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Il Disturbo Borderline di Personalità: dalla diagnosi alla quotidianità

Per diagnosticare un Disturbo Borderline di personalità vi deve essere un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizi entro la prima età adulta e sia presente in svariati contesti.

Manuela Tedeschi e Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL Psicoterapia e Ricerca Milano 

 

È questa la definizione che il DSM 5 dà del Disturbo Borderline di Personalità che ad oggi sta acquisendo una sempre più rilevanza ed è sempre più oggetto di studio sia a livello psicoterapico che psichiatrico (Paris, 1993). Ciò è spiegato dalle numerose diagnosi effettuate dai medici: oggi viene diagnosticato a circa il 2 – 5% della popolazione. Esso rientra nella parte dei disturbi di personalità del gruppo B insieme al disturbo antisociale, al disturbo istrionico e al disturbo narcisistico. Esso però può essere diagnosticato se e solo se l’individuo presenta almeno 5 dei 9 criteri diagnostici che riguardano gli stili di comportamento e gli atteggiamenti emotivi. I nove criteri sono: (1) forte sentimento di instabilità e incertezza circa la propria identità, (2) paura cronica di essere abbandonati, (3) drammatica instabilità nelle relazioni affettive, (4) marcata reattività dell’umore (rapide oscillazioni del tono emotivo fra depressione, euforia, irritabilità e ansia), (5) frequenti esperienze di collera immotivata, (6) cronici sentimenti di vuoto interiore, (7) transitori ma ricorrenti sintomi dissociativi (depersonalizzazione, amnesie lacunari, stati oniroidi di coscienza) oppure di ideazione paranoide, (8) comportamenti auto-lesivi impulsivi e incontrollabili (abbuffate compulsive, promiscuità sessuale senza attenzione a rischi di infezioni o di gravidanze indesiderate, cleptomania, abusi di alcool e droghe, ferite auto-procurate), (9) minacce o tentativi ricorrenti di suicidio.

Diagnosticarlo implica effettuare una complessa valutazione a livello dei sintomi. Esso è spesso presente in concomitanza con altri fattori quali: l’ansia, la depressione, le fobie, le condotte alimentari abnormi, le ossessioni e il delirio, gli stili di comportamento e gli atteggiamenti emozionali. In base ad essi la persona può essere inquadrata lungo un continuum: dai limiti della non diagnosi all’evidente patologia. E’ molto difficile effettuare diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità poiché spesso è difficoltoso discriminarlo da altri disturbi in quanto condivide con essi determinati criteri come lo spettro impulsivo, depressivo, la rabbia e l’uso di sostanze (Paris, 1993, 1996). Il modello bio-psicosociale (Paris, 1996) evidenzia come il disturbo Borderline di Personalità sia stato attribuito ad alcuni fattori sia di natura biologica che psicologici e sociali. L’autore specifica che i fattori biologici sono ereditati e fa l’esempio del temperamento o delle disfunzioni neuropsicologiche. Quelli psicologici possono invece derivare dalle esperienze precoci traumatiche di non adeguata cura o comunicazione e come quelli sociali si innescano a causa della disgregazione dei valori tradizionali. È evidente la complessità di questo disturbo e la difficoltà a differenziarlo da altri con cui condivide questi stessi principi; è necessario ancora una volta evidenziare come il disturbo Borderline di Personalità possa essere in concomitanza con altri disturbi psichiatrici (Paris, 1993).

L’eziopatogenesi del Disturbo Borderline di Personalità

Ad oggi, gli studi che si sono concentrati sul ruolo della componente genetica nello sviluppo di un Disturbo Borderline di Personalità ne hanno sostenuto una parziale ereditarietà, del 50% circa. Recentemente (Distel 2012) è stata ipotizzata invece la trasmissibilità solo di alcune componenti, ed in particolare dell’impulsività e non l’ereditarietà del Disturbo Borderline nel suo complesso.

Altri autori si sono invece soffermati sull’impatto decisivo della variabile socio-ambientale nello sviluppo del disturbo.

Da questa concezione si snodano una serie di orientamenti teorici che individuano l’“origine” del disturbo borderline nella presenza di un’esperienza traumatica precoce (Kernberg, 1994), nell’interazione di una vulnerabilità biologica e un ambiente invalidante (Linehan 1993), in una relazione di attaccamento fallimentare (Fonagy 2000).

I modelli teorici individuano rispettivamente il cuore del Disturbo Borderline in una mancanza di integrazione di componenti scisse dell’io, in una disregolazione emotiva o in una scarsa capacità di mentalizzazione.

Disturbo della personalità o comportamenti dettati da una società fluida?

Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è caratterizzato da una modalità pervasiva di instabilità nella regolazione delle emozioni, delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e del controllo degli impulsi (Lieb et al. 2004; Skodol et al. 2002a) ed è di frequente riscontro diagnostico sia nei campioni clinici, sia in quelli non clinici (Leichsenring et al. 2011).

È interessante notare come Bauman definisca la società moderna come una società liquida in cui emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno. Ciò è dettato anche da come è la formazione del soggetto da quando nasce a quando diventa adulto. È necessario studiare e verificare quando e quanto una persona sia influenzata dalle modificazioni culturali sia a livello personale e dunque famigliare che per quanto concerne la scuola e la società in generale. Le persone non sono tutte folli e non soffrono tutte di disturbi della personalità ma nonostante questo hanno bisogno d’aiuto poiché vi è una sempre più forte crisi dei modelli tradizionali autoritari. Tutti hanno il bisogno e la necessità di ristrutturarsi, di ridefinirsi, di essere aiutate a costruire un mondo nuovo e diverso, con tutte le normali ansie che ciò comporta.

Per la studiosa Miller, il bambino ha bisogno di essere ascoltato nei propri bisogni e nei propri ritmi, al fine di instaurare il vero Sé che, a sua volta, permette la costruzione di solide fondamenta di personalità. Se ciò non  avviene e dunque non si verifica l’ascolto dei bisogni e si chiede, invece, all’infante di compiacere le aspettative degli adulti, allora si instaura il cosiddetto Falso Sé, cioè quella sorta di maschera, per lo più inconsapevole, che si utilizza per essere accettati dall’ambiente ed in particolare dalla famiglia e dalla società che la richiede, in cambio dell’amore e di cure dei genitori, in mancanza delle quali il bambino morirebbe. Dalla mancanza di fondamenta solide nella struttura di personalità, che sono necessarie e di possibile sviluppo solo se vi è un ascolto profondo dei bisogni e dei ritmi dei bambini, che permette la crescita del cosiddetto Vero Sé consegue la necessità di appoggiarsi sull’immagine esterna, che è molto fragile e dipendente dallo sguardo degli altri. Quando l’immagine di successo non viene sostenuta e riflessa dall’adulto nel bambino vi è il passaggio dalla grandiosità alla depressione per la Miller. L’adolescenza è considerata da Erikson come quella fase in cui vi è una crisi d’identità. L’adolescente e il giovane adulto oggi cercano fuga dalla realtà reale nei videogiochi. Il mondo dei videogiochi è uno spazio solitario in cui come nella realtà, i ragazzi possono presentare disregolazione emotiva. Tale disegolazione è invisibile agli occhi altrui perché spesso avviene in camera propria senza che nessuno veda. La domanda che dunque è lecito porsi è: “Tale disregolazione é dunque dovuta ad un Disturbo Borderline della Personalità o al fatto che la società di oggi essendo sempre più liquida non permette alle persone di apprendere nella fase adolescenziale il controllo delle emozioni e degli impulsi?” Lo stesso discorso si potrebbe applicare alla difficoltà che le persone con disturbo di personalità mostrano nelle relazioni interpersonali. Le nuove generazioni, chiamate Nativi digitali, sono sempre connesse e hanno la possibilità di fare amicizie sui social senza però creare veri legami. Lo sviluppo dei social ha anche reso doveroso fare ragionamenti sulla concezione dell’immagine di sé e qui che i giovani a volte si creano nuovi personaggi e indossano le più disparate maschere. Le persone che allora mostrano alterazione dell’identità lo fanno perché soffrono di un disturbo di personalità borderline o perché a furia di cambiare sé non si sanno più “riconoscere”?

Teorie Cognitive del Disturbo Borderline di personalità

Le teorie cognitivo comportamentali che più si sono occupate del Disturbo Borderline di Personalità sono state: il modello di Beck e il modello di Marsha Linehan (Liotti, 1999b, 2001). Per lo studioso Beck questo disturbo è da attribuirsi alla comparsa di schemi mentali che condizionano la vita intrapsichica e interpsichica. Attraverso questi schemi che sono di 3 tipi, la persona percepisce il mondo e dunque la realtà e se stesso in 3 modi. I 3 schemi mentali sono: la convinzione che il mondo è pericoloso e malevolo, la convinzione di essere impotente e vulnerabile, e la convinzione di essere intrinsecamente inaccettabile e quindi destinato all’abbandono (Beck, 2005). Dal primo schema mentale hanno origine paure e fobie, ma anche disposizioni alla collera immotivata e intensa. Dal secondo emerge l’incapacità di impegnarsi in progetti coerenti di vita nonché intense reazioni emotive all’abbandono nelle relazioni interpersonali e dal terzo schema si sviluppano le emozioni di vuoto e comportamenti autolesivi (Beck, 2005).

La seconda autrice che ha sviluppato la sua teoria su questo disturbo è stata la studiosa Marsha Linehan che ha affermato che il core del disturbo consiste in un grave deficit del sistema di regolazione delle emozioni dovuto dalla presenza di fattori biologici e temperamentali che si combinano con un ambiente familiare disfunzionale. Così i sentimenti e le emozioni si manifesterebbero con una maggior intensità fino a diventare eccessive sia nell’esperienza soggettiva che nel comportamento e nella comunicazione. Da ciò vi è la spiegazione delle emozioni come rabbia immotivata ed intensa, le oscillazioni rapide dell’umore, l’intensità caotica delle relazioni affettive, la paura esagerata di fronte alla possibilità di essere abbandonati, e l’incapacità di controllare gli impulsi emotivi che può arrivare fino ai comportamenti autolesivi (Linehan, 1993, cit. in Liotti, 2001). Per cercare di gestire queste emozioni la persona che soffre di questo Disturbo potrebbe far uso di droghe, alcool o abbuffate di cibo. Il modello Life themes and plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment (LIBET), che è un modello di concettualizzazione della persona in ambito cognitivo esistenzialista, evidenzierebbe come indipendentemente dal tema che la persona con Disturbo Borderline di Personalità ha, i piani che utilizzerebbe per fronteggiarlo sono quelli immunizzanti come il far uso di droghe o l’alcool o le abbuffate.

Un’ulteriore teoria cognitivista che si è dedicata alla comprensione del Disturbo Borderline di Personalità è la Schema Focused Therapy (Young 2002) che è una teoria di terza ondata (Basile et al. 2017) su cui si sta ponendo particolare attenzione e che sembra promettente (Sempertegui et al. 2013). Essa è stata elaborata dallo psicoterapeuta Jeffrey Young (Young et al. 1993). Young ha notato che erano numerosi i pazienti che non riuscivano a trarre beneficio dalle varie terapie e che molto spesso non la portavano a termine (Serrani 2013). Così egli si è posto l’obiettivo di trovare un metodo efficace per coloro che presentavano schemi rigidi in terapia e credenze disfunzionali radicate tanto da non riuscire a sostenere per lungo tempo un percorso psicoterapico (Kellogg e Young 2006).

La loro teoria ha come presupposto teorico l’integrazione della terapia cognitivo-comportamentale con quelle psicodinamiche, gestaltistica e dell’attaccamento. La SFT afferma che già dalla nascita sono presenti alcuni bisogni emotivi universali come ad esempio il bisogno di sicurezza o quello di autonomia. Se essi vengono soddisfatti garantiscono lo sviluppo dell’equilibrio psicologico, il quale garantisce al soggetto il benessere psicofisico.

Questo modello presuppone come la formazione degli schemi maladattivi (SMP) sia attribuibile al loro mancato soddisfacimento. Gli schemi maladattivi possono a loro volta essere attribuiti ad una varietà di pattern comportamentali ed esperienziali. Uno SMP è pertanto “una struttura emotiva e cognitiva disfunzionale che si consolida nelle prime fasi dello sviluppo e si mantiene per tutta la vita” (Young et al. 2007, p. 7; Serrani 2013). In questo modello è presente anche un altro costrutto non trascurabile: il mode. Esso è definito lo stato emotivo di una risposta di coping (adattivo o maladattivo) allo stato emotivo stesso. La comprensione dei mode offre dunque una declinazione operativa su come il paziente affronta i suoi problemi ricorrenti e diviene un target fondamentale della terapia. L’obiettivo della SFT è infatti quello di trasformare gli SMP del paziente in modo da aiutarlo a trovare modalità maggiormente adattive di soddisfacimento dei propri bisogni profondi (Sempertegui et al. 2013; Young 2002).

Nel particolare caso del trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, la teoria SFT presuppone 5 mode differenti principali (Bambino abbandonato; Bambino arrabbiato e impulsivo; Genitore punitivo; Protettore distaccato; Adulto funzionale) che rappresentano il focus della concettualizzazione per come formulata originariamente da Young (Young et al. 2007) e per come sviluppata successivamente nel trattamento individuale (Arntz e Genderen 2009) e di gruppo (Farrell e Shaw 2011) del paziente con DBP.

Nonostante la presenza di un certo numero di dati empirici a sostegno dell’efficacia della TFP (vedi per es., Stoffers-Winterling et al. 2012) non è attualmente disponibile una revisione sistematica quantitativa della letteratura che permetta di stabilire l’entità dell’efficacia.

L’efficacia della schema focused therapy per la cura del disturbo borderline di personalità cumulativa (effectsize) della SFT

A partire da queste considerazioni, si è progettato uno studio meta-analitico allo scopo di valutare l’efficacia della SFT per il trattamento del DBP. Nello specifico, nella presente meta-analisi la riduzione delle caratteristiche DBP è stata considerata come misura di outcome primario, mentre la riduzione dei sintomi acuti è stata considerata quale indicatore di outcome secondario. Sulla base dei dati di letteratura inerenti all’efficacia delle terapie manualizzate per il DBP disponibili (Cristea et al. 2018; Leichsenring et al. 2011; Stoffers-Winterling et al. 2012), ci attendiamo di osservare una stima di effectsize cumulativo ampio sia per quanto riguarda la riduzione delle caratteristiche DBP, sia per quanto riguarda la riduzione dei sintomi psicopatologici acuti.

In conclusione si può affermare che le teorie cognitiviste e l’inquadramento LIBET del Disturbo Borderline di Personalità dimostrano come ci sia un continuum tra normalità e patologia. I tratti presenti in questo disturbo si possono infatti riscontrare anche nella popolazione generale e ciò potrebbe essere dettato dai cambiamenti della società che hanno reso le relazioni più fluide.

È necessario perciò prestare molta attenzione nel fare diagnosi poiché i criteri necessari presenti sono condivisi con altre patologie ma anche con caratteristiche della popolazione generale.

 

Billie Joe Armstrong e il “pianto” interiore – Psico-riflessioni su “Basket case” dei Green Day

Basket case, il primo successo internazionale della band californiana dei Green Day, è un racconto delle crisi di panico dell’autore.

 

Nel 1994 i Green Day pubblicano Dookie, album che sancisce la definitiva consacrazione nel mondo del punk rock internazionale per la band di Berkeley. Dookie (Imm. 1) è il terzo lavoro pubblicato dal gruppo, seguito da 39/smooth (1990) e Kerplunk (1992). Il disco viene registrato in tre settimane ed è seguito dal primo tour mondiale, in palchi “minori” (in Italia suonarono il 17 maggio 1994 al “Bloom” di Mezzago, in Brianza, data che ancora i fans storici ricordano). Il terzo singolo, Basket case, è diventato il loro più grande successo internazionale, trainando le vendite di Dookie in tutto il mondo tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995.

Basket case riflessioni in chiave psicologica sul singolo dei Green Day Imm 1

Imm. 1 Copertina dell’album Dookie, raffigurante Berkeley, città di origine dei Green Day.

Il video del brano (inserito in fondo all’articolo – ndr) è stato girato all’interno dell’istituto mentale “Agnews Developmental Center” nella contea di Santa Clara (California), un manicomio abbandonato in cui i membri della band trovano vecchie cartelle di pazienti e graffi profondi sui muri. Nel clip, i musicisti impersonano tre pazienti della struttura accompagnati dagli infermieri verso gli strumenti musicali per l’esecuzione del brano. Nella seconda parte, si vedono Trè Cool (batterista) e Mike Dirnt (bassista), avvicinarsi al bancone per le terapie farmacologiche.

Il titolo Basket case, tradotto letteralmente in italiano, significa “matto”, “squilibrato”, anche se viene a volte tradotto con “caso disperato”, sottointendendo comunque uno stretto collegamento con problematiche di natura psichica. Billie Joe stesso, cantante dei Green Day e autore del testo dichiarò sulla canzone “continuavo a cambiare il testo. Ero partito con l’idea di parlare semplicemente di una relazione, poi ho cominciato a pensare di rendere il testo più nevrotico e farla diventare una canzone da attacco di panico. Ma non ne ero particolarmente soddisfatto e non pensavo che la canzone sarebbe diventata un singolo. Beh, mi sbagliavo”.

L’autore ha sempre ammesso di soffrire di attacchi di ansia e panico (anni più tardi gli viene diagnosticato un disturbo da attacco di panico), circa dall’età di dieci anni, periodo in cui avviene la morte di suo padre per cancro. “Non avevo idea di cosa stesse succedendo, pensavo di perdere la testa. L’unico modo per capire cosa stesse accadendo era scrivere una canzone a riguardo”, ha detto. Nasce così Basket case, la cui registrazione nel giro di pochi mesi finisce sulla scrivania di Rob Cavallo, il produttore dell’album, che senza pensarci troppo mette la band sotto contratto. La cosa suscita forti polemiche nella scena underground del punk per la firma con una major (la Reprise, società affiliata alla Warner).

Il brano inizia subito con una frase: “Do you have the time to listen to me whine?”. Si tratta di  una richiesta di ascolto per un malessere interiore che racchiude tutto e nulla allo stesso tempo (“about nothing and everything at all once”). Il protagonista/autore sembra ricercare un ruolo terapeutico nel proprio pubblico, tramite il solo ascolto del brano e del proprio “lamento”. L’ascolto può diventare terapeutico sia per l’ascoltatore stesso, che si identifica nel protagonista, che per il suo autore, il quale con il solo ascolto si sente accolto e rispecchiato nella sua sofferenza.

Diversi lavori hanno paragonato l’ascolto empatico di una seduta psicoterapeutica a quello musicale. La parola ascolto stessa deriva da au (radice di auris, orecchio) e colere (coltivare). È quindi parente stretta di accogliere, contenere, momento cruciale di ogni ascolto psicoterapeutico. Fausto Petrella, che su questo tema ha scritto un libro, sosteneva che “nell’ascolto qualcosa – suono, parola, discorso – esibisce le sue proprietà all’ascoltatore, il quale ha precise responsabilità costitutive circa il senso da attribuire a quanto ascolta”.

L’autore/protagonista del brano si rende conto degli effetti di queste crisi (in termini psicopatologici, potremmo dire che la critica di malattia è conservata), considerandole però degli “scherzi della mente” (“Sometimes my mind plays tricks on me”), senza capire se queste condizioni siano dovute all’abuso di sostanze o meno (“Am I just paranoid? Or am I just stoned?”).

Gli attacchi si manifestano solitamente con un forte timore di autodistruzione (“I think I’m cracking up”), oltre che di perdere il controllo (“Grasping to control/ So I better hold on”). Il testo ci riferisce anche manifestazioni somatiche, fra cui brividi o sensazioni di calore eccessivo (“sometimes I give myself the creeps”).

Il protagonista riferisce poi, con una nota ironica, di aver cercato aiuto presso uno “shrink” (uno strizzacervelli) per analizzare i propri sogni, ma la diagnosi di questi fu la mancanza di rapporti sessuali (“She says it’s lack of sex that’s bringing me down”). La “whore” (la prostituta) da cui si reca per risolvere i suoi problemi lo respinge, intimandogli di smetterla di piangere perchè fortemente annoiata (“so quit my whining ‘cause it’s bringing her down”).

L’immagine del pianto, prima modalità espressiva del neonato che caratterizza la fase del pre-attaccamento bowlbiano, ricorre per ben due volte nel brano. Se da una parte rappresenta una richiesta innata di accudimento, dall’altra in alcune situazioni può però essere anche uno strumento captativo discretamente efficace. Questo può essere anche il caso del nostro autore, che sembra utilizzare il pianto per esibire, esacerbandola, tutta la sua sofferenza per attirare l’attenzione del proprio pubblico, sia come manifestazione di malessere che come richiesta di attenzione verso l’ascoltatore.

Sia nel video che nel testo di “Basket case” i Green Day, partendo da un’esperienza di reale e intensa sofferenza psichica, riescono nell’intento di trattare la delicata tematica della malattia mentale in una modalità totalmente originale e alternativa; in altre parole, potremmo dire “punk”.

Vale la pena chiedersi perché un album come “Dookie” che fa dell’apatia, della “noia” e del “pianto” i suoi temi principi abbia sancito la consacrazione nel panorama della musica internazionale della band, diventando quasi iconico per un’intera generazione di ragazzi.

Nei dischi successivi queste tematiche sono a più riprese trattate, per poi arrivare alla pubblicazione di un disco che fa della critica sociale e politica americana la tematica principale (American Idiot), a segnare un netto parallelismo tra l’evoluzione biografica e personale dei componenti della band e quella discografica degli argomenti trattati nelle canzoni.

Il tema del panico ritornerà come leitmotiv in altri testi: nell’album successivo, Insomniac (riferimento alle notti insonni trascorse dopo la nascita del figlio del frontman), vi è una canzone del titolo Panic song, dove il protagonista permane in uno stato di dissociazione e derealizzazione, probabilmente indotto anche dall’utilizzo di sostanze (“Nothing’s left torn out of reality/ Broken glass inside my head”).

Sarebbe interessante comprendere da dove derivi davvero il “pianto” interiore di cui Billie Joe fa menzione a più riprese in questo e in altri album. Se da una parte ci rivediamo nei testi ascoltati, non dobbiamo cadere nell’errore di identificare l’autore con le sue canzoni, non sarebbe giusto farlo. Già De Gregori in un suo pezzo dal titolo “Guarda che non sono io” ce lo suggerisce, invitandoci a non cercare nell’autore un riferimento empatico o una condivisione di emozioni (“Guarda che non sono io/ quello che stai cercando/ Quello che conosce il tempo, e che ti spiega il mondo”). La stessa cosa succede in una relazione psicoterapeutica, che diventa curativa solo all’interno del setting clinico, in cui il paziente non identifica la cura nella persona del terapeuta, ma negli scambi relazionali che avvengono fra curante e curato.

Nel caso di Basket case, l’autore è riuscito a trasformare in arte la sua sofferenza interiore, producendo un brano che ha fatto la fortuna della band stessa, diventandone il singolo più ascoltato.

La componente artistica ed emotiva dei brani sta nell’accezione che noi ascoltatori diamo loro, facendo in qualche modo “nostro” il brano, con un significato diverso da chi lo ha scritto, che forse, non sapremo mai. O forse lo sapremo, se l’autore avrà voglia di spiegarcelo.

Potremmo invece chiederci, se davvero amiamo così tanto questo brano: quale “pianto” ci va a richiamare questa canzone? Perché ha avuto così tanto successo?

 

BASKET CASE – Guarda il video del brano:

Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Dalla formulazione del caso alla ricerca sull’efficacia (2020) – A. Scarinci, R. Lorenzini e C. Mezzaluna – Recensione del libro


Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale si apre descrivendo le tappe di sviluppo e di evoluzione della terapia cognitivo comportamentale per poi arricchirsi di procedure e tecniche nuove di seconda e terza ondata.

 

La terapia cognitivo comportamentale oggi si presenta come un quadro complesso caratterizzato dalla presenza di un continuo confronto su aspetti caratterizzanti come l’importanza della concettualizzazione del caso per la progettazione dell’intervento terapeutico, il ruolo della relazione e dell’alleanza terapeutica, l’utilizzo e l’integrazione delle vecchie e nuove tecniche terapeutiche, l’importanza della formazione e della supervisione del terapeuta, la ricerca empirica per dimostrare l’efficacia dei diversi approcci psicoterapeutici e tanti altri temi.

Il libro Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale si rivolge agli specializzandi in formazione, ma anche a più esperti psicoterapeuti, offrendo una riflessione sui punti critici e indicazioni chiare e semplici sulle diverse posizioni, avvalendosi di ampie review sullo stato dell’arte della ricerca.

Il libro si apre con un capitolo che descrive le tappe di sviluppo e di evoluzione della terapia cognitivo comportamentale, partendo dai contributi di Ellis e Beck che centravano l’intervento sulle idee irrazionali e sui pensieri automatici negativi per poi evolversi e arricchirsi di procedure e tecniche nuove di seconda e terza ondata, tutte supportate da ricerche e studi che ne dimostrano l’efficacia.

Punto di condivisione dei diversi approcci è l’importanza della formulazione e condivisione del caso tra terapeuta e paziente in quanto favorisce migliori esiti terapeutici, soprattutto su casi complessi e la stabilità del trattamento.

Ulteriore tema molto dibattuto è il ruolo della relazione e dell’alleanza terapeutica rispetto all’esito della terapia. Alcuni ritengono che sia un fattore aspecifico rispetto al cambiamento, altri invece la ritengono elemento indispensabile per il successo terapeutico e vedono l’uso dei compiti e la condivisione degli obiettivi come elementi essenziali della costruzione dell’alleanza terapeutica. La condivisione esplicita e aperta della formulazione del caso e del metodo di lavoro è, per questa visione, elemento fondamentale per la costruzione dell’alleanza.

La parte centrale del libro dedica ampio spazio alla trattazione delle tecniche di intervento, cioè di tutti gli strumenti che il professionista utilizza per modificare comportamenti, emozioni e cognizioni e raggiungere gli obiettivi terapeutici. Un buon terapeuta deve possedere un certo numero di tecniche da utilizzare coerenti e appropriate al piano di intervento, allo scopo di aumentare la consapevolezza del paziente, comprendere scompenso e fattori di mantenimento della sintomatologia, favorire una maggiore flessibilità dei piani esistenziali mostrandone la scarsa utilità e disattivandone l’applicazione automatica, individuare i temi dolorosi e favorire il distanziamento critico per rendere tali temi più tollerabili e meno condizionanti.

L’ampio repertorio degli strumenti a disposizione del terapeuta deve essere utilizzato evitando un’integrazione eclettica, ma all’interno di un modello teorico specifico e definito, come quello cognitivo-comportamentale, che si compone di una solida teoria epistemologica dell’eziopatogenesi e della cura basata su solide evidenze di ricerca.

Saper formulare un caso clinico e conoscere le diverse tecniche di intervento sono conoscenze sufficienti per un buon terapeuta? Quali conoscenze e competenze sono da sviluppare e aggiornare per essere un efficace psicoterapeuta?

I capitoli successivi mirano a rispondere proprio a queste domande in quanto la formazione degli psicoterapeuti assume una grande valenza riguardo alle competenze che questi professionisti della salute mentale devono avere per svolgere il proprio lavoro in modo appropriato e dei percorsi che formano queste stesse competenze. Il percorso formativo fornisce una conoscenza completa del paradigma di riferimento e le conoscenze per strutturare il setting e il percorso terapeutico, valorizzando la cultura dell’evidence-based, ma consente anche allo studente di lavorare sul miglioramento della propria autoriflessività per conoscere i propri stati interni in relazione a ciò che avviene in terapia e agire sugli stessi.

Questa capacità metacognitiva va sviluppata e migliorata per evitare che emozioni, comportamenti e credenze personali possano interferire con il lavoro terapeutico.

Tuttavia la formazione dello psicoterapeuta non si esaurisce all’interno del percorso quadriennale di formazione post laurea, ma richiede di mantenere un livello adeguato di preparazione e aggiornamento professionale e di svolgere periodicamente attività di supervisione per migliorare l’appropriatezza degli interventi con lo scopo di aumentarne l’efficacia.

Nel testo viene inoltre trattata la questione dell’integrazione: lo sviluppo del cognitivismo e la presenza di diversi orientamenti richiedono una riflessione sull’aderenza dei trattamenti e sulla loro unitarietà e coerenza con il paradigma del cognitivo clinico. Il continuo dialogo tra diverse prospettive e un’analisi critica delle tendenze integrative diventa fondamentale per orientare il clinico nel valutare e contestualizzare le tecniche e raggiungere una migliore comprensione degli eventi e un modello d’intervento adeguato ed efficace. La strada più percorribile per un corretto processo di integrazione sembrerebbe quella assimilativa, che permette di inserire tecniche e procedure efficaci all’interno di un modello teorico-concettuale.

L’ottavo capitolo del libro affronta una questione ampiamente discussa, quella della diagnosi, che risale ai primi tentativi di definire i disturbi mentali già dal terzo millennio A.C. quando sumeri ed egizi tentavano di descrivere quadri clinici ascrivibili alla melanconia e all’isteria per poi articolarsi maggiormente con le ricerche di Ippocrate fino allo sviluppo della moderna nosografia psichiatrica a cavallo tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento con i lavori dello psichiatra tedesco Emil Kraepelin, che tentano di dare alla psichiatria una base biologica avvalendosi sia dell’approccio organicistico che delle scoperte anatomo-patologiche e neuro-fisiologiche. L’ampio excursus ci porta fino ad oggi ed osserviamo che le categorie diagnostiche in psichiatria stanno subendo una notevole destrutturazione sia nell’ambito dei disturbi psichiatrici maggiori, sia nel contesto dei disturbi di personalità, come dimostra la ridefinizione dei criteri diagnostici operata dalle ultime edizioni del DSM e dell’ICD, orientandosi verso modelli dimensionali di spettro, i quali partendo da variazioni personologiche considerate normali, in base a criteri di gravità e alla presenza di tratti patognomonici, definiscono nuove entità patologiche, solo parzialmente corrispondenti alle vecchie categorie. Probabilmente in futuro si andrà verso una psichiatria e una psicoterapia stratificata e personalizzata, con metodologie che iniziano a integrare i risultati delle neuroscienze, della ricerca di base e dell’experimental psychopathology.

Ulteriore tema su cui il dibattito è particolarmente animato è relativo all’importanza, sia per la psicopatologia, che per la teoria della cura, dei contenuti della mente, scopi e credenze e dei processi funzionali. Vengono esaminate le posizioni degli strutturalisti, dei processualisti e gli elementi che contrappongono i due schieramenti: le terapie centrate sui contenuti come la CBT hanno dimostrato la loro efficacia nel ridurre la patologia clinica modificando i modelli relazionali impliciti del paziente, pensieri e comportamenti evidenziando inoltre cambiamenti funzionali e strutturali a livello cerebrale, gli approcci basati sui processi offrono effetti semplici, rapidi e significativi e una nuova comprensione che modifica esplicitamente il livello al quale viene elaborato il materiale emotivo negativo.

Secondo Ruggiero et al. (2018) nell’ottica di una possibile integrazione, sarebbe utile in futuro proporre modelli funzionalisti compatibili con la modalità narrativa dei clinici, modelli che mantengano la base evolutiva del disordine, la dimensione esperienziale-narrativa della sofferenza emotiva dei pazienti e l’attenzione ai processi mentali che i soggetti hanno erroneamente sviluppato e mantenuto, ritenendoli incontrollabili a causa di credenze metacognitive disfunzionali.

Come abbiamo avuto modo di leggere, i trattamenti evidence based per i diversi disturbi sono ormai numerosi, ma non sempre è possibile per il clinico farvi ricorso, in questi casi dovrà avvalersi del ragionamento clinico, un pensiero di ordine superiore attraverso cui lo psicoterapeuta osserva e mette in relazione concetti e fenomeni per comprendere e dare significato a ciò che accade nel processo terapeutico.

La CBT, recentemente, ha incluso nella teoria della cura un approccio più trans-diagnostico e personalizzato, in cui evidenze di ricerca e ragionamento clinico coesistono e s’integrano.

La ricerca in psicoterapia ha quindi l’obiettivo di fornire informazioni preziose per i clinici, contribuendo alla costituzione di un corpus di conoscenze empiricamente fondate, anche se ancora incomplete e talvolta controverse. Molto c’è da aspettarsi dai risultati della ricerca di base e della ricerca sull’etiopatogenesi dei disturbi per capire come e perché agisce efficacemente la psicoterapia e quali approcci terapeutici offrono maggiori vantaggi rispetto ad altri su specifiche psicopatologie. Naturalmente è importante tenere conto anche dei limiti della metodologia applicata in un ambito dove, osservato e osservatore hanno una forte influenza reciproca, per questo una maggiore integrazione tra le evidenze che emergono dagli studi empirici e l’expertise dei clinici dovrebbe sempre guidare sia i progetti di ricerca, sia l’operare clinico.

L’ultimo capitolo si occupa dei farmaci e di come il trattamento farmacologico può integrarsi con la psicoterapia.

La lettura del libro risulta molto chiara e fornisce una visione completa e articolata del mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale dal suo esordio ad oggi, lasciando aperti interessanti spunti di riflessione per approfondimenti futuri. Fornisce inoltre un’integrazione molto strutturata sugli attuali temi di riflessione, spunti e risorse spendibili sia per chi vuole approcciarsi a questa formazione, sia per chi è già in formazione ed infine per chi svolge da anni questa professione.

Ultimo punto di forza è rappresentato dagli autori: Antonio Scarinci, Roberto Lorenzini e Clarice Mezzaluna sono psicoterapeuti, formatori e ricercatori che da anni operano sul territorio nazionale e, grazie alla loro esperienza clinica, didattica e di ricerca, hanno reso possibile una riflessione così completa sull’attuale panorama della psicoterapia cognitivo comportamentale. Alla stesura del libro hanno inoltre partecipato importanti autori del cognitivismo italiano e giovani clinici, quali M. Cavalletti, M. Di Egidio, G.M. Ruggiero, G. Caselli, S. Sassaroli, S. Piccioni, C. Formiconi, V. Castellucci, L. Candria, M.C. Barnabei, V. Valenti, E. Favaretto, F. Bedani, M. Ferri, S. Tripaldi, mentre la prefazione è stata curata dal Dr. Antonio Semerari.

 

L’utilizzo dell’Acceptance and Commitment Therapy nel trattamento delle allucinazioni uditive in pazienti affetti da schizofrenia

Le allucinazioni uditive caratterizzano i pazienti affetti da schizofrenia e rientrano tra i cosiddetti sintomi positivi (American Psychiatric Association, 2013).

 

È per questo motivo che i farmaci antipsicotici costituiscono la pietra miliare nel trattamento di questi pazienti ma, nonostante ciò, la frequenza delle allucinazioni uditive continua ad essere persistente, determinando una grave compromissione del funzionamento globale dei soggetti, al punto di costituire uno dei maggiori predittori della riospedalizzazione (McGregor et al., 2018).

Questi sintomi possono differire significativamente nella loro fenomenologia: possono assumere la connotazione di comandi, predisponendo spesso i pazienti ad un maggior rischio di suicidio e/o omicidio (Pandarakalam, 2016) o, ancora, di commenti o conversazioni.

La loro manifestazione può condurre alla messa in atto di veri e propri conflitti con sé stessi e con la propria vita, attraverso tre diversi aspetti. Il primo aspetto è dato dalla natura intrusiva e saliente delle allucinazioni. Le voci sono invasive e difficili da ignorare (Chadwick et al., 1996), distolgono l’attenzione del soggetto e possono diventare una fonte di frustrazione e ansia, portando spesso a tentativi di evitarle o controllarle.

Il secondo aspetto riguarda il contenuto verbale dell’esperienza allucinatoria che potenzia la fusione cognitiva, cioè la predisposizione a divenire un tutt’uno con i propri pensieri, le proprie sensazioni e i propri ricordi, a causa di una forte convinzione rispetto al loro contenuto letterale (Morris et al., 2013). L’ultimo elemento è la qualità interpersonale dell’allucinazione. I pazienti spesso assegnano identità ed intenzioni alle loro voci e si rapportano a queste ultime come se esistessero nella realtà esterna (Chadwick & Birchwood, 1994).

Data l’elevata pervasività di questi sintomi, negli ultimi anni, sono emerse nuove tipologie di intervento che si sono poste l’obiettivo di aiutare i pazienti affetti da schizofrenia ad accettare le loro allucinazioni uditive e a disinnescare la sensazione di angoscia (Strauss et al., 2015). Tra questi interventi vi è l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes et al., 1999), una terapia di stampo cognitivo-comportamentale di terza ondata che negli ultimi anni è stata utilizzata anche per il trattamento di pazienti affetti da schizofrenia con allucinazioni (Thomas et al., 2014).

Essa si concentra sul cambiamento del rapporto del paziente con le voci, piuttosto che sulle voci stesse. Per esempio, attraverso il lavoro di accettazione un paziente che tipicamente risponde alle allucinazioni uditive con l’isolamento sociale o discutendo con loro, può sviluppare una vasta gamma di risposte comportamentali alternative, come uscire di casa, avere una conversazione con un’altra persona o impegnarsi in altre attività (Bach et al., 2006). L’ACT facilita lo spostamento dell’enfasi dei pazienti; difatti, essi passano dal concentrarsi sul tentativo di controllare gli eventi interni a concentrarsi maggiormente sui processi di cambiamento del comportamento che possono condurre a risultati positivi (Levin et al., 2012).

Ai pazienti viene dunque insegnato di abbandonare l’idea di poter controllare tali eventi mentali e ad accettare la loro presenza ma, l’accettazione non va confusa con l’arrendevolezza, bensì con il riconoscimento che i pensieri sono prodotti di eventi mentali, piuttosto che del sé (Hayes et al., 1999).

Nonostante all’oggi siano state prodotte alcune evidenze rispetto all’efficacia dell’ACT nel trattamento delle allucinazioni uditive, risultano necessarie ulteriori ricerche.

Motivo per cui uno studio preso in esame è stato condotto con l’obiettivo di indagare l’effetto dell’applicazione dell’ACT sull’allucinazione uditiva nei pazienti con schizofrenia. Esso è stato condotto nei reparti di degenza di psichiatria dell’ospedale El-Maamoura ad Alessandria (Egitto). All’indagine hanno preso parte 70 pazienti di sesso maschile, che sono stati assegnati in maniera casuale al gruppo sperimentale ed al gruppo di controllo. Oltre al trattamento convenzionale, i soggetti assegnati al primo gruppo hanno partecipato a sei sessioni di ACT.

Rispetto agli strumenti, in prima battuta è stata condotta un’intervista strutturata al fine di raccogliere le informazioni sociodemografiche ed i dati clinici dei pazienti.

La Psychotic Symptom Rating Scale (PSYRATS-AH; Haddock et al., 1999) è stata utilizzata per valutare le allucinazioni uditive, sia per quanto concerne le caratteristiche fisiche, sia per quelle emotive che quelle cognitive. La Voices Acceptance and Action Scale (VAAS; Shawyer et al., 2007) è stata impiegata per valutare due costrutti: l’accettazione delle allucinazioni uditive e la capacità di agire autonomamente. È bene sottolineare che gli strumenti appena descritti sono stati utilizzati sia all’inizio che al termine dell’indagine. Inoltre, è stato effettuato un follow-up dopo tre mesi, al fine di valutare sia l’efficacia della terapia a seguito della dimissione dei pazienti, che il tasso di riospedalizzazione e la compliance rispetto alla terapia farmacologica.

I risultati dello studio preso in esame hanno mostrato un miglioramento in tutti gli aspetti delle allucinazioni uditive dopo l’implementazione dell’ACT. Difatti, la gravità dei punteggi medi di tutte le caratteristiche delle allucinazioni è diminuita nei pazienti del gruppo sperimentale rispetto ai pazienti del gruppo di controllo. Rispetto alle caratteristiche fisiche, i pazienti hanno riportato una diminuzione nella frequenza delle allucinazioni e del tono delle voci. Si è assistito al contempo anche ad un miglioramento delle caratteristiche cognitive, comprese le credenze sulle origini delle voci, nel malfunzionamento globale e nella controllabilità dei sintomi.

Questi risultati sono attribuibili all’effetto delle attività e dei processi dell’ACT che mirano ad ampliare la flessibilità psicologica del paziente nell’affrontare l’allucinazione uditiva. Nelle sessioni dell’ACT, i partecipanti si sono esercitati nell’adottare la posizione di un osservatore dell’esperienza vocale e nel promuovere un atteggiamento di disponibilità nello sperimentare le voci mentre perseguono un’azione. Per quanto riguarda le caratteristiche emotive delle allucinazioni uditive, i partecipanti hanno riferito di avere meno voci angoscianti rispetto al gruppo di controllo. Questo può essere attribuito all’efficacia degli esercizi di Mindfulness, praticati nelle diverse sessioni.

Inoltre, i risultati hanno mostrato un aumento della compliance rispetto alle prescrizioni farmacologiche ed una diminuzione del tasso di riospedalizzazione.

In conclusione, i risultati dello studio mostrano come l’applicazione dell’ACT all’interno degli ospedali psichiatrici potrebbe influenzare positivamente il modo di affrontare le allucinazioni uditive tra i pazienti con schizofrenia. Pertanto, sarà obbligatorio integrare tali pratiche negli interventi per far sì che i pazienti possano essere resilienti rispetto alla diversità delle esperienze allucinatorie uditive, in modo da poter migliorare la loro qualità della vita.

 

Assertività: come gestire al meglio i conflitti – VIDEO dal Webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Cosa si intende per assertività e in che modo possiamo svilupparla? Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Non è forse capitato a tutti di affrontare discussioni con i propri famigliari, il proprio partner, i propri amici, i propri colleghi di lavoro? Certo, i motivi per cui si arriva a litigare sono numerosi, ma spesso i conflitti sono dovuti ad alcune modalità comunicative sgradevoli che innescano e incrementano litigi ed escalation simmetrici, complicando i nostri rapporti sociali.

Nel webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre, i relatori hanno illustrato quali sono queste modalità poco utili e come trovarne altre meno ostili, più collaborative, più espressive di sé e funzionali al riconoscimento e alla gestione positiva di divergenze e conflitti: in una parola, più assertive.

L’incontro è stato condotto dalla dott.ssa Irene Rossi e dal dott. Riccardo Votadoro.

 

Assertività: come gestire al meglio i conflitti
Guarda il video del webinar:

 

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Burnout Sportivo: cos’è e perché è importante conoscerlo

Il burnout sportivo è, infatti, concettualizzato da Raedeke & Smith (2001) come una sintomatologia psico-fisiologica che comprende tre caratteristiche salienti e distinte ma empiricamente correlate che sono fondamentali per l’esperienza dell’atleta nel contesto sportivo.

 

Molti psicologi dello sport sostengono che le situazioni atletiche condividono molte delle stesse caratteristiche che sono state identificate nella letteratura sul burnout in contesti lavorativi, in particolare delle professioni d’aiuto (ad es. Insegnanti, infermieri, assistenti sociali, medici, agenti di polizia, ecc.).

Le caratteristiche del burnout, infatti, possono essere applicate all’ambiente sportivo competitivo in cui può verificarsi l’esaurimento fisico ed emotivo a causa delle continue richieste durante la stagione agonistica. Tuttavia, anche se la maggior parte degli atleti sperimenta frequentemente sintomi di stanchezza e esaurimento, ciò non necessariamente equivale né è assimilabile alla sindrome del burnout le cui caratteristiche peculiari non si esauriscono nella sola condizione di stanchezza psicofisica, che risulta essere una componente essenziale dell’attività sportiva.

Infatti, essere fisicamente stanchi dopo un lungo periodo di allenamento o sentirsi prosciugati dopo la stagione è normale per gli atleti, specialmente quelli professionisti.

Solitamente però, nelle situazioni normali, dopo brevi periodi di recupero, la motivazione e la determinazione ritornano rapidamente.

Ciononostante, una seppur minima percentuale di atleti, calcolata in una oscillazione tra il 1% e il 2% degli atleti professionisti, sperimenterà uno stato di esaurimento più grave e cronico che alla fine potrebbe anche sfociare in un ritiro parziale o totale dalla pratica.

Il burnout dell’atleta è, infatti, concettualizzato da Raedeke & Smith (2001) come una sintomatologia psico-fisiologica che comprende tre caratteristiche salienti e distinte ma empiricamente correlate che sono fondamentali per l’esperienza dell’atleta nel contesto sportivo:

  • esaurimento emotivo/fisico;
  • ridotto senso di realizzazione;
  • svalutazione dello sport.

In una revisione sistematica concernente studi sul burnout realizzati negli ultimi 25 anni, Schaufeli & Buunk (2003) hanno individuato cinque differenti categorie di sintomi associati alla sindrome. Esse sono rappresentate dai seguenti 5 ambiti:

  • affettivo (umore depresso, facile alle lacrime, ostilità);
  • cognitivo (pensieri autosvalutanti, compromissione dell’attenzione e della memoria);
  • fisico (esaurimento fisico, malattia, insonnia, fluttuazione del peso, infortuni frequenti);
  • comportamentale (assenteismo, prestazioni compromesse, isolamento sociale);
  • motivazionale (disillusione, mancanza di entusiasmo, facile abbattimento).

Le 5 macro categorie sottolineano, quindi, come il burnout porti a conseguenze sia su un piano psicologico che fisiologico compromettendo la salute e il benessere psicologico dell’individuo. Pertanto, da un punto di vista psicopatologico, i sintomi del burnout afferiscono alla costellazione sintomatica tipica dei disturbi dello spettro ansioso-depressivo, con tendenza alla somatizzazione e allo sviluppo di comportamenti disfunzionali.

Ma come nasce e si potrebbe sviluppare il burnout sportivo, ovvero quello che colpisce gli atleti?

In riferimento all’eziopatogenesi della sindrome del burnout, in letteratura possiamo trovare differenti interpretazioni. Tra queste, alcune attribuiscono ai soli fattori personali di natura psicologica, come la personalità, le scarse abilità sociali, le esperienze storiche traumatiche. Altri studi, soprattutto più recenti in ambito di neuroscienze, evidenziano una particolare sensibilità cerebrale che predispone a reazioni di tipo ansioso depressivo. Per altri, sono soprattutto le variabili di tipo ambientale legate al contesto socio-lavorativo o al tipo di sport, al livello di competizione presente nella squadra, alle condizioni ambientali particolari dove vengono richieste le prestazioni del singolo atleta a spiegare l’insorgenza di tale sindrome.

Attualmente, il modello biopsicosociale offre maggiori elementi, non univoci né riduzionistici, a spiegare la complessità e la specificità di un esito psicopatologico come quello del burnout sportivo.

Nonostante però la maggiore attenzione degli ultimi anni verso la sindrome in questione, l’effettuazione di una diagnosi di burnout sportivo risulta essere ancora una attività molto complessa e non sempre facile da realizzare.

Questo è soprattutto dovuto al fatto che, si tratta di un’esperienza individuale che può insinuarsi nell’atleta e che può restare inosservata per un lungo periodo di tempo.

È tuttavia possibile notare cambiamenti predittivi di un eventuale insorgenza della sindrome. Ad esempio, gli atleti a rischio iniziano a fornire una serie di prestazioni sportive negative, a manifestare una scarsa attitudine verso lo sport contrariamente a quanto avveniva fino a poco prima, a registrare cambiamenti importanti a livello emozionale e rispetto ad una serie di disturbi a livello fisico.

In particolare, nelle prime fasi del burnout sportivo, gli atleti possono semplicemente iniziare a sentirsi affaticati, stanchi, con mancanza di energia e limitata resistenza, nonostante magari mostrino esternamente segni di benessere fisico e psicologico.

È importante ribadire che questi sentori possono verificarsi in varie occasioni nello sviluppo o nella carriera di un’atleta, in diverse situazioni e a differenti livelli. Per questo, è fondamentale che i responsabili e/o gli allenatori sviluppino una sensibilità e una cultura clinica che consenta loro di scorgere i segnali prodromici al loro insorgere e ne dispongano l’invio specialistico (McGregor et al., 2014).

In questa ottica preventiva, anche lo psicologo può essere una figura preziosa.

Il ruolo dello psicologo sportivo non si esaurisce, infatti, solo nella valutazione, diagnosi e nel trattamento di condizioni cliniche, ma si realizza, anche e soprattutto, nella promozione del benessere psicofisico degli atleti e degli altri soggetti implicati, sia a livello individuale che relazionale.

Pertanto, strategie di intervento teoricamente mirate possono fornire opportunità per la prevenzione e il trattamento dei sintomi di burnout attraverso approcci di gestione dello stress e di raffinazione cognitiva focalizzati sugli atleti, nonché strategie incentrate sull’ambiente e le altre figure significativamente coinvolte nell’organizzazione sportiva.

 

Virtual coaching interventions for the type 2 diabetes mellitus and Blended CBT – Report dall’evento – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

All’interno dell’ECDP si sono susseguiti due interessanti interventi Virtual coaching interventions for healthy coping with type 2 diabetes mellitus (Salcuni e Bassi) e Blended CBT: Overview and future directions (Baldetti e Offredi).

 

Le tecnologie di intervento comportamentale (behavioral intervention technologies – BITs) utilizzano strategie di intervento CBT con l’ausilio di strumenti digitali. Le BIT offrono opportunità promettenti per la pratica clinica ed impiegano una vasta gamma di tecnologie come smartphone, computer, sensori.

I supporti digitali possono promuovere salute mentale e benessere aiutando i pazienti ad acquisire conoscenze, competenze e abilità anche in autonomia. Molte ricerche ne dimostrano l’efficacia nel lungo termine su diversi disturbi: fobia sociale, disturbo di panico, disturbo da accumulo, disturbo depressivo, uso di sostanze, disturbi alimentari, in particolare quando le applicazioni sono impiegate in un trattamento misto. Questi ultimi sono detti di blended perché integrano la componente offline con quella online.

Gli interventi di blended care sono concordati, personalizzati e gestiti in modo flessibile dal terapeuta al fine di massimizzare l’aderenza e la soddisfazione dei pazienti e l’efficacia complessiva del trattamento.

La blended therapy prevede l’integrazione tra interventi faccia a faccia e in forma digitale. Le due componenti possono avere pesi diversi: il trattamento può basarsi principalmente sulla parte faccia a faccia o, viceversa, digitale in misura uguale o prediligendo una delle due modalità; oppure faccia a faccia e digitale possono susseguirsi in sequenza (stepped care).

La cura supportata dalla tecnologia vanta già all’attivo numerose ricerche come dimostrato dai contributi presentati all’European Conference of Digital Psychology. Nella sezione E-therapy tenutasi sabato 20 – room 1, abbiamo visto come un virtual coach possa supportare il trattamento del diabete mellito di tipo 2 e una panoramica delle principali evidenze nella blended care.

Il coaching virtuale per il diabete mellito di tipo 2

La dottoressa Bassi ha presentato uno studio di co-design di un virtual coach per gli interventi di healthy coping per i pazienti con diabete mellito di tipo 2.

E-therapy virtual coaching e Blended CBT - Report ECDP 2021 Imm1Imm. 1 – Dott.ssa Giulia Bassi

Secondo i più recenti risultati di ricerca, questa tipologia di pazienti può sperimentare sintomi di ansia, depressione, stress che influiscono negativamente nella gestione della malattia. L’obiettivo generale di questo lavoro è stato quello di migliorare il protocollo di conversazione per arrivare poi alla creazione di un virtual coach in grado di supportare i pazienti nella gestione della sintomatologia. In questo studio pilota 18 studenti universitari sono stati istruiti ad interpretare pazienti con DM2 e sono stati coinvolti attivamente nella fase di progettazione (fase di co-design). Grazie all’utilizzo della metodologia Wizard of Oz (WoZ), in cui si fa credere ai partecipanti di interagire con un virtual coach – e non con un umano -, è stato possibile testare il protocollo in diversi contesti di simulazione ed ottenere informazioni preziose su espressione e naturalezza del linguaggio.

Il virtual coach ha ricevuto feedback positivi circa la sua funzione di supporto emotivo: il linguaggio è risultato comprensibile, motivante, incoraggiante, supportivo e non intrusivo. Questi risultati hanno poi permesso di allenare un sistema di intelligenza artificiale erogato tramite Telegram, chiamato MotiBot (Motivational Bot), che adesso è in fase di sperimentazione con pazienti con diabete di tipo 1 e 2.

Lo studio pilota condotto dalla dottoressa Bassi e colleghi è un contributo all’avanguardia nel campo dello sviluppo di trattamenti digitali e rafforza l’ipotesi che tecnologie di intervento comportamentale migliorino le capacità dei pazienti di affrontare ansia, stress e depressione.

Blended CBT: una panoramica

Baldetti e Offredi, entrambi clinici CTB, si occupano da alcuni anni di blended care e dell’uso di nuove tecnologie in ambito clinico; con il loro intervento ci hanno proposto una riflessione sull’integrazione di componenti online e off line.

A partire dagli anni Ottanta, quando sono nati i primi tentativi di terapia completamente computerizzata (cCBT), l’evoluzione delle tecnologie ci ha portati alla internet-based CBT (iCBT) degli anni Novanta, fino ad arrivare all’avvento degli smartphone con app ispirate a protocolli standard della CBT, per lo più in modalità self help su meditazione, homework, esercizi, psicoeducazione.

Per un’applicazione ottimale è necessaria una integrazione delle componenti digitali/faccia a faccia in modo che tutti gli elementi siano interconnessi tra di loro. Entrambe devono avere la stessa importanza e il terapeuta deve muoversi con flessibilità soppesando durante il percorso fattibilità e utilità a seconda delle circostanze e delle fasi del trattamento.

E-therapy virtual coaching e Blended CBT - Report ECDP 2021 Imm2

Imm. 2 – Dott. Marco Baldetti

E-therapy virtual coaching e Blended CBT - Report ECDP 2021 Imm3Imm. 3 – Dott.ssa Alessia Offredi

E’ importante notare come la scelta di introdurre elementi digitali nel percorso terapeutico debba essere una scelta condivisa col paziente. Infatti ci sono diversi elementi da tenere in considerazione: il paziente potrebbe non avere le risorse adeguate (materiali, tecniche e cognitive), non avere fiducia né motivazione, trovarsi in uno stato di crisi o urgenza che prevede altri tipi di approcci. Se non valutati accortamente o sottovalutati, questi aspetti potrebbero minare l’alleanza di lavoro e l’aderenza al trattamento.

Del resto, non mancano i vantaggi: la blended care dà ai clinici più strumenti di lavoro; si può sostituire parte del protocollo con la parte online (ad esempio, la psicoeducazione); permette di fare assessment continui che fungono anche da fattore motivazionale all’inizio del trattamento e mantengono agganciato il paziente nel tempo; il supporto online sembra inoltre facilitare l’applicazione delle tecniche apprese durante le sessioni.

Direzioni future per l’E-therapy

La collaborazione tra psicologi ed esperti di tecnologia aiuterà a promuovere nuovi interventi e a rafforzare i trattamenti esistenti. La cooperazione multidisciplinare non è l’unico punto di interesse per i lavori futuri. L’integrazione tra componenti offline e online ci porta a riflessioni su quanto alleanza di lavoro, aderenza al trattamento, outcome sempre più promettenti siano tra le principali sfide e opportunità. La necessità crescente di ulteriori contributi di ricerca ha portato a evidenze interessanti e ad una espansione degli interventi digitali.

Che lo vogliamo o no, la tecnologia fa già parte degli interventi di psicoterapia. I pazienti cercano e accedono online ai contenuti relativi alla salute fisica e mentale. Suggerire ad un paziente un video su Youtube, una app che ci aiuti a monitorare gli homework, utilizzare Whatsapp per le comunicazioni, fare colloqui tramite Skype, questa è già E-therapy: a noi decidere se subire questi cambiamenti o abbracciarli in maniera consapevole.

 

Funzioni metacognitive e psicopatologia. Come conoscere l’architettura cognitiva è utile in psicoterapia

Vediamo nello specifico ognuna delle funzioni metacognitive e le ricadute cliniche di un loro deficit.

 

Curare la mente implica conoscere come la mente normalmente funzioni e quale sia la sua architettura. A oggi è possibile descrivere alcune funzioni essenziali di un sistema pensante, sano o patologico, tramite teorie coerenti (Allen, Fonagy e Bateman, 2008; Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013; Carcione, Nicolò e Semerari, 2016) e in particolare rifacendosi al concetto di metacognizione. Le funzioni metacognitive, o metarappresentazionali, sono un insieme di capacità cognitive di alto livello, tipiche della nostra specie e che lavorano di concerto, sebbene siano dei costrutti differenziabili tra loro e misurabili in maniera indipendente. Esse sono essenziali per rappresentare bisogni e intenzioni proprie e altrui, oltre che per regolare e dirigere il comportamento finalizzato nel lungo termine e mantenere relazioni interpersonali stabili. L’alterazione di tali funzioni risulta in un vero e proprio deficit, presente in gravità variabile in numerose categorie psicopatologiche, in primis nei disturbi di personalità in cui è uno dei fattori nucleari che contraddistingue la peculiare struttura di tali disturbi, le loro manifestazioni e il loro trattamento.

In sintesi, è possibile ricondurre le funzioni metacognitive in due macrocategorie. La prima è quella che rientra nel solco della tradizione di ricerca della Teoria della mente o ToM (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985) e che include essenzialmente capacità rappresentative quali l’identificazione degli stati mentali propri e altrui come indipendenti e separati o il sapere che la mente è caratterizzata da stati diversi ma integrabili. La seconda macrocategoria, che rientra nella tradizione degli studi sulla regolazione emozionale e sulla metacognizione, è quella dei processi di monitoraggio e controllo, ovvero include il lavorare sugli stati mentali e quindi la capacità di modularli per raggiungere un obiettivo, ridurre la sofferenza, risolvere un problema interpersonale, etc. Vediamo nello specifico ciascuna funzione e le ricadute cliniche di un suo deficit.

L’identificazione è probabilmente la più basilare delle funzioni rappresentative. Essa consiste, molto banalmente, nella capacità di raffigurarsi internamente, in uno spazio privato, uno stato mentale proprio o altrui. Quando una persona identifica una precisa emozione nel sé o in un altro, essa riconosce l’esistenza di tale emozione. Nel paziente psicotico o con grave disturbo di personalità, la consapevolezza degli stati mentali interni è compromessa tanto che tali stati non vengono neppure rilevati e non si è capaci di osservarli. Un paziente simile si mostrerà mutacico o darà risposte vaghe e indefinite a domande come “Cosa provava?” o “Cosa ha pensato in quel momento?”. Già questo pone una fondamentale differenza rispetto a pazienti nevrotici o comunque con disturbi in cui tale capacità è presente ma è poco allenata, oppure è distorta da errori cognitivi che amplificano un problema senza risolverlo.

La differenziazione è intrinsecamente collegata all’identificazione, ma se ne distingue sottilmente in quanto essa non è più la capacità di rappresentarsi uno stato mentale, bensì di differenziare tra uno stato mentale proprio/altrui ed una realtà esterna ad esso e quindi tra una credenza, un’opinione o una fantasia e un fatto che si verifica al di fuori della propria mente. E’ facile intuire come, nei casi più gravi, l’alterazione di questa funzione porti alla totale incapacità di distinguere tra realtà e credenza, quindi al diniego o al delirio e alla impossibilità logica di considerarsi malato. Nei casi meno gravi, il soggetto ha difficoltà a mettere in discussione le idee che ne guidano il comportamento, dimostrandosi inamovibile nella sua interpretazione dei fatti, che però è quantomeno differenziata dal fatto in sé, riconoscendo la differenza tra le due cose. Un classico esempio di scarsa capacità di differenziazione può essere quella di un paziente con disturbo paranoide di personalità, con le sue granitiche convinzioni di complotti ai suoi danni e nel quale tali convinzioni vengono considerate fatti acclarati. Per il paranoico ciò che pensa non è “una sua idea”, ma “è così”.

L’integrazione si definisce come la capacità di mettere insieme in un sistema coerente di rappresentazioni di stati interni propri/altrui differenti, se non proprio contraddittorie. Una funzione simile è fondamentale per mantenere un buon equilibrio della vita psichica e, più in particolare, risulta essenziale per costruire un’identità completa di sé e degli altri, per produrre narrative e spiegazioni complesse del comportamento altrui e in ultimo anche per regolare efficacemente le proprie emozioni mantenendo un comportamento organizzato. Quando questa funzione è deficitaria, il soggetto perde il proprio senso di coerenza; ne consegue che l’immagine di Sé/altro dominante è quella del momento presente e viene persa la complessità del reale e la visione d’insieme. Le spiegazioni del comportamento si semplificano e, nella visione dell’altro, conta solo il qui e ora e non sono evocate spiegazioni alternative e più raffinate. Spesso è lo stesso terapeuta, in seduta, a non riuscire a identificare lo stato mentale del paziente e ad entrare in confusione per i cambiamenti bruschi e repentini del comportamento del soggetto. Un deficit di integrazione è frequente nel Disturbo Borderline di Personalità, in cui la persona assume subito una reazione aggressiva in risposta ad una visione negativa (es. persecutoria) dell’altro anche per una minima mancanza, entrando poi in una serie di stati problematici che nella sua mente appaiono del tutto scollegati tra loro, come se fossero di più persone diverse (es. sé furioso, poi sé cattivo e indegno e quindi infine sé abbandonato). Ad un osservatore ignaro del funzionamento, il comportamento del paziente apparirà caotico, imprevedibile e contraddittorio.

Il decentramento è la capacità di comprendere gli stati mentali altrui, ovvero di assumere la prospettiva dell’altro. E’ una funzione rappresentativa e si distingue quindi dalla capacità di condividere le emozioni altrui, ovvero dall’empatia propriamente detta. Va da sé che questa sia una capacità che richiede già un buona capacità di identificare e differenziare i vari stati mentali, essendo impossibile assumere la prospettiva di un altro se prima non si è capaci di associare ad esso stati mentali e di comprendere il loro stato di rappresentazione interna. Decentrarsi significa dunque descrivere credenze e comportamenti altrui a prescindere dai proprio contenuti mentali e quindi attribuire all’altro un mondo psicologico del tutto indipendente dal proprio. Se c’è un deficit, la persona agirà attribuendo all’altro obiettivi e comportamenti esclusivamente in base alle proprie interpretazioni o emozioni del momento. Ad esempio, un paziente può considerare il volto perplesso dell’altro in risposta ad una propria affermazione come svalutante o critico se si trova già in uno stato mentale di allerta, senza configurarsi la possibilità che invece l’altro non ha effettivamente compreso il messaggio. Un caso in cui si attribuiscono agli altri stati mentali in base alle proprie credenze è, ad esempio, il disturbo di personalità paranoide in cui il comportamento altrui si legge sempre come maligno e nocivo in conseguenza della propria visione dell’ambiente come pericoloso e persecutorio. Se mi sento aggredito significa automaticamente che l’altro è aggressivo.

Le funzioni di mastery, invece, includono tutta una serie di capacità non più rappresentative, bensì di monitoraggio e controllo degli stati interni. Semerari e colleghi suddividono tali strategie in tre livelli a seconda del livello di elaborazione metacognitiva richiesto. Le strategie di primo livello sono quindi quelle in cui la persona ha una capacità metarappresentativa nulla o scarsa e il suo ruolo dinanzi all’emergere di uno stato problematico è passivo. Ne consegue che il solo modo di gestire un’emozione o risolvere un problema sarà agire direttamente sull’organismo per modulare il livello di attivazione ad esempio assumendo sostanze, tramite l’autolesionismo o ancora abbuffandosi. Le strategie di secondo livello richiedono un maggiore livello di consapevolezza e un ruolo più attivo della persona. Esse includono, ad esempio, il distrarsi reindirizzando la propria attenzione altrove, l’inibizione volontaria di un pensiero doloroso o la condivisione sociale con altri significativi. Un caso tipico in cui questa strategia può portare ad una disfunzione è quando si tenta continuamente di rielaborare un evento per riassegnarvi un significato ma senza approdare ad una soluzione, ovvero il rimurginio. In ogni caso, nelle strategie di secondo livello le funzioni rappresentative devono essere almeno minimamente presenti. Le strategie di terzo livello sono le più complesse e richiedono una buona capacità metacognitiva, in quanto in questo caso il soggetto agisce direttamente sui propri stati mentali. Esempi possono essere il riflettere criticamente sull’efficacia delle proprie credenze o soluzioni al problema, il negoziare un compromesso raffigurandosi obiettivi e desideri altrui oppure accogliere e accettare il proprio stato interno in quanto non è possibile modificare una situazione in nessun modo (es. lutto) ma restando consapevoli che esso è momentaneo e legato alle contingenze.

Le funzioni metarappresentative sono condizione necessaria (ma non sufficiente) affinché ci siano buone capacità di monitoraggio. In particolare, non è possibile avere un buon livello di autoregolazione se sono assenti i contenuti mentali da modulare, che dovranno per forza di cose essere prima identificati e differenziati adeguatamente. Ad esempio, non sarà possibile modulare adeguatamente uno stato mentale di rabbia da presunta ingiustizia subita, se non si riescono nemmeno a identificare motivazioni e credenze proprie e altrui che compongono la complessità della relazione interpersonale e delle emozioni in atto in quel momento. Oppure ancora, in terapia, il paziente si sentirà impotente e in balia degli eventi, manifestando frustrazione perenne e scarsa fiducia nel trattamento, se prima non riuscirà a rappresentarsi i vari stati mentali problematici su cui lavorare e che sono all’origine della sua sofferenza.

In conclusione, avere una visione integrata dell’architettura cognitiva della mente e delle sue funzioni di metarappresentazione risulta centrale per il terapeuta. Partire da una valutazione di tali funzioni nel paziente risulta utile sia ai fini della comprensione dell’origine strutturale dei sintomi, sia per spiegare il suo difetto nel funzionamento interpersonale dentro e fuori dal setting terapeutico sia infine per pianificare gli obiettivi e la modalità della terapia stessa, identificando le aree problematiche su cui lavorare con il paziente.

 

Genitori e familiari: come diventare un sostegno per chi ha difficoltà a gestire le emozione – Report dell’evento

La disregolazione emotiva può avere ripercussioni significative non solo dal punto di vista del benessere individuale, ma anche sulla qualità delle relazioni interpersonali. In che modo genitori e familiari possono diventare un sostegno quando si verificano problemi di gestione delle emozioni?

 

La mancata capacità di controllare gli effetti delle proprie reazioni emotive su pensieri e comportamenti è detta Disregolazione Emotiva. Questo costrutto è implicato trasversalmente in diverse forme di malessere psicologico, per le quali può configurarsi sia come fattore predisponente che come fattore di mantenimento. La mancata regolazione emotiva può avere ripercussioni significative non solo dal punto di vista del benessere individuale, ma anche sulla qualità delle relazioni interpersonali.

Il Centro Disturbi della Personalità del progetto Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP) di Modena e di Milano si occupa di fornire sostegno, in ambito clinico e riabilitativo, a chi ha difficoltà di regolazione emotiva ed ai loro familiari.

In che modo genitori e familiari possono diventare un sostegno quando si verificano problemi di gestione delle emozioni?

Il costrutto di Regolazione Emotiva (Gratz & Roemer, 2004) si riferisce all’abilità di:

  • Comprendere ed essere consapevoli delle proprie emozioni;
  • Accettare il presentarsi delle emozioni;
  • Controllare le emozioni negative evitando che queste interferiscano con il proprio comportamento;
  • Usare strategie di regolazione emotiva in modo flessibile e adatto al contesto.

Questa concezione si inserisce all’interno del modello Biosociale di Marsha Linehan. Secondo questa cornice teorica esistono due diversi tipi di fattori che concorrono a determinare la vulnerabilità emotiva. Uno di tipo temperamentale, relativo alle predisposizioni individuali, ed uno di tipo ambientale, riconducibile all’esperienza emozionale soggettiva. Quando l’ambiente non è supportivo, non accoglie adeguatamente o fraintende il manifestarsi delle emozioni del bambino, possono verificarsi dinamiche di instabilità nella relazione individuo-ambiente. Come conseguenza di ciò, l’emotività potrebbe essere percepita dalla persona come inadeguata, pericolosa o intollerabile. Ciò può comportare difficoltà a tollerare stress e frustrazione e problemi a orientarsi in base alle proprie emozioni e cognizioni senza ricorrere a sostegni esterni. Non riuscendo a fare uso di strategie cognitive in grado di mediare il rapporto tra stimolo ambientale e risposta comportamentale, l’individuo acquisirà un’attività mentale rigida, caratterizzata da pensiero tutto o nulla generalizzato a molti aspetti della quotidianità, che verranno così concepiti in modo assolutistico e non adattabile alla variabilità del contesto. Questa estremizzazione in poli opposti influenzerà anche nell’espressione emotiva, che oscillerà tra inibizione ed eccessiva espressione delle emozioni, senza possibilità di compromessi più funzionali. La persona stessa potrebbe vivere con biasimo e vergogna queste risposte emotive estreme, anche per via della difficoltà a riconoscerle, identificarle e controllarle.

Nel tentativo di far fronte a questi vissuti dolorosi, l’interessato potrebbe:

  • Manifestare impulsività in varie aree di vita (aggressività fisica o verbale, abuso di droghe o alcol, gioco d’azzardo, shopping compulsivo, eccessivo o insufficiente consumo di cibo);
  • Presentare difficoltà nel processo decisionale e rigidità di pensiero (es. pensiero tutto o nulla: “o sono perfetto o sono un fallito”);
  • Problemi nelle relazioni interpersonali (frequenti fraintendimenti, relazioni caotiche);
  • Ipervigilanza e ipersensibilità.

Quali sono le conseguenze sui familiari e i partner?

Le difficoltà di regolazione emotiva possono avere effetti significativi anche sulle persone che vivono a stretto contatto con chi ne soffre. Col passare del tempo, famigliari e partner possono sentirsi esausti o sconfitti in seguito ai molteplici tentativi di dare spiegazioni razionali a quelli che possono sembrare comportamenti privi di logica. Questa condizione è spesso caratterizzata da alti livelli di frustrazione, che purtroppo accompagna il senso di inefficacia sperimentato dai membri della famiglia a seguito dei molti tentativi di aiuto ignorati o fraintesi. Queste dinamiche possono causare l’instaurazione di conflittualità tali da non rendere più i familiari risorse funzionali all’ottenimento dei risultati del percorso terapeutico, arrivando persino a escluderli completamente dalla vita del paziente.

Come riconoscere la disregolazione emotiva?

La disregolazione emotiva può esprimersi mediante diverse manifestazioni comportamentali. Per le persone vicine a chi ne soffre è tipico sentirsi sempre sotto stress, a causa delle preoccupazioni e delle difficoltà nella vita quotidiana causate dal proprio famigliare. È anche comune avere l’impressione che il proprio caro passi in poco tempo dalla calma, all’ira o alla disperazione, con cambiamenti d’umore così repentini da confondere e indurre a pensare di avere immaginato ciò a cui si ha appena assistito. L’umore del proprio familiare, infatti, cambia apparentemente senza alcuna ragione (Labilità emotiva).

Un’altra manifestazione comportamentale che la disregolazione emotiva porta spesso con sé è l’impulsività. Se il proprio familiare è impulsivo, si può avere l’impressione che non abbia il controllo sulle proprie emozioni e sui propri comportamenti. Ciò provoca continue preoccupazioni per la sua sicurezza, in quanto si teme che egli adotti una moltitudine di comportamenti pericolosi quali autolesionismo, abitudini alimentari dannose, uso di droghe e alcol, pratiche sessuali rischiose, spese sconsiderate e, nei casi più gravi,  tentativi di suicidio.

Ulteriori effetti della disregolazione emotiva possono essere la Difficoltà nel processo decisionale e la Rigidità di pensiero. Il familiare, pur affermando di vivere una quotidianità fatta di frustrazioni, infelicità e stress, sembra incapace di compiere il minimo cambiamento per migliorare la propri a situazione.

Le decisioni quotidiane sembrano sfide enormi e chi è vicino a lui/lei si trova ad assistere impotente ad una serie di decisioni sbagliate, che continuano ad essere ripetute in modo recidivo, come se il proprio familiare fosse incapace di imparare dai propri errori, o non cogliesse il collegamento causa-effetto tra le proprie azioni e le conseguenze negative che ne derivano.

Può accadere poi che le relazioni interpersonali diventino dei veri e propri campi minati: una persona ritenuta amica può all’improvviso scomparire dalla vita del proprio familiare, a causa di una visione del mondo bianco/nero in cui il compromesso è impossibile, in cui le persone sono o totalmente buone o totalmente cattive, oscillando tra gli estremi dell’idealizzazione e del disprezzo. Un altro indicatore di questo Caos relazionale è che la persona è cieca alle proprie responsabilità nei conflitti interpersonali: la colpa è sempre esterna e loro sono l’eterna vittima dei comportamenti scorretti altrui.

In questi casi sono comuni, inoltre, elementi di Ipervigilanza e ipersensibilità. Fin dall’infanzia il vostro familiare potrebbe aver mostrato di essere molto sensibile ai rumori, ai toni della voce, alla luce, alle sfumature emotive e alle reazioni degli altri. Una critica, un rimprovero, un fallimento o il minimo cenno di rifiuto è in grado di provocare una forte reazione, che può avere come esito l’isolamento ed il ritiro da ogni relazione sociale. Questa ipersensibilità potrebbe causare nelle persone vicine a chi la manifesta il costante timore di aver detto o fatto qualcosa di sbagliato, e sforzi costanti per tentare di colmare la sfiducia e la diffidenza che il proprio familiare prova nei confronti delle altre persone e delle situazioni in cui crede di rischiare un fallimento o un rifiuto.

Anche l’aspetto cognitivo risente molto della mancanza di controllo sulle emozioni. Potrebbe accadere che, nel descrivere un episodio passato, il racconto dei familiari sia completamente diversa da quella riportata dal paziente, come se si trattasse di due eventi completamente differenti, ciò a causa degli aspetti di Disregolazione cognitiva causati dall’assenza di controllo emotivo.

In questa miriade di manifestazioni, specchio della sofferenza dovuta alla mancata capacità di regolare le emozioni, c’è un aspetto particolarmente difficoltoso da accettare per i familiari: la Competenza apparente. La stessa persona che a casa manifesta le problematiche che abbiamo appena elencato (impulsività, caos relazionale ecc.), potrebbe mostrarsi estremamente competente e posata in situazioni pubbliche esterne all’ambiente domestico. Qualità che vanno perse nella relazione coi parenti o con altre figure di attaccamento. Questo provoca l’incapacità di raggiungere una piena soddisfazione in tutte le aree della vita e, sebbene in molti casi possa essere raggiunta la piena autonomia e successo lavorativo, nella sfera privata queste persone sembrano vivere un’esistenza di quieta disperazione.

Per i familiari può essere frustante assistere a questi cambiamenti radicali a seconda delle situazioni, tanto da arrivare a dubitare che il proprio caro provi effettivamente la grande sofferenza che descrive. Può essere difficile continuare ad essere di supporto e provare compassione quando ci si pone constantemente la domanda: “Perché in pubblico riesce ad essere pienamente in controllo di sé e a casa no?”.

Assunti di base per il trattamento

Nonostante i diversi problemi comportamentali legati alla disregolazione emotiva, è importante ricordare che chi li manifesta comunque sta facendo del proprio meglio: se potessero decidere, ovviamente non si comporterebbero in maniera irrazionale e controproducente! Hanno bisogno di essere sostenuti e motivati nel loro percorso verso il cambiamento: anche se non responsabili di questa sofferenza, solo loro possono risolvere i loro problemi, apprendendo nuovi comportamenti nei contesti per loro rilevanti.

I due modelli teorici ai quali si fa riferimento alle Cliniche Italiane di Psicoterapia sono la Terapia Dialettico Comportamentale, DBT (Linehan, 2015) e la Terapia basata sulla Mentalizzazione, MBT (Bateman & Fonagy, 2012).

La prima si focalizza su come un individuo possa imparare a regolare le emozioni e mutare i comportamenti acquisendo nuove abilità per regolare le emozioni che gli consentano di agire in vista di uno scopo e non su base impulsiva. La seconda, invece, si concentra maggiormente su cosa una persona pensa e su come percepisce la situazione durante un’interazione, momento per momento, al fine di chiarire le intenzioni di ognuno all’interno della relazione, ed evitare fraintendimenti.

Sia la DBT che la MBT si fondano su due concetti essenziali: l’accettazione e la compassione. Lo scopo è comprendere la sofferenza causata dalla difficoltà nel comunicare i propri sentimenti, pensieri e necessità. È difficile, infatti, soddisfare anche i più semplici bisogni quando gli altri sembrano non capire quello che esprimiamo, e questo può portare ad un costante senso di frustrazione e alla sensazione di essere isolati dal resto del mondo.

Ingredienti per essere di supporto al vostro familiare:

Come riuscire ad entrare in connessione con chi soffre di disregolazione emotiva? Attraverso una serie di abilità, come:

  • Accettazione radicale: riconoscere ciò che avviene nel momento presente e riuscire a tollerarlo e accettarlo completamente, senza desiderare che le cose siano diverse. È la base su cui si poggiano validazione e cambiamento.
  • Validazione: il linguaggio per comunicare con il familiare affetto da un disturbo affettivo, è l’arte di legittimare l’altra persona accettandola così com’è, con le sue emozioni e reazioni. È un potente mezzo per trasmettere il proprio affetto ed è un modo per ridurre i fraintendimenti e le attribuzioni errate. Può essere attuata prestando attenzione, spiegando di aver compreso quello che l’altro vuole comunicare riformulandolo con parole proprie, validando il passato e normalizzando le emozioni del presente alla luce della storia di vita.
  • Mindfulness: significa concentrarsi sul momento presente, il qui ed ora, apprendendo a osservare in modo non giudicante i propri pensieri ed emozioni. L’obiettivo è riuscire a distinguere i tre stati della mente. La mente emotiva, la mente razionale e la mente saggia.
  • Abilità di cambiamento del comportamento: abilità di efficacia interpersonale, regolazione emotiva e tolleranza della sofferenza, acquisite con tecniche basate sul modellamento ed il rinforzo. Il fine è rendere più flessibili gli schemi comportamentali contraddistinti da un modo di pensare rigido (del tipo tutto/niente). Le abilità legate al rafforzamento sono, ad esempio, la capacità di definire obiettivi, sviluppare l’assertività, equilibrare priorità e richieste, e accettare gli errori.
  • Mentalizzazione: imparare a comprendere i fraintendimenti in ambito relazionale, modificando il modo in cui una persona percepisce situazioni ed esperienze interpersonali tramite una maggiore comprensione di ciò che accade nella propria mente e in quella dell’altra persona nel corso dell’interazione.

Aspetti dimensionali presenti su più disturbi:

La disregolazione emotiva non è specifica di un solo disturbo, ma può accompagnare diversi quadri diagnostici. I disturbi della personalità possono essere tra questi. Secondo L’American Psychiatric Association (APA), circa il 10% della popolazione ne soffre, sono disturbi pervasivi e duraturi che hanno un forte impatto sulla vita familiare, sulle relazioni interpersonali e sul funzionamento globale della persona.

Il progetto disturbi di personalità del CIP di Modena:

Le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP) nascono dall’esperienza di Studi Cognitivi, un network di Scuole di Specializzazione in Psicoterapia, Centri di Ricerca e Centri Clinici. Il progetto del CIP di Modena si colloca all’interno delle linee guida dell’APA e delle evidenze della letteratura scientifica sui disturbi di personalità, andando a costituire un intervento con caratteristiche sia psicoterapeutiche che riabilitative. Si tratta di strutture semiresidenziali per disturbi di tipo emotivo, quindi centri diurni che offrono al paziente un intervento intensivo e personalizzato. Il percorso ha una durata di tre mesi in un setting di terapia di gruppo intensiva, che comprende anche un incontro settimanale di supporto per i familiari, volto ad agire sull’ambiente invalidante creando un clima più sereno.

I modelli di riferimento sono la Terapia Dialettico comportamentale, la Terapia basata sulla Mentalizzazione, la Terapia Metacognitiva (Wells, 2011), e gli interventi basati sulla Mindfulness. Gli obiettivi sono la riduzione della vulnerabilità emotiva attraverso il miglioramento della regolazione delle emozioni, la riduzione delle strategie di coping maladattive. L’intervento del CIP è tenuto da un’equipe multidisciplinare tra cui 4 psicologi psicoterapeuti, 2 terapisti della riabilitazione ed un medico psichiatra formati sui protocolli di riferimento.

La presa in carico presso il CIP avviene mediante le seguenti fasi:

  • Colloquio preliminare
  • Valutazione testistica, sulla base della quale si concettualizza il caso
  • Formulazione del progetto terapeutico e condivisione degli obiettivi da raggiungere
  • Invio relazione e costruzione del progetto
  • Trattamento (3 mesi, ogni pomeriggio dal lunedì al giovedì)
  • Colloquio finale con valutazione testistica e rivalutazione del percorso sulla base degli obiettivi accordati in partenza; condivisione delle informazioni con il professionista inviante.

 

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Process-based CBT. I processi e le competenze cliniche di base della terapia cognitivo-comportamentale (2020) di Steven C. Hayes e Stefan G. Hofmann – Recensione

Process-based CBT mostra al lettore la possibilità di mediare tra ricerche e costrutti afferenti le varie aree del cognitivismo clinico internazionale.

 

Gli autori, lungo il corso delle loro carriere, hanno portato avanti un dibattito tra punti di vista diversi ma, nello stesso tempo, sembrano aver affrontato con atteggiamento di apertura il loro costante confronto, mantenendo lo sguardo rivolto al futuro. Presupposti, questi ultimi, non solo per poter coltivare un’amicizia, ma anche per garantire l’avanzamento scientifico. Steven C. Hayes a partire da un approccio comportamentista, ha sviluppato una delle più note forme di psicoterapia della Terza Onda, l’Acceptance and Commitment Therapy (Hayes et al., 1999), mentre Stefan G. Hofmann, attraverso numerose ricerche sulle emozioni secondo una prospettiva interpersonale e mindfulness-based, ha portato un enorme contributo a favore del cognitivismo clinico.

Il manuale, descrivendo al lettore i processi alla base della terapia cognitivo-comportamentale, ci porta ad identificare un obiettivo comune le tra le varie ondate e tradizioni del cognitivismo e comportamentismo sviluppatesi nel tempo. Sembra saggio il tentativo di rispondere consapevolmente alle varie critiche e posizioni che interessano la CBT, vista la difficoltà dei vari esponenti lungo la linea del tempo, nel definire in maniera unitaria gli standard della pratica evidence-based; sia in termini di efficacia del trattamento, sia riguardo l’esperienza clinica del terapeuta e i rispettivi target di intervento. A tal riguardo, le idee espresse nel testo, risultano oggettive e ricche di spunti teorici ed applicativi; infatti si basano su quanto emerso dalla Inter-Organizational Task Force on Cognitive and Behavioral Psychology Doctoral Education (Klepac et al., 2012). Tale Task Force permise un incontro tra le principali organizzazioni rappresentanti le varie branche CBT e nacque grazie agli intenti dell’Association for Behavioral and Cognitive Therapies (ABCT) di definire standard educativi e di formazione per l’insegnamento di competenze aggiornate a livello di dottorato negli USA. La ABCT si formò nel 1966 accogliendo al suo interno professionisti della salute mentale rappresentanti dei vari approcci CBT.

L’ipotesi di spostare il focus dell’attenzione clinica, di ricerca e di formazione, sui processi, emerge dunque da diversi decenni di lavoro in cui gli scienziati hanno tentato di ridefinire i target dell’intervento clinico. Si fa quindi sempre più riferimento ad una visione transdiagnostica, sia per quanto concerne la comprensione della sofferenza dell’individuo, sia con l’intento di adattarvi le specifiche applicazioni.

Se allineare i disturbi mentali alle categorie diagnostiche del modello biomedico ha favorito la comunicazione tra professionisti, ponendo le basi per un primo avanzamento scientifico nella direzione di interventi più mirati, è emersa però l’esigenza di descrivere in modo meno eterogeneo i problemi psicologici. Il passaggio ad un approccio dimensionale ha favorito, infatti, il processo decisionale in ambito clinico, tuttavia, anche il costrutto di dimensione è stato più volte rivisto. Per esempio, si è giunti a definire meglio le dimensioni patologiche su cui intervenire, dando spazio ad un approccio più comportamentale e neurobiologico come quello elaborato attraverso il framework Research Domain Criteria (RDoC) (Insel et al., 2010), o riflettendo sulle implicazioni del modello di processo generativo dell’emozione di Gross, il quale ha contribuito a far chiarezza sul costrutto di disregolazione emotiva e sulle relative strategie di risposta. L’approccio a rete complessa (Complex Network Approach) (Hofmann et al., 2016) ha portato, poi, un notevole contributo nel tentativo di superare l’assunto che alla base dei disturbi mentali vi siano entità patologiche latenti. Per cui, gli elementi da osservare ai fini della comprensione di un determinato disturbo e di un intervento individualizzato, saranno interconnessi gli uni agli altri e, appunto, parte di una rete complessa. Secondo gli autori di Process-based CBT, anche le strategie di analisi funzionale e gli studi longitudinali vanno nella direzione di definire quei processi bio-psico-sociali che sono centrali negli interventi di psicoterapia. La loro ipotesi sembra dunque spostarsi efficacemente da possibili chiusure ad una dimensione di confronto, illustrando le potenzialità di ogni ala di questa famiglia di approcci (comportamentale, cognitiva, di accettazione e di mindfulness).

Integrando prospettive cliniche, neuroscientifiche ed evoluzionistiche, vengono dunque descritti i processi centrali nel trattamento di problematiche comportamentali, emotive o fisiche, a partire dall’ambito comportamentale. In particolare, gli autori spiegano i meccanismi di apprendimento che avvengono per contingenza diretta, prendendo poi in esame l’interazione tra essi ed i processi di controllo dello stimolo e di generalizzazione, ma anche riflettendo sul possibile ruolo di mediazione che hanno su di essi il linguaggio e altri processi simbolici. Per esempio, le auto verbalizzazioni possono influenzare in maniera diversa i processi di apprendimento in base alle diverse situazioni cliniche. Se l’affermazione di autoregole, almeno ad un livello covert, sembra migliorare la performance in persone con disabilità dello sviluppo (Taylor et al., 1997;  Faloon & Rehfeldt, 2008), probabilmente, invece, i processi cognitivi sottostanti le auto verbalizzazioni tipiche di una persona che riporta attacchi d’ansia, non medieranno positivamente la sua risposta di apprendimento di fronte ad uno stimolo fonte di ansia.

Esploriamo poi la cognizione, sia vista come quel processo dinamico che interessa l’elaborazione delle informazioni (Neisser, 1967) e che, meno formalmente in ambito clinico, si traduce per esempio in schemi o credenze di base, sia concettualizzata in termini funzionali-analitici. Nello specifico, gli autori invitano il lettore a percepire l’integrazione tra queste due prospettive, come una risorsa, a favore di una migliore comprensione della cognizione in ambito clinico. I processi vengono infine approfonditi in termini di emozioni e di regolazione emotiva nel contesto delle relative implicazioni cliniche.

Un approfondimento riguardo la filosofia della scienza, l’etica e il ruolo variabile della pratica, ci permette poi di ripercorrere la storia di sviluppo della CBT, mostrando al lettore in che modo tale traiettoria potrebbe progredire in termini di avanzamento scientifico. Il testo si rivela infatti utile nel caso in cui si volessero conoscere meglio quei principi più astratti che sono alla base di una pratica clinica efficace.

Questo lavoro, che mira perlopiù a proporre un modello educativo per le nuove generazioni di terapeuti, ci spinge a riflettere sulla natura del funzionamento psicologico, e sulle strategie utili ad affrontare gli specifici obiettivi di intervento, anche alla luce delle ultime applicazioni in campo di innovazione tecnologica. Nell’ultima sezione del libro, i processi e le strategie applicative, vengono affrontati con riferimento all’intervento clinico, tentando di spiegare quei principi scientifici che sono trasversali alle applicazioni terapeutiche provenienti dai diversi approcci.

Abbracciare l’ipotesi degli autori sembra quindi voler dire che è possibile maneggiare con più consapevolezza alcuni nodi cruciali della pratica clinica quotidiana in ambito CBT. Sembra per esempio, che focalizzarsi sui processi di cambiamento, sia utile per tentare di rispondere, almeno in parte, alle criticità dei protocolli specifici manualizzati. Se, da un lato è funzionale che il terapeuta, così come il ricercatore, si concentri su specifiche competenze e procedure, il rischio potrebbe essere quello di ignorare che i costrutti e i principi fondanti le sotto-strategie, sono tutt’altro che specifici. Se, inoltre, il manuale tende a diventare in maniera fuorviante l’unico oggetto di analisi per quel determinato disturbo, enfatizzandone le caratteristiche distintive che lo identificano, potrebbe non essere semplice notare la sovrapposizione tra le singole componenti.

Dunque, un brillante e complesso approfondimento che apre la mente.

Come sottolineano gli autori ‘L’obiettivo non è lo sconvolgimento; l’obiettivo è il progresso‘.

 

Paura del Parto: Fattori di Rischio, Caratteristiche e Conseguenze della Tocofobia

La paura del parto, anche conosciuta come tocofobia, è definita come un disturbo psicologico che può variare tra una paura minima e una paura estrema di partorire (Hofberg & Ward, 2003; Wikma, Wijima & Zar, 1998).

 

Questa fobia può colpire le donne durante tutto l’arco di vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ed è, in una certa misura, un fenomeno normale, poiché il parto può effettivamente essere un’esperienza dolorosa e imprevedibile (Wijima et al., 1998). Ciononostante, una paura tale per cui sia compromesso il funzionamento quotidiano della donna è valutabile come una grave forma di tocofobia, e pertanto viene definita paura patologica. La prevalenza della tocofobia in Europa e in America è superiore al 20%; inoltre, uno studio australiano ha scoperto che il 48% delle partecipanti riportava una tocofobia moderata e che il 26% mostrava una forte paura del parto (Wijima et al., 1998; Areskog et al., 1982; Searle, 1996; Fenwik et al., 2009). Alcune ricerche hanno dimostrato come circa il 6%-10% delle donne incinte percepivano una paura patologica e invalidante di partorire ed altri studi hanno svelato che questa paura ha spesso un impatto significativo sull’esito del parto, con un conseguente drammatico aumento dei parti cesarei (Searle, 1996, Alipour et al., 2011, Nieminen, Stephansson & Ryding, 2009, Saisto & Halmesmäki, 2003; Spice et al., 2009; Wijma, 2003; Mancuso et al., 2006; Lukasse et al., 2010; Handelzalts et al., 2015). Sembra che alcune donne siano più suscettibili di altre alla tocofobia: l’eziologia è multifattoriale e può essere associata a diverse combinazioni di fattori predisponenti, come suscettibilità all’ansia o a depressione, malessere nelle relazioni interpersonali, esperienza di abuso sessuale ed esperienza traumatica di un precedente parto (Storksen et al., 2012; Hodnett et al., 2011; Nieminen et al., 2009). Inoltre, alcune delle donne tocofobiche si sono descritte come sole o con bassa autostima (Saisto et al., 2003).

Demšar e colleghi hanno svolto uno studio sull’argomento con lo scopo di esaminare il costrutto psicologico perinatale della donna, di identificare la prevalenza della tocofobia e di determinarne i fattori di rischio. Gli sperimentatori hanno valutato 191 donne incinte durante i corsi di parto e genitorialità. È stato poi chiesto alle partecipanti di completare dei questionari relativi a depressione (Center for Epidemiological Studies – Depression, CES-D), ansia (State-Trait Anxiety Inventory), soddisfazione di vita (Satisfaction With Life Scale), aspettativa del parto e paure specifiche (Wijma Delivery Expectancy/Experience Questionnaire) (Radloff, 1977; Spielberger, 1983; Diener et al., 1985; Wijima et al., 1998).

Il 90% delle intervistate non aveva avuto precedenti gravidanze. Il 75% delle partecipanti ha riportato tocofobia da bassa a moderata, mentre il 25% ha mostrato una paura del parto alta o molto alta. La paura patologica si è verificata nell’1,6% delle partecipanti. Per ciò che concerne l’identificazione di fattori di rischio, dal precedente studio di Storksen e colleghi è emerso che la depressione è un miglior predittore di tocofobia rispetto all’ansia (Storksen et al., 2012), cosa che è stata osservata anche in questo studio, in cui il questionario per la depressione CES-D ha avuto il più alto potere predittivo per la tocofobia. È importante sottolineare che questo studio non aveva lo scopo di identificare ansia generalizzata e depressione esistenti prima del concepimento, infatti tutte le partecipanti erano in dolce attesa al momento della sperimentazione. Con questa ricerca scientifica, è stato anche stabilito che l’attività sessuale prima e durante la gravidanza può essere un buon predittore della paura del parto: sono emerse infatti differenze significative tra donne con e senza un’attività sessuale soddisfacente.

Tra le paure specifiche, quella più significativa consisteva nel temere un’episiotomia durante il parto, incisione chirurgica della vagina per allargare l’orifizio, seguita dalla paura di non avere alcun controllo sulla situazione, e dalla paura di provare un dolore intollerabile. È inoltre emerso che esiste un’associazione tra il favorire un parto cesareo e la presenza di tocofobia: le donne che avrebbero sicuramente optato per un parto naturale erano meno spaventate rispetto a quelle che avrebbero scelto un taglio cesareo. Insomma, più alta era la paura, più le donne tendevano a favorire il cesareo. L’importanza della paura del parto come pretesto per richiedere il cesareo è stata riconosciuta e studiata ripetutamente nel corso degli ultimi anni. L’attuale posizione internazionale è che non ci sono prove di alcun vantaggio di un cesareo elettivo senza indicazione. Tuttavia, i dati dimostrano che per alcune madri in attesa, l’opzione del parto vaginale è inconcepibile. È interessante notare che nella nostra popolazione, nonostante i progressi della medicina e della modernizzazione, la paura della morte durante il parto esista ancora.

Alla luce di ciò, è consigliabile che le donne mediamente o gravemente tocofobiche scelgano di svolgere un trattamento psicologico terapeutico e psicoeducazionale per superare la paura del parto; è altrettanto indicato informare il personale di assistenza su tale problema, al fine di evitare complicazioni. Ciò potrebbe favorire la creazione di un ambiente preventivo e supportivo, garantendo un approccio multidisciplinare, una cooperazione di tutti gli operatori sanitari e quindi una lineare conclusione della gravidanza.

 

Sluggish Cognitive Tempo – Il quinto episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema del quinto incontro è stato lo sluggish cognitive tempo, discusso dalla Dott.ssa Simona Scaini.

SLUGGISH COGNITIVE TEMPO

Videogiochi, benessere e salute mentale – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Report dagli interventi della Dott.ssa Carissoli “Can video games be used to improve people well-being? Suggestions from literature” e delle Dott.sse Mancini e Sibilla “A threat to health or a tool for well-being? Understanding the psychological implications of videogames”

 

Le tecnologie digitali positive offrono diverse opportunità di promozione di salute e benessere: i Videogames cominciano ad entrare a pieno titolo in questa categoria. Incoraggiando esperienze significative e trasformative agiscono sulle dimensioni emotive, psicologiche e sociali.

I videogiochi (VG) sono esperienze virtuali di intrattenimento ma non solo: permettono di migliorare le capacità e le competenze di problem solving e di creare relazioni. Sono esperienze con una narrativa e uno spazio per caratterizzare ed esprimere aspetti identitari; hanno sistemi di ricompensa/perdita ma anche di controllo (si può gestire delle risorse, per esempio), e aspetti sociali (si può far parte di gruppi e comunità). Essi sono quindi un ottimo terreno per sperimentare competenze ed abilità grazie a immersività, interattività e ricchezza narrativa.

Grazie ai videogiochi possiamo provare emozioni positive, ridurre dell’ansia, regolare le emozioni e l’umore, aumentare la resilienza, sperimentare stati detti di flow, instaurare relazioni che spesso si estendono al di fuori del contesto di gioco ed apprendere abilità sociali come collaborazione e negoziazione, mediazione e risoluzione dei conflitti.

Ricerche e studi sembrano confermare che questi media hanno un grande potenziale per il benessere. Competenze cognitive, gestione di stress e ansia, regolazione delle emozioni, abilità sociali e di comunicazione: diversi gli ambiti in cui sono stati utilizzati con successo.

Promuovere il benessere grazie ai videogiochi: alcune ricerche

Durante i due interventi, Carissoli, Mancini e Sibilla hanno illustrato i risultati di recenti ricerche. Mancini e Sibilla si sono dedicate allo studio di come i processi identitari definiscono il coinvolgimento nel gioco e favoriscono il benessere oppure, viceversa, la dipendenza. La loro ricerca longitudinale ha coinvolto 147 giocatori di massively multiplayer online role-playing games (MMORPG) con un questionario online. L’autostima emerge come un fattore predittivo importante che incide sul tipo di coinvolgimento nel gioco; i videogames non necessariamente sono usati in modo problematico: quando c’è una mancanza di soddisfazione offline i VG fungono da strumento di compensazione.

Videogames implicazioni per benessere e salute mentale Report ECDP Imm 1

Imm. 1 Claudia Cassiroli

Videogames implicazioni per benessere e salute mentale Report ECDP Imm 2

Imm. 2 Tiziana Mancini

Videogames implicazioni per benessere e salute mentale Report ECDP Imm 3

Imm. 3 Federica Sibilla

Il contributo della Carissoli si è focalizzato su due sue recenti ricerche. La prima ha coinvolto 500 adolescenti (età media 16 anni), con 4 profili delineati in base al tempo speso giocando per giorno (no-gamers, pochi minuti al giorno; low games, meno di 1 ora al giorno; medium gamers, 1-3 ore al giorno e hard gamers, più di 3 ore al giorno). Partendo dall’ipotesi che i VG incrementano l’autoefficacia emotiva e fanno diminuire le difficoltà nella regolazione emotiva, i risultati hanno mostrato che giocare 1-3 ore al giorno può portare ad un incremento in entrambe le dimensioni, mentre superare le 3 ore giornaliere non porta alcun beneficio.

Il secondo studio ipotizza che i videogiochi promuovono l’intelligenza emotiva. 121 studenti coinvolti di età media 14 anni hanno partecipato ad 8 incontri, di cui 6 di laboratori di training e 2 di follow up. La prima evidenza è che i videogiochi hanno permesso ai ragazzi di sperimentare le emozioni e i correlati fisiologici in un modo divertente che li ha aiutati a familiarizzare con i loro stati interni. Questo grazie ai training che li hanno aiutati ad avvicinarsi ai loro vissuti emotivi e a comparare le proprie emozioni con quelle degli altri.

In definitiva, i due studi hanno dimostrato che i VG possono aiutare a sperimentare emozioni positive e migliorare le strategie di regolazione emotiva. Le ricerche inoltre hanno mostrato che una attività di gioco moderata promuove il benessere emotivo. Contributi come questi aprono la porta a nuove ricerche ed interventi in cui i videogiochi si qualificano come strumenti positivi per il benessere individuale e sociale.

 

Anziani e sistemi di tutela: amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione

Spesso chi si occupa di persone non autosufficienti, come ad esempio anziani con demenza, deve rapportarsi con figure nominate dal giudice tutelare quali l’amministratore di sostegno, il curatore e il tutore.

 

Ma chi sono e in quali circostanze vengono nominate? È indispensabile avere chiari i sistemi di tutela per poter svolgere nella maniera più corretta possibile la propria professione. Un esempio pratico è il consenso informato, regolamentato dagli articoli 24 e 31 del Codice Deontologico degli psicologi italiani. A chi rivolgersi?

L’articolo 24 afferma che “lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce all’individuo […] informazioni adeguate e comprensibili circa le sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza. Pertanto, opera in modo che chi ne ha diritto possa esprimere un consenso informato […]”. Il consenso informato, infatti, può essere espresso solo se esistono due condizioni, ovvero la capacità di agire e la capacità di intendere e di volere. Nel caso in cui manchino queste condizioni l’articolo 31 del codice deontologico chiarisce che “le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela […]”.

È bene sapere che ognuno di noi, al momento della nascita, acquisisce la capacità giuridica (art. 1 codice civile) ovvero l’idoneità a essere titolare di diritti e obblighi. Differente, invece, è la capacità di agire, ovvero l’idoneità a esercitare i diritti e gli obblighi di cui si è titolare. Secondo il codice civile (art. 2) quest’ultima capacità si acquisisce con la maggiore età, a prescindere dalle proprie effettive capacità cognitive o psico-fisiche. Essa può, però, subire delle limitazioni (infermità, prodigalità, dipendenze, minorazioni fisiche) se non sorretta da un’adeguata capacità di intendere e volere o da un’idoneità psico-fisica che consenta il compimento, in autonomia, degli atti di vita. In questi casi è previsto il ricorso a misure di protezione giuridica al fine di tutelare l’interesse della persona. Infine, con capacità di intendere e volere si intende la capacità di comprendere il significato delle proprie azioni e di autodeterminarsi (art. 428 c.c.).

Nel caso, quindi, di anziani con demenza è chiaro che con il progredire della patologia si assiste a una perdita graduale della capacità di intendere e di volere tale per cui è necessario ricorrere ai sistemi di tutela.

Prima di approfondire le figure di tutore, curatore e amministratore di sostegno è utile prendere in considerazione le importanti modifiche introdotte dalla legge 6/2004, con la “finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”. Tale legge ha introdotto la figura dell’amministratore di sostegno e ha modificato le norme circa l’interdizione e l’inabilitazione.

Inoltre, la legge 219/2017 contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” fornisce chiarimenti circa la gestione del consenso informato in caso di interdizione, inabilitazione o amministrazione di sostegno.

Amministrazione di sostegno

Ai sensi della legge 6/2004 e dell’articolo 404 del codice civile, l’amministratore di sostegno viene nominato con decreto del giudice tutelare quando “la persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”.

La richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno può essere presentata direttamente al giudice tutelare da parte del beneficiario stesso, del coniuge o convivente, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, del pubblico ministero, del tutore o curatore e dei responsabili dei servizi socio-sanitari impegnati nella cura e assistenza della persona (art. 406 c.c.). Il decreto di nomina indica i poteri di rappresentanza o di assistenza dell’amministratore di sostegno che limitano la capacità di agire del beneficiario solo per tutti quegli atti che formano oggetto di amministrazione di sostegno. Se, ad esempio, l’amministratore di sostegno ha l’incarico di gestire in nome e per conto del beneficiario il conto corrente di quest’ultimo, il beneficiario stesso perderà la capacità di agire limitatamente alla gestione del proprio conto corrente. L’amministratore di sostegno è tenuto a rispettare le aspirazioni e i bisogni del beneficiario, a informarlo circa gli atti da compiere, a informare il giudice tutelare in caso di dissenso col beneficiario e a presentare periodicamente al giudice tutelare una relazione sull’attività svolta.

Per quanto riguarda la scelta dell’amministratore di sostegno, il giudice tutelare deve tenere in considerazione gli interessi del beneficiario e la persona designata da quest’ultimo. Se, però, si presentano gravi motivi, il giudice tutelare può non nominare la persona indicata dal beneficiario e nella scelta dovrà preferire, se possibile, il coniuge o convivente e parenti entro il quarto grado.

Interdizione

Con le modifiche apportate dalla legge 6/2004, l’art. 414 del codice civile afferma che “il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizione di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.

Con la sentenza di interdizione il giudice tutelare nomina la figura del tutore quale rappresentante legale dell’interdetto. Quest’ultimo perde la capacità di agire rispetto ad atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, venendo così sostituito in tutto e per tutto dal tutore.

Inabilitazione

L’inabilitazione è un istituto del diritto civile che esclude parzialmente il soggetto dalla capacità di agire, tramite l’affiancamento di un curatore. Secondo l’articolo 415 del codice civile “il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da dar luogo all’interdizione, può essere inabilitato”. L’inabilitato può compiere autonomamente atti di ordinaria amministrazione mentre necessita di affiancamento da parte del curatore per tutti gli atti di straordinaria amministrazione. Dunque, il curatore non è rappresentante legale del beneficiario e non si sostituisce a questi ma deve firmare gli atti di straordinaria amministrazione insieme all’inabilitato.

Esistono, dunque, grosse differenze tra i tre istituti e il professionista deve sempre verificare quali siano le disposizioni del giudice tutelare al fine di individuare meglio i poteri conferiti e se essi si estendono anche all’ambito sanitario, appartenente agli atti “personalissimi”. A tal proposito, la legge 219/2017 chiarisce che il consenso informato della persona interdetta “è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l’interdetto ove possibile, avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona nel pieno rispetto della sua dignità”, in caso di inabilitazione invece “il consenso informato della persona inabilitata è espresso dalla medesima persona inabilitata”. Infine, in caso di amministrazione di sostegno tutto dipende dagli atti per i quali tale figura è stata nominata e “il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere”.

 

I cani non sono pinguini non sono cani – Rubrica Psico-canzoni

Il titolo del seguente articolo riprende quello dell’omonimo album de I Cani e viene utilizzato poiché di seguito è riportato un confronto tra il brano de I Cani Come Vera Nabokov e Ridere dei Pinguini Tattici Nucleari. In entrambe ricorre un tema: la dipendenza nutrita nei confronti della rappresentazione mentale del partner, poggiata sull’aspettativa del riconoscimento della propria unicità.

Psico-canzoni – (Nr.8) I cani non sono pinguini non sono cani

 

 Alcune canzoni di giovani band musicali toccano corde molto sensibili dell’individuo, trovano il modo di raccontare emozioni e sentimenti comuni a tutti, pur se vissuti da ognuno in modo differente. Tra questi gruppi i Pinguini Tattici Nucleari e I Cani spiccano in quanto con parole estremamente semplici e un ritmo leggero ed originale riescono ad arrivare emotivamente ad un vasto pubblico. La semplicità talvolta è la chiave che permette di aprire anche i portoni più resistenti.

Come Vera Nabokov de I Cani e Ridere dei Pinguini Tattici Nucleari sono due brani che raccontano storie diverse ma vertono sullo stesso tema: la dipendenza dalla rappresentazione mentale che abbiamo dell’altro, ricolma in ambedue i casi dell’aspettativa di conferma della propria unicità.

Io da solo non riesco più. E non è avere vent’anni e non è avere gli esami, fidati è qualcosa in più. Quel qualcosa in più

cantato da Niccolò Contessa, leader de I Cani, è la motivazione inesprimibile a parole che dona e al contempo condanna l’oggetto d’amore ad assumere la funzione di riconoscimento del proprio Sé. L’immagine dell’altro diviene colma di così tanta aspettativa e la relazione tanto fusionale da chiedergli:

basta che mi prometti di andare in giro con la pistola per difendermi, e di tagliarmi la carne da mangiare nel piatto come Vera Nabokov. 

Anche Riccardo Zanotti, cantante dei Pinguini Tattici Nucleari, descrive questa dinamica, presente in questo caso ancora durante la separazione dalla ragazza:

però tu fammi una promessa che un giorno quando sarai persa, racconterai a qualcuno cosa siamo stati noi.

In base ad entrambi i testi sembra esistere dentro i protagonisti la speranza di occupare un posto unico nel cuore di qualcuno. Così, sia che si rimanga insieme sia che si scelga di separarsi, quella dipendenza rimane, ma non dal reale individuo amato, ma dal ruolo attribuitogli.

Nel caso specifico, troviamo un primo innamorato che ha bisogno di protezione da parte della partner, dove protezione è sapere di poter appoggiare la testa sulla spalla dell’altro e al contempo di venire prima di qualsiasi cosa per quella persona.

Di andare in giro con la pistola per difendermi

rivela un bisogno di co-dipendenza, dove chi porta l’arma è disposto a sacrificarsi facendo piazza pulita intorno a sé, avendo come premio quello di mantenere l’amato accanto.

Il protagonista di Ridere esprime col non verbale della risata la difficoltà a pensarsi separato dall’amata, pur se ormai hanno scelto di rimanere fisicamente distanti:

ed un po’ mi fa ridere se penso che ora c’è un altro che ti uccide i ragni al posto mio.

E pur se separato dalla ragazza reale, il protagonista non può fare a meno di dipendere dalla sua rappresentazione, così tanto da chiedere a quell’immagine che ha di lei la promessa più grande d’amore che si possa fare a qualcuno, ovvero tenerlo per sempre un posto riservato a lui nel proprio cuore:

però tu fammi una promessa che un giorno quando sarai vecchia racconterai a qualcuno cosa siamo stati noi.

Entrambi i brani raccontano l’umano bisogno dei protagonisti di sentirsi unici per le persone che amano, affinché queste possano conferire loro il valore che per primi non si riconoscono. Del resto, chi almeno una volta nella vita non è riuscito a riconoscere la propria unicità, tanto da cercare conferma in un legame fusionale?

 

COME VERA NABOKOV – Ascolta il brano:

 

RIDERE – Ascolta il brano:

 

Recensione del gioco Family Party

Family Party è un gioco ideato da Alberto Pellai, ideato per aumentare il senso di appartenenza alla famiglia.

 

Family Party un gioco a cui si può partecipare fino a 6 giocatori con una longevità di circa 30-40 minuti.

Ogni confezione ha delle aree di sfida divise in tre ambiti: mente, corpo, cuore. Completeranno la dotazione delle carte bonus, carte situazioni, carte parola (sostantivo, verbo, aggettivo), una clessidra e delle trottole.

L’obiettivo che Pellai vuole far raggiungere è rafforzare tramite questo party game i legami familiari, far sentire coesi tutti i membri della famiglia e passare una serata in compagnia dei propri cari investendo nel gioco il proprio tempo e rapporto.

Il target familiare è subito desumibile dal particolare ruolo che viene affidato al più piccolo giocatore, che si troverà più spesso ad iniziare per primo un nuovo turno e godrà di una agevolazione per la scelta del vincitore a parità di punteggio.

Il gioco prende il via con il pescaggio di una carta Sfida dal mazzo, sfida che può essere affrontata in solitaria, in coppia o tutti insieme. Anche il tempo gioca un ruolo essenziale, poiché ciascuna sfida andrà completata entro il termine indicato dalla carta. Una trottola e una clessidra saranno due delle varie modalità per scandire il tempo: gli obiettivi andranno completati entro lo svuotamento della clessidra o entro la fine del trottolio della trottola. I giocatori si sfidano fino a quando si esaurirà il mazzo, al termine del quale si procederà al conteggio dei punti in base al maggior numero di sfide portate a termine correttamente. A parità di punti vincerà il più piccolo. Un gioco tanto semplice quanto divertente che offrirà vari spunti di confronto tra genitori e figli, imparando l’importante compito di vivere con gli altri e di giocare con gli adulti.

 

Memoria: i confini degli eventi e la chiusura concettuale della mente umana

Mentre la nostra esperienza nel mondo può sembrare continua, prove recenti suggeriscono che questa venga automaticamente segmentata e codificata in memoria a lungo termine come un insieme di eventi discreti (Zacks e Swallow, 2007; Kurby e Zacks, 2008).

 

La segmentazione degli eventi è un processo importante nella codifica della memoria a lungo termine, con prove che indicano che le esperienze che si verificano in concomitanza degli eventi vengono meglio riconosciute successivamente (Swallow et al., 2009).

A tutti è capitato di entrare in una stanza e di dimenticarsi il motivo per cui si è andati lì. Gabriel Radvansky (2006) è un ricercatore francese che ha condotto degli esperimenti per comprendere al meglio questo fenomeno curioso, introducendo il concetto di confine dell’evento (event boundary). In un esperimento, Radvansky ha osservato un aumento nella percentuale di errore nella risposta dei soggetti. Nello specifico, ha testato la capacità dei partecipanti di richiamare vari ricordi durante il passaggio da una stanza all’altra, osservando come tale fenomeno sia correlato all’azione di passare attraverso la porta. Radvansky (2006) osservò come il cervello umano associ degli eventi vissuti agli ambienti in cui sono emersi, di conseguenza cambiare scenario può incrementare la possibilità di attivare altri scenari mentali che portano alla dimenticanza dei precedenti.

Studi di neuroimaging hanno mostrato una maggiore attività nell’ippocampo e in altri nodi della rete di default mode (DMN) quando si incontra un confine di evento. Silberstein e colleghi (2020) dimostrarono che la misura della topografia a stato stazionario (SST) dell’attività cerebrale in un sito del cuoio capelluto frontale inferiore sinistro è correlata con la forza della codifica della memoria a lungo termine. Più recentemente, gli stessi autori hanno notato che i confini degli eventi che si presentano come stimoli naturalistici, quali le pubblicità televisive, innescano un calo transitorio dell’attività nei siti del cuoio capelluto frontale inferiore, un effetto che definirono “chiusura concettuale”. Silberstein e colleghi (2020) esaminarono l’impatto dei confini degli eventi sulla codifica della memoria a lungo termine. La motivazione di questo studio è emersa dall’osservazione degli autori stessi sull’attività cerebrale correlata alla codifica della memoria a lungo termine durante la visualizzazione di stimoli come pubblicità o programmi televisivi. In questo studio, le misure SST dell’attività cerebrale sono state registrate in 50 partecipanti maschi.

Attraverso un software multimediale, ogni partecipante ha visitato dieci sale di una galleria d’arte virtuale: all’interno di ogni stanza erano presenti tre dipinti famosi ed ogni soggetto poteva trascorrere massimo 35 secondi all’interno di ogni sala. Le misurazioni sono state svolte attraverso degli occhiali, con lo stimolo di uno sfarfallio sinusoidale composto da una profondità di modulazione del 45%, con un angolo orizzontale di 160° e uno verticale di 90°. Tale stimolo è utile per evocare lo SSVEP (stato stazionario del potenziale visivamente evocato), una risposta con una frequenza che permane per un intervallo temporale più lungo della durata di un singolo ciclo di stimolazione (Picton et al., 2002). Grazie a tale risposta, gli autori hanno ipotizzato che il passaggio da una stanza all’altra sarebbe servito come confine di evento, utile ad innescare un aumento dell’attività ippocampale e DMN, riducendo di conseguenza l’attività nelle reti positive del compito in prossimità della corteccia frontale inferiore, provocando così il fenomeno della chiusura concettuale. Per quanto riguarda l’attività elettrica celebrale, la registrazione è stata effettuata attraverso l’applicazione di 20 elettrodi sul cuoio capelluto. I risultati ottenuti hanno confermato l’ipotesi, in quanto l’aspetto della porta tra le stanze della galleria è associato ad un calo significativo dell’attività cerebrale nel sito del cuoio capelluto frontale, quindi ad una chiusura concettuale. Infine, gli autori hanno valutato l’impatto reale della chiusura concettuale considerando l’efficacia commerciale di una pubblicità televisiva che esponeva la chiusura concettuale stessa nei punti di branding. Nello specifico, l’annuncio televisivo è stato rieditato ad ogni partecipante due volte per ridurre al minimo la chiusura concettuale, soprattutto nel momento in cui il marchio pubblicitario era in primo piano. Ridurre al minimo la chiusura concettuale al momento del branding e del messaggio chiave è stato associato a una significativa maggiore efficacia commerciale della pubblicità.

Considerando la chiusura concettuale legata al tipo di informazione trasmessa alla popolazione, si nota come la pubblicità sia uno strumento potente e che può influire sulla memoria degli spettatori più di quanto si possa pensare.

 

La fame: un complesso equilibrio tra bisogni ed emozioni – VIDEO dal Webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Che relazione esiste tra le emozioni e l’alimentazione? Quali possono essere i campanelli d’allarme di un rapporto problematico con il cibo? Quali sono le possibili strategie per costruire un rapporto più sereno e consapevole?

 

Il cibo viene spesso utilizzato come uno strumento di gestione delle difficoltà emotive. Ma che relazione esiste tra le emozioni e l’alimentazione? Quali possono essere i campanelli d’allarme di un rapporto problematico con il cibo? Quali sono possibili strategie per costruire un rapporto più sereno e consapevole?

Il webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre si è proposto come un percorso guidato all’interno dell’intricato rapporto tra il cibo e le emozioni. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

Durante l’incontro sono stati trattati i seguenti argomenti:

  1. Cosa sono le emozioni, cosa vogliono comunicarci e che rapporto hanno con i nostri bisogni?
  2. La differenza tra fame fisica e fame emotiva
  3. Le basi neurobiologiche del piacere e del controllo
  4. I rischi di comportamenti di controllo sull’alimentazione: quali sono gli effetti?
  5. Pillole di riconoscimento emotivo e strategie di gestione.

Il webinar è stato condotto dalle dott.sse Sylvia Schifano e Marta Ferrari.

 

La fame: un complesso equilibrio tra bisogni ed emozioni
Guarda il video integrale del webinar:

 

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