ll poster propone una metodologia di studio che intende indagare natura, limiti e potenzialità di un approccio finalizzato a comprendere le possibili conseguenze che l’utilizzo degli effetti e dei filtri nelle stories di Instagram possano determinare a carico di users e viewers.
Molti studi in letteratura sottolineano l’impatto negativo di Instagram sulla salute mentale, evidenziandone i fattori di rischio e le possibili derive sintomatologiche nell’utente quali depressione, ansia, disturbi alimentari, distorsione del sé corporeo, sensazione di inadeguatezza e bassa autostima. Fino ad ora, principalmente le donne sono state al centro degli studi sui social media, specie se relativi all’effetto sull’immagine corporea.
L’argomento affrontato nasce dalla necessità di indagare il possibile impatto psicologico che potrebbe avere il recente trend dell’utilizzo degli effetti e filtri nelle stories di Instagram, indipendentemente dal sesso degli users.
A seguito dell’analisi della letteratura esistente è stata condotta una classificazione dei disturbi e/o dei fattori di rischio più frequenti riconducibili direttamente all’uso dell’opzione effetti e filtri delle stories di Instagram.
Si è riscontrato che l’uso dei filtri Instagram, specialmente, il “plastic surgery effects”, può far emergere una distorta rappresentazione di sé e degli altri, bassa autostima e ripercussioni su senso identitario, percezione corporea, umore e ansia.
Si tratta di conclusioni ancora parziali che si devono inquadrare solo ed esclusivamente in un’ottica di una ricerca embrionale che ha necessità di estendersi.
Videogames e Digital gaming – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021
Nella seconda giornata dell’European Conference on Digital Psychology 2021 un’intera sessione è stata dedicata al digital gaming ed ai videogames.
Oltre agli interessanti contributi della Session 1 Videogame, nella Parallel Session 2 Videogames si affrontano i temi di digital gaming, gamification e Serious Games.
Il primo intervento Motivational design and gamification, people’s change for the better del prof. Oscar Garcia Pañella (Universitat de Barcellona) si caratterizza come un intervento introduttivo di ampio respiro nel considerare il digital gaming come esperienza ludica che ha rilevanti opportunità in termini di engagement emotivo-motivazionale.
In particolare, in questa fase storica in cui l’attuale situazione di emergenza sanitaria da Covid-19 è protagonista nella nostra quotidianità, si sottolinea l’accelerazione dell’impiego della tecnologia su molteplici fronti. In tal senso, il concetto di gamification, inteso come design e impiego di giochi digitali per la formazione di abilità-competenze assume sempre maggiore rilevanza. La connessione tra psicologia e tecnologia sta anche nel progettare esperienze di gaming che tengano in considerazione la prospettiva motivazione dell’utente per favorirne esperienze che siano divertenti e coinvolgenti dal punto di vista emotivo e motivazionale. Garcia Pañella fa riferimento al concetto di “participatory design” nella progettazione e realizzazione di Serious games e digital gaming che coinvolgano l’utente stesso nella co-creazione dell’esperienza di gaming.
Imm. 1 Prof. Oscar Garcia Pañella
Segue l’intervento della prof. Birgit Ursula Stetina (Sigmund Freud University di Vienna) che presenta alcuni studi effettuati dal suo gruppo di ricerca sul tema dell’Online Gaming Disorder e sintomatologia clinica nei videogamers con un intervento dal titolo Online Gaming Disorder and clinical problems – an accurate picture of the typical gamer? Dependence and clinical problems as outdated concepts in a new world of gaming?.
Chiedendosi se l’online gaming può essere pericoloso, Stetina prende le distanze da atteggiamenti di demonizzazione e di patologizzazione a-prioristica del digital gaming: il gioco rappresenta un fenomeno presente da sempre nella nostra quotidianità e nelle diverse fasi di vita, sia nelle sue forme ricreative che nelle sue finalità di apprendimento.
In linea con questa premessa, si sottolinea che diversi studi presenti in letteratura dimostrano che soltanto un numero limitato di gamers soddisfano i criteri per la diagnosi di gaming disorder (es. Internet Gaming Disorder) o di altre forme patologiche di dipendenza da Internet.
A partire dal 2014 anche una serie di studi quantitativi del gruppo di ricerca austriaco ha indagato i trend di relazione tra i generi dei videogames (MMORPG, MOBA, Shooter, casual games, action role-play games, etc), gli aspetti clinici psicopatologici (es. Internet Gaming Disorder, ansia sociale, depressione, etc), la motivazione al gioco da parte degli users e le differenze di genere in un mondo di digital online gaming dominato del genere maschile. Gli studi presentati hanno coinvolto ampi campioni di gamers, e hanno utilizzato diversi questionari self-report, tra cui IGD-20, Gaming Motivation Scale (Yee, 2006), (eg Pontes et al. 2014) e altre scale cliniche.
In generale, i risultati dei diversi studi presentati evidenziano che solo una bassa percentuale di partecipanti presenta una sintomatologia psicopatologica clinicamente rilevante. Tuttavia, considerando la variabile di differenze di genere si evidenziano differenze significative tra maschi e femmine: le gamers di genere femminile presentano in maniera statisticamente significativa minori sintomi psicopatologici rispetto alla controparte maschile. In relazione alla motivazione che spingerebbe i gamers, la cosiddetta “game play motivation” nelle diverse tipologie di videogames sembra essere un costrutto importante da considerare nel comprendere il complesso fenomeno del gaming nelle sue forme più problematiche e disfunzionali.
Il terzo intervento dal titolo Serious Games in Psychotherapy: Effectiveness and willingness of use of psychotherapists and patients – tenuto Christiane Eichenberg (Sigmund Freud University Vienna) entra nel merito dell’aspetto educativo e terapeutico del digital gaming, analizzando in particolare gli atteggiamenti riguardo l’uso effettivo e potenziale dei Serious games in ambito psicoterapico.
Imm. 2 Christiane Eichenberg
Nel mondo della E-Mental Health la presenza dei Serious Games a scopo psicoterapeutico è ancora minoritaria sia in termini di conoscenza che in termini di effettivo utilizzo. Eichenberg, con grande chiarezza espositiva, non dà per scontata la definizione di Serious Games (intesi come giochi digitali interattivi che hanno come obiettivo il training di skills e competenze cognitive o comportamentali in un contesto di apprendimento digitale) e presenta una veloce panoramica di disturbi mentali per i quali in letteratura sono presenti alcuni Serious Games (SG), quali ad esempio PTSD, disturbi d’ansia (come ad esempio il SG “Camp- Cope- A-Lot”) e depressione. Riferendosi a una review pubblicata a suo nome, Eichenberg spiega che seppure vi siano pochi studi empirici sull’efficacia dei SG in psicoterapia, vi sarebbero tendenze positive a supporto dell’utilizzo dei SG nel trattamento di alcuni disturbi mentali (ad esempio disturbi d’ansia, depressione). Tuttavia, circa la metà di questi studi soffrono di importanti limiti metodologici, tra cui primo tra tutti la carenza di gruppi di controllo e numerosità dei campioni ridotte. Eichenberg nella parte centrale del suo intervento espone un’interessante ricerca sul livello di conoscenza e consapevolezza, sulle credenze, atteggiamenti e intenzioni di uso dei Serious Games, sia nei terapeuti che nei pazienti considerando quindi entrambi gli attori della psicoterapia. Quali sono la conoscenza e le opinioni che pazienti e terapeuti hanno del mondo dei Serious Games? Sarebbero pronti a fruirli come strumenti adiuvanti la psicoterapia? Quali vantaggi e svantaggi sono percepiti al riguardo?
Partendo da due online surveys (cf. Eichenberg, Grabmayer & Green, 2016), sono stati reclutati pazienti e terapeuti in diversi paesi Europei e non. Soltanto il 10% degli psicoterapeuti e dei pazienti residenti in paesi germanofoni conoscono i Serious Games o ne hanno sentito parlare; tuttavia ben il 90% di questo campione, una volta adeguatamente informato su cosa è un Serious Games, sarebbe poi propenso a utilizzarlo e a fruirlo nell’ambito della salute mentale, sia per obiettivi di prevenzione che di trattamento vero e proprio come strumento adiuvante nel corso della terapia e nella fase di follow-up. Un profilo decisamente differente da quello della Nuova Zelanda, ad esempio, in cui il 53% dei terapeuti e il 23% dei pazienti dichiarano di sapere che cosa sono i Serious Games e di essere consapevoli di un loro possibile utilizzo in psicoterapia.
L’intervento si conclude con l’auspicio di un aumento di trial clinici randomizzati che possano verificare l’efficacia e le modalità di utilizzo dei SG nel trattamento dei disturbi psichici, e parimenti si sottolinea l’importanza di campagne di sensibilizzazione e di dissemintation rivolte alla diade terapeuta-paziente riguardo alle funzioni e possibili applicazioni dei Serious Games nell’ambito specifico della psicoterapia.
Quantomeno un’ombra racconta di una luce – Recensione della serie SanPa
Dal punto di vista strettamente descrittivo il docufilm SanPa analizza il progetto di Muccioli attraverso una sequenza storica degli eventi che si sono susseguiti fino al 1995 e che hanno strutturato le convinzioni e le metodologie con cui accogliere persone con una dipendenza patologica a San Patrignano.
Quando il complesso tema della dipendenza patologica si presenta davanti agli occhi delle persone, sembra che arrivi un’iniezione di argomenti pronta a colmare una prolungata astinenza. Come spesso accade è un evento eclatante, una storia estrema, un abuso di potere o un desiderio di sentenze moralistiche a scatenare la discussione sulla dipendenza patologica. In questa occasione è stato un interessante documentario ad accendere i riflettori su quei luoghi che restano incastrati nel buio, su quelle persone che possono restare al buio per tutta la vita. L’esplosione del dibattito è stata simile a quella che si sente quando finalmente si scopre un segreto, quando si può svelare ciò che avevamo nascosto, quando qualcuno ci racconta il suo dolore e noi possiamo rispondere “anche io”.
Il documentario su San Patrignano va analizzato con particolare attenzione al periodo storico e culturale in cui Vincenzo Muccioli costruiva la Comunità, non si può prescindere dalla conoscenza, le informazioni e le convinzioni sui “tossici” che prevalevano sia dal punto di vista clinico sia dal punto di vista dell’opinione pubblica. Non si può prescindere dal fatto che alcune di quelle convinzioni siano presenti ancora oggi e rendano la possibilità di avallare certi sistemi un’eventualità quasi peggiore dell’averli applicati.
Alla fine degli anni ’70 era ancora presente il costume del matrimonio riparatore, solo nel 1981 venne abolita legalmente la possibilità per uno stupratore di fruire del beneficio di legge offrendo il matrimonio alla donna. Solo nel 1996 lo stupro da reato “contro la morale” viene riconosciuto in Italia come “reato contro la persona”. Questo per dire che segregare (o ritenere questa pratica un mezzo di cura utile) un tossico viziato, disubbidiente e colpevole della sua malasorte, non era così difficile da far passare come un atto accettabile o addirittura salvifico. Questo per dire che togliere il problema dagli occhi della gente poteva sostituire il difficile tentativo di impegnarsi a curarlo.
Quando ho visto il documentario ho cercato di separare la mia riflessione. Da una parte mi sono soffermato sull’idea di costruire un luogo di accoglienza e comprensione per persone con una dipendenza patologica, luogo in cui ricostruire la propria vita, confrontandosi e relazionandosi come non avevano potuto fare prima. Dall’altra parte ho ritenuto importante analizzare il come questo tipo di proposta viene percepito da chi la offre e da chi ne usufruisce.
Senza dubbio, tossici emarginati e famiglie devastate dalla gravità della dipendenza hanno trovato un contesto in cui incontrarsi, un posto dove separarsi, proteggersi e avere l’opportunità di interrompere l’uso di sostanze a vantaggio dell’uso dei rapporti umani, delle parole. Quei “ragazzi” hanno trovato un posto in cui qualcuno poteva farli esprimere e quelle famiglie hanno potuto trovare qualcuno che non le lasciasse in balia di crisi d’astinenza incomprensibili e aggressive.
Ecco, se ci si fosse fermati a questo non avrei altro da dire.
Dal documentario emerge, come accade spesso ancora oggi, il tentativo, l’obiettivo di salvare i tossici. La prima frase all’inizio del docufilm recita così:
Con lo stato impotente, un uomo vuole salvare i tossicodipendenti…con ogni mezzo necessario…
Se usassimo il verbo salvare per qualsiasi altra patologia, la frase in questione non avrebbe alcun senso, se mettessimo diabetici, cardiopatici, depressi, schizofrenici, …al posto di tossicodipendenti non ci sarebbe una logica in quella affermazione. Ora, il fatto che alla fine degli anni ’70 si potesse avere questa impostazione mi sembra del tutto accettabile, mi sembra coerente con la percezione del tossico e con le conoscenze scientifiche che si possedevano in quegli anni. Oggi (in realtà da qualche anno), considerare questa impostazione non solo condivisibile ma solo opinabile, non può più essere ammesso, non si può ancora oggi ritenere discutibile un tipo di definizione metodologica come questa, non si può più tralasciare l’enorme cambiamento conoscitivo sulla dipendenza patologica, cambiamento che ci permette di acquisire competenze e metodi di intervento adeguati.
Affrontare la patologia di una persona con l’intento di salvare la persona e non di curare la patologia di cui la persona soffre, non può essere il punto di partenza con cui approcciarsi alla dipendenza patologica, non può rappresentare l’elemento decisivo per inquadrare una patologia così totalizzante che coinvolge l’intera esistenza di un essere umano. Una patologia che si diffonde dalle ataviche pulsioni dell’uomo, coinvolgendo la ribellione, la libertà, la società, la ricerca di un posto del mondo, la speranza di essere amati e il senso stesso della vita.
In molte discussioni che ho ascoltato e a cui ho partecipato in merito al documentario su San Patrignano, emergono temi contraddittori che confermano, almeno ai miei occhi, le distorte convinzioni sui tossicodipendenti e la scarsa percezione della complessità in cui si inserisce la dipendenza patologica. Come funzionano i tossici, perché si drogano, come aiutarli quando non vogliono essere aiutati, sono in grado di intendere e di volere, è giusto fermarli con ogni mezzo, si possono punire persone che esprimono i sintomi di una malattia, è una malattia, sono liberi di potersi drogare, sono dei criminali, le famiglie cosa possono fare, di chi è la colpa se si drogano… Una serie di temi che hanno bisogno di risposte complesse, individualizzate sul singolo caso, differenziate in base alla storia di ogni individuo e che invece, ancora oggi, si limitano a semplicistiche valutazioni personali, a opinioni senza fondamenti epistemologici. Temi che a volte raggiungono picchi filosofici su argomenti come la libertà individuale, il libero arbitrio, la scelta di come condurre la propria vita o di disporre della propria morte. Temi che (per riprendere le affermazioni di Fabio Cantelli) non possono essere affrontati con formule dicotomiche ma che vanno inquadrati in quella area dell’esistenza piena di sfumature oscure, priva di risposte definitive e riluttante alle risposte semplici.
Ancora oggi la percezione del tossico contiene una serie di convinzioni e pregiudizi che eludono una corretta comprensione del problema e possono anche minare la pianificazione di un intervento terapeutico funzionale. Anche tra gli addetti ai lavori siamo costretti a precisare delle convinzioni personali prima di descrivere la dipendenza patologica: cosa pensi del metadone, sei favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, deve toccare il fondo per capire la sua situazione, è una malattia cronica e recidivante, come permettere alle persone di avere rapporti sessuali durante i percorsi terapeutici in Comunità, posso trattenerlo se decide di interrompere un percorso terapeutico in Comunità.
Posso pensare che in Comunità togliere le sigarette sia utile per far capire ad una persona che non deve drogarsi? Coltivare i campi è un modo per arginare il suo desiderio di sostanze?
E’ molto complesso rispondere a queste domande perché vanno a toccare più aspetti contemporaneamente. Ad esempio coltivare i campi non riduce il desiderio dell’eroina, ma favorisce la costruzione di nuove capacità che a quella attività sono correlate. La costanza nel mantenere un impegno, la forza di continuare a fare una cosa anche se non ti va, la pianificazione di una giornata in base a degli impegni e non in base allo sbattersi per una dose, confrontarsi con il senso del dovere e la responsabilità, imparare che la libertà all’interno di un contesto ha a che fare con il rispetto delle regole di quel contesto, che la convivenza richiede la condivisione e la difesa di valori comuni. Tutte cose che possono essere utili per vivere e non solo per non farsi. Barattare il ricordo dell’eroina e la sua istantanea capacità di alleviare il dolore, colmare la vergogna di essere nati e far rispettare le regole contando le sigarette ad un tossico, invece, non induce cambiamenti eclatanti.
Dal punto di vista strettamente descrittivo il docufilm SanPa analizza il progetto di Muccioli attraverso una sequenza storica degli eventi che si sono susseguiti fino al 1995 e che hanno strutturato le convinzioni e le metodologie con cui accogliere persone con una dipendenza patologica a San Patrignano. Sarebbe anacronistico a tal proposito esaminare le differenze nelle caratteristiche dei tossici degli anni ’80 e nelle tematiche esistenziali tipiche di quegli anni con le espressioni fluide e meticce con cui oggi si manifesta la dipendenza patologica. L’opportunità che invece offre l’impatto del docufilm sugli spettatori sta nel poter affrontare il tema della “droga” e soprattutto delle persone che ne fanno uso, confrontandosi sui metodi terapeutici e le definizioni cliniche che spesso si limitano ancora oggi a “terapie del secondo me”, strategie di sorveglianza, essere buoni o cattivi, seguire guru paternalistici.
Sarebbe bello, almeno per me, e forse anche utile per i tossici, poter condividere e discutere di interventi terapeutici coerenti con le loro esistenze, con i loro tentativi di sopravvivenza, con la loro paura di fidarsi, con il loro contraddittorio modo di prendersi cura di se stessi, con la loro incapacità di credere in qualcosa e, per questo, inclini a non credere più a niente. Avrebbe senso cominciare a riflettere sul fatto che una persona dipendente da sostanze, ma anche chi usa sostanze in modo compatibile con una vita sociale funzionale, è un ottimo specchio della società tutta, degli effetti che un certo tipo di concezione del mondo produce sulla vita di tutte le persone. Avrebbe senso discutere delle differenze che esistono tra le sostanze stupefacenti, che non tutte le persone che si sono fatte una canna si faranno una pera (strano ripetere ancora questa affermazione nel 2021), che non tutte le persone che usano una volta una sostanza diventano dipendenti da quella sostanza, che una storia di dipendenza patologica non si limita a superficiali sperimentazioni o esibizioni adolescenziali, che toccare il fondo ti fa venire voglia di cercare una pala.
Io lavoro in una Comunità Terapeutica e, con i nostri pazienti, abbiamo deciso di vedere il documentario insieme per confrontarci e favorire una discussione condivisa.
Forse la dipendenza patologica è l’unica patologia (cioè studio della sofferenza) che non viene spiegata a chi ne soffre. In genere, quando ci si ammala di qualcosa, abbiamo la possibilità di ricevere una precisa descrizione di ciò che abbiamo, di come funziona e si evolve il nostro disturbo, sia esso organico o psicopatologico. Per questo vedere insieme ai diretti portatori sani (cioè tossici che non stanno facendo uso di sostanze) il documentario, ci è sembrato un’opportunità ricca di “spunti” di vista e di confronti costruttivi.
In Comunità ci sono 25 pazienti, noi li chiamiamo pazienti e non “ragazzi” perché alcuni di loro hanno più di 30 anni e continuare a chiamare ragazzi persone che sono uomini ci sembra poco rispettoso. Inoltre, dato che siamo piuttosto petulanti sul significato delle parole, il termine paziente deriva dal latino patiens, il participio presente del verbo pati con cui si intende “sofferente” o “che sopporta”. In questo modo possiamo dare più valore alla sofferenza che c’è intorno ad una dipendenza patologica, alle devastanti conseguenze che si sopportano in quelle condizioni. Infine, ci permette di considerare la tossicodipendenza come una soluzione e non come il problema, una soluzione al dolore che produce ulteriori sofferenze da sopportare.
L’abuso di sostanze stupefacenti che induce ad una dipendenza patologica è un modo più o meno consapevole per risolvere un disagio interiore, “la droga” funziona come una soluzione ad un problema antecedente, ad una percezione di impotenza di fronte alla realtà, ad una solitudine inspiegabile o alla sostituzione di un piacere introvabile.
In pratica: il problema non è la droga in sé, ma la droga in te.
Anche per questo motivo i pazienti che hanno una dipendenza patologica non arrivano ad una consultazione o a richiedere aiuto perché il loro problema è drogarsi, ma perché drogarsi è l’unica soluzione che hanno per affrontare o sospendere temporaneamente il loro dolore. Per questo motivo il terapeuta diventa un’intromissione tra il disagio che il paziente avverte e la soluzione che ha a disposizione. L’alcolista sa che il suo malessere (problema) terminerà una volta che inizierà a bere (soluzione), quindi il terapeuta (oppure il genitore, la moglie, il marito, l’amico, il figlio, il lavoro… ) rappresenta un’intromissione tra il problema e la soluzione. Ecco perché vi sono occasioni in cui il paziente, governato dall’urgenza di stare meglio come chiunque avverta un disagio, contrasta il terapeuta (la terapia), contrasta chi gli impedisce di applicare la sua strategia risolutiva (bere, farsi…) per il suo malessere, contrasta chi si frappone tra lui e la soluzione veloce, certa ed efficace che conosce. Non è paradossale, quindi, che un paziente possa tagliare proprio le mani che tentano di curarlo.
I 25 pazienti ricoverati in Comunità corrispondono ad un minuscolo settore di San Patrignano, quindi il confronto non può essere fatto sul come funziona un luogo che ospita fino a 1500 persone, con un posto in cui ci sono poco più di 30 persone, operatori compresi. Si può, però, avviare una discussione sulla dipendenza patologica e le convinzioni che da essa scaturiscono integrando i punti vista degli addetti ai lavori con quelli dei portatori sani. Questo significa affrontare le contraddizioni, i paradossi e la complessità che caratterizzano i comportamenti e il linguaggio di tutte le persone coinvolte nella patologia, di tutte le aree coinvolte nel trattamento di una dipendenza patologica.
Tra i pazienti ricoverati in Comunità ci sono persone che hanno intrapreso altri percorsi terapeutici residenziali, alcuni di loro sono anche stati a San Patrignano per l’intero programma e un paio sono andati via da San Patrignano precocemente. Hanno fatto Comunità in epoche diverse e con metodi diversi, i pazienti cinquantenni hanno sperimentato vari approcci terapeutici dagli anni ’80 ad oggi, i più giovani sono arrivati in una Comunità per tossicodipendenti senza avere una storia di tossicodipendenza. Alcuni sono arrivati per la prima volta in Comunità a 40 anni e altri provano a considerare la loro dipendenza patologica un problema sanitario e non giudiziario, sperimentandosi in un ambiente diverso da quello detentivo.
Quasi ognuno di loro è riuscito a smettere di bere, inalare, fumare o iniettarsi qualsiasi polvere disponibile almeno una volta nella vita, ricorrendo ad un’infinità di soluzioni. Si sono chiusi in casa, hanno pregato, si sono fatti arrestare, hanno preso un cane, hanno lavorato, si sono sposati, hanno fatto un figlio, hanno divorziato, si sono trasferiti lontano, hanno fatto psicoterapia, hanno imparato a cucinare, scalato o aumentato il dosaggio del metadone. Sono riusciti a smettere in Comunità molto rigide e regolamentate o in Comunità aperte e flessibili, hanno capito di non doversi “drogare” perché gli venivano tolte le sigarette, hanno capito ugualmente perché gli veniva offerto un caffè, hanno deciso di smettere perché venivano lasciati soli con se stessi e anche perché qualcuno gli stava sempre vicino. Insomma smettere non è così difficile se puoi farlo in un sacco di modi e passando per strade così diverse.
Ancora una volta emerge che: il problema non è se lo fai, ma come riesci a pensare e sentire la tua vita se non lo fai.
Durante la discussione del docufilm con i pazienti, uno degli argomenti esposti ad una varietà di sfumature è stato quello relativo alla capacità di intendere e di volere in una persona che ha una dipendenza patologica.
Nel documentario si precisa che la persona con una dipendenza patologica sia in grado di intendere, ma non di volere, cioè non sarebbe in grado di “volere il proprio bene” e, per questo motivo, un’altra persona che lo ha in terapia dovrebbe decidere per lui, fino ad escludere la sua volontà con ogni mezzo disponibile. È un discorso complesso e, come tale, va affrontato cercando di restare in un ambito terapeutico e pragmatico, senza ricorrere a semplificazioni stucchevoli e, per quanto possibile, senza addentrarsi in speculazioni filosofiche sulla libertà individuale e sulla facoltà di autodeterminarsi.
Viene da chiedersi anzitutto, se questa capacità di intendere e non di volere sia da considerarsi alterata solo quando il paziente vuole andarsene dalla Comunità oppure se la si debba riconoscere anche quando decide, vuole, entrare in Comunità. Se la persona che vuole entrare in Comunità è ancora sotto l’effetto delle sostanze oppure, quando chiede aiuto per affrontare la sua sofferenza, ha la lucida capacità di capire e di decidere cosa vuole. Se l’esito della sua dipendenza patologica è l’arresto, la perdita della patria potestà oppure essere stato allontanato da casa, e queste conseguenze determinano la sua volontà di entrare in Comunità, possiamo dire che ha deciso di smettere di farsi? (secondo me si possono considerare comunque un buon punto di partenza). Se la crisi astinenziale, o esistenziale, sia una condizione stabile in una persona affetta da dipendenza patologica dal momento che, secondo un riduttivo punto di vista fisiologico, il cervello di un tossicomane è sempre in astinenza, non è che ci va ogni tanto. Qualcuno potrebbe dire che il craving o la crisi astinenziale siano i parametri con cui valutare l’incapacità di volere: poiché la persona in stato di crisi astinenziale vuole andare ad usare sostanze e poiché, in seguito ad un periodo di astinenza, l’uso presenterebbe evidenti rischi anche per la sua vita, non si può considerare la persona capace di controllo dei propri stimoli e impulsi ad agire.
È vero che un operatore di Comunità sa cosa può accadere ad un paziente ricoverato in Comunità quando non riesce più a continuare il suo percorso terapeutico e decide di andare via. Sappiamo che la dipendenza patologica è una condizione che mette a rischio la vita della persona e che, nella maggior parte dei casi, ad un’interruzione improvvisa del percorso terapeutico fa seguito il ricorso all’uso di sostanze e, quindi, alla possibilità di un’overdose fatale. Purtroppo è così anche quando la persona viene espulsa da una Comunità, quando si esprime con comportamenti inappropriati ad un luogo di cura, introduce sostanze stupefacenti, manifesta aggressività. Non possiamo però rendere la Comunità un luogo “salvavita”, un posto che serve ad evitare la morte al paziente, privandolo di ogni responsabilità personale e limitandoci, da soli, ad evitargli il peggio.
Viene allora da considerare quale rete di protezione ci sia per situazioni di questo tipo, quale risposta integrata possano mettere in pratica i Servizi Sanitari che si occupano di dipendenza patologica per far fronte a questi problemi. Sarebbe utile interrogarsi sui differenti presupposti teorici dei percorsi di cura che le Comunità applicano, basandosi su personali e, a volte, contrastanti punti di riferimento. Avere l’intento di raggiungere un linguaggio condiviso che, pur valorizzando le risorse individuali, si impegni a non produrre incomprensioni e fraintendimenti dettati da pregiudizi sia sul tossico sia sui colleghi.
Viene da chiedersi perché la dipendenza patologica sia l’unica a non avere un reparto sanitario dedicato 24h al giorno 7 giorni su 7, perché molti Sert siano chiusi il sabato e la domenica, perché un paziente può avere delle crisi astinenziali, o esistenziali, solo dal lunedì al venerdì dalle 08.00 alle 14.00 più due pomeriggi a settimana. Insomma, se vogliamo arrivare una volta per tutte a definire la dipendenza una vera patologia che necessita di cure mediche, psicoterapeutiche e sociali e che, proprio in quanto patologia, non si manifesta a giorni e orari prestabiliti, allora sarà necessario rivalutare il significato che gli diamo dal punto di vista clinico. È una patologia con le sue caratteristiche, come tutte le altre del resto, che ha a che fare con una ferita dolorosa e sanguinante nell’anima di chi ne soffre e, come si sa, l’anima di ognuno di noi non si spezza solo nei giorni feriali.
Chi soffre di questa patologia ha bisogno di sentirsi compreso, sia nel senso di “essere capito da qualcuno” sia nel senso di “essere compreso all’interno di qualcosa”, ha bisogno di sentire di poter essere pensato anche quando fa di tutto per confermare la sua convinzione di meritarsi di essere dimenticato.
SANPA – Guarda il trailer:
Il momento del pasto nella demenza: strategie utili per una migliore qualità di vita
Nel caso della demenza il pasto è, inoltre, un’attività complessa che se non adeguatamente supportata può far sperimentare all’anziano un senso di fallimento e inadeguatezza (Berg, 2013). Esso richiede riconoscimento, memoria procedurale e pianificazione.
Il Disturbo Neurocognitivo Maggiore (DNC) è una patologia acquisita, progressiva e irreversibile che aggravandosi porta alla perdita dell’autonomia funzionale e a uno stato di completa dipendenza. La persona con demenza, negli stadi più avanzati, ha la necessità di essere assistito in tutte quelle attività di base un tempo automatiche come ad esempio mangiare. Queste perdite sono spiegate dalla presenza di deficit cognitivi, in particolare funzioni esecutive e memoria procedurale, dalla tipologia di assistenza erogata, che il più delle volte tende a sostituire l’anziano anziché facilitarlo, e da una serie di modificazioni sensoriali che ostacolano la vita quotidiana dell’assistito.
Tenuto conto di quanto uno stato di dipendenza possa incidere fortemente sulla qualità di vita della persona, risulta fondamentale preservare le abilità residue del malato attraverso un modello di cura centrato sulla persona e programmi di riabilitazione delle attività di base, come il Procedural Memory Training (PMT; Zanetti et al., 1997). A ciò si aggiunge ovviamente una buona conoscenza della patologia e in particolare dei deficit visivi ad essa associati in modo da poter organizzare un ambiente che risponda ai bisogni dell’anziano e che sia il meno ostacolante possibile.
Il pasto: un’attività complessa
Il momento del pasto fa parte della routine di ognuno di noi, avviene in maniera quasi automatica e risponde ai nostri bisogni fisiologici. Esso è altamente significativo, infatti non riguarda la semplice assunzione di cibo ma è soprattutto un momento di socializzazione. È un’occasione di prossimità fisica che permette di mantenere un senso di comunanza e appartenenza, promuovendo legami di conoscenza.
Nel caso della demenza il pasto è, inoltre, un’attività complessa che se non adeguatamente supportata può far sperimentare all’anziano un senso di fallimento e inadeguatezza (Berg, 2013). Esso richiede riconoscimento, memoria procedurale e pianificazione. Date le difficoltà attentive della persona con demenza, è innanzitutto essenziale assicurare un ambiente tranquillo e ordinato, privo di distrazioni e possibilmente silenzioso (un accorgimento è, ad esempio, spegnere la televisione). È indicato anche semplificare la tavola, riducendo le posate al minimo indispensabile, presentando pochi stimoli ma significativi.
Il modello di cura centrato sulla persona durante il pasto
Nella pratica di assistenza è auspicabile la messa in atto di un approccio di cura centrato sulla persona (Kitwood, 1997), fondamentale per la preservazione della personhood (= essere Persona) del malato e della sua qualità di vita. Secondo Tom Kitwood ciò è possibile tramite interazioni positive e il soddisfacimento dei bisogni dell’anziano (conforto, identità, inclusione, attaccamento, essere occupati). In particolare è bene riconoscere ed evitare la cosiddetta Psicologia Sociale Maligna, ovvero quell’insieme di interazioni svalutanti attuate inconsapevolmente che minano i bisogni dell’anziano aumentandone i disturbi del comportamento.
Spesso il caregiver tende a sostituirsi all’anziano velocizzando le attività e contribuendo alla perdita dell’automatismo di certe azioni. È necessario, quindi, rendere i caregiver consapevoli delle conseguenze di questa tipologia di lavoro e indirizzarli verso modalità che invece mirano a tutelare le abilità residue. Un esempio è il Procedural Memory Training, un intervento di stimolazione cognitiva che, sfruttando tecniche di modificazione del comportamento, agisce sulla memoria procedurale al fine di ricostruire le sequenze motorie indispensabili per l’attività oggetto di addestramento.
Infine, per sostenere la personhood dell’assistito e renderlo il meno passivo possibile, è importante prendere in considerazione i suoi gusti, le sue abitudini e dargli possibilità di scelta.
La vista nel Disturbo Neurocognitivo Maggiore
Numerosi studi sottolineano l’incidenza di difficoltà visive in persone con demenza e la stretta relazione tra perdita sensoriale e perdita cognitiva (Mapstone et al., 2003). In particolare, le difficoltà visive sono state riscontrate soprattutto nella malattia di Alzheimer, non a caso infatti in questa patologia i deficit visuospaziali sono precoci e costituiscono spesso un campanello d’allarme. I principali deficit visivi emersi sono: ridotta sensibilità ai contrasti, alterazione del senso di profondità, campo visivo limitato e asimmetrico, percezione distorta dei rapporti spaziali, minore percezione di luce, minore capacità di percepire il movimento e difficoltà nella discriminazione dei colori (Shuren et al., 1993; Wijk et al., 1999; Neargarder et al., 2003; Kavcic et al., 2006).
Spesso le difficoltà visive comportano dispercezioni, ovvero interpretazioni erronee degli stimoli ambientali, e nel peggiore dei casi vere e proprie allucinazioni (Chapman et al., 1999).
È evidente la necessità di intervenire sull’ambiente, rendendolo protesico e armonioso, individuando ed eliminando tutti quei fattori che possono confondere l’anziano, come sostenuto dal modello Gentlecare (Jones, 1999).
Nel caso del momento dei pasti, è utile apparecchiare la tavola tenendo conto delle difficoltà visive evidenziate. Ad esempio, data la scarsa capacità di discriminare i colori, viene suggerito di utilizzare dei piatti monocromatici in netto contrasto con la tovaglia e con il cibo. In particolare, sembra che l’utilizzo di piatti rossi aumenti del 25% l’assunzione di cibo (Dunne et al., 2004). Lo stesso principio vale per i liquidi, è consigliato aggiungere gocce di sciroppo o aranciata all’acqua per renderla più facilmente visibile e gradita. Inoltre, è altamente sconsigliato utilizzare tovaglie con ricami o disegni poiché potrebbero causare dispercezioni e distogliere l’attenzione del malato, causando affaccendamento dei casi più gravi (Berg, 2013).
Per concludere, il pasto è un momento fondamentale della giornata del malato con demenza, esso marca il tempo e divide la quotidianità in sequenze. Essendo la malnutrizione una frequente complicanza della demenza moderata-grave (Yildiz et al., 2015), è bene assicurarsi che il malato riceva il giusto apporto calorico e che il pasto venga svolto senza ostacoli. Per raggiungere questo obiettivo è opportuno prestare attenzione a tutte le variabili che possono incidere su questa attività di base, in particolare ambiente fisico e assistenza.
Come l’uso della cannabis influenza il funzionamento e la qualità della vita di uomini e donne con una diagnosi di disturbo bipolare
Uno studio ha esaminato se una storia di uso di cannabis nel corso della vita fosse associata al decorso clinico, al funzionamento e alla qualità della vita nei pazienti con disturbo bipolare in maniera differente in base al sesso.
La cannabis è la droga illegale più usata al mondo (Degenhardt & Hall, 2012). Studi epidemiologici hanno dimostrato che i pazienti con disturbo bipolare (DB) hanno 6,8 volte più probabilità di riferire una storia di uso di cannabis nel corso della vita (Lifetime cannabis use – LCU) (Agrawal et al., 2011), riportando tassi compresi tra il 36% e il 70% (Bally et al., 2014). Inoltre, la LCU è stata associata a un decorso più grave della malattia indipendentemente dal sesso, compresi episodi affettivi più ricorrenti e prolungati (Lev-Ran al., 2013), una maggiore frequenza di episodi maniacali e misti (Weinstock et al., 2016), un maggiore rischio di tentato suicidio (Ostergaard et al., 2017), una maggiore prevalenza di sintomi psicotici (Weinstock et al., 2016), e una minore compliance al trattamento (van Rossum et al., 2009). Lungo queste linee, il Lifetime cannabis use è stato anche associato a un esordio più precoce del disturbo bipolare (Lagerberg et al., 2016) e a un aumento del rischio di ricoveri ospedalieri dovuti a episodi affettivi (Lagerberg et al., 2016). Tuttavia, le ricerche sull’influenza della cannabis sul funzionamento o sulla qualità della vita (Quality of life -QoL) sono scarse.
Lo scopo del presente studio è stato quello di esaminare se una storia di uso di cannabis nel corso della vita è associata con il decorso clinico, il funzionamento e la qualità della vita nei pazienti con Disturbo Bipolare, in maniera differente in base al sesso. I partecipanti allo studio sono stati 224, tutti avevano un’età superiore ai 17 anni e tutti avevano una diagnosi di Disturbo bipolare, confermata con la Structured Clinical Interview for DSM-IV-TR Axis I Disorders (SCID-I) (First et al., 2002).
Le valutazioni includevano un questionario per la raccolta di informazioni demografiche e cliniche, di cui età d’esordio, tipo di Disturbo Bipolare, durata della malattia, numero di episodi depressivi, maniacali, ipomaniacali e misti, età del primo ricovero, numero di ricoveri, storia di tentativi di suicidio, sintomi psicotici, cicli rapidi, depressione melanconica, sintomi atipici, depressione post-partum, modello stagionale, storia psichiatrica familiare, comorbidità mentali e fisiche, e trattamenti. Inoltre, la psicopatologia è stata valutata utilizzando le versioni spagnole dei seguenti strumenti psicometrici: Young Mania Rating Scale (YMRS) (Colom et al., 2002), Hamilton Depression Rating Scale (HDRS) (Bobes et al., 2003), Hamilton Anxiety Rating Scale (HARS) (Lobo et al., 2002), Clinical Global Impression Scale (CGI) (Guy, 1976), e Changes in Sexual Functioning Questionnaire (CSFQ) (Garcia-Portilla et al. 2011). Le informazioni sull’uso di sostanze sono state indagate attraverso la Addiction Severity Index (ASI6) (Diazesa et al., 2010). I dati sul modello di consumo di cannabis includevano l’età del primo consumo, il numero di anni di consumo nel corso della vita, il numero di mesi negli ultimi 12 mesi, e il numero di giorni nell’ultimo mese. In questo studio, il Lifetime cannabis use (LCU) è stato definito come l’aver avuto almeno un giorno di consumo al mese per almeno 12 mesi consecutivi nella loro vita. Il livello di funzionamento è stato misurato con il Functional Assessment Short Test (FAST) (Rosa et al., 2007), composto da 24 item che esplorano in 6 aree specifiche di funzionamento nell’arco degli ultimi 14 giorni: autonomia, funzionamento occupazionale, funzionamento cognitivo, questioni finanziarie, relazioni interpersonali e tempo libero. Inoltre, è stato usato il Global Assessment of Functioning (GAF) (Association, 1987), che fornisce una valutazione generale dell’attuale livello di funzionamento del paziente (psicologico, sociale e lavorativo) su una scala da 1 = nessun danno a 100 = grave danno. Infine, la percezione del paziente della QoL è stata esaminata usando il 36-item ShortForm Health Survey (SF-36) (Ware e Sherbourne, 1992), un questionario di autovalutazione contenente 36 item raggruppati in 8 sottoscale: funzionamento fisico, funzionamento del ruolo fisico, dolore corporeo, percezione generale della salute, vitalità, funzionamento sociale, funzionamento emotivo e salute mentale; e 2 componenti riassuntive (fisica e mentale).
I risultati hanno rivelato che la durata media della malattia era di 19.4 anni, l’età media dei soggetti era 47 anni e il 65.2% erano donne. In tutto il campione, quasi la metà dei pazienti (45,2%) fumava quotidianamente e il numero medio di sigarette al giorno tra i fumatori era di 16. Il 23.6% ha riferito di bere ogni settimana, con una media settimanale di 5 drink, e lo 0,9% ha riferito di aver usato cocaina almeno una volta nell’ultimo mese. Per quanto riguarda l’uso di sostanze nel corso della vita, il 7,6% hanno fatto uso di cocaina, il 3,1% di allucinogeni, e lo 0,4% di eroina. Per quanto riguarda la cannabis, il 31,4% ha riferito di averla usata almeno una volta nella vita, e il 16,1% ha soddisfatto i criteri per la LCU. In generale, i risultati hanno mostrato che i pazienti con LCU erano più giovani al momento del loro primo ricovero ospedaliero, rispetto a coloro che non hanno fatto mai uso di cannabis nel corso della vita.
Esaminando le differenze tra i pazienti con Lifetime cannabis use vs nessun LCU (NLCU) per sesso, è emerso che il 10,3% delle donne e il 26.9% degli uomini hanno soddisfatto i criteri per LCU, e la maggior parte di loro erano i più giovani del campione. Per quanto concerne la qualità della vita (QoL), le donne con LCU avevano meno problemi finanziari, rispetto alle donne NLCU, e hanno riferito una più scarsa QoL nella scala del dolore corporeo. Circa il funzionamento, è emerso che le donne con LCU hanno un funzionamento sessuale migliore, punteggi più bassi di vitalità, maggiori difficoltà nel funzionamento sociale ed emotivo, oltre che una maggiore precarietà di salute mentale generale. Tra gli uomini, invece, non è emersa alcuna differenza statisticamente significativa tra i gruppi LCU e NLCU relativamente alla QoL e al funzionamento. Una possibile spiegazione per questi particolari risultati potrebbe essere che le donne sono più propense a usare le droghe per auto-medicarsi, mentre gli uomini le usano più spesso a scopo ricreativo (Becker et al., 2017).
Conoscere la mente dei bambini – Il quarto episodio di The Journal Club
The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.
Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.
Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.
Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del quarto episodio della serie dedicato alla mente dei bambini. Ospite della puntata, la Dott.ssa Simona Scaini.
CONOSCERE LA MENTE DEI BAMBINI
Lectio magistralis di Daniel Freeman: virtual reality and treatment of mental health disorders – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021
Con la sua lectio magistralis dal titolo “Virtual reality in the assessment, understanding, and treatment of mental health disorders: Lessons learned in a clinical psychologist’s journey over twenty years”, Daniel Freeman, keynote speaker alla prima European Conference of Digital Psychology, ha illustrato potenzialità e benefici della VR alla luce della sua ventennale esperienza.
Daniel Freeman ha aperto con una lectio magistralis la prima European Conference of Digital Psychology che si è tenuta il 19 e 20 Febbraio 2021. La conferenza, organizzata dalla Sigmund Freud University, ha affrontato prospettive di applicazione attuali e future delle nuove tecnologie applicate alla Psicologia.
A Daniel Freeman, come keynote speaker, il compito di aprire i lavori e fornirci una introduzione al suo lavoro ventennale con la realtà virtuale (VR). Lo psicologo ha illustrato una rassegna dei suoi principali studi e ci ha accompagnato in un viaggio in cui, grazie all’evoluzione della tecnologia, ha mostrato come la realtà virtuale immersiva possa essere utile per valutare, comprendere e trattare i disturbi della salute mentale. Infine, ha evidenziato importanti aree di interesse per il futuro.
La realtà virtuale per la salute mentale
Lo psicologo britannico vanta un’esperienza approfondita nello studio della paranoia e di come la realtà virtuale possa aiutare a trattarla. Professore presso l’Istituto di psichiatria, psicologia e neuroscienze del King’s College di Londra e di psicologia clinica e di ricerca del National Institute for Health Research nel Dipartimento di psichiatria dell’Università di Oxford, Freeman ci ha portato in un viaggio nel tempo attraverso l’evoluzione dei suoi studi e dei principali risultati.
Integrando interventi di esposizione e terapia cognitiva, Freeman ha dimostrato il potenziale straordinario della VR nel trattamento di problemi di salute mentale sfruttando una delle qualità più importanti della VR: poter sperimentare situazioni problematiche ed essere seguiti mentre le si sperimenta in un contesto sicuro. Il suo lavoro con la VR è partito dallo studio della paranoia. Come ci ricorda Freeman la paranoia deriva dall’intersezione tra stile di elaborazione delle informazioni, disturbi percettivi, visione di se stessi; la combinazione di questi elementi determina che, a parità di situazione, persone diverse abbiano percezioni anche profondamente diverse e opposte. Nei suoi studi, per esempio, ha dimostrato che in un contesto identico c’è chi ha riportato sensazioni piacevoli e di sentirsi in un ambiente amichevole e chi, invece, sentiva di avere vicino persone aggressive, losche, malintenzionate.
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:
Imm. 1- Esperienza di Virtual Reality
Imm. 2- Esperienza di Virtual Reality
Imm. 3- Esperienza di Virtual Reality
Superate le prime ritrosie e perplessità, come il timore che i pazienti avessero avversione per l’équipement necessario (visori, setting artificiale) o che ci fosse un impatto negativo nel dare un peso preponderante ad un solo senso, la vista, è stato dimostrato che i pazienti in realtà si sentono a loro agio con la realtà virtuale immersiva: una volta ‘dentro’ la realtà virtuale, il paziente si sente come in un ambiente reale ed è questo ciò che determina l’efficacia dei trattamenti.
Il futuro della VR: cosa aspettarsi
Il primo vero esperimento di VR risale agli anni Sessanta con la Sword of Damocles, un dispositivo molto complesso e ingombrante che, mostrando immagini diverse ai due occhi, riusciva a creare un effetto 3d. Il sistema era anche disagevole da usare: attaccato ad un braccio meccanico sospeso al soffitto del laboratorio, col soggetto con la testa agganciata e poco margine di movimento. Di strada ne è stata fatta da allora soprattutto negli ultimi 25 anni e molto si può ancora fare. La ricerca mostra oggi un vivo interesse per la VR nel trattamento di molti disturbi. Un passo ulteriore sarà poi indagarne gli effetti nel lungo termine; attualmente la gran parte delle ricerche si ferma ad analisi degli effetti a breve termine.
Sarà poi cruciale lavorare in maniera congiunta, mettendo insieme sviluppatori e psicologi in tutte le fasi di progettazione e coinvolgendo anche i pazienti per creare situazioni ed ambientazioni grazie all’user centered design.
La VR ha molti pregi: per esempio, rende più confortevole per i pazienti approcciare situazioni che sono difficoltose per loro; l’esperienza può essere ripetuta innumerevoli volte in un contesto protetto; l’apprendimento si trasferisce facilmente al mondo reale; il trattamento può essere vissuto anche come un gioco e può essere divertente; essendo fruibile anche in autonomia, trattamenti con VR possono raggiungere facilmente molte persone; visori all-in-one e stand alone pratici da usare e a prezzi accessibili sono già in commercio.
E’ possibile ipotizzare uno scenario futuro in cui la VR sarà accessibile a tutti, in autonomia e per molti trattamenti: dall’ansia sociale, a disturbi dell’umore o dipendenze. Come Freeman ci ricorda, è importante che le terapie VR non siano solo una ‘replica’ della terapia faccia a faccia; possono essere usate in modi innovativi – impossibili nel mondo reale – per migliorare i risultati del trattamento. Gli spazi di sviluppo sono enormi; sta al clinico svilupparli con metodo e inventiva.
Digital Tools – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021
Una delle sessioni della seconda giornata del Primo Convegno Europeo di Psicologia Digitale è dedicata ai Digital Tools.
La sessione prevede tre interventi: relatore del primo intervento è il Prof. Guillem Feixas dell’università di Barcellona, il secondo intervento è condotto dal Dott. Alejandro García-Gutiérrez, ricercatore del gruppo di ricerca del dott. Feixas. Relatrice del terzo intervento è invece la dott.ssa Silvia Grazioli.
Nel primo intervento, il prof Feixas ci parla di EYME – Explore your meaning, un strumento digitale molto utile in campo terapeutico e di notevole interesse.
Il Professor Feixas, partendo dal concetto di identità personale, si sofferma ad analizzare l’argomento secondo la prospettiva costruttivista di George Kelly.
Nella sua teoria dei costrutti personali, George Kelly vede l’essere umano come uno scienziato che crea delle ipotesi in modo da rendere più facile l’interpretazione e la comprensione degli eventi (self-regulation theory). I costrutti personali sono per loro natura bipolari (es. Egoista – altruista; debole – forte) e nascono in base alle differenze e alle distinzioni di cui facciamo esperienza nel corso della nostra vita. In ogni persona si formano dei sistemi di costrutti: non siamo guidati da un solo costrutto ma da un’intera rete di significati.
Uno strumento per l’assessment dei costrutti personali è la Repertory Grid Technique (RGT), il cui scopo è descrivere i modi in cui le persone danno un significato alla loro esperienza a partire dai poli dei costrutti con cui si definiscono. Non si tratta di uno strumento con delle domande/item standard ma va ad esplorare il modo in cui la persona organizza il proprio mondo interno. Le difficoltà nell’utilizzare questa griglia sono legate alla necessità di effettuare dei training di formazione sia per somministrarla ma anche per interpretare i punteggi.
Ecco allora che all’interno di questo quadro teorico il professor Feixas ci presenta lo strumento EYME. Trattasi di una piattaforma immersiva digitale nata per migliorare il successo del percorso psicoterapeutico. Dopo un’intervista compilabile dal computer, dal tablet o dallo smartphone, viene richiesto di configurare un serie di elementi e vengono registrati i costrutti del paziente ma non solo: sono anche registrati i costrutti che al paziente vengono dati dagli altri (genitori, amici, partner, figli, ecc). I dati sono quindi processati e viene fornito un report in base ai costrutti riportati dal paziente. L’aspetto sorprendente dello strumento è che, grazie al 3D ma soprattutto grazie alla realtà virtuale, il paziente può letteralmente immergersi nei propri costrutti, vederne le dimensioni e quindi avere un quadro più ampio dell’impatto che questi hanno nella propria vita. Pensiamo ad esempio a una persona che si è sempre sentita Egoista e che è definita come egoista anche dagli altri. Grazie a questa esperienza avrà modo di vedere quanto spazio occupa la definizione “Egoista” nel proprio mondo interno proprio perché, grazie alla realtà virtuale, ha la possibilità di vederla di fronte a sé come una grande sfera colorata, tanto più grande quanto più il vissuto è sentito (l’intensità percepita del vissuto è riportata dal paziente utilizzando una scala da 1 a 10). Avrà anche modo di vedere come il polo opposto, ad es. Altruista, non sia che una piccola sfera nel suo mondo interiore. E credo che questa, così come detto dal Prof. Feixas, sia un’importante esperienza di natura emotiva, non solo cognitiva, che può davvero aiutare il percorso terapeutico. Il relatore invita a visitare il sito www.eyme-vr.com per saperne di più.
La parola passa in seguito al Dott. García-Gutiérrez che ci parla di GRIDCON, l’applicazione di EYME nei contesti organizzativi.
Il relatore parte dal concetto di identità professionale e di come sia spesso trascurato lo studio del ruolo di tale fattore nell’ambito del benessere organizzativo. Le ricerche infatti si concentrano sui risultati ottenuti piuttosto che sui significati personali in cui le identità si sviluppano. Per questo motivo GRIDCON si può rivelare utile nel far emergere quei significati interiorizzati in una organizzazione, quale ad esempio quelli relativi al ruolo di un leader. Quindi questo strumento si pone come un’alternativa agli strumenti di indagine da applicare in campo organizzativo di tipo più standard (questionari, interviste strutturate, ecc). Esso consente una rappresentazione 3D ma anche una visualizzazione tramite realtà virtuale dei costrutti che caratterizzano l’identità personale e l’identità professionale dei lavoratori e dei manager.
Il relatore illustra a questo punto il disegno sperimentale utilizzato per l’applicazione di GRIDCOM nelle organizzazioni, il cui scopo generale è quello di aumentare nei manager la conoscenza di Sé (con un’enfasi maggiore sull’identità professionale) e le competenze relative alla leadership. Dopo una prima fase di assessment che misura i livelli di leadership, si passa a una sessione di coaching tramite l’utilizzo della RGT, focalizzata sull’esplorazione dei costrutti relativi all’identità professionale dei manager. In questa fase il gruppo di controllo è sottoposto alla visione in 2D dei propri costrutti, mentre il gruppo sperimentale è sottoposto alla visione in 3D con GRIDCON. Il tutto si conclude con una fase di post assessment in cui sono valutate le opinioni dei partecipanti rispetto all’esperienza effettuata. A questo punto mi sarei aspettata maggiori informazioni a riguardo, ma il dott. García-Gutiérrez ha proseguito l’intervento dando una dimostrazione di come poter utilizzare il tool, che si rivela comunque utile ad avere un quadro più chiaro di quanto esposto sia da Feixas che dallo stesso García-Gutiérrez.
Conclude la sessione la Dott.ssa Grazioli, che nel suo intervento “ReMIND: Real Matters IN Developmental psychopathology” ci parla del progetto ReMIND, uno studio longitudinale il cui scopo principale è ridefinire la comprensione delle traiettorie di sviluppo dei disturbi mentali. L’intento è dunque quello di identificare presto quei bambini che hanno più possibilità di sviluppare particolari problematiche così come identificare quei bambini che potrebbero beneficiare di un trattamento tempestivo.
Imm. 1 Dottoressa Silvia Grazioli
Il focus del progetto ReMIND è spostato sui sintomi internalizzanti e su quelli esternalizzanti. Il progetto è ora alla sua terza fase (terza onda), di cui si sta occupando il gruppo di ricerca di cui fa parte la Dott.ssa Grazioli. In questa fase vengono raccolti i dati clinici ed epidemiologici.
La relatrice passa in rassegna le diverse piattaforme utilizzate per raccogliere i dati:
MedicalBIT che consente di registrare informazioni sociodemografiche e mediche, come l’esposizione a possibili rischi nel periodo prenatale, l’abuso di sostanze da parte delle madri durante la gravidanza o il peso alla nascita, ma anche informazioni relative a particolari eventi di vita (es. la presenza di traumi). Questa piattaforma genera un dataset con i dati dei partecipanti che consente di condurre specifiche e dettagliate analisi.
ASEBA system con cui sono raccolti dati clinici tramite questionari self-report. Anche questa piattaforma fornisce un intero dataset che può essere usato per le successive analisi. E’ stato possibile raccogliere informazioni sugli aspetti dimensionali relativi alla psicopatologia dei partecipanti avendo anche un’indicazione sui valori clinicamente rilevanti. In particolare, grazie ad ASEBA, è possibile avere un quadro più chiaro dei disturbi internalizzanti, esternalizzanti e un profilo di disregolazione.
DAWBA, utilizzato per le analisi categoriali, che indica quelle situazioni che meritano attenzione clinica e anche la probabilità di andare incontro a possibili diagnosi.
Per quanto riguarda i risultati preliminari ottenuti dallo studio della terza onda, quelli più interessanti mettono in luce come i fattori di rischio prenatale siano associati a problemi internalizzanti nei preadolescenti, associazione non riscontrata negli adolescenti o nei giovani adulti e nemmeno tra fattori di rischio prenatali e fattori esternalizzanti.
Ciò che resta ben chiaro, alla fine della sessione appena seguita, è l’importanza di continuare a sviluppare piattaforme digitali utili non solo ai ricercatori, con gli studi epidemiologici quale quello illustrato dalla Dott.ssa Grazioli, ma anche ai clinici, come ci hanno ben mostrato i dott. Feixas e García-Gutiérrez.
Soul, un vero viaggio alla scoperta della naturale scintilla che è in noi: vivere – Recensione
Joe, protagonista di Soul, scopre che ciò che conta è saper cogliere ogni attimo, assaporare giorno dopo giorno i diversi momenti, senza cercare di ridurre il proprio talento a un’unica condizione esistenziale.
Attenzione! L’articolo può contenere spoiler
Un professore di musica delle medie, Joe, ha una grande passione: il Jazz proprio come il padre. Tutto cambia quando, nello stesso giorno, riceve la cattedra a tempo pieno a cui lui è poco interessato e viene scelto per suonare in una famosa band. Questo evento è la grande occasione della sua vita quando, per distrazione, cade e finisce in un’altra dimensione “l’ante-mondo” o più comunemente uno spazio che separa la vita dalla morte. Joe non ha nessuna intenzione di rimanere nell’altro mondo e di non poter realizzare il suo sogno così cerca in tutti i modi di ritornare sulla Terra. Nell’ante-mondo ci sono tante anime, acorporee, che aspettano di accedere alla vita e andare sulla Terra, questo è possibile solo se l’anima scopre la sua scintilla. A Joe viene assegnata Anima 22, un’anima cinica, un po restia ma che riesce a entrare in relazione con Joe. Anima 22 non ha nessuna intenzione di vivere la sua vita e nemmeno di andare sulla Terra perché in fondo teme di non essere adatta. Quando cadono sulla terra, Anima 22 abita il corpo di Joe e Joe quello di un gatto. Sulla Terra, Anima 22 scopre i sapori del buon cibo, come gustare una pizza, assaporare un lecca-lecca, ascoltare musica, vedere il cielo e notare le foglie che cadono.
Anima 22: -“Dico sempre che la Terra è un postaccio. Ma non è stato un dramma … Ho sempre pensato che qualcosa non andasse in me, di non essere all’altezza per vivere e poi mi hai mostrato cosa significa avere uno scopo, una passione, magari la mia scintilla è guardare il cielo blu o semplicemente camminare…”
Un film della Disney intriso di significati psicologici, un modo per riflettere su come vivere la nostra vita. Molto spesso ci perdiamo inconsapevolmente nei sogni e nelle passioni, facciamo il possibile per inseguire una meta, agiamo esclusivamente affinché quel desiderio si realizzi ma non appena lo raggiungiamo non basta a soddisfare l’essenza del vivere e a renderci completamente pieni di noi stessi. Così finiamo per tralasciare e per non dar peso a qualcosa che caratterizza e arricchisce il nostro vivere quotidiano, come parlare con un amico o coltivare una relazione affettiva o semplicemente passeggiare e notare il mondo che ci circonda.
Ed è quello che accade a Joe, scopre nell’altra dimensione di avere una vita un po’ metodica, a tratti triste, insulsa e in solitudine, e crede che ciò che conta sia solamente la sua musica Jazz.
Quando Joe riprende ad abitare il suo corpo, riesce a suonare nella band di Dorothea Williams riscuotendo grande successo ma si accorge che la sua attesa tanto agognata e sperata non lo soddisfa completamente.
Dorothea: “Si torna qui domani sera e si ricomincia. Qualcosa non va prof?”
Joe: “È che io stavo aspettando questo giorno da tutta la vita e credevo fosse diverso”.
Dorothea: “Conosco una storia che parla di un pesce che va da un pesce anziano e gli dice: Sto cercando quella cosa che tutti chiamano oceano. L’oceano? risponde il pesce più vecchio: è quello in cui nuoti adesso. Questo? dice il giovane pesce. Questa è acqua, io cerco l’oceano!”
Joe si accorge che non è sufficiente la musica per vivere una vita piena e felice. Scopre che ciò che conta è saper cogliere ogni attimo, assaporare giorno dopo giorno i diversi momenti, senza cercare di ridurre il proprio talento a un’unica condizione esistenziale.
Allo stesso modo, quasi l’altra faccia della medaglia è credere di non essere adatti alla vita proprio come Anima 22, ossessionata da credenze negative su di sé.
Un susseguirsi di pensieri negativi affollano la mente di 22: – prendi decisioni sbagliate, non sono niente, sono inutile, mi arrendo, sei disonesta, nessuno vorrà mai starti accanto, sei una perdita di tempo, non troverai mai la tua scintilla, sei una perdita di tempo…tu non hai nessuno scopo…non sono abbastanza brava.
Proprio come Anima 22, quando pensiamo di non valere, di non essere capaci, di non avere nessuna progettualità, finiamo per perderci e scollegarci dal mondo e da noi stessi.
Un film che fa riflettere sul vero senso dell’esistenza umana. Un senso che si perde quando ci incaselliamo in schematismi, in rigide regole, e tutto questo ci allontana dall’essenza della vita, oscurando la vera scintilla che è in noi. La scintilla non è perseguire uno scopo, una meta, un obiettivo bensì essere pronti a vivere. E essere pronti alla vita significa assaporare ogni aspetto, cogliere le cose più semplici, quelle che reputiamo banali, quelle che diamo per scontate. La scintilla è un inno alla vita a prescindere dagli scopi. È all’origine di chi siamo, come vogliamo essere, cosa vogliamo realizzare.
Infatti, Joe impara, nella sua seconda possibilità di vita che è importante la scintilla, e quando gli viene chiesto come passerà il resto della vita, risponde: – So che ne assaporerò ogni momento.
Oltre a scoprire e dare importanza alla scintilla che è in noi, Soul fa riflettere su come a volte siamo capaci di stravolgere i nostri piani ed essere felici lo stesso. A volte basta modificare il piano di lettura sul mondo, cambiare quello che non ci piace, ridimensionare i propri progetti, inventarne degli altri. Questo viene descritto molto bene nel personaggio Dez, il barbiere di Joe.
Un dialogo significativo tra anima 22 nel corpo di Joe e il barbiere: – Ti dicono che sei nato per fare una cosa ma poi come capisci qual è la cosa giusta e se scegli una cosa sbagliata o di qualcun altro? Poi resti intrappolato. Il barbiere: – Mah non è sempre così, si può scegliere altri percorsi ma essere felici lo stesso.
Un film che riesce a cogliere l’importanza delle ambizioni personali, il significato della vita, le relazioni genitori – figli. Joe e la mamma hanno punti di vista divergenti che creano spesso tensioni. Joe vorrebbe realizzare la sua passione, il suo sogno, la mamma desidererebbe per il figlio un posto di lavoro a tempo indeterminato che possa offrirgli una stabilità economica. Un Joe un po’ sbadato, remissivo, compiacente, passivo con comportamenti di evitamento del conflitto. La mamma appare una donna energica, rigida, autorevole e molto protettiva. Una protezione giustificata dalla paura che suo figlio possa avere difficoltà economiche come suo padre. Tutto questo però porta il figlio a mentirle, quando finalmente Joe riesce a comunicare in modo autentico il suo più grande desiderio, e quanto sia radicato in lui, la mamma lo accoglie, lo supporta; gli aggiusta l’abito di suo papà in occasione del suo debutto.
Un film animato che può avere una chiave di lettura psicoterapeutica e rispecchiare alcune principali teorie e orientamenti psicologici. Basti pensare ai principi della mindfulness; prestare attenzione con intenzionalità e consapevolezza alle esperienze della vita, al momento presente e al valore della pienezza del vivere o alla terapia cognitivo comportamentale con i suoi costrutti e credenze disfunzionali. Gli schemi cognitivi su di sé possono alterare e distorcere la corretta elaborazione dell’informazione e molte credenze negative possono condizionare il comportamento e le scelte.
Soul ci insegna a superare gli schematismi, a non focalizzare i nostri piani su un unico scopo. Se lo scopo in cui abbiamo investito è unico, il suo fallimento costituisce una sconfitta totale, assoluta, quindi intollerabile e fonte di grande sofferenza. Avere più scopi significa poter orientare le nostre scelte quando uno di essi fallisce, oltre che imparare a gestire le difficoltà e a non soccombere quando si crea un vuoto predittivo.
Caratteristiche della relazione romantica in individui affetti da disturbo borderline di personalità
Lo studio di Gómez et al. (2020) ha indagato il profilo clinico di 49 pazienti ambulatoriali con Disturbo Borderline di Personalità confrontando tra loro gli individui con e senza una relazione romantica.
Il disturbo borderline di personalità (DBP), che colpisce il 10% dei pazienti psichiatrici ambulatoriali ed il 20% di quelli ricoverati (Del Barrio, 2016; Skodol et al., 2002) è caratterizzato da alterazioni dell’identità, disregolazione emotiva, grave impulsività e problematiche interpersonali (Bagge et al., 2004; Sanislow et al., 2002), che si ripercuotono sul funzionamento generale e relazionale dell’individuo. Questi pazienti hanno maggiori difficoltà a mantenere stabili e positive relazioni sociali, che tendono ad essere meno soddisfacenti (Skodol et al., 2002) e soggette a precoce rottura (Zeigler-Hill & Abraham, 2006).
Inoltre, la fedeltà relazionale viene compromessa a volte a causa della loro tendenza alla promiscuità sessuale; ovvero il cambio repentino di partner nel corso della vita.
Secondo uno studio trasversale, una minore soddisfazione emotiva nelle relazioni romantiche era predetta da impulsività, depressione e sfiducia interpersonale tra coloro con DBP (Miano et al., 2017). In ulteriori indagini, questa insoddisfazione emotiva si associava a sua volta alla futura comparsa di comportamenti patologici tra i pazienti, come attaccamento ambivalente ed ansioso, comunicazione passivo-aggressiva e continue richieste di affetto al partner (Bodenmann et al., 2007). Tra le cause dello sviluppo di un attaccamento insicuro nella relazione amorosa è stata riscontrata la presenza di traumi infantili (Wishman et al., 2006).
Nonostante molta letteratura abbia indagato le relazioni romantiche nei pazienti con DBP, sono state valutate solo la soddisfazione e la qualità relazionale e non l’emergere di aspetti psicopatologici (ovvero impulsività, vuoto emotivo ed ostilità). Oltre ad essere state trascurate le ripercussioni interpersonali degli episodi traumatici infantili la ricerca non ha chiarito come mai alcuni pazienti con DBP siano in grado di mantenere stabilmente un partner relazionale, nonostante la loro psicopatologia.
Con lo scopo di colmare parzialmente queste lacune, lo studio di Gómez et al. (2020) ha indagato il profilo clinico di 49 pazienti ambulatoriali con DBP confrontando tra loro gli individui con e senza una relazione romantica.
L’obiettivo era determinare se ci fossero differenze nelle caratteristiche psicopatologiche, nello stile di attaccamento adulto, nell’autostima, nella qualità della vita e nel tipo di episodi traumatici infantili. Sono state inoltre verificate le correlazioni tra alcune caratteristiche cliniche del paziente e del partner (ovvero personalità, stile di comunicazione e di attaccamento, autostima, qualità della vita, ostilità e soddisfazione emotiva e sessuale).
Sebbene non siano emerse differenze nella gravità clinica della patologia borderline tra coloro senza e con partner, questo secondo gruppo presentava un livello più alto di aggressività espressa, una maggiore incidenza di episodi infantili traumatici (abuso emotivo, abuso sessuale ed abbandono emotivo) oltre che un attaccamento evitante. Coerentemente con la letteratura, la presenza di un trauma precoce, tratti impulsivi, ostili, ed uno stile di attaccamento evitante tra coloro affetti da DBP (Bouchard & Sabourin, 2009), inducono la ricerca di una relazione stabile e soddisfacente che possa compensare il trauma infantile, originato da un modello relazionale precoce instabile di dipendenza emotiva (Montes-Berges, 2009).
Inoltre, coloro con DBP e una relazione amorosa, riportavano una più bassa autostima, una salute fisica peggiore, ma livelli più alti di benessere psicologico. Questa apparente contraddizione suggerisce che i pazienti con stabilità relazionale, potrebbero sfruttare l’attaccamento sentimentale per compensare lo scarso affetto che rivolgono a sé stessi; per cui la relazione diviene fondamentale poiché conferisce stabilità alla propria identità ed al proprio concetto di sé.
Mentre coloro con maggiori livelli di autostima non erano tendenzialmente coinvolti in una relazione sentimentale, l’aggressività fisica era la variabile clinica più implicata nella predizione dello stato civile impegnato. Infatti, coerentemente ad uno studio longitudinale, il 37% delle coppie con partner affetto da DBP, erano vittime di violenza fisica e psicologica (Zanarini et al., 2011). Altre indagini sulla stessa linea, hanno riscontrato che il 20-60% delle coppie riportava aggressioni fisiche, mentre per l’80% erano verbali (Bouchard et al., 2009; Eckhardt & Crane, 2015). Tali risultati vengono ricondotti alla tendenza alla reattività emotiva che questi individui mostrano all’interno del conflitto coniugale (Bouchard et al., 2009).
Per quanto concerne le correlazioni tra caratteristiche cliniche del partner e del paziente; è emerso che la gradevolezza nella relazione si associava ad una comunicazione esigente del membro con DBP, a testimonianza del fatto che il rapporto era consolidato in una dinamica relazionale patogena e persistente.
Inoltre, la coscienziosità del partner correlava con la soddisfazione emotiva nel paziente per la presenza di uno stile relazionale che agisce secondo ruoli stabiliti in un legame di interdipendenza. Infatti, di fronte alle richieste persistenti di origine emotiva dell’individuo con DBP, il partner è in grado di contenere tale reattività.
Questi aspetti relazionali di codipendenza e scarsa autonomia del paziente con DBP, possono essere oggetto di intervento mediante tecniche cognitivo comportamentali (Christensen et al., 1995).
In conclusione, sebbene questo studio abbia approfondito alcune dinamiche relazionali dei pazienti affetti da DBP, non è esente da limiti. Oltre ad essere un’indagine trasversale, per cui non è possibile ricondurre in modo causale le variabili indagate alla psicopatologia borderline, sono state incluse variabili raccolte retrospettivamente e la dimensione limitata del campione non consente la generalizzazione dei risultati.
Accanto alle indagini trasversali, sarebbero vantaggiosi studi longitudinali nella valutazione dell’aspetto relazionale di questi pazienti. Divenire consapevoli dell’incidenza di disturbi psichiatrici, traumi infantili e schemi disadattivi nei pazienti con DBP e nelle coppie che costituiscono, potrebbe fornire informazioni cliniche per comprendere in modo più approfondito lo schema reiterato che emerge nella relazione.
Virtual Reality: basi biologiche e applicazioni in campo clinico – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021
Il 19 e 20 febbraio 2021 si è tenuta la prima edizione della Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale (European Conference on Digital Psychology). L’intervento di apertura della conferenza è stato quello del dott. Bernardelli, del dott. Brighetti e della dott.ssa Borlimi ed ha riguardato la realtà virtuale.
Il dott. Bernardelli ha approfondito il tema dell’aumentazione tecnologica nella pratica psicologica, descrivendone le diverse applicazioni e opportunità. Da un lato, infatti, esistono innegabili effetti positivi dovuti all’utilizzo della tecnologia in ambito psicologico, dall’altro, però, vi è l’area di rischio, rappresentata dagli effetti negativi della tecnologia sul nostro cervello.
Ci imbattiamo spesso in nuove nomenclature potenzialmente psicopatologiche collegate al digitale, che forse tra qualche anno troveremo nei manuali dei disturbi mentali. Alcuni esempi sono: l’internet addiction disorder, il technostress, l’attention deficit disorder, il Google effect, la digital amnesia e la nomophobia. È importante per la nostra professione conoscere gli effetti dannosi che dispositivi e piattaforme hanno sul cervello, sui comportamenti e sulle interazioni sociali. In uno scenario così complesso, psicologi e psicoterapeuti dovrebbero essere informati e formati anche su tutte le possibili strategie di coping adottabili dai pazienti gestire l’impatto del sé digitale sul sé reale.
Imm. 1 – Dott. Luca Bernardelli
Tuttavia, la tecnologia non ha solo effetti negativi, ma ha anche dei risvolti positivi: questo costante training mentale a cui siamo costantemente sottoposti, infatti, può condurre allo sviluppo di “inedite abilità near multitasking” e a un rallentamento del declino cognitivo.
È interessante l’adozione nella pratica quotidiana, in particolare in ambito professionale, delle psicotecnologie, che emulano, estendono e amplificano le funzioni sensomotorie, psicologiche e cognitive della mente. È in questo contesto che l’innovazione tecnologica può diventare anche innovazione psicologica.Il relatore ha presentato una rassegna di alcuni casi d’uso psicotecnologici, come le psicotecnologie di telecommunication, wellbeing, playful, assessment, psychodiagnostics, emotive, trasformative e molte altre.
L’uso delle tecnologie digitali è importante non solo per sintonizzarsi con linguaggio contemporaneo, ma anche per aumentare il grado di coinvolgimento del paziente accrescendo la motivazione e l’alleanza terapeutica e riducendo il tasso di dropout. La realtà virtuale, in particolare, è in grado di aumentare l’esperienza percettiva, emotiva, cognitiva e metacognitiva del paziente al fine di ottenere materiale prezioso sul quale lavorare. Il docente ha illustrato alcuni interessanti progetti di realtà virtuale per la pratica psicologica che sta sviluppando, come “Covidfeelgood”, sviluppato per gestire lo stress psicologico legato al Covid-19.
Infine, il dott. Bernardelli ha ricordato alcune delle sfide culturali per la professione del futuro:
la disponibilità di percorsi formativi strutturati in psicologia digitale;
l’adozione stabile delle tecnologie più idonee nella pratica clinica;
la progettazione di psicotecnologie con team multidisciplinari;
la stesura di linee guida da parte degli ordini professionali e di norme che regolino l’uso di queste tecnologie, potenzialmente dannose, ma che possono garantire grandi benefici.
Il dott. Brighetti, invece, si è concentrato soprattutto sugli aspetti teorici e sulle basi biologiche della condizione di multisensorialità in realtà virtuale, presentando una panoramica degli studi che si trovano in letteratura. Il relatore ha spiegato come, affinché accada il fenomeno illusorio in realtà virtuale, ossia il soggetto sottoposto a stimolazioni di vario genere riesca ad identificarsi con un ambiente diverso da quello in cui si trova, è necessario che si attivino varie basi neurali.
Imm. 2 – Dott. Gianni Brighetti
Alcuni autori sostengono che sia possibile avviare qualsiasi modificazione della percezione attraverso la realtà virtuale, con tecnologie sempre più sofisticate. Questi stati illusori possono trasportarci in luoghi diversi da quelli in cui siamo collocati e darci l’impressione che ciò che sta accadendo nella realtà virtuale sia reale.
Le attività del cervello che facilitano le illusioni della realtà virtuale sono essenzialmente di tipo bottom up: deve esserci coerenza tra ciò che vediamo e ciò che risiede nella nostra memoria, dobbiamo credere che le informazioni siano vere e rapportabili al mondo che conosciamo. Questo è facilitato dal fatto che non si tratti solo di stimolazioni visive, ma anche di altro genere. Quando si cerca di simulare le percezioni del mondo esterno coinvolgendo più apparati,la realtà virtuale risulta sempre più credibile. Per entrare in un mondo virtuale che sia il più possibile realistico, questo mondo deve essere più ricco possibile e coinvolgere non solo la vista, ma anche altri sensi.
L’intervento si è concluso con la spiegazione di un caso clinico da parte della dott.ssa Borlimi. La relatrice ha illustrato il caso di una studentessa che lamentava alcune difficoltà nel portare a termine il suo percorso universitario. La ragazza mostrava le caratteristiche tipiche del perfezionismo: paura di fallire, di non controllare le sue emozioni, eccessivo evitamento del danno, ricerca dell’approvazione dei genitori e costanti sforzi per ottenerla.
Imm. 3 – Dott.ssa Rosita Borlimi
La studentessa è arrivata in consultazione 4 settimane prima della discussione della tesi. Solo il pensiero di questo evento le causava ansia, rimuginio e molti timori, per cui la ragazza metteva in atto una serie di evitamenti che non le permettevano di sperimentarsi e creavano nuove memorie antagoniste e inibitorie. Il poco tempo a disposizione prima della sessione di laurea non ha permesso di applicare il protocollo CBT, così la docente si è avvalsa della realtà virtuale. Sono state pianificate delle esposizioni con lo scopo di disconfermare le credenze e i pensieri disfunzionali e aumentare il senso di autoefficacia.
Dopo una prima esposizione in laboratorio, è stato consegnato un visore alla paziente con il quale esercitarsi nella discussione della tesi. Per rendere l’esperienza più realistica possibile, sono stati stimolati più apparati sensoriali: la vista con un filmato a 360° della folla, l’udito con rumori di brusio e la dimensione propriocettiva chiedendo alla ragazza di indossare le scarpe con il tacco che avrebbe indossato il giorno della laurea. L’intervento ha avuto l’effetto desiderato: è stato misurato un progressivo decremento del tempo di recovery e la studentessa è riuscita a laurearsi.
Psicopatologia della noia – Il quinto episodio di Caffè Cognitivo
I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.
Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.
Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.
PSICOPATOLOGIA DELLA NOIA
A chatbot-based intervention to promote healthy coping in young adults – ECDP 2021 / Poster Session
POSTER PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY 2021
Silvia Rizzi1, Sara Carbone1, Silvia Gabrielli1, Rosa Maimone1, Michele Marchesoni1, Giulia Bassi1 and Stefano Forti1
1. Digital Health Lab, Center for Digital Health & Wellbeing, Bruno Kessler Foundation, Trento
La transizione dalla scuola superiore all’università può essere un momento molto critico, che può comportare ansia e peggiorare la capacità di affrontare le sfide. In seguito alla pandemia da Covid-19 gli interventi mHealth rappresentano delle soluzioni ideali per cercare di raggiungere le persone ovunque e in qualsiasi momento. I giovani, inoltre, hanno grande familiarità con i sistemi di messaggistica istantanea e quindi l’interazione con un chatbot potrebbe fornire loro un modo innovativo per facilitare la psico-educazione e l’accesso ad interventi di supporto.
ATENA è un chatbot accessibile gratuitamente sulla piattaforma Telegram che fornisce contenuti psicoeducativi per rafforzare le strategie di coping nei confronti di ansia e stress e che favorisce il benessere mentale. Il chatbot è stato sviluppato dal Digital Health Lab – Center for Digital Health & Wellbeing della Fondazione Bruno Kessler (FBK) di Trento.
Il programma di intervento consiste in 8 brevi sessioni erogate due volte a settimana per 4 settimane. Le conversazioni tra ATENA e l’utente si basano su interventi psicoeducativi per favorire l’autoconsapevolezza, l’autoefficacia, la risoluzione dei conflitti e la comunicazione assertiva, ma anche per la pratica della mindfulness erogata alla fine di ogni sessione.
Dopo la seconda settimana di utilizzo (sessione 4) gli utenti sono stati invitati dal chatbot a compilare il questionario UES-SF (User Experience Scale – Short Form) per valutare il loro interesse e la loro esperienza d’uso del chatbot durante le prime due settimane di interazione. Quattro settimane dopo la fine dello studio ai partecipanti è stato anche chiesto di compilare un breve sondaggio online per poter raccontare ciò che è piaciuto di più e di meno nell’interazione con ATENA e se avevano continuato a praticare alcuni degli esercizi forniti durante l’intervento con/senza il supporto di ATENA nelle ultime 4 settimane.
Nel complesso, i nostri risultati sono allineati con i recenti studi sui chatbot e informeranno le future scelte di progettazione. I risultati riguardanti il coinvolgimento degli utenti e gli aspetti qualitativi suggeriscono che la nostra soluzione prototipata abbia bisogno di essere ulteriormente raffinata per poter soddisfare pienamente le preferenze degli utenti target prima di essere pronta per una valutazione più completa dell’efficacia in uno studio randomizzato. La nostra analisi indica che un intervento di psicoeducativo basato su chatbot per giovani utenti dovrebbe infatti richiedere livelli più profondi di coinvolgimento tramite la conversazione e la presentazione di feedback gratificanti da parte del chatbot al fine di mantenere l’interesse e l’impegno degli utenti nel medio-lungo periodo.
La durata e l’intensità del nostro intervento, comunque, è stata sufficiente a fornire un supporto psicoeducativo agli studenti senza interferire troppo con i loro impegni di vita quotidiana ed è stato anche efficace nel favorire l’auto-riflessione la pratica della mindfulness nel periodo di follow-up. Questo potrebbe essere interpretato come un segno di empowerment dell’utente nella direzione di un cambiamento comportamentale desiderato, anche se sono necessarie ulteriori ricerche per confermare questa interpretazione.
Valutare l’esperienza d’uso degli interventi di mHealth è quindi la chiave per imparare come meglio adattare gli interventi psicoeducativi alle reali esigenze degli utenti. Il feedback raccolto in questo studio, infatti, sarà la base per il perfezionamento di questo e futuri interventi di mHealth per la salute mentale.
L’applicazione della DBT con adolescenti che manifestano comportamenti autolesivi
Nelle situazioni in cui vi sia un elevato livello di rischio suicidario, sembra che la DBT si riveli una forma di intervento potenzialmente efficace anche con gli adolescenti, specialmente se associata a strategie concrete per la regolazione delle emozioni e al coinvolgimento dei familiari.
Marta Chemello – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre
La Dialectical Behavior Therapy (DBT) nasce con l’obiettivo di affrontare la disregolazione emotiva e comportamentale che caratterizza alcuni pazienti, diventando ad oggi una terapia empiricamente supportata per il trattamento del Disturbo di Personalità Borderline. Molto spesso in adolescenza emergono tali caratteristiche e nel modello DBT vengono concettualizzate come fattori scatenanti di comportamenti impulsivi ed evitanti che vengono attuati al fine di regolare le emozioni sperimentate. L’applicazione delle DBT con gli adolescenti è stata manualizzata da Rathus e Miller (2016), i quali hanno adattato il programma originale per adulti alla popolazione adolescente; nello specifico i familiari sono stati inclusi nel percorso di intervento, sono stati identificati nuovi dilemmi dialettici, è stato identificato un diverso modo per la gestione dei conflitti familiari e infine il materiale è stato semplificato e reso accattivante per la nuova utenza. Gli autori hanno previsto che tale programma possa essere utilizzato in programmi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria; nel presente articolo verranno presentati due trial randomizzati controllati relativi all’efficacia dello DBT skills training in quest’ultimo contesto.
Un primo studio (Mehlum et al., 2014) ha indagato l’efficacia della DBT in un gruppo di adolescenti che manifestava comportamenti autolesivi; nello specifico sono stati considerati pazienti che avessero attuato almeno 2 comportamenti autolesivi nella propria vita (di cui almeno uno nelle ultime 16 settimane) e soddisfacessero almeno 2 criteri del DSM-IV per il Disturbo di Personalità Borderline (o almeno 1 criterio con 2 sotto soglia). Come “atti di autolesionismo” sono stati considerati tentativi di avvelenamento o lesioni attuati allo scopo suicidario, senza scopo suicidario oppure con scopo non chiaro. I partecipanti sono stati quindi casualmente assegnati al gruppo sperimentale, nel quale veniva applicata la DBT, e al gruppo di controllo dove si ricorreva a protocolli generalmente applicati nei diversi contesti di cura. Gli sperimentatori chiamati a valutare i partecipanti non erano a conoscenza del gruppo di appartenenza dei soggetti e, in fase di assessment, identificavano il numero degli episodi di autolesionismo riferiti, l’ideazione suicidaria e la sintomatologia depressiva, parametri che sono stati valutati prima dell’assegnazione casuale ai due gruppi e, successivamente, a 9, 15 e 19 settimane a partire dal primo incontro.
I dati raccolti alla baseline non denotavano differenze significative tra i due gruppi; entrambi i programmi implementati prevedevano una durata di 19 settimane; nel caso specifico della DBT tre incontri venivano svolti individualmente mentre i successivi erano di gruppo; anche nel gruppo di controllo era previsto l’utilizzo di entrambi i setting.
I risultati ottenuti hanno mostrato come in entrambi i gruppi vi sia stato un buon livello di partecipazione, senza differenze statisticamente significative tra i due. Nel gruppo sperimentale è stato possibile apprezzare una significativa diminuzione nei comportamenti autolesivi, nell’ideazione suicidaria e nella sintomatologia depressiva. Un’osservazione interessante è come i miglioramenti riportati dai pazienti si manifestino durante tutto l’arco di tempo dell’intervento DBT, mentre altrettanto non si è verificato nel gruppo di controllo. Non vi sono stati suicidi e pochi sono stati i ricoveri oppure le visite in ospedale, nonostante non siano riscontrabili differenze statisticamente significative tra i due gruppi.
Uno studio successivo (McCauley et al., 2018) ha applicato un trial randomizzato controllato con la finalità di approfondire un aspetto non indagato nel precedente studio, ossia i tentativi di suicidio. Nella presente ricerca gli autori hanno valutato i tentativi di suicidio separatamente rispetto ai soli atti autolesivi poiché sembrava rilevante identificare trattamenti efficaci per adolescenti che manifestassero un elevato rischio suicidario.
Similmente al precedente trial sono stati individuati, all’interno dei servizi di cura, gli adolescenti che riferivano almeno un tentativo di suicidio, una cospicua ideazione suicidaria nel mese precedente, ripetitivi comportamenti autolesivi (almeno 3 nell’arco della vita e 1 nelle ultime 12 settimane), 3 o più sintomi che soddisfacessero i criteri del DSM-IV per il Disturbo di Personalità Borderline e un’età compresa tra i 12 e i 18 anni. Sono stati successivamente assegnati casualmente ad una delle due condizioni sperimentali: nel gruppo sperimentale veniva applicata la DBT mentre in quello di controllo la Terapia Supportiva individuale e di gruppo. In entrambi i casi i programmi terapeutici hanno avuto durata di 6 mesi, alternando sedute individuali ad incontri di gruppo, includendo i genitori e considerando un numero di assenze superiore a 4 come indice di dropout.
La valutazione ha indagato principalmente i tentativi di suicidio, gli atti autolesivi privi di intenzionalità suicidaria, l’autolesività, la presenza di ulteriori disturbi associati e la presenza di tratti riconducibili al Disturbo di Personalità Borderline; tali parametri sono stati valutati prima dell’assegnazione casuale, a 3, a 6 (fine del programma), a 9 e a 12 mesi.
L’analisi dei dati raccolti mostra come gli adolescenti che hanno preso parte al gruppo DBT abbiano partecipato maggiormente al programma, rimanendo coinvolti per diverse settimane. Inoltre durante il periodo dell’intervento nel gruppo sperimentale vi è stata una riduzione nel numero dei tentativi suicidari, nei comportamenti autolesivi non suicidari e in generale nelle condotte autolesive; non vi sono tuttavia differenze statisticamente significative tra i due gruppi al follow-up a 12 mesi, poiché entrambi hanno mantenuto i progressi mostrati in precedenza.
Quanto emerge da questi due studi può portare a concludere come, nelle situazioni in cui vi sia un elevato livello di rischio suicidario, la DBT si riveli una forma di intervento potenzialmente efficace, rendendo tuttavia auspicabile un intervento di lungo termine che includa eventualmente degli incontri di monitoraggio e ulteriori strategie di intervento. In questo specifico contesto appare necessario offrire agli adolescenti delle strategie concrete per la regolazione delle proprie emozioni, in associazione al coinvolgimento dei familiari nel percorso di trattamento.
Panico, Ansia & Paura. Guida strategica per aspiranti coraggiosi (2021) di Alessandro Bartoletti – Recensione del libro
Panico, Ansia & Paura. Guida strategica per aspiranti coraggiosi spiega e differenzia termini quali paura, panico, ansia e angoscia, spesso usati impropriamente, e mette in luce come parlare di attacchi di panico o disturbo di attacco di panico possa risultare alquanto riduttivo.
Fresco di pubblicazione, l’ultimo lavoro di Alessandro Bartoletti, psicologo e psicoterapeuta, fondatore e Direttore dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Strategica IPPS, dal titolo Panico, Ansia & Paura. Guida strategica per aspiranti coraggiosi, un testo in cui l’autore in modo elegante ed esaustivo, prova a mettere in luce aspetti, dinamiche, meccanismi innati nell’essere umano oppure appresi, che svelano e spiegano l’incomprensibilità di cosa avviene e perché avviene un attacco di panico.
Per fare ciò, Alessandro Bartoletti, parte dalla spiegazione e differenziazione dei termini spesso in uso improprio quali paura, panico, ansia e angoscia, mettendo in luce come spesso parlare di attacchi di panico o disturbo di attacco di panico possa risultare alquanto riduttivo.
In tal senso, l’autore esplora come il panico coinvolga la persona da un punto di vista fisiologico, emotivo, cognitivo e come i tre aspetti possono influenzarsi, esasperarsi e mantenere il problema vicendevolmente ed ancora come il panico, possa essere un sintomo, la punta di un iceberg, la goccia che fa traboccare il vaso.
Ma di quali vasi si parla?
Riscontrabile in differenti problemi clinici, l’attacco di panico può essere non soltanto la causa del problema del soggetto ma anche l’esasperazione di altre criticità, citando ad esempio persone in lotta con i propri timori ossessivi, pensieri “brutti e cattivi”, condizioni depressive e paranoiche, persone che fanno uso e abuso di sostanze, in risposta a stress, riscontrabili in quadri ipocondriaci.
Le varie condizioni sopra citate vengono analizzate nel dettaglio tra le varie pagine del testo, insieme alle strategie che peggiorano il problema, prime fra tutte l’evitamento, il controllo e la ricerca di rassicurazione, rimanendo intrappolati nel meccanismo della paura della paura. Ma verranno esplorati anche relativi strategie e stratagemmi per affrontare la paura e sviluppare il coraggio, perché la paura, importantissima emozione per l’uomo, possiamo imparare a gestirla.
Ricorda infatti l’autore che già nel mondo antico si soffriva di paure intense che si facevano ricollegare al dio Pan, una divinità mostruosa impegnata a terrorizzare e spaventare le persone, causando loro attacchi di panico, ma sempre l’autore ci ricorda che Pan dell’Olimpo è l’unico a non essere immortale e dunque, ci suggerisce, con le giuste strategie possiamo liberarci di lui,ed all’interno del libro ne vengono svelate e condivise diverse.
Dal climax del piacere alla finzione: la storia e l’evoluzione dell’orgasmo
Nella storia dell’evoluzione la sessualità è stata caratterizzata da diverse fasi che hanno comportato mutamenti nei processi riproduttivi e di sperimentazione del piacere.
Una grande incognita biologica è legata al climax sessuale e al perché si traduce in un’esperienza piacevole e appagante. Mentre il maschio non può trasferire i suoi gameti senza sperimentare un orgasmo, al contrario, quello femminile sembra completamente disconnesso dalla riproduzione nella specie umana (Cabanac, 1971; Hrdy, 1996; Wallen e Lloyd, 2008). L’orgasmo è caratterizzato da cambiamenti fisici comuni nei due sessi, ad esempio un aumento della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca e della respirazione (Masters e Johnson, 1966; Berman et al., 1999). A livello fisico, durante l’orgasmo sono rilasciati alcuni neuropeptidi che causano un senso di benessere, tra cui dopamina, ossitocina e prolattina (Lodé,2019).
Sebbene una definizione precisa sia incerta, Bancroft (2005) descrisse l’orgasmo come “uno stato motivante verso l’esperienza del piacere sessuale”. L’orgasmo è diretto dal sistema nervoso autonomo (SNA) e dal midollo spinale, nonostante ciò, è in grado di attivare numerose zone corticali attraverso il nervo vago (Komisaruk et al., 2004). Lodé (2020) ha cercato di strutturare la cronologia storica dell’orgasmo e delle sue modificazioni. Nei vertebrati, l’analisi dei tratti evolutivi suggerisce come l’orgasmo abbia avuto delle variazioni attraverso tre fasi filogenetiche. Nello specifico, durante il passaggio dalla fecondazione esterna a quella interna nei vivipari (Lodé, 2019). Nella prima fase, l’orgasmo è associato all’eiaculazione nei maschi e all’espulsione dei fluidi delle ovaie da parte delle femmine. Il sesso è stato riconosciuto come la modalità riproduttiva più comune tra gli eucarioti. Originariamente basato su meiosi, è stato ipotizzato che il sesso sia nato grazie a delle interazioni arcaiche dovute alle “bolle libertine”, vale a dire attraverso scambi genici (vedi Lodé, 2011). Attraverso questa attività indipendente e ripetuta, siamo partiti da una determinazione cromosomica del genere sessuale fino allo sviluppo dei ruoli maschili e femminili (Crews, 1982). Molti vertebrati sembrano sperimentare numerose manifestazioni caratteristiche di un orgasmo durante la loro attività copulatoria (Fox e Fox, 1971; Gould, 1987; Balcombe, 2009) e la maggior parte delle specie ha sviluppato organi sensibili e recettori organici legati al circuito nervoso della ricompensa. Con i primi vertebrati si sono sviluppati circuiti neuronali dopaminergici e mesolimbici che regolano il comportamento sessuale (O’Connell e Hofmann, 2011).
In secondo luogo, l’orgasmo si è evoluto con lo scopo di stimolare l’attività sessuale tra due esseri vivipari, in particolar modo nelle specie con bassi tassi riproduttivi. Nello specifico, la transizione evolutiva da fecondazione esterna a fecondazione interna ha portato ad una diminuzione della prole a favore della protezione dello sviluppo embrionale, di conseguenza hanno compensato moltiplicando le copulazioni (Lodé, 2019). Se realmente l’orgasmo dipendesse dal riflesso primitivo dello “scarico” dei gameti, utili a garantire la riproduzione, tale sensazione non potrebbe essere ridotta ad un paradigma incentrato sulla stimolazione clitoridea o del pene (Lodé, 2019). Allo stesso tempo, il climax sessuale si è evoluto per promuovere le prestazioni riproduttive non solo con lo scopo di procreare, bensì perché tale senso di piacere fornisce una gratificazione tale da intraprendere relazioni sessuali non riproduttive, come relazioni e comportamenti omosessuali (Dagg, 1984; MacFarlane et al., 2010).
In terzo luogo, la fecondazione interna nel tratto genitale femminile rende invisibile l’ovulazione, mascherando il potenziale successo della fecondazione. Dato che non sempre ha un fine procreativo, viene messa in discussione l’ipotesi secondo cui l’orgasmo possa promuovere una migliore riproduzione. Nonostante ciò, si sostiene che l’orgasmo femminile si sia evoluto come una tattica post-copulatoria dove le femmine “possono aumentare il controllo dei loro partner” (Lodé, 2019). Nella maggior parte delle specie che utilizzano la fecondazione esterna, spesso l’accoppiamento dipende dalla disponibilità della femmina ad accoppiarsi. Al contrario, i comportamenti coercitivi maschili sono stati ampiamente dimostrati nelle specie che utilizzano la fecondazione interna (Lodé, 2019). Nel regno animale, le femmine dei pesci teleostei possono controllare il numero di uova deposte (Alonzo et al., 2016) presentando un “falso orgasmo” per non posare nel luogo dove il maschio riversa il suo sperma (Ridgway et al., 1989; Petersson e Jarvi, 2001). Tale comportamento fuorviante indica come l’orgasmo può essere un segnale utilizzato per manipolare i maschi. Di conseguenza, i maschi hanno sviluppato comportamenti di contatto – come l’amplesso o il bacio cloacale – come risposta a questi falsi orgasmi.
Nonostante siano il prodotto evolutivo della fecondazione interna, gli orgasmi maschili e femminili hanno seguito diversi percorsi evolutivi (Lodé, 2019). Con la fecondazione interna, esiste una disconnessione tra l’ovulazione e il segnale orgasmico o sessuale femminile. Tale disconnessione consente alla femmina di rinviare la scelta del suo compagno attraverso una sorta di fuga selettiva. Per quanto riguarda la tattica post-copulatoria, tale selezione sessuale si verifica dopo il successo della copulazione e dell’inseminazione attraverso due processi principali dove è richiesto che la femmina abbia più di un partner sessuale (Olsson et al., 1996; Arnqvist, 1998): a) la competizione spermatica e b) la scelta criptica femminile. Nello specifico, anche i fluidi ovarici influenzano l’impatto degli spermatozoi (Alonzo et al., 2016) e, in molte specie, tali fluidi forniscono delle proteine di riconoscimento dei gameti (Vacquier, 1998; Swanson e Vacquier, 2002). Recenti evidenze mostrano come, nella fecondazione esterna, i fluidi e le proteine possano favorire la fecondazione da parte dei maschi “preferiti”. Per quanto riguarda i mammiferi, in tutte le specie gli spermatozoi vengono trattenuti nell’istmo caudale prima dell’ovulazione per formare un serbatoio spermatico: il fatto che i fluidi delle ovaie possano influenzare la velocità dello sperma (Rosengrave et al., 2008; Gasparini e Pilastro, 2011; Fitzpatrick ed Evans, 2014) dimostra come i meccanismi post-copulatori siano in grado di parzializzare la fecondazione. Negli esseri umani, le donne possono simulare orgasmi falsi per fingere di essere interessate al partner (Ellsworth e Bailey, 2013). L’incognita della funzione dell’orgasmo apre molte questioni irrisolte, sia sul ruolo di diversi fluidi coinvolti, sia sulla diversità del comportamento sessuale. La presenza di alcuni ormoni che accompagnano l’orgasmo, come prolattina e ossitocina, potrebbero anticipare la scelta del compagno sessuale (Lodé, 2019). La viviparità viene considerata come il più grande contributo nella storia della vita riproduttiva, contributo che ha favorito la diversificazione evolutiva (Helmstetter et al., 2016).
Uso problematico dei Social Media: dalla validità del costrutto agli interventi clinici – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021
Nel corso della giornata iniziale del primo Congresso Europeo di Psicologia Digitale, una parte del programma è stata dedicata all’uso problematico dei social media.
L’argomento è stato affrontato nel corso delle due relazioni “Problematic Social Media Use: critical reflections on the construct in the light of fifteen years of research” condotta dalla dott.ssa Silvia Casale e “Problematic Social Media Use: Theory, Correlates and Interventions” condotta dalla dott.ssa Claudia Marino.
Uso problematico dei Social Network e validità di costrutto
Obiettivo della presentazione della Dott.ssa Casale è stimolare una serie di riflessioni critiche sulla validità del costrutto di Uso Problematico dei Social Media (PSNSU).
La diffusione dei Social Network ha portato alcuni autori a pensare che certi usi estremamente intensi vadano a nascondere un uso problematico.
Ma qual è la differenza tra un uso intenso e un uso problematico? La Dott.ssa Casale lo spiega molto chiaramente: l’anello di congiunzione tra le due modalità di utilizzo sarebbe la perdita di controllo sul comportamento. Nell’uso problematico infatti la persona presenta un’autoregolazione deficitaria rispetto al proprio uso dei Social. E’ così che alcuni autori arrivano a ipotizzare che l’utilizzo dei Social Network possa concettualizzarsi come una vera e propria dipendenza da tecnologia (dunque una dipendenza di tipo comportamentale)
Tuttavia, sottolinea la relatrice, questa visione dell’uso problematico dei social quale dipendenza comportamentale ha dato origine a un limite di natura metodologica di cui la letteratura risente ancora oggi. Billieux et al (2015) hanno avanzato infatti una critica a tale visione: gli studi in questo ambito hanno assunto a priori l’idea che l’uso problematico dei Social condividesse con le dipendenze da sostanze alcuni core symptoms, tra cui stabilità nel tempo dei comportamenti problematici, richiesta per il trattamento e alcune somiglianze neurobiologiche. Ciò significa quindi che i criteri e le caratteristiche tipici delle dipendenze da sostanze sono stati trasferiti nell’ambito dei social network e dunque l’uso problematico dei social viene a priori considerato un comportamento caratterizzato dai sei aspetti di una dipendenza da sostanza: salienza, mood modification, tolleranza, sintomi di astinenza in caso di interruzione, conflitto e ricaduta.
Imm. 1 – Dottoressa Silvia Casale
Questa concettualizzazione ha portato anche allo sviluppo di strumenti costruiti a partire da studi sulla popolazione generale, tramite cut-off ottenuti con criteri puramente statistici senza una validazione esterna, senza popolazione clinica. Quasi in una sorta di circolo vizioso, tali strumenti sono stati poi utilizzati per dare conferma della validità di costrutto dell’uso problematico dei social network, in termini di una vera e propria dipendenza comportamentale.
Stato dell’arte della ricerca sui core symptoms delle dipendenze
Tenendo in mente questo limite, la dott.ssa Casale ha passato in rassegna la maggior parte dei core symptoms delle dipendenze per arrivare a dire qual è lo stato dell’arte, rispetto alle evidenze disponibili, sulla validità di costrutto dell’uso problematico dei social network come dipendenza. Vediamoli di seguito:
1 – Regolazione degli stati emotivi negativi
Il primo criterio preso in esame riguarda la regolazione degli stati emotivi negativi: nelle dipendenze da sostanza è noto che la persona dipendente che entra in contatto con la sostanza va incontro a delle alterazioni del tono dell’umore, quindi la sostanza è usata per alterare degli stati emotivi negativi che possono essere causati anche dalla stessa sostanza in termini di sintomi di astinenza. Cosa accade con i Social Network invece?
La relatrice illustra evidenze derivanti o da case report o da studi longitudinali, volontariamente non riporta i studi cross section che dimostrano sì una correlazione tra disregolazione emotiva e un uso problematico dei social network, ma senza dare ulteriori indicazioni sulla natura di tale rapporto (che sia unidirezionale? O bidirezionale? Oppure circolare?).
Dagli studi presi in esame emerge un utilizzo dei Social Network con il fine di modificare il tono dell’umore. Alcuni dati sottolineano in particolare che la motivazione principale all’utilizzo di Social Network sia il voler alleviare la noia e che tale motivazione porti a un incremento dell’uso problematico dei social nel tempo. Dunque tali risultati metterebbero in luce due aspetti chiavi delle dipendenze: la capacità della sostanza (i social in questo caso) di alleviare stati emotivi poco tollerabili e la conseguente autoregolazione deficitaria. E’ lecito ora chiedersi: questi dati vanno allora nella direzione di un supporto rispetto alla validità di costrutto dell’uso problematico dei social network? In realtà vanno presi con cautela, indicano alcuni autori, per una serie di ragioni. Non dobbiamo dimenticare infatti che, ci ricorda la Dott.ssa Casale, a differenza della dipendenza da sostanza in cui vi sono esclusivamente l’individuo dipendente e la sostanza, nell’uso problematico dei social intervengono un’infinità di variabili tra sostanza e individuo dipendente che ci allontanano dal dire con certezza che sia la sola sostanza (i social) a favorire l’autoregolazione emotiva, al netto delle altre variabili.
2 – Sintomi di astinenza
La dottoressa Casale passa alla ricerca nell’ambito dei sintomi di astinenza. I risultati in questo caso appaiono poco convergenti. Lì dove alcuni studi trovano la presenza di un aumento di stress, una dispercezione del tempo immediatamente dopo l’interruzione dei Social Network, altri studi invece mettono in luce la presenza di un certo benessere psicologico dopo l’interruzione dell’uso dei social. Quest’ultimo risultato però potrebbe avere doppia interpretazione: il benessere post-interruzione può supportare la tesi che prima vi era un utilizzo problematico o che l’uso è associato a indicatori negativi di benessere psicologico, oppure potrebbe dirci che non ci sono sintomi di astinenza utili a collocare l’uso problematico dei social network tra le dipendenze patologiche.
3- Negative outcomes
Perché si possa parlare di un disturbo bisogna verificare che la problematica in questione sia accompagnata nel tempo da negative outcome (conflitti e problemi nell’ambiente in cui la persona vive). In questo senso, studi longitudinali nell’ambito dell’uso problematico dei social ci forniscono risultati convergenti: l’utilizzo problematico di social media è predittivo di un aumento degli stress psicologici e dei sintomi depressivi. Tuttavia questi studi si basano sugli strumenti costruiti a partire dalle ricerche viziate dal limite di cui si è parlato a nelle premesse.
4- Stabilità
Relativamente alla stabilità nel tempo dell’uso problematico dei social, la dott.ssa Casale ci parla di un recente studio che ha misurato l’andamento dell’uso problematico dei social nel tempo, trovando correlazioni significative e forti. Tuttavia, se confrontata con quella delle dipendenze da sostanze, la stabilità emersa dallo studio non risulta particolarmente convincente. Secondo altri autori invece l’utilizzo problematico dei social può essere un fenomeno dipendente dal contesto e in questo caso è facile il rimando all’attuale momento storico di limitazioni e restrizioni dovute alla pandemia in corso: l’eccessivo utilizzo dei social che tutti stiamo sperimentando andrà incontro a remissione spontanea quando l’emergenza rientrerà? Oppure peggiorerà? O, ancora, ha slatentizzato delle vulnerabilità pre-esistenti?
5- Domanda di trattamento
Per quanto riguarda la richiesta di trattamento, continua la Dott.ssa Casale, i case report sono molto pochi, così come pochi sono gli studi su popolazioni cliniche che hanno richiesto un aiuto specifico per l’utilizzo intensivo dei social. I pochi case report ci informano comunque della possibilità dell’esistenza di un uso problematico dei social network (di facebook nello specifico), sia primario (portato all’attenzione del clinico quale unica problematica) che secondario (in concomitanza ad altre problematiche).
6- Somiglianze neurobiologiche
I comportamenti di dipendenza vengono considerati da un punto di vista neuropsicologico e neurobiologico come il risultato di un equilibrio tra differenti sistemi neurali che vanno a interagire tra loro. La relatrice ci informa che ci sono sì alcune evidenze rispetto all’attivazione nell’uso problematico dei social delle stesse aree cerebrali che si attivano nelle dipendenze da sostanze, ma si tratta di studi acerbi dal punto di vista metodologico. I campioni infatti o sono molto piccoli o sono scelti in popolazioni generali non cliniche, in cui i presunti utilizzatori problematici sono distinti dagli utilizzatori non problematici sulla base di un cutoff costruito in modo statistico su una popolazione non clinica.
La dott.ssa Casale conclude il suo intervento sottolineando la necessità che la ricerca continui ad essere condotta soprattutto con campioni clinici. La parola passa in seguito alla Dott.ssa Marino con la relazione dal titolo “ Problematic Social Media Use: Theory, Correlates and Interventions”
Uso problematico dei social media: teoria e interventi
Uso dei social e adolescenti
Anche la Dott.ssa Marino inizia il soffermandosi sulla diffusione del fenomeno dei social. L’uso problematico dei social media si caratterizza come un fenomeno interessante da studiare soprattutto in adolescenza. Le evidenze scientifiche ci dicono infatti che essere sempre connessi è diventata la normalità, per cui si può iniziare a riflettere non più sulla quantità quanto piuttosto su aspetti riguardanti la qualità e quindi legati a complicazioni e compromissioni per la vita quotidiana.
La relatrice passa così ad esporre il progetto di ricerca per cui collabora, uno studio di 40 anni ormai, condotto in collaborazione con la WHO ogni 4 anni in 50 stati (in Europa e America), che fornisce una fotografia di quanto accade a livello internazionale relativamente all’uso problematico delle nuove tecnologie.
Un primo dato che emerge riguarda proprio gli adolescenti tra gli 11 e i 15 anni: circa il 7% degli adolescenti infatti potrebbe essere a rischio di uso problematico di social media. Ricollegandosi all’intervento della Dott.ssa Casali, la dott.ssa Marino precisa che lo studio si basa su una definizione di uso problematico dei social media così come avanzata da un gruppo di ricerca olandese, ovvero riferendosi al social media disorder. Recentemente si è riflettuto sul fatto che l’uso della parola disorder non fosse adeguato. Ecco allora che attualmente si fa riferimento al concetto di uso problematico dei Social Media, che riflette caratteristiche comportamentali, sociali, cognitive ed emotive che si riversano nella vita quotidiana.
Imm. 2 – Dottoressa Claudia Marino
L’uso problematico dei social media in Italia
Qual è la prevalenza del fenomeno in Italia e il suo impatto sul benessere? Quali sono i potenziali fattori di rischio e come si potrebbe prevenire un utilizzo non controllato dei Social Media? La dottoressa ci presenta tre studi volti ad approfondire le domande.
Diffusione e impatto sul benessere
Il primo studio di cui ci parla la dott.ssa Marino ha avuto come campione ragazzi italiani tra gli 11 e i 15 anni. Attraverso l’utilizzo di strumenti standardizzati, i dati raccolti ci dicono come in Italia circa il 9% degli adolescenti va incontro al rischio di essere definito un utilizzatore problematico di Social Media, con una maggioranza del genere femminile. La fascia d’età più a rischio è quella dei 13enni.
Relativamente all’impatto sul benessere, gli utilizzatori problematici hanno più probabilità di riportare sintomi somatici. Dal punto di vista psicologico invece, gli utilizzatori problematici riportano spesso dei cali dell’umore.
Fattori di rischio
In merito ai fattori di rischio invece, la dott.ssa Marino presenta i risultati di un secondo studio che testa l’influenza del gruppo dei pari. Questa variabile, nella letteratura sui social media, è ancora poco studiata. Nello studio in questione la parte sociale è stata unita a una parte di regolazione delle emozioni in un campione di adolescenti italiani che utilizzano Instagram, Whatsapp e Facebook. Sono state misurate le norme sociali, ovvero la percezione di ciò che gli altri si aspettano da noi, e le e-motion che si riferiscono ad alcune dimensioni dei Social Media relative all’espressione emotiva ma anche alle credenze relative ai benefici dei Social Media sui processi di pensiero, di decison making, di problem solving, ecc. I risultati emersi ci dicono che, per gli adolescenti, la percezione di ciò che i pari ritengono importante fare all’interno di un gruppo ha un effetto diretto sull’utilizzo problematico dei social, aumentandone la probabilità di insorgenza.
Al contrario, la percezione dell’uso dei social fatto dal gruppo di pari non ha un effetto diretto sull’utilizzo problematico, quanto piuttosto indiretto: più l’adolescente percepisce che gli amici utilizzano i social in modo intenso, più li utilizzerà anche lui andando incontro a un uso problematico. I fattori sociali dunque possono essere implicati in questo ambito e, per rendere più chiara questa implicazione, la relatrice ci invita a riflettere sullo stress che spesso origina dalle spunte blu di whatsapp.
Dal punto di vista emotivo, le difficoltà di regolazione emotiva avrebbero un effetto diretto sull’uso problematico dei social media: i social diventano dunque strategie di coping per affrontare gli stati emotivi negativi. Questo non si traduce sempre in qualcosa di negativo: ad esempio è stato visto che esprimere, in momenti di difficoltà, le proprie emozioni sui social, non sarebbe collegato a un uso problematico di questi e quindi potrebbe davvero avere un aspetto funzionale di sollievo da stati poco tollerabili. Ciò che potrebbe essere un potenziale problema invece è il credere che, esprimendo le proprie emozioni sui social, possano migliorare le relazioni con i propri contatti, il proprio stile cognitivo e di decision making.
Trattamento e prevenzione
Cosa fare allora? Non esistono ancora evidenze molto forti rispetto all’efficacia di interventi specifici. La letteratura ad oggi suggerisce che la CBT può rivelarsi efficace nel trattamento dell’uso problematico dei social media. Il gruppo di ricerca della Dott.ssa Marino, con la collaborazione con il Dott. Spada, ha avviato un lavoro che prende in considerazione i processi metacogntivi implicati nel problema. Un lavoro che sembra essere molto promettente.
Ciò che spesso passa in secondo piano è il tema della prevenzione, a questo proposito la relatrice ci parla del progetto Cyberscuola che si pone come obiettivo proprio quello di agire in questa direzione. Attivo dal 2017 al 2019 nelle province di Padova e Rovigo, il progetto ha previsto 3 incontri di due ore ciascuno in ogni classe. Gli incontri sono stati interattivi ed esperienziali, caratterizzati sia da attività off-line che on-line: quindi dopo aver fatto uno screening iniziale sull’uso problematico dei social media a livello personale, nel primo incontro sono state avviate delle attività di classe che potessero modificare le norme sociali. Nel primo dei tre incontri, si è tentato di raggiungere un accordo tra i compagni su come si può rispondere ai messaggi su WhatsApp, sui contenuti a cui è importante mettere una reazione su Instagram e sul valore di un like (modificando così le idee sul proprio comportamento e su quello dei compagni). Nel secondo incontro ci si è concentrati sulle motivazioni, sul coping e sulla regolazione emotiva, mentre il terzo incontro ha previsto delle attività sulla costruzione dell’identità sociale. Sui 900 adolescenti del campione, è stato registrato un decremento del rischio alto e un ottimista aumento del basso rischio, con una generale diminuzione dell’uso problematico dei social nei ragazzi.
Ciò che sembra chiaro è il ruolo importante di norme sociali e regolazione emotiva nell’utilizzo problematico dei social, l’invito della Dott.ssa Marino è quello dunque di promuovere un uso sempre più positivo delle tecnologie a partire da queste due variabili.
The use of Serious Games in psychotherapy: an international comparison study about psychotherapists’ and patients’ attitudes – ECDP 2021 / Poster Session
POSTER PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY 2021
Jessica Huss1, Christiane Eichenberg2
1 – University of Kassel, Germany 2- Sigmund Freud Private University Vienna, Austria
Compared to Internet and mobile communications, video and computer games are underused for the treatment of mental illnesses. This also applies to Serious Games, i.e. interactive computer games that train cognitive or behavioral skills in a digital learning environment.
The few existing studies on the effectiveness of Serious Games in psychotherapeutic treatment have shown positive results (see Eichenberg & Schott, under review; Fleming et al., 2014), but there is still limited knowledge of both national and international acceptance and experience of Serious Games use in therapeutic settings, which leads to the following research question: do psychotherapists and patients in various countries differ in their attitudes towards the use of Serious Games in psychotherapy? Opinion polls on the application of Serious Games in the psychotherapeutic context were assessed through the use of two online surveys (cf. Eichenberg, Grabmayer & Green, 2016), one version for psychotherapists and one for patients, in various countries.