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Terapie a confronto: schema therapy e DBT nel Disturbo Borderline di Personalità – Il terzo episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del terzo episodio della serie dedicato al confronto tra Schema Therapy e DBT nel Disturbo Borderline di Personalità. Ospite della puntata, la Dott.ssa Alessandra Brugnoni.

 

TERAPIE A CONFRONTO: SCHEMA THERAPY E DBT NEL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ:

 

 

L’applicazione della DBT nel contesto scolastico

Le applicazioni della DBT all’interno del contesto scolastico sono molteplici, includendo sia gli adolescenti sia gli insegnanti, e permettono di guidare i ragazzi nel delicato periodo di crescita e di promuovere adeguate competenze personali e professionali.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La DBT (Terapia Dialettico Comportamentale) negli ultimi anni si è affermata come trattamento d’elezione per il Disturbo di Personalità Borderline poiché la disregolazione emotiva appare centrale nel generare e mantenere alcuni comportamenti disadattivi quali autolesività, tentativi di suicidio e difficoltà interpersonali.

In adolescenza la disregolazione emotiva sembra essere un terreno fertile per l’insorgere di problematiche quali disturbi d’ansia, impulsività e aggressività patologiche, disturbi del comportamento alimentare, depressione e comportamenti disadattivi, difficoltà relazionali e comportamenti autolesivi (Rathus e Miller, 2016).

Negli ultimi anni differenti ricercatori hanno sperimentato l’applicazione della DBT in popolazioni di adolescenti all’interno del contesto scolastico.

Richard e colleghi (2013) hanno proposto l’applicazione della DBT in gruppi di rieducazione organizzati per alunni che abbiano infranto le norme scolastiche; in tale contesto l’obiettivo è quello di ridurre i comportamenti-problema entro un tempo di permanenza massimo di 90 giorni per poi tornare alla scuola di appartenenza; tuttavia, applicando i programmi d’intervento standard i livelli di ricaduta rimanevano piuttosto elevati. Il DBT skills training generalmente utilizzato nella popolazione adulta è stato quindi riadattato per gli adolescenti e chiamato “Teen Talk”. Tale programma prevede la realizzazione di gruppi composti da 4-6 studenti, tutti del medesimo sesso; gli incontri hanno una cadenza bisettimanale e durano 45-50 minuti.

Ciò che emerge al termine dell’implementazione di questo programma è come la frequenza dei comportamenti-problema si sia ridotta sia nel gruppo sperimentale che in quello di controllo; in particolare nel primo emergono specifiche aree di miglioramento quali aggressività, comportamento e iperattività. Inoltre i genitori riportano un significativo decremento dei disturbi somatici, dell’isolamento sociale, dell’aggressività, dei comportamenti problema, dell’iperattività e della depressione.

Nel complesso è possibile affermare come vi sia una riduzione nel distress percepito, sia da parte dei genitori che da parte dei ragazzi rispetto al gruppo di controllo che non ha ricevuto alcun trattamento; in generale emerge una maggior consapevolezza da parte degli alunni che sembra migliorare il loro funzionamento all’interno del contesto scolastico.

Uno studio successivo (Zapolski & Smith, 2017) ha applicato il DBT skills training a ragazzi seguiti dal corpo docente per aver mostrato difficoltà comportamentali o scolastiche. I partecipanti sono quindi stati suddivisi in gruppi, ciascuno composto da 5-10 alunni, di entrambi i sessi. Il programma è stato implementato per 9 settimane, con incontri a cadenza settimanale della durata di 45 minuti; ciascuno prevedeva la medesima strutturazione (revisione degli homework, presentazione della tematica affrontata, attività inerenti quest’ultima e assegnazione di compiti per la settimana successiva). Similmente al precedente studio, in ciascun incontro viene presentato un riadattamento delle tematiche affrontate all’interno del DBT skills training.

Nella valutazione iniziale molti ragazzi riferivano comportamenti a rischio e la tipologia di questi ultimi sembrava correlata all’umore riferito (ad esempio quando l’umore veniva riferito come estremamente negativo con maggior probabilità i ragazzi riferivano di aver rotto qualche oggetto, iniziato un litigio oppure disobbedito ai genitori o insegnanti). Al termine dell’implementazione del percorso è emersa una preliminare evidenza di efficacia nel ridurre la probabilità di mettere in atto comportamenti-problema, soprattutto qualora si sperimenti un basso tono dell’umore.

Tuttavia l’applicazione della DBT non si limita al coinvolgimento degli alunni, bensì un recente studio (Justo, Andretta & Abs, 2018) ha visto l’utilizzo del DBT skills training con gli insegnanti. Spesso questi ultimi manifestano delle difficoltà nella regolazione delle proprie emozioni, e ciò influenza negativamente il rapporto che riescono ad instaurare con i propri alunni. In alcuni studi sono state proposte agli insegnanti alcune pratiche di mindfulness che in questo contesto vengono integrate con abilità specifiche del DBT skills training, ovvero tolleranza della sofferenza, regolazione emotiva e efficacia interpersonale.

Hanno partecipato 36 insegnanti di scuola primaria, suddivisi in 2 differenti gruppi che hanno preso parte a 4 incontri, ciascuno della durata di 180  minuti e ad un follow-up a 2 mesi dal termine del percorso. Emerge come le insegnanti mantengano, anche al follow-up, i miglioramenti ottenuti rispetto alle loro capacità interattive all’interno del contesto scolastico, dimostrandosi particolarmente attente nell’aiutare gli alunni nel riconoscimento e nella regolazione delle proprie emozioni. Tuttavia nei mesi successivi all’intervento è diminuita negli insegnanti la consapevolezza delle proprie emozioni forse perché, relativamente a tale abilità, si richiede un intervento più duraturo nel tempo. A livello qualitativo le insegnanti riferiscono la necessità di interventi di maggiore durata, le loro difficoltà ed insicurezze nell’essere chiamate a riflettere in maniera così approfondita sulle componenti dell’intervento proposto e la significativa delle riflessioni personali generate dall’intervento stesso.

Nel contesto italiano l’applicazione della DBT nelle scuole è ancora poco presente nonostante sia stata pubblicata la traduzione italiana del programma DBT STEPS-A (Mazza et al, 2019). Tale programma si pone come obiettivo l’applicazione dello Skills Training all’interno delle scuole secondarie di primo e secondo grado con la finalità di promuovere negli studenti abilità di regolazione emotiva, riduzione dei comportamenti impulsivi, acquisizione di competenze di problem solving e sviluppo di una buona efficacia interpersonale (Stefanoni, 2020).

Come è stato illustrato, le applicazioni della DBT all’interno del contesto scolastico sono molteplici, sia includendo popolazioni di adolescenti sia di insegnanti; in entrambi i casi appare funzionale l’acquisizione di specifiche competenze incluse all’interno del DBT Skills Training con lo scopo nel primo caso di guidare i ragazzi nel delicato periodo di crescita che stanno attraversando e nel secondo per promuovere adeguate competenze personali e professionali che possano supportare i docenti nel delicato compito che sono chiamati a svolgere.

 

Metacredenze sulle emozioni. L’impatto delle emozioni nelle nostre vite – Partecipa alla ricerca!

Che cosa sono le emozioni? Vengono definite come un processo formato da più componenti specifiche che hanno un decorso temporale e vengono attivate da stimoli interni o esterni, naturali o appresi.

 

Le emozioni sono quindi un mezzo con cui affrontiamo delle situazioni. Possiamo pensare anche ad esse come alla manifestazione di pensieri con i quali, in qualche misura, valutiamo la nostra esperienza.

Cosa sono invece le metacredenze? Le metacredenze vengono definite come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo. Sono delle credenze che abbiamo riguardo il significato dei nostri pensieri, dei nostri ricordi e delle nostre emozioni. In altre parole, sono delle credenze che riguardano i nostri stessi processi cognitivi.

Ci siamo quindi chiesti: che cosa penseranno le persone riguardo alle proprie emozioni? Come vivranno quelle positive? E quelle negative? Come gestiscono i propri pensieri, le proprie preoccupazioni? Ossia, quali specifiche metacredenze riguardo alle emozioni ci caratterizzano?

Diverse ricerche (De Castella et al., 2013, 2018; Ford & Gross, 2019) suggeriscono che le credenze inerenti le proprie emozioni e le metacredenze (Wells & Matthews, 1996; Wells, 2002, 2008) hanno dirette conseguenze sulla scelta di determinate strategie di regolazione delle emozioni e sull’attuazione di comportamenti potenzialmente dannosi per la persona. In generale, le ricerche correnti suggeriscono che ciò che pensiamo riguardo ai nostri processi cognitivi (per esempio le emozioni) influenzano più o meno direttamente la nostra conseguente risposta semi-adattiva. Questo risulta particolarmente importante in relazione alla messa in atto di strategie di regolazione emotiva disfunzionale che caratterizza gran parte dei disturbi psicopatologici.

Riteniamo dunque utile indagare la natura delle credenze riguardo alle proprie emozioni per identificare delle caratteristiche ricorrenti e così descrivere dettagliatamente questo costrutto. Identificare infatti la natura delle credenze che ci condizionano nella vita di tutti i giorni, come nel caso delle metacredenze sulle emozioni, potrà permettere di circoscrivere maggiormente quelli che possono rivelarsi dei target di intervento terapeutico.

La ringraziamo se vorrà partecipare alla nostra ricerca compilando il questionario riguardante le emozioni e le metacredenze su di esse. La invitiamo a condividere il link del questionario, in modo da raggiungere più persone ed avere un gruppo ampio e diversificato da cui poter raccogliere dati.

 

PARTECIPA ALLA RICERCA:

ACT Avanzata. 
La guida del professionista esperto all’Acceptance and Commitment Therapy (2020) di Darrah Westrup – Recensione

La lettura di ACT avanzata favorisce il passaggio dalla teoria alla pratica e offre aiuti concreti nelle sfide quotidiane in seduta coi pazienti.

 

Descrizione

Il libro è stato scritto nel 2014 e tradotto e pubblicato in Italia a dicembre 2020.

Ormai i manuali per l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) sono sempre più diffusi, ma questo è uno dei pochi di livello avanzato per terapeuti ACT in circolazione. In particolare, in lingua italiana è il secondo (in ordine cronologico) dopo il libro di Russ Harris.

ACT Avanzata fornisce preziosi suggerimenti e esempi di reali colloqui terapeutici per aiutare ad affinare la comprensione dei processi fondamentali dell’ACT e consente di imparare strategie pratiche per superare le barriere comuni che possono presentarsi durante la terapia, come l’eccessiva identificazione con i pazienti, o la difficoltà a mettere in pratica la teoria, con lo scopo di colmare il divario tra ciò che si è appreso nella formazione ACT e le specifiche e uniche sedute effettive con il paziente.

Leggendo il volume, si potrà apprezzare che l’autrice non promuove una terapia ACT ‘senza errori’, ma piuttosto offre ai terapeuti modi per rendere flessibile il proprio intervento e riconoscere e agire sul processo terapeutico mentre si svolge.

L’autrice

Darrah Westrup, PhD, è una psicologa clinica abilitata che esercita in Colorado e California con una solida reputazione per il suo lavoro come terapeuta ACT, formatrice, ricercatrice e consulente per professionisti in varie aziende e organizzazioni. È un’autorità riconosciuta sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e ha condotto numerose presentazioni e corsi di formazione a conferenze, seminari e workshop internazionali, nazionali e locali. Ha prestato servizio per oltre cinque anni come consulente esperto di ACT per l’implementazione del trattamento basato sull’evidenza dell’ACT per la depressione ed è anche coautrice di altri due libri sull’ACT: Acceptance and Commitment Therapy for the Treatment of Post-Traumatic Stress Disorder e Trauma-Related Problems e The Mindful Couple.

Destinatari

La lettura e lo studio di questo testo sono adatti sia ai terapeuti che hanno già familiarizzato con libri e corsi di livello base e intermedio, perché favorisce il passaggio dalla teoria alla pratica, sia ai terapeuti esperti perché possono trovare aiuti concreti nelle sfide quotidiane che incontrano nelle sedute coi pazienti.

Contenuti

Nella prima parte l’autrice offre il suo punto di vista sulle basi teoriche dell’ACT per consentire un efficace ripasso e creare un terreno comune per proseguire con le parti più pratiche. Nello specifico, si affrontano i problemi con i processi fondamentali dell’ACT, gli obiettivi, il modo e il ritmo con cui sono strutturate le sessioni, lo stile e il modo in cui il terapeuta si presenta nella stanza di terapia. Inoltre si dà ampio spazio a tematiche come l’importanza dell’ascolto, dell’essere presenti e del silenzio.

La seconda parte tratta delle difficoltà comuni incontrate dai terapeuti quando si avvicinano ai principali componenti dell’ACT – come il ruolo del linguaggio, la disperazione creativa e il sé come contesto – ed esplora come poter lavorare con alcune delle barriere al trattamento che tendono a manifestarsi nel corso della terapia.

L’ultima sezione esamina le questioni più sottili, ma comunque di notevole impatto sull’intervento di tipo ACT, per esempio la coerenza, la ricerca della felicità, le intenzioni, sensazioni di solitudine e come poter crescere come terapeuti ACT.

Conclusioni

Sebbene non sia altrettanto pratico e immediato quanto il manuale avanzato di Harris, è sicuramente una lettura preziosa per i terapeuti che si trovano bloccati, che desiderano implementare il passaggio dalla teoria alla pratica, che vogliono aumentare le proprie abilità nel trattamento ACT e imparare a renderlo flessibile e efficace per ogni paziente.

 

La metacognizione e i comportamenti di dipendenza: una relazione di natura bidirezionale?

Le credenze metacognitive positive sembrano essere coinvolte nell’inizio del comportamento di dipendenza, motivando ad impegnarsi in esso, quelle negative invece nella perpetuazione dei comportamenti di dipendenza.

 

Per metacognizione si intende qualsiasi conoscenza e processo cognitivo coinvolto nella valutazione, nel monitoraggio e nella conseguente regolazione della cognizione stessa (Flavell, 1979).La maggior parte dei teorici in questo campo distingue la conoscenza metacognitiva dai processi di regolazione metacognitiva. Nel primo caso ci si riferisce alla conoscenza che gli individui hanno dei propri processi cognitivi e delle strategie necessarie per modificarli, mentre, con il termine regolazione metacognitiva ci si riferisce alle strategie utilizzate per regolare o controllare la cognizione (Wells, 2000). Il modello Self-Regulatory Executive (Wells & Matthews, 1994) fu il primo a suggerire che le problematiche di natura psicologica siano strettamente connesse alla metacognizione. Secondo il suddetto modello, specifiche credenze metacognitive determinano l’attivazione ed il mantenimento di strategie di coping disadattive (come eccessivo monitoraggio delle minacce o evitamento) che determinano la perseveranza del disagio psicologico. Collettivamente, le strategie disadattive determinano lo sviluppo di una sindrome cognitiva attenzionale (CAS; Wells, 2000, 2013).

Le credenze metacognitive possono essere suddivise in tre sottotipi (Spada, Caselli, Nikčević, & Wells, 2015):

  • credenze metacognitive generiche riguardanti le esperienze cognitivo-affettive interne (es. “Devo controllare i miei pensieri in ogni momento”) e al loro significato;
  • credenze metacognitive positive sull’utilità delle strategie CAS (es. “Se mi preoccupo sarò preparato”) che sono legate all’attivazione della CAS;
  • credenze metacognitive negative sulla controllabilità e pericolosità degli eventi mentali (es. “Non posso controllare i miei pensieri”).

Una recente meta-analisi ha dimostrato la presenza di livelli più elevati di credenze metacognitive nei disturbi alimentari, nel disturbo d’ansia generalizzato, nel disturbo depressivo maggiore, nel disturbo ossessivo-compulsivo e nella schizofrenia rispetto ai gruppi di controllo sani, soprattutto per quanto concerne le credenze metacognitive generiche sull’incontrollabilità, il pericolo e sulla necessità di controllare i pensieri (Sun et al., 2017).  Nel complesso, questi risultati confermano la caratteristica transdiagnostica delle credenze metacognitive e mostrano come gli individui che sviluppano una psicopatologia presentano spesso una valutazione negativa dei propri eventi mentali.

Rispetto alle dipendenze, diversi ricercatori hanno indagato il legame tra credenze metacognitive e uso di alcol, tabacco, gioco d’azzardo o uso problematico di Internet (Spada, Caselli et al., 2015) e, data la recente natura di questo campo di ricerca, fornire una panoramica delle prove esistenti appare giustificato. Pertanto, una revisione sistematica presa in esame si è proposta di identificare e presentare le attuali evidenze riguardanti il ruolo delle credenze metacognitive nei comportamenti di dipendenza.

La revisione ha incluso 38 studi pubblicati tra il 1999 e il 2018.

Le indagini prese in esame hanno evidenziato la presenza di un’associazione positiva tra le credenze metacognitive sugli stati cognitivo-affettivi e diversi comportamenti di dipendenza. Difatti, esse hanno mostrato che le persone che si impegnano in comportamenti di dipendenza hanno credenze metacognitive generiche disfunzionali, credenze metacognitive sui pensieri legati alla dipendenza e credenze metacognitive sul craving. Queste credenze metacognitive sono più prevalenti nelle popolazioni cliniche che in quelle di controllo e predicono l’appartenenza alla categoria del comportamento di dipendenza, la gravità del comportamento, il craving e la ricaduta.

Nello specifico, la revisione ha messo in luce che le credenze metacognitive generiche sull’incontrollabilità e il pericolo, sulla necessità di controllare i pensieri e una mancanza di fiducia cognitiva sono quelle più strettamente associate ai comportamenti di dipendenza. Dal punto di vista del modello metacognitivo dei comportamenti di dipendenza, le credenze metacognitive contribuiscono all’inizio e alla perseveranza dei comportamenti di dipendenza perché promuovono stili di pensiero dannosi e strategie di coping disfunzionali, che a loro volta aumentano la probabilità di impegnarsi in comportamenti di dipendenza. Secondo Spada, Caselli e Wells (2013), questo suggerisce che i comportamenti di dipendenza possono essere visti come una strategia per controllare il pensiero e gli stati emotivi indesiderati. Questa ipotesi è coerente con la ricerca sulla ruminazione e sui pensieri legati al desiderio, che suggerisce che la ruminazione predice l’uso di alcol e il desiderio (Caselli et al., 2010, 2013) e che le persone che tendono ad avere una valutazione negativa dei loro pensieri legati al desiderio presentano un rischio maggiore di ricaduta dopo la cessazione (Nosen & Woody, 2009).

Scendendo più nello specifico, secondo i risultati presi in esame, le credenze metacognitive positive sembrano essere coinvolte nell’inizio del comportamento di dipendenza, motivando le persone a impegnarsi in esso. Al contrario, le credenze metacognitive negative sembrano essere prevalentemente coinvolte nella perpetuazione dei comportamenti di dipendenza. Quando vengono attivate, queste credenze rafforzano la percezione del fallimento dell’autoregolazione e l’effetto dannoso del comportamento di dipendenza sul funzionamento, che a sua volta può promuovere il pensiero ripetitivo negativo e le emozioni negative. Inoltre, se gli individui credono di non poter regolare il loro comportamento, è probabile che limitino i loro tentativi di controllarlo (Raylu & Oei, 2004).

Tuttavia, la maggior parte degli studi inclusi nella revisione sono trasversali e quindi impediscono di trarre conclusioni sulla natura causale delle credenze metacognitive. È dunque possibile che le credenze metacognitive siano solo una conseguenza dei comportamenti di dipendenza. Infatti, gli effetti delle sostanze possono modificare la percezione dei pensieri e promuovere credenze disfunzionali. Allo stesso modo, l’emozione negativa spesso associata ai comportamenti di dipendenza (Brière, Rohde, Seeley, Klein, & Lewinsohn, 2014; Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2011) può influenzare l’elaborazione delle informazioni in modo negativo e portare a una valutazione pessimistica degli eventi mentali (Teasdale, 1983), o aumentare la tendenza a presentare pensieri negativi ripetitivi, che potrebbero stimolare credenze metacognitive negative (Papageorgiou & Wells, 2003). Inoltre, Nosen e Woody (2014) hanno dimostrato che il successo dell’astinenza dal fumo è associato alla diminuzione delle credenze metacognitive sul desiderio. Per questi autori, questo risultato è segno di una relazione bidirezionale tra credenze metacognitive e comportamenti di dipendenza.

Concludendo, l’attuale evidenza supporta il modello metacognitivo dei comportamenti di dipendenza e suggerisce che gli interventi che mirano alle credenze metacognitive, come la terapia metacognitiva (Wells, 2013; Spada, Caselli & Wells, 2012), potrebbero essere utili per i soggetti affetti da comportamenti di dipendenza.

 

 

Giudicare gli altri, a cosa serve? – Il quarto episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.

 

GIUDICARE GLI ALTRI, A COSA SERVE?

Immaginare il proprio futuro può divenire un ostacolo nel vivere il presente? Indagine comparativa tra disturbi d’ansia e disturbi di panico nell’orientamento al futuro

Nei disturbi d’ansia e di panico si possono presentare distorsioni temporali, rispetto a un presente, sentito come particolarmente intenso e a tratti difficile da gestire, e a un futuro, vissuto spesso come incerto e incontrollabile.

Andrea Coluccia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La prospettiva temporale è stata definita da Savickas (2011) come un “quadro mentale del passato, presente e futuro”. É di fatti un’esperienza personale del tempo caratterizzata da un senso di continuità tra i tre momenti temporali.

Questo quadro mentale è influenzato da credenze circa la realizzabilità degli obiettivi che un individuo si prefigge, che incidono sulla presenza dei disturbi d’ansia e disturbi di panico. Diversi studi, tra cui per la prima volta quelli di Trommsdorff (Future orientation and socialization, 1983), hanno messo in luce come buone capacità nella prospettiva temporale sono essenziali per organizzare le normali attività quotidiane e per un corretto funzionamento sociale.

Ma da cosa dipendono queste capacità e soprattutto come influiscono sulla presenza di disturbi psicologici?

L’orientamento al futuro

Diversi studi, a partire da quelli di Nuttin (1996), hanno dapprima preso in considerazione l’organizzazione e lo sviluppo delle funzioni esecutive (come la pianificazione e l’esecuzione finalistica) in quanto rilevanti nello studio sulla prospettiva futura.

Alcune ricerche hanno evidenziato come si presentino differenti sensibilità e stati psicologici di fronte ai fattori temporali: in una situazione in cui una persona è rilassata, ad esempio, prende il sole in riva al mare, senza avere alcun impegno in programma, il tempo non è un problema. Se si chiede a questa persona quanto tempo ha passato su quella spiaggia, la durata percepita è molto più breve del tempo oggettivo trascorso.

Una situazione diversa è quella in cui una persona è in attesa di una chiamata importante, ma non sa quando questa chiamata potrà arrivare. In questa contingenza chi è in attesa controlla ripetutamente l’orologio, per scoprire probabilmente che il tempo oggettivo non è avanzato di molto dall’ultimo controllo. La discrepanza tra le due situazioni indica che i giudizi soggettivi di durata del tempo, poggiano su processi cognitivi ed emotivi differenti.

Mentre nel primo caso sono stati coinvolti dei processi di giudizio di durata retrospettiva, nella seconda situazione, in particolare, processi di giudizio di durata prospettica, mettendo in luce come la prospettiva futura dipenda da numerose variabili, interne ed esterne, e che sono soggette a variazioni a seconda delle situazioni che si presentano.

Teorie e ipotesi sulla prospettiva temporale

Nuttin (Future Time Perspective, 1985) osserva che l’organizzazione di un determinato “piano di vita” avviene intorno a fini che in parte sono dettati da esigenze individuali, in parte dagli obiettivi che la struttura sociale tende a privilegiare. Nella sua teorizzazione, le motivazioni rappresentano l’espressione concreta e funzionale dei bisogni che a loro volta costituiscono gli elementi fondamentali dell’inserimento dell’uomo nel mondo.

Una delle caratteristiche del comportamento umano è la sua strutturazione in una “sequenza di obiettivi”, il che significa che ogni condotta assume il suo significato all’interno di un contesto progettuale più esteso, complesso e articolato.

La prospettiva temporale assume un’importanza cruciale nell’impostazione teorica di Nuttin, per il quale i concetti di anticipazione e di aspettativa sono indice di un costante orientamento dell’individuo verso il futuro. L’anticipazione non costituisce solo l’esito dell’esperienza passata, ma un orientamento dinamico verso il futuro, che risulta correlato con la motivazione, e connesso con l’elaborazione cognitiva di obiettivi e progetti.

Al giorno d’oggi, la modalità con cui i giovani vivono il presente risulta sostanzialmente modificata rispetto alla tradizionale rappresentazione del loro vissuto temporale.

Il tempo presente è modellato dall’atteggiamento verso il passato, da un lato, e verso il futuro, dall’altro. Ad esempio, se il pensiero del futuro è caratterizzato da incertezza ed inquietudine, allora anche il quotidiano perderà di senso e di valore. Il tempo smetterà di apparire una risorsa preziosa e non sarà considerato un mezzo che consente di raggiungere obiettivi futuri, ma potrà apparire come eccessivamente lungo, uniforme e senza qualità.

Un atteggiamento ottimistico verso il futuro tende a dipendere dal valore positivo o negativo degli obiettivi che si progettano e si prevedono e dalla probabilità soggettiva della loro realizzazione. Importante è anche la percezione delle tre direzioni temporali (passato, presente, futuro) come legate fra loro, oppure, contrapposte.

Si tratta di un’impressione di continuità o di discontinuità temporale e, soprattutto, di ciò che Nuttin ha definito integrazione temporale, ovvero “coscienza di un futuro in continuità attiva con il presente ed il passato e una disposizione all’attribuzione interna che riconosce il ruolo dell’azione personale nei risultati ottenuti”.

Pertanto in presenza di determinati disturbi, come disturbi d’ansia e di panico, si possano presentare distorsioni temporali, rispetto a un presente, sentito come particolarmente intenso e a tratti difficile da gestire, e a un futuro, vissuto spesso come incerto e incontrollabile.

Disturbi d’ansia e di panico e interpretazione del futuro: rimuginare per potersi preparare al peggio

L’ansia spesso viene identificata come uno stato di malessere ma in realtà è un’emozione di base di tutti gli esseri umani che si attiva quando si percepisce una situazione come potenzialmente pericolosa. Per questo può essere considerata una risorsa in grado di dare lo sprint necessario per affrontare situazioni che richiedono un determinato livello di allerta.

L’ansia diventa disfunzionale quando è eccessiva e sproporzionata rispetto alla situazione, comportando diversi cambiamenti nel corpo, nei pensieri, nelle emozioni e nel comportamento della persona che la sperimenta.

Secondo il modello cognitivo dell’ansia di Clark & Beck (2010), un determinato evento, il cosiddetto stimolo attivante, che può essere rappresentato da una sensazione fisica, un pensiero, un’immagine o una situazione esterna, viene valutato inizialmente in modo rapido e involontario. Per gli individui ansiosi questo stimolo assume una valenza negativa perché percepito come un possibile pericolo. Influenza i processi emotivi e comportamentali e attiva una modalità di minaccia, che innesca un ciclo di pensieri legati alla percepita mancanza di risorse e a preoccupazioni che aumentano lo stato ansioso, determinando il meccanismo del rimuginio ansioso: una strategia di regolazione delle emozioni che implica la costruzione ripetuta di ipotetici scenari futuri negativi in condizioni di incertezza.

Questo processo di ricorsività del pensiero è un processo transdiagnostico che si accompagna a tutti i disturbi con una componente ansiosa, e in modo particolare, oltre ai disturbi di ansia generalizzata e ansia sociale, ai disturbi di panico, in cui sono gli stessi segnali somatici a divenire il principale oggetto del rimuginio (Sassaroli, Ruggiero, 2008).

Sia per i disturbi d’ansia, che per i disturbi di panico, il rimuginio rappresenta un’operazione costosa per il proprio presente: le persone che rimuginano, investono molto tempo ed energia, avendo ripercussioni sul benessere e sulle prestazioni.

Per quanto riguarda il danno al benessere, in particolare nei disturbi di panico, il rimuginio può portare a numerosi sintomi fisici invalidanti, come insonnia, mal di testa e irrequietezza, oltre a dolori cronici. Ciascuna di queste condizioni fisiche è associata al perseverare dei sintomi tipici di panico, che il rimuginio mantiene attivi sostenendo uno stato di allerta continuo e incrementando l’intensità dell’ansia. Sassaroli (2019) e altri autori sottolineano come in pensieri ipotetici e preoccupazioni orientate al futuro, il rimuginio agisce da freno a mano sulle attività del presente, non permettendo di raggiungere uno stato di sicurezza, poiché tiene in vita la minaccia nella mente focalizzando l’attenzione su di essa.

La seconda conseguenza negativa del rimuginio associato a questi disturbi è l’ingente richiesta al sistema cognitivo, impattando sulla memoria di lavoro. La capacità di concentrarsi o di svolgere contemporaneamente un secondo compito è danneggiata dal momento in cui parte della memoria di lavoro è occupata nell’attività del rimuginio.

Secondo Freeston (2000) diviene anche un ostacolo anche nelle capacità di problem-solving, dal momento che molte persone lo utilizzano a questo scopo.

Inoltre, a differenza dei disturbi d’ansia, nei disturbi di panico tende a instaurarsi in più anche la paura della paura che condiziona l’orientamento al futuro. Le sensazioni somatiche del panico, spesso improvvise e inspiegabili, sono seguite da un’interpretazione catastrofica (“non respiro… e se mi sento male? Mi sta venendo un infarto?”) che a sua volta aumenta i sintomi generando il “vortice del panico” in cui la persona provando ansia anticipatoria per la paura di avere nuovi attacchi di panico, innesca di nuovo tutto il meccanismo, come si può vedere dall’immagine.

Disturbi d ansia panico e rimuginio effetti negativi del riflettere sul futuro IMM1

Imm. 1 – Meccanismo alla base del panico

Immaginare il futuro può divenire un ostacolo per vivere bene il presente?

Per molte persone il rimuginio ha uno scopo funzionale (es: mantenimento di una condizione di sicurezza) mentre per altri abbandonarlo significa perdere dei punti di riferimento, sentendosi vulnerabili ad eventuali minacce future. La maggior parte degli psicologi, tra cui Sassaroli e Ruggiero (2019), sia per i disturbi di ansia che per i disturbi di panico, sottolineano come preoccuparsi eccessivamente per eventi futuri, ritenuti come catastrofici, non sempre porta a strategie funzionali per fronteggiarli. Oltre a non rappresentare un efficace metodo di soluzione di un problema che potrebbe ipoteticamente presentarsi, non permette di rimanere concentrati e vivere a pieno le attività del presente.

I contenuti di pensiero tipici di ansia e panico tendono ad essere astratti e privi della capacità di portare avanti un’azione: spesso si estendono a contenuti distanti dalla tematica principale, costruendo un processo di problem solving che esige un grande dispendio di tempo e di energie mentali, portando a un conseguente abbassamento del tono dell’umore o un’amplificazione del vissuto di paura e minaccia, e ciò tende a influire notevolmente sulla qualità del presente, in particolare sui disturbi di panico nei quali l’ansia anticipatoria nei confronti delle situazioni che si affrontano tende ad essere quasi sempre presente, non permettendo che le diverse attività possano essere condotte con serenità e inficiando a volte sulle relazioni sociali.

Molti studiosi si interrogano su come separarsi da questi stili di pensiero, che rappresentano un fattore di mantenimento di questi disturbi, correndo il rischio che la persona non riesca a vivere con tranquillità il normale trascorrere del tempo.

Innanzitutto bisogna fare alcune distinzioni: una cosa è vivere e sentire pienamente i propri stati d’animo e le proprie emozioni spiacevoli, con consapevolezza, accogliendole positivamente ed accettandole per quelle che sono; altra cosa è passare tanto tempo del presente rimuginando continuamente sui propri pensieri, al fine di individuare soluzioni o alternative a problemi che forse non si presenteranno mai, o nel tentativo di cambiare o modificare un evento futuro immaginato.

Si mette quindi in evidenza l’importanza di riuscire a tollerare alcuni stati spiacevoli, nonostante ciò possa risultare complesso, ricordandoci di tornare nel presente e agendo su di esso prima che possa sfuggire di mano, vivendolo in uno stato di piena consapevolezza.

 

I legami patologici nei casi di maltrattamento domestico: la Battered Woman Syndrome (BWS)

Elementi costitutivi della Battered Woman Syndrome sono impotenza appresa, legame asimmetrico e ciclo della violenza.

 

Molte donne soggette a maltrattamento non sembrano in grado di spezzare il legame che le vincola al proprio carnefice, con l’effetto di perpetrare una sofferenza che uccide il corpo e l’anima.

Sovente si parla di masochismo. In altre occasioni si preferisce far riferimento ad una sorta di compiacenza. E facendo ricorso ad euristiche ben poco empatiche, si pensa che, in fondo, ognuno ha ciò che desidera.

Il determinismo psichico sostiene come ogni azione sia costruita sulla base di una motivazione psicologica. Non può non essere così anche in questo frangente, in cui la psiche, ancora più del corpo, si trova coinvolta in un triste gioco al massacro.

In particolare sembra che nella donna maltrattata si instauri un meccanismo patologico che la spinge a negare la propria soggettività e a trasformare il carnefice in una sorta di “appiglio esistenziale”, la sola giustificazione ad una vita che in sua assenza verrebbe svuotata di ogni senso.

La donna maltrattata viene isolata, privata di ogni autoconsapevolezza e autonomia, resa vittima di una disperazione senza uscita in cui la totale assuefazione al maltrattante costituisce l’unica alternativa.

Ma c’è un istinto di sopravvivenza, nella continuazione di questo legame indubbiamente patologico e distruttivo. Perpetrare un rapporto di vicinanza con colui che attenta quotidianamente alla propria integrità psico-fisica costituisce in realtà un mezzo di difesa per mantenere una sorta di equilibrio psicologico in una situazione nella quale non esiste via d’uscita.

Elementi costitutivi della Battered Woman Syndrome

Da un legame di violenza ricorsivamente perpetrato si origina un vissuto di soggezione collusiva, in cui la donna rifiuta di riconoscere la propria condizione di maltrattata, arrivando a negarne l’esistenza o a minimizzarne la gravità. Ma è proprio questa negazione a costituire la più grave conseguenza patologica scaturita dal maltrattamento.

Come accade nella Sindrome di Stoccolma la vittima è terrorizzata dall’asimmetria del rapporto che la lega al carnefice, e anziché cercare mezzi di liberazione decide di assuefarsi completamente a quest’ultimo, mostrando atteggiamenti apatici e anedonici rispetto ad un’eventuale fuga dallo stesso  (Walker, 1979).

Le possibili motivazioni sono la volontà di evitare ritorsioni ancor più violente e lesive del Sé, la dissociazione mentale causata dall’alternarsi di condotte punitive e premiali volontariamente posta in essere dal carnefice- proprio per disorientare le reazioni della vittima- e infine la volontà di quest’ultima di aggrapparsi all’unico legame affettivo messo a sua disposizione in un contesto dominato dalla coercizione e dall’isolamento.

Nei casi di violenza domestica, la psicologa Lenore Walker (1979) attribuisce l’incapacità di separarsi dal carnefice all’effetto di una sindrome piuttosto affine a quella di Stoccolma, che porta il nome di Battered Woman Syndrome, e i cui elementi costituivi sono i seguenti:

  • Impotenza appresa: la donna, vittima di una paralizzante situazione di marginalità, sviluppa un locus of control esterno che la rende incapace di gestire gli eventi della propria vita e di apportare agli stessi una modifica migliorativa. Dopo aver tollerato per lungo tempo condotte abusanti da parte del partner, ella perde non solo la speranza di potersi liberare ma anche la motivazione a farlo, scegliendo di ignorare gli stimoli esterni che le offrono una potenziale occasione di cambiamento. Aspetti come agency ed autoefficacia vengono dunque neutralizzati in favore di una passività distruggente;
  • Legame asimmetrico: la donna si trova intrappolata in una situazione coercitiva “totalizzante” e non può che assuefarsi al differenziale di risorse volontariamente posto in essere dal partner, al fine di privarla di ogni possibilità di ribellione. È l’abusante a disporre di qualsiasi potere all’interno della coppia: dalle questioni ordinarie a quelle più importanti, la sua volontà è la sola che detenga potere attuativo. L’asimmetria, intesa come sperequazione di diritti e autonomie nel legame, è il frutto del programma di soppressione psichica posto in essere dal carnefice, al fine di isolare gradatamente la vittima da qualsiasi legame -estraneo alla realtà dell’abuso- che serva a renderla cosciente della propria condizione e quindi a fornirle un bacino di risorse- fisiche, psichiche ed economiche- utili a ripristinare una simmetria nel legame o a spezzarlo definitivamente;
  • Ciclo della violenza: nei casi di Battered Woman Syndrome, la violenza si perpetra attraverso l’evolversi di un ciclo ricorsivo- denominato “ciclo della violenza”, suddiviso in quattro fasi distinte (Walker, 1980): una prima fase, chiamata di crescita della tensione, in cui la donna viene resa oggetto di critiche, rimproveri e continue umiliazioni da parte del partner, anche di fronte ai figli o ad estranei; una seconda fase, quella della violenza acuta, in cui l’irritabilità si trasforma in un’autentica aggressione fisica all’indirizzo della donna; una terza fase, definita delle scuse, in cui il maltrattante vive la propria condotta aggressiva con intenso disagio e senso di colpa, e sembra pentito di ciò che ha fatto; la quarta, definita della luna di miele, in cui l’abusante si profonde in promesse di cambiamento, corroborate da occasionali attenzioni, gentilezze e richieste esplicite di perdono. Disorientata da questo alternarsi di condotte punitive e premiali, e sempre più limitata da uno stato di soggezione psichica nella quale ha perduto ogni certezza del Sé, la donna è disposta a dare fiducia alle promesse del partner e, scegliendo di non riconoscere la portata fittizia dei suoi buoni propositi, si illude che ogni occasione sarà quella giusta per ottenere un cambiamento reale da parte sua;

Non esiste una codificazione formale per la Battered Woman Syndrome, ma si ritiene che la donna possa esserne considerata affetta ove abbia subito due cicli di violenza completi, estrinsecati in ciascuna delle fasi sopra elencate (Walker, 1980; Reale, 2011).

Sintomatologia e correlati cognitivo – emotivi della Battered Woman Syndrome

Tra gli indici emotivi e cognitivi potenzialmente riscontrabili nella sindrome della donna maltrattata troviamo:

  • un vissuto depressivo, cui si accompagnano stati di ansia generalizzata e di ipervigilanza alle condotte del partner; nello specifico è stata rilevata la marcata capacità, nelle donne soggette a maltrattamento, di interpretare la mimica facciale, i movimenti e le posture corporee dell’abusante che, in un tragico legame di rievocazione mnestica, hanno appreso ad associare all’evento aggressivo (Reale, 2011). La medesima ipervigilanza viene posta nel controllo delle proprie condotte, che la vittima si sforza di rendere adesive alle volontà del partner cercando non solo di soddisfarle ma altresì di intuirle e anticiparle, attraverso comportamenti premurosi che la spingono a mettere le sue esigenze sempre al primo posto, cancellando totalmente le proprie;
  • lo sviluppo di meccanismi di difesa quali negazione, minimizzazione e razionalizzazione, in base ai quali la vittima o non riconosce la violenza del partner o tende a giustificarla con argomentazioni contingenti, ad esempio definendola un episodio passeggero, transitorio o dettato dallo stress. Ma nella maggior parte dei casi ella sceglie di attribuire a se stessa il verificarsi dell’agito aggressivo, convincendosi che in assenza del suo errore la violenza non avrebbe avuto luogo (autocolpevolizzazione). In realtà l’agito violento è il risultato dell’aggressività endogena del maltrattante, proiettata difensivamente sulla donna a prescindere dalla condotta di quest’ultima (Schimmenti, Craparo, 2014). Ma l’impossibilità di riconoscerlo è dovuta proprio al risultato delle condotte manipolatorie che l’abusante esercita su di lei, a seguito delle quali viene privata di ogni autostima e capacità di giudizio circa il Sé e la realtà. Per questo molte vittime arrivano addirittura a mostrarsi acriticamente collusive con il pensiero maschilista e prevaricatore dell’abusante, nel quale la donna viene considerata per natura inferiore all’uomo e dunque liberamente violabile da parte di quest’ultimo. Non si tratta di un pensiero che la donna ha maturato volontariamente, ma di una realtà eteroimposta cui è costretta ad assoggettarsi a caro prezzo: quello della totale rinuncia alla propria soggettività;
  • il consolidarsi progressivo di una coercizione mentale simile ad un brainwashing, -lavaggio del cervello- e la presenza di gaslighting, un’ulteriore forma di abuso psicologico nel quale il maltrattante, servendosi di subdole tecniche manipolatorie, induce la donna a credere ad una realtà fittizia nella quale millanta eventi mai accaduti e le imputa azioni mai commesse (Schimmenti, Craparo, 2014). Malgrado i tentativi di resistenza iniziale, la vittima finisce col dubitare continuamente del proprio agito fino al punto di credere a qualsiasi menzogna le venga propinata dall’abusante, sperimentando autentici vissuti dissociativi;
  • numbing, identificabile in una sorta di intorpidimento emotivo e cognitivo che tende a permanere nella dimensione psichica della vittima privandola della capacità di mentalizzazione, simbolizzazione e valutazione oggettiva degli eventi (Reale, 2011). Al numbing si accompagnano una serie di sintomi affini a quelli tipici del PTSD, quali vissuto di negazione dell’evento traumatico, elevata potenzialità riattivante dello stesso, impossibilità di ricostruirne le fasi da un punto di vista logico-narrativo, vissuti di iperarousal e stati intrusivi nei quali la vittima rivive drammaticamente le aggressioni subite e non riesce a reagire a quella presente;
  • condizione di paralisi traumatica, che sussiste in tutti i casi in cui la donna si trova relegata in una condizione di non azione psichica e cognitiva, a causa della quale è incapace di difendersi dall’azione violenta e appare passiva, fragile, demotivata a reagire all’abuso (Reale, 2011). Affinché si parli di paralisi psicologica traumatica è richiesta la presenza di tre elementi: almeno un episodio di abuso consumato all’interno della relazione; la realizzazione di tale abuso in un contesto di legame traumatico, mirato a porre la donna in una condizione di inferiorità e ad instaurare all’interno del rapporto un differenziale di potere appannaggio del maltrattante; infine la incapacità della vittima di difendersi e tutelare i propri diritti e quelli dei figli.

La sindrome della donna maltrattata costituisce l’ennesima testimonianza di come il femminicidio sia una soppressione psichica prima ancora che fisica, un crudele piano nel quale l’uomo si pone l’obiettivo di cancellare la donna, e questa si lascia cancellare.

Data la presenza di un sempre maggiore interesse sociale e scientifico per un fenomeno tristemente attuale come quello del maltrattamento, il riconoscimento formale della Battered Woman Syndrome potrebbe risultare opportuno ai fini di una più precisa identificazione diagnostica dei disturbi collegati alla violenza domestica e di un più adeguato intervento terapeutico sugli stessi.

 

L’impatto del COVID -19 sulla salute psichica della società. Il ruolo del fattore neurotrofico derivato dal cervello e possibili interventi

Studi recenti sul Covid-19 hanno dimostrato che lo stress e la mancanza di significativi rapporti interpersonali hanno reso sempre più comune la diagnosi di disturbi del sonno, cali del tono dell’umore, apatia, stati ansiosi, disturbo da stress post traumatico, depressione e disturbi di personalità.

 

Ormai è noto che il COVID-19 ha profondamente modificato abitudini e stili di vita, contribuendo a far assumere comportamenti che possono risultare dannosi per la salute psicofisica. Inoltre, il lockdown ha imposto una lunga esperienza di isolamento sociale che ha lasciato gli individui privi di difese di fronte all’intenso bombardamento mediatico sull’andamento del coronavirus, alla paura di perdere il proprio lavoro, di potersi ammalare e di non poter ricevere assistenza o cure adeguate oltre che al trauma legato ad una diagnosi o ad un lutto inaspettati.

Al riguardo, studi recenti (Kwong & al, 2020 e Tacquet & al, 2020) hanno dimostrato che l’esposizione a forti stress e a una condizione psicologica caratterizzata dalla mancanza di significativi rapporti interpersonali hanno reso sempre più comune la diagnosi di disturbi del sonno, cali del tono dell’umore, apatia, stati ansiosi, disturbo da stress post traumatico, depressione e disturbi di personalità (Nenov-Matt & al, 2020). Gli anziani in particolare rappresentano il gruppo sociale nel quale il virus ha mietuto il maggior numero di vittime e ha bruscamente interrotto le abitudini attive (cucire, ricamare, attività artistiche, lettura) le relazioni sociali e l’attività fisica (Di Santo & al, 2020). Tale quadro di situazione, associato ad una maggiore solitudine, può aumentare del 40% il rischio di declino delle capacità cognitive e nel tempo di demenza (Sutin & al., 2018).

Ciò può trovare una possibile spiegazione (Buchman & al, 2016) nella riduzione dei valori del fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), una neurotrofina che contribuisce in modo rilevante alla sopravvivenza e alla produzione dei neuroni oltre che all’attivazione dei processi di neuroplasticità. E’ stato, infatti, osservato (Notaras & van den Buuse, 2020) che questa neurotrofina è direttamente coinvolta nei processi di adattamento fisiologico (resilienza) ad eventi stressanti e che una riduzione dei livelli di BDNF, oltre a rallentare la sinaptogenesi e la neurogenesi, rappresenta il comune denominatore di molte malattie e disturbi  (ivi incluse l’ansia, la depressione e il declino cognitivo) che si caratterizzano per anomalie nei processi cognitivi e di elaborazione delle emozioni a causa di malfunzionamenti delle aree cerebrali preposte alla loro regolazione (Price & Duman, 2020).

Risulta quindi molto importante pensare interventi di psicoeducazione che consentano di aumentare la consapevolezza sulla necessità di mantenere uno stile di vita sano (che includa una attività motoria e un adeguato regime alimentare), di essere curiosi, di coltivare interessi, passioni e hobby che facilitino l’inclusione sociale. E’ altresì utile cercare di rinforzare la resilienza familiare promuovendo l’ascolto attivo e il sostegno reciproco tra i membri della famiglia oltre che sviluppare una adeguata capacità di gestione dello stress e delle emozioni anche attraverso il ricorso alla mindfulness e agli esercizi di bioenergetica.

Occorre, inoltre, prendere atto che la pandemia ha proposto in modo forte la necessità di integrare il supporto psicologico nell’ambito dell’assistenza di base del cittadino e di facilitare al contempo l’accesso a questi servizi di pubblica utilità. Infine, è imprescindibile sviluppare una coscienza comune che permetta di abbattere pregiudizi e di rendere normale il ricorso allo psicologo nei momenti di difficoltà.

 

“Pensarti non è mai abbastanza”: lo stile di attaccamento e l’idealizzazione dello stalker

Lo stalking è definito come un fenomeno caratterizzato da comportamenti ripetitivi e invadenti, di sorveglianza, controllo, comunicazione e dalla ricerca attiva di una vittima, figura che ha paura, che è infastidita o preoccupata da tali attenzioni (Civilotti et al., 2020).

 

In Italia questo comportamento è un crimine e la legge italiana afferma quanto segue:

… è un reato, punibile con la reclusione che varia da sei mesi a quattro anni, dovuto dal minacciare o molestare un’altra persona al tal punto da causare un grave, continuo stato di ansia o paura, o di infondere nella vittima o nelle vittime una paura motivata per la propria sicurezza o per la sicurezza di parenti o altre persone legate alla vittima o alle vittime in virtù di parentela o di relazione emotiva o per costringere la vittima o le vittime a cambiare le sue abitudini di vita. (Acquadro Maran et al., 2017)

Rosenfeld (2003) ha identificato gli alti tassi di recidiva degli stalker dopo la detenzione, nello specifico il 49% dei casi durante un periodo che varia dai due anni e mezzo fino ai 13 (l’80% dei quali ha recidiva durante il primo anno). Questi dati suggeriscono come gli atti clinici incentrati sugli stalker debbano essere migliorati (Coker et al., 2016; MacKenzie & James, 2011; Rosenfeld et al., 2007). Diversi studi epidemiologici hanno evidenziato la diffusione del fenomeno dello stalking, con una prevalenza che varia dal 12% al 16% tra le donne e dal 4% al 7% tra gli uomini (Dressing et al., 2006; Purcell et al., 2002).

Patton e colleghi (2010) hanno messo in luce il ruolo di un attaccamento disfunzionale, nello specifico Kienlen e colleghi (1997) hanno intuito come molti stalker presentano uno stile di attaccamento insicuro che viene rinforzato dal rifiuto da parte delle vittime e dalla loro riluttanza a continuare la relazione. Dennison e Stewart (2006) hanno scoperto come sentimenti di gelosia, rabbia, la necessità di controllo e l’attaccamento disfunzionale possano essere dei predittori di questo comportamento persecutorio. La lettura scientifica evidenzia l’importanza delle esperienze infantili che plasmano il funzionamento emotivo (Cassidy, 1994; Felitti et al., 1998; Mikulincer & Shaver, 2007). Considerando la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1958), molti studi sugli stalker hanno indicato che le origini dei comportamenti persecutori affondano le radici in profonde ferite legate alle esperienze infantili e alle prime interazioni con i caregiver che influenzano le credenze, le aspettative e i comportamenti nelle relazioni future, in particolare nelle relazioni affettive (Feeney & Noller, 1990; Shaver & Hazan, 1987). Coerentemente con questa premessa e utilizzando l’AAI (Adult Attachment Interview; 1986, 1987), la letteratura indica come i soggetti che sviluppano narrazioni coerenti delle loro esperienze infantili sono impegnati in relazioni più soddisfacenti rispetto agli individui insicuri (Holland & Roisman, 2010).

Nella maggior parte degli studi viene indicato come uno stato della mente (SoM) preoccupato sia collegato più fortemente all’adozione del comportamento persecutorio (Cupach & Spitzberg, 2014; Davis et al., 2000; Patton et al., 2010). A causa della vulnerabilità personale legata all’immagine di sé, questi soggetti ricercano la prossimità in modo estremizzato. Al contrario degli studi sopra citati, Levinson e Fonagy (2004) hanno scoperto come gli stalker hanno maggiori probabilità di avere uno stato della mente sprezzante caratterizzato da un disconoscimento legato alle proprie esperienze precoci e un livello molto basso di capacità di ragionamento riflettente. Secondo i ricercatori, la difficoltà nei processi cognitivi e la bassa capacità di mentalizzazione può essere collegata ad un monitoraggio aggressivo, rendendo questi soggetti più inclini a danneggiare altre persone (Civilotti et al., 2020). Nonostante le correlazioni positive tra attaccamento insicuro-ansioso e stalking (Guerrero, 1998; Lewis et al., 2001; MacKenzie et al., 2008), i risultati non hanno ancora raggiunto una coerenza empirica.

Civilotti e colleghi (2020) hanno svolto una ricerca per indagare i fattori di vulnerabilità degli stalker, in termini di problemi di attaccamento, di costruzioni narrative coerenti legate all’infanzia e agli atti persecutori attuati. Lo scopo dello studio presente è quello di fornire una panoramica del funzionamento emotivo negli stalker per personalizzare interventi efficienti che tengano conto di fattori quale storia e regolazione emotiva.

Il Comitato Bioetico dell’università di Torino ha approvato lo studio cross-sectional basato sulla somministrazione di due interviste cliniche in un campione maschile composto da 14 stalker detenuti in strutture riabilitative situate nel nord Italia (Civilotti et al., 2020). L’Adult Attachment Interview (AAI) è un colloquio clinico semi strutturato basato su psicologia dello sviluppo ed esperienze di attaccamento precoce. L’intervistatore ha chiesto ai soggetti di segnalare il loro stato mentale per valutare i modelli interni relativi alle relazioni precoci interiorizzate (George et al., 1985). La procedura si articola in tre fasi: 1) l’analisi delle esperienze, 2) l’analisi del SoM e 3) l’analisi di traumi o perdite irrisolte. In secondo luogo, l’analisi qualitativa del SoM valuta le caratteristiche procedurali della conversazione che possono essere collegate ai modelli interiorizzati da parte del soggetto (Civilotti et al., 2020). Tale analisi valuta nove componenti per valutare il SoM rispetto ai caregiver (ad esempio, idealizzazione e rabbia) o il SoM del soggetto in modo complessivo (ad esempio, processo metacognitivo e paura della perdita). È stata somministrata anche l’IOI, un’altra intervista semistrutturata composta da otto domande a risposta aperta, utili per incoraggiare i soggetti ad applicare le capacità di mentalizzazione al loro reato persecutorio più grave. Con questa intervista, i soggetti sono invitati a riflettere sui propri pensieri e su quelli degli altri, compresi quelli della vittima. L’IOI mira a far ragionare il soggetto sui propri comportamenti e su quelli altrui come atti basati su credenze, pensieri, sentimenti e desideri (Civilotti et al., 2020).

I risultati di questa ricerca mostrano come gli stalker attuano una serie di comportamenti invadenti motivati ossessivamente dalle credenze legate alla percezione del rifiuto, alla rappresentazione dell’Io come giusto, alla mancanza di controllo degli impulsi, all’ idealizzazione delle figure di attaccamento, all’ansia da separazione e ad una teoria personale soggettiva sullo stalking (Civilotti et al., 2020). Dato che le variabili sono tante e che nessuna strategia unica si è dimostrata efficace per trattare questo fenomeno, bisogna strutturare un trattamento ad hoc per ogni caso specifico (Sgarbi, 2015). Interrompere la sequenza del comportamento persecutorio è complesso. Di conseguenza è necessario rendere consapevoli gli stalker delle dinamiche affettive ed emotive sottostanti per cercare di preservare l’incolumità delle loro potenziali vittime (Civilotti et al., 2020).

 

Lutto complicato e lutto traumatico: diagnosi e interventi negli adulti e nei bambini – Video dal Webinar tenuto da Scuola Cognitiva Firenze

Il lutto è un evento naturale che segna uno spartiacque, un prima e un dopo che ognuno di noi deve affrontare nel corso della propria vita. Scuola Cognitiva di Firenze ha tenuto un webinar sull’argomento. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro.

 

In ogni cultura sono presenti rituali e modalità diverse di accompagnamento e sostegno alle persone colpite dal lutto.

In terapia possiamo aiutare i nostri pazienti a conoscere e affrontare le fasi del lutto, il senso adattativo di queste. Altresì è importante saper riconoscere e intervenire qualora essi si trovino invece a vivere un lutto complicato o traumatico.

Durante il webinar sono state spiegate le differenze nei vissuti e tra gli interventi terapeutici in base al tipo di lutto e all’età dei pazienti, siano questi adulti o bambini.

Il webinar è stato condotto dalla dott.ssa Annalisa Pericoli e dalla dott.ssa Alice Nardoni.

 

LUTTO COMPLICATO E LUTTO TRAUMATICO
Guarda il video integrale del webinar:

 

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Perché amiamo le canzoni tristi?

Diversi studi hanno cercato di spiegare il motivo per cui nei momenti di tristezza le persone sono portate ad ascoltare canzoni tristi.

 

“Sad songs say so much” (Le canzoni tristi dicono così tanto) cantava Elton John nel 1984 in uno di quelli che sono rimasti tra i suoi pezzi più amati.

Proseguiva dicendo più o meno che ci sono dei momenti in cui tutti avvertiamo il bisogno di condividere un dolore, quando un ricordo triste ci tormenta, e sentiamo la necessità di accendere la radio per farci raccontare da qualche vecchio cantante lo stesso dolore che stiamo provando noi.

Se è facile immaginare le motivazioni che spingono a provare piacere nell’ascolto di musica allegra, più difficile è spiegarsi perché si decide di ascoltare musica triste.

Se la musica allegra ha il potere di rallegrarci, si potrebbe pensare che quando siamo tristi dovremmo voler ascoltare canzoni felici, e invece questo non succede quasi mai. Perché? Vogliamo crogiolarci nella nostra infelicità?

Una ricerca dimostra la nostra preferenza per le canzoni tristi

In una ricerca condotta alcuni anni fa dallo psicologo E. Glenn Schellenberg e dal sociologo Christian von Scheve per conto dall’American Psychological Associaton, la più importante organizzazione professionale degli psicologi americani, sono state analizzate più di mille canzoni tra quelle di maggiore successo degli anni tra il Sessanta e il Duemila, facendo riferimento alla Top 40 pubblicata dalla rivista Billboard. La valutazione è stata fatta misurando il ritmo delle canzoni per battiti al minuto e la loro tonalità è stata determinata da musicisti. Dove si è verificato che in una canzone fosse presente sia il modo minore che maggiore la classificazione ha seguito il criterio della tonalità predominante.

Quello che è emerso è che i testi di queste canzoni sono diventati sempre più negativi e anche la musica ha acquisito un suono sempre più triste. Con il passare del tempo la durata delle canzoni è aumentata e le canzoni in tonalità minore, utilizzata per canzoni più tristi e introspettive, sono sensibilmente incrementate. Se nella seconda metà degli anni Sessanta le canzoni in tonalità minore erano solo il 15 per cento, nel Duemila erano quasi il 56 per cento. Anche il ritmo delle canzoni è rallentato, sono diminuite le canzoni che possiamo definire univocamente allegre e sono aumentate quelle che mescolano momenti di allegria e tristezza.

Il rallentamento di ritmo è risultato essere più marcato nelle canzoni in tonalità maggiore, cosa che indica “una generale diminuzione di canzoni univocamente allegre e un aumento di canzoni con stati emotivi variabili e che mescolano momenti di allegria a tristezza”.

La ricerca ha messo in evidenza che “i testi dei maggiori successi pop sono diventati sempre più negativi e concentrati sull’io ma che anche la musica ha acquistato un suono sempre più triste e con maggiori sfumature emotive”.

L’effetto di una canzone triste sul nostro umore

Gli psicologi e ricercatori Annemieke Van den Tol e Jane Edwards hanno condotto degli studi per cercare di spiegare il motivo per cui nei momenti in cui le persone si sentono tristi sono portate ad ascoltare musiche melanconiche. Ne è emerso che proprio l’insorgere di uno stato d’animo di infelicità fa nascere il desiderio di ascoltare questo tipo di canzoni.

La loro ricerca ha esaminato le motivazioni descritte dalle persone nel momento in cui decidono di ascoltare musica da loro definita triste in corrispondenza a momenti in cui sperimentano circostanze negative e stati d’animo di depressione e hanno scoperto che gli ascoltatori scelgono la musica triste fondamentalmente per quattro ragioni:

  • condivisione di uno stato d’animo;
  • messaggio contenuto nella canzone;
  • rievocazione di ricordi;
  • valore estetico.

Queste motivazioni sono riconducibili a due effetti che si basano su empatia e rassicurazione.

Effetto empatico

Contrariamente a quanto si può pensare, l’ascolto di una canzone triste non comporta l’aumento di un sentimento di tristezza in chi la ascolta. Al contrario, ascoltare una canzone triste può valere come supporto, l’effetto empatico che si crea con l’ascolto ci fa sentire capiti, ci dà la sensazione di poter condividere quello che ci fa soffrire con qualcuno che ha provato lo stesso dolore. Ci aiuta nel processo di accettazione fornendoci un sostegno. Questo accade frequentemente negli adolescenti, che trovano nelle canzoni che ascoltano un riparo al proprio umore.

Spesso scegliamo di ascoltare un determinato pezzo perché quella musica ci trasmette la stessa emozione che stiamo sperimentando o perché ci identifichiamo nel testo, lo associamo a persone o eventi che per noi sono reali. In generale possiamo dire che la musica esprime un messaggio nel quale ci identifichiamo. L’ascolto favorisce l’introspezione e ci offre una prospettiva alternativa ad un problema contingente. Permette di risperimentare quel sentimento negativo per affrontarlo in un modo nuovo, ci incita a reagire e a voltare pagina.

Effetto rassicurante

Un messaggio che arriva attraverso la musica risulta rassicurante, non aggressivo, e questo favorisce l’insorgere di un sentimento empatico. I brani malinconici non suscitano solo tristezza ma anche emozioni romantiche, quali la commozione, che contrastano un effetto deprimente stimolando il rilascio di ormoni del benessere, come ossitocina e prolattina, che producono un effetto simile al sollievo che si prova dopo aver pianto.

La tristezza che ci arriva dall’Arte, in tutte le sue forme, a differenza di quella che può insorgere nella vita quotidiana, non è avvertita come una reale minaccia e viene quindi vissuta in modo molto diverso.

Sembra inoltre che le persone che sperimentano uno stato d’animo di tristezza siano portate a prediligere l’ascolto di musica con un elevato valore estetico: questo troverebbe una spiegazione in una forma di distrazione e di rivalutazione cognitiva, ossia una strategia di regolazione emotiva che tenta di cambiare il significato attribuito all’evento che ci ha causato un determinato stato d’animo. Dopo un evento negativo, si cercherebbe quindi consapevolmente musica con alto valore estetico per migliorare il proprio umore.

Conclusioni

Da quanto abbiamo visto possiamo schematicamente affermare che se le canzoni allegre ci portano spensieratezza, quelle malinconiche ci invitano a riflettere.

Riflessione e introspezione sono passi fondamentali per riuscire a fronteggiare le difficoltà della vita, anche la lettura di un libro o la visione di un film drammatici ci fanno provare un sentimento di tristezza ma ci lasciano anche un insegnamento utile che ci dà la sensazione di avere uno strumento in più per fronteggiare la vita.

Va considerato anche che l’ascolto di musica triste può soddisfare un puro piacere psicologico dato dall’aver sperimentato tutte le emozioni possibili, anche le meno piacevoli. La tristezza, come l’allegria, fa parte della vita reale, impossibile scacciarla, rinnegarla o tentare di eliminarla. Sentirsi vivi significa anche saper fronteggiare tutte le emozioni che capiterà di incontrare.

 

Legame tra salute mentale e Covid-19: uno studio di conferma

Avvalorata la connessione tra stato ansioso nella popolazione generale e  COVID-19, quale principale effetto dell’attuale pandemia in corso.

 

Sembra sia una conferma, giunta ulteriormente all’attenzione del mondo scientifico e della comunità, l’insorgenza di effetti pandemici sulla salute mentale a causa del diffondersi del COVID-19, che la popolazione mondiale ha imparato a conoscere come patologia derivante dal virus appartenente alla famiglia dei coronavirus, di cui in realtà il SARS-COV-2 ne costituisce un nuovo ceppo non individuato in precedenza nell’uomo e caratterizzato principalmente da malattia respiratoria acuta grave, spesso letale. A dimostrazione di ciò, uno studio britannico di recente pubblicazione sulla nota rivista Lancet Psichiatry, precisamente nel giugno corrente anno, ha mostrato dati inerenti il rapporto tra salute mentale e COVID-19 di gran lunga simili al precedente studio italiano condotto dal gruppo di ricerca Brainfactor Research del maggio 2020.

Ultimamente il tema relativo alla pandemia da Covid-19 sta interessando la comunità scientifica, principalmente per conoscere le caratteristiche di tale minaccia, che ha inevitabilmente colpito il mondo intero e stravolto in modo invadente la nostra quotidianità, col fine di combatterla, annientare tale virus e ridurre il più possibile gli effetti di quella che somiglia ad una guerra silente, le cui vittime si contano oramai numerose. Nell’attesa dei vaccini e di cure più appropriate, di cui nel corso di questo anno si sta ascoltando molto tra opinioni disparate e informazioni spesso contrastanti, sembra evidente tra la popolazione mondiale la messa in atto di comportamenti che in alcuni casi appaiono poco ragionevoli o quantomeno poco aderenti a quelle che sono le norme e le restrizioni a cui faticosamente ci stiamo abituando. Forse ciò è frutto di una confusione ingenerata dal massiccio bombardamento mediatico, a scapito di una reale comprensione di quanto stia accadendo realmente intorno a noi. Importante infatti, è sottolineare il sempre più ravvisabile senso di incertezza, accompagnato da un forte disagio sociale e spesso personale, che assume in molti casi le forme di veri e propri quadri patologici scaturiti dalla difficoltà di gestire una quotidianità completamente nuova, che va in direzione di un altrettanto futuro incerto rispetto alla risoluzione di questa pandemia.

Per tale ragione, molti studiosi si concentrano anche sul rapporto tra salute mentale e la attuale pandemia e tra questi emerge il gruppo di ricercatori italiano della Brainfactor Research, che opera in modo indipendente e il cui scopo è ravvisabile nella promozione e diffusione di studi in ambito della sanità e delle neuroscienze nello specifico, sempre al servizio della comunità e che diffonde i risultati da essi derivati su propri canali mediatici e a mezzo stampa. Guidato dal suo direttore Marco Mozzoni, la Brainfactor Research ha condotto recentemente uno studio che, a detta dello stesso Mozzoni “ha fatto ricorso ad un modello innovativo, basato sulla semplificazione dei processi e l’utilizzo ampio delle nuove tecnologie”, e che ora possiamo affermare abbia in qualche modo anticipato tempi e numeri del problema indagato anche dal successivo studio britannico, che porta, quest’ultimo, le firme di centri di eccellenza e università come Cambridge, la University College London (UCL), il Greater Healt Service (NHS), insomma un vero orgoglio per i nostri studiosi italiani.

Ricordiamo a grandi linee che la ricerca italiana ha coinvolto circa 130 partecipanti in tutta Italia, sottoposti al Coronavirus Anxiety Scale (CAS), nella sua versione italiana a cura di Marco Mozzoni e Elena Franzot, ovvero un questionario online relativo alla salute mentale nelle ultime due settimane, messo a punto come primo test di screening dell’ansia associata al Coronavirus dal Dipartimento di Psicologia della Newport University in Usa. Come risultato fondamentale si deve riportare la presenza nel 22% della popolazione censita, di uno specifico disordine di natura ansiosa collegato alla pandemia, principalmente riguardante la fascia di età dei più giovani, che lo stesso Mozzoni, in qualità di clinico, riferisce essere la parte della popolazione che negli ultimi tempi si rivolge con maggior frequenza ed urgenza allo specialista per un consulto di natura psicologica. I giovanissimi in effetti, hanno ottenuto risultati che potremmo definire patologici alla somministrazione del test, mostrando una prevalenza del 39% con valori di picco rispetto ad esempio ad altre fasce di età. Nel test viene chiesto al soggetto sottoposto di attribuire un punteggio da 0 a 4, indicante la frequenza con cui nelle ultime due settimane egli abbia esperito vissuti così come descritti dal quesito. La conferma di questa tendenza a cui si è appena accennato, deriva da simili risultati di uno studio britannico pubblicato sulla nota rivista Lancet, nonostante debba considerarsi la differenza nella dimensionalità del campione oggetto delle due ricerche, i metodi di rilevazione e le popolazioni coinvolte (britannica e italiana). Così come lo studio della Brainfactor Research ha rilevato un interessamento preponderante nella popolazione giovanile italiana di disturbi ansiosi da pandemia, allo stesso modo lo studio su Lancet certifica una incidenza patologica nel 36,7% dei giovani al di sotto dei 24 anni. Altro dato rilevante, che avvicina i risultati emersi da entrambe le ricerche, è legato al rapporto inversamente proporzionale tra età e i livelli significativi dal punto di vista clinico dell’ansia, per cui avanzando con l’età gli effetti clinici pandemici diminuiscono.

Più nello specifico, lo studio britannico di Pierce pubblicato su Lancet, ha costituito una disamina dei cambiamenti relativi alla salute mentale nella popolazione britannica adulta, nel periodo precedente e durante la quarantena. Inoltre, esso rappresenta una seconda analisi di uno studio longitudinale nazionale, il cui metodo impiegato è detto Studio Longitudinale familiare o UKHLS (Household Longitudinal Study), che consiste cioè in una tipologia di studio di controllo continuativo che ha coinvolto più di 40000 famiglie, le quali avevano già iniziato la partecipazione nel 2009. Per cui dal 23 al 30 aprile 2020, i membri delle famiglie partecipanti alla precedente raccolta dati di età maggiore di 16 anni, inizialmente sottoposti ad intervista di persona, sono stati nuovamente invitati a completare il test COVID-19 questa volta nella versione online. Il test di screening impiegato è stato il General Health Questionnaire  (GHQ-12) che valuta il benessere generale e la qualità della vita degli individui. Dobbiamo precisare tuttavia, che tale strumento, nonostante correli fortemente a diagnosi cliniche di disturbi psichiatrici e sebbene sia stata applicata un’alta soglia di punteggio per l’analisi della prevalenza, non costituisce una valutazione clinica in senso stretto. Tale limite vorrà significare che, ad esempio, la notevole proporzione (44%, 95% CI 39.2-48.9)  di donne con età compresa tra i 16 e i 24 anni, che abbiano riportato punteggi significativi nell’aprile 2020, vada interpretata con molta attenzione e non vorrà automaticamente significare che quasi la metà delle donne giovani nella popolazione richieda un trattamento per una malattia mentale. L’aspetto prettamente tecnico del suddetto metodo impiegato, generalmente ha previsto ripetute analisi trasversali per esaminare la tendenza nel tempo, inoltre sono stati definiti dei modelli di ‘regressione ad effetto fisso’ per identificare il cambiamento nella persona, comparato con i precedenti andamenti. La dimensione del campione coinvolto è stata di circa 17542 soggetti (di cui 10165 donne e 7287 uomini) suddivisi per diverse fasce di età (16-24, 25-34, 35-44, 45-54, 55-69 e  >_ 70), secondo le diverse etnie rilevate nella popolazione e per paese o regione dell’UK. Da ciò è emerso che verso la fine del mese di Aprile, la salute mentale nell’UK è stata deteriorata come si evince dalla comparazione con l’andamento del periodo precedente al Covid e in particolare si è rilevato un incremento dei punteggi al test GHQ-12 nelle fasce di età 18-24 anni. Tale studio inoltre, ha identificato gruppi nella popolazione che avevano una più alta prevalenza di stress psicologico prima della pandemia (donne, persone più giovani e bambini in età prescolare) per i quali si è registrato successivamente un maggior incremento dello stress mentale in seguito agli effetti da lockdown, a supporto ciò dei risultati di precedenti segnalazioni sull’alta prevalenza di comuni disordini mentali e autolesionismo nelle adolescenti e nelle donne nella fascia di età 16-24.

La riflessione che ne deriva si orienta sicuramente sulla necessità di ottenere un maggiore coinvolgimento delle politiche che enfatizzano i bisogni delle persone, delle donne, dei giovani e dei bambini in età prescolare, in quanto esse potranno giocare un ruolo fondamentale nella prevenzione futura affinché si preservi la salute mentale della comunità, dal momento che il Covid, come si accennava in precedenza, ha profondamente interferito con ogni aspetto della vita di tutti i giorni. Gli effetti delle restrizioni adottate, infatti, includono non solo difficoltà economiche determinate da entrate più basse, ma anche amplificazioni di dinamiche familiari preesistenti quali ad esempio violenza domestica, per chi già viveva tale situazione drammatica; cambiamenti di rotta nell’educazione dei figli, il maggior tempo disponibile da organizzare, lo smart working e le difficoltà di molti genitori nel coniugare le nuove modalità di lavoro con una didattica dei propri figli divenuta perlopiù a distanza e con tipologie di mezzi mai utilizzati prima, richiedente, soprattutto per i più piccoli, un maggior coinvolgimento da parte dell’adulto; la paura di contrarre l’infezione, l’isolamento e la riduzione dei contatti sociali, sono tutti fattori che hanno influito in modo decisivo la vita degli individui durante il lockdown.

 

Psicoanalisi online (2020) di Giuseppe Craparo – Recensione del libro

È possibile continuare a chiamare psicoanalisi un trattamento svolto online da un analista? Quali sono i limiti e i punti di forza di un lavoro del genere? Quali sono le peculiarità di un setting online? Si può sviluppare un transfert in una terapia tecnomediata? E’ possibile trattare online tutti i disturbi?

 

Non si tratta quindi di capire quale delle due sia superiore all’altra ma di conoscere le peculiarità di interventi che si svolgono in setting differenti, fisico l’uno, virtuale l’altro. Insomma la psiconalisi online non andrebbe intesa come una semplice simulazione di quella tradizionale. (p. 54)

Quello di Giuseppe Craparo non è semplicemente un testo di psicologia o di psicoterapia ma è un testo psicoanalitico. Un saggio che descrive una modalità, quella online, attraverso una tecnica esplicitamente orientata, quella psicoanalitica.

L’ultimo anno è stato, e continua ad essere, particolarmente burrascoso per tutti coloro che si occupano del benessere psichico delle persone.

Le continue restrizioni governative unite all’incertezza degli spostamenti, l’impossibilità di dividere lo spazio fisico con un altro in serenità ed il rischio di interrompere bruscamente percorsi clinici già avviati o appena iniziati hanno contribuito ad acuire i sensi di colpa, le ansie, le paure e le angosce dei pazienti ed hanno, probabilmente, indotto psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, psicanalisti a pensare, esplicitamente o implicitamente, “Meglio la terapia online che nulla”, con il rischio di proporre l’intervento online come se fosse una replica di quello offline, trascurando così le specificità e peculiarità della prima.

Nel cercare di delineare tali specificità, Craparo ci avvisa però che non fornirà formule definitive, ma porrà al lettore delle riflessioni a partire dalle seguenti domande: “È possibile continuare a chiamare psicoanalisi un trattamento svolto online da un analista?”, “Quali sono i limiti e i punti di forza di un lavoro del genere?”, “Quali sono le peculiarità di un setting online e le sue differenze da un setting offline?”, “Si può sviluppare un transfert in una terapia tecnomediata?”, “E’ possibile trattare online tutti i disturbi?”

Prima di rispondere a tali quesiti, Giuseppe Craparo ci ricorda che la pratica psicoanalitica è una pratica dell’in-certezza (Craparo, 2015, p. 15). Interessante è la lettura del primo capitolo, in cui l’autore delinea le differenze, soprattutto tecniche, fra psicoanalisi e psicoterapie psicoanalitiche. Nel fare ciò, egli non si limita a proporre una sua linea di pensiero su cosa sia o non sia una psicoanalisi, ma articola un discorso in cui fa dialogare, creando uno spazio terzo, diversi autori (Freud, Lacan, Bollas, De Masi, Ogden, Safran, Gill, Gabbard). Ne emerge una visione che non fa della tecnica psicoanalitica una asettica lista di semplici regole da seguire come la frequenza delle sedute, l’obiettivo terapeutico, l’estensione temporale del trattamento, il setting ecc, bensì una modalità peculiare di entrare e stare nella relazione analitica.

Nel secondo capitolo, Craparo si interroga sull’online e sulla realtà virtuale. L’autore ci dice innanzitutto che l’online è presente nelle nostre vite come qualcosa di tangibile, che può facilitare un singolo individuo o un gruppo sociale a ricercare informazioni, mettersi in comunicazione, vedere luoghi mai visti prima, ma che può anche amplificare fenomeni narcisistici e dissociativi.

In questa sua riflessione trovano spazio autori come Byung-Chul Han (2013), Marc Augè (2018) e Piére Levy (1995), per i quali il virtuale non si oppone al reale ma all’attuale.

Nel terzo capitolo del testo è sicuramente presente la parte più intrigante e originale delle riflessioni proposte da Craparo: se nei primi due capitoli, egli riflette su cosa sia psicoanalisi e cosa l’online, nel terzo i due discorsi si articolano attorno alla parola “Corpo”. Per Craparo, è vero che il corpo è assente nella relazione terapeutica, ma per il semplice fatto che analista e paziente non sono fisicamente presenti all’interno di uno stesso spazio condiviso. Nonostante ciò, analista e paziente sono presenti in una relazione incarnata. Gli spunti di riflessione, in questa parte del testo, si susseguono incessantemente, in un ritmo sempre più incalzante fatto di articolazioni teoriche supportate da casi clinici. Tali spunti lo portano a sottolineare che la “parola è incarnata” (p. 77) ed ancora che nella

terapia online è possibile fare esperienza del corpo dell’altro mediante le due stimolazioni sensoriali legate alla voce e allo sguardo.

Interessanti sono, sempre nel terzo capitolo, le pagine sull’alleanza terapeutica, sui fenomeni transferali-controtransferali e di enactment e reenactment.

L’ultimo capitolo, dedicato alla ricerca e ad “alcuni suggerimenti pratici” per svolgere un trattamento online ci guida verso la conclusione di un percorso che ci induce a cogliere i punti di forza e di debolezza della pratica clinica online.

In conclusione, possiamo sostenere che Psicoanalisi online è un testo originale, che vale la pena leggere e studiare.

 

La DBT come risposta al trattamento della comorbilità tra disturbi alimentari e disturbi da uso di sostanze

Nella DBT viene effettuata una psicoeducazione e i pazienti vengono incoraggiati ad accettare ed imparare a tollerare le loro esperienze emotive, apprendendo, al contempo, anche metodi alternativi per gestirle. Quale effetti potrebbe avere questo trattamento nei pazienti con disturbi alimentari in comorbilità con disturbi da uso di sostanze?

 

I disturbi da uso di sostanze (SUD) e i disturbi alimentari (ED) si presentano spesso in comorbilità (CASA, 2003). Infatti, una recente meta-analisi ha indicato che tra i pazienti con ED, il tasso di prevalenza, nel corso della vita, di comorbilità con un disturbo da uso di sostanze era del 21,9%. Tra le sostanze di cui si abusa più abitualmente vi sono tabacco, caffeina e alcol (Bahji et al., 2019) o, ancora, cannabis, stimolanti, lassativi e diuretici (Fouladi et al., 2015). Secondo la letteratura, i pazienti che presentano ED e SUD in comorbilità mostrano risposte peggiori al trattamento, tassi di ricaduta più elevati e un rischio più alto di mortalità precoce (Lindblad et al., 2016).

Differenti studi hanno indagato se i disturbi da uso di sostanze co-occorrano più frequentemente con l’anoressia nervosa di tipo restrittivo (AN-R), con quella di tipo binge-purge (AN-BP) o nella bulimia nervosa (BN). Teoricamente, si ritiene che i comportamenti binge-purge siano più strettamente legati all’abuso di sostanze, in quanto vi sono prove di una maggiore associazione tra questi comportamenti, l’impulsività e le difficoltà nella regolazione delle emozioni (Lavender et al., 2015). Un ampio studio ha scoperto che erano i pazienti BN e AN-BP a fare un maggior uso di sostanze, rispetto ai partecipanti AN-R (Krug et al., 2009).

Inoltre, la sensibilità alla ricompensa, l’impulsività, la difficoltà nella regolazione delle emozioni risultano essere fattori di rischio e di mantenimento comuni sia per i disturbi alimentari che per i disturbi da uso di sostanze. Difatti, questi soggetti si impegnano in certi tipi di comportamenti utilizzandoli come strategie di coping per alleviare i sentimenti negativi (Anestis et al., 2009). Alcuni ricercatori, hanno scoperto che l’urgenza negativa, ovvero la tendenza ad agire in modo avventato quando si è in difficoltà, era significativamente associata all’uso problematico di alcol e ad un’alimentazione disordinata (Dir et al., 2013).

La letteratura evidenzia la natura complessa generata dalla comorbilità tra questi due disturbi, motivo per cui, all’oggi, è cresciuto l’interesse verso trattamenti integrati, dal momento che, coloro i quali non ricevono un trattamento di questo tipo, riportano risultati peggiori (Drake et al., 2001). Tuttavia, la letteratura presenta ancora delle lacune da questo punto di vista.

Un intervento potenzialmente promettente è la Dialectical Behavior Therapy (DBT), un trattamento basato su un modello di regolazione delle emozioni (Neacsiu et al., 2014). Nella DBT, viene effettuata una psicoeducazione e i pazienti vengono incoraggiati ad accettare ed imparare a tollerare le loro esperienze emotive, apprendendo, al contempo, anche metodi alternativi per gestirle. Solo uno studio ha investigato l’applicazione della DBT per la co-occorrenza di questi due disturbi, mostrando come essa sia associata ad una diminuzione della gravità e della frequenza nell’uso di sostanze e ad un aumento dei livelli di fiducia nella capacità di resistere alle tentazioni (Courbasson et al., 2012). Data la limitata ricerca sulla DBT per l’ED-SUD, una migliore comprensione dei fattori associati alla comorbilità di queste due patologie rispetto ai soli disturbi alimentari o a quelli da uso di sostanze, potrebbe essere utile per identificare i potenziali obiettivi di trattamento.

Lo studio di Claudat e colleghi (2020) ha avuto il proposito di colmare le lacune presenti in letteratura. Basandosi sui risultati precedenti, gli autori hanno ipotizzato che questa sottocategoria di soggetti, avrebbe avuto una maggior probabilità di mettere in atto abbuffate/uso di lassativi, di essere bulimici, di avere tassi più elevati di comorbilità psichiatriche, autolesionismo e tendenze suicide, difficoltà nella regolazione delle emozioni ed una maggiore sensibilità alla ricompensa.

Allo studio hanno partecipato 98 pazienti che avevano preso parte ad un parziale programma ospedaliero per disturbi alimentari. Al fine di effettuare la diagnosi per ED e la presenza di comorbidità, sono state utilizzate la Mini Neuropsychiatric Interview (MINI; Sheehan et al., 1998) e la Structured Clinical Interview for DSM-5 Disorder (SCID-5; First et al., 2015). 36 pazienti hanno ricevuto una diagnosi per disturbo da uso di sostanze.

I sintomi correlati al disturbo alimentare sono stati valutati attraverso l’Eating Disorder Examination-Questionnaire (EDE-Q; Fairburn & Beglin, 1994), mentre, l’ansia di tratto è stata misurata attraverso la State-Trait Anxiety Inventory-Trait Subscale (STAI-T; Spielberger et al., 1970). Il Beck Depression Inventory (BDI-II; Beck et al., 1996) è stato utilizzato per determinare la presenza dei sintomi depressivi e, mediante la Difficulties in Emotions Regulation Scale (DERS; Gratz & Roemer, 2004) è stata stimata la difficoltà nella regolazione delle emozioni. Ulteriormente, al fine di valutare rispettivamente la sensibilità alla punizione/ricompensa e l’eventuale presenza di sintomi correlati al disturbo borderline di personalità, sono stati utilizzati il Sensitivity to Punishment and Sensitivity to Reward Questionnaire (SPSRQ; Torrubia et al., 2001) e il Borderline Evaluation of Severity over Time (BEST; Pfohl et al., 2009).

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato che rispetto ai pazienti con Disturbi Alimentari, i pazienti ED-SUD hanno riportato un maggior numero di diagnosi psichiatriche in comorbilità, una maggiore impulsività, un accesso più limitato alle strategie di regolazione emotiva e una maggiore sensibilità alla ricompensa. Inoltre, essi avevano più probabilità di impegnarsi in episodi di abbuffate e i pazienti con sindromi bulimiche non avevano una probabilità significativamente maggiore di avere un disturbo da uso di sostanze.

Nel complesso i risultati ottenuti supportano la necessità di utilizzare un trattamento integrato e forniscono un fondamento per l’utilizzo della DBT. Questo approccio tratta i comportamenti, secondo una specifica gerarchia, intervenendo in primo luogo sui sintomi più gravi, come la disregolazione emotiva. Inoltre, le diverse abilità insegnate nella DBT, come le strategie di gestione delle contingenze, potrebbero ridurre la sensibilità alla ricompensa che determina l’uso di sostanze e la messa in atto di comportamenti tipici dei ED. Concludendo, lo studio preso in esame ha mostrato le differenze significative esistenti tra ED e ED-SUD. Tali specificità potrebbero guidare nell’elaborare interventi personalizzati e forniscono ulteriori prove della necessità di un trattamento integrato per affrontare in modo completo i problemi presentati.

 

Il disputing della bassa tolleranza alla frustrazione – Il terzo episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema del terzo incontro è stato il disputing della bassa tolleranza alla frustrazione, discusso dal Dott. Diego Sarracino.

 

IL DISPUTING DELLA BASSA TOLLERANZA ALLA FRUSTRAZIONE

Isolamento sociale durante il lockdown da covid-19: correlazioni tra sintomatologia depressiva e uso problematico dei Social Network

Lo studio presentato esplora le correlazioni fra l’isolamento sociale derivante dall’emergenza covid-19 durante il periodo del lockdown, e l’uso problematico dei Social network e la presenza della sintomatologia depressiva.

 

L’isolamento sociale che durante la pandemia da covid-19, e in special modo nel periodo del lockdown, è stato sperimentato da gran parte della popolazione nazionale, può essere definito come assenza di contatti sociali e di relazioni personali derivante dalla bassa frequenza di contatto sociale con amici, parenti e vicini; assenza di una rete di discussione con la quale comunicare questioni personali ed importanti e assenza di supporto sociale, ovvero di persone alle quali chiedere aiuto in caso di necessità (Eckhard, 2018). L’isolamento sociale è determinato dalla combinazione di componenti oggettive e soggettive, fra cui il numero dei contatti interpersonali, il senso di appartenenza e la qualità della rete sociale (Nicholson; 2009). L’isolamento sociale oggettivo rappresenta l’aspetto tangibile della separazione fisica o assenza di interazione con altre persone misurata attraverso la frequenza delle interazioni e dalle dimensioni della propria rete sociale. L’isolamento sociale soggettivo è definito come la percezione dell’individuo sulla qualità dei rapporti con i membri della sua rete ed include i costrutti di solitudine, percezione di supporto sociale, vicinanza soggettiva con amici e familiari (Taylor et al; 2018). L’isolamento sociale e la mancanza di supporto sociale sono correlati a tassi più alti di depressione; mentre avere il supporto del coniuge, degli amici e un buon vicinato è collegato a minor numero di sintomi depressivi (Herbolsheimer, 2018).

La solitudine è associata negativamente al benessere emotivo dei soggetti ed è fattore di rischio per i sintomi depressivi (Nilsen et al, 2018); mentre le reti sociali più ampie e il supporto emotivo ricevuto e fornito sono protettivi contro i sintomi depressivi (Harasemiw et al, 2018). Le nuove tecnologie possono offrire un sostegno sociale ai soggetti che si trovano isolati nelle proprie case, l’uso di esse può migliorare il sostegno sociale, la solitudine, la rete sociale e fattori correlati come depressione, stress, autostima e qualità della vita (Morris et al; 2014); mentre un uso problematico delle nuove tecnologie è caratterizzato da cognizioni e comportamenti disadattivi che si traducono in esiti negativi sul benessere del soggetto (Caplan, 2002). L’attività online può essere utilizzata per sfuggire alle difficoltà della vita reale (Ryan, Chester, Reece & Xenos, 2014), pertanto, sembra ragionevole suggerire che i soggetti con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità di utilizzare Internet per alleviare la sintomatologia, per tale ragione si ipotizza una relazione bidirezionale tra dipendenza da internet e disturbi depressivi (Chih-Hung et al.,2008).

La percezione della solitudine e la presenza di sintomi depressivi sono associati alla preferenza per l’interazione sociale online, connessa all’uso problematico dei Social Network Sites (SNS) e conseguenti esiti negativi (Caplan, 2002).La depressione può indurre i soggetti ad interagire in modo più negativo sui SNS con gli altri, a sentirsi maggiormente negativi dopo tali interazioni, ovvero la depressione potrebbe indurre le persone a sentirsi meno supportate e più negative sui Social Network Sites (Yoon, Kleinman, Mertz & Brannick, 2019).

Scopo principale del presente studio era esplorare le correlazioni fra l’isolamento sociale derivante dall’emergenza covid-19 durante il periodo del lockdown valutato attraverso la percezione del supporto sociale ricevuto e il senso di solitudine con l’uso problematico dei Social network e la presenza della sintomatologia depressiva.

Il campione è composto da 180 soggetti (M=50, F=129) di età compresa fra i 18 e i 77 anni (M=28.46, SD=10.61) di cui 105 (59.7%) si trovano attualmente nel nord Italia, 65 (36.9%) al centro e 6 al sud (3.4%). La maggior parte dei soggetti vive attualmente con i familiari (93.9%) e dichiara di non incontrare altre persone dal vivo (68.2%). Il 73.3% non sta lavorando e i restanti svolgono l’attività lavorativa direttamente sul luogo di lavoro o in modalità smart working. I Social network maggiormente utilizzati sono Facebook (48.9%) e Instagram (46.1%). Attraverso la piattaforma online di Facebook e altri canali di diffusione e comunicazione i soggetti hanno compilato i questionari fra cui domande costruite ad hoc che indagano lo stato di convivenza (vivi in famiglia, vivi da solo, altro); presenza di contatti sociali con familiari/amici al di fuori del nucleo di convivenza (si, no, qualche volta); stato occupazionale (lavoro fuori casa, lavoro in smart working, non lavoro sono a casa) e il Social Network utilizzato maggiormente (facebook ,instagram, non uso i social network, altro).

Gli strumenti somministrati sono la Lubben Social Network Scale (Lubben et al; 2006), una scala composta da 6 items che valuta l’ampiezza della rete sociale e la percezione del supporto sociale per lo screening dell’isolamento sociale, con due sottoscale che indagano i legami familiari (LSNS-FAMILY) e quelli amicali (LSNS-FRIENDSHIPS); il BDI: Beck Depression Inventory (Beck et al; 1961), scala composta da 21 items che indagano le manifestazioni della depressione e che consiste in una serie di 4 affermazioni che sono organizzate in base alla gravità del sintomi; infine il GPIUS-2: Generalized Problematic Internet Use Scale, (Caplan; 2002) formato da 15 items per la valutazione dell’uso problematico dei Social network, su una scala Likert a 5 punti da “completamente in disaccordo” a “completamente in accordo”. Le sottoscale sono: Preferenza per l’interazione sociale online (GPIUS-POSI); utilizzo di internet per la regolazione degli stati affettivi negativi (GPIUS-MOOD-REGULATION); Modello di pensiero ossessivo che coinvolge l’uso di internet (GPIUS-COGNITIVE-PREOCCUPATION); Utilizzo compulsivo (GPIUS-COMPULSIVE-USE); Insufficiente auto regolazione (GPIUS-SELF-REGULATION), Esiti negativi legati all’utilizzo di internet (GPIUS-NEGATIVE-OUTCOMES).

Le relazioni fra le variabili oggetto di studio sono state condotte attraverso il coefficiente r di Pearson. Sono state condotte delle analisi di correlazione per indagare possibili correlazioni fra la percezione dell’isolamento sociale valutato attraverso la scala LSNS-6 che indaga il supporto sociale percepito e le variabili di utilizzo problematico dei Sns attraverso la scala GPIUS-2 e la probabile presenza della sintomatologia depressiva valutata con la scala BDI.

Dai risultati del presente studio emerge una correlazione significativa negativa fra la probabile presenza di sintomi depressivi valutati attraverso la scala BDI e la percezione del supporto sociale valutato attraverso la scala LSNS-6 (r=-0.32/p<.01) e la sottoscala LSNS Family (r=-0.35/p<.01). Emerge una correlazione positiva fra l’utilizzo problematico dei Social Network Sites valutato attraverso la scala GPIUS-2 e la probabile presenza di sintomi depressivi (r=0.25/p<.01); come risulta anche dalla sottoscala GPIUS DEFICIENT SELF REGULATION (r=0.20/p<.01); GPIUS NEGATIVE OUTCOMES (r=0.20/p<.01) e GPIUS COMPULSIVE USE (r=0.25/p<.01). La preferenza per l’interazione sociale online, valutata attraverso la sottoscala GPIUS POSI è correlata negativamente con il supporto sociale percepito valutato attraverso la scala LSNS-6(r=-0.22/p<.01) e la sottoscala LSNS Friendship (r=-0.20/p<.01). Inoltre la sottoscala GPIUS NEGATIVE OUTCOMES correla negativamente con la percezione del supporto sociale valutato attraverso la scala LSNS-6( r=-0.20/p<.01) e la sottoscala LSNS Family (r=-0.23/p<.01).

L’obiettivo principale dello studio era indagare, in un campione eterogeneo proveniente da tutto il territorio nazionale, l’esistenza di una relazione fra l’isolamento sociale derivante dall’emergenza covid-19 valutato attraverso le sottodimensioni della percezione di supporto sociale e senso di solitudine, con le variabili di utilizzo problematico dei Social network e sintomatologia depressiva.

I risultati del presente studio confermano i dati presenti in letteratura circa la relazione che intercorre fra la sintomatologia depressiva, l’uso massivo dei social network e la percezione del supporto sociale.

La letteratura mostra una significativa relazione fra la percezione dell’isolamento sociale soggettivo e il benessere psicologico; in special modo l’incremento della sintomatologia depressiva (Nicholas & Nicholson, 2012). Sentirsi supportati nelle relazioni sociali funge da fattore protettivo contro la sintomatologia depressiva (Santini et al; 2015), mentre il senso di solitudine si configura come fattore di rischio (Nilsen et al, 2018). I risultati sono in linea con la letteratura circa l’utilizzo problematico dei Social network che è legato bidirezionalmente alla sintomatologia depressiva, in special modo quando quest’ultimi vengono utilizzati come strategia maladattiva di regolazione dell’umore (Chih-Hung et al., 2008) e mostra una relazione positiva con la mancanza di supporto sociale e la percezione della solitudine (Caplan,2002).

I limiti relativi allo studio riguardano gli strumenti utilizzati che sono inclini ai self-report bias di desiderabilità sociale; un altro limite è rappresentato dalla numerosità campionaria che non può intendersi rappresentativa di tutta la popolazione e dalla rappresentanza maggioritaria del genere femminile (M=50, F=129) e della fascia di età (M=28.46, SD=10.61) rispetto a quella stabilita nei criteri di inclusione.

Nel complesso questo studio evidenzia le correlazioni che intercorrono fra la percezione dell’isolamento sociale e le variabili di utilizzo problematico del Social network, supporto sociale percepito e sintomatologia depressiva. Il presente studio pone l’attenzione ad alcune variabili correlate all’isolamento sociale indagate durante il periodo di lockdown derivante dall’emergenza covid-19. Dall’analisi dei risultati si potrebbe ipotizzare di strutturare interventi di prevenzione circa l’uso problematico dei Social network affinché quest’ultimi possano essere utilizzati in modo non problematico, ma al contrario possano incrementare la percezione di supporto sociale (Morris et al; 2014). A fronte dei risultati rilevati dal presente studio emerge la necessità di indagare ulteriormente altre variabili psicosociali che possono influenzare la percezione dell’isolamento sociale e i possibili esiti negativi ad essa correlati.

 

“Feels like home”: non dove, ma chi – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo interpreta il brano Feels like home di Chantal Kreviazuk, prendendo in considerazione temi relativi al legame di coppia quali il bisogno di tenerezza, di sicurezza e di essere accettati per quello che si è, in altre parole cosa rende una relazione “casa”.

Psico-canzoni – (Nr.7) Feels like home

 

Per secoli l’essere umano ha provato a dare una definizione d’amore, attraverso poesie, racconti, aforismi e canzoni. Nell’ambito di queste ultime troviamo la cantante Chantal Kreviazuk secondo cui l’amore è potersi sentire a casa ovvero feels like home.

È molto difficile poter raccontare in modo universale l’amore, poiché ognuno lo vive a modo proprio, dipendentemente dai bisogni che nutre. Per alcuni è legato maggiormente alla sessualità, per altri all’aspetto emotivo, per altri ancora a caratteristiche intellettuali. Eppure in ogni relazione vi è una caratteristica comune: sono presenti in modo più o meno preponderante tutti e tre gli aspetti.

Per quanto ogni componente sia importante a modo proprio, una spicca tra le altre e detiene il potere rispetto alla stabilità della relazione: il lato emotivo. All’altezza dello stomaco vi è la sede simbolica delle emozioni che è anche il punto a metà strada dove è possibile l’incontro dei tre aspetti. Tanto la sessualità quanto l’amore intellettuale non solo passano per le emozioni, ma da esse dipende il loro più completo sviluppo ed appagamento.

Chantal Kreviazuk e il film Come farsi lasciare in dieci giorni si donano a vicenda una completezza di significato. Feels like home fa parte della colonna sonora del celebre film di Daniel Petrie con Matthew McConaughey e Kate Hudson ed è inserita nel momento in cui i due protagonisti si stanno innamorando, nonostante le previsioni di entrambi. Quella che da alcuni è stata chiamata “scintilla”, viene ridefinita “casa” dalla Kreviazuk e da Petrie.

Something in your voice makes me wanna loose myself in your arms

è un modo completo per spiegare in che modo una relazione può divenire “casa”, ovvero il posto in cui si può essere se stessi, in cui non ci si sente giudicati, in cui si può stare tranquillamente in pigiama, in cui infine si possono abbassare così tanto le difese da potersi appoggiare e perfino addormentare.

“Casa”, ovvero “home”, nell’immaginario collettivo può essere associata ad un posto fisico, ma in questo caso sembra piuttosto essere un luogo dentro se stessi che, se sufficientemente pronti per abbandonare il porto sicuro, si può incontrare nella relazione amorosa con l’altro. Ci si può sentire a casa quando si permette alla tenerezza di entrare dalla porta. Tutti gli esseri umani hanno bisogno di tenerezza e dolcezza, ma a volte la paura di poterla conoscere e di rischiare conseguentemente di perderla, finendo faccia a faccia con l’angoscia del vuoto, può essere paralizzante.

Hope this feeling lasts for the rest of my life

è la speranza di chi si avvicina alla tenerezza lasciandosi trasportare. La propria parte bambina può essere riconosciuta, coccolata, nutrita e sentirsi protetta anche quando arrivano momenti più spaventosi, come

a window breaks down a long dark street and a siren wails in the night, but I’m alright ‘cause I have you here with me and I can almost see through the dark there is light. 

Feels like I’m all the way back where I belong

è il racconto di una fiducia ritrovata nel legame col partner, non più congelata nella staticità un luogo, ma sempre in evoluzione nel tempo, come la storia che ci appartiene ed a cui apparteniamo. Dunque non dove, ma chi è “casa”?

 

FEELS LIKE HOME – Ascolta il brano:

 

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