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Isolamento sociale durante il lockdown da covid-19: correlazioni tra sintomatologia depressiva e uso problematico dei Social Network

Lo studio presentato esplora le correlazioni fra l’isolamento sociale derivante dall’emergenza covid-19 durante il periodo del lockdown, e l’uso problematico dei Social network e la presenza della sintomatologia depressiva.

 

L’isolamento sociale che durante la pandemia da covid-19, e in special modo nel periodo del lockdown, è stato sperimentato da gran parte della popolazione nazionale, può essere definito come assenza di contatti sociali e di relazioni personali derivante dalla bassa frequenza di contatto sociale con amici, parenti e vicini; assenza di una rete di discussione con la quale comunicare questioni personali ed importanti e assenza di supporto sociale, ovvero di persone alle quali chiedere aiuto in caso di necessità (Eckhard, 2018). L’isolamento sociale è determinato dalla combinazione di componenti oggettive e soggettive, fra cui il numero dei contatti interpersonali, il senso di appartenenza e la qualità della rete sociale (Nicholson; 2009). L’isolamento sociale oggettivo rappresenta l’aspetto tangibile della separazione fisica o assenza di interazione con altre persone misurata attraverso la frequenza delle interazioni e dalle dimensioni della propria rete sociale. L’isolamento sociale soggettivo è definito come la percezione dell’individuo sulla qualità dei rapporti con i membri della sua rete ed include i costrutti di solitudine, percezione di supporto sociale, vicinanza soggettiva con amici e familiari (Taylor et al; 2018). L’isolamento sociale e la mancanza di supporto sociale sono correlati a tassi più alti di depressione; mentre avere il supporto del coniuge, degli amici e un buon vicinato è collegato a minor numero di sintomi depressivi (Herbolsheimer, 2018).

La solitudine è associata negativamente al benessere emotivo dei soggetti ed è fattore di rischio per i sintomi depressivi (Nilsen et al, 2018); mentre le reti sociali più ampie e il supporto emotivo ricevuto e fornito sono protettivi contro i sintomi depressivi (Harasemiw et al, 2018). Le nuove tecnologie possono offrire un sostegno sociale ai soggetti che si trovano isolati nelle proprie case, l’uso di esse può migliorare il sostegno sociale, la solitudine, la rete sociale e fattori correlati come depressione, stress, autostima e qualità della vita (Morris et al; 2014); mentre un uso problematico delle nuove tecnologie è caratterizzato da cognizioni e comportamenti disadattivi che si traducono in esiti negativi sul benessere del soggetto (Caplan, 2002). L’attività online può essere utilizzata per sfuggire alle difficoltà della vita reale (Ryan, Chester, Reece & Xenos, 2014), pertanto, sembra ragionevole suggerire che i soggetti con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità di utilizzare Internet per alleviare la sintomatologia, per tale ragione si ipotizza una relazione bidirezionale tra dipendenza da internet e disturbi depressivi (Chih-Hung et al.,2008).

La percezione della solitudine e la presenza di sintomi depressivi sono associati alla preferenza per l’interazione sociale online, connessa all’uso problematico dei Social Network Sites (SNS) e conseguenti esiti negativi (Caplan, 2002).La depressione può indurre i soggetti ad interagire in modo più negativo sui SNS con gli altri, a sentirsi maggiormente negativi dopo tali interazioni, ovvero la depressione potrebbe indurre le persone a sentirsi meno supportate e più negative sui Social Network Sites (Yoon, Kleinman, Mertz & Brannick, 2019).

Scopo principale del presente studio era esplorare le correlazioni fra l’isolamento sociale derivante dall’emergenza covid-19 durante il periodo del lockdown valutato attraverso la percezione del supporto sociale ricevuto e il senso di solitudine con l’uso problematico dei Social network e la presenza della sintomatologia depressiva.

Il campione è composto da 180 soggetti (M=50, F=129) di età compresa fra i 18 e i 77 anni (M=28.46, SD=10.61) di cui 105 (59.7%) si trovano attualmente nel nord Italia, 65 (36.9%) al centro e 6 al sud (3.4%). La maggior parte dei soggetti vive attualmente con i familiari (93.9%) e dichiara di non incontrare altre persone dal vivo (68.2%). Il 73.3% non sta lavorando e i restanti svolgono l’attività lavorativa direttamente sul luogo di lavoro o in modalità smart working. I Social network maggiormente utilizzati sono Facebook (48.9%) e Instagram (46.1%). Attraverso la piattaforma online di Facebook e altri canali di diffusione e comunicazione i soggetti hanno compilato i questionari fra cui domande costruite ad hoc che indagano lo stato di convivenza (vivi in famiglia, vivi da solo, altro); presenza di contatti sociali con familiari/amici al di fuori del nucleo di convivenza (si, no, qualche volta); stato occupazionale (lavoro fuori casa, lavoro in smart working, non lavoro sono a casa) e il Social Network utilizzato maggiormente (facebook ,instagram, non uso i social network, altro).

Gli strumenti somministrati sono la Lubben Social Network Scale (Lubben et al; 2006), una scala composta da 6 items che valuta l’ampiezza della rete sociale e la percezione del supporto sociale per lo screening dell’isolamento sociale, con due sottoscale che indagano i legami familiari (LSNS-FAMILY) e quelli amicali (LSNS-FRIENDSHIPS); il BDI: Beck Depression Inventory (Beck et al; 1961), scala composta da 21 items che indagano le manifestazioni della depressione e che consiste in una serie di 4 affermazioni che sono organizzate in base alla gravità del sintomi; infine il GPIUS-2: Generalized Problematic Internet Use Scale, (Caplan; 2002) formato da 15 items per la valutazione dell’uso problematico dei Social network, su una scala Likert a 5 punti da “completamente in disaccordo” a “completamente in accordo”. Le sottoscale sono: Preferenza per l’interazione sociale online (GPIUS-POSI); utilizzo di internet per la regolazione degli stati affettivi negativi (GPIUS-MOOD-REGULATION); Modello di pensiero ossessivo che coinvolge l’uso di internet (GPIUS-COGNITIVE-PREOCCUPATION); Utilizzo compulsivo (GPIUS-COMPULSIVE-USE); Insufficiente auto regolazione (GPIUS-SELF-REGULATION), Esiti negativi legati all’utilizzo di internet (GPIUS-NEGATIVE-OUTCOMES).

Le relazioni fra le variabili oggetto di studio sono state condotte attraverso il coefficiente r di Pearson. Sono state condotte delle analisi di correlazione per indagare possibili correlazioni fra la percezione dell’isolamento sociale valutato attraverso la scala LSNS-6 che indaga il supporto sociale percepito e le variabili di utilizzo problematico dei Sns attraverso la scala GPIUS-2 e la probabile presenza della sintomatologia depressiva valutata con la scala BDI.

Dai risultati del presente studio emerge una correlazione significativa negativa fra la probabile presenza di sintomi depressivi valutati attraverso la scala BDI e la percezione del supporto sociale valutato attraverso la scala LSNS-6 (r=-0.32/p<.01) e la sottoscala LSNS Family (r=-0.35/p<.01). Emerge una correlazione positiva fra l’utilizzo problematico dei Social Network Sites valutato attraverso la scala GPIUS-2 e la probabile presenza di sintomi depressivi (r=0.25/p<.01); come risulta anche dalla sottoscala GPIUS DEFICIENT SELF REGULATION (r=0.20/p<.01); GPIUS NEGATIVE OUTCOMES (r=0.20/p<.01) e GPIUS COMPULSIVE USE (r=0.25/p<.01). La preferenza per l’interazione sociale online, valutata attraverso la sottoscala GPIUS POSI è correlata negativamente con il supporto sociale percepito valutato attraverso la scala LSNS-6(r=-0.22/p<.01) e la sottoscala LSNS Friendship (r=-0.20/p<.01). Inoltre la sottoscala GPIUS NEGATIVE OUTCOMES correla negativamente con la percezione del supporto sociale valutato attraverso la scala LSNS-6( r=-0.20/p<.01) e la sottoscala LSNS Family (r=-0.23/p<.01).

L’obiettivo principale dello studio era indagare, in un campione eterogeneo proveniente da tutto il territorio nazionale, l’esistenza di una relazione fra l’isolamento sociale derivante dall’emergenza covid-19 valutato attraverso le sottodimensioni della percezione di supporto sociale e senso di solitudine, con le variabili di utilizzo problematico dei Social network e sintomatologia depressiva.

I risultati del presente studio confermano i dati presenti in letteratura circa la relazione che intercorre fra la sintomatologia depressiva, l’uso massivo dei social network e la percezione del supporto sociale.

La letteratura mostra una significativa relazione fra la percezione dell’isolamento sociale soggettivo e il benessere psicologico; in special modo l’incremento della sintomatologia depressiva (Nicholas & Nicholson, 2012). Sentirsi supportati nelle relazioni sociali funge da fattore protettivo contro la sintomatologia depressiva (Santini et al; 2015), mentre il senso di solitudine si configura come fattore di rischio (Nilsen et al, 2018). I risultati sono in linea con la letteratura circa l’utilizzo problematico dei Social network che è legato bidirezionalmente alla sintomatologia depressiva, in special modo quando quest’ultimi vengono utilizzati come strategia maladattiva di regolazione dell’umore (Chih-Hung et al., 2008) e mostra una relazione positiva con la mancanza di supporto sociale e la percezione della solitudine (Caplan,2002).

I limiti relativi allo studio riguardano gli strumenti utilizzati che sono inclini ai self-report bias di desiderabilità sociale; un altro limite è rappresentato dalla numerosità campionaria che non può intendersi rappresentativa di tutta la popolazione e dalla rappresentanza maggioritaria del genere femminile (M=50, F=129) e della fascia di età (M=28.46, SD=10.61) rispetto a quella stabilita nei criteri di inclusione.

Nel complesso questo studio evidenzia le correlazioni che intercorrono fra la percezione dell’isolamento sociale e le variabili di utilizzo problematico del Social network, supporto sociale percepito e sintomatologia depressiva. Il presente studio pone l’attenzione ad alcune variabili correlate all’isolamento sociale indagate durante il periodo di lockdown derivante dall’emergenza covid-19. Dall’analisi dei risultati si potrebbe ipotizzare di strutturare interventi di prevenzione circa l’uso problematico dei Social network affinché quest’ultimi possano essere utilizzati in modo non problematico, ma al contrario possano incrementare la percezione di supporto sociale (Morris et al; 2014). A fronte dei risultati rilevati dal presente studio emerge la necessità di indagare ulteriormente altre variabili psicosociali che possono influenzare la percezione dell’isolamento sociale e i possibili esiti negativi ad essa correlati.

 

“Feels like home”: non dove, ma chi – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo interpreta il brano Feels like home di Chantal Kreviazuk, prendendo in considerazione temi relativi al legame di coppia quali il bisogno di tenerezza, di sicurezza e di essere accettati per quello che si è, in altre parole cosa rende una relazione “casa”.

Psico-canzoni – (Nr.7) Feels like home

 

Per secoli l’essere umano ha provato a dare una definizione d’amore, attraverso poesie, racconti, aforismi e canzoni. Nell’ambito di queste ultime troviamo la cantante Chantal Kreviazuk secondo cui l’amore è potersi sentire a casa ovvero feels like home.

È molto difficile poter raccontare in modo universale l’amore, poiché ognuno lo vive a modo proprio, dipendentemente dai bisogni che nutre. Per alcuni è legato maggiormente alla sessualità, per altri all’aspetto emotivo, per altri ancora a caratteristiche intellettuali. Eppure in ogni relazione vi è una caratteristica comune: sono presenti in modo più o meno preponderante tutti e tre gli aspetti.

Per quanto ogni componente sia importante a modo proprio, una spicca tra le altre e detiene il potere rispetto alla stabilità della relazione: il lato emotivo. All’altezza dello stomaco vi è la sede simbolica delle emozioni che è anche il punto a metà strada dove è possibile l’incontro dei tre aspetti. Tanto la sessualità quanto l’amore intellettuale non solo passano per le emozioni, ma da esse dipende il loro più completo sviluppo ed appagamento.

Chantal Kreviazuk e il film Come farsi lasciare in dieci giorni si donano a vicenda una completezza di significato. Feels like home fa parte della colonna sonora del celebre film di Daniel Petrie con Matthew McConaughey e Kate Hudson ed è inserita nel momento in cui i due protagonisti si stanno innamorando, nonostante le previsioni di entrambi. Quella che da alcuni è stata chiamata “scintilla”, viene ridefinita “casa” dalla Kreviazuk e da Petrie.

Something in your voice makes me wanna loose myself in your arms

è un modo completo per spiegare in che modo una relazione può divenire “casa”, ovvero il posto in cui si può essere se stessi, in cui non ci si sente giudicati, in cui si può stare tranquillamente in pigiama, in cui infine si possono abbassare così tanto le difese da potersi appoggiare e perfino addormentare.

“Casa”, ovvero “home”, nell’immaginario collettivo può essere associata ad un posto fisico, ma in questo caso sembra piuttosto essere un luogo dentro se stessi che, se sufficientemente pronti per abbandonare il porto sicuro, si può incontrare nella relazione amorosa con l’altro. Ci si può sentire a casa quando si permette alla tenerezza di entrare dalla porta. Tutti gli esseri umani hanno bisogno di tenerezza e dolcezza, ma a volte la paura di poterla conoscere e di rischiare conseguentemente di perderla, finendo faccia a faccia con l’angoscia del vuoto, può essere paralizzante.

Hope this feeling lasts for the rest of my life

è la speranza di chi si avvicina alla tenerezza lasciandosi trasportare. La propria parte bambina può essere riconosciuta, coccolata, nutrita e sentirsi protetta anche quando arrivano momenti più spaventosi, come

a window breaks down a long dark street and a siren wails in the night, but I’m alright ‘cause I have you here with me and I can almost see through the dark there is light. 

Feels like I’m all the way back where I belong

è il racconto di una fiducia ritrovata nel legame col partner, non più congelata nella staticità un luogo, ma sempre in evoluzione nel tempo, come la storia che ci appartiene ed a cui apparteniamo. Dunque non dove, ma chi è “casa”?

 

FEELS LIKE HOME – Ascolta il brano:

 

Riconsiderare la demenza (2015) di T. Kitwood – Recensione

Chiunque si trovi a dover affrontare quotidianamente disturbi neurocognitivi dovrebbe avere nella propria libreria Riconsiderare la demenza (2015).

 

Tom Kitwood (1937-1998), geropsicologo e fondatore del Bradford Dementia Group, ha rivoluzionato l’approccio di assistenza alla persona con demenza invitando professionisti e non a una vera e propria trasformazione culturale tramite la sua opera Dementia reconsidered: the person comes first (1997), tradotta in italiano solo nel 2015, frutto di anni di ricerca ed esperienza in contesti di istituzionalizzazione.

Affinché un servizio funzioni e sia adatto ai bisogni della persona è fondamentale che vi sia un modello teorico di riferimento che ne guidi l’assistenza. Kitwood, rifacendosi alla terapia centrata sul cliente di Carl Rogers (1974), propone un modello di cura centrato sulla persona, in netta contrapposizione al modello bio-medico allora dominante (Lyman, 1989). L’autore parte da un’analisi della soggettività e dei bisogni della persona con demenza dando vita a un modello dialettico che riconosce oltre che il deterioramento neurologico anche una serie di fattori psico-sociali che determinano l’esperienza di malattia. Ne consegue una nuova concezione di assistenza, non più intesa come mera risposta ai soli bisogni fisici dell’assistito ma come un mezzo che permette di preservare la personhood (= l’essere persona) del malato attraverso una particolare attenzione alla qualità delle interazioni che intercorrono tra caregiver e anziano. Secondo l’autore, affinché questa modalità di assistenza possa essere messa in atto, è innanzitutto necessaria una rivoluzione culturale che dia rilievo alle abilità residue e all’unicità di ciascuna persona, nonostante i deficit. A ciò si aggiunge la necessità di professionisti formati e con requisiti ben specifici, sostenuti da una organizzazione dell’assistenza attenta al benessere del personale e caratterizzata da una comunicazione efficace, cooperazione, rispetto e assenza di barriere noi-loro dettate da potere e status.

La personhood e i bisogni della persona con demenza

Secondo Kitwood “il nostro sistema di riferimento non dovrebbe più essere persona-con-DEMENZA, bensì PERSONA-con-demenza”. L’autore, distanziandosi dalla prevalente visione negativa della demenza come “morte che lascia indietro il corpo” e come unicamente deterioramento neurologico, trova essenziale non porre l’accento su ciò che differenzia il malato da “noi sani” ma concentrarsi su ciò che abbiamo in comune e funziona ancora, ovvero la personhood. Questo concetto, tradotto in italiano con “essere Persona”, indica una condizione propria dell’essere umano in quanto essere sociale che implica riconoscimento, rispetto e fiducia. All’interno della relazione ogni persona è unica, prova sentimenti ed emozioni e ha alle spalle un bagaglio di esperienze. Per Kitwood è proprio la preservazione della personhood lo scopo principale dell’assistenza, possibile solo tramite il soddisfacimento dei bisogni dell’anziano e interazioni positive. I bisogni sono radicati nel nostro passato evolutivo e influenzati dai significati e dai valori della cultura dominante. Relativamente alla persona con demenza vengono individuati 5 bisogni essenziali, tra loro sovrapposti e che convergono nel bisogno centrale dell’amore. Essi sono: conforto, identità, inclusione, attaccamento, essere occupati.

Spesso, però, nei contesti di cura, di fronte alla fragilità, allo stato di dipendenza e al deterioramento del malato, chi assiste presenta meccanismi di difesa che disumanizzano il malato, privandolo della sua personhood, permettendo così un distanziamento da quella che può essere una “anticipazione terrificante di come potremmo diventare”. Risulta quindi fondamentale lavorare su queste risposte difensive.

Psicologia Sociale Maligna e Positive Person Work

Kitwood sottolinea, inoltre, l’assenza di indicazioni nel paradigma standard su come effettivamente assistere la persona con demenza. Come detto precedentemente, un approccio di cura centrato sulla persona prevede una particolare attenzione alla qualità delle interazioni esistenti tra personale e assistito. L’autore, dopo numerose ricerche valutative sulla qualità di assistenza fornita in servizi di diverso tipo per persone con demenza e in particolare sulle tendenze depersonalizzanti, teorizza la Psicologia Sociale Maligna. Questo concetto fa riferimento a tutte quelle azioni, atteggiamenti e tendenze, perlopiù inconsapevoli, che danneggiano profondamente la personhood dell’anziano, minandone i bisogni. Le 17 modalità di interazione svalutanti individuate dall’autore sono: infantilizzazione, slealtà, disempowerment, etichettamento, intimidazione, stigmatizzazione, accusa, derisione, invalidazione, ignorare, oggettualizzazione, esclusione, rifiuto, imposizione, denigrazione, procedere troppo in fretta, perturbazione. A lungo andare, questi atteggiamenti accentuano sempre più la barriera noi-loro e annullano l’essere persona dell’anziano, dando vita il più delle volte a comportamenti problema, come ad esempio aggressività, risolti per mezzo di farmaci.

Dunque, per contrastare questa tipologia di assistenza viene proposto il Positive Person Work, una modalità di cura che sostiene le abilità residue della persona, riconosce i sentimenti dell’altro e risponde ai suoi bisogni. Tramite il metodo osservativo del Dementia Care Mapping, le 12 modalità di interazione positive individuate sono: riconoscimento, negoziazione, collaborazione, gioco, timaolazione (neologismo che indica una interazione di tipo sensoriale), festeggiamento, rilassamento, validazione, contenimento, facilitare, creazione e dono.

Organizzazione dell’assistenza

Altro aspetto preso in considerazione da Kitwood per la buona riuscita di una cura centrata sulla persona è il tipo di organizzazione dell’assistenza. È necessario tenere a mente la stretta relazione tra benessere dell’operatore e benessere dell’ospite. Una struttura che promuove la personhood del personale per proprietà transitiva migliora la qualità di vita degli assistiti. È noto, infatti, il rischio nelle professioni sanitarie di sviluppare burnout (Maslach, 1984), una sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale che, oltre all’insorgenza di sintomi psicosomatici nel lavoratore, comporta cambiamenti negativi negli aspetti relazionali. Sono, dunque, auspicabili organizzazioni caratterizzate da buoni canali comunicativi, rapporti lavorativi che prevedono rispetto, fiducia e collaborazione, formazione, riconoscimento e promozione del personale, attenzione agli aspetti emotivo-motivazionali e un forte impegno a minimizzare le differenze di potere.

 

Ortoressia nervosa e dismorfismo muscolare (bigoressia): uno studio condotto in un campione di studenti universitari maschi

L’ortoressia nervosa (ON), è un disturbo alimentare caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione per il cibo sano (Duran et al., 2020), che è stato incluso nel DSM-5 nella categoria “Disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo” (American Psychiatric Association, 2013).  

 

Tra i sintomi troviamo l’eliminazione del cibo definito “malsano”, un’estrema attenzione verso la qualità degli alimenti che si ingeriscono e che vengono categorizzati in termini dicotomici, come “pericolosi” o “sani”. Le ruminazioni ossessive e continue sul cibo ed i comportamenti di selezione dello stesso, compromettono significativamente la qualità della vita dell’individuo (Malmborg et al., 2017), impattando sia sul versante affettivo che quello relazionale. Uno degli aspetti che esacerba questa problematica, accrescendo i livelli di stress, è l’insoddisfazione di base verso il proprio aspetto fisico (Rodgers et al., 2018).

Tra i gruppi di soggetti a rischio di sviluppare l’ortoressia nervosa (ON), la ricerca ha individuato le donne, gli adolescenti, individui che praticano sport, studenti di medicina ed i professionisti sanitari (dalmaz & Tekdemir Yurtdas, 2017).

Il dismorfismo muscolare (MD), è stato definito per la prima volta da Pope e Coll nel 1993 come un disturbo ossessivo compulsivo caratterizzato dall’ossessione per l’aspetto del proprio corpo, unita alla paura di non essere abbastanza muscolosi, che induce a praticare sessioni estenuanti di esercizio fisico (Bo et al., 2014).

Attualmente è classificato nel DSM-5 tra i “Disturbi ossessivo compulsivi e disturbi correlati” ed è considerato una variante del disturbo da dismorfismo corporeo. Gli aspetti che lo caratterizzano sono l’eccessiva preoccupazione del proprio aspetto fisico e la convinzione di non essere abbastanza magri e muscolosi (American Psychiatric Association, 2013). L’individuo che ne soffre si allena in modo eccessivo, perseguendo una dieta rigida e talvolta assumendo dosi spropositate di integratori e steroidi anabolizzanti. Le conseguenze sono soprattutto sul piano relazionale, poiché evita le attività sociali o professionali che non ritiene siano finalizzate a raggiungere il suo obiettivo fisico (Cerea et al., 2018).

L’ossessione e l’insoddisfazione per l’aspetto del proprio corpo, che arrivano a compromettere diverse aree di funzionamento (familiare, lavorativa e sociale), sono state associate a bassi livelli di autostima (Compte et al., 2015; Hale et al., 2013).

Le condizioni estreme a cui si costringe l’individuo per acquisire massa muscolare possono comportare gravi patologie cardiache, insufficienza renale e perfino la morte (Aslı Devrim et al., 2018; Sandgren & Lavallee, 2018). Il troppo esercizio fisico, unito ad una dieta estrema, sono inoltre fattori di rischio per la  sindrome da sovrallenamento o concomitanti disturbi alimentari.

Ad oggi, il dismorfismo muscolare (anche chiamato bigoressia) si osserva soprattutto tra i giovani adulti maschi e tra i bodybuilder, che ricercano un corpo magro e muscoloso, influenzati dagli ideali di perfezione trasmessi dalla cultura (Bo et al., 2014).

Secondo la letteratura, circa la metà dei professionisti che lavorano in aree sanitarie sono a rischio di Ortoressia Nervosa, mentre gli atleti sono maggiormente a rischio di disturbi alimentari (Segura-García et al., 2012) e Dismorfismo Muscolare (Almeida et al., 2019). A fronte di questi studi, Duran et al. (2020), hanno effettuato un’indagine su un campione di 430 studenti maschi di infermieristica e della facoltà di scienze motorie.

Nel dettaglio, è stata valutata la prevalenza di bigoressia e Ortoressia Nervosa tra i soggetti; verificando se queste condizioni fossero legate all’autostima. Dallo studio, è emerso che l’11,2% del campione aveva una tendenza alla bigoressia e sosteneva che il sovrallenamento o una dieta ad alto contenuto proteico fossero una condizione naturale da perseguire.

Nello specifico, gli studenti di scienze motorie, riportavano punteggi più altri sulla scala del dismorfismo corporeo (Muscle dysmorphic disorder inventory; Asli Devrim & Bilgic, 2018) e riportavano maggiore compromissione del funzionamento. Inoltre erano più inclini all’ortoressia nervosa (Orthorexia inventory ; Arusoǧlu et al., 2008), rispetto agli studenti di infermieristica. Questo risultato è coerente con la letteratura che individua, tra gli studenti di scienze motorie, un rischio maggiore di sviluppare bigoressia e ortoressia nervosa (Bo et al., 2014; Malmborg et al., 2017).  Infatti, l’essere istruiti ad una sana alimentazione potrebbe comportare un’attenzione eccessiva a quest’aspetto, fino a raggiungere una vera e propria ossessione nutrizionale, con sovrallenamento concomitante per incrementare la muscolatura.

Inoltre, tra gli studenti, la tendenza all’ortoressia aumentava parallelamente alla propensione alla bigoressia poiché entrambe hanno in comune alla base tendenze salutistiche ed il culto della forma fisica, che conferiscono un senso di identità all’individuo, isolandolo al contempo dal contesto sociale. Nell’Ortoressia Nervosa, le ossessioni per l’alimentazione sana che caratterizzano la patologia e che si associano positivamente alla muscolosità percepita ed a una ridotta percezione di grasso corporeo, finiscono per espandersi, coinvolgendo anche l’esercizio fisico (Oberle & Lipschuetz, 2018).

Per quanto concerne l’autostima, questa correlava negativamente con i punteggi della scala della bigoressia. Tra gli studenti universitari maschi, dunque, il dismorfismo muscolare emergeva nel caso di concomitante scarsa fiducia in sé stessi, generata da un’insoddisfazione corporea. Coloro che riportano una percezione distorta del proprio corpo e scarsa autostima, tenderanno ad allenarsi intensamente per migliorare il loro aspetto (Numanović et al., 2018) e sperimentare un senso di superiorità.

Sebbene lo studio abbia dimostrato una maggiore incidenza di queste problematiche tra gli studenti maschi che frequentavano infermieristica e scienze motorie, i risultati non possono essere generalizzati in contesti socio-culturali differenti, poiché il campione proveniva da università pubbliche Turche.

Ciò nonostante, le evidenze suggeriscono l’utilità dell’istruire i giovani individui alla consapevolezza mediante interventi formativi; al fatto che l’ossessione per dieta ed esercizio fisico non siano salutari, ma nocive alla salute e che possono portare a molteplici complicazioni mediche.

Tra gli studenti universitari, si rende necessario intervenire non solo sugli aspetti psicopatologici conclamati ma agire in via preventiva e alla radice, andando ad offrire consulenze psicologiche in grado di rafforzare i livelli di autostima, che avranno ripercussioni sul benessere globale.

Dunque è compito primario degli operatori della salute mentale valutare le situazioni a rischio, riferendosi alla letteratura corrente per individuare i fattori predisponenti all’emergere della psicopatologia.

 

ABC. Educare alle emozioni – Video dal Webinar tenuto da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Perché sto male? A cosa serve l’ansia? Cosa sono tutte queste emozioni sgradevoli? Gli esperti di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre hanno risposto a queste domande in un interessante webinar. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento

 

  La capacità di riconoscere le emozioni non sempre risulta facilmente accessibile a molte persone che spesso stanno male, ma non ne sanno il perché. La teoria cognitiva ci spiega quanto è importante riconoscere i propri stati d’animo e come svilupparne la capacità di regolazione. Dai correlati fisiologici alla mindfulness, nel corso dell’incontro sono state illustrate le basi per una comprensione chiara ed efficace dei propri stati emotivi spiacevoli.

Il webinar è stato condotto dalla dott.ssa Irene Rossi e dal dott. Riccardo Votadoro.

 

ABC – EDUCARE ALLE EMOZIONI
Guarda il video integrale del webinar:

 

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La sessualità nella terza età: stereotipi ed evidenze

Ad alimentare i pregiudizi sulla sessualità nella terza età vi sono il presupposto che vede la sessualità legata esclusivamente alla procreazione e alla vita coniugale e una società che esalta la bellezza dei corpi giovanili, ripudiando quelli più vecchi.

 

L’OMS definisce la salute sessuale una “integrazione di aspetti somatici, affettivi, intellettivi e sociali dell’essere sessuato realizzata in maniera che valorizzi la personalità, la comunicazione e l’amore” (1975). Tra i presupposti per un’adeguata salute sessuale vi sono, dunque, l’assenza di sentimenti di vergogna, colpa, timore e false credenze che compromettano la relazione sessuale.

Fondamentale è anche la Dichiarazione dei diritti sessuali (World Association of Sexology, 1999), secondo cui essi sono diritti umani fondamentali e universali, basati sulla libertà, sulla dignità e sull’uguaglianza propri di ogni essere umano. Tale documento, inoltre, afferma che “la sessualità è parte integrante di ogni essere umano. Il suo pieno sviluppo dipende dalla soddisfazione dei bisogni umani basilari come il desiderio di contatto, intimità, espressione emozionale, piacere, tenerezza, amore”.

Il diritto all’intimità, in tutte le sue forme, dura tutta la vita ma spesso viene negato agli anziani, la cui sessualità viene sottostimata o ignorata. L’anziano viene generalmente considerato asessuato o, se manifesta il desiderio di contatto, un “vecchio sporcaccione”. Questi stereotipi sono una forma di ageismo (Butler, 1969), ovvero di discriminazione nei confronti di individui di età differente dalla propria.

La causa principale di questi stereotipi è indubbiamente culturale: da una parte, il presupposto che vede la sessualità legata esclusivamente alla procreazione e alla vita coniugale, dall’altra, una società che esalta la bellezza dei corpi giovanili e ripudia quelli più vecchi.

Come è noto, gli stereotipi vengono interiorizzati e, in questo caso, è comune riscontrare nella popolazione anziana la cosiddetta sindrome da breakdown sessuale a causa della quale l’anziano, percependo sé stesso come asessuato, sviluppa problemi di autostima e sicurezza, minando il proprio benessere psicologico (Aveni Casucci, 1992).

Come sottolineato da Ashton Applewhite (2017), esperta di ageismo, “sia per scelta che per necessità il sesso e l’eccitazione cambiano nel tempo. […] Adattarsi ai corpi che cambiano potrebbe essere un catalizzatore per l’esplorazione erotica”.

È normale che con l’invecchiamento l’attività sessuale possa essere limitata dalla presenza di malattie croniche, rigidità muscolare, patologie che causano dolore o terapie farmacologiche che interferiscono con i meccanismi di desiderio/eccitazione (De Beni & Borella, 2015), ma è anche vero che le persone possono essere coinvolte in relazioni intime soddisfacenti in cui il sesso non è determinante ai fini della salute sessuale. Sempre citando la Applewhite (2017), è bene tenere a mente l’importanza del contatto fisico, de “l’essere toccati da un altro essere umano”, nell’intero arco di vita e del suo ruolo gratificante. Esso, all’interno di una relazione intima, fornisce conforto, sicurezza emotiva, aumenta l’autostima e allevia il dolore fisico (Umidi et al., 2007). Nel caso di deterioramento cognitivo, invece, esso rappresenta un mezzo di comunicazione e una forma di relazione (Goldschmidt & van Meines, 2011).

In aggiunta, questi stereotipi spesso possono presentarsi anche in ambito sanitario, manifestati da professionisti che, occupandosi di anziani, non prendono in considerazione la sfera intima e sessuale neanche in sede di anamnesi. Dando, dunque, per scontato che non siano sessualmente attivi, i medici non controllano di routine nel paziente geriatrico la presenza di malattie sessualmente trasmissibili, i cui sintomi (stanchezza, perdita di peso, confusione) possono essere scambiati per “normali sofferenze dovute all’età” (Applewhite, 2017).

I dati sulla sessualità della popolazione anziana

Nonostante lo stereotipo diffuso dell’anziano asessuato, i dati dicono tutt’altro. Sono stati, infatti, osservati orgasmi sia in uomini che in donne anche dopo il compimento del novantesimo anno d’età (Kaplan, 1976).

Inoltre, una rassegna condotta da ricercatori italiani mostra come circa un terzo degli anziani intervistati tra i 65 e i 106 anni si dichiari ancora interessato al sesso anche quando la possibilità di farlo diminuisce, indipendentemente dall’età (Dello Buono et al., 1998).

Infine, una ricerca del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali; 2000) ha intervistato 1.298 anziani italiani, rilevando come molti di essi siano sessualmente soddisfatti: sono risultati sessualmente attivi il 73,4% degli italiani tra i 61-70 anni e il 39,1% degli ultrasettantenni.

 

Sluggish Cognitive Tempo: disturbo della concentrazione distinto ma sovrapposto all’ADHD negli adulti

Sluggish Cognitive Tempo (SCT) è un termine che comprende un insieme di sintomi che influiscono sulla capacità attentiva e di conseguenza può essere definito un disturbo della concentrazione.

 

È caratterizzato dalla tendenza a sognare ad occhi aperti, avere la mente annebbiata, percepire lentezza del pensiero e ipo-attività motoria (Becker P.B. e Barkley A.B., 2018).

Non è una diagnosi ufficiale contenuta nel DSM-5, ma ha caratteristiche in comune con il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) e spesso possono essere in comorbilità. In particolare lo Sluggish Cognitive Tempo e l’ADHD di tipo attentivo danno sintomi come comportamento letargico, difficoltà nel recuperare i ricordi, problemi a stare all’erta in situazioni noiose ed elaborazione lenta delle informazioni.

Come è nato l’interesse per lo Sluggish Cognitive Tempo?

Lo studio dei sintomi legati allo Sluggish Cognitive Tempo è iniziato con la pubblicazione della terza edizione del DSM nel 1980. In questa edizione, infatti, il Disturbo da Deficit di Attenzione (ADD) venne suddiviso in due sottocategorie: iperattività (ADD+H) e senza iperattività (ADD-H). In quest’ottica si cercò di categorizzare anche i sintomi come la letargia, la lentezza e l’indifferenza ma risultarono essere poco predittivi nell’identificazione dell’ADHD e quindi non vennero considerati. Lo studio dei sintomi legati a Sluggish Cognitive Tempo ebbe quindi un periodo di stallo fino alla pubblicazione di una review di Milich R.e di un articolo di McBurnett K., entrambi pubblicati nel 2001, in cui le componenti dello Sluggish Cognitive Tempo vennero studiate indipendentemente e in contrasto con l’ADHD.

Ad oggi non c’è totale accordo sul ruolo dello Sluggish Cognitive Tempo: ovvero se si tratti di una tipologia di ADHD, al pari del tipo iperattivo-impulsivo, attentivo o combinato, o se debba essere considerato un disturbo a sé stante.

Però sono sempre più gli studi che suggerisco di considerare lo Sluggish Cognitive Tempo come un tipo di disturbo dell’attenzione separato e con sintomi ben distinti, tuttavia parzialmente sovrapponibili all’ADHD, soprattutto alla componente attentiva. Infatti la probabilità di comorbilità fra i due disturbi arriva al 50%. (Barkley RA, 2012, 2018; Tirapu-Ustàrroz J. et al., 2015).

Quali sono i sintomi del costrutto Sluggish Cognitive Tempo e come influiscono sulla vita quotidiana?

I sintomi appartenenti a questo disturbo della concentrazione hanno un impatto sulla qualità di vita delle persone, influenzando il funzionamento quotidiano e i livelli di stress. Le difficoltà legate allo Sluggish Cognitive Tempo sono molte e nei bambini e negli adolescenti si evidenziano soprattutto in ambito scolastico, mentre negli adulti le compromissioni sono maggiori e si riscontrano sia nelle relazioni sociali che al lavoro (Barkley RA., 2018).

Sono 16 i sintomi individuati da Becker e colleghi in una metanalisi del 2017 che andrebbero a formare il costrutto riferito alla popolazione adulta:

  • Lentezza nel fare le cose
  • Sentirsi con la mente annebbiata
  • Fissare il vuoto
  • Sentirsi assonnati durante il giorno
  • Perdere il filo dei pensieri
  • Non essere molto attivi
  • Perdersi nei propri pensieri
  • Stancarsi facilmente
  • Dimenticarsi cosa si stava per dire
  • Sentirsi confusi
  • Non essere motivati a fare cose
  • Estraniarsi
  • Sentirsi la mente confusa
  • Il pensiero sembra lento o rallentato
  • Sognare ad occhi aperti
  • Difficoltà nel riunire le idee.

Questi sintomi provocano quindi un senso di ottundimento, rallentamento psicomotorio che può provocare sentimenti di autosvalutazione e bassa percezione di autoefficacia.

Infatti lo Sluggish Cognitive Tempo è collegato a sintomi internalizzanti quali ansia e depressione. In particolare negli adulti, questi sintomi influiscono sul funzionamento psicosociale, sia nei casi in cui lo Sluggish Cognitive Tempo è associato ad una diagnosi di ADHD, sia nei casi in cui non lo è (Becker SP. et al., 2013).

La lentezza cognitiva tipica di questo disturbo rende difficile cogliere i segnali sociali e in conseguenza le persone con Sluggish Cognitive Tempo rischiano di essere isolate e di limitare le interazioni sociali. Se a queste difficoltà si unisce la tendenza ad avere sintomi internalizzanti, come quelli collegati alla depressione, non sorprende che ci sia una evidente tendenza ad avere problemi di regolazione emotiva (Becker P.B. e Barkley A.B., 2018).

Negli adulti il rallentamento nel flusso di pensieri, il senso di ottundimento e in generale i sintomi legati alle difficoltà di concentrazione sembrano sovrapporsi alla sintomatologia dell’ADHD di tipo attentivo.

Le difficoltà attentive legate a questo pattern dell’ADHD risultano essere collegate ad alterazioni delle funzioni esecutive. Nella quotidianità queste persone tendono ad avere un pensiero lento e difficoltà nella formulazione delle idee a causa delle distrazioni. Tendono a formulare pensieri con lunghi giri di parole, perdendosi in inutili dettagli o cambiando discorso inconsapevolmente. Questa tipologia di pazienti possono avere difficoltà nel prendere decisioni. Ma possono altresì avere un’eccessiva concentrazione, anche detta iper-focus, in cui c’è una difficoltà a distogliere l’attenzione da qualcosa che li interessa particolarmente (Kooij S.JJ., 2019).

Nonostante i sintomi riportati dalle persone con Sluggish Cognitive Tempo possano sembrare simili a quelli dell’ADHD di tipo attentivo, la causa non sarebbe dovuta alle funzioni esecutive, bensì ad una difficoltà nell’elaborazione precoce delle informazioni o all’attenzione visiva selettiva (Kim K e Kim HJ, 2020).

Trattamento

Attualmente non ci sono standard di trattamento per lo Sluggish Cognitive Tempo, ma alcuni studi preliminari danno alcune informazioni utili su come gestire i sintomi soprattutto quando c’è una sovrapposizione con ADHD, depressione e ansia:

  • Atomoxetina, che riduce i sintomi Sluggish Cognitive Tempo nei casi con ADHD
  • Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI) e Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), hanno dato buoni risultati nei casi di comorbilità con ansia o depressione
  • Mindfulness
  • Social Skills Training
  • Psicoeducazione, che favorisce l’aderenza al trattamento e quindi migliora la gestione dei sintomi. (Becker P.B. & Barkley A.B., 2018; Gaur S e Pallanti S, 2020)

 

Olimpiadi di Tokyo: bandiera e inno salvi. Perché per un atleta è così importante?

Olimpiadi di Tokyo: gli atleti italiani hanno rischiato una sospensione al pari di quella Russa, ossia un’Olimpiade senza tricolore, senza inno di Mameli e senza la scritta “Italia” sulle divise. Gli atleti, difatti, avrebbero comunque potuto gareggiare, ma da indipendenti.

 

L’inizio del nuovo anno si è aperto con una nuova preoccupazione per il mondo sportivo nazionale (oltre a quelle già causate dal Covid) legata alle Olimpiadi di Tokyo.

L’Italia si è, infatti, salvata in calcio d’angolo dalla severa punizione che il CIO, Comitato Olimpico Internazionale, stava per infliggere. Non dilungandoci sulle cause che stavano per determinare questo terribile scenario, gli atleti italiani rischiavano una sospensione al pari di quella Russa, che in poche parole equivaleva ad un’Olimpiade senza tricolore, senza inno di Mameli e senza la scritta “Italia” su divise. Gli atleti, difatti, avrebbero comunque potuto gareggiare alle Olimpiadi di Tokyo ma da indipendenti.

Per fortuna questa eventualità è stata scampata e possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo!

Ma cosa avrebbe significato per uno sportivo questa possibilità? Perché è così importante indossare quella divisa e sventolare la propria bandiera?

Le risposte sono molteplici: prime tra tutte, indossare la maglia della nazionale, per un atleta rappresenta un traguardo raggiunto con sudore e impegno.

Essere convocati in una competizione internazionale non è, infatti, un obiettivo così scontato ed è sempre, in ogni caso, il frutto di mesi di fatica e di allenamento costante. Poter indossare, pertanto, i colori della propria nazione e sapere di doverla rappresentare in una gara o partita, ne costituisce un valore aggiunto. L’atleta avverte nel suo impegno un significato ancora più profondo, in cui l’emozione incontra anche la responsabilità di rappresentare il proprio Paese nel migliore dei modi possibile. Non dimentichiamo, infatti che, l’approvazione sociale costituisce un potente stimolo e una profonda gratificazione per l’atleta (Antonelli & Salvini,1987).

In questo senso, lo sport, per mezzo della sua rappresentazione e della sua narrazione, è in grado di produrre vincoli identitari molto forti. Sono soprattutto i simboli e i rituali che riescono oggi ad avere il maggior impatto emotivo sulle persone, dando un senso di rassicurazione psicologica e di solidarietà collettiva (Sbetti, 2011). È dunque proprio nel significato dei simboli, della bandiera e dell’inno che va rintracciata l’ulteriore spiegazione di questa esigenza.

Questi elementi modellano, infatti, la percezione, gli atteggiamenti e il comportamento delle persone (Callahan & Ledgerwood, 2016) e soddisfano allo stesso tempo un profondo bisogno di appartenenza. I simboli possono rappresentare, dei

mezzi attraverso i quali gli individui si orientano verso il mondo, verso gli altri, verso se stessi. (Hall, 1972, 37)

Questo perché, dietro ad un colore, ad una divisa, un inno, elementi apparentemente superficiali, ci sono invece una storia, un’appartenenza e degli obiettivi condivisi in cui gli atleti, e i loro rispettivi tifosi, possono identificarsi.

 

ACT per il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Manuale breve per il trattamento (2004) di M.P. Twohig – Recensione

ACT per il Disturbo Ossessivo Compulsivo è il manuale breve e gratuito del protocollo validato per il trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo con l’Acceptance and Commitment Therapy

 

Autore

Michael P. Twohig, Ph.D. è uno psicologo, ricercatore e professore universitario. Nel  2015-2016 è stato presidente dell’Association of Contextual Behavioral Science, l’organizzazione delle Scienze Contestuali. La sua ricerca si concentra sull’uso dell’ACT in una varietà di presentazioni cliniche con un’enfasi sui disturbi ossessivo compulsivi e correlati. Ha pubblicato oltre 100 articoli peer-reviewed e due libri.

Manuale

Scritto dall’autore nel 2004 e reso gratuitamente disponibile, è stato anche tradotto in italiano da Salvatore Torregrossa. Si tratta di un manuale in forma breve che illustra 8 sessioni del protocollo ACT (Acceptance and Commitment Therapy) per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e che risulta efficace nella riduzione dei sintomi ossessivo-compulsivi, depressione e ansia, anche a 6 mesi dalla conclusione del trattamento.

Il testo consiste in una guida passo passo al lavoro in terapia, dalle prime fasi di conoscenza del paziente (con un riferimento essenziale agli aspetti amministrativi e legali che il terapeuta deve assolvere) alle fasi prettamente terapeutiche ed esperienziali.

La forma espositiva è chiara, scorrevole e diretta, grazie anche al riferimento costante ai processi in atto e agli strumenti più efficaci per guidare il paziente, cioè metafore, esercizi, meditazioni ed esempi di dialoghi fra terapeuta e paziente.

Destinatari

Terapeuti ACT che trattano il disturbo ossessivo Compulsivo.

L’autore ritiene importante fare notare che l’approccio terapeutico ACT non è un insieme di tecniche e strategie applicabili per risolvere i sintomi, ma è piuttosto un approccio completo alla persona, che si basa sul presupposto che non ci sia nulla di sbagliato nel paziente e che non sta incontrando il terapeuta per essere aggiustato. Non è sufficiente quindi applicare esercizi e raccontare le metafore come scritti nel protocollo, ma il terapeuta dovrebbe almeno avere una formazione ACT, aver letto qualche manuale, partecipato a qualche workshop o corso e avere familiarità con la particolare filosofia alla base dell’ACT – e cioè il contestualismo funzionale.

Contenuti

Il manuale propone 8 sessioni di lavoro con il paziente. Per ognuna vengono indicati gli argomenti da trattare, quale processo dell’ACT facilitare, le metafore utili alla comprensione da parte del paziente e gli esercizi pratici che consentono l’allenamento e il cambiamento ed esempi di dialoghi per introdurre gli argomenti e affrontare i possibili problemi.

Nello specifico, nella prima sessione si introducono anche gli aspetti legali e di riservatezza e il contratto terapeutico, a cui si dà molta importanza nell’ACT. Si introduce anche la Disperazione Creativa, che motiva ed è alla base del processo di cambiamento.

Nella seconda sessione si valuta il funzionamento del paziente e si approfondisce la Disperazione Creativa con ulteriori metafore ed esercizi.

Nelle sezioni terza e quarta si affronta il problema del controllo delle emozioni di ansia e colpa tipiche del disturbo in oggetto e si propongono come alternative la disponibilità, l’accettazione e l’azione impegnata.

Nelle sessioni 5 e 6 si lavora sul Sé come contesto e sulla defusione dai pensieri ossessivi.

Si conclude il protocollo con le ultime 2 sessioni che agiscono principalmente sull’individuazione dei valori del paziente e come tradurli in azioni impegnate.

Conclusioni

Un manuale molto pratico e funzionale per i terapeuti ACT che vogliono trattare il disturbo ossessivo compulsivo in maniera semplice ed efficace.

 

I Disturbi di Personalità nella Coppia

In base ai criteri diagnostici consultabili nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, sembra che i soggetti affetti da dei disturbi di personalità possano avere difficoltà a seguire i princìpi che contribuiscono alla soddisfazione di coppia.

 

I conflitti tra partner sono i fattori più comuni di scompenso dei disturbi della personalità (South et al. 2008). Kasalova e colleghi (2018) hanno svolto una revisione narrativa incentrata proprio sul tema del disturbo di personalità nella relazione amorosa, scoprendo che la personalità gioca un ruolo fondamentale nella soddisfazione per la coppia, ovvero nella valutazione soggettiva della qualità della relazione. Terman e collaboratori (1938) scoprirono che alcuni tratti della personalità possono impedire il raggiungimento della soddisfazione nelle relazioni, che, secondo la ricerca transculturale, è influenzata da quattro fattori: socievolezza, affidabilità, capacità di accordo e reciprocità (Humbad et al. 2010).

In base ai criteri diagnostici dei disturbi di personalità consultabili nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA 2013), si può confermare che i soggetti affetti da queste psicopatologie possono avere difficoltà a seguire i princìpi che contribuiscono alla soddisfazione di coppia. Questi soggetti, infatti, differiscono dalla popolazione generale per comportamento (fonte di problemi interpersonali), processi cognitivi disadattivi (rigidità verso sé e gli altri e distorta comprensione della realtà) e reazioni emotive (affetti eccessivi e duraturi o affettività diminuita) (APA 2013). Questi modelli sono stabili e pervasivi, si manifestano indipendentemente dal contesto e di solito sono congruenti con le strutture interne (Fonagy & Luyten 2012). L’associazione tra coppia disfunzionale e disturbi di personalità può avere la base nell’insufficiente comprensione del comportamento del partner. In effetti, le persone con disturbi di personalità possono sperimentare numerose interpretazioni errate, conversazioni spesso scorrette, e possono anche essere maggiormente predisposte ad aggressioni verbali e fisiche, conflitti che originano dalla loro relazione con il mondo.

Fino ad ora questo articolo ha trattato i disturbi di personalità nell’insieme, ma scendendo nel dettaglio, quali possono essere i pensieri disfunzionali relativi a ciascun disturbo di personalità che portano a conflitti nella coppia? Kasalova e collaboratori hanno creato a partire dalla loro review dei modelli che racchiudono esempi di come il disturbo di personalità può generare conflitto nella relazione. Questi modelli sono composti da: pensieri su sé e sugli altri, comportamenti tipici, e reazioni frequenti del partner.

  • Il disturbo paranoide può presentare due opposte tipologie di pensiero riferite a sé: “Sono vulnerabile” oppure “Sono forte”. La conseguente attitudine nelle relazioni con gli altri sottintende il pensiero “Le altre persone sbagliano, quindi se sono attento posso difendermi”, e i comportamenti associati a questo pensiero sono vigilanza e sospettosità. A ciò i partner possono reagire con distacco o con preoccupazione/rabbia per la sospettosità.
  • Al disturbo schizoide possono sottostare diverse credenze, come “Sono una persona solitaria” o “Sono auto-sufficiente”, e “Gli altri non hanno nulla da offrirmi”. I conseguenti comportamenti disfunzionali possono essere distacco e disimpegno, a cui possono conseguire azioni del partner mirate al rafforzare la comunicazione, talvolta facendo pressioni e stabilendo regole.
  • I due poli del pensiero antisociale possono essere “Sono solo e vulnerabile” e “Sono forte e intelligente”. I soggetti con disturbo antisociale sono inclini a credere che gli altri potrebbero sfruttarli o abusare di loro, per cui tendono ad agire con comportamenti caratterizzati da manipolazione e attacco/lotta. I loro partner spesso si adattano a queste condotte con rassegnazione, mettendosi al servizio dell’altro o, talvolta, tentando si correggerli e moralizzare.
  • I soggetti con disturbo borderline hanno spesso pensieri di colpa, vulnerabilità e inaiutabilità che possono rispecchiarsi con il pensiero “Gli altri potrebbero tradirmi o lasciarmi, quindi non posso fidarmi”. I comportamenti correlati variano tra enfatizzazione della propria forza, attacco, rassegnazione, confronto, fino alla richiesta di fiducia dagli altri. Il partner solitamente risponde a questi comportamenti con critica/azioni rabbiose/rigetto, o con rassegnazione.
  • Il disturbo istrionico può avere due tipi di credenze centrali: “Sono niente” oppure “Sono grandioso”. Conseguentemente, i pensieri sugli altri possono essere “Gli altri non mi apprezzeranno” oppure “Le persone che mi circondano/mi ammirano sono qui per servirmi”. I loro comportamenti sono caratterizzati da esagerazione, provocazione, drammatizzazione e manipolazione. Il partner può ironizzare assoggettandosi ai modi di fare grandiosi ed egocentrici o reagire minimizzando le reazioni emotive, rischiando talvolta di infliggere attacchi verbali o fisici.
  • “Il mio mondo non può sfuggire al controllo”. Questa è una delle credenze centrali più diffuse nel disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Queste persone criticano l’irresponsabilità altrui, tendendo spesso a moralizzare, controllando rigidamente. I partner potrebbero ribellarsi a queste rigidità per sottrarsi alle regole, abbandonando le responsabilità, provocandoli e, talvolta, forzandoli ad esprimere emozioni.
  • Il disturbo evitante di personalità presenta i caratteristici pensieri “Sono indesiderato/ incompetente/socialmente impacciato” e “Gli altri mi rifiuteranno”, a cui seguiranno comportamenti di evitamento e chiusura. I partner possono rispondere a questa condotta perseverando nell’incoraggiarli ad aprirsi. A questi tentativi spesso seguono emozioni di rimorso e pentimento.
  • Nel disturbo dipendente il pensiero più frequente è “Sono debole e indifeso, ma gli altri potrebbero prendersi cura di me”. Queste persone cercano quindi il contatto e l’aiuto degli altri, creando relazioni basate sulla dipendenza. Il partner sfoggia spesso un comportamento dominante, rigettando le espressioni di dipendenza, a volte con comportamenti aggressivi.
  • I due pensieri opposti alla base del disturbo narcisistico sono: “Sono inferiore agli altri” e “Sono migliore degli altri”. La competitività può essere la loro migliore arma, alimentata dall’enfasi su loro stessi. I partner possono ammirarli e sottomettersi ad essi, così come criticarli e deriderli, lottando per la propria importanza.
  • “Io sono autosufficiente, ma vulnerabile”. Questo l’esempio di credenza alla base del disturbo passivo-aggressivo, al quale conseguono pensieri come “Gli altri controllano/ interferiscono/ sono dominanti.” Le strategie comportamentali da loro utilizzate oscillano tra passività e sabotaggio. Durante le liti i loro partner solitamente propongono compromessi, seppur con criticismo e talvolta con picchi di rabbia. In certi casi rispondono semplicemente con rassegnazione (Kasalova et al., 2018).

Per comprendere a fondo le dinamiche di tali relazioni, è essenziale esaminare i tratti di personalità. La comprensione dei modelli disadattivi nel contesto della relazione potrebbe essere vantaggiosa per entrambi i partner. Sottovalutare l’influenza del disturbo di personalità sulla relazione amorosa può compromettere in modo significativo la possibilità di creare e mantenere la qualità della partnership, o addirittura danneggiare la relazione. Qualora la coppia dovesse presentare problematiche che causano disagio, è importante rivolgersi ad un professionista del settore psicologico.

 

Pensare ai pensieri: le metacredenze nel disturbo bipolare – Il secondo episodio di The Journal Club

The Journal Club, la webserie organizzata da Studi Cognitivi per discutere e approfondire le novità dal panorama scientifico internazionale, ora in esclusiva per i lettori di State of Mind.

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “The Journal Club”, un ciclo di appuntamenti per approfondire e discutere insieme le novità dal panorama scientifico internazionale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, hanno commentato l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del secondo episodio della serie dedicato alle metacredenze nel disturbo bipolare. Ospite della puntata, il Dott. Ettore Favaretto.

 

PENSARE AI PENSIERI: LE METACREDENZE NEL DISTURBO BIPOLARE

Metacognizione nei disturbi d’ansia e nei disturbi depressivi: analisi comparativa delle tipologie delle credenze e del loro ruolo nel mantenimento di questi disturbi

Le modalità di pensiero ripetitivo maggiormente studiate, e che alla lunga provocano ripercussioni sullo stato emotivo e comportamentale, sono il rimuginio e la ruminazione, innescati e tenuti attivi da credenze metacognitive. Essi sottendono pattern emozionali come ansia e depressione.

Andrea Coluccia – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Ad alcune persone succede di restare invischiate in meccanismi di ricorsività del pensiero, come rimuginio e ruminazione, innescati e tenuti attivi da credenze metacognitive. Nonostante siano spesso indicativi di alcuni disturbi, come ansia e depressione, le persone ritengono che questi stili di pensiero, ripetitivi e persistenti, siano spesso positivi e utili ad affrontare eventi problematici, senza riuscire a soffermarsi sulla loro pericolosità e incontrollabilità, ovvero sulla loro natura negativa.

La metacognizione è un concetto complesso che in clinica è stato definito da diversi autori, tra cui Semerari (1999), Wells e Purdon (1999).

Il primo la definisce come l’insieme delle abilità che ci consentono di riconoscere i propri ed altrui stati mentali, riflettere su di essi e saperli padroneggiare. Da Wells e Purdon (1999) invece non è vista come abilità o funzione, bensì come l’insieme dei fattori che governano la valutazione, il monitoraggio e il controllo delle cognizioni. Tali fattori si possono dividere in credenze, esperienze e strategie.

Wells spiega tale concetto servendosi di una metafora: in un concerto, l’orchestra che lo esegue comprende diversi strumenti e musicisti e, affinché il tutto risulti armonico, sono necessari una partitura e un direttore. La metacognizione rappresenta sia la partitura che il direttore, nonché la cognizione sulla cognizione, o più semplicemente il “pensiero sul pensiero”. Il significato di metacognizione, attraverso le teorie e gli studi che lo hanno trattato, è diventato maggiormente ampio ed integrato, ribadendo come possa rappresentare una vasta gamma di abilità. Alla luce di ciò, diviene una chiave interpretativa per diverse problematiche che tendono a presentarsi sia in età evolutiva sia in età adulta come i disturbi depressivi e i disturbi d’ansia.

Il ruolo delle credenze metacognitive nella ricorsività del pensiero

Quando si parla di credenze metacognitive o metacredenze si fa riferimento alle informazioni rispetto al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping utilizzate. Esse rappresentano le conoscenze che le persone hanno della propria mente, dei suoi prodotti (pensieri ed emozioni) e delle sue funzioni (attenzione e memoria) (Wells, 2000). Queste conoscenze, che possono essere di natura esplicita o implicita, costituiscono la guida per l’elaborazione delle informazioni e quindi per la reazione ai propri stati interni.

Le credenze metacognitive hanno un ruolo preponderante nei meccanismi di ricorsività del pensiero, grazie alla tendenza dell’individuo a considerarli sia negativamente che positivamente. Le persone ansiose credono, ad esempio, che il rimuginio sia utile per risolvere una situazione problematica o per anticiparne le conseguenze; ne soffrono tuttavia, anche perché sono convinte che non sia possibile interromperlo, percependolo come un automatismo al di fuori del proprio controllo.

Lo stesso meccanismo si applica per la ruminazione: le persone che sviluppano un disturbo depressivo e che tendono a utilizzare questo stile di pensiero, nutrono delle credenze metacognitive positive circa la ruminazione stessa, rispetto cioè alla sua utilità come strategia di regolazione emotiva, di pianificazione di azioni volte alla soluzione di un problema e di riflessione sulle cause di un evento passato o sul proprio stato d’animo.

Le credenze metacognitive negative comprendono l’incontrollabilità, la pericolosità, l’importanza e il significato attribuito ai pensieri o alle emozioni: “se sono in ansia, allora sono davvero in pericolo”, ad esempio, nel caso dei disturbi d’ansia; “se ho pensieri di questo tipo, sono una persona orribile e non piacerò mai a nessuno”, nel caso dei disturbi depressivi. Da Wells e Matthews (1994) e da altri autori successivamente, questi stili di pensiero sono considerati determinanti nel persistere di emozioni negative, motivo per cui molte persone restano imprigionate in un vortice di sofferenza emotiva.

Questi aspetti spiegano la concatenazione di passaggi che portano al mantenimento di certi disturbi, soprattutto di carattere ansioso e depressivo.

Rimuginio e ruminazione alla base dei disturbi depressivi e ansiosi

Le modalità di pensiero ripetitivo maggiormente studiati, e che alla lunga provocano ripercussioni sullo stato emotivo e comportamentale, sono il rimuginio e la ruminazione. Essi sottendono pattern emozionali come ansia e depressione.

Il rimuginio è principalmente legato all’ansia; è caratterizzato dalla presenza ciclica di una serie di pensieri considerati incontrollabili e intrusivi, focalizzati su contenuti catastrofici di possibili eventi futuri. Esso diviene un elemento di mantenimento tanto più difficile da eliminare quanto più la persona ha metacredenze positive, come pensare che rimuginare aiuti a risolvere i problemi, prepararsi al peggio, o riduca la probabilità che accada l’evento temuto.  Coloro che rimuginano sono inclini a sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti, per questo utilizzano il rimuginio come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento futuro temuto.

Borkovec (1994) mette in evidenza che il non riscontrare le conseguenze temute finisce per determinare, tuttavia, il rinforzo di tale processo di pensiero.

La ruminazione è principalmente legata alla depressione, è caratterizzata da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative (Ruggiero & Sassaroli, 2013).

E’ una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo (Nolen-Hoeksema, 1991), rivolto al passato e legato alla perdita di qualcosa di importante. Inizialmente la persona rumina perché crede che possa servire a gestire una serie di accadimenti negativi, quindi la considera un metodo efficace per controllare la propria tristezza.

Secondo Wells (2009) questa strategia peggiora nel tempo l’intensità dello stato d’animo negativo, induce ad un maggiore abbassamento dell’umore, fino al crearsi di una distorsione negativa della percezione di sé stessi, ma anche dell’ambiente circostante, contribuendo quindi all’amplificazione dei pensieri negativi automatici.

I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e del suo aggravamento.

Principali tipologie di metacredenze nel mantenimento di ansia e depressione

Secondo la terapia metacognitiva dei disturbi psicologici, nel mantenimento delle sintomatologie ansiogene e depressive, vi sono principalmente due tipi di credenze metacognitive: le credenze esplicite e le credenze implicite.

Le credenze esplicite o dichiarative sono quelle che possono essere espresse verbalmente: “se mi preoccupo tanto può venirmi un attacco di cuore” oppure “se mi focalizzo tanto su una situazione di pericolo riuscirò ad evitare un danno”.

Questa tipologia di credenze tende ad essere particolarmente presente nei disturbi d’ansia rappresentando un significativo fattore di mantenimento, che si manifesta attraverso “il circolo vizioso dell’ansia”.

Le credenze esplicite hanno un ruolo attivo nella rappresentazione di situazioni catastrofiche che alcuni individui pensano potrebbero capitare in futuro, divenendo in seguito elementi di rimuginio che rafforzano la presenza del disturbo, e tendono a innescarsi la maggior parte delle volte in modo del tutto automatico (Wells, 2008).

Secondo Mancini (2010) e molti terapeuti, nei disturbi d’ansia si innesca un altro tipo di ragionamento, anch’esso automatico, che si attiva in seguito alla valutazione di un evento vissuto come minaccioso chiamato Better Safe than Sorry, ovvero ‘Meglio allarmarsi che non allarmarsi affatto’ e il cui scopo è quello di evitare errori di sottovalutazione del pericolo, e pertanto viene privilegiata la focalizzazione dell’ipotesi di pericolo, e che finisce per rinforzare lo stato patologico.

Le credenze implicite o procedurali rappresentano invece degli stili di pensiero che portano le persone ad influenzare le proprie esperienze di vita presenti e future, utilizzando una valutazione negativa delle situazioni passate.

Queste credenze metacognitive fanno sì che la persona reagisca negativamente alla sofferenza, di natura spesso depressiva, cronicizzando il tema doloroso, ovvero lo stato mentale doloroso, appreso nella storia di vita e che è considerato intollerabile: ad esempio “se mi è successa questa cosa così brutta, è normale che stia così male ed è giusto che nessuno mi voglia bene”.

Costituiscono un circolo negativo, ripetitivo e rimuginativo di pensieri (Repetitive Negative Thinking) che si autoalimenta e rafforza la sintomatologia per due motivi: esso è erroneamente concepito come un piano funzionale di fronteggiamento dei propri problemi, oppure è ritenuto incontrollabile, più forte della stessa volontà esecutiva ( Wells, 2004).

Sindrome cognitivo attentiva nei disturbi d’ansia e depressivi

Una delle caratteristiche principali dei disturbi psicologici come ansia e, soprattutto, depressione, è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare e tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi.

Secondo Wells (2000), questa modalità di funzionamento viene definita Sindrome Cognitivo-Attentiva (cognitive attentional syndrome o CAS) che consiste in una modalità disfunzionale per elaborare le informazioni e comprende stili di pensiero perseveranti (per esempio rimuginio e ruminazione), ipermonitoraggio attentivo (per esempio  attenzione focalizzata sulle proprie sensazioni corporee o sul giudizio degli altri), comportamenti di rassicurazione o evitamenti e tecniche di controllo dei pensieri (per esempio distrazione o giustificazione). Questi processi costituiscono strategie personali che le persone adottano per affrontare le minacce percepite e sono sostenuti da una costante preoccupazione anticipatoria che qualcosa di brutto stia per succedere (Sassaroli, 2018).

La CAS è sostenuta dalle metacognizioni, ovvero “pensieri su pensieri” e dal momento che queste includono distorsioni metacognitive (rimuginio e ruminazione), disturbi come ansia e depressione si rafforzano nel tempo anziché essere transitori.

Nella depressione, infatti, i pensieri derivati dalla CAS tendono a sostenere l’umore negativo, in quanto una persona può pensare a tutte le passate situazioni in cui è apparsa inadeguata, oppure può monitorare ogni comportamento altrui che potrebbe anche solo ipoteticamente essere segnale di scarsa considerazione e affetto nei propri confronti.

Quando è innescata, quindi, la CAS diventa particolarmente problematica perché:

  • mantiene vivi i pensieri e le emozioni negative, rendendoli persistenti;
  • impedisce di modificare i pensieri negativi su di sé, ma al contrario li rinforza;
  • aumenta l’accesso di informazioni negative e con esso anche la frequenza dei pensieri negative su di sé.

D’altra parte, la componente di “monitoraggio della minaccia” della CAS fa sì che l’attenzione si focalizzi sulle principali fonti di pericolo risultando un fattore di mantenimento per i disturbi d’ansia.

Ciò rappresenta un problema in quanto accresce il senso soggettivo di pericolo, aumentando e rappresentando un fattore di mantenimento dell’emozione negativa e facendo sì che la persona vada in cerca di eventuali segnali minacciosi in modo ancora più scrupoloso, portando anche a disturbi di tipo ossessivo.

Wells (2008) evidenzia come focalizzare l’attenzione in tal modo abbia effetti molto negativi dal momento che inasprisce e perpetua la depressione, in quanto la persona tenderà a richiamare alla mente solo informazioni negative su di sè e sull’ansia, poiché i “preoccupati cronici” continueranno a preoccuparsi per mantenere uno stato di allerta che permetta loro di riuscire a cavarsela in futuro, rafforzando in tal modo le credenze metacognitive negative. La terapia metacognitiva, che sviluppa protocolli di intervento per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione, considera quindi, come maggiore aspetto problematico della CAS, le metacognizioni e le credenze metacognitive che vengono a crearsi, suggerendo delle forme di intervento specifiche e risolutive.

La terapia metacognitiva come nuova forma di intervento

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici.  Questa terapia si pone come primo obiettivo di rimuovere la CAS, riportandola sotto il controllo cosciente, aiutando i pazienti con ansia e depressione a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso differenti e funzionali modalità di controllo dell’attenzione, modificando regole metacognitive controproducenti.

Per questo, la Terapia Metacognitiva agisce aiutando a rivalutare la natura stessa delle preoccupazioni, a prescindere dal loro contenuto e aiutando la persona a capire che tutte le preoccupazioni sono uguali e che la loro comparsa nella mente è solo un evento passeggero.  Di fatti, non significa che un pericolo sia imminente o probabile per il fatto stesso che ci è venuto in mente, per quanto riguarda i disturbi d’ansia, o che eventi negativi successi in passato debbano influire in modo persistente e significativo sugli stati d’animo e sui pensieri presenti, per quanto riguarda i disturbi depressivi.

Secondo Wells (2008), in tal modo la persona impara a relazionarsi in modo differente e più distaccato dai propri pensieri e dalle proprie preoccupazioni, così da:

  • Identificare innanzitutto pensieri ripetitivi negativi e credenze disadattive.
  • Mettere in dubbio l’utilità, l’importanza e il significato che viene dato ad essi, prendendo consapevolezza delle conseguenze a livello emotivo, di natura ansiosa e depressiva che finiscono per provocare e mantenere la sofferenza psicologica.
  • Sostituire questi pensieri e credenze con stili di pensiero più vicini alla realtà e più utili per raggiungere i propri obiettivi, emozioni più adattive, interrompendo così il circolo vizioso che mantiene ansia e depressione.

Le tecniche principali consistono in esercizi cognitivi, con cui il terapeuta aiuta il paziente a riflettere e riconoscere quali possono essere le strategie per regolare le proprie preoccupazioni e pensieri, interrompendo stili di pensieri e credenze non adattive, che tendono a mantenere e intensificare la sofferenza emotiva.

 

La censura sui social network per il benessere psicologico e sociale

A partire dal concetto di “influenza sociale”, si cerca di spiegare in che modo determinati contenuti diffusi liberamente sui social network possano diventare pericolosi fino anche ad innescare possibili reazioni violente.

 

Ha fatto molto discutere, nei giorni scorsi, la scelta operata da Twitter di sospendere l’account personale di Donald Trump, in seguito alle sue ultime dichiarazioni riguardanti i tragici fatti di Capitol Hill.

Precedentemente anche Facebook aveva provveduto a fare la stessa scelta e ciò ci dovrebbe permettere di compiere una riflessione seria sul ruolo dei social network sulla nostra società, in quanto il problema non si basa sul caso specifico, piuttosto, sulla necessità di una regolamentazione di questi strumenti che sono così determinanti nella formazione dell’opinione pubblica.

In assenza di regole predeterminate e condivise, ogni piattaforma si autoregolamenta come ritiene più opportuno, con i pericoli che ne conseguono, anche perché, queste piattaforme, sono molto potenti e in grado di “manipolare” il nostro modo di pensare, esattamente come qualunque altro tipo di mass media.

In questo articolo, a partire dal concetto di “influenza sociale”, cercherò di spiegare in che modo determinati contenuti diffusi liberamente, possano diventare pericolosi fino anche ad innescare possibili reazioni violente.

Il fenomeno dell’influenza sociale ha cominciato a incuriosire gli studiosi all’inizio del secolo scorso, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando si cominciò a chiedersi come fosse stato possibile che intere popolazioni abbiano potuto condividere ideali perversi e intenzioni distruttive appartenenti, inizialmente, a poche altre persone.

Lo studio dell’influenza sociale esplora le modalità con cui i processi mentali, le emozioni e i comportamenti degli individui (o dei gruppi) sono modificati dalla presenza, effettiva o simbolica, di altri individui (o gruppi).

Influenzare deriva dal latino influere che significa “fluire, scorrere dentro”, termine che descrive perfettamente l’idea di ciò che potrebbe accadere durante un processo di influenza, sia a livello individuale, che a livello sociale.

L’informazione, quindi, è come un’energia che fluisce, che penetra, che coinvolge e può avvicinare o allontanare le persone.

Oggi siamo così pienamente circondati e condizionati dall’informazione che l’attenzione verte necessariamente sul mondo virtuale e, in particolare sui post che vengono divulgati nei vari social network.

Occorre considerare che una delle più comuni accezioni che si possono riscontrare nella letteratura scientifica, ma anche nel linguaggio comune, è quella di “potere”, ovvero, influenzare significa anche esercitare un potere su un ipotetico bersaglio.

Per “potere” intendiamo la capacità di far fare a qualcun’altro (o ad altri) quello che vogliamo, ossia la capacità di interferire nella sua volontà e di spingerlo attraverso la nostra.

Nel 1955 Katz e la Lazarsfeld effettuarono una ricerca sulla funzione svolta dai leader d’opinione su scelte di vario tipo che evidenziò come i media, con le loro modalità persuasive, non erano in grado, però, di indurre un cambiamento di atteggiamento o di idee, ma risultavano efficaci unicamente come rinforzo di convinzioni e scelte già precedentemente acquisite.

Partendo dal presupposto che le qualità positive e negative dell’essere umano possono essere sia stimolate, che represse, deduciamo allora che qualsiasi rinforzo appositamente studiato può influire su un soggetto e rinforzare le sue qualità (positive o negative) anche in modo automatico, cioè senza trovare da parte sua, alcuna resistenza.

Gli orientamenti più recenti sottolineano, insieme all’idea del rinforzo, anche quello della quantità di comunicazione a cui un soggetto si trova esposto, di conseguenza più una persona osserva certi tipi di messaggi (alla televisione, sui giornali, su internet…) e maggiore sarà l’influenza dei media sul suo modo di pensare.

Una grande quantità di messaggi violenti, a cui oggi siamo continuamente esposti, ha un effetto negativo, come di risonanza, in quanto richiama automaticamente in noi ciò che potrebbe essere in sintonia con questi contenuti.

Difficilmente possiamo dimostrare, in maniera scientifica, se gli individui violenti siano attirati da contenuti violenti (tramite post, programmi televisivi, etc…) o se, invece, i contenuti violenti inducano essi stessi comportamenti di tipo violento.

Stabilire la direzione causale di tale relazione non è semplice, ma i due fenomeni non si escludono a vicenda.

Anche se possiamo ammettere che un po’ di violenza sia presente in ognuno di noi, probabilmente gli individui che risultano più violenti sono attirati da messaggi violenti, i quali alimentano e stimolano la loro violenza interiore in vari modi.

L’esposizione e la relativa osservazione di alcuni tipi di contenuti porta a vivere su di sé ciò che viene trasmesso o divulgato dai mass media, di qualunque cosa si tratti: a chiunque di noi è capitato di rimanere colpito, in modo più o meno ossessionato, dopo aver guardato un certo tipo di programmi televisivi o dopo avere letto determinati post sui social network.

Negli anni ’60 Bandura, insieme ad alcuni suoi colleghi, ha formulato la teoria dell’apprendimento sociale, secondo la quale l’aggressività, quale comportamento sociale, viene acquisito e mantenuto solo a determinate condizioni.

Anche se questa teoria trasferisce la responsabilità del comportamento aggressivo all’ambiente, ovvero ad una situazione esterna, piuttosto che all’individuo, certamente l’osservazione di un comportamento aggressivo, più è in grado di produrre i risultati sperati e più aumenta la probabilità che l’osservatore adotti quel tipo di comportamento in situazioni analoghe.

E’ lecito augurarsi, tuttavia, che l’osservatore voglia adottare quel comportamento perché è in sintonia con ciò che egli prova nel profondo, altrimenti la speranza è che rimanga un semplice osservatore, probabilmente contrariato, se non addirittura disgustato da ciò che ha osservato.

Noelle – Newman (1974; 1984) infine, ha formulato la teoria della spirale del silenzio, secondo la quale i media sono uno strumento attraverso cui l’opinione pubblica – o ciò che dovrebbe diventare l’opinione pubblica – esercita una pressione al conformismo, mettendo a tacere le posizioni minoritarie.

Grazie a questa teoria osserviamo, infatti, che coloro che non condividono determinati messaggi precedentemente divulgati, tendono ad autocensurarsi per paura di essere considerati diversi e di rimanere soli.

La tendenza all’imitazione, che non riguarda solo i bambini, ma anche noi adulti, è un aspetto non trascurabile che, di fatto, alimenta e sostiene tutto questo processo, dimostrando ogni giorno, sempre di più, l’enorme potenza che hanno i modelli negativi, trasmessi dai mass media, sulle persone coinvolte.

 

Madri narcisiste: come difendersi da una madre narcisista e guarire dal C-PTSD (2020) – Recensione

Nel libro Madri narcisiste l’autrice passa in rassegna le tipologie di madre narcisista per poi proporre le soluzioni che consentono in qualche modo di proteggersi.

 

‘E’ sempre tua madre, devi perdonarla!

Quante volte sarà capitato di sentire pronunciare questa frase in seguito ad una discussione tra genitore e figli. Ma è davvero sempre questa la modalità giusta di superare uno scontro che finisce così da divenire quasi una giustificazione a un comportamento genitoriale, che in alcuni casi risulta poco aderente al ruolo di chi dovrebbe accudire e amare incondizionatamente?

Madri narcisiste è un testo che induce ad affrontare e superare un radicato tabù quale è quello della figura materna dotata di connotazione positiva sempre e comunque, a prescindere dalla realtà che spesso si caratterizza di vissuti inerenti il rapporto madre- figlio tutt’altro che idilliaci. Infatti i figli spesso sono vittime di madri narcisiste che sono abili a costruire una falsa immagine di famiglia perfetta, così come viene vista dall’esterno.

L’autrice del testo invita a riflettere sulla sofferenza causata da una famiglia disfunzionale nella quale vive una figura predominante come sa essere un genitore narcisista, che genera traumi perpetrati nel tempo, danneggiando lo sviluppo emotivo e psicologico dei figli, vittime di tali vissuti e che difficilmente senza un adeguato supporto psicoterapeutico potranno affrontare e superare tali dolorose ferite interne. Pertanto il libro si divide in 4 capitoli.

Il primo più descrittivo definisce il problema della patologia narcisista nelle sue caratteristiche distintive, le tipologie oggi individuate (overt e covert, esteso quest’ultimo su tre livelli di progressiva gravità: introverso ipersensibile, inquisitore rancoroso e vendicatore punitivo), le strategie manipolatorie messe in atto (trattamento del silenzio come forma di controllo sull’altro che soffre per la mancata attenzione rivoltagli dalla persona narcisista; il vittimismo per fare leva sull’empatia dell’altro; beffe, umiliazione pubblica e critiche; lotta di potere; manipolazione; uso della paura e intimidazione sulla vittima per indurla a fare una scelta a vantaggio del narcisista; uso inappropriato della segretezza su informazioni che potrebbero far decadere l’immagine di perfezione che il narcisista ha costruito intorno a sé e fatta passare per rispetto della privacy, mentre l’unico intento reale è quello di nascondere qualcosa di qualunque genere). L’autrice fa anche riferimento al Gaslighting come sottile strategia manipolatoria messa in atto dal narcisista, con il solo intento di indurre la sua vittima a confonderla a tal punto da dubitare di sé, della propria percezione rispetto ai vissuti della realtà, persino arrivare a dubitare della propria sanità mentale; il narcisista così facendo destabilizza profondamente la vittima che, minata nell’autostima, diviene sempre più controllabile. Viene inoltre descritta la componente del ‘doppio legame’ del Gaslighting, che chiaramente è ravvisabile nel comportamento di quella madre che richiede l’abbraccio al proprio figlio e che si irrigidisce nell’atto del contatto fisico, trasmettendo una freddezza colta dal figlio, il quale si ritrae dal gesto affettuoso richiesto e che viene immediatamente accusato di non essere amorevole. È il classico esempio di un legame che induce il narcisista a lanciare due messaggi opposti (implicito ed esplicito), per cui qualunque cosa l’altro dica o faccia sarà sempre sbagliato.

Interessante in questo primo capitolo è sicuramente la descrizione del genitore narcisista, di cui l’autrice delinea due tipologie: l’invadente ovvero il genitore fisicamente sempre presente nella vita del proprio figlio ma emotivamente assente, in quanto il figlio non rappresenta altro che una estensione del sé del genitore, che impone costantemente la sua volontà schiacciando i bisogni del bambino, minandone la crescita individuale e impedendogli così di sperimentare l’autonomia; il trascurante ovvero quel genitore che non si occupa realmente del bambino ma lo usa per motivi di vantaggio economico, in tal modo il figlio sperimenta abbandono, trascuratezza, ansia che difficilmente trova conforto e riceve come unica attenzione la rabbia del genitore a cui si abitua e che riconosce come unica emozione dotata di senso.

L’autrice inoltre, offre spunti di riflessione ai lettori sulla ricerca di eventuali relazioni genitoriali abusanti, permettendo di riconoscere l’aver avuto o meno un genitore narcisista osservando determinati comportamenti come ad esempio la colpevolizzazione, l’amore condizionato, l’invadenza, la gelosia, il prendersi pubblicamente il merito per i successi dei figli, la mancanza di empatia, l’infantilizzazione che è legata ad una continua svalutazione da parte del genitore, per convincere il figlio di non essere in grado di badare a se stesso, ottenendo in tal modo un personale appagamento dalla continua richiesta di aiuto da parte del figlio dipendente.

Nel secondo capitolo, la Foster si addentra nel vivo del tema con cui ha intitolato il suo libro, ovvero quello delle madri narcisistiche, sostenendo infatti che la riconoscibilità di una madre di questo tipo non deriva solitamente da una diagnosi vera e propria, bensì la si può individuare ugualmente per la scia di distruzione e di giochi mentali che subdolamente causano conflitti familiari. Ma una madre narcisista può davvero da sola incidere a tal punto da determinare dinamiche che potremmo definire tossiche, senza l’aiuto di quelli che l’autrice chiama gli ‘abilitanti’? Questi ultimi (enablers) sono le persone che supportano il narcisista divenendo inconsapevolmente complici di un comportamento problematico, rimuovendo gli ostacoli che invece impedirebbero al narcisista di agire e lasciare che il figlio- vittima ne subisca le conseguenze devastanti. Perlopiù si tratta di quei padri che tendono a giustificare il comportamento della madre narcisista e che tentano di salvarla dai disastri che provoca. Come osserva l’autrice: “un narcisista non può esistere da solo, ci sono sempre persone che lo sostengono”. Queste persone solitamente nel caso specifico della donna narcisista, sono padri abilmente e astutamente scelti come compagni, che ignorano gli abusi e che possono essere in qualche modo controllati, in quanto ad esempio sono persone che temono di perdere qualcosa (soldi, status sociale ecc). Altrettanto deleterio è il fatto che la madre narcisista, come ci spiega la Foster, assegni dei ‘ruoli’ ai suoi figli, il che ha degli effetti terribili su di loro. Esiste un ‘figlio d’oro’ che costituisce nell’immaginario materno la rappresentazione del sé idealizzato della madre; un bambino ‘capro espiatorio’ ovvero quel bambino che non è mai abbastanza per lei e che sarà destinato ad essere continuamente svalutato qualunque cosa faccia e il bambino ‘invisibile’ che ovviamente sarà molto trascurato, i cui bisogni non verranno mai presi in considerazione.

Dopo aver passato in rassegna le tipologie di madre narcisista (la madre gravemente narcisista overt; la madre narcisista gravemente sadica e la madre invischiata), l’autrice propone successivamente nel terzo capitolo, le soluzioni che consentono in qualche modo di proteggersi da una madre narcisista. Prima di tutto, occorre assumersi la responsabilità di voler vedere una realtà che purtroppo provoca sofferenza, superando la forzata visione idilliaca infantile di una madre che invece si deve ammettere essere tossica. Per fare ciò, bisogna entrare in contatto con la parte adulta del proprio sé e prendere il controllo sul bambino che è insito in ogni figlio che abbia subito tali abusi e che si ostina a non arrendersi all’evidenza. Il secondo passo proposto è quello di cercare di informarsi il più possibile sui disturbi mentali, affinché si possa individuare il tipo di narcisista con cui si ha a che fare, conoscerne le strategie mentali di cui si parlava in precedenza, alleviare la solitudine confrontandosi eventualmente con altre persone che vivono la medesima esperienza relazionale. Per guadagnarsi la libertà da una madre narcisista, è necessario stabilire dei limiti, cosa che costituisce in realtà la soluzione più difficile da realizzare, in quanto spesso ciò si traduce nella interruzione dei rapporti con la persona abusante, non tenerla più al corrente di ciò che riguarda la propria vita, affinché lei non possa più usare dei dettagli personali a suo vantaggio per svalutare, perseguitare e umiliare. Concentrarsi quindi solo su se stessi può essere un primo passo per conservare energie che la relazione tossica sottraeva alla propria realizzazione personale. L’autrice inoltre, sottolinea quanto sia importante ravvisare nella propria interiorità dei residui dell’influenza della madre narcisista, cercando di cogliere modi di pensare disfunzionali a cui si è stati esposti a lungo ed eventualmente correggerli.

In conclusione la Foster analizza il complesso disturbo da stress post traumatico- complesso (C-PTSD), comprensibilmente risultante dall’esposizione prolungata a traumi continui, caratterizzato da sintomi quali flashback emotivi, critica interiore e ansia sociale, auto-abbandono, vergogna patologica. Ma guarire si può, innanzitutto rivolgendosi ad uno psicoterapeuta che accompagni in un percorso faticoso ma doveroso per se stessi e in secondo luogo, ma non meno importante, è l’autoriparazione, che implica il diventare genitore di se stessi (reparenting), strategia che aiuta a superare i danni derivati da un genitore trascurante/o abusante. La domanda è: come si può divenire un buon genitore se le proprie esperienze vissute non hanno consentito di interiorizzare una sana e valida figura genitoriale? L’autrice ci mostra come sia possibile ciò, entrando in contatto con la parte di sé che avverte le mancanze di accudimento e di cui si necessita. In secondo luogo, la disciplina che non è stata impartita dal genitore narcisista va autodeterminata in seguito, affinché si possa essere in futuro un buon genitore disciplinante per i propri figli.

Sembra palese che l’autrice intenda spronare i suoi lettori a fare un passo avanti rispetto ad un passato nel quale non si può rimanere intrappolati per l’intera propria esistenza, il lavoro di guarigione perciò potrà avvenire in primis se si instaura un rapporto di affetto con se stessi, consapevolmente accettando la propria madre per ciò che è stata, e sradicandosi dalla dipendenza affettiva che ha caratterizzato la prima relazione significativa.

Consigliato quindi ad un pubblico variegato sia specialistico, che intenda approfondire le caratteristiche della patologia di cui si parla ampiamente nel libro, sia meno esperto, in quanto l’autrice espone ogni definizione teorica con esempi di facile comprensione, offrendo ai suoi lettori la possibilità di affrontare consapevolmente gli abusi perpetrati dalle loro madri narcisistiche, qualora si riconoscano nelle dinamiche descritte.

 

 

Gelosia all’interno delle relazioni romantiche tra due partner che hanno migliori amici di sesso opposto

Dato che le conseguenze della gelosia sulle relazioni romantiche possono essere diverse, è importante identificare i fattori principali che scatenano la gelosia: ricerche recenti suggeriscono che le amicizie tra ciascun partner con persone del sesso opposto ne sono un esempio.

 

Le relazioni romantiche sono unioni volontarie complesse, dinamiche e sfaccettate che possono essere compromesse da una serie di variabili, tra cui la gelosia. Questa sorge quando le persone percepiscono che qualcosa potrebbe essere loro sottratto (White & Mullen, 1989). I ricercatori hanno identificato la gelosia come una variabile in grado di innescare diverse conseguenze nelle relazioni: alcune positive, come l’aumento dell’amore e il miglioramento relazionale (Fleischmann, Spitzberg, Andersen, & Roesch, 2005), altre negative che possono ostacolare o portare alla fine della relazione (Aylor & Dainton, 2001). Dato che le sue conseguenze possono essere diverse, è importante identificare i triggers principali della gelosia: ricerche recenti (per esempio, William, 2005) suggeriscono che le amicizie tra ciascun partner con persone del sesso opposto ne sono un esempio (amicizie cross-sex). Questo ci porta ad interrogarci sul possibile impatto delle migliori amicizie intersessuali sulle relazioni romantiche. Alcuni hanno anche sostenuto che

le amicizie intersessuali sembrano occupare un posto insolito nel panorama delle relazioni eterosessuali. (Afifi & Faulkner, 2000)

Bennett e Gilchrist-Pretty in uno studio del 2019 hanno misurato l’amicizia cross-sex come un tipo di migliore amicizia, considerandola alla luce dello stretto attaccamento che intercorre tra due migliori amici (Akbulut e Weger 2016): su 309 partecipanti, il 62.5% ha riferito di avere un migliore amico del sesso opposto. Alla luce di questa percentuale relativamente alta, le implicazioni relazionali associate all’avere un migliore amico del sesso opposto meritano di essere esplorate, poiché la natura delle migliori amicizie cross-sex può presentare sfide uniche, in particolare per quanto riguarda l’esperienza e l’espressione della gelosia del proprio partner romantico. Il presente studio esamina come l’atteggiamento verso le migliori amicizie tra i sessi influenzi le esperienze e le espressioni di gelosia tra i partner romantici.

La gelosia può essere concettualizzata sia come emozione che come cognizione. Buunk (1997) ha individuato tre forme di gelosia:

  • Gelosia reattiva: è considerata una risposta provocatoria, tale che i partner gelosi percepiscono di avere una ragione per sperimentare questi sentimenti intensi. Essa nasce da una trasgressione relazionale (es. infedeltà) o da un contatto, che viene visto come civettuolo.
  • Gelosia Preventiva, anche detta gelosia possessiva: prevede la rimozione di qualsiasi potenziale contatto intimo tra il proprio partner e i potenziali rivali. Questa comporta sentimenti di proprietà e possessione.
  • Gelosia Ansiosa: è di natura cognitiva e ha a che fare con individui che immaginano che il loro partner sia coinvolto con qualcun altro, cosa che comporta ossessione e preoccupazione. Ciò porta a esperienze cognitive, quali preoccupazione, sospetto e pensieri ruminativi.

Guerrero, Hannawa e Babin (2011) hanno usato la Communicative Responses to Jealousy (CRJs) per studiare il comportamento all’interno delle relazioni romantiche dopo che i sentimenti di gelosia sono emersi. Dai loro studi sono emersi due tipi di comportamento e 11 CRj: (1) le risposte interattive sono faccia a faccia e dirette al partner; (2) le risposte comportamentali generali sono dirette al partner, ma l’individuo geloso non coinvolge necessariamente la comunicazione diretta con il suo partner; (3) le 11 CRJ sono state  organizzate in quattro categorie (a) comunicazione costruttiva, che comprende la comunicazione integrativa e le risposte compensatorie di ripristino volte a preservare la relazione; (b) comunicazione evitante, che consiste nel silenzio e nelle risposte di negazione/inibizione; (c) comunicazione distruttiva, che riflette la comunicazione negativa, la comunicazione violenta e l’induzione della contro-gelosia; e (d) comunicazione incentrata sul rivale, che riguarda le strategie protettive, come il contatto con il rivale, la derisione di un rivale, la sorveglianza/restrizione e i segni di possesso. Le esperienze e le espressioni di gelosia potrebbero derivare dall’atteggiamento verso le migliori amicizie tra persone del sesso opposto. Gli atteggiamenti possono essere cognitivi e emotivi (Fishbein & Ajzen, 1975): quelli cognitivi derivano da informazioni disponibili per l’individuo, mentre gli atteggiamenti affettivi riflettono le proprie emozioni. Inoltre, ricerche precedenti testimoniano che gli atteggiamenti sono importanti mediatori che possono aiutarci a capire meglio come o perché si verifica la relazione tra certe variabili.

Per valutare gli atteggiamenti verso le migliori amicizie Cross-Sex, gli autori hanno ideato una breve scala di 5 items del tipo “Uomini e donne possono essere migliori amici”, misurati con una scala Likert a 5 punti (1= completamente in disaccordo; 5= completamente d’accordo). L’esperienza di gelosia è stata misurata usando la Jealousy Scale di Buunk (1997), multidimensionale composta da 15 items che misurano tre costrutti con 5 domande ciascuno: gelosia reattiva (es. “Come ti sentiresti se il tuo partner discutesse di cose personali con qualcun altro?”), preventiva (es. “Non sarebbe accettabile per me se il mio partner vedesse molte persone del sesso opposto in un contesto amichevole”) e ansiosa (es. “Ho paura che il mio partner sia sessualmente interessato a qualcun altro”). Inoltre, ai partecipanti è stato chiesto di riferire il loro comportamento di gelosia in una relazione romantica attuale o passata a causa di un migliore amico di sesso opposto, utilizzando la scala Communicative Responses to Jealousy (CRJ) (Guerrero et al., 2011), composta da 52 items divisi in 11 sottoscale raggruppate in 4 categorie di risposta di gelosia: comunicazione distruttiva, comunicazione costruttiva, comunicazione evitante, e comunicazione focalizzata sul rivale.

Dai risultati è emerso che gli individui single (cioè quelli che non avevano una relazione al momento dello studio) avevano l’atteggiamento più positivo nei confronti di un migliore amico di sesso opposto. Tuttavia, non c’è garanzia che queste stesse disposizioni favorevoli persistano in una relazione. Gli individui con partner occasionali hanno rivelato atteggiamenti positivi verso le migliori amicizie Cross-Sex. Questo risultato ha senso anche perché è più probabile che le relazioni occasionali abbiano una storia breve e, quindi, è meno probabile che abbiano sperimentato episodi che provocano gelosia, così come è possibile che questi percepiscano le migliori amicizie in modo positivo perché non sono molto coinvolti emotivamente e hanno poche aspettative di permanenza della relazione. Al contrario, le coppie fidanzate in procinto di sposarsi hanno gli atteggiamenti meno favorevoli verso le amicizie cross-sex: un migliore amico può aggravare l’ansia e lo stress che queste coppie stanno già affrontando a causa dell’organizzazione del matrimonio, pertanto hanno una naturale disposizione negativa verso questa tipologia di amici. Per quanto riguarda come l’esperienza e l’espressione della gelosia impatti gli atteggiamenti verso le migliori amicizie tra i due sessi, i risultati hanno rivelato tre correlazioni moderate e positive che suggeriscono che quando una persona prova gelosia, rende palesi tali sentimenti: (a) esperienza di gelosia preventiva ed espressione di gelosia distruttiva, (b) esperienza di gelosia preventiva ed espressione di gelosia focalizzata sul rivale, e (c) esperienza di gelosia ansiosa ed espressione di gelosia focalizzata sul rivale. In altre parole, quando un partner relazionale percepisce che un migliore amico cross-sex è una potenziale minaccia alla relazione romantica, sperimenta la gelosia preventiva ed è quindi motivato a minimizzare la potenziale minaccia utilizzando una comunicazione che trasmette possesso e degrada e/o limita l’accesso al migliore amico cross-sex, così come tendono a cercare il contatto con il rivale, lo deridono, e assumono comportamenti di sorveglianza/restrizione. Quest’ultima tipologia di espressione viene anche utilizzata da quei soggetti sospettosi e ossessivi rispetto all’ipotesi di un coinvolgimento del partner con terzi. Inoltre, i risultati hanno rivelato che un atteggiamento positivo verso le amicizie cross-sex media la gelosia reattiva e l’espressione costruttiva: se un partner relazionale percepisce che il suo migliore amico di sesso opposto è troppo amichevole o civettuolo (cioè, esperienza di gelosia reattiva), il partner relazionale che ha un atteggiamento positivo può impegnarsi in una comunicazione costruttiva o positiva per discutere i problemi e mantenere la relazione. Questo suggerisce che nonostante il sentimento di gelosia, il partner percepisce che la relazione vale la pena di essere preservata e quindi sceglie tattiche di comunicazione che possono sostenere la relazione. Infine, è emerso che anche gli atteggiamenti negativi mediano la relazione tra gelosia reattiva e l’espressione di gelosia distruttiva. Nello specifico, quando un partner percepisce che l’amico cross-sex è troppo civettuolo con il partner, assume un atteggiamento negativo verso le sue amicizie ed è più incline a sfogarsi con una comunicazione negativa o violenta.

 

Psicologia del viaggiare – Il terzo episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico.

 

PSICOLOGIA DEL VIAGGIARE:

Paralinguistic Digital Affordance, il significato dietro a un click

Le affordances paralinguistiche digitali sono simboli e segnali che permettono agli utenti di interagire ed esprimersi nei social media.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 17) Paralinguistic Digital Affordance, il significato dietro a un click

 

Che cosa sono le paralinguistic digital affordances (PDA)

Proprio come le affordances degli oggetti di cui parlava Gibson (1977), anche i social media hanno qualità o funzioni che invitano all’uso, che suggeriscono delle azioni. Se nel mondo fisico un’affordance può essere, per esempio, una qualità materiale di un oggetto (pensiamo a un tasto che per forma e consistenza ci induce a pensare che sia fatto per essere premuto anche se non lo abbiamo mai visto prima), così anche online caratteristiche e funzionalità dei siti permettono agli utenti di dedurne intuitivamente l’utilizzo. Su un social network poter cliccare su “condividi” o “mi piace” per esempio rappresenta delle affordances: ‘invitano’ a compiere l’azione del click.

Nel 2016 Hayes e colleghi hanno esteso il significato del termine al mondo digitale con le affordances digitali paralinguistiche (PDA): tutti quei simboli e segnali che permettono agli utenti di interagire ed esprimersi; tra i più popolari abbiamo Like (Instagram, Facebook), Favorite (Twitter), +1 (Google+), o Upvote (Reddit e Imgur). Le PDA facilitano la comunicazione e l’interazione in maniera leggera, immediata e senza un linguaggio specifico (Hayes et al., 2016). Queste affordances sono frequenti nei social network che incoraggiano e basano la loro popolarità e il coinvolgimento delle loro community proprio su queste.

Ma se la affordance digitale paralinguistica indipendentemente dalla tipologia di contenuto è sempre la stessa, come per esempio il Like su Facebook, è proprio vero che ogni Like ha lo stesso significato? Sia per chi lo riceve che per chi lo ‘mette’? Per esempio, posso lasciare un ‘Mi piace’ ad una foto di un amico che è a cena in un bel ristorante, ma poco dopo posso metterne un altro al post di un collega di lavoro che si lamenta del traffico in città nell’ora di punta. ‘Mi piacciono’ entrambi allo stesso modo? Per me i destinatari hanno uguale valore? Perché do ad entrambi un like, cosa voglio comunicare? O, ancora, un ‘mi piace’ su Facebook ha la stessa valenza di un ‘favourite’ su Twitter?

Le funzioni comunicative delle affordances digitali paralinguistiche

Dallo studio di Hayes e colleghi (2016) emerge che ad ogni affordance digitale paralinguistica e social network vengono associati significati diversi. Non solo: all’interno degli stessi abbiamo sottocategorie di significati diversi. Per esempio, i “Mi piace” di Facebook sono piuttosto svalutati: quando scorrono il feed, gli utenti danno i loro Like in maniera quasi automatica, più che su altre piattaforme. Infatti, su altri social come Twitter o Instagram gli utenti sono più selettivi sia nella fruizione del contenuto che nel dare un loro feedback di gradimento.

Secondo Hayes e colleghi (2016), che si sono estensivamente dedicati ad esplorare questo argomento, un uso letterale e ‘fedele’ della affordance digitale paralinguistica implica appunto una interpretazione letterale del suo utilizzo: un ‘mi piace’ vuole dire semplicemente che mi è piaciuto quel contenuto. Molto più spesso, però, sono utilizzate in modo più sottile ed in particolare per motivi sociali: reciprocità, sostegno, supporto, convalida. Questo tipo di uso di PDA è più saliente per gli utenti rispetto ad una interpretazione più letterale perché consente di ‘fare rete’ e mantenere rapporti sociali.

A volte, invece, si tratta di azioni compiute come un automatismo (Carr et al., 2016), come quando gli utenti “mettono mi piace” senza una vera ragione. Questa automaticità è frutto della ripetizione e dell’abitudine: passando molte ore sui social ci abituiamo a certi tipi di contenuti e non ci facciamo più caso come prima, a beneficio di una maggiore efficienza cognitiva e ridotto carico cognitivo.

A cosa servono le affordances digitali paralinguistiche

Perché le persone usano le affordances digitali paralinguistiche? Quali sono i benefici?

Sempre secondo Hayes e colleghi, una prima forma di gratificazione si ha a livello emotivo. Ricevere apprezzamenti per qualcosa che si è pubblicato rende più felici e aumenta l’autostima, anche se questo tipo di gratificazione decade nel tempo: infatti, se inizialmente ricevere dei like ci fa sentire speciali, nel tempo l’effetto va scemando. Come una sorta di moneta di scambio, così come fa piacere a noi fa piacere agli altri: per questo ne diamo aspettandoci che ci vengano date. Abbiamo poi una gratificazione di tipo relazionale. Dare dei Like o in generale manifestare interesse per i contenuti pubblicati dai membri della nostra rete ci permette di formare e consolidare relazioni che spesso si estendono all’off line sia nella sfera personale che lavorativa; in altri casi le PDA fungono da “gentle reminder” della presenza nella nostra rete di contatti.

Le affordances digitali paralinguistiche hanno anche una funzione pratica: alcuni utenti le utilizzano come mezzo per tenere traccia e ricordarsi di un contenuto, magari per leggerlo successivamente, quasi come strumento di archiviazione personale. Questo è possibile solo su alcuni social come Twitter che consente di ritrovare facilmente i ‘preferiti’.

Quando mancano le PDA: l’ostracismo percepito

Cosa succede invece quando le affordances digitali paralinguistiche sono assenti? Insomma, quando non riceviamo dei Like. Quando pubblichiamo un post che non riceve alcun feedback.

La ricerca di Hayes e colleghi (2018) ci porta a evidenze controintuitive. Infatti, gli individui si sentono esclusi non solo quando non ricevono PDA, ma soprattutto quando, seppur ricevendone anche tante, non le ricevono dagli utenti che per loro contano. Specifici sottoinsiemi della propria rete sociale destano più interesse e più aspettative. La rete di contatti non è tutta uguale, tra tutto il nostro pubblico c’è un ‘pubblico desiderato’, un’audience più ristretta composta da individui per noi socialmente rilevanti cui leghiamo autostima e bisogni sociali di convalida e approvazione. Possiamo sentirci esclusi anche quando non riceviamo feedback da coloro da cui lo desideriamo e ce lo aspettiamo.

Gli utenti possono attribuire questa mancanza di feedback a cause esterne e tecniche, come ai vari algoritmi da cui dipende l’organizzazione del feed e quindi l’esposizione ai nostri contenuti, oppure alla natura del contenuto dato che non tutti i post “funzionano”.

Molti significati per una sola azione

Ad ogni social le sue motivazioni, funzioni, usi: questo è il modo in cui gli utenti sfruttano le diverse piattaforme. Non solo per gli utenti un Mi piace su Facebook ha una valenza diversa rispetto a un “Favourite” di Twitter, ma all’interno di quelle stesse categorie la stessa affordance digitale paralinguistica può avere significati e funzioni diverse.

Che sia per ottenere un ritorno emotivo o sociale, per un automatismo o per incrementare il proprio status sociale, le affordances paralinguistiche digitali assolvono a molteplici funzioni co-costruite nella relazione tra medium e utenti che li utilizzano.

Quello che facciamo online e le affordances digitali paralinguistiche possono avere molti significati: un click non è solo un click.

 

 


 

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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Mindfulness e sessualità

La mindfulness è una pratica meditativa che trae le sue radici storiche da uno degli insegnamenti fondamentali del buddhismo delle origini, sviluppatosi in India circa cinquecento anni prima della venuta di Cristo.

Giorgio Cornacchia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Sono diverse le correnti all’interno della dottrina buddhista; la mindfulness deriva dalla tradizione theravada che si fonda sulla cosiddetta “scuola degli anziani”, la via del buddhismo più conservativo e vicino all’ammaestramento del Buddha storico, i cui insegnamenti sono seguiti sia nell’ambiente monastico che laico. A sua volta, la pratica theravada è caratterizzata da due tipi di meditazione penetrativa o di profonda assimilazione nei processi della propria mente: la tecnica samatha, esercitata al fine di sviluppare la concentrazione e la quiete mentale, e la vipassana, utilizzata per indurre nella mente uno stato di consapevolezza, di presenza mentale, di chiara visione e comprensione della natura, della realtà, di ciò che accade così com’è. La meditazione vipassana mira a radicare ogni creatura che la eserciti all’interno del momento presente, il cosiddetto “qui ed ora”. La moderna meditazione mindfulness, dunque, consiste nel prestare attenzione intenzionalmente alla nostra esperienza così com’è e non come crediamo o desideriamo che sia in ragione dei nostri condizionamenti mentali appresi. Inoltre, questa disciplina allena l’esercizio dell’esperienza nella stessa maniera in cui un allenamento fisico costante attiva e potenzia un muscolo corporeo; infatti, oltre ad acuire i sensi che consentono di sperimentare il momento presente, ne sviluppa altri due molto importanti: la propriocezione e l’enterocezione. La prima è la capacità di percepire la posizione del proprio corpo nello spazio, la seconda è la rappresentazione del feedback fisiologico, quindi la percezione interna del proprio organismo. L’addestramento alla mindfulness permette di dirigere, focalizzare ed estendere a più stimoli (interni ed esterni) quella che viene denominata “oggettività” della percezione; essa aiuta, inoltre, ad acquisire abilità volte a impedire ai nostri pensieri di agire in modo automatico e fuori dalla nostra consapevolezza, nonché all’autoregolazione dell’attenzione verso il momento presente e a sviluppare un atteggiamento di curiosità, apertura e accettazione di quello che c’è. La pratica della mindfulness, quindi, è associata a marcati miglioramenti riguardo a soddisfazione di vita, amabilità, autostima, senso di autonomia, empatia, vitalità, competenza e ottimismo, nonché al benessere psicologico in generale (Melli G., Sica C., 2018)

Entrando nello specifico dell’intervento in ambito sessuologico, le tecniche di meditazione della mindfulness sopra descritte potrebbero essere intese come elementi integranti la psicoterapia cognitivo comportamentale e la pratica mansionale al fine di garantire percorsi più completi atti a migliorare la qualità della vita sessuale degli individui.

Un fattore chiave per poter godere di una piena esperienza sessuale è essere presenti nel momento in cui questa avviene, accogliendola così com’è. Tuttavia, bisogna sottolineare che la sfera sessuale è tra quelle aree che rischiano maggiormente di essere compromesse dallo stile di vita caotico e dall’insieme di sovrastrutture che spingono l’individuo a non accettarsi per quello che è e a soffrirne enormemente; spesso, in presenza di difficoltà la tendenza è quella di perdersi in pensieri che allontanano dall’esperienza sensoriale e interpersonale, o che focalizzati su come vorremmo che fosse, come dovrebbe essere, come pensiamo che l’altro voglia che sia e non è, generano ansia, tristezza, imbarazzo, vergogna. Tutte queste emozioni negative creano pensieri e credenze disfunzionali che guidano l’azione dell’individuo condizionandola costantemente. Il motore primo della sessualità che viene influenzato negativamente è il desiderio; il desiderio sessuale è un fenomeno per lo più mentale, inteso come un’emozione caratterizzata dalla presenza di pensieri e fantasie sessuali e dalla voglia di intraprendere l’attività sessuale. Esso rappresenta la più affascinante ed enigmatica della quattro fasi della risposta sessuale umana descritte da William H. Masters e Virginia E. Johnson, nonché la più sfuggente da inquadrare e quantificare (Simonelli C., 2006). Il desiderio sessuale viene influenzato da fattori socio-biologici, psicologici, relazionali e contestuali. Il calo del desiderio, o desiderio sessuale ipoattivo, è uno tra i problemi maggiormente riscontrati nelle donne che si rivolgono a uno psicoterapeuta e ha una prevalenza che si aggira tra l’8% e il 26%. Durante il rapporto sessuale, dove l’esperienza sensoriale fa da padrone, una certa presenza mentale risulta fondamentale per poter godere appieno di tale esperienza; ritrovarsi, invece, con la mente altrove, peggio ancora se oppressa da pensieri negativi e insicurezze, può portare a risultati disastrosi. La mindfulness fornisce strumenti utili nella gestione dei pensieri automatici o negativi, insegna agli individui a non essere giudicanti con sé stessi e a essere pienamente presenti nel qui ed ora. Le persone saranno così in grado di comprendere che i pensieri sono solo pensieri e non necessariamente rappresentazioni accurate della realtà; tramite queste tecniche le persone potrebbero, quindi, imparare a essere pienamente presenti nell’atto sessuale, godendo dell’esperienza in modo completo (Brotto L.A., Woo J., 2010).

Inoltre, Brotto e Goldmeier (2015) affermano che le pratiche mindfulness sono in grado di migliorare significativamente la qualità sessuale e le emozioni ad essa correlate (stress e angoscia) in donne con disfunzioni sessuali associate a cancro ginecologico, in donne con vulvodinia e in donne con disagio sessuale correlato ad una storia di abuso sessuale pregresso. I loro studi sui casi clinici si concentrano, inoltre, anche sul mondo della sessualità maschile approfondendo casi di disfunzione erettile, eiaculazione precoce o ritardata e dolore legato al sesso. Gli autori, soffermandosi sull’eiaculazione precoce, affermano che la natura di questo disturbo è psicogena e sostenuta dall’ansia e dalle cognizioni negative in generale. Imparare a focalizzare l’attenzione consapevole su ciò che si sta vivendo nei momenti antecedenti l’atto sessuale e durante l’atto in sé aiuta a non prestare attenzione alle suddette cognizioni ed emozioni negative che alimentano il disturbo; in parole povere, un’attenzione consapevole appresa grazie alla pratica della mindfulness aiuta l’individuo a essere più propenso e capace di ascoltare le proprie sensazioni corporee relative all’atto sessuale e a far sì che veda le distrazioni derivanti dai pensieri negativi come eventi passeggeri della mente e non come verità assolute da perseguire.

Attraverso questo breve excursus abbiamo visto come allenare l’individuo ad una maggiore consapevolezza favorisce un miglioramento della persona ad ampio raggio indirizzandola verso una modalità di funzionamento sana e un pieno godimento della vita, sia sessuale che non. A tal proposito, l’applicazione di un approccio mindful, nello specifico del modello MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) di Jon Kabat-Zinn o del modello MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy), una rielaborazione del primo da parte di Zindel Segal, Mark Williams e John Teasdale, si prefigge come “primo step” per far sì che il processo di consapevolezza integrata mente-corpo possa avere luogo, per poi estendersi a una vera e propria attitudine verso la vita basata sull’apertura, sull’accoglimento, sul non giudizio, ma soprattutto sul pieno rispetto verso quel corpo che spesso viene letto non come luogo di profonda saggezza, ma unicamente come elemento estetico o come colui che si ammala, senza renderci conto di quanto invece rappresenti la nostra “vera casa” e di come l’esperienza sessuale sia la meravigliosa espressione di un’intimità profonda derivante proprio dall’espressività emotiva fattasi corpo (Boncinelli V., Rossetto M., Veglia F., 2018). Grazie alla Mindfulness, quindi, si può essere in grado di ascoltare e rispondere congruamente a ciò che sta realmente accadendo nel momento presente piuttosto che reagire in modo automatico secondo schemi precedenti. L’individuo sarà più in contatto con gli aspetti cognitivi, emotivi e sensoriali dell’esperienza, per poterli regolare tramite l’attenzione, la fiducia, disponibilità e l’amplificazione sensoriale. Tutto questo potrà permettere, insieme ad adeguati percorsi psicoterapeutici e mansionali, di alleviare le difficoltà presenti e di vivere appieno la propria sessualità.

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