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La depressione nell’anziano: una sfida diagnostica e di promozione del benessere – VIDEO dal webinar

Numerosi studi evidenziano come l’insorgenza della depressione in età avanzata nella nostra società sia sempre più frequente, con una percentuale di anziani depressi stimata intorno al 15-20% della popolazione.

 

Il 10 gennaio si è tenuto il webinar “La depressione nell’anziano: una sfida diagnostica e di promozione del benessere”, organizzato da Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto.

L’incontro ha affrontato il tema dei disturbi dell’umore nell’invecchiamento e della loro origine multifattoriale. Per i professionisti, così come per i familiari, può risultare infatti complesso individuare i sintomi depressivi poiché spesso i segnali sono sottovalutati e associati al naturale processo dell’invecchiamento o alle patologie coesistenti. Riconoscere e trattare una deflessione significativa del tono dell’umore tramite interventi farmacologici, psicoterapeutici e psico-sociali significa intervenire sulla sintomatologia manifestata, limitarne l’azione iatrogena sulla salute dell’anziano e sulle funzioni cognitive, incrementando qualità di vita e benessere.

Il webinar è stato condotto dalla Dott.ssa Sciore Roberta – Psicologa, Psicoterapeuta, Esperta in Psicologia dell’Invecchiamento e Co-didatta presso Studi Cognitivi. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

LA DEPRESSIONE NELL’ANZIANO:
UNA SFIDA DIAGNOSTICA E DI PROMOZIONE DEL BENESSERE
Guarda il video integrale del webinar:

 

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Stereotipi e pregiudizi: una questione di punti di vista

Gli stereotipi vengono definiti come delle immagini mentali che racchiudono una varietà di proprietà associate a una determinata categoria di oggetti.

 

Il termine stereotipo proviene dall’ambiente tipografico dove fu coniato verso la fine del settecento per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse (dal greco stereòs = rigido e tùpos = impronta). Il primo uso traslato viene effettuato in ambito psichiatrico con riferimento a comportamenti patologici caratterizzati da ossessiva ripetitività di gesti ed espressioni. L’applicazione alla moderna psicologia sociale si deve a Lippmann, giornalista politico, che nel 1922 lo utilizzò, in un suo volume, con il significato di calchi cognitivi atti a riprodurre nella mente degli uomini immagini di persone o di eventi.

Secondo Lippmann, lo stereotipo è un contenuto semplicistico, di carattere approssimativamente negativo che si basa su un ragionamento sbagliato, non corrispondente alla realtà, e interiorizzato su frame di pensiero troppo rigidi.

Un altro autore, Allport, negli anni cinquanta, lo definisce “un’opinione esagerata in associazione a una categoria. La sua funzione è quella di giustificare, ovvero razionalizzare, la nostra condotta in relazione a quella categoria. Lo stereotipo non è identico alla categoria; esso è piuttosto un’idea fissa che l’accompagna  ed agisce in modo da impedire un pensiero differenziato in rapporto al concetto”. Un altro aspetto interessante rilevato dallo stesso Autore, è la facilità con cui adottiamo una giustificazione, o il suo opposto, in base alla conversazione occasionale: coloro che non tollerano gli ebrei, per esempio, possono sostenere che questi siano isolazionisti ma anche intrusivi, aderendo a qualunque stereotipo che possa giustificare il loro rifiuto.

Brown, invece, definisce gli stereotipi come una sorta di scorciatoia mentale che fa sì che la percezione di un individuo come appartenente ad una particolare categoria sociale comporti l’attribuirgli certe caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo cui questi appartiene.

Gli stereotipi non hanno soltanto il compito di semplificare e ordinare il mondo, ma giocano un ruolo fondamentale anche nell’orientare la ricerca, l’elaborazione e la valutazione dei dati dell’esperienza, nonché le reazioni ai membri di altri gruppi. E’ come se funzionassero da ipotesi provvisorie che, però, non utilizziamo scientificamente, cioè con l’intento di falsificarle, ma, al contrario, cerchiamo e selezioniamo tutte quelle informazioni che possano confermarle. Gli stereotipi influiscono, così, sulle nostre attese future, ma possono anche introdurre elementi di distorsione nelle rievocazioni che facciamo del passato.

In sintesi, gli stereotipi racchiudono immagini pre-confezionate, di facile accesso e reperibilità in memoria, atte a provocare dei bias, cioè degli errori di valutazione, a livello della percezione reale dei tratti tipici e dell’appartenenza categoriale delle persone e degli oggetti.

I fenomeni legati all’immigrazione costituiscono un ambito in cui frequentemente i processi di attribuzione sono legati alle appartenenze sociali ed agli stereotipi. In tal senso, per esempio, si tende ad attribuire gli eventi sgradevoli alle caratteristiche stereotipiche negative degli immigrati.

Gli stereotipi possono essere considerati il nucleo cognitivo del pregiudizio.

In particolare, Pettigrew e Meertens, hanno distinto tra forme sottili e sfaccettate del fenomeno, rispettivamente riferibili al razzismo moderno e al razzismo vecchio stampo. Gli Autori specificano che “le forme sottili implicano una difesa dei valori individualistici tradizionali, unita alla credenza che i gruppi minoritari abbiano beneficiato di favori non dovuti, e un’accentuazione delle differenze culturali fra il gruppo di maggioranza e il gruppo di minoranza. Il razzista sottile non esprime apertamente i suoi sentimenti negativi nei confronti dei membri dei gruppi di minoranza, ma si limita a non accordare loro un qualsiasi sentimento positivo”.

Gaertner e Dovidio concordando sul fatto che le forme più vistose di pregiudizio siano in declino, introducono il concetto di razzismo riluttante o avversivo, con il quale si riferiscono a coloro che aderiscono ad atteggiamenti progressisti e liberali di tolleranza, uguaglianza e apertura nei confronti dei membri di gruppi diversi dal proprio, ma che, in condizioni di insufficiente strutturazione normativa o di conflitto, lasciano emergere comportamenti discriminatori, retaggio di rappresentazioni negative culturalmente ereditate.

Conoscere le varie forme in cui il pregiudizio può manifestarsi ci aiuta anche ad “evitare le trappole implicite nei vari antirazzismi, e cioè nell’antirazzismo assimilazionista e nell’antirazzismo della differenza“.

L’assimilazione costituisce una strategia di gestione delle relazioni interetniche che si esprime nella tendenza del gruppo maggioritario ad inglobare quello minoritario sulla base di una presunta superiorità del proprio modello culturale. Essa si traduce facilmente nel “razzismo dell’omologazione, poco o per niente rispettoso delle specificità culturali che fungono invece da solido referente identitario per chi si trova in un contesto a lui estraneo”.

Il riconoscimento delle differenze, a sua volta, può tramutarsi in razzismo differenzialista, cioè nel rifiuto del contatto e in una sorta di ghettizzazione fisica e mentale in base alla quale non si nega a nessuno il diritto di esistere, ma senza indebite e impossibili contaminazioni. La diversità viene affermata perché da essa ci si può difendere con l’indifferenza e il distacco. In una convivenza fatta di gruppi giustapposti in cui si nega l’uguaglianza e si postula il principio della gerarchia.

I processi di conoscenza e la loro memorizzazione, non sono da sottovalutare ma da controllare ed ogni operazione mentale richiede accuratezza ed eventuale ri-correzione. Si è sempre in tempo per combattere  il pregiudizio, imparando a confrontarsi con il mondo e a cambiare prospettiva.

 

Sesso senza tabù: intervista a Fabrizio Quattrini

Il Prof. Fabrizio Quattrini ha aiutato a fare chiarezza in merito a temi inerenti la sessualità, sottolineando che a tutt’oggi ci sia ancora poca informazione e tanti equivoci e/o tabù a riguardo.

 

Il presente articolo introduce la video intervista fatta all’illustre psicologo, psicoterapeuta e sessuologo Fabrizio Quattrini, nella quale ho desiderato sottoporre all’attenzione del grande esperto tre argomenti su cui poi si snoda il contenuto dell’intervista:

  • Limiti e confini fra trasgressione e “perversione”;
  • Comunità BDSM (Bondage, Dominazione e sottomissione, Sadismo e Masochismo);
  • Pornografia sul web: nuove tendenze.

Chi è Fabrizio Quattrini

 

Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo e fondatore nel 2005 e attuale Presidente dell’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica di Roma.

Sessualita e tabu video dell'intervista al Prof Fabrizio Quattrini Fig 1

Docente presso diverse Università di Italia, ha curato e condotto nel 2012 come esperto la trasmissione televisiva Sex Therapy, dal 2019 fa parte del cast del programma di Real Time Matrimonio a prima vista, autore di diverse pubblicazioni scientifiche e libri dal titolo Non smettere di giocare ed. TEA, Parafilie e devianza. Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale atipico ed. Giunti e sempre per la Giunti l’ultimo suo lavoro dal titolo Il piacere maschile. #sessosenzatabù, da cui trae spunto il titolo dell’intervista e del presente articolo.

Il Prof. Fabrizio Quattrini in tale sede ha aiutato a fare un po’ di chiarezza in merito ai tre temi sopra esposti, partendo dal significati dei termini e continuando a spiegarne anche il risvolto sul piano clinico, in quanto lo stesso sottolinea che a tutt’oggi in tema di sessualità ci sia ancora poca informazione e tanti equivoci e/o tabù.

Spiegherà dunque come ad esempio il termine perversione sia un termine improprio, rimandando quasi ad una dimensione peccaminosa, di giusto/sbagliato, sottolineando l’esigenza di sostituire questo termine con quello più idoneo di parafilie (va ricordato infatti che il tema di parafilie e devianze non solo rientra all’interno dei suoi studi ma anche nel suo lavoro accademico, in quanto la materia che insegna all’università dell’Aquila dal 2008 si chiama per l’appunto Clinica delle parafilie e della devianza); ci spiegherà cosa significa l’acronimo BDSM, che include in sé una cultura, invitando a non farne una moda ed infine rifletteremo insieme sui termini più ricercati sul web inerenti la pornografia.

Chiederò inoltre al Prof. Fabrizio Quattrini, in virtù della natura stessa dell’uomo, propenso ad avere più appetizione per il “proibito” e dell’influenza culturale e sociale, che condanna o ne spinge a mode, quanto lo svelamento dei tabù possa, invece di accendere e alimentare il desiderio sessuale, rischiare talvolta di spegnerlo.

 

GUARDA IL VIDEO INTEGRALE DELL’INTERVISTA:

Per ulteriori informazioni sul Prof. Fabrizio Quattrini, sue pubblicazioni e libri, si rimanda al suo sito web.

 

La vita si impara. 50 meditazioni per una vita nuova (2020) di Alberto Pellai – Recensione

Nel suo nuovo libro La vita si impara, Alberto Pellai affronta la tematica dell’emergenza sanitaria e il suo impatto su giovani e adolescenti.

 

La vita si impara, libro di Alberto Pellai, raccoglie dei testi poetici che hanno come scopo quello di donare una nuova fiducia nel futuro, in un periodo di emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo, ma anche durante il normale susseguirsi degli eventi quotidiani. Si rivolge principalmente ad un pubblico giovane e adolescente, più vulnerabile e alle prese con i conflitti di questa fase, trovatosi improvvisamente catapultato in un mondo dai ritmi rallentati.

La noia ha un enorme potere generativo, ma ci obbliga a tollerare la frustrazione di doverla attraversare, sta a noi trasformarla in possibilità creativa‘ e volgerla così a nostro vantaggio. Tramite l’artifizio delle illustrazioni in bianco e nero realizzate da Enrica Mannari che raffigurano sempre emozioni diverse, elabora cinquanta meditazioni, ciascuna differente dalle altre per fronteggiare le difficoltà e gli ostali dei nuovi momenti e delle sempre più disparate difficoltà con cui i giovani si trovano a convivere.

Questa innovazione dimostra l’effetto benefico e quasi terapeutico offerto dal libro stimolando a non mollare e a rendere la paura coraggio, imparando a non temere ciò che è ignoto e che non possiamo controllare. Far parlare le emozioni tramite dei disegni si dimostra essere un originale modo per avvicinarsi al conflittuale mondo degli adolescenti.

In un mondo pieno di rumori è importante stare in silenzio e imparare ad ascoltarsi e ascoltare: è questo l’obiettivo che Alberto Pellai si prefigge e che fa di questo testo illustrato una mano tesa ai ragazzi ma anche ai genitori impegnati a guidare i loro figli nella realizzazione dei compiti evolutivi, senza mai perdere sé stessi.

 

La “fame di tocco umano”: implicazioni psicologiche dell’assenza del contatto fisico ai tempi di COVID-19

Molti paesi hanno scelto il distanziamento fisico come un modo efficace per rallentare la diffusione del COVID-19.

 

Si tratta di una pratica standardizzata, sostenuta da molte autorità sanitarie in tutto il mondo e condivisa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se da un lato si tratta di una misura assolutamente necessaria per il contenimento del contagio, dall’altro è importante non trascurare il benessere mentale della comunità mentre si combatte questa pandemia. L’isolamento derivante dalla quarantena e dal distanziamento fisico, tendono a indurre solitudine, paura e panico nella comunità, specialmente tra i cittadini più vulnerabili e gli anziani (Yip & Chau, 2020).

Il contatto fisico in tempi di COVID-19 è limitato per la sicurezza nostra e degli altri, ma non va dimenticato che è un elemento fondamentale per l’esperienza umana, trattandosi di una componente essenziale dello sviluppo socio-emotivo, fisico, cognitivo e neurologico nell’infanzia e nella fanciullezza. Il tocco umano modella la regolazione emotiva durante tutto l’arco della vita e contribuisce allo sviluppo dell’attaccamento nei neonati che è importante per la qualità di tutte le relazioni successive (Cascio, Moore, McGlone, 2019). Non solo è un’importante forma di comunicazione non verbale ma è usato per trasmettere affetto e rassicurazione in tempi di difficoltà (Connor & Howett, 2009).

Nell’ambito dell’assistenza sanitaria, il tocco umano è anche associato alla trasmissione del conforto, della cura e della compassione e contribuisce nello stabilire connessioni e legami di cooperazione tra operatori sanitari e pazienti (Connor, 2015). Il tocco interpersonale nel rapporto infermiere-paziente è usato per comunicare i bisogni, diminuire lo stress e dimostrare affetto, fornendo benefici sia al paziente che all’infermiere (Connor & Howett, 2009). Quando il contatto fisico è limitato o addirittura assente, si può sviluppare la cosiddetta “fame di contatto fisico” o “fame di tocco umano”, la quale ha un impatto su tutti gli aspetti della nostra salute ed è stata associata ad aumenti di stress, ansia e depressione (Durkin, Jackson, Usher, 2020).

Gli infermieri e gli operatori sanitari della comunità hanno riferito le difficoltà di cura dei pazienti già dai tempi di epidemia di Ebola in Liberia, periodo in cui erano in vigore le “linee guida del non toccare”. Le linee guida no-touch non solo rendevano difficile diagnosticare un paziente senza toccarlo (Siekmans et al., 2017), ma l’isolamento affrontato dai pazienti affetti da Ebola ha compromesso la capacità degli infermieri di trasmettere vicinanza e fornire conforto ai pazienti nei momenti di distress emozionale (Connor, 2015). E come dimostratosi successivamente, queste misure -create per tenere le persone al sicuro- hanno preoccupanti implicazioni sia nel breve che nel lungo termine sulla salute di individui già isolati, come le persone malate, gli anziani (Armitage & Nellums, 2020) e le persone con disabilità (Emerson, Fortune, Llewellyn, & Stancliffe, 2020).

Anche nei nostri tempi la pandemia ha portato in gran parte all’eliminazione del contatto pelle a pelle per gli operatori sanitari e pazienti; è stato riscontrato che l’aumento dell’uso di dispositivi di protezione personale (DPI), pur essenziali per la sicurezza dei pazienti e degli operatori sanitari a causa della facilità di trasmissione e della gravità del COVID-19, impedisce la comunicazione, diminuisce la percezione ed ostacola il processo decisionale, soprattutto in situazioni di emergenza (Benítez et al., 2020) e mentre i guanti costituiscono una necessaria barriera fisica tra infermieri e pazienti, il tocco con i guanti finisce con l’erigere una barriera emotiva (Nist et al., 2020).

Il tocco umano dunque è un metodo potente usato per alleviare e ridurre la sofferenza degli altri, e durante questa pandemia, c’è stata senza dubbio molta sofferenza. I professionisti della salute hanno riconosciuto il ruolo del contatto fisico nella guarigione dei pazienti anche durante le pandemie (Connor, 2015). In effetti, recentemente è stata inventata nelle residenze per anziani una nuova modalità per potersi abbracciare in sicurezza, la cosiddetta “stanza abbracci”: una stanza divisa in due da un grande telo di plastica trasparente, attraverso il quale ciascuno può abbracciare i propri cari.

In questi tempi in cui dobbiamo stare distanti, rendiamoci consapevoli del dolore e della sofferenza causati dall’assenza di contatto fisico nelle nostre vite e in quelle dei nostri amici, familiari, colleghi e pazienti; mentre la nostra capacità di toccare è temporaneamente ostacolata durante la pandemia, cerchiamo altri metodi di comunicazione per compensare questa perdita, cerchiamo altri modi per rimanere “connessi”. Se il distanziamento fisico crea dolore e solitudine (Durkin, Jackson, Usher, 2020), prendiamone atto e agiamo di conseguenza.

 

La teoria polivagale – Il quarto episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema del quarto incontro è stato la teoria polivagale, discusso dal Dott. Roberto Framba e dalla Dott.ssa Alessia Minniti.

 

LA TEORIA POLIVAGALE

The Perfect Image: the role of social media in predicting the acceptance of cosmetic surgery – ECDP 2021 / Poster Session

POSTER PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY 2021

Cristian Di Gesto1, Giulia Rosa Policardo1

1 – University of Florence, Italy

POSTER DOWNLOAD (PDF)

 

Introduction

Instagram is a photo-based social network that has risen in popularity among young women, also in Italy (Global Digital Report, 2020). Appearance-related activities on Instagram have a detrimental impact on women body image (Brown & Tiggemann, 2016; Kleemans et al., 2018). Some research has shown that social media might encourage people to do something to modify one’s appearance (De Vries et al., 2014), including cosmetic surgery (Walker et al., 2019) that is deeply diffused among women (ASAPS, 2019) also in Italy (AICPE, 2019). Nevertheless, some research suggests that body satisfaction does not increase in women who have undergone some cosmetic surgical procedures (Sobanko et al., 2018). Appearance comparison on  Instagram is strongly associated with its use (Brown & Tiggemann, 2016), therefore it could be a risk factor for the interest in unnecessary cosmetic surgery.

Method

Participants were 322 Italian women (mean-age = 23; SD = 2.92), who completed a questionnaire containing the variables of interest. Descriptive analysis and hierarchical regressions were performed.

Results

Regressions showed that friends and celebrities images-related activities (e.g., watch stories or direct  of friend and celebrities) and appearance comparison on Instagram predicted the consideration of cosmetic surgery. Its acceptance for social reasons was predicted by both self and celebrities’ images-related activities and appearance comparison on Instagram. The acceptance of cosmetic surgery for intrapersonal reasons was predicted by the self-image related activities only (e.g., check the number of likes received on personal photos  posted on Instagram), no predictive role of appearance comparison was found.

Conclusion

Our findings could be important for a clearer understanding of the role that images-related  activities carried out on Instagram and appearance comparison can have on the consideration of cosmetic  surgery and its acceptance for intrapersonal and social reasons in young women. These results could also  provide preliminary indications for the design of interventions in the field of health promotion such as social  media literacy training aimed at fostering a critical understanding of the use of photo-based social media.

 

 

L’adolescenza e lo psicoterapeuta ai tempi del Covid-19

L’adolescenza per suo stesso significato etimologico indica il crescere, da adolescens, participio presente di adolescere “crescere”.

 

Infatti con questo termine indichiamo il bambino che sta crescendo per divenire adulto; il tempo che divide queste due fasi è proprio quello dell’adolescenza, in cui le modifiche somatiche si legano alle modifiche sociali, intrapsichiche ed emotive, che sono interdipendenti e intrecciate tra loro.

Piaget descrive molto bene questa fase di sviluppo prendendo in considerazione le diverse modifiche e sviluppi su base cognitiva, sociale e comportamentale. Da un punto di vista biosociale si parla di crescita fisica, si accentuano le diversità tra i due sessi. L’insieme di cambiamenti cognitivi ha un ruolo centrale in quanto l’adolescente inizia ad interpretare il mondo in termini di possibilità e non più in termini di concreta realtà, infatti Piaget parla di ultimo stadio dello sviluppo attraverso il Pensiero Operativo Formale, cioè lo sviluppo del ragionamento scientifico. Erickson si sofferma a studiare questo stadio dell’evoluzione della persona in termini di identità, in cui la persona cerca di definire il proprio sé come unico a se stante, da qui la crisi dell’adolescenza. In questa epoca della vita della persona, mutevole e ambigua, iniziano i conflitti che sorgono dalla rottura dall’immagine genitoriale, dal bisogno di essere accettati e sopra ogni cosa di accettarsi. Con Siegel, Olson e Bruner si tenderà a leggere lo sviluppo non secondo vincoli ben delineati come precedentemente, ma dando maggiore rilievo alle caratteristiche personali e all’utilizzo degli strumenti forniti dall’esterno, si darà maggiore rilievo al rapporto instaurato con l’altro, all’interesse suscitato, ai fattori esperienziali, linguistici e conversazionali. Bruner mette in evidenza come la mente soggettiva non possa esistere se non in riferimento ad un contesto socio-culturale specifico di riferimento, così Olson dà importanza al binomio del contesto educativo verso le abilità/le risposte del singolo, quindi al continuo confronto tra stimolo, elaborazione e risposta.

C’è una tendenza sempre maggiore a leggere questa età, l’adolescenza, come fosse una patologia, errore assai comune; le diverse manifestazioni quali la tendenza alla trasgressione, all’opposizione, allo sperimentare nuove soluzioni per poi ritornare alle precedenti o creare nuove alternative, spaventano, irrigidiscono e chiudono l’adulto, il genitore. Oggi si tende a dare uno standard comune per tutti, una realtà condivisa e condivisibile, viene da sé che questa realtà non può configurarsi comoda per gli adolescenti, l’era della libertà e della sperimentazione per antonomasia.

La nostra società richiede ai giovani di restare all’interno di standard di bellezza, di successo, di danaro, di followers specifici, se non si rientra in questi standard si è esclusi.

Per il lavoro del clinico diviene una chimera poter trovare la formula giusta e adeguabile per leggere e spiegare l’adolescente se si tralascia la contestualizzazione dello stesso. L’ambiente, la famiglia, gli affetti e le singole caratteristiche possono darci la giusta lettura dell’adolescente. Infatti in questa età si manifestano sintomi e comportamenti che in qualsiasi altro contesto richiederebbero una diagnosi, un intervento immediato, ma contestualmente allo sviluppo di cui stiamo trattando rientrano in parametri “consoni”.

Fatta questa premessa pensiamo all’adolescente calato nell’anno scolastico 2020-2021, l’anno della pandemia, l’anno dello stravolgimento di tutte le certezze e le abitudini nella quali sono cresciuti e dalle quali dovevano distaccarsi, una forza maggiore li ha distaccati. Il Covid-19 è giunto nelle nostre vite nel pieno delle relazioni online, giovani proiettati nel web, nelle relazioni virtuali mentre le vivono fisicamente, le comunicazioni social che non sono altro che un continuum di quelle sociali. L’anno 2020 rappresenta una rottura di questo equilibrio tra il social e il sociale, gli adolescenti si sono trovati isolati nel mondo dei social, a dover incontrare la propria scuola, classe, professori e compagni nelle piattaforme online e non più in un istituto, a dover condividere attraverso webcam e non in vivo.

Tutte le esperienze emotive, prestazionali, sociali passano ora attraverso il grande filtro del web.

Negli anni precedenti si è parlato della dipendenza da social, della sindrome di hikikomori, oggi li abbiamo costretti a calarsi in questa realtà.

L’unicità delle esperienze e dell’espressione della ricerca del sé attraverso la ricerca del gruppo dei pari, delle esperienze sessuali, delle esperienze trasgressive ai tempi del Covid è sospesa. Sentimenti come l’incertezza, la preoccupazione, la confusione, non è peregrino immaginare che prendano il posto dell’opposizione, dell’identificazione e della rabbia. In un mondo sociale affettivo dove le grandi certezze come la famiglia e la cultura hanno continue modifiche oramai da decenni, la scuola restava un luogo di certezza, l’obbligo scolastico, la frequenza, i limiti che l’istituzione scuola dava; oggi ci troviamo a veder sgretolare quest’ultimo capo saldo, l’istituto scolastico è stato deprivato dei suoi confini fisici ed entra nelle case attraverso il web.

Riprendendo quanto pubblicato da Save the Children, una indagine IPSOS sull’abbandono scolastico rileva che uno studente su 3 abbandona la frequenza delle lezioni. Possiamo affermare con poco stupore che è in linea con quanto detto sinora: l’adolescente non si riconosce più in un gruppo, in un luogo, persino in un look, restando dentro casa, spesso in pigiama, in tuta per collegarsi, dovendo condividere quello spazio personale con i propri familiari, o lo stesso pc-tablet o altro presidio utilizzato con altri membri della famiglia, l’adolescente viene deprivato del suo mondo, del suo spazio vitale in cui esperire se stesso e sperimentarsi. Secondo l’indagine sopra citata l’85% dei giovani intervistati ammette l’importanza di uscire con gli amici e relazionarsi “in presenza”. Il 35% ritiene che le proprie prestazioni scolastiche siano peggiorate a causa della difficoltà di mantenere l’attenzione, il 38% parla della didattica a distanza in termini negativi, aumentano le difficoltà nella concentrazione oltre che i problemi tecnici dovuti alla connessione e alla scarsa dimestichezza con i mezzi online da parte dei docenti.

Lo psicoterapeuta che si trova ad intervenire in un simile contesto non può esimersi dal prendere in considerazione tutti quegli elementi tipici dell’età evolutiva adolescenziale, quindi un quadro di personalità fluido e composito, ma soprattutto deve contestualizzare l’individuo in una fase storico-culturale unica come quella attuale che comporta delle deroghe alla standardizzazione alla quale i clinici sono abituati nella loro pratica terapeutica, sintomi prodromici e determinate categorie comportamentali oggi vanno letti in maniera fluttuante tra ciò che è frutto di una metamorfosi bio-psico-fisiologica e quella che è intrinseca alla metamorfosi socio-cultuarle del contesto di cui lo stesso terapeuta è vittima. Sicuramente il terapeuta che lavora con l’adolescente ha ben chiaro che non dovrà instaurare un rapporto che venga esperito come una dipendenza, ma non dovrà configurarsi come un intervento episodico, dovrà essere accorto nel rispettare il desiderio di autonomia nell’adolescente ma allo stesso tempo fornire punti di riferimenti e certezze emotivo-affettive.

Qualsiasi sia l’orientamento dello psicoterapeuta che lavora con l’adolescente non può prescindere dal prendere in esame le singole risorse, bisogni e difficoltà, qualora i segnali siano prognostici verso lo sviluppo di psicopatologie future o comportamenti gravi, dipendenze, disturbi alimentari, deliri ecc, resta doveroso ricorrere al coinvolgimento nella terapia del gruppo famiglia per un supporto che riesca a dare al giovane la stabilità e le certezze di cui necessita per la formazione di una personalità adulta.

 

La funzione nascosta del bambino nel lettone – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Tutti i bambini almeno una volta nella vita hanno dormito nel letto dei genitori. Non tutti però sanno quale parte giocano all’interno del legame di coppia quando ciò accade. Il seguente articolo si propone di delineare alcune delle motivazioni non consapevoli che inducono un genitore a portare il figlio nel letto matrimoniale con sé.

Moms – (Nr.9) Moms – La funzione nascosta del bambino nel lettone

 

Dormire con i propri figli è un’esperienza unica perché attraverso questo incontro si può venire a contatto con la parte più tenera di sé. La morbidezza, il profumo e la sensazione di calore e contenimento che caratterizzano quel momento sono un’ottima medicina rispetto alla stanchezza che riempie tante giornate di un genitore. Come ogni farmaco però può avere qualche effetto collaterale. L’ottavo episodio della prima stagione di Workin’ Moms ne individua una in particolare: la possibile compromissione dell’intimità nella coppia.

I personaggi di Frankie e Jenny presentano due motivazioni del tenere il bambino in mezzo al lettone. Nel primo caso Frankie è una donna che sente il bisogno di avere rapporti sessuali con la propria partner, ma questo le viene impedito perché Giselle, la compagna, mette sempre la figlia in mezzo a loro nel letto. Quando Frankie riesce a comunicare i propri bisogni a Giselle, emerge il motivo più profondo per cui la compagna tiene la figlia Rhoda nel loro letto. A differenza di Frankie, Giselle non è la madre biologica di Rhoda. La differenza rispetto al legame di sangue fa sentire Gisele in difetto e per colmare il divario che sente dedica tutto il tempo che ha alla figlia, giorno e notte. La posizione occupata da Rhoda in questo caso è riempitiva della differenza che Giselle sente tra il suo ruolo e quello di Frankie. Solo portando alla consapevolezza i vissuti di entrambe e comunicandoseli, riescono a fare un piccolo passo in avanti e a dedicarsi dei momenti d’intensa intimità e di soddisfacimento dei propri bisogni sessuali.

Jenny, al contrario di Frankie, è la madre che sceglie di mettere la figlia in mezzo nel letto, non solo per la sensazione terapeutica che dona questo incontro, quanto per la relazione infelice con il marito. La donna esprime consapevolmente il bisogno di avere un terzo nel letto non avendo più piacere ad entrare in intimità con il partner. La relazione tra Jenny e il marito Ian non può permettersi una vicinanza così stretta, perché piena di non detti, rancore e delusione non comunicati. Prima ancora della sessualità, è il vissuto intrapsichico ed interpersonale quello su cui entrambi dovrebbero lavorare. È come se Ian e la figlia fossero gli estremi più vicini di un triangolo isoscele dove Jenny rappresenta l’estremo sempre più lontano, un po’ perché è stata allontanata e un po’ perché lei stessa si è fatta fuori. Ian è un padre a tempo pieno, tanto da non lasciare lo spazio a Jenny di essere né madre né moglie; Jenny lavora così tanto da non riuscire ad essere presente nella vita del marito e della figlia. Più i due fingono che vada bene così e più la figlia si trova a riempire il divario tra i due anche nel letto matrimoniale.

Il figlio nel letto dei genitori diviene un Giano Bifronte perché se da un lato permette ai partners di non affrontare temi caldi ed entrare in conflitto esplicito, dall’altro blocca l’eruzione necessaria di un vulcano che permetterebbe nel tempo la possibilità di confronto e forse il ritrovamento dell’intimità nella coppia. Pertanto, sono più le volte che un figlio è nel letto per essere coccolato o per assumere una funzione protettiva nei confronti dei genitori?

 

Uscire dalla trappola. Abbuffarsi, vomitare, torturarsi: la terapia in tempi brevi. (2011) di Giorgio Nardone e Mattew D. Selekman – Recensione del libro.

I due autori, all’interno del presente manuale, hanno unito i loro studi, le loro esperienze cliniche e le loro ricerche su queste condotte, frutto di oltre vent’anni di lavoro in tale direzione, realizzando un libro molto ricco, chiaro ed utile all’approfondimento delle tematiche in questione.

 

Ann sosteneva che la psicologia “non aveva capito” che il taglio la stava aiutando a fare fronte alla vita: “perché dovrei rinunciare a qualcosa che ha realmente funzionato per me?” Ho ringraziato Ann per essersi aperta con me su tutte le cose che avrei dovuto evitare di fare come terapeuta e le ho chiesto di correggermi qualora avessi commesso qualche errore lungo il cammino terapeutico, per potermi fermare e cambiare direzione insieme a lei.

M.S. Selekman

  Questo un ritaglio contenuto all’interno del libro intitolato “Uscire dalla trappola. Abbuffarsi, vomitare, torturarsi: la terapia in tempi brevi”, scritto da Giorgio Nardone, fondatore e insieme a Paul Watzlawick del Centro di Terapia Breve Strategica di Arezzo, autore di diverse opere e pubblicazioni tradotte anche lingue, impegnato in attività di formazione in tutto il mondo, e Metthew D. Selekman, terapista di coppia e familiare, assistente sociale, clinico specializzato nel trattamento di autolesionismo, disturbi alimentari, abuso di sostanze, comportamenti di disturbo scolastico, comportamento provocatorio oppositivo, coppie ad alto conflitto e difficoltà di gestione della rabbia di bambini, adolescenti e adulti; autore di numerosi articoli sulla terapia familiare e libri.

Un libro che affronta il tema dei comportamenti autolesionistici, abbuffate e ricorso al vomito (vomiting), problematiche sempre più in aumento e talvolta molto severe tra i giovani, offrendo indicazioni anche in senso terapeutico.

I due autori, all’interno del presente manuale, hanno unito i loro studi, le loro esperienze cliniche e le loro ricerche su queste condotte, frutto di oltre vent’anni di lavoro in tale direzione, realizzando un libro molto ricco, chiaro ed utile all’approfondimento delle tematiche in questione.

All’interno dello stesso infatti vengono ampiamente messi in luce ed offerti riferimenti di ricerche che evidenziano la stretta correlazione tra le tre condotte problematiche (abbuffate, vomito, autolesionismo), differenti ovviamente per gravità ed anche per finalità e scopo che tale comportamento patologico ha nella vita del soggetto che ne diventa vittima.

Se infatti, per alcuni giovani le tre condotte, che possono presentarsi in combinazione tra loro oppure singolarmente, possono avere un effetto sedativo ed anestetico per altre forme di dolore e sofferenze, per altri possono rappresentare una forma punitiva, per altri ancora, il reiterarsi della pratica può trasformarsi in un rito di piacere.

Ed ecco che sempre i due autori analizzano le varie tipologie per poter poi individuare le strategie e gli stratagemmi terapeutici più calzanti al problema della persona.

Ponendo entrambi enfasi sugli aspetti essenziali per creare una adeguata base terapeutica quali comunicazione, relazione terapeutica, sottolineare gli aspetti positivi ed i punti di forza della persona per poter affrontare al meglio il problema, Giorgio Nardone e Matthew Selekman offrono un’ampia e dettagliata descrizione del loro modo di affrontare le differenti tipologie di problemi, tecniche e prescrizioni.

Il libro si arricchisce di casi clinici selezionati e descritti individualmente dai due autori del libro.

Tre sezioni del libro, Conoscere, Cambiare, Casi clinici, quattro i casi descritti con cura e chiarezza, svariati gli spunti di riflessione che ritengo possa trovare il lettore, sia addetto ai lavori che non, in quanto l’unione di due tipologie differenti di intervento terapeutico, ossia quello proposto da Giorgio Nardone, basato su strategie e stratagemmi calzanti sulla logica del disturbo e quello offerto da Matthew Selekman, fondato su tecniche alternative alla struttura del problema, offre, come sottolineato dagli stessi autori, un modello ancora più flessibile ed adattabile non solo alle varianti del disturbo, ma anche alla irripetibile singolarità di ogni paziente e del suo contesto familiare e sociale.

 

Risposta Sensoriale Autonoma dei Meridiani (ASMR) e Mindfulness: quali similitudini?

La Risposta Autonoma dei Meridiani Sensoriali (ing. Autonomous Sensory Meridian Response – ASMR) è un fenomeno percettivo in cui specifici stimoli suscitano sensazioni di formicolio su cuoio capelluto, spalle e collo, che si diffondono poi nelle parti periferiche del corpo.

 

Questo fenomeno è riscontrabile solo in una parte della popolazione, e i suoi fattori scatenanti variano ampiamente tra gli individui: possono essere di natura uditiva, visiva, tattile e/o olfattiva (Fredborg et al., 2018). Nonostante la loro eterogeneità, i “trigger ASMR” più popolari tendono ad essere audio-visivi: un recente studio di indagine su individui in grado di esperire ASMR ha scoperto che l’ascolto di sussurri ha suscitato sensazioni di formicolio in oltre la metà dei 450 intervistati (Barratt & Davis, 2015). Questi stimoli sono di natura tipicamente sociale e spesso suscitano uno stato emotivo di calma, positività e appagamento, che può durare fino a diversi minuti. Esempi di trigger ASMR possono essere guardare qualcuno che si spazzola i capelli, o che dipinge, e, per l’appunto, ascoltare persone che sussurrano, o che mangiano cibi di diverse consistenze. Insomma, la natura di questa risposta autonoma può essere davvero varia, tanto che nell’ultimo periodo è iniziata nei social network una vera e propria diffusione su larga scala di video di trigger di ogni genere, atti a indurre nelle persone questo stato di appagamento. Anche se la fenomenologia dell’ASMR si sovrappone ad altri stati coscienti atipici, ci sono elementi di questa esperienza che sembrano essere unici. Per esempio, a differenza di altre esperienze sensoriali-emozionali come il frisson (cioè i “brividi” suscitati dalla musica o da un’esperienza emotiva), che tendono a durare fino a dieci secondi, gli individui con ASMR possono sperimentare le sensazioni di formicolio per diversi minuti o più (Del Campo & Kehle, 2016). Inoltre, l’intensità e la durata di queste esperienze possono essere sotto il controllo dell’individuo, caratteristica che distingue questo fenomeno da altre risposte sensoriali automatiche, come la sinestesia (Fredborg et al., 2018).

Uno stato cosciente che condivide alcune caratteristiche fenomenologiche con l’ASMR è la mindfulness (Barratt & Davis, 2015). Nella loro operazionalizzazione della mindfulness, Bishop e colleghi definiscono questo costrutto come un processo a due componenti attraverso il quale ci si impegna sia nell’autoregolazione intenzionale dell’attenzione, sia nella consapevolezza e nell’accettazione non giudicante del momento presente (Bishop et al., 2004). Altri esponenti del settore hanno suggerito che la mindfulness coinvolga l’apertura alle sensazioni, il controllo attenzionale, la regolazione emotiva e la resilienza (Kabat-Zinn, 1990). Entrambe queste complementari descrizioni di mindfulness possono sovrapporsi ad alcuni elementi dell’esperienza ASMR. Per esempio, il metodo mindfulness dell’attenzione focalizzata richiede agli individui di concentrarsi su uno specifico stimolo esterno o su un pensiero interno (Lutz et al., 2008). In modo simile, durante le esperienze ASMR, gli individui concentrano l’attenzione su uno stimolo esterno, che scatena sensazioni di formicolio. Inoltre, sia la mindfulness, sia l’ASMR possono portare a una sensazione di rilassamento che migliora il benessere soggettivo delle persone (Barratt & Davis, 2015; Bishop et al., 2004).

Date queste somiglianze, Fredborg e colleghi hanno deciso di svolgere uno studio esaminando la correlazione tra questi due processi (Fredborg et al., 2018). In questa sperimentazione 284 individui di età media di 28 anni in grado di esperire ASMR hanno completato alcuni test, quali la Toronto Mindfulness Scale (TMS), la Mindful Attention and Awareness Scale (MAAS), e un questionario che esaminava le caratteristiche delle esperienze ASMR. Ai partecipanti di controllo, ovvero a coloro che non traggono alcun beneficio dalla visione o dall’ascolto di certi stimoli, è stato chiesto di guardare due video ASMR-elicitanti per assicurarsi che non sperimentassero sensazioni correlate a questo fenomeno. Questi ultimi hanno poi completato i questionari TMS e MAAS. Rispetto al gruppo di controllo, gli individui con ASMR hanno generato punteggi significativamente più alti nel MAAS, soprattutto per ciò che concerneva l’attenzione mentale, e nella sottoscala della curiosità del TMS, dimensione maggiormente sviluppata nelle menti mindful (Fredborg et al., 2018).

Il fatto che gli individui con ASMR abbiano riportato livelli più alti di curiosità e una maggiore attenzione mentale suggerisce che il fenomeno in questione possa essere un processo cognitivamente “attivo” piuttosto che una risposta automatica agli stimoli.

Questi risultati indicano che le esperienze sensoriali-emozionali associate all’ASMR possono essere parzialmente spiegate da un sottoinsieme distinto di caratteristiche associate alla mindfulness, ma ciò non implica che sottoporsi a stimoli ASMR possa in qualche modo sostituire l’apprendimento della pratica della consapevolezza.

TherapyRoom: a Website Putting Psychotherapists and Clients Together Online – ECDP 2021 / Poster Session

POSTER PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY 2021

Ceyda Kıyak1, Giada Bonzi1

1 – Department of Psychology, University of Milano-Bicocca, Milano, Italy

Kiyak e Bonzi - POSTER ECDP 2021

POSTER DOWNLOAD (PDF)

We are introducing here “TherapyRoom”, a website designed specifically for online psychotherapy sessions, which was conceived due to the lack of a tool specialized for online sessions (e-therapy). It will include several ad hoc functionalities: video-meeting platform  (with captions, recordings, timer, backgrounds changing/sharing and a newly designed  function, a virtual transparent notepad), archive, calendar, payments, notifications, and real chat system.

The mock-up was tested with user-centered design approach to test for the service’s  requirements mostly appreciated by clients and therapists, specifically with twelve users, following the think-aloud protocol. Expert interviews (N=12) was also conducted, as well as a  survey designed with Qualtrics (N=84) inquiring about the users’ opinions. Ratings to the surveys were used to prioritize requirements. The survey was compiled by 88 people; we used  those scores and the User Test feedbacks to understand how TherapyRoom would be received.  The results show that both clients and psychotherapists will receive this service  enthusiastically, due to a lack of a therapy tool.

Generally, it seems that most people are not fully satisfied with the already existing platforms used for psychotherapy. They would use a tool that makes therapy easier and ensures  privacy and security. We are planning to develop also a virtual waiting room and specific environments for different mental health needs, and the support for VR and avatar-based  therapies, as well as a mobile application version of the site.

TherapyRoom would help a large amount of mental health professionals and clients during the ongoing COVID-19 pandemics, but it would also be extremely useful in the future since e-health rates have been rising and there is no other platform providing the same service. Therefore, this website will not only be crucial in the short term, but also in the long run.

 

Ansia e Rimuginio. Come affrontare i pensieri negativi ricorrenti – VIDEO dal Webinar organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Il rimuginio, uno stile di pensiero negativo, analitico, ripetitivo, sembra avere un impatto fondamentale nel sostenere molti disturbi psicologici. Come affrontare questi pensieri negativi?

 

 È ormai noto come uno stile di pensiero volto al rimuginio sia un fattore di mantenimento di sintomi quali ansia e depressione. Il breve webinar organizzato Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre ha fornito alcuni elementi di conoscenza sui pensieri negativi ricorrenti e su come poterli affrontare.

L’incontro, aperto alla popolazione, è stato condotto dalla dott.ssa Valeria Valbusa. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Ansia e Rimuginio. Come affrontare i pensieri negativi ricorrenti
Guarda il video integrale del webinar:

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Conoscenza, visioni e qualità delle decisioni

Nel 2015 il presidente Obama emanò un ordine esecutivo destinato a rimanere nella storia “Using Behavioural Science Insights to better Serve the American People” (usare le scoperte delle scienze comportamentali per servire meglio il popolo americano) e il documento recita “quando le politiche sono progettate in modo da tener conto delle scoperte scientifiche in ambito di economia comportamentale e psicologia dei processi decisionali, esse hanno migliorato la situazione di individui, famiglie comunità e organizzazioni”. Nel 2017 Richard Thaler vince il premio Nobel per l’economia grazie ai suoi fondamentali contributi nella Behavioral Economics sviluppando la teoria della contabilità mentale. La sua teoria spiega come le persone semplificano il processo decisionale in materia finanziaria, creano resoconti separati nella loro mente e si concentrano sullo stretto impatto di ogni singola decisione piuttosto che sul suo effetto complessivo. La base delle sue riflessioni è il concetto di nudge. Una spinta che può essere applicata per migliorare il modo in cui si prendono decisioni che riguardano i propri risparmi, come Thaler stesso ha dimostrato applicando una “spinta gentile” per indurre a preferire, per esempio, una pensione sicura.

In questo senso, virtuosa è stata la scelta di Enpap, la cassa nazionale di previdenza e assistenza degli psicologi, nell’utilizzare sapientemente questa conoscenza prevedendo una prima base di architettura delle scelte, volta ad incentivare comportamenti funzionali e nello specifico a “spingere gentilmente” le psicologhe e gli psicologi ad aumentare la soglia di contribuzione annuale. Tuttavia, non è sufficiente. E forse nel nostro Paese abbiamo ancora bisogno di imparare a leggere come strettamente connessi due concetti che anticipano e determinano non solo il risparmio che siamo chiamati a gestire, ma anche una situazione di equità distributiva: l’istruzione, la formazione e il reddito.

Partiamo da due aspetti centrali: il primo aspetto lo troviamo nei dati raccolti dalla Banca d’Italia che hanno messo in evidenza che gli italiani hanno un livello di conoscenze finanziarie ancora insufficiente nel confronto con la media OCSE. Il secondo dato che ci richiede un’attenta lettura è il tasso di occupazione femminile. Sappiamo che le donne hanno un minor accesso al mercato del lavoro, percorsi più frammentati e, anche quando sono attive, si tratta di lavori precari e discontinui. Non è diverso per la libera professione, situazione che genera l’illusione di una flessibilità, ma che finalmente, durante il lockdown è stata smascherata come condizione, almeno per le donne, che permette di coprire contemporaneamente e faticosamente più ruoli. Come sappiamo equità e giustizia sociale non hanno a che fare con il dirsi uguali, ma con l’avere pari opportunità, che non sono “uguali opportunità”, ma opportunità necessarie a partire dalla condizione di partenza.

Il Gender Gap Report del World Economic Forum rivela che la retribuzione annuale delle donne ha appena iniziato a eguagliare la somma che gli uomini guadagnavano dieci anni fa. Questo significa che il mondo sta perdendo enormi quantità di talento dalla forza lavoro. Rispetto alla riduzione del gender pay gap nell’ultimo report pubblicato l’Italia arretra, portandosi al 76esimo posto dal 70esimo dello scorso anno, ultima in Europa, davanti solo a Grecia (84esimo posto), Malta (90esimo posto), e Cipro (91esimo posto). Il WEF sottolinea che, anche laddove le donne siano professionalmente dotate per ricoprire alcuni ruoli, non sono adeguatamente rappresentate. D’altra parte, sappiamo che a fronte di un’occupazione femminile che dall’attuale 48% arrivasse al 60%,  il PIL aumenterebbe del 7%, quindi avremmo risolto probabilmente molti dei problemi della crescita di un gap economico semplicemente puntando sulla valorizzazione del lavoro delle donne.

Se ora leggiamo in modo correlato due dati vediamo che se il gender gap è ampio, ancor più ampio è il divario in tema di financial literacy, aspetto che rappresenta una grande area di vulnerabilità del nostro Paese, indipendentemente dal genere, ma ancor più per le donne che in tema di educazione finanziaria sono ampiamente più disinformate degli uomini. E’ un divario che si riduce nelle generazioni più giovani (18-35 anni), ma resta comunque grave.

Ma allora perché si investe ancora così poco nell’educazione finanziaria? E che cosa significa per la nostra comunità professionale di psicologhe e psicologi composta per l’86% da donne? Se un grande traguardo è stato raggiunto con la creazione di un ponte tra l’economia e la psicologia, la sfida dei prossimi anni sarà quella di realizzare un programma di formazione alla gestione finanziaria di tutta la comunità professionale, colmando il gap culturale di un’ampia fetta di popolazione che ha poche o scarse conoscenze di un conto economico, di planning & budgeting (anche solo a livello personale) e di aspetti previdenziali. Siamo a conoscenza degli studi che hanno identificato i comportamenti apparentemente “irrazionali” sul piano economico, ma in realtà perfettamente comprensibili se si considera il modo in cui le persone ragionano ed utilizzano le informazioni. Pensiamo ai comportamenti di mental accounting (Thaler, 1999), di sunk costs (Arkes e Blumer, 1985; Arkes, 1996) o all’endowment effect (Kahneman, Knetsch e Thaler, 1990).

Tuttavia, non abbiamo previsto all’interno dei nostri percorsi di studio universitario le conoscenze di concetti economici di base, che permettano l’adozione di comportamenti finanziari adeguati e l’attitudine a formulare decisioni orientate al lungo periodo. A questo punto del ragionamento possiamo porci qualche domanda. Perché pur avendo solide conoscenze sul potere della formazione, sui processi di apprendimento, sull’economia comportamentale non riusciamo a trasformare queste risorse per ridurre il gender pay gap almeno all’interno della nostra comunità in modo da avviare un modello virtuoso? Perché non riusciamo a rendere obbligatoria già a partire dalla scuola secondaria un processo di alfabetizzazione finanziaria?

E ancora perché con le nostre conoscenze in termini di ricerca, modelli organizzativi e processi decisionali la nostra comunità non è ancora stata in grado di portare all’attenzione del legislatore la necessità di agire preventivamente sulla salute mentale con programmi di educazione emotiva fin dalla scuola primaria. Perché all’interno dei dipartimenti di salute mentale sono ancora pochi i modelli organizzativi che obbligano a produrre studi di esito, i soli in grado di potare evidenze concrete per aumentare in modo virtuoso gli investimenti? Conosciamo bene i costi di una mancata educazione emotiva fin dall’infanzia, ma non siamo ancora in grado di comprendere che, fino a quando non saranno inseriti programmi di educazione finanziaria all’interno dei nostri percorsi accademici, la nostra professione continuerà ad essere percepita come un servizio non essenziale, “un lusso” nel migliore dei casi o un costo, ma certamente non un investimento.

Solo quando avremo colmato questo gap formativo saremo in grado di fare “prevenzione” e le parole pronunciate qualche ora fa dal Presidente del consiglio Draghi ci fanno sperare che i tempi siano maturi “Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare, non solo dispiegando tutte le tecnologie a nostra disposizione ma anche investendo sulla consapevolezza delle nuove generazioni che «ogni azione ha una conseguenza. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni”.

L’intolleranza del dubbio nel disturbo ossessivo compulsivo secondo il modello psicoanalitico

Uno degli aspetti che caratterizza il disturbo ossessivo compulsivo è l’assoluta non tolleranza del dubbio, inteso come incertezza dell’azione e del pensiero. Il soggetto affetto da questo disturbo percepisce la soverchiante e pervasiva necessità di avere tutto sotto controllo, di dover dominare ogni aspetto della propria dimensione esistenziale, eludendo insicurezze di qualsiasi genere.

 

Il paradosso è che raggiungere questo scopo dà vita ad un’attività cognitiva eccessivamente analitica, e per questo capace di paralizzare l’agito e di rendere più complicato il processo decisionale. Dunque, se il pensiero paralizza l’azione, il DOC finisce per divenire vittima inesorabile di quello stesso dubbio che cerca di evitare.

L’origine della paura del dubbio

La diffidenza con cui il soggetto ossessivo si approccia all’incertezza può essere spiegato attraverso l’identificazione di quest’ultima con il più complesso concetto di ambivalenza, un senso di ambiguità tra pulsioni contrapposte – sperimentato nella fase anale- dal quale si è originato un paralizzante vissuto di non azione di cui il conflitto nevrotico ha rappresentato la soluzione disfunzionale.

È nella fase anale che per la prima volta il bambino prova l’entusiasmo di prendere iniziative autonome- a livello della propria attività sfinterica- che vorrebbe esercitare in assoluta libertà. Se non fosse che proprio in questa fase le sue pulsioni autonomistiche vengono frustrate dai primi ammonimenti genitoriali – specie materni – volti a reprimere, o meglio a disciplinare in una modalità adattiva, una pulsionalità completamente esente da regole. Il bambino vorrebbe regolare da solo la propria attività escretiva, ma non può farlo a causa dell’impedimento materno. E quello che all’apparenza appare un conflitto pulsionale senza conseguenze, per un bambino di diciotto mesi assume caratteristiche esistenziali, andando a sovrapporsi al più soverchiante dilemma tra autonomia e obbedienza, tra dipendenza e iniziativa, tra azione e passività (Freud, 1905; 1913).

È proprio nell’iniziativa che viene vissuto il maggior disagio, perché in essa si identifica un senso di colpa che lo allontanerà dal genitore. Il bambino vorrebbe sporcare l’ambiente per lasciare una traccia di Sé e per ricevere conferme della propria esistenza- ma sente che l’attuazione di questa pulsione lo porterebbe nella direzione opposta a quella voluta dalla madre, e dunque alla perdita del suo affetto (Freud, 1908). Se ne origina un conflitto di più ampia portata in cui l’amore verso il Sé comporta l’allontanamento dell’oggetto materno, e l’obbedienza ai rigidi dettami di quest’ultimo si tramuta in una mortificazione del Sé, e dunque in una ferita narcisistica (McWilliams, 1994).

La paura di sbagliare e la difesa dalle emozioni

Il rigoroso genitore presente nell’eziopatogenesi del DOC è destinato a tramutarsi in un Super-Io rigido e ipercritico pronto a sabotare l’azione con il dubbio, ad imporre elevati standard di prestazione, a creare obblighi e doveri improcrastinabili che fanno dell’ossessivo un soggetto dotato di un rigido senso del dovere e di una morale inflessibile. Ferenczi parla di moralità sfinterica (1925) proprio in riferimento al fenomeno psichico – tipico della fase anale- in cui il rispetto delle regole escretive viene percepito dal bambino come una norma morale. Questa perfezione “moralizzante” può essere raggiunta, nel DOC, solo attraverso un’analisi cognitiva oltremodo dettagliata, che sia in grado di scongiurare ogni possibile errore. In realtà, al termine di ogni lunga e sofferta decisione, il soggetto inizierà a divenire preda di costanti ruminazioni post decisionali che lo spingono a reputare giusta proprio la direzione che non ha preso. Per questo ha paura di decidere da solo, e spesso si affida all’aiuto altrui per dissipare le tormentose incertezze (Shapiro, 1965).

Da un punto di vista clinico può sovvenire l’analoga difficoltà decisionale tipica del disturbo dipendente, dalla quale quella del DOC si differenzia tuttavia per essere ispirata non dalla volontà di mantenere un legame affettivo necessario alla sopravvivenza, quanto dal bisogno di evitare ogni possibile errore, che lo costringerebbe a subire la pressione soverchiante di un super-Io persecutorio e delle sue colpevolizzanti recriminazioni.

La difesa dall’errore e dal dubbio, nel DOC, non rappresenta dunque che il tentativo di proteggersi da un Super-Io dominante che andrà adeguatamente depotenziato nel setting terapeutico, non solo al fine di concedere maggiore spazio operativo all’Io, e dunque una più corretta impostazione delle relazioni oggettuali e dell’esame della realtà, ma anche per diminuire l’utilizzo di quei meccanismi di difesa che, nel disturbo DOC, sono manifestamente legati alla necessità di non accedere ad un universo emotivo visto come terribilmente “minaccioso”: ad esempio l’isolamento affettivo, che rende accessibile alla coscienza il solo aspetto cognitivo di un evento escludendo quello emotivo, e l’intellettualizzazione, mediante la quale anche aspetti di natura affettiva vengono posti sotto una luce difensivamente razionale, in un implicito tentativo di liquidazione dell’angoscia (Freud, 1965).

Ma quella del DOC non è assenza di emozioni, quanto il timore di affidarsi a vissuti affettivi che potrebbero comportare la regressione ad una fase in cui le esperienze affettive si sono mostrate fonte di conflitto, disagio e ambivalenza (McWilliams, 1994). Proprio al fine di evitare questa regressione e il vissuto conflittuale che ne deriverebbe, il DOC ha estremo bisogno di certezza: da qui l’utilizzo di una attività cognitiva esasperata e per questo circolare e chiusa al mutamento.

Ogni cambiamento è percepito come un pericolo, e l’ossessivo vi reagisce con riluttanza, spesso arrivando a negarne l’esistenza. Una serie di esperimenti scientifici ha dimostrato la ritrosia con la quale soggetti psicastenici, ossessivi o affetti da patologie di matrice ansiosa accettino il cambiamento anche da un punto di vista percettivo. Sottoposti alla proiezione di uno stimolo visivo in un setting sperimentale, essi non riuscivano a riconoscere come quel medesimo stimolo –nello specifico un coniglio- stesse assumendo gradatamente le sembianze di un’oca (Canestrari, 1958). Risultato in linea con quello degli studi in laboratorio già compiuti da Martin (1954), il quale dimostrò come soggetti psicastenici non riconoscessero l’inclinazione di un tavolo proiettato in uno schermo, continuando a considerarlo immobile.

La diffidenza con la quale l’ossessivo giudica l’ambivalenza è dovuta al contenuto indeterminato, e dunque non controllabile, della stessa. Accettare un mutamento significa abdicare a certezze rassicuranti in favore di un incerto che, in quanto non conosciuto, può rivelarsi potenzialmente insidioso e non dominabile. Inoltre al concetto di cambiamento si correla immancabilmente anche quello di indecisione, di dubbio e di potenziale “sbaglio”: tutte componenti che l’ossessivo tende a rifuggire, in ottemperanza ai bisogni di certezza costruiti sulla base di una personalità anancastica il cui fine primario è proprio quello di evitare il crollo previsionale. L’imprevisto. Quel cambiamento nel quale riconosce una sinistra perdita di controllo, la stessa incertezza che nella fase anale lo ha costretto alla creazione del conflitto nevrotico (McDougall, 1989).

Allo stesso modo l’annullamento della componente emotiva costituisce per l’ossessivo il solo strumento in grado di preservarlo dalla natura imprevedibile e incontrollabile delle emozioni, nella quale egli non riesce a vedere un potenziale creativo ma soltanto una minaccia ad una razionalità che assume per lui un valore di controllo difensivo.

Ma è una strategia solo in apparenza efficace. L’inflessibilità patologica del soggetto ossessivo lo spinge in realtà verso gli stessi eventi psichici dai quali cerca salvezza: da una parte la volontà di conoscere ogni dettaglio della realtà gli comporta una chiusura totale verso la conoscenza e il mutamento- lo abbiamo visto nell’ansia percettiva; dall’altra, cercando di sfuggire un’ambivalenza percepita come annichilente, egli non fa che reiterare quel rimuginio che lo condanna inevitabilmente al dubbio.

 

L’illusione della volontà cosciente (2020) D. Wegner – Recensione del libro

In questo libro viene approfondita la tematica dell’illusione che permea la nostra esistenza: quella connessa a ogni nostra decisione, azione e reazione.

 

Più volte al giorno abbiamo la sensazione di scegliere noi che cosa stiamo per fare, ma non siamo una fonte infallibile di conoscenza quando si tratta delle nostre azioni. Crediamo nella magia della nostra agentività causale e percepiamo tutte le nostre azioni come volontarie. Alcuni studiosi affermano che anche degli esseri non umani potrebbero rientrare nella categoria di chi possiede una mente cosciente; la si potrebbe individuare nei cani, nei gatti, nei delfini e in altri animali.

La sensazione della volontà è fondamentale perché ci dà un senso di responsabilità personale. È quella sensazione che ci fa dire: “sono stato/a io”; ma siamo davvero padroni delle nostre scelte e delle nostre azioni? Siamo noi a causare consciamente ciò che facciamo, oppure le nostre azioni ci capitano? In molti ci siamo posti queste domande almeno una volta nella vita, ma solo pochi se ne sono occupati a livello scientifico come ha fatto lo psicologo americano Daniel M. Wegner (1948-2013), che con questo punto interrogativo comincia la prefazione del libro L’illusione della volontà cosciente.

Secondo l’autore Wegner la volontà è un concetto su cui la psicologia non si è mai soffermata a sufficienza, e quando lo ha fatto non è riuscita a comprendere profondamente la causa delle scelte delle persone, da sempre divise tra volontà e determinismo senza però una vera chiarezza a riguardo. La mancanza di risposte certe da parte della scienza ha lasciato che anche la volontà cadesse vittima di quei luoghi comuni che l’autore si impegna a smontare presentando ogni volta controprove e argomentazioni.

Wegner prende parte al secolare dibattito tra determinismo e libero arbitrio smascherando gli svariati casi in cui crediamo erroneamente di avere il controllo sui nostri comportamenti. L’autore esamina la questione da molteplici angolazioni con grande attenzione, fino ad addentrarsi nell’ambito dell’ipnosi, della scrittura automatica, dei disturbi della personalità, della psicosi e degli stati di trance. Il libro approfondisce l’argomento in molteplici ambiti portando a importanti considerazioni.

La sua conclusione, come dice il titolo stesso, è che la nostra volontà cosciente altro non è che un’illusione: l’uomo si convince di essere padrone delle sue scelte, mentre in verità è in gran parte privo di controllo sulle sue azioni, causate invece dai processi neurologici. La tesi principale di Wegner è che, se a guidare l’azione è la percezione della volontà, allora manipolando tale percezione, ci saranno necessariamente delle conseguenze sull’azione. L’autore ci rivela che quella sensazione può esercitare un effetto davvero limitato sulle nostre azioni.

L’esperienza della volontà, quindi, è il modo in cui la nostra mente ci rappresenta le operazioni che compie, non la sua effettiva attività. Proprio perché abbiamo un’idea di quello che faremo, possiamo sviluppare delle teorie causali che ricolleghino questi pensieri alle nostre azioni sulla base dei principi di priorità, esclusività e coerenza. Arriviamo a concepire i pensieri precedenti come intenzioni, e sviluppiamo la sensazione che tali intenzioni posseggano un potere causale, anche se in realtà sono semplicemente delle anticipazioni di ciò che potremmo fare. Eppure dovrebbe esserci qualcosa che all’interno della nostra mente abbia un ruolo causale nel fare in modo che le nostre azioni si verifichino. Quel qualcosa, nella teoria della causazione mentale apparente, è una serie di processi mentali inconsci che causa l’azione e, al contempo, si avvicina molto ai pensieri che abbiamo prima di agire. In questo caso, è possibile che pensiero e azione nascano da sistemi mentali inconsci associati. La sensazione resta però quella di volere consciamente quello che facciamo.

La tesi principale di Wegner è che, se a guidare l’azione è la sensazione della volontà, allora manipolando tale percezione, ci saranno necessariamente delle conseguenze sull’azione. Non si può vedere l’intenzione cosciente causare un’azione, ma solo inferirla dalla costante relazione tra intenzione e azione. Il nostro credere alla causalità dell’io non è che un’illusione, ma un’illusione che trova l’origine in certi fenomeni che sarebbero l’uno la previsione del risultato prima che questo si realizzi, e l’altro, la presenza di un sentimento di “attività”.

L’illusione della volontà cosciente potrebbe essere un’errata interpretazione dei nessi causali meccanicistici alla base del nostro comportamento, derivante dal fatto di guardare noi stessi attraverso il sistema esplicativo di tipo mentalistico. Non vediamo le rotelle che girano soltanto perché troppo impegnati a leggerci nella mente.

 

La drunkorexia: classificazione, motivazioni alla base e gruppi a rischio

Fattori associati alla drunkorexia sono la disregolazione emotiva, la volontà di migliorare l’umore negativo, prevenire l’aumento di peso causato dall’assunzione di alcol, una scarsa stima verso il proprio corpo e la ricerca di sensazioni estreme.

 

L’alcol, nonostante ampiamente utilizzato e socialmente accettabile, può avere effetti dannosi a livello cerebrale, andando ad intaccare la memoria e le funzioni esecutive (Welch, 2017). Il suo quantitativo elevato nel sangue, può essere moderato dall’assunzione di cibo, che ne riduce la velocità di assorbimento (Hahn et al., 1997).

La letteratura si è occupata di indagare il rapporto tra ingerimento di cibo e di bevande alcoliche, evidenziando come all’aumentare del consumo di alcol, diminuisca quello di cibo, che tende ad essere assunto in modo più disordinato, e viceversa (Cummings & Tomiyama, 2018). Questo pattern, che non mostra alcuna differenza di genere (Peralta, 2002), viene adottato con lo scopo di avvertire più rapidamente gli effetti dell’alcol, o bilanciarne il valore calorico, mediante digiuni prolungati volti a limitare l’assunzione di calorie dagli alimenti (Bryant et al., 2012). Mentre nel primo caso la condotta è motivata dal percepire rapidamente gli effetti inebrianti dell’alcol, nel secondo caso la restrizione calorica viene pianificata per compensare le calorie dell’alcol al fine estetico di prevenire l’aumento di peso (Choquette et al., 2018; Hunt & Forbush, 2016). Se prima di un episodio di binge drinking il soggetto non avrà ristretto le calorie, si verificheranno sensi di colpa e affettività negativa, che alimenteranno un circolo vizioso di comportamenti alimentari disfunzionali, provocati dalla sopravvalutazione dell’aspetto fisico. Tale restrizione alimentare, conseguente o antecedente all’abuso di alcol, è stata etichettata come drunkorexia (Kershaw, 2008).

Queste condotte compensatorie, possono provocare gravi complicanze mediche, come alterazioni cardiocircolatorie, disturbi elettrolitici, osteoporosi, amenorrea (similmente all’anoressia), con l’aggiunta di epatopatia e danni al sistema nervoso centrale per l’abuso di alcol.

Tra le fasce di popolazione più a rischio, è stata individuata quella degli gli studenti universitari. Nella ricerca di Roosen & Mills (2015); il 42% del campione riportava preoccupazioni relative al contenuto calorico dell’alcol, mentre il 37%, prima di assumerlo, limitava l’ingestione di cibo. Tuttavia, come riportato da Lupi et al. (2017), si tratta di un comportamento comune tra i giovani adulti italiani tra i 18-26 anni, sia studenti che non studenti, spesso concomitante al binge drinking ed il consumo di cocaina.

Non essendo un disturbo clinico universalmente condiviso e riconosciuto dai manuali diagnostici, non viene valutato nella pratica clinica. Tutt’ora, gli esperti si interrogano se identificare o meno la drunkorexia come disturbo alimentare o da uso di sostanze. Ciò che potrebbe aiutare nella classificazione è l’individuazione dei predittori implicati nel comportamento drunkoressico.

Tra questi, sono emersi la disregolazione emotiva, la volontà di migliorare l’umore negativo (Ward & Galante, 2015) e prevenire l’aumento di peso causato dall’assunzione di alcol (Rahal et al., 2012). Anche una scarsa stima verso il proprio corpo ed il voler ricercare sensazioni estreme sono caratteristiche implicate nella drunkorexia.

L’indagine di Griffin & Vogt (2020), oltre a voler confutare l’idea per cui la drunkorexia fosse un comportamento associato esclusivamente allo stile di vita degli studenti universitari, ha cercato di comprendere i predittori di queste condotte problematiche legate al consumo di alcol; valutando il ruolo della bassa autostima verso il proprio corpo e la ricerca di sensazioni estreme. All’interno del comportamento drunkoressico le condotte compensatorie, come restrizione calorica, aumento dell’esercizio fisico e tendenze bulimiche, sono state esaminate su 95 studenti universitari e non.

Secondo i risultati, la drunkorexia si verificava indipendentemente dall’essere uno studente universitario o meno, in quanto si tratta di un problema generalizzato ad una fascia della popolazione a rischio, tra i 18 e i 26 anni.

Coerentemente con Hill & Lego (2020), una bassa autostima legata all’apparenza del proprio corpo e il fattore “disinibizione” nella ricerca di sensazioni, sono risultati essere predittori individuali significativi nella drunkorexia. Nel dettaglio, la disinibizione, spesso correlata al consumo di alcol (Carlson et al., 2010), si riferisce alla probabilità che una persona si impegni nel ricercare sensazioni mediante comportamenti sconsiderati, avendo scarsa capacità decisionale e una ridotta sensibilità alle conseguenze future (Hoyle et al., 2002).

L’autostima legata al peso corporeo, anziché all’apparenza fisica, non prediceva nel campione i comportamenti drunkoressici, poiché si tratta di un aspetto maggiormente legato alla presenza di un disturbo alimentare, del quale non erano affetti i soggetti dello studio.

Se per i pazienti affetti da disturbo alimentare, la drunkorexia si manifesta con l’impegno in comportamenti finalizzati a prevenire l’aumento di peso, tra coloro senza un disturbo alimentare, come i partecipanti dello studio, può essere la conseguenza del ricercare un’azione rapida inebriante da parte dell’alcol, che possa aumentare la stima verso il proprio aspetto fisico. Tra coloro più disinibiti e motivati da una ricerca di sensazioni estreme, le condotte drunkoressiche compensano la scarsa fiducia verso il proprio aspetto, aumentando i livelli di autostima nell’individuo. Dunque, percepire rapidamente gli effetti inebrianti dell’alcol, comporta il sentirsi meglio nel proprio corpo.

Essendo la drunkorexia originata da motivazioni simili a quelle sottostanti i disturbi alimentari e il disturbo da abuso di sostanze (Hunt & Forbush, 2016), dovrebbe essere classificata come un disturbo alimentare, risultante dall’alcol (o un disturbo del cibo e dell’alcol), piuttosto che una categoria univoca (disturbo alimentare o da uso di sostanze).

Essendo presente non solo nella popolazione studentesca, ricerche future dovrebbero orientarsi all’indagine del comportamento drunkoressico nella popolazione generale e non solo tra coloro aventi una patologia alimentare sottostante, individuando ulteriori gruppi target per i quali strutturare linee guida in vista di interventi clinici futuri.

Inoltre, sono necessarie ricerche successive per indagare le motivazioni alla base del disturbo, con l’obiettivo che la problematica alimentare in risposta al consumo di alcol venga presa sul serio dagli operatori sanitari e dagli sportelli di intervento presso le università.

Essendo la prevenzione la miglior forma di intervento, sarebbe utile predisporre, fin dall’età scolare, incontri psicoeducativi finalizzati ad un aumento della consapevolezza dei comportamenti a rischio, per impedire l’emergere di problematiche successive in adolescenza o nella giovane età adulta.

 

Therapeutic Space: from the face-to-face setting to the virtual room – ECDP 2021 / Poster Session

POSTER PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY 2021

Modafferi Cinzia1, De Pietri Simona2, Fiaschi Mara Donatella3, Zunino Anna4

1 V.I.E. srl Valorizzazione Innovazione Empowerment spin-off Università degli Studi di Genova
2 Psicoterapia e Scienze Cognitive, Studi Cognitivi, Genova
3 Ordine degli Psicologi della Liguria
4 Universita degli Studi di Genova

POSTER DOWNLOAD (PDF)

L’emergenza COVID-19 e il concomitante lockdown hanno indotto psicologi e psicoterapeuti a sperimentare nuove forme di supporto e terapia a distanza.

L’Ordine degli Psicologi della Liguria, in collaborazione con lo spin-off universitario V.I.E. – Valorizzazione Innovazione Empowerment srl, ha indagato come clinici e pazienti abbiano vissuto quest’esperienza.

Sono stati sviluppati due diversi questionari, uno per i clinici e uno per i pazienti maggiorenni, per indagare il loro vissuto rispetto all’esperienza della terapia a distanza. Attraverso la piattaforma Limesurvey sono stati ottenuti due diversi link per la compilazione online dei questionari. Il link al questionario per i clinici è stato diffuso ai professionisti iscritti all’Ordine degli Psicologi della Liguria, chiedendo loro di compilare il questionario e fornendo le istruzioni per poter abbinare le risposte del clinico a quelle dei propri pazienti. Il questionario è stato online e a disposizione nei mesi di maggio e giugno del 2020.

Dall’analisi dei risultati emerge come i clinici che hanno utilizzato la modalità a distanza si siano sentiti per la maggior parte a proprio agio ed efficaci, e di essere riusciti a proseguire il trattamento con i propri pazienti senza trasformare l’intervento in un sostegno psicologico per la pandemia in atto.

Agio, competenze informatiche e percezione di efficacia sono correlate tra loro.

L’approccio teorico di riferimento non sembra aver avuto un impatto significativo sulle variabili, facendo supporre la possibilità che nella terapia online potrebbero manifestarsi quei fattori aspecifici dell’intervento terapeutico che non sono legati all’approccio teorico di appartenenza.

I terapeuti hanno evidenziato alcuni limiti legati a problemi pratici (ad esempio, l’avere connessioni internet scadenti), a difficoltà nel ritagliarsi luoghi dove fosse garantita la privacy e a problematiche legate alla tipologia di pazienti (ad esempio, pazienti gravi). Allo stesso tempo, però, hanno riferito come i propri pazienti, inaspettatamente, siano stati molto capaci di adattarsi alla nuova situazione, e, sia per loro sia per i pazienti, la terapia online è stata perccepita come una risorsa, adattabile ad altre situazioni (ad esempio, in caso di allerta meteo, infortuni, trasferimenti) e ad altri interventi.

Si delinea, tuttavia, un quadro molto eterogeneo su diversi aspetti: alcuni clinici riferiscono che nella modalità online hanno esperito una maggiore vicinanza, altri invece riferiscono distanza; alcuni riferiscono l’impossibilità a lavorare con determinate tpologie di utenti come i bambini, altri, invece, ne riferiscono la possibilità; alcuni evidenziano la difficoltà nella sintonizzazione e nell’empatia, altri, invece, riferiscono maggiore sintonizzazione ed empatia.

Dal punto di vista dei pazienti che hanno partecipato, la maggior parte si è sentita a proprio agio, accolta e ha sentito che il proprio percorso è continuato in modo efficace. La sensazione di accoglienza e di agio sono risultate correlate positivamente alla sensazione di aver proseguito in modo efficace il percorso. I pazienti hanno apprezzato la possibilità di poter continuare gli incontri nonostante la distanza fisica e in un ambiente protetto che non li ha esposti al pericolo del contagio. I limiti evidenziati sono relativi alla mancanza nella propria casa di un luogo dove poter trovare la giusta privacy (diversi pazienti hanno indicato luoghi alternativi, ad esempio la propria auto, le terrazze, i garage) e la mancanza di alcune peculiarità del setting vis à vis (come la presenza fisica o lo studio stesso come ambiente).

Solo una parte dei clinici iscritti all’Ordine della Liguria ha risposto all’indagine, pertanto le considerazioni presentate fanno riferimento a un numero relativamente esiguo di terapeuti e pazienti.
I clinici che hanno risposto al questionario sollevano due aspetti molto interessanti per la professione: la possibilità di utilizzare questo strumenti in altre circostanze e la necessità di avere una maggiore formazione e univocità nelle modalità (ad esempio, la possibilità di una piattaforma istituzionale).

L’indagine ha inoltre permesso di dare voce ai pazienti e ricevere da parte loro un feedback relativamente a una modalità terapeutica che, seppur condivisa tra diversi clinici, manca ancora di un corpo di indicazioni pratiche al quale fare riferimento. Sarebbe auspicabile, quindi, avere una visione più allargata in merito all’utilizzo della modalità a distanza da parte dei professionisti coinvolti e poter condividere quelle che sono state le esperienze e le “buone pratiche” che sono state messe in atto.

Introduction

During the lockdown psychotherapists had the chance to use E-therapy with their patients. The current pilot study aimed to investigate how clinicians and patients dealt with it. We surveyed the expectations of both clinicians and patients relative to different aspects of the process and setting features.

Method. We developed on-line therapist-and patient-report questionnaires that were completed by 145 psychologists and 70 adult patients, respectively, in Liguria (Northwestern Italy).

Results. Psychotherapists reported a perceived satisfying level of comfort (73.1%) and self-efficacy (81.1%), and that psychotherapy did not turn into psychological support (81%). Interestingly, the theoretical approach did not have a significant impact on these variables. Limits seemed to be more related to practical issues (e.g., a slow internet connection), the difficulty to find the required privacy, and the type of patient population (e.g., children, psychotic patients). Also, clinicians generally reported a good ability of their patients to adapt to the altered situation, which they did not expect, and both groups perceived E-therapy as a resource, suitable for other situations (e.g., temporary hindrances) and interventions, too. On the patients’ side, they reported to be comfortable (81.4%) and felt contained (97.2%). Most of them appreciated the possibility to continue despite the physical distance. Limits were mainly related to a lack of privacy in their homes and the peculiarity of the face-to-face setting.

Conclusion. Beyond the current situation, further research is recommended in order to understand when a face-to-face therapy can be integrated with E-therapy, which seems to be a flexible resource both for therapists and patients.

Novelty of research. This is the first investigation of the perceived effects on therapists and patients of the shift forced by the pandemic from the face-toface setting to the E-therapy in an Italian context.

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