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Le ipotesi in psicoterapia e nella vita (2020) di G. Cambiaso e R. Mazza – Recensione del libro

Il primo merito del nuovo libro di Cambiaso e Mazza, autori non nuovi alla produzione a quattro mani, è aver ridato centralità al tema delle ipotesi del terapeuta, ponendosi nell’ottica della necessaria valutazione da parte del terapeuta innanzitutto del proprio assetto.

 

Nel 1980 fu pubblicato, sia su Family Process (vol. 19, 1, pp. 3-12) che su Terapia Familiare (n.7, pp. 7-19), l’articolo a firma di Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata dal titolo Ipotizzazione, Circolarità, Neutralità: 3 direttive per la conduzione della seduta. La pubblicazione suscitò una vasta eco, sia in Italia che all’estero: l’équipe di Mara Selvini fissava tre principi guida per una corretta conduzione della seduta, che sarebbero stati per anni punti di riferimento obbligati per una vasta comunità di terapeuti ma anche oggetto di discussione. Ovviamente, il terzo principio, quella della neutralità del terapeuta, è stato quello maggiormente criticato e sottoposto poi a revisioni. Riguardo all’ipotizzazione essi intendevano “la capacità del terapista di formulare un’ipotesi fondata sulle informazioni in suo possesso. Con tale ipotesi il terapista stabilisce il punto di partenza della propria investigazione effettuata con metodiche atte a verificarne la validità”.

Il primo merito del nuovo libro di Cambiaso e Mazza, autori non nuovi alla produzione a quattro mani, è aver ridato centralità al tema delle ipotesi del terapeuta, ponendosi nell’ottica della necessaria valutazione da parte del terapeuta innanzitutto del proprio assetto.

Il loro punto di partenza è, citando la “Pragmatica della comunicazione”, che è impossibile non formulare ipotesi. Ciò non solo nello spazio terapeutico, ma in tutta la vita, a partire dalla prima infanzia. Noi costruiamo ipotesi, per spiegare le scelte proprie e altrui, connettendo elementi diversi e disparati, per creare una storia credibile che serve anche a dare senso agli eventi successivi.

Correttamente essi chiariscono come le ipotesi non nascano solo da un’attività cognitiva, dall’osservazione attenta, dagli indizi, dall’organizzazione dei dati raccolti. Occorre dunque tener conto, nell’esperienza dell’osservazione, anche delle emozioni suscitate dal contesto in cui essa si situa. Nei capitoli dedicati alla formulazione delle ipotesi nella vita, ampio spazio viene dedicato a esempi tratti dal mondo della letteratura, del cinema, della pittura. Citando Popper, secondo cui la scienza non deve essere intesa come “un corpo di conoscenze” ma un sistema di ipotesi, ci ricordano che esse non sono vere in assoluto e per principio, ma momentaneamente utili, in vista di una possibile falsificazione, utile anch’essa in un’ottica evolutiva. Tale premessa mi sembra indispensabile, soprattutto in tempi in cui, nel nostro paese e nel mondo, tentano di affermarsi i propugnatori di verità assolute, senza dubbi e incertezze.

Riguardo alla psicoterapia essi mettono in rilievo il rapporto tra ipotesi e alleanza terapeutica. La costruzione di un’alleanza con il paziente è l’obiettivo primario che deve avere il terapeuta sin dal primo incontro: essa rappresenta l’elemento cardine su cui si fonda tutta la successiva azione clinica. Ebbene, oltre che su evidenti fattori relazionali, l’alleanza si fonda proprio sulle ipotesi che di volta in volta il terapeuta produce. Esse riguardano la storia del paziente, i sintomi, ma anche la loro relazione includendo sia i momenti di vicinanza sia quelli di rottura. L’ipotesi, aggiungo io, deve essere innovativa rispetto alle convinzioni del paziente, altrimenti è inutile, ma deve essere anche, per quanto originale, accettabile e accettata.

Particolarmente illuminante è il capitolo dedicato alle ipotesi in psicoterapia in cui gli autori descrivono i 5 copioni, i canovacci che fungono da porta d’ingresso per costruire l’alleanza terapeutica. Questi scenari sono particolarmente utili anche a fini didattici, fornendo una guida chiara ai colleghi più giovani, nel caso fossero incerti su come districarsi tra la mole di informazioni raccolte nelle prime sedute. Il primo copione riguarda la possibilità di connettere il sintomo con i temi della specifica fase del ciclo di vita del paziente. Il secondo prevede che il terapeuta si focalizzi maggiormente sul sintomo, sui suoi effetti, inclusi vantaggi secondari che il paziente in prima battuta tende a ignorare. La terza possibilità concerne porre rilievo alle emozioni del paziente come emergono nello spazio della seduta. Gli ultimi due sono i più suggestivi. Il quarto suggerisce di estrapolare dalla narrazione del paziente i tre personaggi chiave del triangolo drammatico: la vittima, il persecutore e il salvatore. Si tratterebbe di una sorta di scena primaria relazionale, proposta dalle ipotesi dell’Analisi Transazionale. Infine, la quinta possibilità: restituire con una metafora, senza fornire una spiegazione ma provando ad integrare in modo creativo il piano cognitivo con quello emozionale.

In sostanza, si può dire senz’altro che la premiata ditta Cambiaso e Mazza non delude i suoi lettori. Si tratta ormai di una coppia di autori ben consolidata dai diversi precedenti lavori tra cui quelli dedicati alla famiglia del tossicodipendente e l’ultimo, che indagava i rapporti tra mondo intrapsichico e trigenerazionale.

Infine, mi permetto di suggerire ai due autori un seguito del loro lavoro, stavolta incentrato sulle ipotesi del paziente. Cosa si aspetta il paziente da noi? Chi, secondo lui, è il terapeuta come persona e quanto ciò incide sul percorso clinico? Quali sono i suoi obiettivi nel momento in cui chiede una terapia? Quanto sia necessario, affinché una terapia sia efficace, che le sue ipotesi di partenza si modifichino?

 

La musica e lo Stress

L’ascolto della musica è una comune attività della vita quotidiana (North et al., 2004). Le evidenze mostrano che ascoltare la musica provoca effetti benefici per l’umore e la salute (Sloboda et al., 2001).

 

Ciò è in linea con altri studi ambientati nella vita quotidiana, i quali hanno scoperto che l’ascolto della musica è associato all’esperienza di emozioni positive (Juslin et al., 2008). Tuttavia, i meccanismi psicofisiologici sottostanti a questi effetti benefici rimangono poco chiari. Nel presente studio è stato ipotizzato che gli effetti benefici dell’ascolto della musica sulla salute siano mediati da una riduzione psicofisiologica dello stress (Thoma e Nater, 2011). Questo è in linea con l’evidenza di recenti studi di neuroimaging: le emozioni evocate dalla musica attivano le principali reti delle emozioni (Koelsch, 2014). Nello specifico, si tratta dell’ippocampo e dell’amigdala (Koelsch, 2014), coinvolti nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) (Tsigos e Chrousos, 2002), deputata alla regolazione dello stress. L’attivazione di questo asse può essere misurata indirettamente dalla secrezione dell’ormone cortisolo (Hellhammer et al., 2009). Infatti, l’ascolto della musica (in contesti sperimentali) è stato precedentemente collegato alla secrezione di cortisolo (Levitin, 2013). Tuttavia, la ricerca ha mostrato risultati poco chiari, e talvolta contrastanti. Un altro importante sistema sensibile allo stress è il sistema nervoso autonomo (ANS), che è stato anche coinvolto nella mediazione dei cambiamenti fisiologici indotti dalla musica (Hodges, 2011). La sua attivazione può essere misurata indirettamente dalla secrezione dell’enzima salivare alfa-amilasi (Nater e Rohleder, 2009). Usando questo enzima come un marcatore di stress autonomo, soggetti che ascoltano musica, prima dell’esposizione ad un fattore di stress psicosociale, hanno dimostrato una capacità di recupero più rapida rispetto alle condizioni di controllo senza musica (Thoma et al., 2013). Tuttavia, la maggior parte dei risultati che esaminano i meccanismi alla base degli effetti benefici dell’ascolto della musica sono stati raccolti in ambienti sperimentali e con un ascolto in solitudine. Il numero di studi ambientati nella vita quotidiana e di gruppo è ancora limitato. Esaminare i partecipanti ripetutamente nella loro vita quotidiana mentre stanno svolgendo la loro routine permette di minimizzare i bias di richiamo e di massimizzare la validità ecologica (Shiffman et al., 2008). Inolte, ci sono prove in letteratura che almeno alcuni degli effetti benefici dell’ascolto della musica sono strettamente legati alle sue funzioni sociali, ad esempio, in uno studio, Boer e Abubakar (2014) hanno dimostrato che l’ascolto di musica con i coetanei è positivamente associato a misure continue di benessere e coesione sociale. A questo punto ci si chiede se l’ascolto della musica in presenza di altre persone possa fungere da fonte di sostegno (Ipotesi 1) e se questo rafforzi l’effetto di riduzione dello stress dell’ascolto della musica (Ipotesi 2). Poiché l’ascolto di musica per motivi di rilassamento è stato trovato essere predittivo dell’effetto di riduzione dello stress dell’ascolto di musica in studi precedenti, è stato testato, in modo esplorativo, se questo effetto di riduzione dello stress dell’ascolto di musica per motivi di relax varia a seconda della presenza di altri. I partecipanti allo studio sono stati 53 soggetti appartenenti alla popolazione non clinica, e sono stati valutati più volte.

Lo stress è stato valutato sia per mezzo di indicatori di stress soggettivo, usando l’item “In questo momento, mi sento stressato” (scala Likert a 5 punti) che attraverso marcatori fisiologici di stress, come il cortisolo salivare (sCort) e l’alfa-milasi salivare (sAA). Ai partecipanti è stato chiesto di raccogliere la saliva intera usando il sistema SaliCap® (IBL, Amburgo, Germania). I livelli di sCort sono stati misurati usando un test immunoenzimatico che è in commercio (IBL, Amburgo, Germania). L’attività sAA è stata misurata usando un test colorimetrico cinetico e reagenti ottenuti da Roche (Fa. Roche Diagnostics, Mannheim, Germania). Per quanto riguarda l’attività di ascolto della musica, se ciò era accaduto tra una valutazione e l’altra, i partecipanti dovevano indicare retrospettivamente se erano soli, in presenza di amici o partner, o in presenza di conoscenti. A tutti i partecipanti è stata data una definizione standardizzata di “presenza di altri durante l’ascolto della musica”, ovvero ogni volta che c’erano altre persone intorno a loro mentre ascoltavano la musica; è stato chiesto loro di dichiarare la semplice presenza di altri mentre ascoltavano la musica indipendentemente dall’interazione con gli altri. Ad ogni valutazione, i partecipanti hanno indicato se avevano ascoltato musica dalla precedente valutazione. Se lo avevano fatto, seguivano ulteriori item a riguardo. Ai partecipanti è stato chiesto di completare gli item riguardanti le caratteristiche della musica indicando il valore percepito della stessa (scala analogica visiva – VAS – che va da triste (0) a felice (100)) (Sandstrom e Russo, 2010) e il livello di attivazione percepita della musica (VAS che va da 0 (rilassante) a 100 (energizzante)) (Khalfa et al., 2003). Successivamente, hanno indicato il gradimento per la musica su una scala che va da 0 (per niente) a 100 (molto) (Stratton e Zalanowski, 1984) ed è stato chiesto loro se avevano il controllo sulla scelta della musica (sì/no) (Chanda e Levitin, 2013), e se avevano ascoltato la musica volutamente (Linnemann et al., 2015a). Poi, sono state valutate le ragioni per l’ascolto della musica (Linnemann et al., 2015a): rilassamento, attivazione, distrazione, e riduzione della noia. Infine, i partecipanti dovevano indicare la fonte di ascolto della musica (lettore MP3, televisione/radio, impianto stereo, musica dal vivo, altoparlante pubblico) (Juslin et al., 2008).

I risultati hanno rivelato che, in generale, l’ascolto della musica di per sé non è stato associato a un effetto di riduzione dello stress. Tuttavia, l’ascolto di musica in presenza di altri è stato associato a una diminuzione dei livelli di stress soggettivo, un’attenuazione della secrezione di cortisolo e una maggiore attività di sAA. Questo esito è in linea con gli studi di Boer e Abubakar (2014), i quali hanno scoperto che l’ascolto di musica in presenza di coetanei è associato a un aumento dei sentimenti di coesione sociale: si potrebbe ipotizzare che la semplice presenza di altri durante l’ascolto di musica potrebbe portare a sentimenti di coesione sociale senza ulteriori e specifici interventi di supporto sociale. Inoltre, questi effetti erano indipendenti dalla familiarità delle persone presenti e dalle ragioni alla base dell’ascolto della musica. Questi ultimi, in particolare il rilassamento, predicevano la riduzione dello stress soltanto nei casi in cui i soggetti ascoltavano la musica in solitudine. Quando si ascolta la musica da soli, essa sembra essere al centro dell’attenzione, mentre quando la si ascolta in presenza di altri, potrebbe agire più come un’attività di sfondo. Questo potrebbe spiegare perché i partecipanti a questo studio hanno riferito di aver ascoltato meno volontariamente la musica quando erano in presenza di altri (rispetto all’ascolto solitario): la musica, pertanto, potrebbe avere piuttosto effetti indiretti sulla salute, suggerendo che può facilitare il contatto sociale e la connessione sociale senza essere al centro dell’attenzione.

 

L’abuso di sostanze: una strategia di regolazione emotiva – Video dal webinar organizzato dal CIP Modena

Il webinar organizzato da CIP Modena si propone come un momento di riflessione sull’abuso di sostanze quale strategia di coping maladattiva, attuata a fronte di esperienze emotive indesiderate.

 

Usare sostanze è un comportamento appreso, mantenuto dalle aspettative sulle conseguenze: in base alla sostanza scelta ci sarà una modificazione dello stato emotivo, aumentando la percezione di emozioni positive e alleviando gli stati negativi. In questo senso si configura quindi come una strategia di coping maladattiva, attuata a fronte di esperienze emotive indesiderate. Una persona che ha difficoltà nella regolazione degli stati emotivi sarà più propensa a cercare ed utilizzare sostanze.

Durante l’incontro, sono state presentate ai partecipanti le informazioni sulle caratteristiche dei disturbi da dipendenza e sul ruolo della disregolazione emotiva come fattore di vulnerabilità e di mantenimento, nonché alcune informazioni sui trattamenti ad oggi più efficaci.

Il webinar è stato condotto dal Dr. Andrea Ferrari, Psicologo e Psicoterapeuta.

 

L’ABUSO DI SOSTANZE: UNA STRATEGIA DI REGOLAZIONE EMOTIVA

Guarda il video del webinar:

 

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Stare nel flusso non è sempre la soluzione: gli aspetti disfunzionali del “qui-ed-orismo”

Pensiero base dello yoga, dell’approccio mindfulness e dell’autocoscienza Golemaniana, il “qui-ed-ora” è un concetto chiave per un approccio sano alle difficoltà della vita e della Società.

 

Tuttavia, un suo abuso come mezzo di fuga dalle responsabilità o come metodo per prolungare l’esposizione alle conseguenze può essere dannoso e compromettente.

Una possibile comunanza che si trova fra le varie culture e i vari approcci alla vita è quella dell’utilizzo dell’approccio “qui-ed-ora” nei confronti della vita, ovvero il concentrarsi sulle sensazioni e sul momento che si sta vivendo, attenuando le preoccupazioni verso il futuro o quelle riguardanti il passato (Sacchetti).

Di fatto, il pieno godimento dell’attimo è una componente multiculturale, essendo questo parte integrante del carpe diem dell’epoca romana (Bonazzi, 2018), del pensiero del buddismo originato nelle terre indiane (Lott, 2012) e dell’ikigai giapponese (Mitsuhashi, 2017).

Gli effetti benefici di un atteggiamento curante di vivere il presente sono documentati: diminuzione dell’ansia e dello stress in eccesso (Liberman, Trope, 2008), una maggior consapevolezza del momento che si sta vivendo (Collard, Walsh, 2008), un approccio prosociale più ampio (Roeser, Peck, 2009) e una maggior costruzione di senso nel vissuto (Koshy, Mariano, 2011).

Per i suoi benefici e per le conseguenze positive che possono portare all’individuo, l’approccio di vivere il presente è diventato parte integrante di metodologie terapeutiche (Slavin, 1993) e di contestualizzazioni psicologiche, come le nozioni basate sulla intelligenza emotiva di Daniel Goleman (2013).

Oltretutto, il metodo mindfulness, ovvero una contestualizzazione neuroscientifica delle tecniche di autoconsapevolezza improntate sul qui-ed-ora  (Tang, Hölzel, Posner, 2015) è la base di nuove metodologie di terapie e di interventi psicoattitudinali, come la mindfulness-based stress reduction (Pillay, 2016).

Ovviamente, il beneficio dell’ottica “qui-ed-ora”, se applicato oltre i limiti, può arrecare danno.

Una nota critica è stata mossa da Mats Alvesson e Andrè Spicer, professori ed esperti accademici di organizzazione e management attraverso il loro saggio Il Paradosso della Stupidità (2016).

Nel loro testo, i due professori denunciano la minaccia del “qui-ed-orismo” attuata dai manager all’interno delle aziende: di fatto, i manager ed il vertice aziendale possono usare la visione del “vivere alla giornata” come meccanismo di difesa nei confronti delle difficoltà radicate da tempo nell’azienda, attuando così una consapevole ignoranza per procrastinare la soluzione e avere dei rilasci della tensione vicini dal punto di vista temporale (Alvesson, Spicer, 2012).

Attualmente, per via della citata rinnovata popolarità degli interventi basati sul pensiero del “qui-ed-ora”, il mondo clinico ed accademico sta attuando una analisi critica nei confronti dell’abuso dell’attitudine (Winter, 2016), che può rivelarsi controproducente in vari ambiti, come nel precedentemente citato ambito economico e possibilmente nell’ambito della salute, se la persona attua solo questa come filtro dell’esperienza quotidiana (Harvard Men’s Health Watch, 2020).

 

Il colloquio motivazionale in psicoterapia: spingere il paziente al cambiamento – Report dal webinar organizzato da CIP Modena

Il colloquio motivazionale (CM), è particolarmente utile per facilitare il processo di cambiamento, proponendosi come una valida soluzione quei pazienti che mostrano una resistenza al cambiamento.

 

Spesso, durante il corso della terapia, potrebbe accadere che alcuni pazienti, pur essendo pienamente consapevoli dei propri comportamenti disfunzionali che generano sofferenza, insoddisfazione e che hanno conseguenze negative, perseverino e non sembrino intenzionati a modificarli in alcun modo. Tali pazienti danno l’impressione di essere intrappolati in una condizione di “stallo”, ancorati allo stesso punto della terapia poiché il loro “blocco” è indice di una resistenza al cambiamento. Il colloquio motivazionale (CM), è particolarmente utile per facilitare il processo di cambiamento, proponendosi come una valida soluzione per questa tipologia di pazienti.

Cos’è il CM?

Esso è stato descritto per la prima volta da Miller e colleghi (1983) ed inizialmente impiegato nel trattamento di pazienti con dipendenza da alcol e, successivamente, esteso all’ambito delle tossicodipendenze, dei disturbi alimentari e delle malattie croniche. Il CM viene definito dallo stesso autore come:

uno stile di comunicazione collaborativo e orientato che presta particolare al linguaggio del cambiamento, progettato per rafforzare la motivazione personale e l’impegno verso un obiettivo specifico, attraverso la facilitazione e l’esplorazione delle ragioni proprie della persona per cambiare, il tutto in un’atmosfera di aiuto e accettazione.

Il primo degli aspetti importanti del CM è che esso presuppone una relazione collaborativa tra professionista e cliente, infatti, quest’ultimo è attivamente coinvolto nel processo modificazione del comportamento. Dunque, l’obiettivo del CM non è né imporre il cambiamento né convincere il paziente ad attuare una modifica dei propri comportamenti disfunzionali, ma far sì che sia egli stesso consapevole dei motivi per cui valga la pena cambiare. In poche parole, la scelta di raggiungere un determinato obiettivo rimane sempre una responsabilità della persona (Miller & Rollnick, 2004).

Del tutto normale nel processo di cambiamento è la condizione di ambivalenza, una situazione che può permanere per un periodo di tempo in cui il soggetto pondera i costi e i benefici (bilancia decisionale) rispetto alla possibilità di cambiare e percepisce un conflitto (frattura interiore). Dinnanzi ad una persona ambivalente, uno stile troppo direttivo del terapeuta nel sottolineare la necessità di cambiare, rischia di attivare resistenze.

Quali sono le tecniche di base del CM?

Per gestire con competenza un CM, il clinico può ricorrere a quattro tecniche fondamentali:

1. Porre domande aperte: sono domande che non prevedendo una risposta dicotomica (“si” o “no”) e che permettono di comprendere motivazioni, stati interni e valori della persona e migliorare la collaborazione; le domande aperte invitano le persone a riflettere prima di rispondere e ad ampliare i confini della risposta, mentre le domande chiuse riducono la possibilità di risposta e, quindi, anche la possibilità di comprendere il paziente. Esempi di domande aperte sono: «Cosa l’ha portata qui oggi?»; «In che modo questo problema influenza la sua quotidianità?»; «Come spera che questo percorso la possa aiutare? Cosa sta cercando nell’aderire a questo trattamento?»; «A fine terapia come vorrebbe reagire alle stesse situazioni (emotivamente e nel comportamento)?».

2. Ascoltare in modo attivo e riflessivo: è una competenza indispensabile del terapeuta ascoltare attivamente quello che il cliente riferisce. Ciò si rivela essere un’ottima opportunità per raccogliere informazioni preziose circa la storia di vita della persona, il proprio parere, per approfondire la comprensione dei suoi bisogni, e per capire il motivo alla base della sua richiesta terapeutica. Si riporta un breve esempio di conversazione tra clinico e paziente:

«ho perso il controllo, mi sono arrabbiata e ho lanciato degli oggetti addosso al mio compagno, non so cosa mi sta succedendo…»
«si sente agitata e confusa per quello cha ha fatto»
«sì, ho perso il controllo e non è la prima volta»
«quindi non è la prima volta che le capita di provare questa rabbia che le fa lanciare oggetti»
«esatto, quando mi lasciano sto malissimo…(piange)»
«sono emozioni intense e dolorose»
«sì, e mi fanno rovinare le relazioni e allontanare le persone»
«dunque, finora mi ha parlato di queste reazioni forti che non le piacciono, che la agitano e sconfortano e che ostacolano le sue relazioni. La ostacolano in qualche altro modo?»
«non dormo bene per giorni poi e tendo a ritirarmi e a lavorare meno, questo è un problema»
«la preoccupa il modo in cui si sente dopo queste reazioni e il modo in cui condizionano le sue giornate facendola ritirare e lavorare meno».

3. Sostenere il paziente tramite osservazioni di apprezzamento: consiste nel fare attenzione alle risorse, ai progressi positivi, alle intenzioni e agli sforzi del cliente, usando, espressioni quali «in questa settimana si è impegnato a fondo»; «le sue intenzioni erano buone anche se poi le cose non sono andate come avrebbe voluto»; «si sente triste per non essere riuscito a sospendere del tutto il suo rimuginio in quella situazione, tuttavia è riuscito a posticiparlo di qualche ora, questo è un notevole progresso»; «conoscendo la sua storia, mi sembra che lei abbia fatto tutto ciò che poteva per far fronte a quegli stati d’animo così dolorosi».

4. Fare una sintesi: un riassunto riunisce le informazioni offerte dal paziente e può essere di riordino, di collegamento o di transizione. Il paziente non solo ascolta sé stesso mentre descrive la sua esperienza ma ascolta anche il terapeuta riflettere e riassumere ciò che ha detto per incoraggiarlo a proseguire. Ecco alcuni esempi esplicativi: «quindi le cose che lei sente necessario modificare sono la sua eccessiva attenzione ai suoi sintomi corporei, la sua eccessiva preoccupazione sul suo stato di salute e l’eccessivo uso di internet per verificare il suo stato di salute. Cos’altro le viene in mente che in questo momento ritiene essere d’ostacolo per la sua quotidianità?»; «si è sentito deluso e poco rispettato in quella situazione. Ricordo che mi ha già detto che quando qualcuno la ignora come in questo caso lei si arrabbia molto»; «bene, si ricorda che le ho detto che oggi, prima della fine del nostro incontro, avremmo deciso insieme quale situazione, nella piramide delle situazioni che lei evita, sarà l’oggetto della sua attenzione e dei suoi tentativi questa settimana. Ma prima di questo mi permetta di verificare se ho capito bene quali sono le esperienze che al momento lei evita, dalla meno spaventosa alla più spaventosa: camminare da solo in strada, salire su un autobus, salire sulla metropolitana, andare al cinema…».

Quali sono i processi del CM?

All’interno della terza edizione del manuale di Miller e Rollnick (2004), vengono delineati i quattro processi che compongono il CM. Essi sono sia sequenziali sia ricorrenti: ogni processo si sovrappone al precedente, che continua a sussistere in quanto fondamento del seguente. Nel corso del colloquio o del trattamento, si può salire o scendere la scala, tornando al gradino precedente quando è necessario porvi nuovamente attenzione. Gli autori sottolineano che il processo decisionale non va inteso come una sequenza stadiale, poiché spesso ha un andamento più circolare che lineare (Miller & Rollnick, 2004)

Inoltre, i processi non necessariamente si verificano secondo l’ordine con cui verranno descritti:

1. Stabilire una relazione: è il processo con cui entrambe le parti stabiliscono una connessione utile (di fiducia e rispetto reciproci) e una relazione collaborativa. La letteratura scientifica mostra come le persone che vengono coinvolte attivamente hanno più probabilità di rimanere, aderire e beneficiare del trattamento psicoterapico (Horvath, Del Re, Flückiger, & Symonds, 2011; Martin, Garske, & Davis, 2000). A seguire verranno riportate le “trappole” che non permettono di attivare e mantenere un processo relazionale, collaborativo e di qualità con il cliente.

2. Focalizzare: è il processo con il quale si definisce e si mantiene col cliente una direzione specifica nelle conversazioni sul cambiamento, concordando con lui il tema del colloquio. Alcune volte c’è un singolo focus chiaro, altre volte ci sono diverse possibilità problematiche ed altre ancora può capitare che il focus sia piuttosto confuso. Qualora il focus non fosse chiaro si raccomanda di:

  • Elaborare una mappatura del percorso, ossia concordare in maniera esplicita il tema dei colloqui, anche con l’ausilio di una mappa visiva;
  • Scambiare informazioni (es. sul disturbo, sul «funzionamento del paziente) secondo lo schema suscita-fornisci-suscita che consiste nel chiedere alla persona se vuole ricevere informazioni o consigli, fornirgliele in caso di risposta affermativa e, infine, chiedergli un feedback sull’informazione richiesta.

3. Evocare: implica far emergere la motivazione al cambiamento del cliente; ha lo scopo di aiutare a risolvere l’ambivalenza nella direzione del cambiamento. Data la rilevanza di questa fase del processo del CM, essa verrà descritta di seguito in maniera più approfondita.

4. Pianificare: comprende sia lo sviluppo dell’impegno al cambiamento sia la formulazione di un piano d’azione concreto da parte del paziente.

Quali sono le trappole che non aiutano a stabilire una relazione?

Alcuni fattori, circostanze o comportamenti del clinico potrebbero ostacolare il consolidamento di una relazione collaborativa tra le due parti (Miller & Rollnick, 2004). Pertanto è necessario che il professionista vi presti attenzione al fine di non incappare in alcuni errori:

  1. Trappola domanda-risposta: lo schema domanda-risposta adottato intensivamente durante il primo contatto (fase di assessment) preclude la possibilità di favorire una discussione più ampia sui motivi e le sofferenze del cliente e, quindi, può portare quest’ultimo ad assumere un atteggiamento di passività e subordinazione;
  2. Trappola dell’esperto: il professionista assume il ruolo dell’esperto dando l’impressione di conoscere e di saper fornire tutte le risposte. In modo del tutto analogo alla “trappola domanda-risposta”, anche in questo caso c’è il rischio di relegare il paziente ad un ruolo secondario e di passivo distacco;
  3. Trappola della focalizzazione prematura: concentrarsi sul problema da risolvere prima di aver stabilito una relazione e, quindi, prima di aver dato inizio ad una collaborazione e aver concordato gli obiettivi del trattamento;
  4. Trappola dell’etichettatura: si raccomanda di de-enfatizzare il ruolo dell’etichettatura diagnostica (nei casi in cui il cliente viva tale etichetta come un ostacolo al cambiamento), ponendo maggiore attenzione al contenuto del problema del paziente, al funzionamento del paziente e agli ostacoli che incontra;
  5. Trappola delle chiacchiere: è rischioso non avere una direzione specifica o un obiettivo terapeutico condiviso. La condivisione del funzionamento del paziente con il paziente è fondamentale per non fare «quattro chiacchiere».

Come riconoscere le affermazioni orientate al cambiamento?

Esistono due tipologie di affermazioni orientate al cambiamento:

1. Affermazioni di preparazione orientate al cambiamento (DARN- Desire, Ability, Reasons, Need), ossia frasi pronunciate dal cliente che riflettono la sua intenzione ad attuare una modifica comportamentale. Esse indicano:

  • Desiderio (“voglio, mi piacerebbe, vorrei…”);
  • Capacità (posso, potrei, sono in grado, sarei in grado…);
  • Ragioni (se…allora);
  • Bisogno (ho bisogno, devo, è necessario…).

2. Affermazioni di attivazione orientate al cambiamento (CATs- Commitment, Activation, Taking steps) indicano che il cliente ha maturato la scelta di raggiungere un determinato cambiamento ed è pronto ad adottare strategie e comportamenti per ottenerlo. Le affermazioni di attivazione al cambiamento indicano:

  • Impegno (“lo farò, intendo farlo…”);
  • Mobilizzazione (“sono pronto a…, sono preparato a…”);
  • Fare passi avanti (“ho fatto…”).

Attraverso l’applicazione dei principi, delle tecniche e delle strategie del CM, definiti da Miller e Rollnick, il paziente dovrebbe essere sufficientemente motivato ad intraprendere un cambiamento e portarlo a compimento. Il metodo del CM e i suoi successivi sviluppi, dai primi anni Novanta ad oggi hanno reso questo strumento versatile e particolarmente utile nella pratica clinica.

 

IL COLLOQUIO MOTIVAZIONALE – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Digital imprinting

Le nuove tecnologie hanno assunto un ruolo sempre più importante nelle nostre vite, dal televisore si è passati gradualmente ai PC fino ad internet per poi arrivare ai giorni nostri in cui l’uso dello smartphone è diventata una delle attività più importanti della nostra giornata.

 

Nato a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 appartengo, formalmente, alla Generazione X ma forse son semplicemente un Millennial, (Generation Chart, 2021) resta il fatto che uno dei tratti caratterizzanti la nostra esistenza è stato il crescere all’interno di un periodo storico in cui le nuove tecnologie hanno assunto un ruolo sempre più importante nelle nostre vite, dal televisore si è passati gradualmente ai PC fino ad internet per poi arrivare ai giorni nostri in cui l’uso dello smartphone è diventata una delle attività più importanti all’interno della nostra giornata.

Per questo vi racconterò la storia di un ‘nativo digitale’ ovvero semplicemente la mia.

Ai tempi dell’asilo la TV rappresentava la modernità.

Nel fine settimana ci trovavamo con i miei genitori per festeggiare la domenica dai nonni, qui mentre preparavano il pranzo, un cassone in bianco e nero posto nell’angolo della cucina mandava il telegiornale che illustrava gli eventi della giornata. Nel dopocena la televisione proiettava ‘Sandokan’, la Tigre di Mompracem (Lenzi, 1963), un film che adoravo, cosicché mi  era concesso di guardarlo sul tavolo di cucina, munito di coperta e cuscino, gli altri stavano seduti ai bordi del tavolo sperando che mi addormentassi.

Durante le scuole elementari mi fu regalato il Commodore 64 (InfoWorld, 1982), uno dei primi Personal Computer (PC), funzionava a cassette e con grossi dischi neri (Floppy Disk), l’utilizzo era dedicato prettamente all’attività ludica, videogiochi come Pac Man e Ghost’n’Goblin riempivano le mie giornate.

Ben presto la curiosità prevalse, decisi di iniziare a leggere il manuale dell’MS-DOS che mi era stato dato con l’acquisto del PC, cosicché diventati abbastanza abile nel programmare, il fine era poter scambiare con gli amici videogiochi ma ben presto capii che c’era molto di più, stavo per scoprire i comandi che guidavano gli aspetti meno noti dei nostri amici PC, ai tempi si diceva che chi praticava l’hacking ovvero la pirateria informatica (come veniva tradotto) lo faceva perché portava verso la conoscenza, la rivelazione (Ippolita, 2005).

Negli anni ’90, alle scuole medie, durante le ore di matematica avevamo un laboratorio sperimentale di informatica, qui ci veniva insegnato il Logo (Lariccia, 1983), meglio conosciuto come il linguaggio della tartaruga. Si trattava di programmare questo simpatico animaletto affinché svolgesse dei semplici esercizi come disegnare grafici a partire da numeri. In pratica stavamo scoprendo che anche i numeri possono avere una forma ed un colore e che la loro lettura in quella modalità geometrica era molto più fruibile.

Durante gli anni del liceo, conosco Giulio che diviene il mio fedele compagno di banco per tutti e cinque gli anni, lui ha la passione per la musica e suona in varie band locali, sempre in cerca di nuove sonorità mi chiede di accompagnarlo più volte nello studio di suo babbo, Domenico, per scaricare degli spartiti musicali di band statunitensi. Domenico lavorava presso il CNUCE (Centro Nazionale di Calcolo Elettronico) come informatico e a quel tempo era uno dei pionieri di quello che sarebbe poi diventato internet. Per collegarci avevamo a disposizione tutta una serie di password e collegamenti davvero complicati, ma alla fine il risultato era ogni volta entusiasmante, a noi era concesso comunicare con persone a migliaia di chilometri di distanza, le nostre vibrazioni facevano eco dall’altra parte del mondo, e per noi anche questo era già musica. Anni dopo Domenico Laforenza (Laforenza, 2019) sarebbe diventato uno dei maggiori esperti italiani e mondiali sull’utilizzo di internet e di sicurezza informatica.

Terminato il liceo, internet è ormai alla portata dei più, nascono le prime chat come ICQ  (Goldfinger, 1996) che ci permettono di comunicare con tutta comodità con gli amici, nutrire qualche simpatia e magari conoscere nuove persone. Lo scambio di file con testi e qualche immagine con il passare degli anni trasforma le chat in un qualcosa di sempre più complesso, utile ed affascinante, nascono continuamente nuove realtà fino alla loro evoluzione ultima ovvero la nascita dei primi Social Network, il più noto di tutti senza dubbio Facebook (Zuckerberg, 2004).

La nuova spinta evolutiva questa volta è decisamente affidata allo sviluppo dei materiali hardware, tecnologie sempre più minimali e potenti fanno sì che gradualmente si possa passare dall’utilizzo dei PC fissi ai ben più maneggevoli smartphone o suppellettili integrati come ad esempio gli smartwatch.

Negli ultimi anni l’informatica è divenuta parte integrante della nostra vita quotidiana, siamo tutti collegati h24 e attraverso un semplice click possiamo inviare messaggi, effettuare pagamenti, organizzare gruppi o riunioni se non addirittura interagire a distanza con il termostato di casa, lavatrici e robot domestici di qualsiasi tipo in altre parole la digitalizzazione da semplice strumento additivo del nostro quotidiano è entrata nella nostra realtà in modalità integrata così da cambiare la realtà non solo dei singoli ma dell’intera comunità in cui viviamo.

Ad anni di trasformazione tecnologica e sociale non potevano che corrispondere anni di evoluzione anche nella psicologia e così è stato.

A partire dagli anni ‘70/’80 fino ad oggi si è infatti assistito allo sviluppo di correnti di pensiero che hanno seguito ed utilizzato le immagini dell’informatica. La moderna PNL (Bandler, 1975) nasce proprio da Grinder e Bandler, statunitensi di origine, guarda caso, l’uno linguista e l’altro informatico.

L’evoluzione di questo tipo di psicologia, da molti criticata e demonizzata, ha in realtà influito fortemente sulla nostra società, ad oggi parole come coaching e mentoring sono di uso comune. L’idea di poter raggiungere un obiettivo in maniera veloce e fluida non poteva che attecchire in una società che ha come substrato l’idea portante di dinamismo, per i più la classica psicoanalisi non sarebbe che tempo sprecato.

Resto dell’idea che la PNL stia alla psicoanalisi come lo smartphone sta al deepweb (Greenberg, 2014), due aspetti della stessa medaglia intrinsecamente collegati e dunque interdipendenti che costituiscono un continuum ai più oscuro.

 

Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità (2020) di Ammaniti e Ferrari – Recensione

Gli autori di Il corpo non dimentica riflettono sulla relazione tra cognizione e corpo, un legame presente già prima della nascita e che lega il funzionamento delle aree motorie allo sviluppo dei processi cognitivi più sofisticati.

 

Ci sono movimenti che risvegliano il passato. Sbuccio lentamente una mela con un coltellino tascabile (un tempo si diceva coltellino da tasca), osservo come si arrotola la spirale della buccia, asciugo il succo di mela sulla lama. La mia mano ricorda la mano di mio padre, che ricorda quella di mio nonno. Non sono io, è mio nonno che sbuccia la mela. E tutti e tre la inghiottiamo contenti. (Georgi Gospodinov, 2020)

Ripenso spesso ad una delle mie prime lezioni all’Università: Parma, Facoltà di Psicologia, docente nientemeno che Vittorio Gallese, brillante ricercatore, all’epoca (era il 2000) reduce da una delle scoperte epocali nell’ambito delle neuroscienze, quella sul funzionamento dei neuroni specchio.

Ricordo che esordì la lezione dicendoci, letteralmente e con enfasi: “Ragazzi, voi avete scelto una facoltà a dir poco fantastica”.

Quella frase, detta da un ricercatore del suo calibro, mi suonò piuttosto sconcertante; molti di noi che si erano iscritti a Psicologia nutrivano infatti un sentimento ambivalente nei confronti degli scienziati, una sorta di devozione mista ad astioso complesso di inferiorità.

Sapevamo che non avremmo mai goduto della credibilità e del prestigio dei medici e dei neuroqualsiasicosa, che il campo di interesse sarebbe stato comune (mente, cervello, emozioni) ma che noi psicologi avremmo dovuto sputare sangue tutta la vita per rivendicare il rigore scientifico del nostro lavoro.

Vittorio Gallese, con quella frase inaudita, ci somministrò un’iniezione di entusiasmo, perché accese il riflettore su un effettivo punto di forza del nostro corso di laurea, ovvero l’interdisciplinarietà. Ci spiegò che avevamo l’opportunità di collocarci in un privilegiato punto di incontro tra diversi campi del sapere, solitamente lontani tra loro: filosofia e neurobiologia, antropologia e psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze.

Ho ripensato a questo concetto, a me diventato caro nel tempo, del pensiero interdisciplinare leggendo il libro Il corpo non dimentica, a partire dal felice incontro tra i due autori, apparentemente distanti tra loro: Pier Francesco Ferrari, neuroscienziato ed etologo, e Massimo Ammaniti, psicoanalista.

Al centro della riflessione dei due esperti, sostenuta da una ricchissima rassegna di studi, la relazione tra cognizione e corpo, un legame presente già prima della nascita e che lega il funzionamento delle aree motorie allo sviluppo dei processi cognitivi più sofisticati.

Un concetto in parte noto; già Freud sosteneva che “l’Io è un’identità corporea” e gli autori ci ricordano come anche i miti raccontino di corpi che portano impressi su di sé i traumi dell’abbandono e dell’abuso, a volte in forma di vere e proprie menomazioni fisiche, come nel caso della zoppia di Edipo, mutilato e poi abbandonato dal padre.

Tuttavia, per lungo tempo, psicologia e neuroscienze hanno considerato azione e cognizione come due funzioni separate, codificate in aree cerebrali distinte. Sono recenti le dimostrazioni che le aree corticali motorie intervengono anche nell’elaborazione delle informazioni sensoriali e che il neonato è predisposto in maniera innata a rapportarsi coi suoi movimenti agli altri, guidato da una cognizione relazionale radicata nel corpo.

Il testo, arricchito dai recenti risultati dell’Infant Research e degli studi comparativi nei primati non umani, ci propone quindi il concetto dell’Io corporeo nella sua declinazione più innovativa, ossia legata al ruolo che le strutture cerebrali coinvolte nel controllo di azioni e gesti, e quindi del corpo, giocano nella nascita dell’intersoggettività e dell’io relazionale, a partire dalle comunicazioni preverbali ed extraverbali (rispecchiamento, imitazione, sorrisi, espressioni del volto). Rispetto a questo trova spazio, nel testo, il doveroso tributo (l’ennesimo) alla portata degli studi sui neuroni specchio, localizzati per buona parte in aree cerebrali motorie e premotorie e che svolgono un ruolo cruciale nell’apprendimento per imitazione e comprensione del comportamento altrui.

Non solo: la ricerca neurobiologica dimostra che anche le interazioni con l’ambiente, e in particolare le relazioni con gli altri, in primis quelle con i propri genitori, esercitano un’influenza diretta sullo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali.

Non c’è quindi distinzione netta né gerarchia tra cervello e mente, biologia ed esperienza, natura e cultura; la mente umana è il frutto delle interazioni tra tutti questi aspetti e i fattori genetici e costituzionali hanno un impatto tanto quanto le esperienze che facciamo.

Una precisazione decisiva che consente ai terapeuti (ma non solo) di tenersi alla larga sia da un eccesso di determinismo biologico (la mela non cade lontano dall’albero, da un pero non si fa un pomo, per dirlo con la “saggezza” popolare) ma anche dalla ricerca di improbabili eziologie psicologiche per i disturbi mentali (non dimentichiamo i drammatici abbagli del passato in questo senso, dalle “madri frigorifero” accusate di provocare l’autismo alle famiglie degli schizofrenici, considerate colpevoli di generare il disturbo per mezzo di “doppi legami”).

Questa prospettiva equilibrata ci chiarisce la piena responsabilità delle esperienze che induciamo nei bambini ma al netto di eccessivi sensi di colpa legati all’idea distorta che le modalità educative siano le sole a determinare gli itinerari di sviluppo.

Un testo utile agli addetti ai lavori, a chi è interessato alle implicazioni della ricerca sul tema delle cure parentali, ai terapeuti che vogliano ricavarne indicazioni utili per il lavoro clinico e che si inserisce nella traiettoria già seguita dalle forme di trattamento più moderne, in cui vediamo il corpo collocato prepotentemente al centro del processo psicoterapeutico: EMDR e Terapia Sensomotoria sono tra gli approcci che più di tutti rivendicano il primato della memoria procedurale nel determinare il funzionamento psicologico, in termini di trame psichiche iscritte nel corpo e che si traducono in atteggiamenti e comportamenti automatici (posture, espressioni, tono di voce, arousal, modalità di porsi in relazione).

Per certi aspetti un orientamento concettuale che si distingue dal cognitivismo classico, approccio per il quale (ipersemplificando) è il pensiero che causa l’emozione e che pertanto considera la ristrutturazione cognitiva come il punto di partenza per la ricerca della regolazione emotiva.

La teoria della cognizione incarnata invita invece ad un percorso inverso, bottom up, dal corpo al pensiero: come scrive Dimaggio

Il rapporto del corpo con il mondo influisce sui processi cognitivi. Essere fisicamente sporchi genera giudizi morali. Manipolare oggetti rigidi porta a valutazioni rigide. Sensazioni di freddo ci maldispongono verso gli altri. Stato del corpo, postura, tensione muscolare, la preparazione a compiere una determinata azione influenzano i processi cognitivi.

Questa è la rivoluzione esperienziale.

La nostra verità non è in quello che diciamo, ma nei gesti. (Dimaggio, 2020)

 

Disturbi alimentari, immagine corporea e perfezionismo durante la gravidanza

Durante la gravidanza, l’immagine corporea subisce un declino a seguito delle variazioni di peso e forma del corpo. Questi aspetti individuali di insoddisfazione e tendenza al confronto sociale, sono concomitanti alla presenza di problematiche cognitive associate alla propria percezione corporea, aggravando il disturbo alimentare.

 

I disturbi alimentari sono problematiche strettamente connesse al contesto socioculturale occidentale, che attribuisce forte rilevanza alle forme del corpo, promuovendo ideali di bellezza associati alla magrezza. Il rischio conseguente può essere l’adozione di diete drastiche, il ricorso all’esercizio fisico estremo, l’induzione di vomito e l’assunzione di lassativi (Ferrand et al., 2009), che provocano danni significativi alla salute fisica e al funzionamento psicosociale.

L’anoressia consiste nella restrizione alimentare concomitante alla presenza di dispercezione dell’immagine corporea, perdita di peso e debolezza. La letteratura ha individuato come l’associazione di questa con tratti psicotici sia fonte di un persistente perfezionismo, sbalzi d’umore e disturbo ossessivo compulsivo correlato. La psicosi che emerge in concomitanza all’ansia precedente al pasto e che rende l’individuo sensibile e reattivo agli stimoli, ha spesso un’origine infantile e antecedente il disturbo alimentare (Damercheli, N. Kakavand AR, 2017; Pourghassem Gargari B. et al., 2010).

Durante la gravidanza, la patologia alimentare in donne che ne hanno sofferto precedentemente, può regredire per il timore di provocare danni al feto. Tuttavia, in alcuni casi, c’è il rischio di una ricaduta, favorita dall’aumento di peso e dall’insoddisfazione corporea conseguenze (Bardone-Cone et al., 2013). Anche se tendenzialmente i sintomi miglioreranno nel post-partum (Kordi M. et al., 2014), queste donne sono a rischio di aborto spontaneo, anomalie elettrolitiche, travaglio pretermine, restrizione della crescita intrauterina e inadeguato aumento di peso nel feto. I comportamenti di restrizione calorica, possono anche influire causando ritardi nello sviluppo del bambino e, nel peggiore dei casi, morte materna e fetale ( Rahmanian, V. et al., 2017).

Durante la gravidanza, l’immagine corporea, ovvero il modo in cui ci vediamo e veniamo visti dagli altri (Bardone-Cone et al., 2013), subisce un declino a seguito delle variazioni di peso e forma del corpo, risentendo anche a causa dei condizionamenti della società moderna che valorizza il corpo perennemente magro (Alah-Gholilo, K. et al., 2013).

Questi aspetti individuali di insoddisfazione e tendenza al confronto sociale, sono concomitanti alla presenza di problematiche cognitive associate alla propria percezione corporea (Trindade & Ferreira, 2014), aggravando il disturbo alimentare. Ad esempio, coloro che tendono alla ruminazione, sono vittime del confronto con l’altro ed avendo elevati livelli di perfezionismo, tendono a perseguire standard irrealistici (Mashalpourfard M. et al., 2014).

Il perfezionismo è un tratto di personalità che consiste nello sforzarsi ad essere impeccabili, ponendosi standard irrealisticamente elevati, al contempo valutando criticamente il proprio ed altrui comportamento (Roshanfar, A. Mokhtari, S. Padash, 2013). Sebbene sia nel perfezionismo adattivo che disadattivo l’obiettivo è il raggiungimento del successo, nel primo arrivare allo standard prefissato aumenterà i livelli di autostima, mentre nel secondo l’insoddisfazione per l’obiettivo irrealistico implicherà l’emergere del criticismo verso di sé, che avrà ripercussioni negative individuali (Atadokht, 2016).

Il perfezionismo condiziona fortemente la salute mentale in quanto la preoccupazione per gli errori, che lo caratterizza, è implicata nell’anoressia e nelle abitudini alimentari dannose (Erozkan et al., 2011).

A partire dalle indagini che hanno riscontrato un’associazione tra disturbi alimentari, immagine corporea e perfezionismo nella popolazione (ad es. Mashalpourfard M. et al., 2014) e la loro rilevanza nel compromettere la salute mentale; Kiani-Sheikhabadi M. et al. (2019), hanno indagato la relazione tra questi fattori in 187 donne che stavano affrontando una gravidanza.

Il perfezionismo adattivo non era implicato nell’insorgenza dei disturbi alimentari, nell’anoressia nervosa e nel desiderio di abbuffarsi tra le donne del campione. La componente disadattiva di perfezionismo, invece, si associava positivamente alla patologia alimentare ed ai comportamenti correlati.

Dunque, coerentemente con la letteratura (Welch et al., 2009), il disturbo alimentare in gravidanza può essere favorito o meno dalle tendenze di perfezionismo nei soggetti; soprattutto quelle disadattive, che peggiorano la sintomatologia legata all’alimentazione, l’anoressia nervosa ed il desiderio compulsivo di mangiare (Boone et al., 2010).

Il perfezionismo negativo comporta un atteggiamento ostile verso i propri errori, tendenza a biasimarsi e percepire una mancata corrispondenza tra proprie prestazioni ed aspettative. Le donne incinte con questa componente, potrebbero fare valutazioni imprecise sul proprio peso ed aspetto corporeo, adottando comportamenti rischiosi, ovvero diete ed esercizio fisico eccessivo, che favoriscono lo sviluppo di un disturbo alimentare.

Secondo altre indagini, la componente di perfezionismo è talmente implicata che in alcuni casi può predire indipendente dagli altri aspetti, l’insorgenza di una patologia alimentare (Ariapooran & Shirzadi, 2012).

Il perfezionismo positivo rende le donne meno propense a sviluppare un disturbo alimentare, poiché raggiungeranno l’obiettivo desiderato avendo fiducia nelle proprie capacità (Bardone-Cone et al., 2007); saranno meno propense a preoccuparsi per l’aumento o la perdita di peso e non si biasimeranno.

I risultati mostrano anche una relazione negativa tra l’immagine corporea con i sintomi del disturbo alimentare, l’anoressia nervosa e il desiderio di abbuffarsi. In linea con la letteratura, questa sintomatologia si riduce con l’insorgenza di un’immagine corporea positiva e la soddisfazione verso il proprio aspetto fisico (Mashalpourfard M. et al., 2014).

Infatti, all’aumentare del valore attribuito al proprio corpo, si riducono i comportamenti tipici dell’anoressia nervosa, il desiderio di mangiare ed in generale il rischio di insorgenza della patologia alimentare (Mashalpourfard M. et al., 2014). Al contrario, le donne che si sentono fisicamente poco attraenti, avranno un basso valore fisico e saranno più propense ad adottare una dieta restrittiva che aumenterà l’incidenza e la gravità del disturbo alimentare.

Sebbene i cambiamenti fisici durante la gravidanza condizionano l’immagine corporea, con il rischio di comparsa di disturbi alimentari; ad aggravare la condizione giocano un ruolo i contesti familiari e sociali, che influenzano l’ideale del proprio corpo, generando sofferenza quando questo non rispetta i canoni estetici.

In generale, i medici dovrebbero intervenire effettuando una diagnosi precoce ma soprattutto fare prevenzione. Specialmente le ostetriche, che sono a contatto con le future madri, dovrebbero essere istruite ed istruire sui bisogni nutrizionali di base e gli effetti delle diete restrittive in gravidanza.

Inoltre, per prevenire l’insorgenza di un disturbo legato all’immagine corporea, sarebbe utile rafforzare l’autostima delle future madri; oltre che sostenerle nella rielaborazione dei contenuti che recepiscono dai media, la loro visione del corpo e dell’ideale di bellezza femminile.

A questo proposito, è possibile agire mediante interventi psicoeducativi rivolti alle donne incinte ed ai loro coniugi al fine di ridurre l’incidenza del disturbo alimentare in gravidanza.

 

Le dimensioni del perfezionismo – Il quinto episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del quinto episodio della serie dedicato al perfezionismo. Ospite della puntata, il Dott. Giovanni Maria Ruggiero.

LE DIMENSIONI DEL PERFEZIONISMO:

Seduta psicoterapeutica: quando la clessidra si svuota troppo presto

Da paziente il tempo in psicoterapia non lo capisci, non vedi i passaggi, la tecnica, la struttura. Sai che funziona, lo senti che stai meglio, ti percepisci più consapevole, ma non capisci il perché e il come questo accada.

Silvia Mancuso – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Ho deciso di trattare questa tematica perché è un argomento che mi tortura da quando ho iniziato il mio percorso in psicoterapia. La psicoterapia è una delle cose migliori che mi sia capitata nella vita. Già dal primo giorno in cui ho conosciuto la mia terapeuta, mi sono trovata a fine seduta a chiudere la porta dello studio dietro di me e dirmi “non basta” e ripetermelo durante la strada per tornare a casa. Ho pensato che sarebbe andata meglio eppure ancora oggi ogni volta che la mia seduta termina la prima cosa che penso è “non basta, il tempo che ho a disposizione non basta”.

Potrebbe sembrare facile parlarne in terapia ma non per me. Ho provato solo una volta ad accennarlo, a mo’ di battuta, e la mia terapeuta mi ha risposto che lei dedica 60 minuti per cliente e che è molto più di quello che dovrebbe e molto più tempo di tanti altri orientamenti. Ho capito che poteva dirmi quello che voleva, ma non era quello che volevo sentirmi dire.

Quanto ho pensato alle sue parole e a quello che avrei voluto dirle al riguardo. “Basta! Alla prossima seduta mi prenderò di coraggio e le dirò quello che penso. I punti che affronterò, in ordine di importanza: questo tempo non basta, mi aiuti a farlo bastare, non sopporto quando capita che il paziente prima di me rubi il mio tempo, non sopporto di perdere tempo nel pagare la terapia e pianificare il prossimo appuntamento e credo che sia tempo rubato alla terapia. Se consideriamo tutto questo la seduta dura 45 minuti e non 60 e questi 45 minuti non bastano”.

Ma quanto tempo è troppo tempo o poco tempo? Nella vita ci sono una serie di situazioni come la terapia che devono essere racchiuse all’interno di una cornice temporale. Penso ai film o alla lezione di yoga. Vi sono altre situazioni, come una cena o il parrucchiere, dove il tempo è quello che serve. Hai un’idea di quanto tempo potrebbe impegnarti ma non esiste una regola temporale. Ecco, io vorrei una seduta terapeutica “da cena”. Vorrei poter decidere io paziente quando concluderla e alla fine dire “grazie per la seduta, sono stata davvero bene, alla prossima. Buona notte”.

Lo yoga, i film, le cene, la parrucchiera: sono tutti esempi di situazioni che scegliamo di vivere per migliorarci la vita. Lo stesso vale per me con la terapia, scelgo di andare per migliorarmi e per raggiungere la consapevolezza di me che sto ricercando. Nonostante per me il tempo sia sempre poco devo dire che questa terapia funziona, quindi se funziona, al di là della mia percezione del tempo, mi dico “goditi le tue sedute e basta con questa storia”. E invece no, io voglio capirci qualcosa. Da paziente il tempo in psicoterapia non lo capisci, non vedi i passaggi, la tecnica, la struttura. Sai che funziona, lo senti che stai meglio, ti percepisci più consapevole, ma non capisci il perché e il come questo accada. Percepisci il tempo che passa quando è già passato ed è lì che concepisci il concetto di quanto.

Ci sono dei tempi tecnici che definiscono il setting come i saluti e il pagamento che rendono una seduta di 45-50 minuti quando ne hai a disposizione 60 oppure di 35-40 minuti quando ne hai solo 50. Una seduta si sa, non si basa solo sulla narrazione e so che questo articolo non porta nulla di nuovo. La variabilità della durata delle sedute è un tema dibattuto tra le teorizzazioni psicoanalitiche (la psicoanalisi propone un setting fissato tra i 45 e 50 minuti) e quelle lacaniane (Lacan proponeva un setting variabile e non fissato).

Il cervello crea la rappresentazione cognitiva del tempo usando variabili quali il passare dei giorni e l’uso dell’orologio. Integriamo informazioni che impariamo fin da quando siamo piccoli e cominciamo a creare la nostra rappresentazione personale del tempo. La consapevolezza dello scorrere del tempo è una produzione interna mentale. Io ancora mi stupisco quando la mattina mi sveglio prima della mia sveglia. Quando sto bene con qualcuno il tempo mi sembra passare in fretta, quando faccio qualcosa che non mi piace sembra non finire. Si sa, ogni persona ha un tempo proprio, una personale produzione interna mentale della consapevolezza dello scorrere del tempo. Un orologio misura il tempo ma il tempo esiste anche senza gli orologi.

I fatti acquistano significato e spessore di esperienza solo quando sono rappresentati nella mente. È nel diventare pensiero che producono i loro effetti. Se non so che la guerra è finita mi nascondo e combatto nelle foreste nipponiche anche 10 anni dopo Hiroshima (R. Lorenzini, 2011).

Tutto è regolamentato dal tempo, un concetto che ci siamo creati noi grazie alla memoria e alle aspettative. Dal tempo nasce il concetto di passato, presente e futuro e grazie a questo noi agiamo e ci comportiamo (Hammond, 2013).

Marc Wittmann è uno psicologo che descrive questo fenomeno legato alle fluttuazioni dello stato della coscienza (Wittmann, Giersch, & Berkovich-Ohana, 2019). I nostri interessi e le nostre emozioni, il nostro umore e i momenti che viviamo possono influire sulla percezione del tempo, che è una percezione personale, legata al mondo esterno solo dagli strumenti che lo misurano.

Se prendessimo consapevolezza di questo potremmo imparare a vivere il tempo responsabilmente. I limiti sono la nostra nascita e la nostra morte, in mezzo il tempo e la vita, la nostra, luogo di incontri e di esperienze, di sofferenza e di amore.

E la morte che ci tormenta altro non è che l’annientamento della sensibilità, come Epicuro (Paini, 2006, pag. 33) ci avverte “…Niente è la morte per noi: infatti tutto ciò che si è dissolto non è più dotato di sensibilità, e ciò che non è più sensibile è niente per noi…”.

Nella terapia questa vita, e questa morte, diventa il tema centrale della narrazione e viene esposta all’interno di un format preciso dove due sconosciuti si incontrano. Uno è il terapeuta e l’altro il paziente. Il paziente porta questa sua vita. I due si accordano sugli obiettivi da raggiungere e sugli impegni reciproci. Gli incontri si concluderanno quando entrambi saranno d’accordo di aver raggiunto l’obiettivo. I due sono estranei e tali devono rimanere anche se il paziente col tempo diventa qualcosa di altro dall’essere estraneo. Se queste regole non venissero rispettate sarebbe una grave violazione del setting. Il tempo è quello del presente, del qui ed ora.

S. Agostino (Sant’Agostino, 2014) quando indaga il tempo parla del tempo dell’interiorità e della pluralità dei tempi legata a diversi livelli di realtà. Il presente del presente (qui ed ora) ma anche il presente del passato (ricordi) e il presente del futuro (una presunzione di quello che sarà). Lo psicoterapeuta durante la narrazione del paziente, nel qui ed ora, durante questi 45-60 minuti, decide di approfondire alcuni pensieri e quindi blocca il narrato del paziente su aspetti per lui importanti, perché ha bisogno di focalizzarsi su quello che serve per dare seguito alla sua tecnica.

L’impressione del paziente è di essere una rosa che sta per sbocciare e che viene tranciata. Un soufflé che è sul punto di gonfiarsi, il terapeuta apre il forno e il soufflé fa quello sbuffo che lo spacca e che ne precede lo sgonfiore.

Sostiene Cicerone che nella vita adulta il divenire è ipotecato e incanalato nelle progettualità senza fine che si estrinsecano in piani giornalieri, settimanali, mensili, annuali e pluriennali, nei quali il vivere cristallizzato in morfologie preordinate diviene il dato saliente dell’esistenza, ridotta a mera alienazione temporale, in cui il costrutto di tempo viene traslato dal suo significato più profondo per divenire una categoria concettuale in grado di essere usata per lenire le paure (Paggetti N., 2006).

L’esperienza che ho vissuto, che sto vivendo, che vorrei vivere diventa superflua per quel contesto. Non c’è tempo per approfondirla, non serve, tu paziente non lo sai ma il terapeuta ha già capito e quindi non serve continuare a narrare. Tu paziente hai una enorme quantità di cose che vorresti dire ma il terapeuta ti trascina là dove vuole: dove ti trovavi? Cosa hai pensato? Che emozione ha provato? E mentre rispondi alle sue domande ti chiedi, perché non mi lascia finire? Io ho un’enormità di altre informazioni anche più importanti di “cosa ho pensato e delle emozioni che ho provato”?

La psicoterapia si presenta come un momento in cui la ripetizione del tuo vissuto è una traccia per un progetto più ampio che è difficile vedere fin da subito. Riuscire ad allontanarsi e vederlo nella sua totalità non è fin da subito possibile, riesci solo a vedere un singolo mattoncino e credi che non abbia senso tutto questo per il progetto che avevi in mente. Anche se questa di cui parlo non è l’esperienza di tutti, è sicuramente la mia. Questo e molto altro è ciò che mi ripeto quando esco da quella stanza. Mi chiedo poi: chi come me non ha delle basi di psicologia, come gestirà questo stato? L’approccio cognitivo comportamentale è un metodo semplice e breve, mirato alla rimozione del sintomo. Tende a limitarsi al minimo tempo necessario e non è un percorso infinito. Metodo concreto che segue il sintomo e stimola anche un cambiamento profondo della personalità che lo genera. Questo mi è chiaro, ma lo è anche per chi non ha delle basi di psicologia?

La mia sensazione da paziente è che a volte sembra che la psicoterapia abbia lo scopo principale di mantenere un setting corretto. Tutto quello che sta dentro è sicuramente customizzato per il paziente, quasi fosse un ambito sartoriale ma è tutto lì dentro, dentro quei minuti. Fuori da quei confini non è possibile uscire.

Cosa dirà di me questa mia idea del tempo? Chissà se a tutti noi piacerebbe che le nostre terapie fossero personali e individuali, come il tempo, i pensieri e le emozioni. Sono mie queste resistenze al cambiamento o sono davvero necessarie per garantire all’approccio cognitivo comportamentale di rimuovere il sintomo? Insomma, quando ho pensato di poter diventare una psicoterapeuta pensavo solo di manipolare le rappresentazioni corticali e il cervello del paziente con le mie parole. Un po’ come il meccanico quando gli porti la macchina rotta, lui apre il cofano e accende l’auto, tocca un filo, accelera e ha già capito qual è il problema. Non mi ero fermata a pensare che il mio paziente, che voglio aiutare, avrebbe avuto l’idea che gli stessi rubando tempo e soldi o la percezione che i suoi discorsi potrebbero stancarmi. Vi assicuro che io sono quella paziente. Non sono disposta ad affrontare questa attesa tra una seduta e l’altra.

I terapeuti decidono di fare questo lavoro per ascoltare le persone e aiutarle a stare meglio. Come potrebbe la mia terapeuta aiutarmi a capire che i pensieri che riporto in terapia sono abbastanza? Non lo so, credo che la capacità di guardare al terapeuta come una guida e un supporto potrebbe essere un bene per me, potrei imparare a lasciarmi andare e accettare di fidarmi. Forse temo solo di prendere consapevolezza che “non basta” è un pensiero tipico nella mia vita e non vale solo per la terapia. La mia terapeuta ha una laurea, ha una scuola di specializzazione alle spalle e so che continua a studiare e prendere certificazioni, ha esperienza con i miei problemi, con lei mi sento a mio agio, rispetta i miei limiti, mi stimola, mi fa sentire giusta, mi normalizza. Ci sono tutti i presupposti fondamentali perché possa procedere tutto nel migliore dei modi.

Il tempo è la risorsa più importante che abbiamo e allo stesso modo è limitata e non serve avere un orologio per saperlo. È necessario che impari a gestirlo al meglio, questo la psicoterapia me lo sta insegnando.

 

Pet Therapy: benessere e salute a portata di zampa – Dalle tipologie di intervento agli animali coinvolti

La pet therapy utilizza gli animali per diversi impieghi, come la riabilitazione, la terapia, le attività educative e ludico-ricreative. Questi tipi di interventi sono rivolti soprattutto ad individui che hanno disturbi della sfera fisica, neuromotoria, mentale e psichica o possono rivolgersi anche ad individui sani.

 

La pet therapy si basa sul concetto che un animale possa incidere positivamente sulla salute umana, questo viene definito pet effect (Cirulli, 2018). Generalmente all’interno di una terapia si intende lenire le sofferenze delle persone e questo implica una relazione tra due esseri viventi, solitamente della stessa specie (medico o psicoterapeuta e paziente), mentre con l’introduzione della pet therapy all’interno di questo rapporto si aggiunge una figura di un’altra specie (Giacon, 1992). La pet therapy è una tipologia d’intervento di recente sviluppo e negli ultimi anni ha suscitato dell’interesse nella comunità scientifica (Cirulli, 2018).

L’Associazione internazionale delle organizzazioni di interazione umana-animale (IAHAIO) nel marzo 2013 ha riconosciuto gli Interventi Assistiti con l’Animale (IAA) come intervento orientato e strutturato verso obiettivi che includano o incorporino gli animali nella salute, nell’istruzione e nei servizi umani al fine di un miglioramento terapeutico nell’uomo (Nordgren & Engstrom, 2013).

Pet therapy

Il ministero della salute (2015) afferma che la pet therapy, in italiano Interventi Assistiti con l’Animale (IAA), utilizzi gli animali per diversi impieghi, come ad esempio la riabilitazione, la terapia, le attività educative e ludico-ricreative. Questi tipi di interventi sono rivolti soprattutto ad individui che hanno disturbi della sfera fisica, neuromotoria, mentale e psichica o possono rivolgersi anche ad individui sani.

Gli interventi assistiti con l’animale si suddividono in Terapia Assistita con gli Animali (TAA), Educazione Assistita con gli Animali (EAA) e Attività Assistita con gli Animali (AAA).

  • La TAA consiste in un intervento terapeutico che ha l’obiettivo di curare i disturbi della sfera fisica, neuro e psicomotoria, cognitiva, emotiva e relazionale. Questa tipologia di intervento può essere rivolta a soggetti che soffrono di patologie fisiche, psichiche, sensoriali di qualunque origine. La TAA si costruisce ad hoc per il paziente a cui è rivolta e richiede apposita prescrizione medica (Ministero della salute, 2015).
  • L’EAA ha lo scopo di promuovere, attivare e sostenere le risorse, le potenzialità di crescita e le progettualità individuali, di relazione ed inserimento sociale delle persone in difficoltà. Questa tipologia d’intervento contribuisce a incrementare la qualità di vita della persona, a rinforzare l’autostima del soggetto coinvolto e può essere un utile risorsa per una rieducazione comportamentale. L’EAA possono essere svolte singolarmente o in gruppo. Si può applicare a istituti per anziani, pazienti psichiatrici, residenze sanitarie assistenziali, comunità per minori, carceri ecc. (Ministero della salute, 2015).
  • L’AAA è una tipologia d’intervento che ha una finalità ludico-ricreativa e di socializzazione attraverso cui si cerca di promuovere il miglioramento della qualità di vita, la corretta interazione uomo-animale e intende promuovere un reciproco benessere. Le attività sportive-agonistiche che includono gli animali non rientrano in questa tipologia (Ministero della salute, 2015).

Animali impiegati per le attività di IAA

Gli animali che possono essere adoperati per l’IAA rientrano nelle specie animali domestiche poiché sono più idonei ad instaurare relazioni sociali con gli uomini. In questa classificazione rientrano: cani, cavalli, asini, gatti e conigli. Altre tipologie di animali potranno essere utilizzate nell’ambito della pet therapy solo se saranno accettate dal Centro di Referenza Nazionale Interventi Assistiti con gli Animali (CRN IAA). Prima di avviare un progetto di pet therapy l’animale utilizzato dovrà avere un’abilitazione e superare la valutazione da parte del veterinario. Tutti gli animali che hanno subito maltrattamenti o abbandoni non possono essere impiegati per l’IAA, questo vale anche per gli animali che sono stati nei rifugi a meno che non intraprendano un percorso di rieducazione e socializzazione. Anche i cuccioli non possono partecipare alle attività di pet therapy, mentre le femmine adulte non possono lavorare durante il periodo estrale, la lattazione e quando si trovano in uno stato di gravidanza avanzato (Ministero della salute, 2015). Un animale per poter essere impiegato in attività di pet therapy deve rispettare dei requisiti sanitari e comportamentali. Ogni animale ha una propria cartella clinica dove vengono registrate l’anamnesi, lo stato sanitario, le profilassi eseguite, le eventuali terapie e l’esito della valutazione comportamentale. Le cartelle devono essere costantemente aggiornate poiché, durante le varie attività annuali, gli animali sono tenuti sotto costante monitoraggio dal veterinario che compila una valutazione finale. Per ogni animale che svolge le attività di IAA si redige una scheda di registrazione degli interventi svolti che verrà allegata alla cartella clinica (Ministero della salute, 2015).

Équipe

Per poter svolgere un’attività di pet therapy è necessario far parte di un’équipe composta da specifiche figure professionali: medico veterinario esperto in IAA, coadiutore dell’animale, responsabile di progetto, responsabile d’intervento e responsabile di attività.

  • Il veterinario collabora in base al progetto con il responsabile di progetto o con il responsabile dell’attività nella scelta della specie animale e della coppia coadiutore-animale. Valuta i requisiti sanitari e comportamentali dell’animale impiegato e indirizza alla corretta gestione dello stesso assumendone la responsabilità.
  • Il coadiutore dell’animale è colui che gestisce l’animale durante le sedute.
  • Il responsabile di progetto si occupa della coordinazione dell’équipe nella definizione degli obiettivi del progetto, delle relative modalità di attuazione e valutazione degli esiti. Per rivestire questo ruolo bisogna essere o un medico specialista o uno psicologo-psicoterapeuta.
  • Il responsabile di intervento al contrario del coadiutore dell’animale si occupa della persona a cui è rivolto l’intervento. Questo ruolo può essere rivestito da chi è in possesso di un diploma di laurea triennale in ambito sanitario, psicologico o educativo.
  • Il responsabile di attività gestisce l’organizzazione e coordina le attività del progetto. Questa figura può essere rivestita da figure professionali e operatori che abbiano esperienza e competenze in corrispondenza agli obiettivi che sono stati posti per il progetto.
    (Ministero della salute, 2015)

 

Come possiamo fare per gestire al meglio le frustrazioni di ogni giorno – Report dall’evento

Per frustrazione si intende una situazione in cui un individuo si trova quando è ostacolato, temporaneamente o in modo permanente, rispetto alla possibilità di soddisfare i propri bisogni. Il sano sviluppo psicologico del bambino si lega strettamente all’alternanza di frustrazione e gratificazione.

 

Secondo il modello teorico di Young (2003) e di Liotti (2001) la condizione umana viene considerata come soddisfazione e gestione di bisogni personali. Tali bisogni esistenziali sono innati e si possono suddividere in tre categorie: bisogni basici, ossia di sopravvivenza, come la nutrizione e la sicurezza; bisogni affettivi e sociali, che vanno dal bisogno di cura reciproca e vicinanza affettiva fino alla collaborazione sociale complessa; e bisogni individuali, che riguardano lo sviluppo, la realizzazione personale e l’autostima e implicano l’esplorazione dell’ambiente e l’affermazione sociale. Già alla nascita ogni persona presenta però bisogni in contrapposizione tra loro (come il bisogno di protezione e il bisogno di esplorazione), pertanto una quota di frustrazione è naturale nel processo evolutivo e riguarda tutti gli individui. Inoltre, la tolleranza alla frustrazione è particolarmente rilevante nei disturbi di personalità perché, ad esempio, nel disturbo di personalità dipendente si assiste a una focalizzazione sui bisogni di protezione e vicinanza affettiva, mentre nel disturbo narcisistico di personalità si punta maggiormente ai bisogni individuali di successo e realizzazione.

Per frustrazione, infatti, si intende una situazione in cui un individuo si trova quando è ostacolato, temporaneamente o in modo permanente, rispetto alla possibilità di soddisfare i propri bisogni. Il sano sviluppo psicologico del bambino si lega strettamente all’alternanza di frustrazione e gratificazione e si possono individuare molteplici cause di frustrazione, quali: fattori fisici, poiché la nascita stessa è frustrante per il neonato che si trova improvvisamente in un contesto completamente diverso da quello precedente, il quale può apparirgli ostile e far diventare primario il bisogno di accudimento e di protezione; fattori sociali, dato che far parte di un gruppo sociale e dover rispettare delle norme spesso impedisce il soddisfacimento dei bisogni personali, generando un senso di intolleranza verso quanto stabilito (ad esempio per il bambino il controllo degli sfinteri è estremamente frustrante all’inizio); infine, fattori personali che possono essere biologici, vale a dire questi aspetti che riguardano la condizione fisica di un organismo e vengono vissuti negativamente (statura bassa, occhiali, orecchie a sventola), psicologici, perché riguardano dei tratti di personalità (sentirsi a disagio in una società competitiva se l’individuo è maggiormente portato per il contatto umano e l’emotività), e sociali, i quali hanno a che fare con la società (non accettare di vivere in un determinato contesto sociale).

Generalmente quando si è bambini è compito dei genitori rendere le frustrazioni tollerabili, tuttavia esistono alcuni stili educativi che possono creare difficoltà in questo processo. Un esempio è lo stile iperprotettivo in cui il bambino è sottoposto a cure meticolose e regole rigide riguardo l’esplorazione dell’ambiente e la possibilità di fare nuove esperienze che gli causano frustrazione; un ulteriore esempio è rappresentato dallo stile opposto, remissivo ed indulgente, in cui il genitore tende ad assecondare tutti i bisogni del bambino, in questo caso il bambino si troverà di fronte a svariate problematiche nel momento in cui uscirà dal contesto familiare e dovrà affrontare un ambiente esterno che non favorisce le sue esigenze.

Un modello che entra in merito della difficoltà di regolazione emotiva è il modello biosociale di Marsha Linehan che pone l’accento su fattori temperamentali che comportano un’elevata vulnerabilità emotiva e soprattutto su fattori ambientali che invalidano l’esperienza emotiva. Il termine ambiente invalidante sta ad indicare un ambiente che non accoglie le emozioni del bambino negandole, trascurandole o sminuendole. Un ambiente di questo tipo determina conseguentemente la credenza nel bambino che la sua emotività non vada bene e lo spinge a mettere in atto delle strategie di fronteggiamento delle emozioni non adattive. In particolare, non permette al bambino di sviluppare il costrutto di regolazione emotiva, ossia di avere consapevolezza e di comprendere le proprie emozioni, di accettarle, di controllare le emozioni negative continuando a perseguire i propri obiettivi e di utilizzare strategie di regolazione flessibili e adatte al contesto.

La regolazione emotiva può essere spiegata tramite il concetto di finestra di tolleranza di Siegel che permette di misurare lo stato di arousal di un individuo. Nello specifico, tale arousal tende ad avere dei picchi alti (iperarousal) o bassi (ipoarousal) in base alle situazioni che il soggetto percepisce come attivanti o calmanti durante la giornata, pertanto fluttuare all’interno della finestra di tolleranza è normale, tuttavia quando l’arousal supera i confini della finestra l’individuo sperimenta un senso di disregolazione, percependosi come fuori controllo, troppo agitato o al contrario scarico e apatico. Tali sensazioni portano a un malessere psichico da cui la persona vuole uscire per rientrare nella finestra di tolleranza; con questo scopo spesso gli individui mettono in atto un agito impulsivo che rappresenta una strategia disfunzionale poiché ha come effetti collaterali la sperimentazione di vergogna o senso di colpa, sensazioni che portano di nuovo alla fuoriuscita dalla finestra di tolleranza, determinando l’instaurarsi di un circolo vizioso. Per questo motivo, per essere efficace un sistema di regolazione emotiva deve essere flessibile e responsivo ai cambiamenti contestuali.

Secondo le teorie cognitive standard (Ellis, A., 1957, 1962; Beck, AT, 1967) i disturbi da bassa tolleranza alla frustrazione sono dovuti a convinzioni rigide su di sé e sul mondo esterno, vale a dire idee irrealistiche e doverizzazioni che creano un approccio alle situazioni esterne disfunzionali. Esistono infatti delle strategie adattive e non adattive di gestione delle emozioni e all’interno del secondo gruppo è possibile trovare la soppressione dell’esperienza emozionale (tentativo di non sentire e ignorare l’emozione), l’evitamento sia della dimensione esperienziale dell’emozione sia di quella comportamentale e il rimuginio e la ruminazione (tentativo di regolare le emozioni focalizzandosi in modo ripetitivo sull’esperienza emozionale e sulle relative cause e conseguenze). In questi disturbi, come fattori di mantenimento, un’attenzione particolare si dà alla ruminazione rabbiosa che consiste in uno stile di pensiero ricorrente e negativo focalizzato su eventi che inducono rabbia. La ruminazione rabbiosa si riconosce dalle sue 5 componenti che si intrecciano in un dialogo interno e consistono in: rievocazione di esperienze passate, attenzione verso le emozioni scaturite, elaborazione controfattuale del passato (avrei dovuto comportarmi diversamente), elaborazione analitica dell’evento ed elaborazione di ipotetici scenari di risoluzione o vendetta. Come dimostrato da molteplici studi scientifici, la ruminazione rabbiosa è uno stile di pensiero svantaggioso poiché prolunga e intensifica l’emozione di rabbia, ritarda i tempi di ritorno alla baseline, consuma le risorse adibite all’autocontrollo (favorendo gli agiti impulsivi) e aumenta la probabilità di risposte comportamentali aggressive. Al contrario, le strategie adattive permettono di regolare le emozioni e di acquisire nuove abilità, alcuni esempi sono: la ristrutturazione cognitiva (reappraisal) che consiste nella generazione di interpretazioni positive su una situazione stressante, il problem-solving, ossia il tentativo di cambiare volontariamente una situazione stressante o di contenerne le conseguenze e l’accettazione non giudicante dell’esperienza emozionale.

Infine, risultano fondamentali le tecniche di regolazione di stati interni per esporsi e arrivare a gestire le emozioni, come le tecniche di rilassamento (rilassamento muscolare progressivo), la mindfulness (accettare in modo non giudicante quello che succede e distanziarsi per poter agire in modo più finalizzato a uno scopo) e le tecniche di gestione della sofferenza emotiva, le quali si utilizzano nelle situazioni in cui l’individuo è sovraesposto a stimoli che gli suscitano emozioni negative. Un esempio di tecnica appartenente a quest’ultima categoria è l’abilità TIPP di Marsha Linehan che contempla il cambiamento della chimica del corpo, abbassando la temperatura corporea con acqua fredda, applicandosi in un esercizio intenso per calmarsi, respirando lentamente o rilassando la muscolatura.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’EVENTO:

 

 

Donne e lavoro, l’Ordine degli Psicologi ER: “L’essere multitasking sta diventando una schiavitù”

COMUNICATO STAMPA

6 marzo – Dipendenza dagli strumenti digitali, isolamento, depressione, paura, rabbia, frustrazione. Sono solo alcuni effetti del “multitasking” portato al suo eccesso su cui invita a porre l’attenzione l’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi dell’Emilia-Romagna.

In occasione della Giornata Internazionale dei diritti della donna (8 marzo), l’Ordine riflette sulla condizione delle donne lavoratrici, a cui in questo delicato momento storico viene richiesto di somigliare sempre più “a dee Kali”, forti, invincibili e con mille braccia.

“L’essere multitasking, vale a dire la capacità di ‘fare più cose contemporaneamente’, specie nell’ultimo anno si è trasformata per le donne da qualità a schiavitù”, dice Carmelina Fierro, consigliera dell’Ordine e coordinatrice della commissione Pari Opportunità. Questa abilità, spiega Fierro, a causa delle nuove modalità di lavoro legate all’emergenza pandemica da Covid19, è diventata una pretesa di spazi e tempi da parte dei datori di lavoro e, insieme, una patologia.

Molte donne, dall’anno scorso, si sono trovate a lavorare tante ore al giorno davanti a uno schermo, provando con difficoltà a trovare un equilibrio con i tempi della vita familiare e privata e subendo conseguenze da non sottovalutare.

Il sovraccarico di attività e pretese da parte di datori di lavoro e collaboratori, spiegano infatti dall’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi, può portare a dipendenza dai device digitali, stress lavoro correlato, burnout – cioè un cortocircuito dovuto allo stress eccessivo – isolamento, depressione, stati d’ansia che si possono trasformare in angoscia.

Tali effetti hanno portato, in una spirale di conseguenze, anche alla riduzione del lavoro.

“Le donne lavoratrici sono una categoria da proteggere perché in fase di estinzione – spiegano alla Commissione Pari Opportunità dell’Ordine regionale – Le aziende dovrebbero essere a conoscenza sia delle opportunità sia dei pericoli dello smartworking, vedere i dipendenti non solo come un costo ma come l’unica fonte di produttività e mettere in atto delle azioni per favorire la salute dei dipendenti e dei collaboratori, per esempio coinvolgendo psicologhe e psicologi per potenziare le risorse e rivedere l’organizzazione aziendale”.

Coloro che hanno ridotto il carico di lavoro, per scelta o perché costrette, hanno guadagnato meno e questo ha portato a una diminuzione della domanda di sostegno psicologico, che sarebbe invece stata fondamentale proprio per affrontare le conseguenze dello smartworking e dell’applicazione del concetto di “multitasking”. La perdita del lavoro, la paura per il futuro e la rabbia connesse a queste condizioni portano inoltre a tensioni che se non vengono riconosciute ed elaborate diventano vere e proprie armi.

#TUPUOIVOLARE (2020) di Marika Gesuè- Recensione del libro

#TuPuoiVolare: solo il titolo di questo libro è in sé per sé un messaggio di speranza, ma soprattutto trasmette un senso di leggerezza.

 

Lo stesso senso lo esprimono le bellissime illustrazioni realizzate dall’autrice del libro e che completano il romanzo stesso.

La storia narra di Odette, in principio una bambina spensierata che trova gioia nel giocare in compagnia del suo palloncino giallo di nome Su. Odette è una scolara e una bambina modello agli occhi altrui, ma al contempo una bimba pensierosa, messa in trappola dai suoi stessi pensieri che le affollano la testa e che ella stessa ha difficoltà a tenere a bada.

I troppi pensieri tendono a confonderla e a fare del mondo un “mondo tutto suo”. Odette si sente turbata come chi vive in un mondo parallelo, estranea da ciò che la circonda.

L’autrice descrive in prima persona i pensieri e le sofferenze dalla protagonista, rendendo in grado chi legge di percepire quella sensazione di trappola in cui vive Odette, una trappola di pensieri ossessivi che con il tempo diventano anche persecutori.

Un salto temporale conduce il lettore nell’adolescenza della protagonista, la quale ormai non si fida più di nessuno, ma soprattutto è schiava di voci presenti solo nella sua mente.

La narrazione in prima persona non solo ci proietta nella mente di Odette, ma ci consente di viverne appieno la sua sofferenza, la sua confusione, il suo smarrimento.

Ed è confusa Odette, soprattutto quella mattina in cui si risveglia in un letto di ospedale.

Siamo meno confusi noi lettori, consapevoli del fatto che quella altro non è che una naturale conseguenza di una mente turbata: il ricovero ospedaliero.

Eppure è proprio in quelle quattro mura che Odette riesce ad esprimere al meglio se stessa, e ad aiutarla sono soprattutto “i palloncini”!

Il mondo di Odette pare quasi “fiabesco”, colorato, ed è molto brava l’autrice a farci vivere queste sensazioni con i suoi disegni altrettanto colorati.

Il suo amico di infanzia, il palloncino Su, è tornato a farle visita ma stavolta Odette è consapevole del fatto che lui può volare! E non solo lui. Tutti, una volta raggiunto il fondo, possono rialzarsi.

La protagonista del libro scrive, e i suoi pensieri non sono più accavallati nella sua mente in modo confusionario, ma trovano il loro spazio sulla carta.

Odette scrive senza tregua, e si rende così conto che la libertà esiste, non solo per i palloncini, ma per chiunque, perché al di là dei propri pensieri esiste un mondo.

Il palloncino Su adesso è libero di volare, ma sono ben altri i palloncini che fanno compagnia ad Odette: quelli offerti dagli operatori della Clown Terapia.

Seguendo questo percorso, sia collettivo che individuale la ragazza ritrova se stessa. E al termine del libro ella è in possesso della propria bussola, la stessa che possiedono i palloncini quando si perdono nel mondo di BallonSky.

Odette si è finalmente resa conto che “può volare”.

Si tratta di un libro dalla prosa dolce e delicata che affronta con pacatezza un argomento non facile.

L’autrice è in grado di alleggerire la tematica utilizzando i disegni, i colori e le metafore.

Diviene impossibile non catapultarsi nel mondo di Odette, dapprima confuso, successivamente leggero.

Tutto il libro in sé e per sé altro non è che un messaggio di speranza: chiunque può essere in grado di ritrovare la propria bussola dopo un periodo di smarrimento.

Da non tralasciare il fatto che viene posto l’accento anche sull’importanza della Clown Terapia, il trattamento allegro e colorato che ha la capacità di condurre il paziente verso la rinascita.

Perché anche nei momenti difficili non bisogna mai dimenticare che tutti noi abbiamo la capacità di poter volare!

 

L’avvento delle psicotecnologie: le sfide e le opportunità illustrate dal Dott. Bernardelli durante la European Conference on Digital Psychology

Il binomio “Psicologia Digitale” può in prima battuta apparire impensabile, ma questa disciplina avanguardista consentirà una più efficace comprensione della mente umana e, conseguentemente, la messa a punto di nuovi strumenti e protocolli volti a promuovere il benessere del singolo e della comunità.

 

Nelle giornate del 19 e del 20 Febbraio si è tenuta la prima Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale. La suddetta, organizzata dalla Sigmund Freud Univeristy di Milano e svolta online, aveva l’obiettivo di fornire una panoramica rispetto al modo in cui l’avvento del digitale stia drasticamente modificando la vita di ciascuno di noi, mettendo in luce le opportunità e le sfide che si prospettano nel lavoro di ricercatori, psicologi e psicoterapeuti.

L’evento è apparso perfettamente in sincronia con ciò che stiamo vivendo. Difatti, nonostante la tecnologia sia entrata a far parte delle nostre vite ormai da tempo, il 2020 ha fatto sì che noi tutti ne diventassimo dipendenti. Dipendenza. All’oggi, quando si parla di digitale, è uno dei primi termini che viene alla mente. Infatti, l’avvento tecnologico ha fatto da battistrada ad innumerevoli rischi, che spesso si traducono in sofferenze, o nel peggiore dei casi, in veri e propri disturbi. Non siamo più in grado di tenere a mente informazioni, in quanto facilmente recuperabili attraverso i motori di ricerca, siamo bombardati da fake news, assistiamo a fenomeni di cyberbullismo o, ancora, temiamo le online challenge che, attualmente, stanno conducendo gli adolescenti a compiere gesti estremi, pur di omologarsi alla massa.

Ma la tecnologia comporta anche dei benefici.

Queste sono state le parole del Dott. Luca Bernardelli, psicologo e fondatore di Become, società dedicata allo sviluppo di psicotecnologie, ovvero,

tecnologie che emulano, estendono e amplificano le funzioni sensomotorie e cognitive della mente. (De Kerckhove, 1993)

Tra le soluzioni digitali presentate vi sono le psicotecnologie di telecomunicazione, che in quest’anno hanno consentito agli operatori sanitari di raggiungere i propri pazienti, indipendentemente dalla loro localizzazione o, i Serious Game, videogiochi che associano l’aspetto ludico con veri e propri obiettivi psicologici e/o pedagogici (Eichenberg & Schott, 2017).

Vi sono poi le psicotecnologie simulative, in cui rientra la realtà virtuale (VR), uno strumento che permette di “replicare” la realtà da ogni punto di vista, consentendo all’utente di superare i propri limiti o i propri traumi, a seconda delle necessità.

Durante il suo intervento, il Dott. Bernardelli ha mostrato ai partecipanti della conferenza alcuni progetti a cui sta attualmente lavorando attraverso l’utilizzo della VR, assieme a equipe multidisciplinari. Uno di questi è “Covidfeelfood” – progetto sviluppato durante l’anno appena trascorso -, che coinvolge un team internazionale guidato dal professor Giuseppe Riva e formato da più di 30 professionisti, tra clinici, neuroscienziati, sviluppatori e artisti.

Difatti, la pandemia e l’isolamento da essa determinato hanno dato vita ad un estremo stress psicologico che ha messo a dura prova l’uomo nella sua totalità.

Le conseguenze negative che quotidianamente siamo chiamati a dover fronteggiare, richiedono la necessità di una strategia e, dato l’isolamento imposto dalle attuali restrizioni, delle soluzioni di cui la popolazione possa usufruire autonomamente, senza spostarsi dalla propria abitazione, potrebbero essere la chiave (Di Lernia et al., 2018).

Il Dott. Bernardelli ha presentato uno studio pilota il cui obiettivo sarà quello di fornire un’evidenza del fatto che un protocollo settimanale di auto-aiuto basato su un’esperienza di VR, chiamata “The Secret Garden”, possa aiutare a superare il disagio psicologico generato dal Coronavirus. Aprendo il video dal proprio smartphone ed indossando un visore, il protagonista sarà catapultato in un’esperienza virtuale, che simula la visita in un giardino Zen, accompagnato da una voce che stimola una forma di rilassamento, strutturata secondo i principi della Compassion Focused Therapy (Gilbert, 2010). Ciò consentirà di disattivare il proprio “sistema di sicurezza” e tuffarsi in una condizione di profonda quiete.

Infatti, per assolvere al proprio obiettivo, i ricercatori hanno utilizzato un video a 360°, che consente agli utenti di immergersi nella registrazione, sperimentando il video da qualsiasi angolazione.

Al termine dell’esposizione ai soggetti vien chiesto di eseguire diversi compiti che altro non sono che un adattamento delle diverse “prescrizioni emotive” progettate dallo psicologo Guy Winch (2013) per reagire alle esperienze che generano dolore emotivo. I compiti mirano a raggiungere differenti scopi come l’imparare a prestare attenzione e a riconoscere la sofferenza; trattare quest’ultima prima che diventi totalizzante o, ancora, trovare un significato anche nei momenti complessi.

I ricercatori hanno ipotizzato che l’utilizzo del suddetto protocollo settimanale ridurrà i livelli di depressione, ansia, stress percepito e disperazione degli utenti e, al contempo, promuoverà la calma e la connessione sociale. Difatti, il team consiglia di condividere l’esperienza anche con altri, in modo da poter ristabilire il senso di comunità di cui siamo stati privati.

I partecipanti verranno assegnati in maniera casuale al gruppo sperimentale ed al gruppo di controllo ed entrambi verranno sottoposti a due tipologie di valutazione. La prima, verrà effettuata all’inizio della sperimentazione, a seguito di quest’ultima e a distanza di due settimane. Essa comprenderà questionari volti a valutare come i partecipanti si siano sentiti nella settimana precedente. Nello specifico, verrà valutato lo stress percepito dai soggetti, i livelli di ansia e depressione, le tendenze pessimistiche e l’atteggiamento negativo rispetto al futuro. Inoltre, si terrà conto del livello di connessione sociale percepito e della qualità dei contatti online ed offline dei partecipanti. Infine, verrà valutato il livello di paura nei confronti della pandemia.

La seconda valutazione, invece, verrà effettuata quotidianamente nell’arco della settimana in cui verrà seguito il protocollo e comprenderà strumenti volti ad indagare lo stato dei partecipanti a seguito della procedura sperimentale. In questo caso, sarà indagato il livello di rilassamento e il distress percepito.

Trascorse due settimane dalla fine dello studio, i ricercatori somministreranno ulteriori questionari al fine di indagare gli eventuali sintomi di malessere esperiti a seguito della sperimentazione.

Come sottolineato dal Dott. Bernardelli, l’obiettivo del protocollo sviluppato e, in generale quello delle psicotecnologie, non è quello di sostituire l’intervento del professionista della salute mentale, bensì quello di supportarlo nel suo operato e, nel caso specifico, ridurre la sofferenza emotiva generata dalla pandemia.

Dunque, per quanto in prima battuta il binomio “Psicologia Digitale” possa apparire impensabile, questa disciplina avanguardista consentirà una più efficace comprensione della mente umana e, conseguentemente, la messa a punto di nuovi strumenti e protocolli volti a promuovere il benessere del singolo e della comunità. Naturalmente per far ciò sarà necessario che i professionisti scendano in campo, al fine di poter supportare lo sviluppo di dispositivi ad hoc.

 

Perché manipolare le persone? – Il sesto episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.

 

PERCHÉ MANIPOLARE LE PERSONE?

Videogames e benessere psicologico – Report dall’European Conference on Digital Psychology ECDP 2021

La mattinata del 20 febbraio, secondo giorno di lavori del congresso ECDP 2021, si apre con un approfondimento sull’utilizzo dei videogames, tema al quale vengono dedicate le due relazioni tenute, rispettivamente, dalla dott.ssa Carissoli e dalle dott.sse Mancini e Sibilla.

 

Nel primo intervento la relatrice, la dott.ssa Claudia Carissoli, si chiede se i videogiochi possano essere utilizzati per promuovere il benessere delle persone, proponendosi di approfondire gli aspetti positivi dell’esperienza di gaming.

Gli aspetti legati ai rischi (dipendenza, presenza di contenuti aggressivi, eccessiva sedentarietà o iperattivazione) non vengono, in questa sede, presi in esame, non perché assenti, ma perché si desidera invece investigare specificamente l’esistenza o meno di un utilizzo positivo del prodotto videogioco, un utilizzo mirato alla promozione del benessere della persona.

La prima parte della relazione pone le premesse teoriche, mutuate da numerosi studi effettuati sull’argomento. Si parte dalla definizione di videogioco proposta da Tavinor, il quale afferma che un oggetto può essere definito videogioco quando:

  • funziona attraverso un medium audiovisivo digitale (ad es. un computer, un tablet, uno smartphone);
  • nasce con lo scopo di intrattenere e divertire;
  • utilizza un set di regole (una struttura, ossia delle regole da rispettare all’interno del gioco) e uno scenario simulato interattivo (un ambiente in cui i giocatori interagiscono, percepito come reale nell’ambito del gioco.

Secondo King e colleghi esistono delle caratteristiche che accomunano l’esperienza di tutti i videogiochi e che contribuiscono a rendere l’esperienza di gioco piacevole, vivida ed immersiva:

  • aspetti sociali – il videogioco è dotato di una dimensione relazionale, in quanto consente di giocare, parlare e confrontarsi con gli altri giocatori, sperimentando senso di appartenenza alla comunità dei gamer che giocano al medesimo gioco;
  • sperimentare autonomia attraverso le interfacce di gioco – il giocatore si può muovere liberamente nell’ambiente del videogioco; è l’attore principale e decide autonomamente come agire e cosa fare, diversamente a quello che accade nella fruizione di medium come film o libri;
  • presenza di una narrativa e aspetti identitari– c’è una storia, più o meno complessa, nella quale il giocatore agisce attraverso il proprio avatar; l’avatar consente di esperire aspetti identitari altri, il sé reale e/o il sé ideale, un’esperienza emotivamente personale e molto intensa;
  • premi e punizioni – avviene un processo di apprendimento basato sul rinforzo di comportamenti che risultano efficaci ai fini della buona riuscita nel gioco; alcune strategie cognitive risultano più efficaci di altre, per esempio la ruminazione non viene ricompensata perché rende meno efficaci nel gioco;
  • caratteristiche estetiche molto coinvolgenti – c’è il piacere di fruire di un prodotto bello e curato sul piano visivo e uditivo.

Sulla base di queste premesse il videogioco può rappresentare un mezzo di promozione del benessere emotivo in quanto favorisce, secondo le ricerche effettuate, emozioni positive nei modi seguenti:

  • i videogiochi sono divertenti e permettono di distrarsi, a volte mitigando l’ansia;
  • permettono di sentirsi efficaci quando si diventa in grado di accedere ad un livello di gioco di maggiore complessità;
  • il gioco può avere efficacia sul piano catartico (una ricerca di Colwell mostra che, dopo aver giocato ad un gioco molto aggressivo, dei ragazzi affermavano di stare meglio perché avevano avuto modo di scaricare la rabbia e la frustrazione accumulate durante la giornata);
  • giocare può contribuire a migliorare il grado di regolamentazione emotiva (ad esempio è necessario diventare capaci di tollerare e gestire la frustrazione quando si sbaglia e/o non si ottengono i risultati sperati, perché, altrimenti, non si riesce ad accedere ai livelli di gioco successivi.

Molti studi dimostrano che i videogiochi soddisfano i bisogni psicologici di base di autonomia, competenza e connessione sociale; imparare a tollerare la frustrazione quando non si ottengono i risultati voluti, inoltre, contribuisce ad incrementare il senso di resilienza personale.

Videogames promozione del benessere psicologico Report ECDP Imm 1

Imm. 1 dott.ssa Claudia Carissoli

Il videogioco può rappresentare uno strumento utile anche nel modulare l’umore (scegliendo il gioco più adatto a come ci sentiamo o vorremmo sentirci) e fa vivere un’esperienza di flow, un’esperienza immersiva in cui ci sentiamo coinvolti, sottoposti ad una sfida che abbiamo le risorse per affrontare.

I benefici sul piano sociale si identificano, inoltre, con la necessità di confrontarsi con altri giocatori (amici o estranei che potrebbero diventare amici al di fuori del gioco), di collaborare, di negoziare, di gestire i conflitti, di suddividersi i compiti; ciò favorisce l’apprendimento di competenze relazionali che possono essere trasferite dal gioco al quotidiano, dal virtuale al reale.

Un ulteriore elemento da tenere presente, sul piano della relazione, è la possibilità di sperimentarsi attraverso il proprio avatar con delle modalità differenti dalla vita reale, magari testando delle modalità comportamentali che incutono timore nella realtà. Il videogioco funge, quindi, da “palestra relazionale”.

La seconda parte della relazione è incentrata sulla presentazione di due studi condotti dalla dott.ssa Carissoli, volti ad indagare la natura del legame che unisce videogiochi e benessere emotivo negli adolescenti.

Il primo studio si pone l’obiettivo di verificare se è corretto affermare che i videogiocatori acquisiscano maggiore efficacia nella gestione emotiva. In altre parole è possibile promuovere il benessere emotivo attraverso l’incremento del senso di autoefficacia? In collaborazione con l’università di Milano Bicocca e l’università cattolica di Milano viene effettuata una survey con 500 ragazzi tra i 14 e i 18 anni, per verificare l’esistenza di una relazione tra le ore di gioco, l’autoefficacia e il benessere.

I ragazzi sono stati raggruppati in base alle ore di gioco effettuate al giorno:

  • no gamers (pochi minuti al giorno);
  • low gamers (meno di un’ora);
  • medium gamers (da 1 a 3 ore al giorno);
  • hard gamers (più di 3 ore al giorno).

Dai dati è emerso che, effettivamente, l’attività di videogioco promuove l’autoefficacia; nello specifico, gli hard gamers sono quelli che si sono valutati come più sicuri nell’abilità di riconoscere le emozioni e di gestirle in maniera corretta, in modo particolare le emozioni negative, facilmente elicitate nelle situazioni del videogioco. I giocatori moderati risultano, con un’incidenza significativa sul piano statistico, sentirsi più autoefficaci rispetto ai non giocatori.

Nell’indagare gli effetti sul benessere è emerso, però, che solo i giocatori moderati si sentono significativamente meglio, sul piano del benessere emotivo, rispetto ai non giocatori. Gli hard gamers, per quanto autoefficaci, a livello emotivo non stanno meglio; questo, con buona probabilità, è legato al fatto che videogiocare promuove sì quelle competenze che sentono di avere, ma un un’attività di gioco eccessivo priva la vita quotidiana dei giocatori di altri elementi che sono importanti nel mantenimento del benessere.

Nel secondo studio, prosecuzione di questa ricerca, ci si è chiesti, partendo da queste premesse, se i videogiochi possano essere utilizzati negli adolescenti per promuovere il benessere emozionale a livello più complesso, ad esempio favorendo l’intelligenza emotiva in un contesto scolastico.

I ricercatori si sono proposti di rispondere a questa domanda strutturando un percorso, in 8 incontri (6 incontri e 2 di follow-up), rivolto a 121 studenti delle classi prime delle superiori, durante i quali è stato proposto ai ragazzi l’utilizzo di videogames piuttosto semplici come strumento di apprendimento. L’idea era che, attraverso la sperimentazione in prima persona delle emozioni, si potessero incrementare, nei ragazzi, le competenze legate all’intelligenza emotiva.

I ragazzi del gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo, hanno riportato di sentirsi più consapevoli del proprio mondo emotivo; le competenze più elevate nella gestione delle emozioni (ad esempio l’empatia) non risultano aver avuto, in seguito al percorso, incrementi significativi rispetto all’assessment iniziale. A questo proposito, viene sottolineato come il percorso proposto sia stato breve e abbia previsto l’utilizzo di videogiochi molto semplici; si potrebbe ipotizzare che un percorso di durata più lunga e con videogiochi più complessi avrebbe, forse, potuto elicitare competenze emotive di livello più profondo ed elaborato.

Possiamo, in conclusione, desumere che giocare ai videogiochi può essere un’esperienza utile per il nostro benessere, che consente di imparare come gestire meglio il nostro umore e le nostre emozioni, permettendo la sperimentazione di emozioni positive. Nella popolazione adolescenziale emerge che videogiocare può far bene, incrementando senso di autoefficacia e benessere emozionale, a patto, però, che l’attività di gioco sia moderata.

Nel momento in cui, invece, il gamer si dedica al gioco per troppo tempo e l’attività diventa invasiva, allo sviluppo delle competenze non si accompagna l’aumento di benessere emotivo; in questo caso non si registra, quindi, un beneficio, perché l’attività di gioco va a togliere spazio ad attività altrettanto utili.

Nel secondo intervento della mattinata la dott.ssa Tiziana Mancini e la dott.ssa Federica Sibilla approfondiscono la comprensione delle implicazioni psicologiche dei videogiochi, chiedendosi quando essi rappresentino una minaccia per la salute e quando, al contrario, uno strumento per il benessere.

Videogames promozione del benessere psicologico Report ECDP Imm 2

Imm. 2 dott.ssa Tiziana Mancini

Videogames promozione del benessere psicologico Report ECDP Imm 3

Imm. 3 dott.ssa Federica Sibilla 

Il focus del loro gruppo di ricerca si sposta sui processi identitari che si attivano nel gamer, andando ad indagare la relazione tra avatar e giocatore, i bisogni del sé che tale relazione tende a soddisfare e gli effetti che questo tipo di relazione può avere sul benessere o sul malessere (inteso come rischio di dipendenza da gioco) del giocatore.

Nel tentativo di comprendere la funzionalità o la disfunzionalità nell’utilizzo del videogioco si è cercato di approfondire il meccanismo di coinvolgimento generato dai videogames, cosa che ha permesso di differenziare i diversi tipi di coinvolgimento possibili, evidenziando sia modalità di coinvolgimento patologiche che modalità non patologiche.

Ciò permette di evitare di incorrere nel rischio di patologizzare condizioni che, in realtà, non sono psicopatologiche, dato che non implicano compromissioni del funzionamento, limitando il rischio di falsi positivi.

Nell’indagare i processi identitari che si attivano nel gioco è stata analizzata una categoria di gioco denominata M.M.O.R.P.G. – Massively Multiplayer Online Role Playing Games- ossia dei giochi di ruolo in cui l’utente è invitato a creare un avatar personalizzato, scegliendo tra un’ampia gamma di caratteristiche disponibili, avatar che va ad interagire con gli avatar degli altri gamer.

La scelta dell’avatar può essere contraddistinta da diversi livelli di discrepanza tra il sé reale e il sé dell’avatar; si evidenziano tre possibili scenari:

  • avatar attualizzato – il sé reale e l’avatar sono molto simili: l’avatar rappresenta uno strumento di esplorazione di un sé possibile; questa modalità è associata a benessere psicologico (buon livello di autostima del giocatore, basso rischio di gioco problematico);
  • avatar idealizzato – emerge maggiore discrepanza con il sé reale del giocatore: l’avatar costituisce uno strumento di compensazione; il gioco diviene un mezzo per soddisfare dei bisogni che non trovano soddisfacimento nella vita reale (maggior grado di rischio);
  • avatar utopistico – il sé reale del giocatore e l’avatar sono diversissimi, non sembrano avere punti di contatto; questa modalità è associata a basso rischio.

Il processo di identificazione con l’avatar, anche in caso di modalità a basso rischio, come, ad esempio, con un avatar utopistico, può condurre a fenomeni di gaming addiction.

Si è cercato, attraverso uno studio longitudinale che ha coinvolto 147 giocatori di M.M.O.R.P.G, con una survey effettuata attraverso questionari online somministrati ad intervalli nell’arco di tre mesi, di indagare cosa differenzia il gioco inteso in termini positivi, come forte interesse, dal gioco inteso come ossessione con effetti deleteri.

Si è, inoltre, indagato le correlazioni con l’autostima dei soggetti coinvolti e con la loro attitudine a condurre una vita orientata alla ricerca di sensazioni piacevoli (pleasant life), al raggiungimento di benessere attraverso la realizzazione personale e il coinvolgimento di attività soddisfacenti che implicano l’utilizzo di risorse personali (engaged life) o al benessere ottenuto perseguendo valori più complessi, che trascendono l’individualità del singolo (meaningful life).

I risultati mostrano che esiste un coinvolgimento al gioco problematico, ma anche un coinvolgimento al gioco sano; quest’ultimo, anche se alto, è correlato al benessere.

I rischi emergono se il soggetto prova frustrazione rispetto alla vita offline e utilizza i videogiochi come forma di compensazione: il gioco diventa, in questo caso, uno strumento per realizzare un sé ideale percepito come inattuabile nella realtà. Un uso di gioco puramente ludico ed esperienziale, ha, invece, un potenziale benefico.

Alla luce di tali risultati nel momento in cui ci proponiamo di valutare se siamo di fronte ad una modalità di gioco sana o patologica dobbiamo, oltre a contemplare i sintomi IGD, presenti anche in un coinvolgimento sano, prendere in considerazione altri fattori (ad esempio il livello di autostima del giocatore e il grado di soddisfacimento dei bisogni esperito nella vita offline) effettuando delle valutazioni estese (che focalizzino i processi e la presenza o l’assenza di compromissioni del funzionamento), per evitare di incorrere nel rischio di sovrapatologizzazione.

 

Videogames promozione del benessere psicologico Report ECDP diapositiva 1

Imm. 4 – “Video game: a definition”, Slide dal convegno

Videogames promozione del benessere psicologico Report ECDP diapositiva 7

Imm. 5 – “Videogames & Emotional Intelligence”, Slide dal convegno

Implicazioni etiche e sociali nell’uso dell’AI nella pratica clinica

L’intelligenza artificiale (AI) nella pratica clinica sta acquisendo sempre maggiore importanza: le sue applicazioni nel campo di psichiatria, psicologia e psicoterapia variano da ‘psicoterapeuti virtuali’ ai robot sociali, offrendo in parte o totalmente servizi di cura e supporto fino a poco tempo fa riservati esclusivamente a professionisti opportunamente qualificati. 

PSICOLOGIA DIGITALE– (Nr. 18) Implicazioni etiche e sociali nell’uso dell’AI nella pratica clinica

 

Prima di addentrarsi in alcune riflessioni sui benefici e sulle implicazioni etiche coinvolte vale la pena soffermarsi su alcune definizioni. Infatti, l’AI include agenti “virtuali” o “robotici” ‘animati’ da algoritmi che operano indipendentemente da qualsiasi guida umana attraverso interfacce con presenze virtuali, come l’icona di un volto, o fisicamente incarnate, come robot.

Fiske e colleghi (2019) hanno condotto un’analisi della letteratura sugli aspetti etici e sociali legati all’uso in ambito clinico delle applicazioni AI nella pratica psichiatrica, psicologica e psicoterapica. Nella rassegna sono prese in considerazione le AI che interagiscono con i pazienti o che hanno una presenza virtuale o interfaccia robotica, non quelle fruite ‘passivamente’ dal paziente e gestite dal terapeuta.

App, avatar e robot: AI per la clinica

Le intelligenze artificiali a disposizione dei clinici sono di diversa natura. Quello che unisce tutte queste tecnologie è la presenza di algoritmi altamente avanzati in grado di simulare e riprodurre diverse funzioni motorie, come movimento di arti o oculare, ma anche simulare linguaggio grazie al natural language processing. Allo stato attuale possiamo suddividerle in tre macrocategorie: app e bot; avatar; robot.

App e bot vanno da applicazioni base con messaggistica istantanea ad agenti interattivi. Applicazioni come Tess, Wysa e Woebot (Gionet, 2019; Inkster et al., 2018; Fulmer et al., 2018; Fitzpatrick et al., 2017) sono in grado di rilevare, segnalare e spiegare espressioni di disagio emotivo. Possono spiegare agli utenti in termini clinici ciò che stanno vivendo e fornire consigli, aiutando i pazienti a riconoscere le loro emozioni e schemi di pensiero e a sviluppare abilità o tecniche per ridurre ansia o sintomi depressivi.

Per quanto riguarda gli avatar, si tratta di solito di figure generate dal computer che interagiscono col paziente. Sono utilizzati nel trattamento di alcuni disturbi come psicosi, schizofrenia, depressione e fobie. Per fare alcuni esempi Kognito (Benjamin et al., 2018) viene utilizzato nell’educazione alla prevenzione del rischio suicidario mentre il Progetto Avatar (Craig et al., 2018) nel trattamento delle allucinazioni uditive e visive persistenti nei pazienti con psicosi. Esistono poi gli ‘avatar coach’, impiegati come parte di una realtà virtuale immersiva che danno istruzioni e supportano il paziente nella sua esperienza.

Abbiamo poi i cosiddetti “robot da compagnia”, robot simili ad animali, come la foca Paro (Hung et al., 2019) e l’orso eBear (Kargar e Mahoor, 2017), che si muovono, rispondono a stimoli come carezze, girano la testa se chiamati e, stimolando così le interazioni, favoriscono la riduzione di sintomi depressivi o di stress soprattutto con pazienti anziani o isolati. Vengono utilizzati con successo anche nei training per l’acquisizione di abilità sociali (ad esempio, imitazione, prendere i turni in una conversazione), in pazienti con sindrome dello spettro autistico in modo che possano sperimentarle e poi generalizzarle nelle relazioni con umani. Il robot Kaspar (Wood et al., 2019) o i RoboTherapy (Libin e Libin, 2003), per esempio, sono utilizzati per lo sviluppo di abilità sociali, mentre il robot Nao è progettato per migliorare il riconoscimento facciale e la risposta allo sguardo (Andreasson et al., 2018). I robot da compagnia sono utilizzati anche come parte della terapia per problemi sessuali come la disfunzione erettile e l’eiaculazione, come ad esempio, il robot Roxxxy della TrueCompanion (2010), che ha ricettori sensibili al tocco e può muoversi e parlare.

Accessibilità, privacy e fiducia

Gli interventi con AI sono efficaci per molti motivi.

Il terapeuta virtuale o robot è sempre accessibile, 7 giorni su 7 e 24 ore su 24, nella privacy della propria casa o da remoto, in luoghi isolati o rurali o comunque in contesti dove i servizi sono scarsi o poco reattivi. Possono fornire almeno dei servizi di base di cura che sarebbero altrimenti assenti o insufficienti dando l’opportunità di colmare e raccogliere bisogni sanitari insoddisfatti.

Le applicazioni AI possono integrare i servizi esistenti o costituire un punto di ingresso per interventi clinici standard. Possono essere utilizzate per riconoscere in fase embrionale l’insorgere di problemi di salute e situazioni di disagio o servire da supporto in casi lievi e condizioni non acute. Un altro importante vantaggio delle applicazioni AI è che consentono al paziente di autogestirsi dandogli autonomia e alleggerendo il carico di lavoro dei servizi, troppo spesso oberati. Le AI possono incrementare la fiducia nella terapia e in generale nei clinici: i pazienti, sgravati da sentimenti di vergogna ed imbarazzo o con scarsa alfabetizzazione, possono accedere in autonomia e col loro ritmo di apprendimento alle informazioni e a familiarizzare con la cura e la terapia.

Trasparenza, formazione, eticità

Le AI sono degli artefatti costruiti da umani per umani; per questo motivo possono essere soggette ad errori e malfunzionamenti. Dal punto di vista puramente tecnico, potrebbero non funzionare o operare in un modo non previsto; per questo motivo in futuro questi dispositivi dovrebbero essere validati attraverso processi rigorosi allo stesso modo degli altri dispositivi medici tradizionali.

Al momento non sono presenti standard chiari nemmeno sulle questioni riguardanti privacy e gestione dei dati raccolti: si tratta di dispositivi che raccolgono e comunicano informazioni personali oltre ad altri dati come movimenti, interazioni, abitudini, in alcuni casi anche video. Anche questo aspetto sarà da considerare nel futuro prossimo. Nella creazione di agenti interattivi un altro potenziale rischio è quello dei bias che potrebbero rafforzare stereotipi e pregiudizi: pensiamo ad esempio se nella creazione di un avatar si facesse riferimento sempre e solo a un genere e una razza.

Un altro punto da approfondire è la mancanza di linee guida e di formazione: ricerca e pratica clinica non vanno di pari passo poiché lo sviluppo di tecnologie si muove molto rapidamente. Per questo motivo non sono ancora disponibili linee guida e normative chiare e univoche; i documenti Moral Responsibility for Computing Artifacts: The Rules (Grodzinsky et al., 2012) e An Ethical Framework for a Good AI Society: Opportunities, Risks, Principles and Recommendations (Floridi et al., 2018) sono un primo tentativo di strutturare raccomandazioni condivise.

Infine, esistono dei rischi etici: nel lungo termine i pazienti potrebbero sviluppare dipendenza invece che generalizzare le competenze acquisite all’interazione uomo-uomo; ancora, esiste il rischio concreto che possano essere manipolati. Nel rapporto uomo-macchina, infatti, si parla di “sospensione dell’incredulità”: quando un agente viene antropomorfizzato le persone tendono ad essere più accondiscendenti rispetto a quando è un umano a fare una richiesta. Le implicazioni sono evidenti: popolazioni vulnerabili, come bambini, persone anziane o con una disabilità cognitiva, potrebbero non essere in grado di capire cos’è o cosa fa un robot, oppure potrebbero supporre che “dall’altra parte” ci sia un clinico che supervisiona tutto. Al professionista spetta il compito di informare e valutare che il paziente abbia compreso appieno il funzionamento dell’applicazione e che questa non è direttamente guidata da un umano.

Ma non è l’unica responsabilità del clinico. Nel caso in cui un paziente mostri di essere una minaccia per se stesso o per altri ha il dovere di informare le autorità; ma cosa succede se, per esempio, è un bot a rilevare che un individuo è ad alto rischio di suicidio? Un clinico valuta anche altri indizi contestuali che difficilmente un’AI, per quanto avanzata, riesce a cogliere simultaneamente.

Cosa vuol dire essere umani: l’importanza della relazione

Abbiamo app con cui parlare e che ci rispondono in tempo reale, avatar che ci aiutano nella realtà virtuale, robot da coccolare che ci fanno compagnia. Cosa manca all’AI per essere umana? In un rapporto terapeutico alcuni aspetti chiave della relazione non sono riproducibili virtualmente. Primo fra tutti la reciprocità: i pazienti condividono col clinico pensieri ed emozioni in un contesto co-costruito; le relazioni con i dispositivi intelligenti non sono né reciproche né simmetriche. La relazione terapeutica è unica e irripetibile, mentre le AI sono create per avere le stesse reazioni a stimoli simili. Ci sono differenze fondamentali tra la comunicazione uomo-AI e la comunicazione uomo-umano. La percezione dei dispositivi può variare: per esempio, i bambini a volte attribuiscono caratteristiche umane ai dispositivi o credono che siano animati da persone reali.

Reciprocità e unicità della relazione sono funzionali ad una comprensione bio-psico-sociale che prende in considerazione fattori fisici, psicologici e socioculturali. Uno dei limiti dell’AI, almeno per come la conosciamo ad oggi, è la visione riduzionista, relativamente ristretta del disturbo e della persona. Per esempio, è possibile occuparsi di problemi specifici senza però inquadrare altri fattori determinanti che dovrebbero essere presi in considerazione.

Sicuramente molto lavoro andrà fatto per approfondire limiti e opportunità. La tecnologia digitale è parte integrante della nostra quotidianità e lo sarà sempre di più; l’adozione di questi strumenti non può prescindere da considerazioni sociali, cliniche ed etiche da parte di tutta la comunità di clinici e professionisti.

 


PSICOLOGIA DIGITALE
scopri le novità sull’argomento grazie ai report e ai poster dalla prima Conferenza Europea di Psicologia Digitale:

ECDP 2021 - Report dal Congresso - Main (1)REPORT DAL CONGRESSO

 

POSTER DAL CONGRESSO

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