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L’iperdotazione cognitiva a scuola: come si presentano i bambini gifted in classe?

Secondo Betss e Neihart (1988), esistono 6 diversi profili di studenti o bambini gifted: di successo, creativo, sotterraneo, a rischio, autonomo e twice-exceptional.

 

Parlare di iperdotazione cognitiva a scuola significa fare riferimento ai bambini gifted, ‘Studenti che manifestano o hanno il potenziale per mostrare delle abilità superiori alle aspettative, anche di due/tre anni o più, rispetto ai loro pari, in un determinato momento e in aree circoscritte, considerate di rilievo nella propria cultura di appartenenza’ (Rigon et al., 2017, 46).

Le abilità dell’iperdotazione cognitiva e dei bambini gifted

Quali sono queste abilità?

  • Abilità intellettive generali
  • Abilità accademiche specifiche
  • Abilità sociali
  • Pensiero divergente
  • Talento artistico

I livelli di giftedness

Secondo Betss e Neihart (1988), esistono 6 diversi profili di giftedness, di seguito descritti.

1. Lo studente di successo

  • Bambino adattato al contesto scolastico;
  • Ottiene buoni risultati senza impegnarsi eccessivamente;
  • Manifesta un perfezionismo ‘sano’.

2. Lo studente creativo

  • Bambino poco adattato al sistema scolastico perché non lo considera vantaggioso per lui;
  • In classe si annoia, percepisce le lezioni come ‘poco sfidanti’;

3. Lo studente sotterraneo

  • Marcato disagio a scuola;
  • Nasconde il proprio potenziale;
  • Difficoltà ad instaurare relazioni con gli altri;
  • Prevale nelle femmine.

4. Lo studente a rischio

  • Condotte prosociali: dispersione scolastica e rischio di drop-out.
  • Condotte antisociali: bullismo, devianza, abuso di sostanze, etc.

5. Lo studente autonomo

  • Sicuro di sé, motivato, entusiasta;
  • Buone capacità di instaurare relazioni con i pari e con gli insegnanti;
  • A volte basso rendimento scolastico.

6. Lo studente doppiamente eccezionale o twice-exceptional children

  • Presenta capacità cognitive elevate in associazione a disturbi che ne limitano l’espressione quali DSA, ADHD, DOP, Disturbi dell’Umore (Kalbfleisch, 2013).

In questo caso si viene a creare un effetto mascheramento in cui le loro abilità elevate e le loro difficoltà si mascherano a vicenda, rendendo difficile sia l’identificazione, sia la messa in atto di interventi adeguati. (Webb, Amend, Webb, Goerss, Beljan, e Olenchak, 2005)

Il profilo cognitivo ‘tipico’ di un bambino doppiamente eccezionale, rilevato mediante il test di intelligenza WISC- IV Wechsler Intelligence Scale for Children (6 – 16 anni), è costituto da:

  • Punteggi più elevati nell’IAG: Indice di Comprensione Verbale e Indice di Ragionamento Visuo-Percettivo. Soprattutto nei subtest Vocabolario e Informazione.
  • Punteggi più bassi nell’ICC: Indice di Memoria di Lavoro e Indice di Velocità di Elaborazione. Soprattutto nei subtest Ricerca di Simboli e Cifrario.

Tali punteggi dimostrano come i bambini gifted manifestino elevate capacità verbali e non verbali, e nel ragionamento più astratto e articolato; e come preferiscano eseguire un compito nel modo più corretto possibile, piuttosto che eseguirlo velocemente.

Il confronto tra QI e IAG, e tra IAG e ICC consente di riconoscere gli studenti ‘doppiamente eccezionali’ (Rimm et al., 2008; Silverman, 2003, 2009; Weiss et al., 2006).

Le strategie didattiche con bambini gifted

Le strategie che la scuola dovrebbe utilizzare si basano sulla compattazione e personalizzazione della didattica (Baum, 2004):

  • Gli insegnanti non devono seguire la programmazione della classe ma approfondire, incrementare il grado di complessità dei contenuti curriculari rendendoli più sfidanti.
  • Adottare un approccio alla didattica esperienziale, operare su un livello più astratto e articolato.
  • Dare l’opportunità al gifted di esprimere pubblicamente il proprio potenziale, le sue ‘scoperte’ e conoscenze.
  • Spaziare la didattica in contesti diversi, confrontarsi con altri gifted o con persone molto formate sui loro campi di interesse.
  • Differenziare le valutazioni dal resto della classe (Winebrenner, 2012).

 

Medicina narrativa: la scoperta del senso della malattia come strada per la salute

La medicina narrativa aiuta i professionisti a sviluppare il “senso della storia” del paziente, dei sintomi e dei segni clinici, intendendo dunque l’intera pratica medica come una sorta di “story-telling”

 

Che cos’è la malattia e cosa significa curare? Queste sono due tra le domande che maggiormente impegnano psicologi e medici, ciascuno nel proprio settore. Di fatto, la scelta di una professione di aiuto come quella dei sanitari richiede una quotidiana ed intima riflessione sul senso del proprio lavoro, da cui trae nutrimento la pratica clinica stessa.

Spesso, per chi sta affrontando una patologia o è costretto a conviverci per tutta la vita, non è sufficiente lo scambio di informazioni puramente biologiche con il medico che lo ha in carico. Ricevere informazioni esclusivamente sul proprio stato “organico” attraverso una comunicazione emotivamente sterile può costituire una fonte di disagio per il paziente. La necessità di oltrepassare questa problematica comunicativa ha dato vita alla cosiddetta medicina narrativa. Tale paradigma si focalizza anzitutto sull’esperienza della malattia e sulla rappresentazione mentale che il paziente ha della stessa, pur non perdendo mai di vista l’aspetto scientifico-biologico (Spinozzi & Hurwitz, 2011). Già nel 1933 Sir Farquhar Buzzard sosteneva che “la differenza più importante tra un buon clinico ed uno indifferente sta nella quantità di attenzione investita sulla storia del paziente”.

Nascita e principi fondamentali della medicina narrativa

La medicina narrativa è una branca della scienza che affonda le proprie radici in una concezione indissolubilmente integrata non solo di mente e corpo, comprendendo anche le relazioni interpersonali ed i rapporti con i contesti e le istituzioni. Può essere definita come una medicina che aiuta i professionisti a sviluppare il “senso della storia” del paziente, dei sintomi e dei segni clinici, intendendo dunque l’intera pratica medica come una sorta di “story-telling” (Charon & Hermann, 2012; Shapiro, 2012). Volendo semplificare in modo riassuntivo gli elementi fondamentali della medicina narrativa, appaiono indispensabili (Shapiro, 2012):

  • l’attenzione del medico nei confronti del paziente;
  • la modalità attraverso cui il paziente viene rappresentato da parte del medico ai colleghi, parenti ed all’interessato stesso;
  • il coinvolgimento rispetto alla sofferenza ed alla prospettiva del paziente.

L’intento principale è quello, da parte del medico e del paziente, di co-costruire il senso della malattia attraverso un’attribuzione di significato all’esperienza che si sta vivendo. Si assiste dunque ad un abbandono della prospettiva unidirezionale della cura e, al contrario, viene attribuita una forte valenza all’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente, finalizzata ad una migliore comprensione del disagio vissuto. Non solo, l’ermeneutica della patologia conferisce una maggiore possibilità al paziente di scegliere tra le cure disponibili, offrendogli la possibilità di effettuare decisioni ponderate e maggiormente partecipate.

Medicina narrativa e concezione di malattia

Sarebbe anacronistico oggi concepire la malattia solo come patologia fisica; essa va piuttosto intesa come malattia della persona che, con le proprie emozioni, attribuzioni di senso, associazioni, simbolizzazioni, connota di significato l’esperienza stessa di patologia (Lanzetti et al., 2008). Se questo tema interessa chiunque viva uno stato (anche transitorio) di malessere, assume un rilievo ancora maggiore per chi soffre di una patologia cronica ed è chiamato a riformulare l’intera esistenza alla luce di una diagnosi.

In pazienti con patologia renale, ad esempio, è stato osservato come questo approccio, che richiede la sinergia di contributi multidisciplinari provenienti dalla psicologia, sociologia, antropologia, pone l’accento sul vissuto soggettivo della persona consentendo una personalizzazione delle cure. Tale opportunità include quindi non solo parametri organici ma anche la rappresentazione mentale che il paziente ha della malattia, del decorso e della prognosi, aumentando la compliance alla terapia e la partecipazione (Mettifogo et al.,2017).

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha raccomandato l’utilizzo della medicina narrativa per migliorare il servizio di sanità e la qualità delle cure prestate ai pazienti (Shapiro, 2012). Ancora una volta la sinergia tra i diversi professionisti della salute si configura come il metodo vincente per un approccio olistico e biopsicosociale ed il più efficiente nell’aiutare il paziente, non solo attraverso un contenimento emotivo, ma sostenendolo nell’attribuzione di senso al dolore che è costretto a vivere.

 

L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti (2021) di Matteo Lancini – Recensione del libro

Il testo L’età tradita di Lancini è un libro onesto e sincero, di chi ha maturato con gli adolescenti una solida esperienza clinica.

 

È anche però uno scritto umano, che trasmette contenuti tecnici in modo chiaro e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, ai quali in fondo si rivolge.

Nato in piena pandemia, il testo si apre con una sorta di “mea culpa” generazionale, una lettera che l’autore pubblica a Marzo 2020, sentendo l’esigenza di scusarsi con gli adolescenti e di “ridistribuire le responsabilità”.

Durante i mesi faticosi e incerti che hanno visto tutti coinvolti in sforzi umani e organizzativi per fronteggiare qualcosa di inaspettato, è fuor di dubbio che la società abbia puntato il dito in particolar modo contro gli adolescenti.

Accusati di essere irresponsabili, menefreghisti, addirittura contenti di poter saltare mesi di scuola, molti adulti non si sono resi conto di quanto fossero contraddittorie queste affermazioni.

Il libro parte da una puntuale e sincera analisi di cosa sia accaduto a livello psicodinamico in pandemia nella mente di adulti, adolescenti e istituzioni, ma si apre ad una riflessione che va al di là del momento peculiare.

Le scuse in apertura sembrano doverose e necessarie per sottolineare la fragilità non solo delle istituzioni, ma anche dei singoli adulti, che non sono sembrati capaci di sostenere l’adolescenza e, anzi, l’hanno utilizzata come “fonte di ogni male”, trincerandosi dietro i luoghi comuni che spesso etichettano gli adolescenti di oggi come irresponsabili, egoisti e poco empatici.

Il libro di Lancini si pone come una sincera disamina di questi luoghi comuni e aiuta a comprendere perché e come non siano più “attuali”.

Da diverso tempo, infatti, l’etichetta di adolescente ribelle ha perso significato e veridicità. Il crollo dei tre grandi garanti sociali (Stato, Famiglia, Chiesa), ha reso pressoché inesistente lo scontro generazionale, che ad oggi si gioca su un terreno e all’interno di un clima emotivo ben diverso da quello delle epoche precedenti.

Ogni adolescente, infatti, indipendentemente dal periodo storico che vive, è chiamato ad autonomizzarsi, ad affrontare cambiamenti corporei e mentali, a inserirsi in una società che ha richieste e modalità di espressione peculiari, incontrando dunque difficoltà specifiche.

Il mondo extradomestico viene vissuto da genitori ed educatori come particolarmente minaccioso; si fa sempre più fatica a tollerare le ferite del corpo (e dell’anima) dei propri figli, spingendoli quindi a cercare nuove piazze di confronto.

Dal parchetto, dove ci si sbucciava le ginocchia, alle piattaforme virtuali, per poter sperimentare se stessi al di fuori del controllo di adulti troppo angosciati per poter accettare che crescere (invecchiare!) possa significare anche lasciar andare (e sbagliare, talvolta) i propri figli.

E’ molto interessante la riflessione trasversale di Lancini, sulla difficoltà della generazione adulta attuale a riconoscere la trave nel proprio occhio, ma pronta ad additare la pagliuzza in quella altrui.

Altrettanto meritevole di attenzione quella sul significato perso dell’Altro. Riprendendo una riflessione di Luigi Zoja (“La morte del prossimo”), l’autore sottolinea come la società odierna sia una società concentrata sull’uso dell’altro come pubblico, strumento utilizzato esclusivamente per controaltare, mai come oggetto relazionale. Si è perso l’interesse dell’Altro come vicino a noi, ma si è acuito l’interesse dell’altro come pubblico.

Questo porta necessariamente l’adolescente a confrontarsi/scontrarsi in una società della performance, del risultato, dell’apparenza, nella quale si deve essere visti, altrimenti si rischia di morire (metaforicamente e letteralmente).

Tutto questo, abbinato ad una cultura della pornografia, intesa non tanto come sessualizzazione, ma quanto esagerato esibizionismo di qualunque aspetto della vita (dal sentimento del dolore, che viene spettacolarizzato, alla violenza, al mero mostrare tutto senza un criterio e/o una protezione) che ha necessariamente un impatto sui nostri adolescenti e sul loro modo di reagire.

Gli adolescenti di oggi sono esattamente come abbiamo chiesto loro di essere. Sono cresciuti in famiglie attente alle esigenze dei propri bambini, sicuramente meno rigide e anche più attente ad una autonomizzazione e ad un potenziamento delle risorse. Di contro, si trovano a dover affrontare adulti fragili, a loro volta narcisisti e incapaci di tollerare il dolore altrui.

Non sempre e non tutti, ovviamente.

Il testo non è un’accusa alla generazione adulta o alle istituzioni, bensì un sincero invito a comprendere o quantomeno osservare il reale funzionamento degli adolescenti di oggi, con lo scopo di potersi interfacciare efficacemente con loro, pandemia o meno che sia.

Stile di pensiero e credenze paranormali: che ruolo hanno i bias cognitivi?

Da alcune indagini è emerso che nelle società occidentali contemporanee è piuttosto diffuso credere all’esistenza di fenomeni paranormali (Moore, 2005; Newport & Strausberg, 2001).

 

I ricercatori hanno proposto che la credenza al paranormale, scevra da un disturbo clinico specifico, rappresenta un deficit nell’esame di realtà, ovvero nella capacità di differenziare il sé dal non-sé, gli stimoli intrapsichici da quelli esterni e valutare il proprio comportamento e contenuto di pensiero in relazione ai dettami sociali condivisi (Kernberg, 1996).

Fenomeni paranormali e bias cognitivi

Gli individui propensi a credere ai fenomeni paranormali sono suscettibili anche a specifici tipi di bias cognitivi (Irwin et al., 2012). Questi sono, ad esempio, la catastrofizzazione, il ragionamento emotivo e il pensiero dicotomico. La catastrofizzazione consiste nel prevedere negativamente il futuro escludendo a priori altri esiti possibili. Il ragionamento emotivo indica utilizzare il proprio stato affettivo quale informazione saliente per esprimere valutazioni e giudizi sul mondo, optando dunque per inferenze che sono emotivamente attraenti piuttosto che logicamente derivate. Il pensiero dicotomico denota la tendenza a ragionare in “bianco o nero”, precisamente a considerare le cose in termini di categorie mutualmente escludentesi senza gradi intermedi.

Ognuno di questi bias è correlato positivamente con l’intensità delle credenze paranormali. Tuttavia, non è chiaro perché in alcuni individui si formino questo genere di credenze e in altri no. Un fattore che potenzialmente potrebbe fungere da ponte è la credenza nella scienza, che si riferisce generalmente al grado in cui gli individui la accettano come fonte affidabile e oggettiva di conoscenza del mondo. È stato infatti evidenziato che chi crede al paranormale riconosce i valori della scienza in modo meno forte rispetto ai più scettici (Irwin et al., 2014).

Fenomeni paranormali e stile di pensiero

Lo studio di Williams et al. (2021) ha indagato il grado in cui lo stile di pensiero, indicizzato dalla propensione ai deficit nell’esame di realtà e dalla credenza nella scienza, ha influenzato la tendenza ai bias cognitivi e la credenza al paranormale.

In questo studio sono stati coinvolti 496 partecipanti (202 uomini e 294 donne) di età compresa fra i 18 ed i 69 anni.

La maggior parte del campione è stata reclutata presso la Manchester Metropolitan University (MMU) e la comunità circostante, tramite l’invio di bandi di partecipazione, email o appelli in luoghi di svago.

Per quanto riguarda i materiali, sono state utilizzate 4 scale diverse, per raccogliere informazioni su pensiero paranormale, fiducia nella scienza, bias cognitivi legati a tendenze psicotiche ed esame della realtà.

Per misurare le credenze paranormali è stata utilizzata la Revised Paranormal Belief Scale (RPBS) (Tobacyk, 1988, 2004; Tobacyk & Milford, 1983), un questionario composto da 26 items che valutano sette categorie di pensieri astratti: spiritualismo, Psi (capacità di ricevere informazioni extrasensoriali), credenze religiose tradizionali, stregoneria, preveggenza, superstizione e forme extraterrestri. Un esempio di quesito presente nell’RPBS è “rompere uno specchio porta sfortuna” a cui i partecipanti devono attribuire un punteggio da 0 a 6 (0=fortemente in disaccordo; 6=fortemente d’accordo).

Per quanto riguarda la fiducia nella scienza, ai partecipanti è stata somministrata la Belief in Science Scale (BISS) (Farias et al., 2013), un questionario composto da 10 items con affermazioni riguardo ai meriti che si possono attribuire alla scienza (es. “Possiamo credere razionalmente in ciò che è scientificamente dimostrabile”) a cui viene chiesto di attribuire un punteggio da 1 a 6.

Per misurare i bias cognitivi attribuibili a psicosi è stata utilizzata la Cognitive Biases Questionnaire for Psychosis (CBQp) (Peters et al., 2010), un questionario a 30 items che valutano 5 tendenze di pensiero: catastrofizzazione, intenzionalità degli eventi (es.“destino”), pensiero dicotomico (polarizzazione del pensiero), tendenza a saltare a conclusioni affrettate e ragionamento emotivo (es.“me la sento”).

Infine, per valutare il rapporto dei partecipanti con la realtà, è stata somministrata la Inventory of Personality Organization (IPO-RT) (Lenzenweger et al., 2001), un questionario che valuta la capacità di distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo, ciò che è intrapsichico dagli stimoli esterni e l’aderenza ai criteri sociali della realtà (Kernberg, 1996).

Credenze associate ai fenomeni paranormali

Dai risultati è emersa una correlazione positiva tra la credenza al paranormale e la presenza di deficit nei test di realtà (IPO-RT) e una correlazione negativa con la credenza nella scienza (BISS). Nel complesso, tali dati supportano l’idea che la propensione ai deficit nell’esame di realtà (IPQ-RT) e la scala di credenze nella scienza (BISS) valutano diverse preferenze di elaborazione che possono corrispondere ad una maggiore inclinazione verso elementi personali intrapsichici o informazioni esterne basate sui fatti. Come attestano ricerche precedenti, livelli più elevati di fede nella scienza riflettono una preferenza per il pensiero analitico-razionale (Farias et al., 2013).

Per indagare fino a che punto il pensiero analitico influenzi l’approvazione di altre convinzioni scientificamente infondate i ricercatori hanno utilizzato misure indirette, ed è emerso che i pregiudizi cognitivi in merito al ragionamento emotivo e alla catastrofizzazione influenzano il livello di credenza nel paranormale. Questo può essere spiegato dal fatto che quest’ultime provocano fascino a livello emotivo, mentre la convinzione nelle credenze diminuisce quando vengono valutate razionalmente (Irwin et al., 2012). Inoltre, dobbiamo tenere a mente che la catastrofizzazione viene definita come l’inclinazione irrealistica a pensare scenari dall’esito peggiore, e ciò potrebbe essere legato ad una risposta emotiva negativa derivante da una mancanza di autoefficacia e un locus of control esterno. Ciò si estende alla percezione dei possibili risultati come insopportabili per chi li esperisce e non semplicemente come poco piacevoli (Irwin et al., 2012).

In linea teorica, i contributi del ragionamento emotivo e catastrofico nella credenza al paranormale sono coerenti con il modello cognitivo della psicosi, il quale postula l’esistenza di forti legami tra i deficit nei test di realtà, le emozioni e le convinzioni deliranti (Ishikawa et al., 2017). A tal proposito, la definizione dei deliri dell’American Psychiatric Association (2013) si estende bene alla credenza paranormale, la quale è guidata da stati emotivi interni (Garety & Hemsley, 1997), errata interpretazione di esperienze anomale (Garety & Hemsley, 1997) e prove inadeguate (Coltheart et al., 2011). Per quanto concerne lo stile di pensiero “saltare alle conclusioni” (JTC), esso è probabilmente mediato da altre variabili come la paranoia (Irwin et al., 2014; Prike et al., 2018). Questa conclusione è coerente con ricerche precedenti, le quali suggeriscono che la credenza nelle teorie della cospirazione, come nel paranormale, è associata agli stessi processi cognitivi dell’ideazione o del delirio paranoide (Pytlik et al., 2020).

 

L’immaginazione come cura. Le risposte delle Neuroscienze e della Psicoanalisi

No, non si parlerà di come curare il famoso personaggio di Molière, e neppure di un qualche pharmacos per ipocondriaci: affronteremo invece una facoltà dell’essere umano, l’immaginazione e come questa possa essere strumento per ridurre, alleviare o eliminare un disagio o una sofferenza.

 

Che cos’è l’immaginazione

Innanzitutto, cosa intendiamo per immaginazione? Fra le molteplici definizioni che sono state date adotteremo quella di Marjorie Taylor: “L’immaginazione è la capacità di trascendere mentalmente il tempo, il luogo e/o le circostanze per pensare a ciò che potrebbe essere stato, pianificare e anticipare il futuro, creare mondi immaginari e considerare alternative remote e/o vicine alle esperienze reali” (Taylor, 2013, pag. 791).

Secondo questa definizione quindi l’immaginazione è una particolare e parziale facoltà di quello che molti autori chiamano il pensiero produttivo; ma la caratteristica che può essere evidenziata dalla definizione della Taylor e che qui vorrei sottolineare è che l’immaginazione è un’attività del pensiero che produce scenari distanti o comunque diversi e separati dal qui e ora, dall’hic et nunc di ciò che esperisce chi immagina.

Dobbiamo poi considerare che, quando immaginiamo qualcosa che non abbiamo mai visto o sperimentato, il processo che mettiamo in atto è quello di partire da immagini già presenti nella nostra memoria (la nostra conoscenza esperienziale del mondo) e le rielaboriamo fino a creare nuove idee. In altre parole, consideriamo qualcosa di già visto/esperito e lo dotiamo di attributi inediti.

L’immaginazione è quindi una capacità o competenza dalle molte sfaccettature e presente in differenti stati di coscienza, con i suoi correlati neurali ancora, inutile dirlo, non del tutto studiati.

Quando immaginiamo? I tre stati di coscienza

Stato perfettamente cosciente

Ci può capitare di immaginare, quando ci è richiesto da altri o da noi stessi davanti a una particolare esperienza, di valutare determinati dati presenti considerando le varie ipotesi di evoluzioni future. In questi casi ci si focalizza sul compito (focus), la concentrazione è massima, così come la lucidità necessaria al compito (task). Potremmo quindi considerarla un’attività immaginativa determinata da un’attenzione sostenuta in risposta a uno stimolo. Si è quindi in una condizione di completa coscienza e vigilanza.

Stato di coscienza attenuata

A molti di noi sarà capitato di rimanere immersi nei pensieri, quasi assorti, mentre si sta studiando oppure lavorando. In quei momenti può accadere che la nostra mente “vaghi lontana” dalla contingenza della pagina appena letta o dal calcolo appena eseguito. Questo fenomeno è generalmente definito dagli studiosi mind wandering, generalmente tradotto con vagabondaggio mentale, definito come un pensiero spontaneo che sposta l’attenzione da un compito in corso al flusso mentale interiore (Smallwood, Schooler, 2015). Questi stessi autori riconoscono che tale flusso di pensieri occupa spesso una parte considerevole del tempo di veglia tra le persone ovunque impegnate in pensieri non correlati al qui e ora; e l’esplorazione del vagabondaggio mentale è oggetto di una vasta letteratura scientifica (Song and Wang 2012; Kane et al. 2007; Killingsworth and Gilbert, 2010)

Oltre il mind wandering alcuni studiosi considerano e distinguono altre attività di pensiero spontaneo durante lo stato di veglia a mano a mano che da questo si passi a uno stato di semi-coscienza e poi di incoscienza proprio dello stato di sonno che per brevità qui si trascurano.

Stato di incoscienza

Esiste poi l’attività immaginativa propria dei sogni, oggetto di numerosi studi fin dall’antichità e della quale si è parlato anche in un articolo precedentemente pubblicato su State of Mind (Mariano, 2021) e che quindi non verrà affrontato in questa sede. Mi limito solamente a segnalare che anche all’interno dell’attività onirica la letteratura scientifica ha operato varie differenziazioni di produzioni immaginative, valga per tutti il cosiddetto sogno lucido. Esso è uno stato peculiare di attività onirica che si verifica principalmente durante il sonno REM (Rapid Eye Movement) in cui gli individui sono consapevoli di stare sognando e possono persino parzialmente controllare il contenuto onirico, pur rimanendo addormentati (Baird et al., 2019) e riflettere su di esso. Per approfondire l’argomento si consiglia il lavoro di Mota-Rolim et al., 2021, oppure, per i correlati neuroanatomici/neurofunzionali, quello di Baird et al. 2018.

L’immaginazione sulla quale mi vorrei soffermare è quella del mind wandering, quella forse maggiormente studiata con strumenti di neuro-imaging fino ad oggi. Come si è detto, essa si verifica o è prodotta in uno stato di coscienza attenuata; su di essa si ha un minimo/nullo controllo, ma al tempo stesso viene ricordato agevolmente da chi la esperisce, può essere oggetto di riflessione e/o essere esplicitata ad altri.

Dove nasce il mind wandering?

I primi studi sul mind wandering risalgono agli anni ’70 del secolo scorso, brevi episodi di ”pensieri alla deriva” durante stati di veglia attenuata furono inavvertitamente scoperti da Foulkes e Scott (1973) durante sessioni di allenamento che avevano lo scopo di preparare i partecipanti di uno studio sperimentale a concentrarsi sui loro pensieri più recenti durante i risvegli del sonno. In uno studio di laboratorio i soggetti erano sdraiati in una stanza leggermente illuminata, con la loro veglia monitorata dalle registrazioni EEG ed EMG: il 24% dei pensieri campionati, riportati da 16 studentesse universitarie, furono descritti come visivi e drammatici e vissuti come sogni. In un successivo studio con 10 uomini e 10 donne, il cui compito era quello di segnalare i loro pensieri in 12 momenti casuali all’interno di sessioni di 45-60 minuti, Foulkes e Fleisher (1975) trovarono un 19% di episodi con esperienze assimilabili al sogno, un altro 20% di attività si potrebbe chiamare vagabondaggio mentale (dove il soggetto non controlla i suoi pensieri, ma è consapevole di essere nel laboratorio) e il restante 22% di produzione conteneva ciò che si potrebbe chiamare “perduto nel pensiero” (il soggetto può o meno riflettere sui  suoi  pensieri, ma non sa di essere in  laboratorio) (Foulkes  &  Fleisher, 1975,  p. 69 cit. in Domhoff & Fox 2015, pag. 345). Durante questi studi non sono stati registrati casi di sonno auto-descritto o oggettivo (Foulkes & Fleisher, 1975).

Il Default Mode Network (DMN)

L’evidenza del neuroimaging ha suggerito che il vagabondaggio mentale è associato all’attività della rete in modalità predefinita (Default Mode Network – DMN) (Addis et al. 2009; Andrews-Hanna et al., 2010; Christoff et al., 2009; Mason et al., 2007; Kucyi 2016). In particolare, Mason e colleghi hanno osservato che è il segnale dipendente dal livello di ossigeno nel sangue (BOLD) del DMN che può predire positivamente la frequenza dei sogni ad occhi aperti degli individui (Mason et al., 2007). Viceversa studi che utilizzano campioni di neuroimaging continuo hanno confermato che il DMN viene attivato durante il mind-wandering (Zhou & Lei 2018).

La scoperta del DMN è stata una conseguenza inaspettata degli studi di imaging cerebrale eseguiti da Raichle e collaboratori (2001) per la prima volta con la tomografia a emissione di positroni in cui vari compiti nuovi, che richiedono attenzione e non autoreferenziali, sono stati confrontati con un riposo tranquillo con gli occhi chiusi o con la semplice fissazione visiva (Raichle 2015).

Il DMN viene definito in letteratura una rete neurale estremamente ampia, formata da varie regioni cerebrali distinte tra loro, che sincronizzano la loro attività quando il soggetto si trova vigile, con gli occhi chiusi e non attivamente coinvolto in compiti specifici (Andrews-Hanna, et al. 2014; Fox et al. 2015).

Oltre che peculiare del mind wandering, va precisato che il DMN è risultato essere attivo anche in compiti on task, ossia in attività di pensiero concentrate su un determinato obiettivo (Sormaz et al 2018,); infatti tale rete è considerata anche la base neurologica del sé (Andrews-Hanna, 2012) ed è stata inoltre osservata essere correlata con le reti di attenzione frontoparietale e dorsale e la corteccia visiva nell’introspezione (Soto et al. 2018).

Come descrive Edward Pace-Schott: “la rete predefinita consiste in regioni che, in assenza di attenzione esterocettiva [orientata all’esterno ndr] o di uno sforzo mentale strettamente focalizzato, supportano le preoccupazioni autodirette, l’immersione nella propria vita interiore (ad esempio, il sogno ad occhi aperti) o immaginare la vita interiore degli altri (Teoria della mente)” (Pace-Schott 2013, p. 159).

Riflettendo sulle varie funzioni del DMN, Buckner e colleghi postulano che la loro caratteristica comune sia quella di “simulare una prospettiva alternativa al presente” (Buckner et al. 2008, pag. 23 cit. in Taylor, M. 2013).

Per comprendere i meccanismi e la fenomenologia del pensiero spontaneo sono stati effettuati numerosi studi sulla correlazione fra i sottosistemi del DMN e le funzioni/comportamenti cerebrali “on task”. Per brevità si omettono qui tali ricerche.

Regioni cerebrali coinvolte nel DMN

Vari studi di connettività funzionale e strutturale da oltre un decennio hanno aiutato a comprendere quali sono le aree corticali e sottocorticali coinvolte nel DMN (ad esempio, Buckner, 2012; Greicius et al.2003; Gusnard  &  Raichle,  2001; Raichle  et  al., 2001). Tale rete, o meglio, insieme di connessioni, schematicamente può essere distinto in due grandi sottosistemi (Andrews-Hanna et al.  2010), ognuno coinvolto in determinati processi e con le proprie aree di riferimento (Andrews-Hanna et al., 2014). Un sottosistema dorso-mediale, legato a processi di mentalizzazione e ragionamento sociale (composto dalla corteccia prefrontale dorso-mediale dmPFC, dalla corteccia laterale temporale LTC, e dalla giunzione temporo-parietale TPJ) e un sottosistema mediale-temporale, legato alla memoria episodica e al pensiero sul futuro (composto dalla corteccia prefrontale ventro-mediale vmPFC, dal lobo parietale posteriore inferiore pIPL, dalla corteccia retrospleniale Rsp, e dalla formazione ippocampale HF, Andrews-Hanna et al.); alcuni autori identificano anche un terzo sottosistema, quello della linea mediana, legato a processi autoreferenziali e autobiografici (composto dalla corteccia cingolata posteriore PCC, e dalla corteccia prefrontale mediale anteriore amPFC) (Cfr. Doucet  et  al.,  2011; Fox  et  al.,  2005; Sporns,  2011; Yeo  et  al.,  2011).

In uno studio sul connettoma umano, è stato scoperto che ”(all’interno del cervello) per tutte le combinazioni di metodi, le aree della rete in modalità predefinita hanno mostrato il più alto accordo struttura-funzione.” (Horn A, et al. 2014, Abstract)

Nello specifico, seguendo un rigoroso criterio di studio, Domhoff and Fox (2015) hanno condotto una meta-analisi nella quale sono state individuate le 13 regioni più attive nel pensiero spontaneo, rispetto a varie condizioni di confronto orientate ai compiti con livelli più bassi di vagabondaggio mentale. Tra i risultati spiccano tutti i principali hub della rete predefinita: l’MPFC, il PCC, il lobo temporale mediale e il lobulo parietale inferiore bilaterale (Domhoff and Fox 2015). Altri dati meta-analitici includevano aree somatosensoriali secondarie, coerentemente con la letteratura psicologica sulla cognizione incarnata (Gibbs, 2006; Wilson, 2002). Inoltre, è stato osservato che un’area coinvolta nelle immagini visive, il giro linguale, è stata attivata anche durante il pensiero spontaneo di veglia. (Fox et al. 2015)

Il sogno lucido o mind wandering può essere classificato come pensiero non guidato, mentre allo stesso tempo dipende da vincoli deliberati. (….) Ed essere oggetto per il trattamento dei disturbi mentali legati ad alterazioni spontanee del pensiero, in particolare depressione e incubi. (Konjedi et al. 2021; qui gli autori usano i termini sogno lucido e mind wandering come sinonimi).

Cosa succede a livello neuronale durante l’immaginazione? Plasticità e neurogenesi

Dai numerosi studi sul network Mirroring, il sistema dei neuroni a specchio, è ormai considerazione consolidata in letteratura che a livello di corteccia premotoria non vi è distinzione tra azione e percezione della stessa azione che si sta osservando, poiché si attiva il medesimo neurone (Craighero et al. 1999; Craighero et al. 2002; Iacoboni et al. 2005) e relativamente al coinvolgimento delle rappresentazioni motorie sull’organizzazione spazio-temporale del movimento e nella pianificazione delle sequenze di azioni (Seegelke et al. 2015).

Tutto ciò ci permette di affermare:

  • che la continua interazione tra sistemi sensoriali (quindi visivi, uditivi, etc.) e sistema motorio è una componente fondamentale del processo di conoscenza attiva del mondo (Craighero 2020);
  • che le rappresentazioni sensomotorie, ossia l’azione osservata, più la conseguenza sensoriale dell’azione, sono alla base delle azioni finalizzate, cioè dell’intenzione (Craighero ibidem). [e del senso di autoefficacia, mi permetto di aggiungere].

[Tutto ciò è vero poiché] le rappresentazioni sensomotorie sono modificate in corteccia premotoria come scopo dell’azione e non come mero comando motorio all’effettore e sono indipendenti dall’agente (Craighero ibidem).

In altre parole, cercando di semplificare, possiamo dire che i network neuronali che si attivano nell’osservatore di una determinata azione sono sì i medesimi di chi quell’azione la compie, ma vengono attivati dall’intenzione di compiere quel movimento e non (soltanto o unicamente) per muovere la parte del corpo che effettua quella medesima azione.

Dalla numerosa letteratura sulla neurogenesi, risulta evidente come l’ambiente incida sull’epigenetica (Denoth-Lippuner et al. 2021; Pagani et al. 2019; Kandel 1998).

Ad esempio, cercando di sintetizzare, è noto che una situazione stressogena, considerata tale da un soggetto, attiva modificazioni successive sull’asse HPA, ipotalamo, ipofisi, surrene con effetti pleiotropici sul sistema immunitario (Cain et al. 2017;  Qing et al. 2020) e sulla neurogenesi nel giro dentato dell’ippocampo (Surget et al. 2021), sicuramente nei roditori, ma tale fenomeno, sebbene non unanimemente condiviso, è in larga parte accettato anche per l’uomo (Gould and Gross, 2002).

È forse opportuno ricordare qui che nel modello murino la formazione di questi nuovi neuroni dei roditori adulti è stata associata a diverse funzioni dell’ippocampo: la flessibilità comportamentale, ossia l’adattamento comportamentale dell’animale in risposta a cambiamenti esterni o interni, e soprattutto la codifica di nuove esperienze e quindi la memoria e la dimenticanza di ciò che è stato precedentemente appreso. (McEwen 2001; Diekelmann & Born, 2010; Gais et al., 2007; Kreutzmann et al 2015; Lahl et al. 2008; O’Neil et al., 2015)

In particolare, sappiamo che lo stress è principalmente connaturato all’attribuzione di significato che un soggetto dà dell’agente stressogeno e alla valutazione delle risorse che il singolo ha a disposizione per fronteggiare una determinata situazione stressogena (Lazarus et al. 1984), quindi nell’attività di elaborazione cognitiva principalmente sono coinvolte la corteccia frontale e l’amigdala; strutture che mediano le percezioni provenienti dall’esterno e che vanno a stimolare l’ipotalamo, innescando l’attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA) che è di fatto responsabile del rilascio di glucocorticoidi, tra i quali il cortisolo, principale ormone mediatore dello stress. Il cortisolo a sua volta andrà ad innescare un meccanismo di feedback negativo sull’ipotalamo bloccando l’ulteriore secrezione di cortisolo, ma soprattutto andrà a stimolare un’altra area cerebrale: l’ippocampo. Struttura questa che, particolarmente ricca di recettori per i glucocorticoidi, per una funzionalità ottimale ha necessità di determinate concentrazioni di glucocorticoidi: se ce n’è un eccesso l’ippocampo riduce l’area di sensibilità attraverso ritrazioni o pruning di spine dendritiche (Saaltink et al. 2014). È noto infatti che in soggetti affetti da disturbo da stress post traumatico (PSTD) si osserva una riduzione di volume dell’ippocampo (Bonne et al. 2001; Bremner 2006; Jatzko et al. 2006; Logue et al. 2017).

Per quanto riguarda gli effetti dello stress sul sistema immunitario, anch’esso legato all’asse HPA, molto sinteticamente e schematizzando un processo molto complesso, possiamo dire che uno stress acuto causa un rilascio di citochine pro-infiammatorie in circolo (Salvador et al. 2021), anche se poi occorre ricordare che il cortisolo negli uomini, il corticosterone nei roditori, rilasciato dall’asse HPA, è un importante agente immunosoppressivo, quindi paradossalmente lo stesso sistema, cioè lo stress, permette il rilascio di agenti infiammatori e di agenti antinfiammatori immunosoppressivi (Gentile 2020). Inoltre è forse opportuno ricordare che citochine pro-infiammatorie quali interlochina 1 beta, interlochina 6 ed altre, sono state associate a vari domini comportamentali, ad esempio alla sickness behaviour e la depressione (Maes et al. 2012).

Sappiamo tutti, infine, che esperire in prima persona o semplicemente assistere ad esperienze traumatiche, può comportare tutta una serie di disturbi, sintomi e segni, sia che la persona accusi un vero e proprio PTSD, sia che abbia in sé sufficienti risorse per fronteggiare la situazione o l’evento stressante.

Studi scientifici relativamente recenti mettono in luce un altro aspetto del trauma: il trauma psicologico non soltanto può influenzare la  biologia degli individui ma persino avere conseguenze biologiche e comportamentali sulla prole di individui che sono stati esposti al trauma; si è quindi dimostrata l’ereditarietà transgenerazionale dovuta all’esposizione a traumi (tra i molti Yehuda 2016; Perroud et al. 2014).

Molto sinteticamente, è stato dimostrato che gli effetti duraturi dell’esposizione al trauma possono essere trasmessi alla prole in modo transgenerazionale  attraverso  il  meccanismo di ereditarietà  epigenetica delle alterazioni della metilazione del DNA con la possibilità di modificare l’espressione dei geni e del metaboloma (Youssef et al. 2018). In altre parole, l’esposizione a un trauma può essere presente nell’organismo, come fosse un’impronta, anche in soggetti che non hanno vissuto (o assistito) all’esperienza traumatica ma sono soltanto discendenti diretti di chi quell’esperienza l’ha vissuta; tale “impronta” può quindi essere considerata il livello organico, più interno, profondo, e naturalmente sotto la soglia della consapevolezza, dell’esperienza traumatica.

Curare con l’immaginazione

Coloro che avranno avuto la costanza di leggere l’articolo sin qui, legittimamente si potranno chiedere: ma tutto questo in quale modo riguarda il curare o curarsi con l’immaginazione? Ebbene, non certamente “immaginando” di guarire! Sebbene l’effetto placebo in alcuni casi clinici possa rivestire un ruolo statisticamente significativo.

Ci sono, invece, numerosi orientamenti psicoterapici che usano, ognuno secondo un proprio metodo, tecniche immaginative.

L’esperienza immaginativa del pensiero spontaneo, come abbiamo visto, è un’esperienza reale che il soggetto vive, ossia sono reali le dimensioni affettive correlate ad essa; tale esperienza, opportunamente sollecitata e guidata dal terapeuta in un ambiente protetto, permette al paziente di esperire non soltanto emozioni, ma anche (eventuali) sentimenti di autoefficacia e di self determination, con anche le possibili modificazioni epigenetiche che l’ambiente, e quindi anche l’immaginazione, opera sulle nostre strutture cerebrali e che anche qui abbiamo visto.

In particolare, ad esempio, in un ambiente sicuro e tranquillo, qual è il setting psicoterapico, con luce attenuata, in condizione di rilassatezza e stato di coscienza attenuata, il paziente sdraiato su una chaise lounge e con gli occhi chiusi, quindi in una condizione analoga a quella della situazione sperimentale condotta da Raichle nel 2001 (Raichle, 2015), durante un’esperienza immaginativa vive e sperimenta molteplici processi sensoriali, emotivi, cognitivi e metacognitivi.

  • Un duplice processo percettivo e immaginativo: come oggetto, in quanto riceve gli stimoli emozionali (ed eventualmente stressogeni) che l’esperienza immaginativa gli trasmette e suscita; come soggetto attivo, in quanto coautore (insieme agli strati più o meno profondi del suo inconscio) dell’esperienza immaginativa, ed essendo in grado anche di orientare e modificare l’esperienza stessa nel suo svolgersi.
  • Una prima attività cognitiva necessaria per l’esplicitazione orale al terapeuta dell’esperienza immaginativa che sta vivendo nel momento stesso del suo esperirla, che viene rinforzata/modificata dall’attività di ascolto delle parole del suo stesso racconto (Passerini, De Palma 2016).
  • Un’azione di metanalisi cognitiva durante e al termine dell’esperienza immaginativa quando, su sollecitazione del terapeuta, riflette sui momenti più emotivamente intensi dell’esperienza e sul suo stato d’animo al termine della stessa. (Toller, Passerini 2007).

 

Il gioco delle coppie per la psicologia evoluzionistica: i segnali femminili di corteggiamento – Seconda parte

Affrontato da tempo dalla psicologia, lo studio del corteggiamento può permetterci, tra le altre cose, di risalire alle espressioni più basilari dei comportamenti che entrambi i sessi attuano nel tentativo di stringere una relazione di coppia a breve o a lungo termine.

Il presente articolo è il secondo di una serie di due articoli sull’argomento. Il precedente contributo è stato pubblicato pochi giorni fa su State of Mind

 

Nella prima parte di questo articolo si è cercato di introdurre il tema dei segnali di corteggiamento. Studiato da tempo dalla psicologia, l’indagine in questo campo può permetterci, tra le altre cose, di risalire alle espressioni più basilari dei comportamenti che entrambi i sessi attuano nel tentativo di stringere una relazione di coppia a breve o a lungo termine. Queste espressioni trovano la loro controparte, in chi osserva, nella reazione di attrazione per l’altro e nella percezione che sia disponibile a lasciarsi avvicinare. In altre parole, i segnali di disponibilità femminile motivano l’osservatore all’adozione di tattiche e strategie di approccio, che nel regno umano possono anche essere molto raffinate.

In questo senso gli indizi di exploitability (segnali vulnerabilità o disponibilità a relazioni sessuali a breve termine) sono particolarmente interessanti poiché, come intuibile, possono essere altamente motivanti a un approccio e, come si vedrà nei prossimi paragrafi, sono connessi all’uso di tattiche di seduzione, manipolazione, e uso della forza fino anche alla coercizione sessuale.

Il corteggiamento e i tratti di personalità

Rispetto ai tratti di personalità che segnalano exploitability, Goetz e colleghi (Goetz, Easton & Meston, 2014) hanno chiesto alle partecipanti alla ricerca di registrare dei brevi video di circa un minuto da mettere poi su un ipotetico sito di dating online, nei quali dovevano cercare di rendersi attraenti. Veniva poi chiesto loro di rispondere ad alcune domande sul video appena fatto e di compilare due questionari, dei quali uno di personalità e l’altro sui propri atteggiamenti, comportamenti e desideri riguardo alle relazioni a breve termine e al sesso casuale. Ad altri partecipanti veniva poi chiesto di valutare i video rispondendo ad alcune domande.

I risultati mostravano che le persone maggiormente estroverse o aperte all’esperienza avevano una percezione più positiva delle relazioni a breve termine e del sesso casuale ed erano maggiormente disposti a farne. Questi risultati sono in linea con le ricerche che mostrano come persone molto aperte a nuove esperienze abbiano un raggio di esperienze sessuali più ampio della media (Costa, Fagan, Piedimont, Ponticas, & Wise, 1992). Emergeva inoltre, a causa della breve durata del video da valutare, che gli osservatori erano in grado di interpretare tali indizi di disponibilità in tempi molto rapidi.

Un ultimo dato interessante, infine, era che le persone più aperte alle nuove esperienze, quelle più estroverse e quelle con punteggi superiori sulle aree indagate dal secondo questionario venivano percepite dagli osservatori come maggiormente vulnerabili a eventuali tentativi di sfruttamento sessuale. Ma, come sappiamo, questa percezione veniva inferita dai comportamenti che mostravano consapevolmente (promuovere la propria immagine su un sito di dating online). In altre parole, per rendersi più attraenti agli occhi dell’osservatore, le partecipanti allo studio usavano consapevolmente comportamenti che le facevano sembrare più vulnerabili ai tentativi di approccio.

Il corteggiamento e il rischio di exploitability

Altri studi hanno poi rilevato altre caratteristiche legate alla percezione di exploitability in chi osserva, soprattutto di tipo psicologico, e indizi di incapacitazione psicofisica (Goetz, Easton, Lewis, & Buss, 2012; Goetz et al., 2014b).

Tra le caratteristiche psicologiche si segnalano: bassa autostima e bassa assertività; immaturità, ingenuità e mancanza di giudizio; bassa intelligenza; tendenza a ‘flirtare’; tendenza alla promiscuità sessuale ed avere amici sessualmente promiscui; atteggiamenti sessuali maggiormente permissivi; la tendenza a mettersi in situazioni pericolose; l’impulsività; la ricerca di attenzione da parte dell’altro e la ricerca del rischio. Tra gli indizi di incapacitazione psicofisica ricadono invece le condizioni psicofisiche derivanti dal consumo eccessivo di alcol, da affaticamento o altre forme di difficoltà cognitive e, da ultimo, la presenza di potenziali difensori (come ad esempio essere in compagnia di amici, parenti o altro).

Le caratteristiche e le condizioni psicofisiche appena considerate possono determinare la percezione altrui della vulnerabilità della donna ad approcci finalizzati allo sfruttamento sessuale e che il soggetto si metta, inconsapevolmente o di proposito, in situazioni in cui il rischio di exploitability è maggiore. Ad esempio, bassa autostima e bassa assertività sono spesso presenti in persone che hanno sperimentato esperienze di coercizione sessuale; una bassa intelligenza, invece, è connessa ad un elevato rischio di essere manipolati o ingannati dall’altro; infine l’impulsività, la propensione al rischio, la temerarietà e la promiscuità aumenterebbero la probabilità che il soggetto possa trovarsi suo malgrado in situazioni nelle quali può essere vittimizzato sessualmente (cfr. Greene & Navarro, 1998; Testa & Dermen, 1999).

A partire da queste idee gli autori citati (Goetz, et al. 2012; 2014ab) hanno utilizzato riprese video e fotografie, e chiesto ai partecipanti di rispondere ad alcune domande mirate alla valutazione della percezione di exploitability e della desiderabilità del soggetto come partner in una relazione, identificando così dei comportamenti che renderebbero la donna attraente agli occhi dell’osservatore, percepita come disponibile ad avere relazioni a breve termine di tipo sessuale e, quindi, vulnerabile ai tentativi di sfruttamento sessuale. L’elenco dei comportamenti comprende: comportamenti spavaldi e temerari, promiscui o ‘festaioli’; guardare di sottecchi e con malizia; cercare attenzione da parte dell’altro; vestire abiti succinti; mostrarsi ‘facile’; comportarsi in modo immaturo; essere intossicata da alcol/droghe; mostrarsi sonnolente; toccarsi il seno. Altri comportamenti avrebbero invece l’effetto opposto, verrebbero cioè considerati indici di non exploitability: intelligenza, timidezza, età matura o anziana; essere svenute; succhiare da una cannuccia; manifestare ansia; arrossire, essere toccati dagli altri.

A questi indizi di vulnerabilità si possono associare, da parte dell’osservatore, diverse strategie di approccio (Goetz et al. 2012). L’osservatore potrebbe, ad esempio, tentare di sedurre il target con pressioni di tipo verbale o non verbale (come il mostrarsi gradevole o insistendo, importunando, assillando etc.). Oppure potrebbe decidere di celare all’altro le proprie intenzioni, fingendo di desiderare una relazione a lungo termine, o di possedere caratteristiche e tratti di personalità considerati desiderabili in un partner, insomma utilizzare tattiche di tipo manipolatorio (cfr. Haselton, Buss, Oubaid, & Angleitner, 2005). Potrebbe, infine, decidere per un approccio fisico o violento, usando la forza per pressare, minacciare o costringere l’altro a un rapporto sessuale.

Tutti i comportamenti elencati nei paragrafi precedenti si presentano in associazione con almeno tre delle quattro strategie di approccio considerate. Ad esempio, la strategia che si basa sull’uso della forza per indurre compiacenza verrebbe messa in atto se la controparte è percepita come “facile” o intossicata dall’alcol. La tendenza a manipolare verrebbe messa in atto se i comportamenti altrui vengono percepiti come immaturi e ingenui. Immaturità e ingenuità possono inoltre determinare l’eventualità di entrare e uscire continuamente da relazioni a breve termine insoddisfacenti. La mancanza di giudizio e la ricerca di attenzione potrebbero determinare l’accontentarsi di partner di bassa qualità ma seduttivi, pur di ricevere gratificazione momentanea per l’immagine di sé, e così via.

Gli esempi possibili sono limitati solo dalla fantasia, ma il messaggio di fondo è che i comportamenti di corteggiamento sono in qualche misura codificati anche nell’uomo e sono presenti regolarità tra i segnali che vengono inviati all’altro (consapevolmente o inconsapevolmente) e la percezione che l’altro avrà di noi come vulnerabili a tentativi di sfruttamento sessuale, con la conseguenza che sceglierà di usare, nei nostri confronti, alcune tattiche e strategie di approccio piuttosto che altre, fermo restando la storia del soggetto, la cultura e il suo ambiente di riferimento.

Punti critici

Giunti a questo punto sembra utile fare alcune considerazioni.

Riprendendo quanto detto all’inizio, tentare di catalogare i comportamenti percepiti come indicatori di disponibilità sessuale a breve termine può sembrare semplicistico e ingenuo. Può infatti essere posta la questione dell’intenzionalità sottostante e, considerando che gli studi citati utilizzano solo campioni di comportamento femminile, andrebbero sicuramente considerate anche le controparti maschili. Dovrebbero infine essere considerate le differenze di genere nella percezione di questi segnali, come anche, per entrambi i sessi, le situazioni specifiche in cui essi vengono inviati. Questi obiettivi vanno oltre gli scopi del presente lavoro, ma la letteratura disponibile è ampia e interessante.

Ad esempio è ben documentata una maggiore propensione degli uomini, rispetto alle donne, a vedere interesse sessuale quando si trovano in situazioni sociali (Abbey, 1982). Gli uomini, inoltre, tendono a percepire più intensamente i segnali di disponibilità sessuale e meno intensamente quelli di rifiuto (Moore, 2002), con la conseguenza di vedere disponibilità sessuale anche laddove non è presente. Per le donne sembra invece valido il contrario, ovvero che abbiano soglie superiori per identificare i propri comportamenti come seduttivi (Shotland & Craig, 1988). Il rischio in questo caso è di mostrare inavvertitamente disponibilità sessuale (Leenaars, Dane, & Marini, 2008) e quindi risultare meno desiderabile agli occhi di uomini che valorizzano la fedeltà nelle relazioni a lungo termine (ad es. Buss, 1989).

Per terminare questa breve rassegna, altri studi ci dicono che gli uomini possono identificare l’orientamento sociosessuale (ad esempio la tendenza alla promiscuità sessuale) anche per mezzo di brevi interazioni (Stillman & Maner, 2009). In questo modo è più probabile che la maggiore propensione a utilizzare tattiche di seduzione sessuale di un soggetto incline al sesso casuale coincida con l’avvicinamento di partner con inclinazioni simili (ad es. Boothroyd, Jones, Burt, DeBruine, & Perrett, 2008).

Il quadro mostrato finora potrebbe dare l’idea che i nostri incontri quotidiani con gli altri siano inevitabilmente permeati di segnali di disponibilità sessuale, voluti o non voluti, e inevitabilmente identificati dall’altro come tali. In realtà la tendenza generale sembra essere quella di non usarli. Le donne comunque sembrano essere ben consapevoli della loro esistenza, di come si usano e dei loro effetti (Goetz et al., 2014b), probabilmente a causa di processi di socializzazione legati alla cultura di riferimento. La decisione se usarli o meno dipenderebbe così dai contesti in cui si trovano di volta in volta, dai propri desideri e da quelli attribuiti al potenziale partner, come anche dal livello di investimento atteso dalla controparte nella coppia.

Utilizzare tali segnali in contesti inadeguati può avere infatti dei costi, anche significativi, soprattutto per chi si trova già in una relazione. Il rischio è quello di promuovere la stretta sorveglianza da parte del partner, fino alla chiusura della relazione o alla violenza di coppia (ad es. Cousins & Gangestad, 2007). L’uso di tali tattiche può risultare vantaggioso per chi non si trovi in una relazione, comportando benefici di vario tipo (benefici economici, protezione da altri uomini, benefici genetici per la prole; Greiling & Buss, 2000), ma con costi associati che possono andare dal danno di autostima e di reputazione (Campbell, 2002), fino a casi vittimizzazione, di abuso verbale o fisico, o allo sviluppo di problemi di salute derivanti da malattie sessualmente trasmissibili.

Il corteggiamento nella psicologia evoluzionistica

Da questa breve presentazione l’immagine romantica del corteggiamento cede il passo alle ragioni della psicologia evoluzionistica, i cui studi ci mostrano un lato della sessualità e del corteggiamento meno idealizzato, ma fondato empiricamente e con basi teoriche consistenti: la specie non sopravvive senza la riproduzione, e perché ciò avvenga la natura prevede dei comportamenti più o meno codificati e ritualizzati, presentati sia dagli esseri umani che dagli animali non umani, in base alle proprie specificità. Danze di corteggiamento, splendidi piumaggi, gorgheggi, lotte: il repertorio dei comportamenti di corteggiamento che la natura offre all’osservatore è tanto vasto quanto inatteso. L’uomo non ne è escluso, e se il pavone fa mostra del proprio piumaggio e le femmine di gorilla fissano languidamente il maschio, perché la donna non dovrebbe ammiccare maliziosamente, tirarsi indietro i capelli, sorridere verso un uomo che vuole attrarre? È strano considerare i segnali di disponibilità sessuale come la forma umana dei comportamenti del pavone o del gorilla?

Certo, uomini e donne hanno adattato i propri rituali di corteggiamento, che possiedono radici molto antiche, ai cambiamenti della società e della cultura. Oggi questi comportamenti possono trovare un’espressione anche molto raffinata e dipendente dal contesto (pensiamo alla situazione del cocktail bar, descritta all’inizio). Tuttavia questi comportamenti, che lo vogliamo o meno, sono finalizzati verso obiettivi di stampo evoluzionistico e la mente umana, con la sua infinita creatività e tensione verso la ricerca di senso, vi imprime significati ulteriori, creando il gioco e la sfida della seduzione, che rendono la vita sicuramente più complicata ma anche molto più interessante.

 

Leggi la prima parte dell’articolo:

Il gioco delle coppie per la psicologia evoluzionistica: i segnali femminili di corteggiamento – Prima parte

Ad un metro dal futuro (2021) di Marco David Benadì – Recensione del libro

Nel libro Ad un metro dal futuro vengono intervistati sedici ragazzi provenienti da contesti diversi, accumunati dalla giovane età, ai quali viene lasciato spazio per potersi esprimere senza essere giudicati.

 

Spesso si parla dei giovani in maniera assolutamente banale, irrispettosi di un’età evolutiva assolutamente complessa quanto complicata. Spesso si parla dei giovani solo per il gusto di ergersi dall’alto di un piedistallo dove tutto è un dovere, dover essere, dover fare, dover ascoltare, senza ricordarsi di quanto un periodo simile sia per loro pieno di punti interrogativi, di contraddizioni da risolvere, ma anche di tanta maturità sorprendente.

L’età tra la pubertà e l’adolescenza è ricca di cambiamenti da ogni punto di vista: il corpo comincia a trasformarsi, cambia il modo di pensare, si entra spesso in conflitto tra il desiderio di rimanere ancorati alla famiglia, un posto sicuro, e dall’altro lato la voglia di sperimentare nuovi orizzonti, di provare quella sensazione di libertà e di indipendenza con uno sguardo rivolto al domani. Se pensiamo poi a questo lungo periodo di pandemia, probabilmente non riusciamo nemmeno ad immaginare fino in fondo quanto questo mondo complesso possa essere ulteriormente scosso, quanto sia stato e sia difficile mantenere quell’equilibrio già di per sé dinamico a causa di un evento così tragicamente inaspettato.

Questo non è un semplice libro, ma un vero e proprio progetto che unisce il nostro Stivale da Nord a Sud, un progetto dove gli stessi giovani sono i protagonisti, narratori della propria storia, fatta di cose, ma soprattutto di persone, di emozioni, di pensieri, di desideri, di motivazioni, di bisogni, di paure, di aspettative, di volontà.

In particolare vengono intervistati sedici ragazzi provenienti da contesti diversi, pervasi da una parte dalla quiete meravigliosa di campagne sconfinate, ma dall’altra dall’ingombro di palazzoni di periferia, contesti che spaziano dal mare alla città, sedici ragazzi accumunati dalla giovane età a cui viene lasciato finalmente spazio. Uno spazio per esprimersi senza essere giudicati, uno spazio dove essi stessi divengono i protagonisti, dove finalmente nessuno impartisce lezioni di vita, uno spazio intriso di concetti e di messaggi che vanno ben oltre a quegli argomenti stereotipati assolutamente banali che la società spesso addita loro.

Un progetto supportato da un’associazione Onlus, Il Gruppo Abele, fondato nel 1965 da don Luigi Ciotti, per affrontare e cercare di superare tutte quelle situazioni che provocano emarginazione, diseguaglianza, senso di vuoto e di smarrimento con l’intento di dare supporto concretamente a tutti coloro che vivono situazioni di disagio.

Dalla lettura di questo testo è possibile immaginare uno ad uno tutti questi ragazzi che raccontano di sé, delle proprie famiglie e soprattutto di quello che per loro sembra poter essere il futuro. Parlano a nome di tutti i loro coetanei per cercare di trasmettere il loro punto di vista e nei loro racconti, se pur letti, traspare tutto il loro entusiasmo e la loro voglia di essere ed esserci.

Che cosa ci si aspetterebbe da questa gioventù sospesa?

Racconti di moda, di successo irraggiungibile, di ricerca di perfezione, di social, in una parola di futilità. E invece tutt’altro, l’aspettativa viene meno già dai primi racconti. E allora il lettore rimane con il fiato sospeso, perché si rende conto che la gioventù moderna è fatta di ben altro, è una gioventù da cui si può apprendere molto, una gioventù che chiede semplicemente aiuto, perché spesso non è davvero ascoltata e capita.

Questi giovani parlano di valori, di una famiglia spesso fatta di nonni saggi e accudenti, di madri che tornano distrutte dal lavoro, ma sempre pronte a preparare la cena e magari portare fuori il cane. La casa non è solo uno spazio, afferma Francesca, 18 anni. È fatta di piccoli gesti quotidiani per lei importanti, senza i quali non avrebbe senso vivere. Questi giovani amano leggere, conoscono Socrate, Foscolo, la dichiarazione universale dei diritti umani, ascoltano musica che li aiuta a riempire i momenti difficili. Questi giovani sono consapevoli di una società che spesso li addita come privi di sostanza, ma ecco le parole di uno di loro: Alle volte penso che noi giovani siamo etichettati come superficiali, come se non ci importasse di quello che accade tutti i giorni. Secondo me invece siamo proprio noi che stiamo lì a pensarci più di tutti, perché abbiamo davanti un futuro che ci spaventa.

Il futuro: ognuno di loro ne parla a suo modo, ma trasmette il fatto di pensarci costantemente. È un futuro ancora confuso, un futuro che è importante proteggere fin da subito per non rischiare di perderlo per sempre. Questi ragazzi pensano anche a coloro che verranno e proprio per questo credono che sia giusto fare più attenzione al pianeta, parlano di progetti per salvaguardarlo non solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista valoriale ed emotivo. Aspirano ad un mondo non più intriso di odio, dove ci sia maggiore consapevolezza dell’altro, dove la parola altruismo non sia solo una voce senza senso, dove amare significa prendersi le proprie responsabilità e farlo attivamente. Riporto le parole di Salvatore, 17 anni, di Palermo che risultano toccanti nella loro semplicità: Io credo che le parole non bastino. Amore e generosità, dette così sono solamente parole. Almeno fino a quando non diventano “fatti” d’amore e “fatti” generosi.

Le parole di questi giovani lasciano davvero il segno, quando discorrono del lockdown manifestano tutto il proprio disagio incompreso. Spesso gli adulti non si accorgono di che cosa significa veramente per loro stare rinchiusi, non avere la possibilità di formarsi a scuola a stretto contatto con gli insegnanti e con la possibilità di confrontarsi con gli altri compagni, senza uno schermo davanti.

In effetti il problema esiste e ben è stato sottolineato al Convegno internazionale di Suicidologia e Salute pubblica-XIX Edizione, dove ben emerge il disagio giovanile in questo periodo di pandemia, disagio che non va affatto trascurato. Chi afferma che i ragazzi se ne stiano beatamente a casa senza problemi fa un grosso sbaglio e queste sedici interviste lanciano un segnale diretto.

Si parla anche di arte, di politica, di tecnologia, di socialità, di lotta al razzismo, si parla persino del tema della morte, vista non tanto come fine della vita, ma come paura di invecchiare senza poter essere felice.

Questo testo spazia oltre i confini delle pagine, porta il lettore adulto davvero a stretto contatto con una gioventù così fragile, ma allo stesso tempo così determinata, ma dà anche la possibilità a quello più giovane di ritrovarsi, di non sentirsi più solo o sbagliato. Un piccolo testo che si trasforma in un potente mezzo di aiuto per i giovani, ma anche uno strumento attraverso cui gli stessi giovani possono aiutare noi adulti a comprendere meglio questa età sospesa.

Quello spirto guerrier ch’entro gli rugge ad un metro dal futuro ha davvero tanto da insegnarci.

 

“Anno nuovo, vita nuova”: Capodanno e i propositi di cambiamento

Spesso il giorno di Capodanno è visto come un’opportunità per fare il punto, per scegliere nuovi propositi e obiettivi per l’anno nuovo.

 

Cosa guida il nostro comportamento

In psicologia e in psichiatria, il controllo intenzionale del comportamento è stato studiato spesso, in particolare per quanto riguarda le implicazioni sul cambiamento.

Alcuni teorici adottano una spiegazione di stampo più cognitivo: Miller, Galanter e Pribram (1960) ad esempio hanno fornito una spiegazione di come i “piani” auto sviluppati vengano eseguiti. Altri studiosi invece propongono una visione di tipo comportamentale, come quella avanzata da Kanfer e Phillips (1970) che prende in esame parametri e determinanti di una risposta comportamentale da modificare, (ad es. l’inizio di una nuova risposta; la cessazione e la resistenza di una vecchia) e delle relative risposte “controllanti” (Skinner, 1953; Marlatt & Kaplan, 1972).

Comportamenti, obiettivi e cambiamento

Va inoltre sottolineato come il comportamento sia guidato dal perseguimento degli obiettivi personali, che promuovono l’adattamento e il benessere psicologico anche quando non vengono raggiunti (Sheldon & Elliot, 1999). Austin e Vancouver (1996) definiscono gli obiettivi personali come rappresentazioni cognitive di risultati futuri desiderati, che implicano uno sforzo per raggiungere un esito positivo. La flessibilità dell’obiettivo è la capacità di vedere le battute d’arresto con equanimità per regolare l’obiettivo da perseguire, mentre la tenacia è definita come la persistenza dello sforzo utile al raggiungimento di un obiettivo specifico, anche in condizioni difficili (Siltanen et al., 2019). Nonostante la ricerca abbia approfondito poco l’argomento, il giorno di Capodanno è comunemente visto come un’opportunità per fare il punto della propria vita, scegliere nuovi obiettivi e darsi nuovi propositi (Dickson et al., 2021).

Il mantenimento dei nuovi propositi stabiliti a Capodanno

Dickson e colleghi (2021) hanno indagato se la flessibilità e la tenacia degli obiettivi, in modo indipendente, prevedono un aumento del benessere e la risoluzione di un obiettivo da perseguire. Per testare quest’ipotesi, è stato svolto uno studio longitudinale online, a cui tutti i partecipanti hanno partecipato subito dopo Capodanno e prima della fine di gennaio. Le misure di base somministrate nel tempo 1 (T1) sono state seguite da tre sondaggi, con un intervallo di tempo di due settimane tra T1 e T2, T2 e T3. Dato che le precedenti ricerche suggeriscono che le persone tendono a non perseguire gli obiettivi imposti se non per qualche settimana e basta (Griffiths, 2016), è stato incluso un intervallo di quattro settimane tra T3 (fine del primo mese) e T4, un tempo specifico alla fine del secondo mese utile per accertarsi che i partecipanti stessero perseguendo lo scopo che si sono imposti (Dickson et al., 2021). Il campione totale era composto da 182 studenti universitari, 144 reclutati in Australia e 38 nel Regno Unito. Nello specifico, le misurazioni del tempo T1 sono state riportate da 161 partecipanti, del tempo T2 da 92 persone, del tempo T3 da 65 e del tempo T4 da 54. È stato somministrato il New Year Resolution Task (adattato da Dickson e Moberly, 2010) per chiedere ai soggetti di scegliere un proposito per l’anno nuovo, la TEN/FLEX (Henselman et al., 2011) per valutare la flessibilità dell’obiettivo e la tenacia, la WEMWS (Tennant et al., 2007) utile ad indagare i livelli di benessere, infine è stato chiesto ai partecipanti di valutare tre elementi: impegno, adesività e dedizione (Dickson et al., 2021). È stato aggiunto un quarto punto dedicato alla risoluzione, in quanto otto partecipanti riferiscono di aver abbandonato il loro obiettivo al tempo T2, sei al tempo T3 e sette al tempo T4: il motivo maggiormente contrassegnato è stato il cambiamento delle priorità (ad esempio, avere un figlio) o delle circostanze (Dickson et al., 2021).

Tenacia e flessibilità degli obiettivi ci aiutano davvero con i buoni propositi?

I risultati evidenziano come non ci siano differenze significative tra il campione australiano e il campione inglese. I propositi più frequenti riguardano soprattutto la dieta e l’ esercizio fisico. La flessibilità degli obiettivi correla positivamente con il benessere mentale a lungo termine e non prevede il rispetto dei propositi del nuovo anno, mentre la tenacia correla positivamente con il benessere solo nel tempo T1. Nel complesso, la ricerca suggerisce come né la flessibilità degli obiettivi, né la tenacia consentono di prevedere il perseguimento dei propri propositi, sebbene la flessibilità risulti associata a livelli più altri di benessere mentale (Dickson et al., 2021).

 

Neurofisiologia del sonno

Il sonno è uno stato di coscienza alterato in cui possiamo vedere e sentire soltanto quel che è presente nella nostra mente, tuttavia attraverso il sogno possiamo integrare inconsciamente elementi esterni nel sonno. Sonno e sogno difendono la nostra salute mentale.

 

Il sonno è un comportamento fisiologico indispensabile per la sopravvivenza dell’individuo, che garantisce il riposo, il recupero delle energie mentali e fisiche e il consolidamento della memoria.

È regolato da tre fattori: fattore omeostatico, fattore allostatico e fattore circadiano, che vediamo di seguito:

  • fattore omeostatico: se l’organismo è privato del sonno, tende a recuperare almeno una parte del sonno perduto non appena gli è possibile.
  • Fattore allostatico: il termine ‘allostatico’ si riferisce alle reazioni ad eventi ambientali stressanti (per esempio, se siamo minacciati da una situazione pericolosa è importante rimanere svegli e vigili).
  • Fattore circadiano: i ritmi biologici circadiani sono ritmi a cadenza quotidiana, che si adattano all’alternanza del giorno e della notte e che regolano la maggior parte delle nostre funzioni corporee. Le funzioni corporee – metabolismo, pressione sanguigna, temperatura corporea, tono muscolare, ciclo sonno/veglia etc – hanno variazioni periodiche in un lasso di tempo di circa 24 ore. Il corpo umano è come dotato di un orologio endogeno che coordina e gestisce velocità, intensità ed efficacia della maggior parte delle nostre funzioni. I fattori circadiani, pertanto, restringono il sonno in particolari periodi del ciclo giorno/notte.

Il sonno è uno stato di coscienza alterato in cui possiamo vedere e sentire soltanto quel che è presente nella nostra mente, tuttavia attraverso il sogno possiamo integrare inconsciamente elementi esterni nel sonno. Sonno e sogno difendono la nostra salute mentale. Il sonno è di vitale importanza per l’organismo: una deprivazione del sonno altera gli stati di coscienza e comporta difficoltà di concentrazione e di applicazione di compiti, mancanza di lucidità, allucinazioni, deliri e, in casi estremi, compromissione fisica e mentale, collasso e morte.

Sonno e aree cerebrali

Dal punto di vista neurobiologico, il sonno è un processo attivo e ritmico indotto da diverse aree cerebrali:

  • Nuclei della formazione reticolare: essi sono situati nel ponte, il punto di transizione tra encefalo e midollo spinale, e la loro funzione principale è quella di attivare o disattivare le funzioni cerebrali in base all’utilizzo di neurotrasmettitori eccitatori o inibitori. Nel caso del sonno, i nuclei del rafe utilizzano la serotonina apportando un effetto inibitorio sui nuclei della base per indurre e mantenere il sonno, mentre il locus coeruleus utilizza la noradrenalina apportando un effetto eccitatorio. Lo stato di sonno e di veglia dipende dal diverso strato della formazione reticolare e dal rapporto tra i suoi nuclei e il talamo.
  • Ipotalamo: il pacemaker circadiano è localizzato nel nucleo sovrachiasmatico dell’ipotalamo anteriore che è influenzato dal ciclo luce/buio, dalla temperatura e da fattori ormonali. Nello specifico, il sonno è indotto dall’area preottica ventrolaterale dell’ipotalamo, che inibisce GABA e galanina, cioè il sistema attivante la veglia.
  • Talamo: il talamo è la stazione di controllo dei segnali afferenti verso la corteccia. Influenza i fusi del sonno e controlla lo stato di coscienza e la transizione sonno-veglia.

Con la scoperta delle onde alpha e l’introduzione dell’elettroencefalogramma (EEG) – che registra l’attività elettrica del cervello mediante macroelettrodi collocati sul cuoio capelluto – si è iniziato uno studio scientifico e sistematico del sonno.

Le fasi del sonno

Dai tracciati dell’EEG in fase di veglia e sonno sono emerse varie fasi di funzionamento:

  • Stadio 0 o veglia rilassata: in questa fase si registrano onde alpha di modesta ampiezza, irregolari e di alta frequenza.
  • Stadio 1 o dormiveglia: è la fase di addormentamento o sonno leggero, in cui la frequenza e l’ampiezza delle onde cominciano a ridursi. Si entra nel sonno e compaiono onde theta.
  • Stadio 2 o sonno medio: questa fase è caratterizzata da onde miste di varia intensità con fusi del sonno, che garantiscono un sonno indisturbato da sollecitazioni leggere, e complessi K, rapide e improvvise deflessioni verso l’alto e verso il basso, periodi isolati di inibizione neurale implicati nel consolidamento della memoria.
  • Stadio 3 o sonno sincronizzato: il sonno diventa profondo, le punte delle onde si fanno più ampie e numerose e compaiono onde delta.
  • Stadio 4 o sonno profondo (o ad onde lente):  il soggetto si desta con difficoltà, le onde sono lente e ampie, così come è lento il battito cardiaco, ed è la fase del sonno più riposante. Alla fine di questo stadio ricompaiono le onde theta, i complessi K e i fusi del sonno. I quattro stadi  – stadio 1, stadio 2, stadio 3 e stadio 4 – compongono la fase NON REM del sonno, una delle due macroaree del sonno, che è caratterizzata da una sincronizzazione dell’EEG (onde lente), tono muscolare moderato, assenza di attività genitale, movimenti oculari lenti o assenti.

Dallo stadio 4 del sonno NON REM si passa alla fase REM, l’altra macroarea del sonno. La fase REM del sonno corrisponde circa al 20% del sonno totale, è caratterizzata da una desincronizzazione dell’EEG, presenta onde piccole, veloci e irregolari, movimenti oculari con palpebre chiuse (REM è acronimo di “Rapid Eyes Movements”). In questa fase, denominata anche ‘sonno paradosso’, il cervello è attivo, ma il sonno è profondo. Il tono muscolare è assente, il corpo è pressoché paralizzato, in quanto la maggior parte dei motoneuroni centrali e spinali risulta inibita e la temperatura corporea continua ad abbassarsi. Il flusso ematico cerebrale e il consumo di ossigeno sono accelerati (la velocità del flusso ematico aumenta in corrispondenza della corteccia visiva associativa riflettendo le allucinazioni visive indotte dai sogni e si abbassa a livello della corteccia visiva primaria riflettendo il fatto che gli occhi non ricevono alcun imput visivo), il battito cardiaco e la pressione sanguigna aumentano. Durante alcuni momenti della fase REM si evidenziano nell’uomo l’erezione del pene mentre nella donna la stimolazione del clitoride e secrezioni vaginali. La fase REM è inoltre caratterizzata dalla comparsa dei sogni – che assumono una forma narrativa; il sogno è una particolare forma di pensiero fantasticato e sganciato dalla realtà, l’aspetto che assume l’attività psichica durante il sonno. Se di notte ci capita di svegliarci durante la fase REM ricorderemo il nostro sogno. Se ci capita di svegliarci durante uno degli stadi della fase N-REM non ricorderemo il nostro sogno. L’intero ciclo di sonno si ripete 4-5 volte ogni notte e ognuno di essi dura 90-110 minuti, di cui 20-30 minuti di sonno REM. Per l’esattezza, la differenziazione tra sonno REM e sonno N-REM sussiste a partire dai sei mesi di vita del bambino, età in cui la struttura del sonno viene interpretata come quella dell’adulto: la sola diversità sta nella durata dei cicli di sonno e nella quantità di tempo impiegata in ogni stadio. Durante la primissima infanzia i bambini hanno bisogno di dormire per un periodo di tempo compreso tra le 14 e le 18 ore; solo verso le otto settimane di vita comincia ad allungarsi il sonno notturno e a diluirsi quello diurno. Precisamente il sonno nella prima infanzia – prima, in ogni caso, dei sei mesi di vita –  è strutturato in sonno attivo (corrisponde al futuro sonno REM, occupa la metà del tempo di sonno totale e comprende cicli di 60 minuti) e sonno calmo (che corrisponde al futuro sonno N-REM e occupa l’altra metà di tempo).

Sonno e attaccamento infantile

Il sonno è strettamente connesso all’attaccamento infantile: esso è regolato da processi psicofisiologici che determinano una diminuzione significativa dei livelli di vigilanza e arousal; affinché tali processi si verifichino è necessario che il soggetto percepisca un sufficiente senso di sicurezza fisica ed emozionale: dormire bene è garantito da uno stile di attaccamento sicuro. L’attaccamento sicuro, infatti, determina la modalità di tratto di regolazione delle emozioni, la reattività allo stress del bambino e la maturazione psicobiologica. Attraverso un’esperienza ripetuta di regolazione positiva fornita dai genitori, il bambino assimila un attaccamento sicuro, grazie al quale è capace di maturare strategie autoregolatorie che facilitino l’addormentamento e il riaddormentamento dopo un risveglio notturno anche in assenza del genitore e che ottimizzino la qualità del sonno.

Insonnia e disturbi del sonno

Uno dei principali disturbi del sonno è l’insonnia: l’insonnia è un disturbo del sonno caratterizzato da una reiterata difficoltà di inizio, mantenimento, durata e qualità del sonno. L’insonnia è presente nonostante l’opportunità di ottenere quantità e condizioni di sonno adeguate. Presenta sintomi diurni – sonnolenza, irritabilità, difficoltà sociali e occupazionali, calo del tono dell’umore, fatica e malessere, difficoltà di concentrazione e di memoria, riduzione della motivazione, dell’energia e dell’iniziativa, propensione ad errori ed incidenti e apprensione nei confronti del sonno – e sintomi notturni – difficoltà di inizio e mantenimento del sonno e sonno leggero o non ristorativo.

L’insonnia indica l’incapacità di addormentarsi dopo un risveglio notturno o dopo esser andati a letto, ma va definita in relazione alle necessità individuali di ore di sonno: non è necessariamente costante nel tempo per sintomi ed entità e ha una componente di percezione soggettiva e caratterizzante. L’insonnia rappresenta un problema occasionale per il 25% della popolazione, mentre per il 9% un disturbo persistente. Può trasformarsi in sintomo vero e proprio quando è causata da angoscia e disagio ma può anche derivare da fattori indipendenti dalla sfera psicologica.

Esistono quattro principali tipi di insonnia:

  • Insonnia idiopatica: insorge in età infanto-giovanile e perdura per tutta la vita, non è influenzata da stress o fattori ambientali ma dalla familiarità e la causa è un anomalo controllo dei meccanismi che regolano il ciclo sonno/veglia.
  • Insonnia psicofisiologica: rappresenta il 15% delle insonnie, prevale nelle donne e nelle persone di mezza età; insorge dopo un evento stressante e chi ne soffre mostra apprensione per la sua difficoltà di addormentarsi, avverte il bisogno di dormire ma appena si reca a letto non riesce ad addormentarsi ed è altamente suscettibile a sollecitazioni esterne.
  • Pseudoinsonnia: non è un vero e proprio disturbo a livello clinico, indica la percezione soggettiva di un disturbo del sonno senza apparenti reperti di alterazione oggettiva; le persone che ne soffrono riportano di dormire poco o di non dormire affatto o di avere un sonno poco ristorativo, ma ciò è smentito generalmente dai partner di letto. In realtà, il riposo per il numero totale di ore rientra nella norma, ma durante la notte avvengono micro-risvegli, dovuti ad un’eccessiva attività mentale, che comportano una frammentazione della qualità e della continuità del sonno.
  • Apnea morfeica: particolare forma di insonnia caratterizzata da incapacità di dormire e respirare contestualmente; le persone che ne soffrono si addormentano e smettono di respirare. Durante una crisi di apnea morfeica, il livello ematico di anidride carbonica stimola i chemiorecettori, la persona quindi si sveglia annaspando profondamente in cerca di aria. Il livello ematico di ossigeno torna normale, la persona si addormenta di nuovo e il ciclo ricomincia da capo.

L’insonnia può manifestarsi fin dalla prima infanzia: i disturbi di insonnia in età infantile costituiscono uno dei principali motivi di consultazione pediatrica. Si stima che circa il 30% dei bambini in età pediatrica dorma male e che durante i primi tre anni di vita i disturbi di insonnia riguardino soprattutto le difficoltà di addormentamento e i risvegli notturni. La base eziopatogenica, in tal caso, quasi sempre è rappresentata da un’interazione multifattoriale di variabili fisiologiche, genetiche, costituzionali e legate all’interazione tra bambino e caregiver; solo in meno del 20% di casi di insonnia infantile si riconosce una causa organica. La diagnosi di insonnia in età pediatrica non viene mai emessa al di sotto dei sei mesi di vita, dal momento che i risvegli notturni sono assolutamente fisiologici e normali a quest’età. Le difficoltà di addormentamento e mantenimento del sonno o entrambe, quando il bambino è molto piccolo, spesso derivano da associazioni inappropriate e disfunzionali col sonno, determinate da una dipendenza del bambino da specifiche situazioni stimolo (es. il bambino necessita di essere cullato per potersi addormentare), dal setting (es. presenza del genitore nella stanza da letto del bambino) o da un oggetto (es. un ciuccio). L’assenza di tali condizioni potrebbe determinare un ritardo netto nella fase di inizio del sonno, tuttavia il bambino sarebbe nuovamente in grado di recuperare la capacità di addormentarsi qualora venissero ripristinate le suddette condizioni.

 

La realtà virtuale (VR) nel trattamento di Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder. La terapia di esposizione allo stimolo nella VR: perché funziona e le prove di efficacia

Diversi studiosi si sono occupati di esplorare ed indagare nuove opzioni di trattamento per i disturbi alimentari, tra cui Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder, e una direzione particolarmente promettente prevede l’integrazione della realtà virtuale (VR) con i trattamenti evidenced-based (EBT) già esistenti

 

I disturbi alimentari (DA) sono disturbi mentali diffusi, invalidanti e spesso cronici (Carvalho et al., 2017) e spesso comportano gravi conseguenze psicologiche e fisiologiche (APA, 2013). Secondo il DSM-5, si caratterizzano per un disturbo persistente dell’alimentazione o per comportamenti ad essa correlati che determinano un consumo alterato di cibo che compromette la salute fisica e il funzionamento psicosociale. In questo articolo faremo particolare riferimento ai disturbi alimentari di tipo binge-purge (Carvalho et al., 2017): Bulimia Nervosa (BN) e Disturbo da Alimentazione Incontrollata, chiamato anche Binge Eating Disorder (BED).

Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder

Bulimia e Binge Eating Disorder si caratterizzano per un modello di alimentazione disordinata la quale consiste in episodi di consumo insolitamente elevato di cibo, in un determinato periodo di tempo, accompagnati da sensazioni soggettive di perdita di controllo (APA, 2013). Nella bulimia, gli episodi di abbuffate sono seguiti da comportamenti compensatori inappropriati per evitare l’aumento di peso. Il comportamento più comune è il vomito auto-indotto, seguito poi dall’abuso di lassativi, il digiuno o eccessivo esercizio fisico. Nel Binge Eating Disorder (BED), invece, gli episodi di perdita di controllo sono spesso seguiti da vergogna, orrore o pensieri depressivi. Questi episodi di alimentazione incontrollata che caratterizzano bulimia nervosa e BED possono essere innescati da fattori emotivi e ambientali, come un evento di vita significativo, spesso correlato a perdita, cambiamenti significativi della vita dai quali scaturiscono autocritica nell’individuo o che portano a sperimentare affetti negativi, angoscia e solitudine (Burton & Abbott, 2017).

Il trattamento di Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder

Le Linee Guida di pratica clinica (NICE, 2017) raccomandano la terapia cognitiva comportamentale (CBT) come approccio psicoterapico più efficace. Tuttavia, in media solo il 50% dei pazienti va in remissione mentre il 24% abbandona prima di completare il trattamento (Brown et al., 2020). Per questo motivo diversi studiosi si sono occupati di esplorare ed indagare nuove opzioni di trattamento per i disturbi alimentari e una direzione particolarmente promettente prevede l’integrazione della realtà virtuale (VR) con i trattamenti evidenced-based (EBT) già esistenti. La realtà virtuale (VR) può essere descritta come “una forma avanzata di interfaccia uomo-computer che consente all’utente di interagire e immergersi in un ambiente generato dal computer in modo naturalistico” (Schultheis & Rizzo, 2001). L’aspetto fondamentale per la funzionalità e l’efficacia della realtà virtuale è che sia in grado di suscitare il senso di presenza, ovvero la sensazione di “esserci” effettivamente all’interno dell’ambiente digitale che sostituisce le percezioni reali (Riva, 2021). Affinché ciò si realizzi, sono necessari due fattori: immersione e interazione (Gorini et al., 2010). L’immersione avviene attraverso l’utilizzo del dispositivo tecnologico che consente agli utenti di sentirsi fisicamente presenti nel mondo virtuale. L’interazione si ottiene permettendo agli utenti di interagire con il mondo virtuale in tempo reale, quindi vivere l’ambiente virtuale come reale o molto simile al reale. Maggiore è il senso di presenza percepito, più è realistica l’esperienza virtuale e più è intenso il coinvolgimento emotivo degli utenti, e di conseguenza si sperimenta un più alto livello di reazioni (Gutiérrez-Maldonado et al., 2006; Gorini et al., 2010). Infine, sempre con lo scopo di suscitare una risposta emotiva paragonabile a quella reale nei soggetti che l’utilizzano, è di fondamentale importanza che gli ambienti virtuali siano clinicamente significativi tali da evocare le paure e i pensieri sperimentati nella vita reale (Perpiñá et al., 2003).

Disturbi alimentari e realtà virtuale

Negli ultimi 25 anni, una delle applicazioni cliniche più efficaci della realtà virtuale è stato l’ambito dei disturbi alimentari (DA) con lo sviluppo di approcci terapeutici innovativi (Clus et al., 2018; Gutiérrez-Maldonado et al., 2016; Ferrer-García et al., 2013). Tra questi, uno degli interventi clinici più comuni nei DA quali bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata, è la terapia di esposizione allo stimolo (in inglese Cue Exposure Therapy, CET) in VR.

La CET si basa sul modello di condizionamento classico dell’alimentazione incontrollata (Jansens, 1998): l’esposizione graduale e ripetuta ad un segnale di abbuffata mira ad estinguere l’associazione tra il segnale (stimolo condizionato, CS) e la risposta disadattiva (stimolo incondizionato, US). In quest’ottica, la vista, il gusto, l’olfatto o il contesto in cui si mangia sono considerati stimoli che determinano in modo affidabile l’assunzione di cibo e possono agire come stimoli condizionati (CS), e l’assunzione di cibo è considerata uno stimolo incondizionato (US). La presenza degli stimoli condizionati suscita risposte fisiologiche che vengono vissute come desiderio intenso (es: irresistibile voglia di mangiare) e possono aumentare la probabilità degli episodi di abbuffate. Lo scopo di tale procedura di intervento è estinguere e/o abituare il desiderio intenso e incontrollabile per il cibo (craving) e le risposte ansiose in risposta agli stimoli legati al cibo, riducendo in questo modo il rischio associato all’episodio di abbuffata nei pazienti con bulimia nervosa e binge eating disorder (Ferrer- García et al., 2019; Gutiérrez-Maldonado et al., 2016). In termini più semplici, l’intervento mira a rompere il legame tra gli stimoli condizionati e l’innesco dell’episodio di abbuffata.

Utilizzare la realtà virtuale nell’applicazione di tale intervento offre diversi vantaggi rispetto all’esposizione tradizionale (in vivo o per immagini) per ridurre il desiderio di cibo e i livelli di ansia. Innanzitutto, la realtà virtuale permette di entrare in simulazioni sicure ed ecologiche degli scenari di vita reale, molto più simili e rappresentative delle situazioni in cui di solito si verificano i comportamenti alimentari disfunzionali. Inoltre, la realtà virtuale permette di erogare ripetutamente gli stessi segnali e scenari con una ricca stimolazione multisensoriale, consentendo quindi di attenuare la risposta e allo stesso tempo di graduare la difficoltà e personalizzarla per ogni specifico paziente.

VR-CET per pazienti Bulimia e Binge Eating Disorder

Diversi studiosi si sono occupati di indagare l’efficacia della VR-CET come terapia di secondo livello in gruppi di pazienti con bulimia e BED, e hanno ottenuto risultati molto promettenti.

In particolare, in uno studio randomizzato e controllato con un follow-up di 6 mesi (Ferrer-García et al., 2017; Ferrer-García et al., 2019), un campione di pazienti con bulimia e BED, in seguito al fallimento del trattamento cognitivo-comportamentale (cognitive behavior therapy, CBT), è stato esposto, in sei sessioni di realtà virtuale, ad una gerarchia di ambienti virtuali che simulavano varie situazioni legate al cibo in cui erano presenti alimenti precedentemente valutati come quelli che innescano i più alti livelli di desiderio (es: cibo ad alto contenuto calorico, cucina). I risultati di tale studio riportano un miglioramento dell’ansia legata all’alimentazione sia a breve che a lungo termine, una riduzione significativa del numero di episodi di abbuffata e di eliminazione, ed una riduzione della tendenza auto-riferita a mettere in atto episodi in perdita di controllo, pensieri legati al desiderio di cibo e all’ansia, rispetto ad un gruppo di controllo che era stato sottoposto a sessioni aggiuntive di CBT. Inoltre, tutti i pazienti hanno mostrato riduzioni significative nei punteggi clinici al questionario che misura la presenza del disturbo alimentare (Eating Disorder Inventory, EDI, Garner et al. 1983), in particolare nella scala relativa alla spinta alla magrezza e all’insoddisfazione per il corpo, indipendentemente dal gruppo di appartenenza.

Infine, una recente metanalisi ha dimostrato l’efficacia dell’intervento della VR nel ridurre la frequenza delle abbuffate evidenziando il potenziale della realtà virtuale nell’aiutare i pazienti con BED e bulimia nervosa a sviluppare strategie di coping verso gli stimoli alimentari e situazionali (Low et al., 2021). Come nello studio precedente, è stato riscontrato che l’esposizione al segnale in VR sia particolarmente efficace nel ridurre l’intenso desiderio del cibo e l’ansia associata, che tipicamente innescano episodi di abbuffata nei pazienti con BED e bulimia nervosa (Brown et al., 2020; Burton & Abbott, 2017).

In conclusione, si può affermare che la letteratura dimostra come la VR-CET sia valida ed efficace come trattamento di secondo livello per pazienti con bulimia nervosa e BED, in quanto non solo riduce la frequenza di comportamenti di perdita di controllo e compensatori, ma permette anche un miglioramento della reazione emotiva legata al cibo in termini di ansia e di desiderio.

 


Dialogo sul lavoro e la felicità (2021) di Paolo Iacci e Umberto Galimberti – Recensione

Il libro Dialogo sul lavoro e la felicità tratta la complessità del mondo del lavoro oggi, chiedendo se possa essere uno strumento di realizzazione della propria identità, oltre che un mezzo di sopravvivenza.

 

Oggi viviamo in mondo basato sul mito del successo e dove solo il possesso di denaro è basilare per consentire una vita felice. Non sappiamo più cosa sia giusto o sbagliato, cosa ci rende felici o infelici, sappiamo solo ciò che è utile e ciò che ci fa guadagnare.

É possibile svegliarsi ogni mattina ed essere felici di andare a lavoro? Come può il lavoro essere fonte di benessere non solo economico, ma anche emotivo? E soprattutto, quando abbiamo smesso di chiederci cosa ci rende davvero felici, cosa favorisce la realizzazione del nostro sé più autentico?

Non aspettatevi misteri finalmente risolti o risposte semplicistiche. Questi interrogativi nel dialogo tra Galimberti e Iacci partono da un’analisi più filosofica della conoscenza che l’uomo deve avere di se stesso per raggiungere la felicità (intesa come scopo della vita), fino ad indagare le logiche del mercato su cui si fonda la società contemporanea e la conseguente perdita di senso generale cui assistiamo oggi, a partire dai più giovani. Perché se esiste una certezza, è che per inseguire il mito del successo e del denaro, stiamo dimenticando di chiederci cosa ci appassiona veramente, cosa ci piace fare, ci stiamo dimenticando di fare l’unica cosa che può dare un senso alla nostra vita, cioè esprimere noi stessi. Il senso della vita risiede in quello che siamo, che abbiamo fatto e che stiamo facendo. Galimberti e Iacci non pretendono di avere la verità in tasca, ma di indurre una riflessione profonda, attraverso uno scambio quanto mai stimolante, illuminante, provocatorio, educativo.

Oggi manca lo scopo, affermano le due menti. Un numero sempre più elevato di giovani si domanda perché dovrebbe investire energie ed impegnarsi se già sa che con grandi difficoltà potrà raggiungere stabilità economica; perché studiare se non si hanno speranze di trovare un lavoro che possa essere fonte di soddisfazione. Può il lavoro effettivamente essere la leva di sviluppo dei propri talenti, di realizzazione della propria identità e non solo un mezzo di sopravvivenza, più o meno agiata? In una società in cui siamo abituati a misurare il nostro valore a suon di like vi è l’urgenza di educare alla sensibilità, ai sentimenti, ad una visione della vita fatta tutt’altro che di sicurezze. E questo a partire dalle agenzie primarie: la famiglia e la scuola. Ai bambini bisogna dire la verità, spiegare che nella vita non tutto è garantito e che non ci sarà per sempre il genitore a risolvere i problemi; un’adeguata educazione emotiva ridurrebbe, forse, questa sperimentazione di angoscia e insignificanza nei giovani. La scuola, dal canto suo, non dovrebbe formare “futuri diplomati parcheggiati all’università”, ma insegnare che i libri, i contenuti, servono per imparare a pensare, a sviluppare l’abilità del pensiero critico per andare oltre ai significati evidenti delle cose; ad avere delle idee proprie, a non diventare vittime di un sistema o di ritmi imposti dall’esterno. E infine, c’è bisogno di educazione ai sentimenti anche nelle organizzazioni, poiché il talento è una fonte da cui sgorga acqua sempre nuova. Ma questa fonte perde ogni valore se non se ne fa il giusto uso, scrive Wittgeinstein.

Una vita all’insaputa di chi siamo veramente non è degna di essere vissuta.

 

La relazione tra nevroticismo e aritmia sinusale respiratoria durante il COVID-19

La pandemia di coronavirus (COVID-19) ha segnato un periodo di crisi che ha portato a profondi cambiamenti di vita.

 

Il 21 gennaio 2020 è stato identificato il primo caso di COVID-19 negli Stati Uniti (Schuchat, 2020), mentre il 22 marzo New York City era un epicentro globale della pandemia, rappresentando oltre il 5% dei casi nel mondo (Evelyn, 2020; Szency & Nelson, 2021). Sono state adottate misure urgenti per controllare la diffusione di COVID-19 e gli individui dovevano adattarsi a restrizioni mutevoli come confinamento in casa, imprevisti finanziari e incertezza riguardo al rischio di infezione (Szency & Nelson, 2021).

L’aritmia sinusale respiratoria

La variabilità della frequenza cardiaca (HRV) è un marcatore transdiagnostico di rischio per la psicopatologia (Beauchaine & Thayer, 2015). Nello specifico, è una misura della capacità del sistema nervoso autonomo di rispondere in modo flessibile e di adattarsi agli stimoli nell’ambiente. Un indicatore dell’HRV pensato per indicizzare il controllo vagale del sistema nervoso parasimpatico è l’aritmia sinusale respiratoria (RSA). Come l’HRV, l’RSA viene misurata esaminando le variazioni di tempo tra battiti cardiaci consecutivi, ma si differenzia dall’HRV, che esamina specificamente la variazione durante i cicli respiratori. L’RSA misura l’aumento della frequenza cardiaca durante l’inspirazione e una sua diminuzione durante l’espirazione, è quindi una misura della modulazione parasimpatica del cuore tramite il nervo vago. La ricerca suggerisce che indici RSA a riposo, quindi più bassi, portano ad una minore regolazione delle emozioni e della capacità di funzionamento esecutivo (Beauchaine, 2015; Hamilton & Alloy, 2016). Le metanalisi hanno trovato che l’RSA è associata ad ansia e a disturbi depressivi (Chalmers et al., 2014; Koenig et al., 2016), in quanto risulta essere un marcatore di depressione, della gravità dei sintomi e della risposta al trattamento (Chambers & Allen, 2002).

I tratti di personalità e il nevroticismo

Il modello a cinque fattori è uno dei modelli di personalità più utilizzati e ben supportati. Questo modello sostiene che la personalità può essere definita da diversi tratti, attraverso cinque dimensioni: amicalità, estroversione, apertura all’esperienza, stabilità emotiva e coscienziosità (McCrae & John, 1992). Il modello a cinque fattori ha guadagnato molta attenzione negli ultimi anni, portando diversi ricercatori ad indagare i suoi legami con la psicopatologia. Benché la ricerca supporti le relazioni tra tutti e cinque i tratti e le varie forme di psicopatologia (Malouff et al., 2005), alcune ricerche mostrarono che il nevroticismo riflette una disposizione caratteristica a sperimentare emozioni negative (Lahey, 2009). Quest’ultimo mostra forti relazioni con l’insorgenza di disturbi internalizzanti, suggerendo che può riflettere una responsabilità generale per la psicopatologia (Kotov et al., 2010; Tackett et al., 2008). Lo studio di Liu e colleghi (2020) indica che un maggiore nevroticismo è associato ad un aumento dello stress, mentre Kroenke e colleghi (2020) evidenziano un aumento degli effetti negativi (Kroencke et al., 2020) durante la pandemia di COVID-19.

Sintomi internalizzanti durante la pandemia di Covid-19

Prima dell’analisi di Szency e Nelson (2021), nessuno studio ha esaminato se la RSA predice i cambiamenti nei sintomi internalizzanti durante la pandemia di COVID. Gli obiettivi di questo studio sono l’indagine dei cambiamenti interni alle persone durante la pandemia di COVID a New York, l’identificazione delle esperienze specifiche che potrebbero contribuire all’internalizzazione dei sintomi e l’analisi dell’RSA e del nevroticismo pre-COVID, visti come predittori di cambiamenti nei sintomi di internalizzazione. Sono stati reclutati 222 studenti dell’università di Stony Brook, a Long Island, che hanno svolto dei test e delle misurazioni con l’elettrocardiogramma (ECG) per valutare i sintomi di ansia e depressione. Nello specifico, il test somministrato prima e durante la pandemia è l’Inventory of Depression and Anxiety Symptoms (IDAS-2; Watson et al., 2012), mentre quelli somministrati prima sono il Big Five Inventory (BFI; John & Srivasta, 1999), il Respiratory Sinus Arrhythmia (RSA; Allen et al., 2007) e il Pandemic Experiences Survey, un disegno di ricerca coniato dai ricercatori dell’esperimento per indagare i vari cambiamenti di vita relativi alla pandemia di COVID-19 (Szency & Nelson, 2021). I risultati della ricerca indicano come un aumento dei sintomi di disagio è associato ad un numero maggiore dei cambiamenti di vita, i sintomi di paura ed ossessione alle preoccupazioni per l’infezione e per la necessità dei bisogni di base, mentre una diminuzione dell’umore è associata a preoccupazioni maggiori sulla scuola e sul confinamento sociale (Szency & Nelson, 2021). Come osservato con l’IDAS-II, il nevroticismo è l’unico fattore di rischio pre-pandemico associato ad un aumento dei sintomi di disagio e ad una diminuzione delle caratteristiche positive dell’umore. Esiste un’interazione tra nevroticismo ed RSA in relazione ai sintomi di angoscia, ma solo quando l’RSA è basso. Questi risultati suggeriscono che la pandemia di COVID-19 ha contribuito ad aumentare i sintomi internalizzanti nei giovani adulti e i fattori di rischio possono portare ad un maggior rischio di sviluppare psicopatologie, in quanto diversi aspetti della pandemia potrebbero contribuire a particolari cambiamenti nell’interiorizzazione stessa (Szency & Nelson, 2021).

 

Il delirio come risposta dinnanzi a un’impronta psicopatologica insita nell’esperienza – Il ruolo del delirio nella ridefinizione del proprio Sé

Il delirio, in rapporto alle vicende traumatiche, evidenzia il delinearsi di un forte desiderio individuale di “essere parte del mondo”, con modalità differenti, nuove, accompagnate da una concezione della realtà altrettanto autentica.

 

Esso verrebbe ad assumere un valore teso a ripristinare il senso di continuità del proprio Sé, della propria realtà e soprattutto del proprio tempo interiore.

Questa forma psicopatologica circoscritta alla sfera del pensiero non la si vuole descrivere come una dimensione di cui si è prigionieri, bensì come una cornice all’interno della quale è possibile (trovandovi la spiegazione di tutto) trovare una nuova identità, all’interno della quale emerge un nuovo dipinto che non solo lascia il segno, ma che inizia ad assumere una forma, una sua cornice autentica e fortemente personale.

Come sottolineato da Tustin (1981): in soggetti che presentano croniche storie di trascuratezza, le emozioni traumatiche popolano quella parte della psiche definibile come “inconscio non rimosso”. Esse inoltre sembrano dare forma alla nascita e nondimeno alla costituzione di veri e propri “buchi corporei”, capaci peraltro di evocare un vissuto terrificante, tipico dei quadri sia psicotici che borderline.

Questi buchi e, come detto sopra, queste fessure assumono pienamente le sembianze di una voragine o meglio ancora di un vuoto. In riferimento a questa tesi il contributo di Giuseppe Craparo (2017) è volto ad evidenziare come tali emozioni impediscano notevolmente al soggetto di fare e di vivere un’esperienza consapevole dei propri stati mentali, che vengono mantenuti ad un livello pre-simbolico, sensoriale e peggio ancora primitivo.

Ciò che non è stato detto e che non si riesce ad inquadrare in una cornice simbolica, sfocia in un vissuto sensoriale, caratterizzato dall’impiego di difese dissociative, come modalità di gestione del dolore.

Tali modalità e soprattutto tali sensazioni sopra descritte sono state riprese più nello specifico dalla figura di R. Meares, (2015) che ha approfondito la dinamica del disturbo borderline.

Ciò che l’autore vuole evidenziare è una identità connotata da senso di vuoto, paura della solitudine e soprattutto instabilità nell’immagine di Sé. Inoltre Roy Grinker (2015), fondatore dell’Istituto di psicosomatica di Chicago, ha aggiunto come la condizione di tale disturbo non debba configurarsi come una regressione, bensì come una mancata maturazione del Sé.

Infatti una delle principali conseguenze può essere rintracciata in un ambiente relazionale pienamente fallimentare. Nondimeno la figura di Judith Herman consente di porre l’accento sulle varie modalità o meglio ancora sulle varie strategie di adattamento sia all’ambiente che alla sfera interna.

Se quindi l’esperienza traumatica può rappresentare il punto di partenza, ad essere molteplici sono le modalità di risposta individuali, volte a restituire un senso alla propria identità e soprattutto alla propria esperienza corporea e temporale, le quali subiscono drastiche modifiche.

Che ruolo ricopre il delirio nella propria cornice psichica?

Giunti a questo punto viene da chiedersi quale ruolo rilevante possa ricoprire il delirio e se possa rappresentare una modalità sia di risposta che di adattamento, ma anche e soprattutto uno strumento tramite il quale provare a sciogliere un nodo esperienziale celato ormai da troppo tempo.

Nella sua essenza il delirio è stato descritto come una sensazione di “scoperta”, caratterizzato dalla sensazione che la nuova idea affacciatasi alla coscienza permetta di “restaurare un ordine, di completare un quadro” (Rossi Monti, M. 2008, p. 5).

Meissner (1978) ha definito questo passaggio come “processo paranoico” funzionale ad organizzare un sistema di credenze coerente, che permette altresì al soggetto di interpretare la realtà e soprattutto di organizzarla in sintonia coi suoi bisogni di “adattamento”.

Se in una prima parte la mancata integrazione dovuta alle esperienze traumatiche non ha fornito una sequenza ed una scansione temporali, quella che viene a riscontrarsi è un’operazione finalizzata alla “integrazione stessa, al mantenimento dell’integrità e del senso di coesione del Sé”.

A voler essere raggiunti sono da una parte una gerarchia di significati e dall’altra una relazione con il mondo, il tutto al semplice scopo “chiarificatore”.

Volendo provare a rafforzare sempre più la connessione dell’aspetto delirante con la dimensione esperienziale e psicopatologica, in letteratura viene sottolineato il ruolo scatenante giocato dallo stress. Quest’ ultimo inteso a volte come l’apice di un background, la punta di un iceberg, dietro la quale si cela (come ribadito da Sanavio) una soglia oltre la quale le “capacità di fronteggiamento della persona cedono”.

Un’affermazione che deve far percepire lo stress come connesso a condizioni pienamente soggettive e di carattere relazionale. In questi casi infatti il delirio servirebbe a “tamponare una condizione altrimenti ingestibile”.

Il delirio e lo spazio tempo al confine con la psicosi

Nondimeno, come riportato da Antonio Correale (1995), il valore delirante sembra assumere dei connotati temporali. L’autore ha evidenziato per l’appunto una differenziazione tra il delirio nell’ambito della schizofrenia, che come ricorda Germani può riscontrarsi in alcuni casi di trauma estremo, e il delirio nel soggetto borderline.

Riprendendo in considerazione dunque l’importanza che il tempo e lo spazio assumono nella vita di ciascuno di noi e il rischio di essere bloccati nel passato a seguito di eventi dannosi e ripetitivi, Correale rimarca come nella prima condizione (schizofrenia) ad albergare la psiche del soggetto siano “mondi misteriosi” all’interno dei quali il tempo sembra fermo ed il passato pietrificato in alcuni scenari.

Nel secondo caso invece (borderline) il tempo è “velocissimamente fluttuante” ed il passato ridotto a pochi fantasmi ipersemplificati.

Quanto si viene a riscontrare è un ulteriore concetto ovvero quello della “momentaneizzazione”, che nel soggetto borderline è rappresentata dalla concentrazione sul presente.

Come sottolineato da Kimura Bin (1992) il rischio non solo è di perdere sé stessi, ma al contempo di sentirsi “assorbiti nell’immediatezza” in una sequenza di “ora -ora”. Con il conseguente rischio di una illusione connotata dal bisogno di colmare il vuoto, un tempo privo di fluidità e soprattutto uno spazio che risulta assente.

Come ribadito dall’autore manca la possibilità di riferirsi ad un futuro nel quale raggiungere finalmente la possibilità di “essere sé stesso”.

Se quindi nello schizofrenico la possibilità estrema di realizzazione della propria esistenza risiede nel suicidio, nel soggetto borderline non vi è una ricerca di “un futuro”, ma l’unione immediata con la “pura presenza”.

L’esperienza in cortocircuito

Pertanto in considerazione degli sviluppi traumatici è possibile notare come la loro ripetitività rischi di sbilanciare non solo il proprio rapporto con la sfera intrapsichica e con la realtà esterna, ma ancor di più come non sempre permettano la creazione di un “asse del tempo” che rappresenti da una parte la frontiera tra il passato ed il futuro e dall’altro un sano dialogo “tra entità indipendenti”.

Per avere una cornice che accolga quanto detto sin ora è opportuno un ulteriore contributo di Giaconia e Recalbuto (1997), secondo i quali “traumatiche sono tutte quelle vicende che non sono suscettibili di elaborazione psichica; accadimenti sia interni o esterni che non possono essere integrati nella realtà psichica, perché non vengono reperiti mezzi adeguati ad esprimere rappresentazioni di tali dati dell’esperienza”.

Vincenzo Bonaminio (2005), parla invece di una vera e propria “installazione residente del trauma”. Infatti con questo assunto si mette in risalto la serie di effetti indiretti del trauma stesso, connessi prevalentemente sia con il continuo lavoro di assorbimento che con la fatica di convivere con questi vuoti di pensiero in continua successione.

Due risposte che rischiano di portare ad una implosione e ad un tentativo di ripristinare, ricostruire la propria trama identitaria, che possa finalmente collocarsi nello spazio e nel tempo, ritrovando il giusto ritmo.

 

Il gioco delle coppie per la psicologia evoluzionistica: i segnali femminili di corteggiamento – Prima parte

Parlare di relazioni tra uomini e donne è sempre difficile. Parlare di corteggiamento può esserlo anche di più. Esistono alcune caratteristiche di personalità e dei comportamenti che la psicologia considera rilevanti per il gioco – tutto umano ma con radici molto antiche innestate nel percorso dell’evoluzione della specie – della ricerca del partner e del corteggiamento 

Il presente articolo è il primo di una serie di due articoli sull’argomento. Il prossimo contributo verrà pubblicato nei prossimi giorni

 

Per capire cosa intendo dire, prendiamo a prestito una scena da un qualsiasi film che ai lettori della mia età potrebbe essere familiare: siamo in un cocktail bar. Luci calde, musica jazz in sottofondo, bancone di mogano e rifiniture cromate. Dietro di esso il barista è in maniche di camicia e sta mettendo in ordine qualcosa. Di fronte a lui, su uno sgabello, una donna beve qualcosa mentre fuma una sigaretta. Aspetta un’amica. Sa di essere osservata dall’uomo al tavolo in fondo alla sala, ma fa finta di nulla. Sa inoltre che restituirgli lo sguardo vorrebbe dire invitarlo ad avvicinarsi e ad avere una conversazione che lei non vuole iniziare. A un certo punto, stancamente, fa una smorfia di disgusto, guarda il soffitto e sbadiglia. L’uomo che la sta guardando vede che in quei gesti c’è un messaggio rivolto a lui. Capisce che la donna non è interessata al gioco delle avances, e inizia a pensare che farebbe meglio a cambiare bar, oppure cambiare obiettivi per la serata. In quei gesti muti, rapidi e altamente comunicativi c’è tutto un mondo, quello dei segnali di corteggiamento (e del suo rifiuto), che la psicologia può aiutarci a vedere.

In questa breve serie di due articoli si cercherà di descrivere alcune delle caratteristiche di personalità e dei comportamenti che la psicologia considera rilevanti per il gioco – tutto umano ma con radici molto antiche innestate nel percorso dell’evoluzione della specie – della ricerca del partner e del corteggiamento, con una focalizzazione sul genere femminile e sulle relazioni a breve termine, con cui si intende soprattutto la relazione di stampo sessuale, che può secondariamente essere indirizzata anche all’acquisizione di altri vantaggi evoluzionistici.

I segnali di corteggiamento

La psicologia non è nuova allo studio dei comportamenti coinvolti nella ricerca di un partner. In uno studio effettuato negli anni ’80, Moore ha osservato che in contesti rilevanti per questo scopo, le ragazze esibivano verso i ragazzi alcuni comportamenti specifici, e che le ragazze che ne esibivano di più venivano avvicinate con maggiore frequenza rispetto a chi ne mostrava di meno (Moore, 1985). Partendo dall’osservazione di interazioni in contesti naturali (ad esempio  una mensa universitaria, la biblioteca, una sala d’attesa) e dopo averne ricavato una lista molto ampia di comportamenti, l’autrice giunse a identificarne tra di essi quattordici che venivano usati con maggiore frequenza e che erano connessi ad un maggiore successo nel promuovere la vicinanza del potenziale partner: mostrare le gambe tirandosi su la gonna (quando presente); sporgersi in avanti verso l’altro; mostrare all’altro il palmo della mano come per invitarlo; toccare distrattamente i propri vestiti come per aggiustarseli, ma senza che ce ne sia il bisogno; fare un cenno con la testa all’altro; guardare rapidamente l’altro per poi distogliere subito lo sguardo; ridere in direzione dell’altro; sorridergli; fissarlo per un breve periodo di tempo; leccarsi il labbro superiore, o inferiore, o entrambi; accarezzare un oggetto; rivolgere all’altro un sorriso malizioso; toccarlo; passarsi una mano tra i capelli tirandoli indietro; e infine buttare all’indietro i capelli con un rapido movimento della testa.

Sebbene possa sembrare riduttivo e ingenuo catalogare dei comportamenti con l’aspettativa di dimostrare che riconoscendo e usando questi ‘segnali di disponibilità’ (anche se non da soli!) si possano derivare previsioni sul successo nella ricerca di un partner, studi successivi sono partiti dalle stesse idee della Moore per studiare quali sono i segnali comportamentali che si presentano con maggiore frequenza in circostanze di questo tipo e quale effetto possono avere sul destinatario.

I segnali di corteggiamento, di disponibilità e di rifiuto

Ma prima di parlarne, potrebbe essere interessante cercare di comprendere il perché, in contesti nei quali è probabile incontrare un potenziale compagno, le donne utilizzino spesso queste modalità comunicative indirette, ambigue, passibili di fraintendimento, e in grado di mettere sulle spine (e caricare con l’eccitazione della sfida) anche il più ardito dei Casanova. Fermo restando l’impatto della cultura e dei contesti di riferimento sulle modalità d’uso e sul significato di questi comportamenti, che senso hanno i segnali di disponibilità?

Alcune plausibili ragioni di fondo provengono dalla ricerca di stampo evoluzionistico, per la quali la femmina della specie non è passiva nella ricerca del partner (Buss & Duntley, 1999), ma che, anzi, decida di volta in volta quali tattiche di corteggiamento impiegare in base al grado di investimento nella relazione che si aspetta dall’altro: enfasi sulla fedeltà di coppia, per alti livelli di investimento nella relazione; enfasi su segnali di disponibilità sessuale a breve termine se è atteso un livello di investimento basso, allo scopo di ottenere vantaggi non legati alla riproduzione quanto piuttosto sicurezza, protezione, o vantaggi di altro tipo (Cashdan, 1993).

Per il sesso maschile la spiegazione sembra essere più semplice: in natura chi non riesce a interpretare il linguaggio del corteggiamento femminile è tagliato fuori dal gioco della riproduzione e quindi della trasmissione dei geni, poiché gli è precluso l’accoppiamento (cfr. Goetz, Easton, Lewis & Buss, 2012).

D’altronde i comportamenti mirati alla gestione della propria immagine a livello sociale (il cd. impression management) con finalità più o meno manipolatoria, sono presenti in tutto il mondo animale e sono ben documentate. Tra le scimmie rhesus, ad esempio, il mostrare una competenza sociale inferiore a quella realmente posseduta può far ottenere vantaggi materiali in presenza di maschi di status superiore (Drea & Wallen, 1999). Gli esseri umani mettono in atto comportamenti più sofisticati, ma gli scopi sono simili. Tutti noi abbiamo vissuto, per esempio, situazioni nelle quali, per mostrarci competenti e dare un’impressione di professionalità, abbiamo preferito mostrare all’altro una parte di noi meno amichevole e disponibile, oppure fare il contrario, mostrare calore e disponibilità, per sembrare più amichevoli (ad es. Holoien & Fiske, 2013).

In questo senso, la possibilità di usare segnali di disponibilità al corteggiamento porta a due conseguenze. La prima è che diviene possibile manipolare il proprio comportamento per apparire più attraenti in relazione ai propri obiettivi (una relazione a breve o a lungo termine) e a quelli che si credono essere i desideri dell’altro (cfr. Buss, 1988). La seconda conseguenza è che, conoscendo quali sono questi segnali, si sarà in grado di comprendere cosa sta facendo la concorrenza (un/a nostro/a rivale nel corteggiamento).

Non a caso, quindi, maschi e femmine sono ben informati sull’uso dei segnali di corteggiamento per attrarre un potenziale partner (ad es. Greer & Buss, 1994), ed è stato rilevato come le donne siano maggiormente sensibili, accurate e reattive, rispetto agli uomini, alla presenza di segnali di seduzione emessi dalle altre donne (Goetz, Easton & Buss, 2014) e come in genere la reazione a questi comportamenti sia perlopiù negativa (di tipo verbale, sociale/ relazionale, fino anche all’aggressione fisica; Vaillancourt & Sharma, 2011). Quest’ultimo aspetto potrebbe essere una delle ragioni per le quali si tende a minimizzare la consapevolezza di tali condotte o, in altre parole, usare tattiche di seduzione anche senza sapere che lo stiamo facendo (cfr. von Hippel & Trivers, 2011).

E per quanto riguarda il rifiuto, se invece si vuole mostrare all’altro di non essere disponibili a farsi avvicinare? Per gli esseri umani di sesso femminile, alcuni di questi segnali sembrano essere il non guardare il potenziale partner, girare il corpo e lo sguardo da un’altra parte, muovere la testa in segno di ‘no’ e l’aggrottare le sopracciglia (Clore, Wiggins, & Ith, 1975; Moore, 1998).

Conclusioni

In sintesi, tenendo in considerazione l’impatto che la cultura e le situazioni in cui ci troviamo esercitano sul nostro modo di fare, sembra che i comportamenti che segnalano la disponibilità – o il rifiuto – ad essere avvicinati da un potenziale partner siano in qualche modo codificati, catalogabili e siano riconosciuti da entrambi i sessi. La prossima parte tenterà di dare un’idea di quali sono alcuni segnali comportamentali femminili che la psicologia rileva essere letti da uomini e donne come segnali di disponibilità ad una relazione a breve termine di tipo sessuale.

Nello specifico il focus sarà sugli indizi di ‘exploitability’ femminile, di particolare interesse perché legati all’espressione di una qualche forma di vulnerabilità (reale, o solo vista come tale dall’osservatore) che, a sua volta, tende ad associarsi all’essere percepiti dall’altro come un potenziale partner o rivale per una relazione (perlopiù intesa come relazione a breve termine). L’exploitability si manifesta attraverso segnali precisi, che attivano nell’osservatore emozioni e pensieri legati all’attrazione sessuale, motivando così l’impiego di comportamenti (tattiche e strategie) volti a raggiungere l’obiettivo di sfruttare (sessualmente) l’altro (target) percepito come facilmente accessibile (Goetz et al., 2012).

 

Leggi la seconda parte dell’articolo:

Il gioco delle coppie per la psicologia evoluzionistica: i segnali femminili di corteggiamento – Seconda parte

Psicologia a strappo (2021) di Luca Mazzucchelli – Recensione del libro

Il nuovo libro dello psicologo e psicoterapeuta Luca Mazzucchelli, Psicologia a strappo, è un’esperienza editoriale che diventa sensoriale, non solo al tatto e alla vista.

 

È possibile, infatti, strappare le pagine del testo e donare a sé stessi o agli altri uno dei suoi 60 pensieri.

Una lettura che rientra a buon diritto nel genere della ‘crescita personale’ ma con un formato decisamente originale.

60 suggestioni per 128 pagine che attraggono l’attenzione del lettore con una straordinaria esplosione di colori e un tratto distintivo che aiuta a fissare bene i concetti che l’Autore intende trasferire.

Perché e come questo libro può aiutarti ad intraprendere il tuo percorso di crescita personale?

Al suo interno non troverai esclusivamente frasi motivazionali.

Il testo presenta, infatti, una struttura ben precisa che prevede 5 livelli di sollecitazione:

  • Visiva: data dal colore e le immagini delle originali illustrazioni che impreziosiscono ogni pensiero;
  • Proiettiva: ogni figura può rimandare emozioni, riflessioni uniche e personali;
  • Cognitiva: la frase attiva un pensiero;
  • Mentalizzazione: approfondendo la suggestione attraverso i contenuti integrativi dell’Autore si arriva ad un livello più profondo di riflessione;
  • Tattile: la carta lucida, setosa e la possibilità di strappare le pagine stimolano un ultimo grado di attivazione nel lettore.

Se sei un amante dei colori e non disdegni le opportunità di ispirazione anche online è possibile scaricare le tavole cromatiche del libro per impostarle come sfondo del cellulare o del pc.

L’idea dell’Autore è quella di far diventare ogni singola frase-percorso un mantra personale da sviluppare in autonomia, ma preferibilmente insieme a chi può condividere una parte del sentiero insieme a noi.

Ecco perché invita a condividere le pagine e i pensieri custoditi con gli altri, anche strappandole se serve.

Qualora trovassi il coraggio di procedere con gli strappi potresti incorniciare le immagini, affiggerle su di una bacheca, si potrebbero inserire anche all’interno di un diario o di un’agenda.

Personalmente penso che le utilizzerò anche in studio per stimolare con colori e piccole provocazioni un naturale fluire di idee e ipotesi di cambiamento.

Una breve ma intensa miniera di opportunità di riflessione che dovresti dedicarti.

Voglio lasciarti con una delle 60 frasi e non è neanche la mia preferita, o meglio non è semplicissimo averne una data l’utilità e il potere di ingaggio di tutte: Il dolore è inevitabile, l’infelicità è una scelta.

Psicologia a strappo di Luca Mazzucchelli è un libro da leggere e da riprendere al bisogno per ricaricare le energie in tutti quei momenti in cui si ha bisogno di una spinta positiva al fare.

Non si tratta del classico libro di crescita personale, ma di un concentrato di psicologia alla quale attingere a piene mani in base al proprio desiderio di conoscenza e alla specifica fase di vita che si sta attraversando.

Un testo perfetto anche da regalare.

Buona lettura!

 

L’efficacia del ruolo dei clown negli ospedali pediatrici

Il pioniere del clowning ospedaliero è stato il medico americano Patch Adams, a metà degli anni ’70. Si è poi sviluppata la figura del clown ospedaliero che aiuta a creare uno stato emotivo positivo in bambini e adolescenti e favorisce un atteggiamento di speranza anche ai genitori.

 

Diversi studi in letteratura dimostrano come l’autostima, il benessere e altri fattori psicologici possano influenzare e migliorare le risposte ad un trattamento nei pazienti ricoverati in ospedale.

Alcune procedure di intervento eseguite in ospedale possono, infatti, aumentare il carico emotivo di un paziente, soprattutto quando si tratta di bambini o adolescenti e provocare diversi sintomi che si aggiungono a quelli per i quali sono stati ricoverati (Lopes-Júnior et al., 2015). Alleviare tali cluster di sintomi è diventata quindi una priorità nelle cure pediatriche. Intorno agli anni ’80 in Nord America è stata introdotta la figura del clown ospedaliero, pensata principalmente per pazienti pediatrici in condizioni gravi. Tale figura si riteneva avesse un ruolo importante nelle cure sanitarie: sembrava avere un effetto positivo sugli esiti dei trattamenti nei bambini e sul recupero (Spitzer, 2006). I clown ospedalieri solitamente sono comici con costumi stravaganti e vivaci che usano la produzione teatrale e il mimo per intrattenere bambini e genitori.

L’origine dei clown ospedalieri

Il pioniere del clowning ospedaliero è stato il medico americano Patch Adams, a metà degli anni ’70. Successivamente si è sviluppata la figura del clown dottore il quale, tramite la musica, l’improvvisazione, la magia, la narrazione e la giocoleria, fornisce una forma di assistenza sanitaria a bambini e adolescenti in ospedale, aiutando a creare uno stato emotivo positivo e favorendo un atteggiamento di speranza anche ai genitori. I clown sfruttano il potere dell’umorismo, del gioco e i benefici fisiologici della risata, ben espressi nella frase “la risata è la migliore medicina”, per affrontare i bisogni psicosociali dei pazienti ricoverati, adattando le loro competenze ad ogni situazione, paziente e procedura medica che viene eseguita (Lopes-Jùnior et al., 2020). Attualmente diversi programmi di clowning ospedaliero operano in tutto il mondo fornendo una forma complementare di assistenza sanitaria, in particolare in Europa, Stati Uniti, Inghilterra, Brasile, Canada, Israele, Sud Africa e Hong Kong (Raviv, 2014).

Alcuni studi hanno dimostrato che il clowning riduce lo stress e l’ansia nei bambini sottoposti ad alcuni interventi chirurgici con anestesia o ad altre procedure invasive (Sridharan & Sivaramakrishnan, 2016; Könsgen et al., 2019); altri studi hanno dimostrato che riduce il disagio psicologico sperimentato poco prima di un intervento (Zhang et al., 2017).

Lopes-Júnior e colleghi, nel 2020 hanno condotto una revisione sistematica per valutare gli effetti dei clown in vari contesti ospedalieri pediatrici su diversi cluster di sintomi in bambini e adolescenti ricoverati in ospedale con condizioni acute o croniche. Sono stati inclusi nella revisione studi controllati sia randomizzati che non randomizzati che valutavano bambini e adolescenti ricoverati in ospedale per condizioni acute o disturbi cronici; studi che confrontavano la figura del clown ospedaliero con le cure standard e, infine, che valutavano l’effetto dei clown ospedalieri sulla gestione dei sintomi di bambini e adolescenti ricoverati come risultato primario. Tramite il metodo PRISMA (Moher, 2009) dal 1947 a Febbraio 2020 sono stati analizzati diversi articoli utilizzando le seguenti banche dati: Medline, ISI of Knowledge, Cochrane Central Register of Controlled Trials, Science Direct, Scopus, American Psychological Association PsycINFO, Cumulative Index to Nursing and Allied Health Literature e Latin American and Caribbean Health Sciences Literature. 24 studi hanno soddisfatto i criteri di ammissibilità (n=1612) e sono stati quindi inclusi dagli autori; tra questi la maggior parte erano randomizzati controllati (n=13). Inoltre i sintomi analizzati sono stati l’ansia (che risulta il sintomo più frequente), il dolore, le risposte psicologiche ed emotive e il benessere percepito, lo stress, la fatica legata ad una malattia come il cancro e infine il pianto.

L’effetto positivo dei clown ospedalieri

I risultati mostrano che i clown ospedalieri hanno un effetto positivo nel migliorare il benessere psicologico e le risposte emotive nei bambini e negli adolescenti ricoverati con disturbi acuti e cronici. In particolare, alcuni studi hanno rilevato che i bambini e gli adolescenti ai quali ha fatto visita un clown ospedaliero, riportano significativamente meno ansia e un migliore adattamento psicologico (Vagnoli et al., 2005; Vagnoli et al., 2010; Wolyniez et al., 2013;  Kocherov et al., 2016). Inoltre, gli interventi dei clown hanno ridotto l’ansia in sala pre-operatoria prima di interventi dolorosi e durante l’induzione di anestesia rispetto ai bambini che hanno ricevuto interventi standard. Un articolo (Bertini et al., 2011) ha riportato una migliore evoluzione clinica nei bambini con patologie respiratorie che hanno interagito con i clown in ospedale, i quali avevano pressione diastolica, frequenza e temperatura ridotte. Anche i livelli di cortisolo salivare erano ridotti in diversi studi (Sánchez et al., 2017; Saliba et al., 2016), sebbene in uno sembravano invece aumentare nei bambini del gruppo dei clown rispetto a quello di controllo (Newman et al., 2019). In aggiunta, la presenza di un clown medico durante una procedura dolorosa tendeva a migliorare i livelli di dolore nei bambini più piccoli di 7 anni (Wolyniez et al., 2013). Il ruolo dei clown ha ridotto anche il disagio psicologico, la paura e il dolore durante un esame anogenitale; anche i periodi di pianto di ciascun bambino sembrano essere più brevi in presenza dei clown ospedalieri (Hansen et al., 2011). Infine, nei ragazzini che hanno interagito con un clown, vi è stato un aumento del benessere psicologico e delle risposte emotive.

In conclusione i risultati suggeriscono che che la presenza di clown negli ospedali durante le procedure mediche, l’induzione dell’anestesia in sala pre-operatoria e come parte delle cure di routine per le condizioni croniche può essere una strategia per gestire alcuni cluster di sintomi. Inoltre, i clown ospedalieri sembrano migliorare il benessere psicologico e le risposte emotive nei bambini e negli adolescenti ricoverati con disturbi acuti e cronici, rispetto a quelli che hanno ricevuto solo cure standard (Lopes-Júnior et al., 2020).

MOOC e nuovi modelli di apprendimento nel XXI secolo

Massive Open Online Course (MOOC) sono corsi online ad accesso aperto a tutti, gratuiti e accessibili da qualsiasi dispositivo, con materiali sempre disponibili.

 

Oggi l’e-learning rappresenta una rivoluzione e questo ambiente di apprendimento può essere sfruttato per fornire corsi online di formazione ad un costo minore rispetto alla partecipazione a formazioni tradizionali. Internet permette agli studenti di avere un accesso immediato alle risorse didattiche, di riconsultare i materiali on line e di vedere gli aggiornamenti inseriti in tempo reale e agli insegnanti di diffondere conoscenze e competenze, fornire percorsi formativi personalizzati nella struttura dei contenuti, possibilità di raggiungere numeri elevati di studenti e persone situate a grandi distanze, abbattendo le frontiere di spazio e tempo. Dunque internet può essere usato sia dai professionisti (esperti riconosciuti in un campo di studio) per offrire il proprio lavoro e percepire un guadagno, che dagli alunni per apprendere e imparare, restando comodamente seduti alla sedia della propria scrivania.

La diffusione dei Massive Open Online Course (MOOC)

In questo contesto, si prospetta un tipo di corso online ad accesso aperto a tutti, gratuito e accessibile da qualsiasi dispositivo, con materiali sempre disponibili, ossia il Massive Open Online Course (MOOC). Esso si presenta come un programma educativo liberamente condiviso, che non richiede commissioni o spese e nessun requisito ad eccezione di una buona connessione Internet. I Massive Open Online Courses hanno attirato l’interesse globale nei pochi anni dalla loro prima apparizione nel 2008. Nel 2012, l’Università di Harvard e il Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno lanciato la piattaforma MOOC edX, la quale ha offerto i suoi primi sette corsi nel mese di Ottobre, uno di questi con 53.000 iscritti. Nel 2013 ci sono stati 77 partner globali che hanno lavorato con Coursera, uno dei principali fornitori di MOOC.

Negli ultimi anni sono state lanciate in Europa molte piattaforme no-profit per i corsi online aperti di massa (MOOC) allo scopo di fornire un apprendimento permanente e un’istruzione soddisfacente di alto livello. Di conseguenza, le offerte MOOC continuano ad espandersi, comprendendo non solo argomenti di scienze e tecnologie informatiche (Rodriguez 2012), ma anche sostenibilità ambientale, cambiamento climatico, conoscenza e consapevolezza di sé e benessere psicologico.

Pro e contro dei MOOC

Vari autori hanno fornito riepiloghi completi dei pro e dei contro di un MOOC (Gettler, 2013; Hartman, 2013; Zellner, 2013). Tra i vantaggi vengono riconosciuti: la possibilità di condividere informazioni, di avere un’esperienza di apprendimento continuo e flessibilità temporale nel lavoro. Invece, tra le criticità sono state annoverate: l’eventualità di incorrere in cattive esperienze, una più alta probabilità di abbandono rispetto ai corsi in presenza e la necessità di tempo a disposizione. In virtù di un crescente interesse per i MOOC sia da parte delle Università che da altri fornitori, Littlefield (2015) ha definito alcuni motivi per cui numerosi studenti hanno iniziato a preferire l’istruzione a distanza piuttosto che l’istruzione in aula e faccia a faccia, tra cui la possibilità di studiare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, l’opportunità di incontrare professori e collaboratori da tutto il mondo e di scegliere una scuola adatta al proprio stile di apprendimento e la dimostrazione scientifica che l’apprendimento basato sul web è altrettanto potente dell’apprendimento in una classe convenzionale. Molti MOOC includono anche attività interattive che consentono di “imparare facendo”.

L’articolo di Bier et al. (2015) esplora i benefici di apprendimento dell’uso di risorse informative (ad es. video e testo) nei MOOC, rispetto al learning by doing, ossia alle opportunità offerte dalle attività interattive. Un’opportunità emersa di recente per confrontare le caratteristiche didattiche di questi due diversi modelli è quella di constatare come le variazioni nell’uso di essi da parte degli studenti influiscano sui risultati di apprendimento ottenuti. Entrambe le modalità offrono ricchi set di dati, anche se con obiettivi diversi e catturano diversi tipi di interazioni con gli studenti. La progettazione di un MOOC con obiettivi di apprendimento implica la considerazione di ulteriori fattori importanti come gli atteggiamenti preesistenti degli studenti e le loro credenze (Dole e Sinatra 1998; Sinatra et al. 2012). Mentre la letteratura esistente discute varie definizioni di atteggiamento (Simonson e Maushak 1996), il termine per lo più si riferisce alle valutazioni psicologiche che un individuo ha riguardo a una persona, un oggetto o un evento (Gagne et al. 1992; Zimbardo e Leippe 1991). Inoltre, l’atteggiamento ha tre componenti: cognitiva, affettiva e comportamentale; pertanto, la ricerca raccomanda un’istruzione che cerca di considerare tutte e tre le componenti (Kamradt e Kamradt 1999). Infatti, dal punto di vista della progettazione di un MOOC, è di estrema importanza: specificare i prerequisiti in termini di target di interesse, il livello di istruzione dei partecipanti, il possesso o no di competenze specifiche per il corso; dunque occorre pensare a chi è rivolto per rendere il MOOC il più possibile adeguato. Definire gli obbiettivi, che ad esempio in un MOOC sul bullismo potrebbero essere quelli di creare consapevolezza ed empatia di fronte alla sofferenza delle vittime, portare alle luce opinioni diverse e ambiguità, accompagnare l’insegnante nel percorso di messa in discussione di sé rispetto all’efficacia delle proprie modalità di insegnamento, acquisire strumenti per modificare le modalità comunicative inefficaci, promuovere le soft skills dei docenti e portare il focus sui segnali d’allarme.

Il tasso di abbandono dei MOOC

Un MOOC non può esistere senza la suddivisone in moduli e la creazione di micro-aree di contenuti del corso. Poiché i corsi e-Learning in genere, non solo i MOOC, hanno un dropout più alto rispetto ai corsi in sede (Levy, 2007), aggiungere strumenti interattivi rende il corso più interessante e previene i tassi di abbandono, quali test d’ingresso, domande intermedie, immagini interattive, approfondimenti, esempi chiarificatori, riepilogo degli argomenti trattati, podcast sia audio sia schematizzanti in forma scritta, podcast video, domande come spunti di riflessione tra i partecipanti e successiva risposta comunitaria, testi da completare, immagini animate con narrazione di sottofondo, contenuti interattivi da attivare con il mouse, schemi conclusivi semplificati, riferimenti a leggi, test finale. Dunque, una delle questioni più dibattute sui MOOC riguarda quella della partecipazione. A tal proposito, due principali filoni pedagogici di MOOC: cMOOC e xMOOC, hanno riportato grandi dimensioni di tassi di “abbandono” nei MOOC rispetto ai corsi tradizionali. Meyer (2012) ha riferito che i MOOC offerti da Stanford e Massachusetts Institute of Technology avevano registrato tassi di abbandono dell’80-95% (Yuan e Powell 2013). Ad esempio, tra i 50.000 studenti che hanno partecipato ad un corso offerto dall’Università della California sulla Piattaforma Coursera, solo il 7% ha completato tutto il corso (Yuan e Powell 2013). Il progetto di ricerca qualitativo di Liyanagunawardena, T. R., Parslow, P. and Williams, S. (2014) nell’Università di Reading ha studiato le prospettive dei partecipanti utilizzando un approccio etnografico, dove i ricercatori stessi sono partecipanti al MOOC e esplorano le prospettive su “abbandono”, “completamento” e “successo”. Tale lavoro ha esplorato le prospettive dei partecipanti ad un MOOC attraverso sei interviste qualitative semi-strutturate faccia a faccia della durata di 30-35 minuti, audio registrate con autorizzazione dei partecipanti e successivamente trascritte integralmente in base ai temi inizialmente identificati e considerandone dei nuovi. Nella maggior parte dei trascritti l’abbandono sembrava riferirsi a tutti coloro che hanno fallito nel finire il corso. Tuttavia, nel chiarire le loro opinioni sull’abbandono di un corso, sono emerse dimensioni interessanti, come la prevalenza di un apparente desiderio da parte degli intervistati di chiarire questo punto di vista. Ad esempio viene affermato “se un partecipante non ha guardato tutte le lezioni o completato uno dei compiti non significa necessariamente che ha abbandonato il corso”. Il fatto che i MOOC siano aperti a tutti, in qualsiasi momento, anche dopo che i corsi sono iniziati potrebbe portare qualche iscritto al programma in tempi successivi all’impossibilità di completare tutte le attività. Queste idee suggeriscono che il tempismo è un fattore cruciale per determinare se un partecipante è un dropout oppure no. Un altro punto di vista è che finché un partecipante al MOOC è stato in grado di imparare qualcosa dal corso, di riflettere su esso e aumentare l’apprendimento, il partecipante non è un droupout. Questo tiene conto del fatto che ci sono molte persone che si iscrivono ad un corso per imparare argomenti specifici e che non sono necessariamente interessate all’intera offerta formativa. Quindi il momento dell’abbandono diventa irrilevante mentre assume maggiore importanza imparare qualcosa di nuovo e/o utile. I partecipanti al MOOC contestano la definizione generalmente usata per gli abbandoni e suggeriscono la necessità di guardare agli abbandoni in una nuova prospettiva considerando la situazione e i fattori dei partecipanti. La partecipazione volontaria gratuita di un corso consente ai partecipanti di visitare il MOOC per argomenti di proprio interesse. Ciò è particolarmente importante per studenti iscritti ad Università a cui vengono proposte anche attività di formazione online e che possono decidere quale argomento approfondire e in quale modalità, cioè se optare per uno studio esclusivamente attraverso le piattaforme online o in modalità blended, quindi una formazione che combina i metodi tradizionali in aula, faccia a faccia, e la formazione autonoma, per creare una metodologia ibrida, in modo che i due approcci si completino a vicenda. Infatti, i MOOC diventano sempre più una metodologia importante nella didattica universitaria, in quanto sono state riportate numerose esperienze positive, seppur molti docenti disapprovano i MOOC in quanto favorirebbero il plagio e tramanderebbero la dominanza di alcuni atenei, una forma di “neocolonialismo” (Altbach, 2014) e le disuguaglianze di classe (Murphy et al., 2014; Stohl, 2014). In contrapposizione a quanto affermato pocanzi, un lavoro di Kolowich (2013) ha dimostrato che molti professori che insegnano tramite MOOC hanno avuto una prospettiva positiva circa questi strumenti: alla domanda se credono che valga la pena utilizzare i MOOC, il 79% ha detto di sì. Pertanto, sono necessari ulteriori studi che approfondiscono gli argomenti trattati in questo articolo.

 

Percorsi alcologici in tempo di pandemia – L’esperienza di un servizio territoriale

Quanto segue illustra il protocollo terapeutico di base per l’alcolismo della Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D. 2 di Salerno. In particolare, si cercherà di valutare anche l’influenza dell’emergenza sanitaria su consumi e modalità di presa in carico.

Riassunto

Il presente lavoro riassume il protocollo terapeutico di base utilizzato dalla Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D 2 di Salerno, in un particolare momento storico come quello marchiato dall’evento pandemico. L’emergenza alcol che la società contemporanea sta registrando, anche nel faticoso periodo attuale – benché attualmente sia venuta un po’ meno l’enfasi delle cronache riportate dai mass-media – richiede di intervenire su un ampio settore della popolazione: oltre la prevenzione, programmi terapeutici integrati, praticabili ed efficaci, consentono una prima risposta a tale problematica. Solo in periodi successivi è possibile valutare l’opportunità di interventi più strutturati.

Summary

The present work reassumes the basic therapeutic protocol, used at Salerno’s Operative Unite for Drugs Addiction, Alcoholisms Section.

Alcohol emergency that the contemporary society is recording, so emphasised by mass media, requires acting on a large sector of population: beside the prevention also an efficacious and feasible therapeutic program, integrated and effective, can give a first answer to this problems. Only afterwards it can be adopted, if necessary, more organised interventions.

Introduzione

L’emergenza alcol che la società attuale registra, benché attualmente più nascosta dall’attenzione rivolta alla pandemia, è tuttavia di portata tale da rappresentare un’assoluta priorità nelle politiche d’intervento sulle problematiche socio-sanitarie; se le cifre ufficiali sono evidenti, la cronaca e l’esperienza diretta del personale sanitario testimoniano il drammatico presentarsi dei danni collegati all’uso di alcolici.

Il concetto di “problema alcolcorrelato”, che ha sostituito quello tradizionale di alcolismo, ha consentito alle dipendenze patologiche in generale di superare ingorghi definitori che impedivano una convincente articolazione terminologica. In altri termini, se resta una differenza clinicamente utile la classica distinzione, espunta dal DSM-5, tra semplice abuso e dipendenza, la definizione succitata permette di ricomprendere nelle tematiche derivate dall’uso di sostanze anche situazioni più sfumate. A questo punto la suddivisione tra uso problematico, abuso e dipendenza ha un valore diagnostico per il singolo caso clinico, ma rispetto ai possibili danni l’intera popolazione può essere esposta, anche nel caso di un singolo comportamento di assunzione, come nel Binge Drinking.

Il progressivo aumento degli utenti con problemi alcolcorrelati che afferiscono ai servizi per le dipendenze ha costretto a riorientare nel tempo l’offerta delle prestazioni erogate, in modo da diversificare i trattamenti, somministrati sulla base delle esigenze dei pazienti e del loro livello di motivazione (De Rosa, 2018). Una presa in carico che comprenda un’attenta valutazione diagnostica, oltre che delle risorse e del livello motivazionale del paziente, prelude alla stesura del piano terapeutico personalizzato; in questa fase il lavoro è centrato sulle caratteristiche dell’utente, sulle dimensioni cliniche presenti e sull’identificazione degli aspetti del suo contesto di vita, in maniera da sviluppare un progetto articolato di cura (Gallant, 1987). Va sempre tenuta in adeguata considerazione la caratteristica cronicità di tale paziente (Mc Lellan, 2000), che ne complica ulteriormente e ne connota in senso specifico la presa in carico.

Quanto segue illustra il protocollo terapeutico di base della Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D. 2 di Salerno. In particolare, si cercherà di valutare anche l’influenza dell’emergenza sanitaria su consumi e modalità di presa in carico. Fondamentalmente, viste le difficoltà insite nel trattamento di un ‘paziente difficile’, e schematizzando, è previsto un percorso a due fasi: un primo livello affronta gli aspetti critici e basali del problema, mirando a promuovere cambiamenti individuali e familiari concreti e il più possibile rapidi. Il secondo livello, raggiungibile nei casi maggiormente favorevoli, persegue obiettivi di più lungo periodo, tesi a promuovere mutamenti sostanziali e strutturalmente definiti.

Considerando che, in molti casi, si accede ad un servizio per le dipendenze con un livello di motivazione non particolarmente alto, è importante offrire delle opportunità adatte a tali situazioni. L’impostazione che la nostra struttura persegue, esaurita la fase diagnostica affrontata ai più vari livelli, si concreta in un eventuale trattamento farmacologico non disgiunto da un breve ciclo di colloqui psicologici, finalizzati a disegnare una nuova cornice di senso entro il quale uno specifico comportamento, che per definizione è comunicazione e ha valore di messaggio, assume finalmente un significato, e una volta ottenuta una comprensibilità della situazione clinica si definisce un intervento di mantenimento. Naturalmente, laddove il livello motivazionale del paziente lo consenta, si prende in considerazione un trattamento più specifico, quale una psicoterapia strutturata, in particolare una terapia ad orientamento cognitivo-comportamentale (Galanter e Kleber, 1998). Inoltre, in alcuni casi viene effettuata un’immissione in un gruppo di autoaiuto, la cui frequenza si affianca al programma terapeutico concordato con il servizio. In altri casi, infine, in seguito alla valutazione della struttura e alla richiesta dell’utente, si provvede all’invio presso una Comunità Terapeutica.

La presa in carico

Il paziente che si presenta al servizio, in genere su iniziativa personale o familiare o tramite invio del medico curante o di altra struttura sanitaria, è sottoposto ad un iter diagnostico approfondito, al fine di inquadrare nel migliore dei modi la sua situazione specifica.

Il primo momento è rappresentato dall’anamnesi sociale e della sua situazione di vita attuale. L’assistente sociale, oltre al colloquio teso alla ricerca dei dati personali, somministra alcuni questionari di primo livello, in particolare l’AUDIT, che permettono una comprensione generale del tipo di problema dell’utente (Reinert e Allen, 2002). Per monitorare l’impatto dell’emergenza sanitaria Covid-19 sull’utenza che afferisce al servizio, è stato realizzato un questionario ad hoc al fine di indagare tre aree principali:

  • Stato percepito dell’emergenza, per comprendere la messa in atto di comportamenti precauzionali al fine di tutelare la salute propria e altrui.
  • Stato dei consumi, per rilevare i cambiamenti dell’utilizzo di alcool e altre sostanze psicoattive, nella quantità, nella tipologia, nella frequenza e nelle modalità.
  • Relazione con il servizio, per esplorare i cambiamenti nella richiesta e nell’accesso ai servizi sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo.

Attraverso questionari di questo tipo si inizia ad avviare la relazione con il paziente, cercando di costruire un rapporto di fiducia attraverso l’atteggiamento empatico dell’operatore, così da predisporre interventi di trattamento contestualizzati.

Segue una prima valutazione da parte dello psicologo, che inizia ad inquadrare l’utente, formulando una prima ipotesi diagnostica, anche rispetto a una possibile co-morbilità. A tal fine risulta utile, accanto al colloquio clinico, valutare l’utilizzo di alcuni test psicologici, quali ASI, MMPI e BIS-11, per formulare una prima ipotesi diagnostica sulla struttura di personalità dell’utente preso in carico.

Vengono altresì convocati e coinvolti i familiari, in modo da avere ulteriori riscontri rispetto al comportamento problematico, al fine di valutare ogni possibile risorsa per attivare un percorso di riabilitazione efficace.

Il terzo ed ultimo momento di questa fase è rappresentato dalla visita medica e dalla prescrizione di esami ematochimici e tossicologici.

Dai dati emersi in questi vari momenti, viene stilato un progetto terapeutico-riabilitativo, da revisionare nel tempo sulla base del rimando del paziente. Naturalmente in questa fase è importante il trattamento delle condizioni fisiche, che possono andare dalla sindrome di astinenza alle complicanze di patologie legate al consumo di alcolici. Per queste ultime ci si avvale anche di consulenze esterne, mentre per gravi sintomatologie astinenziali si ricorre a ricoveri ospedalieri o in case di cura specializzate.

Un’adeguata terapia farmacologica, inizialmente anti-astinenziale e successivamente anti-craving, consentendo un effettivo compenso delle condizioni cliniche, rappresenta la base per impostare dei programmi di cura ulteriori. Si utilizzano farmaci che, agendo a vari livelli, permettono in primo tempo un controllo dei sintomi dell’astinenza alcolica, condizione che può preludere a gravi conseguenze, e, in seguito, arginano il più insidioso fattore delle ricadute, la forte appetizione all’uso delle bevande alcoliche. L’uso del Sodio Oxibato, dell’Acamprosato, del Disulfiram o del Naltrexone viene continuato per un periodo sufficiente alla stabilizzazione del paziente, che può così impegnarsi nel percorso di recupero.

La fase della presa in carico è di fondamentale importanza per il successivo andamento del programma, non soltanto per una corretta valutazione della situazione, ma anche per lo sviluppo di una relazione feconda tra operatori e paziente, in grado di incidere sull’intenzione a impegnarsi attivamente nel trattamento. Inoltre non si tralascia, in questa fase, di supportare il contesto familiare, fortemente implicato nella gestione del problema, in modo da evitare manovre non idonee che possano costituire fattori di mantenimento della problematica alcolcorrelata.

Al termine di questo periodo, si decide anche per un eventuale ricorso alle comunità terapeutiche o ai gruppi di auto-aiuto, sulla base delle richieste formulate dall’utente e dalle valutazioni dell’équipe curante. Anche in questo caso è molto importante non limitarsi all’invio puro e semplice, delegante e deresponsabilizzante, ma fornire il necessario supporto alla scelta concordata con il paziente e la sua famiglia in relazione alle proprie esigenze e caratteristiche e, successivamente, monitorare il percorso comunitario, in modo da poter intervenire in caso di crisi.

Terminata la fase della presa in carico con tutto il corteo dei dati acquisiti, inizia il piano terapeutico vero e proprio. Raggiunta l’astinenza dall’alcol, un’accurata prevenzione delle ricadute minimizzerà i rischi di una ripresa del consumo e consentirà anche di mantenere un rapporto di medio periodo con il servizio, funzionale all’incremento della motivazione al cambiamento dello stile di vita. A questo punto, in accordo con l’utente e in condizioni favorevoli, si valuterà l’inserimento in un programma più avanzato, come una psicoterapia individuale, familiare o di gruppo.

Nella revisione attuale del DSM-5 (APA, 2000), il craving rientra tra i criteri diagnostici e l’interesse sostenuto da emergenti evidenze clinico-scientifiche dimostra come esso possa predire episodi di ricaduta nelle addiction. Così, la possibilità di delineare modelli di previsione delle ricadute degli utenti in carico presso la nostra struttura ha reso fondamentale l’inserimento nel protocollo terapeutico di base del Substance Craving Questionnaire (SCQ-Now), un test che permette la misurazione multidimensionale del craving. Il questionario, validato in italiano, è suddiviso in cinque dimensioni (desiderio di usare la sostanza, intenzione di usare la sostanza, anticipazione degli effetti positivi, anticipazione dei sintomi d’astinenza e disforia, perdita di controllo) che indagano la percezione del desiderio della sostanza nel preciso momento della somministrazione del test. I risultati permettono di osservare la correlazione tra i costrutti in esame ed intervenire nelle dimensioni a rischio. L’ulteriore vantaggio di questo strumento è la possibilità di utilizzarlo come follow up per gli utenti in trattamento e per coloro che tornano dopo una fase di assenza dal servizio.

Nella pratica clinica del nostro servizio il Substance Craving Questionnaire è associato ad un questionario sulle esperienze avverse dell’infanzia, l’Adverse Childhood Experiences – International Questionnaire (ACE-IQ) che valuta le fonti di stress più intense e frequenti durante le fasi significative del ciclo vitale (matrimonio, relazione con i genitori, ambiente familiare, violenza tra pari, violenza nella comunità e violenza collettiva). L’indagine retrospettiva permette di conoscere le modalità di reazione messe in campo per affrontare eventi importanti e può avere un valore aggiunto in termini di strategie di prevenzione e trattamento.

Tuttavia, uno sforzo costante deve essere dedicato anche a quelle situazioni che non implicano quella linearità ideale sopra descritta, rispetto alle quali valgono le indicazioni che ci vengono dalla cultura della Riduzione del danno, il cui obiettivo è in definitiva la riduzione dei consumi o comunque il migliore governo possibile del problema presentato dal paziente.

Il trattamento di base

Dal momento della costituzione nel nostro servizio di una sezione alcologica, abbiamo approntato una sorta di protocollo di base – i cui fondamenti essenziali sono stati esplicitati sopra – che potesse consentirci di fornire un primo trattamento ambulatoriale, per poi successivamente e qualora fosse necessario, indirizzarsi verso cure più articolate e strutturate. I capisaldi di tale intervento di base sono stati essenzialmente due: innanzitutto il colloquio motivazionale (Rollnick e Miller, 2003), che costituisce la pietra angolare del trattamento, poiché permette di monitorare i nostri interventi momento per momento, in base alla fase del paziente. Nella valutazione iniziale, quindi, è opportuno introdurre il concetto di livello di recettività al cambiamento, determinando la fase in cui il paziente si trova. La disponibilità al cambiamento in un determinato periodo può essere influenzato da vari fattori: grado di consapevolezza del problema costituito dall’utilizzo di sostanze, comprese le conseguenze connesse a tale pratica; percezione della necessità del cambiamento; grado di accettazione degli interventi proposti, che è condizionato dal livello di coerenza di questi con i reali bisogni e interessi del paziente, con le sue aspettative in merito alle modifiche comportamentali proposte; possibilità di intraprendere e mantenere l’adesione a programmi anche minimi.

L’altro caposaldo è invece la prevenzione delle ricadute (PR) secondo Marlatt e Gordon (1985), un intervento cognitivo-comportamentale che combina procedure comportamentali con tecniche di intervento cognitivo, per aiutare i soggetti a mantenere i cambiamenti di comportamento ottenuti. Il fondamento di una tale prospettiva ai problemi d’abuso di sostanze è il training delle abilità. Tramite tale addestramento, ai pazienti vengono insegnate abilità comportamentali e cognitive quali il resistere alla pressione sociale, l’aumento dell’assertività, il rilassamento e la gestione dello stress e la comunicazione interpersonale. Uno degli obiettivi della prevenzione delle ricadute consiste nell’offrire ad un individuo le competenze e le strategie cognitive necessarie per evitare che un errore si tramuti in una ricaduta completa.

Nel tempo, abbiamo provato a declinare questi momenti all’interno di una vera e propria struttura psicoterapica, ispirati dal lavoro di Denning e Little, Practice Harm Reduction Psychotherapy (2000), in cui – pur piegando la psicoterapia in un senso latamente eretico, laddove essa assume un carattere di trattamento sintomatico, almeno in apparenza – la cura concentra i diversi momenti in un percorso in qualche modo unitario che risponda alle esigenze del paziente. La stessa eventualità di un trattamento farmacologico viene gestita all’interno di una relazione terapeutica compartecipata dal curato. Una “Psicoterapia della riduzione del danno”, infatti, prova a incrementare le capacità decisionali e di autogestione del problema da parte del paziente, evitando l’accanimento terapeutico derivato dal prospettare come unico fine dell’intervento l’astensione completa dalla sostanza. La responsabilizzazione dell’utente è stato anche l’obiettivo di un lavoro di Self Change (Klingemann, 2016), approntato al fine di promuovere un “auto-cambiamento” che attingesse alle risorse personali, naturalmente presenti nei pazienti, e opportunamente favorite e facilitate nei casi più refrattari a percorsi convenzionali; qui l’obiettivo consiste nel non puntare in ogni caso all’astinenza completa, ma anche all’obiettivo minimo della semplice riduzione del consumo e miglioramento della qualità della vita (Zuffa, 20156). Questo livello minimo di intervento risponde a una precondizione essenziale della cura delle dipendenze: la permanenza in trattamento, aspetto che tende al contrasto dei possibili eventi sfavorevoli e che appunto consente la messa in opera di un dispositivo di cura teso in prima istanza alla riduzione del danno.

Conclusioni

La sezione di Alcologia di una U.O.C. Ser.D. 2 deve affrontare il continuo incremento di utenza che da qualche anno si riscontra costantemente. Rispetto alla terapia, si è ritenuto fondamentale una filosofia di fondo che, innanzitutto, dia delle risposte essenziali a una larga fascia di utenti, in modo da raggiungere una parte considerevole delle persone che chiedono aiuto per problemi alcolcorrelati.

Come già sottolineato, un intervento semplice ma rigoroso, scientificamente fondato, riesce a ottenere dei cambiamenti importanti nei consumi e nello stile di vita delle persone in difficoltà, come tutte le ricerche testimoniano in maniera inconfutabile. Questo, nel nostro caso, si è concretato nel protocollo di intervento che abbiamo sommariamente descritto in queste pagine. Naturalmente un intervento di base può essere l’obiettivo primario di un trattamento che si sviluppa ulteriormente con risposte più specifiche, volte ad ottenere cambiamenti strutturali della personalità. Se tale evoluzione rappresenta la condizione ideale, in molti casi i trattamenti si fermano a tale livello basale, ma non bisogna considerare come parzialmente fallimentari le situazioni del genere. Nel campo delle dipendenze patologiche anche la semplice riduzione dei consumi è un risultato non marginale, particolarmente rispetto a una sostanza legale come l’alcol.

Tenendo presente queste considerazioni, l’obiettivo realistico di un servizio alcologico, perseguito attraverso una attenta ricognizione delle risorse cui attingere e delle esigenze cui rispondere, ci obbliga a confrontarci con la necessità di fronteggiare il disagio con i mezzi effettivamente a disposizione, all’interno della dialettica costi/benefici.

La pressante situazione in cui versa la società attuale in materia di consumi alcolici, con l’incremento esponenziale anche in fasce giovanili di popolazione (Fuller-Thomas et al., 2016), le amplissime occasioni di consumo per chiunque voglia farlo e, quindi, l’esposizione di un numero considerevole di persone a problemi alcolcorrelati di diversa natura (Dawson et al., 2005), ci interroga sulle misure da promuovere in merito al tema dell’educazione alla salute. Raggiungere i medici di base, stimolarli e formarli all’intervento breve (IPIB) in questo campo, come appunto dimostrano i diversi studi pubblicati (Bartoli et al., 2001), significa ottenere un livello assistenziale importante e, inoltre, consente di concentrare l’attività delle strutture specialistiche su situazioni particolarmente complesse di disagio.

 

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