il collegamento tra disturbo depressivo maggiore e microbioma intestinale

Attualmente si ritiene che il Sistema Enterico e il microbioma intestinale possano provocare cambiamenti comportamentali e persino interferire con lo sviluppo cerebrale. Quale legame hanno con il disturbo depressivo maggiore?

 

Sono sempre più numerose le prove scientifiche di un profondo legame tra cervello e intestino, molti studi evidenziano l’esistenza di influenze reciproche tra questi due organi (Borelli 2017). Una recente ricerca ha dimostrato un collegamento tra microbioma intestinale e Disturbo Depressivo Maggiore (MDD o disturbo  unipolare) ed ha aperto così la strada all’utilizzo dell’analisi del microbioma intestinale per la diagnosi del MDD.

L’intestino è anche detto secondo cervello ed è caratterizzato dalla presenza di una fitta rete di neuroni organizzati in due plessi che costituiscono il Sistema Enterico (Furness J.B., Callaghan B.P., Rivera L.R. et al. 2014). Altra peculiarità anatomo-funzionale di quest’organo è la presenza del microbioma. Con questo termine viene indicato l’insieme di microrganismi e di tutti i loro geni che convivono in simbiosi con le cellule umane. La colonizzazione microbica del tratto gastrointestinale ha inizio con la nascita e continua con l’avanzare dell’età fino a formare una microflora caratteristica di ciascun individuo. (Cillari E. 2017)

A lungo si è creduto che l’unica funzione del Sistema Enterico fosse quella di attualizzare gli input provenienti dal Sistema Nervoso Centrale. Attualmente si ritiene che questo sistema e il microbioma intestinale possano provocare cambiamenti comportamentali e persino interferire con lo sviluppo cerebrale (Neufeld K-A & Foster JA 2009).

Inoltre studi in vitro suggeriscono la possibilità di un’ influenza diretta del Sistema Nervoso Centrale sulla microflora batterica intestinale. Le ricerche evidenziano che condizioni di stress, con conseguente esposizione di alcune specie batteriche, quali Yersina enterocolica ed Escherichia Coli, alla noradrenalina, può determinare una rapida espansione di queste due popolazioni batteriche (Bailey M., Dowd S., D Galley J et al. 2011). Questo, a sua volta, comporta implicazioni nelle risposte immunitarie dell’organismo e può determinare la comparsa di stati infiammatori presenti in diversi quadri psicopatologici (Chinen T, Rudensky AY. 2012, Neufeld K-A & Foster JA 2009).

Logan e Katzman in una ricerca del 2004 sono giunti alla conclusione che i probiotici possono essere una terapia adiuvante nel trattamento del Disturbo Depressivo Maggiore. I due ricercatori hanno ipotizzato che i batteri del tratto gastrointestinale possono comunicare con il Sistema Nervoso Centrale.

Un recente studio apparso su Science Advances e condotto da un team di ricercatori provenienti da istituti di ricerca cinesi e statunitensi ha provato l’esistenza del collegamento tra microbioma intestinale e Disturbo Depressivo Maggiore (Yang J., Zheng P., Li Y. Et al. 2020)

Il disturbo unipolare è una patologia caratterizzata dell’abbassamento del tono dell’umore che si manifesta con una profonda tristezza ed è un disturbo mentale debilitante e piuttosto comune. Attualmente esistono varie ipotesi che tentano di spiegarne i meccanismi fisiopatologici ma, ad oggi, non è stato individuato alcun  biomarcatore specifico per questa patologia (Cuomo A., Fagiolini A. 2019).

Il gruppo di ricerca ha analizzato i campioni fecali prelevati da 156 persone con Disturbo Depressivo Maggiore e da 155 individui sani. Utilizzando metodi metagenomici e metabolomici sono stati identificati 3 batteriofagi, 47 specie batteriche e 50 metaboliti fecali che mostrano notevoli differenze di concentrazione tra i pazienti affetti da MDD e i controlli. Nei campioni delle persone con Disturbo Depressivo Maggiore i ricercatori hanno rilevato livelli più elevati di batteri del genere Bacteroides e livelli meno elevati di batteri delle specie Eubacterium e Blautia. Queste differenze, secondo gli autori dello studio, rappresentano il collegamento tra il microbioma intestinale e il Disturbo Depressivo Maggiore. Inoltre livelli più alti di Bacteroides spiegherebbero anche perché molti pazienti con disturbo depressivo unipolare mostrano livelli più alti di citochine e dunque di infiammazioni (Chinen T, Rudensky AY 2017).

Questa ricerca apre la strada all’utilizzo dell’analisi del microbioma intestinale come biomarcatore del Disturbo Depressivo Maggiore, ciò permetterebbe di affiancare alle interviste cliniche questo nuovo criterio diagnostico.

 

La scelta di avere e di non avere un figlio – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Avere un figlio nell’epoca contemporanea assume una funzione diversa rispetto al passato. La donna, in molte culture, ha l’opportunità di scegliere se avere o meno un bambino e in entrambi i casi, quando la scelta parte dall’ascolto di sé, può essere un dono sia per sé che per il proprio figlio. 

Moms – (Nr.10) Moms – La scelta di avere e di non avere un figlio

 

Si dice che i bambini siano una benedizione, ma forse anche l’assenza di un bambino può essere una benedizione.

Dice Anne Carlson, una delle protagoniste della serie Netflix Workin’ Moms, quando scopre che il bambino di cui è incinta è ancora vivo dentro di lei. Nel nono episodio del telefilm viene affrontato in maniera più approfondita il tema riguardante la scelta di dare alla luce o meno un figlio.

In alcune culture in tempi passati, il ruolo dell’uomo e della donna erano prestabiliti e senza possibilità di scelta. Mentre l’uomo doveva portare il pane a casa e quindi si riempiva col proprio lavoro, la donna si riempiva con il ruolo materno crescendo spesso più di un figlio. Così per entrambi era difficile restare con il vuoto interiore ed instaurare il dialogo con se stessi che permette di entrare in contatto con i propri desideri.

In tempi più recenti, nelle stesse culture, la situazione è cambiata e procreare non è più la condizione essenziale per riconoscersi come donna tanto quanto lavorare non è più quella necessaria per definirsi uomo. Apparentemente la divisione dei compiti e dei ruoli è più equilibrata, ma nella pratica non sempre è così, soprattutto in presenza di un figlio. Un bambino richiede che gran parte del proprio tempo, soprattutto all’inizio, venga dedicata a lui, perché la sua cura è letteralmente di vitale importanza.

La possibilità per la donna di studiare, che prima le era negata, le ha permesso di venire a contatto con la propria parte ambiziosa e col desiderio di realizzarsi in ambito lavorativo. Mentre prima la sola procreazione rispecchiava la capacità di una donna, ora quest’ultima ha la possibilità di scegliere con cosa identifica le proprie capacità e la propria soddisfazione, qualora la realtà economica e culturale e i limiti pratici lo rendano possibile.

Nell’epoca attuale un figlio rispecchia non più necessariamente il riempimento di un vuoto, ma una scelta personale rispetto ai propri bisogni. Non è indispensabile avere un figlio e laddove nasca non voluto potrebbe portarsi addosso il marchio del debito che il genitore inconsciamente gli affibbierebbe per aver dedicato la sua vita a lui quando avrebbe voluto non farlo.

Ogni donna nel prezioso incontro con sé può capire se ha il desiderio di dividere parte della sua vita con un altro essere umano. La maternità non è semplice e non lo è nemmeno la possibilità di realizzarsi in campo lavorativo, così la motivazione diventa requisito essenziale per entrambe.

I metodi anticoncezionali nascono con l’intento di salvare un figlio non voluto che dovrebbe pagare pegno in vita per il sacrificio materno di averlo messo al mondo. La maternità è una scelta, dove è stata resa tale, e così ogni donna che ne ha la possibilità diviene responsabile di se stessa e del bambino che nasce da lei o che sarebbe potuto nascere. Il regalo più grande che una donna che sente di non volere figli (o di non volerne altri) possa fare ad un suo potenziale bambino è non metterlo al mondo, se il prezzo da pagare in vita per questo bambino rischia di essere più alto della non esistenza.

 

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