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Il nostro cervello: autonomo, potente e dinamico definisce chi siamo durante tutto il corso della nostra vita

Il nostro cervello è una macchina fantastica, complessa e ancora per certi versi misteriosa. Ci consente di essere ciò che siamo e fare ciò che facciamo senza richiedere il nostro diretto intervento.

 

Autonomo, potente e dinamico è infatti la cosa più importante che abbiamo perché ci rende ciò che siamo stati, chi siamo ora e ci consentirà di essere ciò che diventeremo.

Noi stessi infatti siamo il nostro meraviglioso cervello, per questo siamo unici: cosa possiamo fare per preservarlo? Come tutto il nostro corpo, infatti, anche il cervello beneficia di una sana e consapevole attività.

Se noi siamo il nostro cervello siamo in grado di fare tutto ciò che è in nostro potere per mantenerlo attivo. Se lui è attivo, lo saremo anche noi e viceversa.

Il nostro cervello: un lavoro ininterrotto

Il nostro cervello lavora ininterrottamente senza la nostra diretta consapevolezza. Svolge i compiti per cui è stato programmato con naturalezza: calibrato in ogni suo aspetto, gestisce, smista, organizza e indirizza un numero innumerevole di flussi informativi senza che ce ne rendiamo conto.

Compie in tempo reale una serie complessa di calcoli per decodificare le informazioni che provengono dalle diverse strutture periferiche a cui è connesso e, simultaneamente, produce informazioni che invia in tempo reale ai centri preposti a compiere ad esempio un’azione di cui abbiamo coscienza (alzarsi da una sedia) o di cui non abbiamo diretta coscienza (la respirazione).

Se pensiamo al nostro encefalo come ad un hardware e alla mente come ad ad un software, le informazioni che vengono processate funzionano come algoritmi che producono soluzioni specifiche in seguito a richieste precise.

Nel processare le informazioni, il cervello cambia costantemente: apprende a rimanere efficiente in modo del tutto funzionale e proprio per questo è da considerarsi un sistema unico e per certi versi imprevedibile.

Ciò che lo rendere speciale, infatti, è il principio stesso che lo guida, ovvero il cambiamento: il nostro encefalo non è mai statico, non è mai passivo, è un sistema completamente adattivo, in continuo divenire nel tempo dal momento in cui nasciamo fino alla fine della sua vita.

Nel suo modificarsi, spesso il nostro cervello deve fare fronte a situazioni difficili che lo obbligano a trovare modalità alternative di funzionare per consentire a tutto il sistema di continuare a ricoprire il suo ruolo in modo ottimale. Un cervello che avanza con l’età, si rimodella sempre, anche di fronte a danni più o meno gravi che possono colpirlo.

Le cellule neuronali si connettono tra loro per motivi precisi e nel farlo creano nuovi legami che si traducono in nuove funzionalità. I nuovi legami spesso servono anche ad affrontare, risolvere o gestire malfunzionamenti che possono insorgere durante il corso della sua esistenza.

Per quanto possa essere considerata una macchina perfetta, tuttavia, il nostro cervello non è una macchina. È la fonte di ciò che siamo noi, ovvero esseri umani imperfetti che cambiano ininterrottamente, in ogni nostro ambito di vita, dal momento in cui veniamo concepiti.

Il nostro cervello: prendersi cura della nostra mente

Tutto quanto descritto fino ad ora accade senza che ce ne rendiamo conto: ora che leggiamo queste parole – per quanto ci riteniamo specializzati in materia – stiamo fornendo alla nostra mente nutrimento per nuovi pensieri o idee e questo crea nuova linfa al nostro hardware.

Siamo quindi tutti molto ricchi, in quanto abbiamo con noi uno strumento unico nella sua specie. Divenire consapevoli di questo prezioso strumento ci rende responsabili del fatto che averne cura significa avere cura di noi stessi e del nostro futuro.

Per quanto in nostro potere, la nostra mente – intesa come software – va nutrita ed esercitata per poter mantenere attivo l’hardware che la rende efficiente. Con infatti l’esercizio potremo rafforzare e fortificare le sue funzionalità intrinseche.

Se stimoliamo la nostra mente con uno stato di apprendimento continuo, questo a sua volta influirà su tutte le strutture che, per loro natura, sono strettamente connesse alla funzionalità che andremo a stimolare.

Imparare a fare qualcosa di nuovo, apprendere un concetto nuovo, fare nuovi movimenti, nuove esperienze, socializzare, parlare con le persone, sono tutte fonti inesauribili di potenziamento del nostro cervello e di noi stessi. Averne coscienza ci farà senz’altro apprezzare maggiormente il valore di ogni nostro pensiero e di ogni nostra azione.

 

Il ruolo dell’olfatto nei veterani di guerra con PTSD

È importante studiare il funzionamento del sistema olfattivo per comprendere i processi cerebrali coinvolti nel Disturbo da Stress Post Traumatico. Poiché l’anatomia del sistema olfattivo coinvolge le stesse strutture del cervello che supportano la memoria dichiarativa e l’elaborazione delle emozioni, gli odori possono innescare ricordi di esperienze traumatiche

 

L’olfatto svolge diverse funzioni per gli esseri umani tra le quali la comunicazione sociale, il legame, la regolazione del comportamento alimentare (Beauchamp & Mennella, 2009) e la rilevazione di minacce: ci mette in allarme da un incendio, una fuga di gas, un cibo potenzialmente nocivo, è dunque fondamentale per la sopravvivenza.

Sistema olfattivo e PTSD

Alcuni studi della letteratura hanno dimostrato un aumento di rilevamento degli odori e dell’eccitazione simpatica tra cui la frequenza cardiaca (HR) e la conduttanza cutanea (SCL) in corrispondenza di odori legati alla paura, odori sgradevoli, ansia di tratto o disturbi d’ansia (Pacharra et al, 2016). Per quanto riguarda il disturbo da stress post traumatico (PTSD) non è chiaro se un odore possa provocare disfunzioni autonomiche e di attenzione legate ad una minaccia, in quanto spesso gli studi utilizzano stimoli uditivi o visivi. Negli ultimi 40 anni, c’è stato un interesse sporadico in quello che è comunemente noto come fenomeno Proust, in cui le memorie autobiografiche vengono recuperate e vissute in modo diverso se evocate da odori rispetto ad altri tipi di segnali, come le parole, le immagini o i suoni. Il fenomeno Proust, si riferisce a un passaggio del libro di Marcel Proust, “Swann’s Way” (1913). In questo passaggio, l’autore descrive in modo molto dettagliato come l’odore, tra gli altri segnali, di un biscotto gli faccia riemergere un ricordo a lungo dimenticato della sua infanzia. La ricerca sulla memoria per gli odori ha dimostrato infatti che questi ultimi possono essere dimenticati a un ritmo più lento rispetto ad altri tipi di stimoli (Engen & Ross, 1973). Inoltre, gli odori sembrano essere efficaci segnali contestuali della memoria (Hackländer e Bermeitinger, 2017) e la memoria autobiografica sembra funzionare in maniera differente quando i ricordi personali sono associati a odori rispetto ad altri tipi di segnali.

È importante, quindi, studiare il funzionamento del sistema olfattivo per comprendere i processi cerebrali coinvolti nel PTSD. Poiché l’anatomia del sistema olfattivo coinvolge le stesse strutture del cervello che supportano la memoria dichiarativa e l’elaborazione delle emozioni (cervello limbico e circuiti del lobo temporale mediale), gli odori possono innescare ricordi antichi ed emotivi tra cui ricordi di esperienze traumatiche (Willander & Larsson, 2006). Diversi studi in letteratura hanno studiato l’effetto di alcuni odori di bruciato legati a esperienze di combattimento, sui veterani di guerra in Iraq e in Afghanistan, trovando un significativo aumento dell’angoscia provocata dagli odori in soldati con PTSD. Sembra quindi che esista una relazione tra trauma, sensibilità agli odori e disturbo da stress post traumatico: alcuni risultati hanno dimostrato che l’HR suscitato dagli odori aumenta in funzione della valenza edonica negativa (sgradevolezza) e che i veterani di combattimento con PTSD considerano l’odore di bruciato come sgradevole e che provoca forte angoscia legata al trauma (Cortese et al., 2015).

Un studio su olfatto e PTSD

Inoltre, uno studio di Croy e colleghi del 2010 ha misurato i potenziali chemiosensoriali correlati agli odori in adulti che avevano subito maltrattamenti infantili, riportando un aumento della gravità dei sintomi del disturbo da stress post traumatico e un’elaborazione più rapida degli odori spiacevoli. Wilkerson e colleghi, nel 2018, hanno condotto uno studio per comprendere la reattività autonoma suscitata da alcuni odori nei veterani di guerra (con o senza PTSD), determinandone la relazione con la sensibilità agli odori, le valutazioni degli odori di ciascun soggetto e infine la sintomatologia del PTSD provocata da un odore. Gli autori ipotizzavano che ci fossero dei cambiamenti maggiori in SCL e HR provocati da un odore nei veterani con PTSD rispetto ai soldati sani. Inoltre si aspettavano che l’odore di bruciato provocasse dei cambiamenti fisiologici correlati positivamente alle valutazioni dell’intensità e della sgradevolezza dell’odore e ai sintomi del disturbo da stress post traumatico. Per lo studio sono stati reclutati veterani della guerra in Iraq o in Afghanistan con diagnosi di PTSD (CV+DPTS) e senza (CV-PTSD), valutata tramite la Clinician Administered PTSD Scale (CAPS; Blake et al., 1995). Ai soldati sono state somministrate la Combat Exposure Scale (CES; Keane et al., 1989), per determinare il grado in cui sono stati sperimentati fattori di stress da guerra; la Smell Threshold Test TM (STTTM; Doty, 2009): una serie di bottiglie da annusare contenenti alcol etilico fenile (PEA), un odore neutro “simile alla rosa” per valutare la sensibilità generale degli odori. Inoltre ai veterani sono stati presentati stimoli odorosi (Cortese et al., 2015) alcuni relativi a possibili ricordi traumatici (es.: gomma che brucia), altri invece piacevoli (es.: lavanda). Tramite scale analogiche (VAS) sono state valutate l’intensità dell’odore, la sgradevolezza e i sintomi del PTSD provocati dall’odore (rivivere ricordi legati all’odore, evitamento/stordimento, iperarousal). Infine sono state rilevate diverse misure fisiologiche tramite il sistema di acquisizione dati MP150 e il software AcqKnowledge 4.1 per Windows e i valori di SCL e HR in serie da 90 secondi (LaRowe et al., 2007).

I risultati, coerentemente con le ipotesi, mostrano che l’intensità dell’odore e le valutazioni di sgradevolezza per gli odori “di bruciato” sono aumentati significativamente nei CV + PTSD rispetto ai CV – PTSD. Inoltre, tali odori erano significativamente più efficaci di quelli piacevoli nel suscitare i sintomi del PTSD nei veterani (CV+DPTS). In aggiunta, la sensibilità per gli odori di bruciato sembrerebbe correlare con il tempo trascorso dal trauma nei (CV+DPTS): contrariamente ai sintomi generali del PTSD che di solito diventano meno gravi, la sintomatologia innescata dall’odore può intensificarsi con il tempo (Perkonigg et al., 2005). Le variazioni di HR e di SCL correlate a maggiore intensità e valenza negativa degli stimoli odorosi sono state invece variabili; la diminuzione della frequenza cardiaca e della conduttanza cutanea provocata da stimoli minacciosi può essere, però, una strategia di sopravvivenza per evitare l’individuazione dei predatori, caratterizzata da immobilità/congelamento comportamentale e decelerazione della frequenza cardiaca (Lang et al., 2011).

Infine, i risultati mostrano una maggiore sensibilità per gli odori di bruciato dopo un trauma da combattimento, che provoca evitamento e risposte fisiologiche alterate per far fronte all’intensificazione di tale sensibilità. In conclusione i risultati ottenuti e ulteriori indagini approfondite potrebbero dimostrare i benefici per alcuni individui dell’integrazione di stimoli odorosi nei trattamenti comportamentali del disturbo da stress post traumatico (Wilkerson et al., 2018).

Gli effetti della distrazione sull’assunzione di cibo: come può aiutare a diminuire un comportamento alimentare restrittivo

Diversi studi hanno messo a confronto l’intervento di mindful eating con l’intervento di distrazione e hanno osservato come possono influire sull’ansia delle persone con disturbi alimentari durante i pasti.

 

Spesso si può pensare che l’assunzione di cibo sia correlata solo a fattori biologici come la sensazione di fame o di pienezza, tuttavia sono numerosi i fattori che entrano in gioco. In particolar modo si è osservato che sia gli aspetti psicologici che fattori esterni rivestono un ruolo importante.

Difatti, per le persone che soffrono di Disturbi Alimentari, l’atto del mangiare cela un mondo, ove risiedono tutte le preoccupazioni relative al peso e alle forme del corpo.

Per loro la circostanza del pasto è il momento più difficile e delicato, si manifestano i pensieri ostili e le emozioni negative. Questi sono aspetti critici e possono rappresentare degli ostacoli non indifferenti alla riabilitazione psiconutrizionale, pertanto alla rottura del ciclo di mantenimento del disturbo alimentare.

Disturbi alimentari e atteggiamento mindful o mindless: cosa potrebbe alleviare quei momenti?

Numerosi studi si sono concentrati sul ruolo che l’attenzione e la distrazione possono avere sulla regolazione dell’assunzione di cibo.

L’atteggiamento mindful rispecchia l’alimentazione consapevole ove ogni sensazione legata al mangiare viene monitorata (Wansink & Sobal, 2007). Si favorisce sia la percezione degli stati interni legati alla fame che agli stati esterni legati alla piacevolezza del cibo, al contesto sociale e ambientale. Difatti, la mindfulness è una strategia terapeutica che insegna a rimanere nel momento presente usando un atteggiamento non giudicante. Essa è utilizzata per ridurre comportamenti di evitamento derivati dall’ansia, che nei disturbi alimentari possono equivale ad esempio al tagliare il cibo in piccoli pezzi o al mangiare velocemente.

L’atteggiamento mindless, invece, è rappresentato da un comportamento opposto, ovvero dal mangiare in modalità automatica, senza un’elaborazione cosciente ed è favorito dalla distrazione.

Diversi studi scientifici hanno messo a confronto l’intervento di mindful eating con l’intervento di distrazione e hanno osservato come possono influire sull’ansia delle persone con disturbi alimentari durante il momento del pasto. È stato dimostrato che l’alimentazione consapevole non produce benefici e provoca un aumento di ansia e un maggior senso di pienezza rispetto alla condizione di distrazione (Warren et al., 2013). Inoltre, si è osservato che l’attenzione focalizzata può causare la sovrastima della quantità di cibo assunta (Long et al., 2011). Quindi, il mindful eating potrebbe essere iatrogeno (Warren et al., 2013).

Il ruolo della distrazione nei disturbi alimentari

La distrazione può avere un impatto incisivo nella regolazione dell’assunzione di cibo e dei cambiamenti dello stato di fame e del desiderio di mangiare. Essa attiva una modalità in cui i fattori esterni non permettono una elaborazione cosciente del mangiare e di rilevare tutti i cambiamenti di stato interni.

La distrazione ha una natura multidimensionale e la ricerca scientifica ha individuato due forme legate all’alimentazione: la distrazione dalla sensazione fisica di fame e la distrazione dal compito del mangiare. Uno studio del 2012 ha valutato l’effetto che diverse attività distraenti, come guardare la TV o guidare, possono avere sull’assunzione di cibo e sul desiderio di mangiare, rispetto a una condizione in cui si mangia da soli senza distrazioni. La ricerca ha constatato che le persone davanti alla tv tendono a mangiare di più, perché l’attenzione è distolta dalla fame e non dal compito. Mentre la guida distrae da entrambe le modalità comportando un consumo minore di cibo. Infine, mangiare da soli permetteva un’attenzione più consapevole comportando una riduzione delle quantità e del desiderio di mangiare (Ogden et al., 2012).

Quindi attività distraenti, che non richiedono sforzi cognitivi, permettono di distogliere il focus attentivo dalla fame e di mantenerlo nell’attività del mangiare. Di conseguenza, viene promosso un aumento della quantità di cibo assunto.

Dati questi risultati, nelle cliniche specialistiche dei disturbi dell’alimentazione, gli operatori che offrono assistenza ai pasti possono considerare l’intervento di distrazione come ausilio alla riabilitazione nutrizionale.

 


 

Plasticità neuronale: memoria e apprendimento

Memoria e apprendimento sono manifestazioni della plasticità neuronale, cioè della capacità del sistema nervoso di adattarsi a cambiamenti dell’ambiente interno o esterno.

 

L’apprendimento è il processo mediante il quale le nostre esperienze modulano e cambiano il sistema nervoso e il comportamento: esso, pertanto, implica cambiamenti, che si verificano a livello delle connessioni sinaptiche. Il processo di apprendimento ha inizio con la trascrizione del segnale a livello della corteccia cerebrale: se il segnale inviato dalla corteccia cerebrale all’ippocampo è forte e ripetuto a lungo si formano nuovi ricordi a lungo termine che vengono trasmessi alla corteccia cerebrale, dove vengono immagazzinati. Alterazioni nell’ippocampo interferiscono con la formazione di nuovi ricordi, senza però influenzare quelli già preesistenti.

Le connessioni sinaptiche – alla base della memoria e dell’apprendimento – possono modificarsi nel tempo secondo un fenomeno noto come plasticità neuronale: tendiamo a ricordare o, in alternativa, dimenticare informazioni proprio perché l’uso frequente di una sinapsi la rafforza mentre il suo mancato utilizzo porta alla sua eliminazione. La sinapsi è una giunzione tra il bottone terminale di un assone e la membrana del neurone post sinaptico: la principale via di comunicazione tra i neuroni è per l’appunto la trasmissione sinaptica, in quanto l’assone veicola, in forma di potenziale d’azione, il messaggio neurale. Una stimolazione elettrica prolungata e ad alta frequenza del neurone pre sinaptico rafforza la sinapsi con quello post sinaptico: tale fenomeno prende il nome di potenziamento a lungo termine.

Le connessioni sinaptiche meglio caratterizzate sul fronte della memoria e dell’apprendimento sono le connessioni sinaptiche presenti nell’ippocampo – regione limbica deputata al consolidamento della memoria – che utilizzano come neurotrasmettitore il glutammato. Il glutammato, a seguito di una stimolazione elettrica, viene liberato nella fessura sinaptica, cioè la fessura frapposta tra la membrana pre sinaptica e quella post sinaptica; dopodiché raggiunge la membrana del neurone post sinaptico, dove lega i suoi recettori specifici, ossia i recettori NMDA e AMPA.

Il potenziamento a lungo termine avviene in due fasi.

Nella fase precoce gli ioni calcio avviano un processo di trasduzione del segnale attivando le proteine che facilitano la comunicazione sinaptica attraverso la fosforilazione dei recettori AMPA già presenti o reclutando ulteriori recettori AMPA ed esponendoli sulla membrana post sinaptica; questa prima fase è considerata la fase biologica della memoria a breve termine, che perdura per poche ore. Le informazioni per essere ricordate necessitano di essere consolidate, ma la consolidazione è labile ed altamente suscettibile a cancellazione (oblio).

Nella seconda fase, cruciale per la formazione di ricordi a lungo termine, subentra l’intervento di specifici neurotrasmettitori capaci di modificare il funzionamento da un processo transitorio ad un processo stabile di conservazione delle informazioni che si accompagna alla crescita di nuove connessioni sinaptiche. I neurotrasmettitori coinvolti sono:

  • noradrenalina, utilizzata dal locus coeruleus, uno dei nuclei della formazione reticolare che apporta un effetto eccitatorio sulle funzioni cerebrali; il sistema noradrenergico è collegato allo stato di vigilanza (arousal), fondamentale nei processi di apprendimento e memorizzazione;
  • acetilcolina, implicata nell’elaborazione delle informazioni a livello delle funzioni cerebrali superiori;
  • dopamina, la stessa sostanza implicata negli effetti di rinforzo delle droghe e nelle dipendenze. Viene rilasciata da stimoli di rinforzo in regioni cerebrali quali i gangli della base e l’ippocampo dorsale ed è fondamentale nei processi di apprendimento e memorizzazione;
  • neuropeptidi.

Dal punto di vista cerebrale, le strutture neuroanatomiche coinvolte nei processi della memoria sono principalmente le cortecce associative temporali, il complesso ippocampale, le aree corticali e sottocorticali e la corteccia prefrontale.

 

Un disturbo alimentare invisibile

La persona con ortoressia non ricerca un programma alimentare dietetico con lo scopo di perdere peso o migliorare la propria salute, bensì sperimenta un’ossessione patologica per il consumo di cibi sani e biologici.

 

L’ortoressia nervosa (ON) è un termine introdotto da Steven Bratman nel 1997, in un articolo sulla rivista Yoga Journal (Atzeni, Converso e Loera, 2021), con criteri che descrivono una preoccupazione ossessiva per il consumo di cibo ‘sano’ e focalizzata sulla qualità e sulla composizione degli alimenti (Moroze et al., 2015). Nello specifico, i soggetti che ne soffrono tendono a seguire una dieta sbilanciata, che porta nel tempo all’esclusione di determinate classi di alimenti, in funzione della purezza alimentare: si sentono in colpa se ‘trasgrediscono’ mangiando cibo impuro (Moroze et al., 2015). I soggetti che ne soffrono temono di assumere cibo considerato ‘malsano’, evitando cibi composti da derivati, additivi o sostanze considerate nocive, spendendo molte ore (almeno più di due al giorno) e soldi per cercare un tipo di alimentazione salutare.

Tale preoccupazione eccessiva, che compromette la salute fisica e fa sperimentare ai soggetti un notevole stress a causa delle credenze sul cibo (Moroze et al., 2015), può essersi sviluppata come un’estremizzazione dell’attenzione dedicata alla qualità degli alimenti: come riportò Pollan (2006) nel Paradosso dell’onnivoro, tale focalizzazione attentiva può essere vista come una strategia di coping nei confronti del ‘cibo spazzatura’ occidentale, ipernutriente e contaminato da molti conservanti chimici, che porta al suo evitamento con la preferenza di prodotti orientali come zenzero, papaya o bacche di gogji (Pollan, 2006; Atzeni, Converso e Loera, 2021). La persona ortoressica non ricerca un programma alimentare dietetico con lo scopo di perdere peso o migliorare la propria salute, bensì sperimenta un’ossessione patologica per il consumo di cibi sani e biologici (Atzeni, Converso e Loera, 2021).

Teorie sull’ortoressia nervosa

Secondo la teoria di Bratman, l’ortoressia percorre due tappe specifiche: la prima, definita come ‘innocente’ e ‘meritevole’, consiste sostanzialmente nel cambiamento delle proprie abitudini alimentari in funzione di un miglioramento, sia in termini fisici che salutistici. Nella seconda tappa, con l’incremento del rigore alimentare rispettato e con il conseguente aumento di autostima, si sviluppa una vera e propria ossessione patologica nei confronti degli alimenti, ossessione che porta i soggetti alla ‘spiritualità della cucina’, cioè a spendere la maggior parte del tempo nella pianificazione, nell’acquisto, nella preparazione e nel consumo dei pasti (Atzeni, Converso e Loera, 2021).

Dopo la teoria di Bratman (1997), altri autori cercarono di dare una definizione all’ortoressia nervosa: Donini (2004) la definì come un ‘comportamento salutare fanatico’ che nasce dalla comorbilità tra un disturbo alimentare ed un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, mentre Bagci Bosi (2007) si focalizzarono sul desiderio alimentare e su ‘atteggiamenti altamente sensibili nel comportamento alimentare’ (Atzeni, Converso e Loera, 2021, p. 207). Nicolosi (2006) definisce questa società come ‘ortoressica’, in quanto si è sviluppata progressivamente non solo la preoccupazione per il cibo, bensì anche la relazione triadica tra corpo, ideologie simboliche-identitarie (si pensi ai canoni di bellezza femminili odierni) ed etico-ideologiche (ad esempio, il veganismo). Dato che Bratman (2017) precisò che i criteri per l’ortoressia nervosa devono discriminare lo stile alimentare sano dalle fissazioni ossessive e dai comportamenti compulsivi, sono stati coniati differenti strumenti utili a misurare i sintomi correlati a questo disturbo.

Strumenti per rilevare l’ortoressia nervosa

Il primo strumento, coniato da Bratman e Knight (2000), è il Bratman Orthorexia Test (BOT) per indagare il tempo dedicato alla pianificazione alimentare, la quantità del cibo, la compromissione della qualità di vita correlata ad una rigida alimentazione sana, l’autostima, il perfezionismo e l’isolamento sociale (Atzeni, Converso e Loera, 2021). È composto da dieci domande a cui si può rispondere in modo affermativo o negativo. La scala più diffusa è la ORTO-15 (Domini et al., 2004; 2005), utile per rilevare la presenza di un’abitudine ossessiva nella scelta, nell’acquisto, nella preparazione o nel consumo di specifici alimenti: tale batteria, composta da 15 item, può essere utilizzata come screening (Atzeni, Converso e Loera, 2021). Gli strumenti messi a punto negli ultimi anni sono l’Eating Habits Questionnaire (EHQ; Gleaves et al., 2013) che è composto da 21 item utili a indagare i comportamenti alimentari salutari, le sensazioni positive ed eventuali problemi correlati ad uno stile alimentare disequilibrato. La Duesseldorf Orthorexia Scale (DOS; Barthels et al., 2015; Depa et al., 2017), suddivisa in tre sottoscale indaganti il comportamento alimentare ortoressico, l’evitamento degli additivi e la fornitura di minerali. La Teruel Orthorexia Scale (TOS; Barrada e Roncero, 2018) è comporta da 17 item per identificare i fattori correlati all’ortoressia sana e nervosa, infine la Barcelona Orthorexia Scale (BOS; Bauer et al., 2019) è stata sviluppata per identificare sei sottocategorie dell’ortoressia nervosa: dominio cognitivo, emotivo, comportamentale, conseguenze negative per la salute, negative per l’ordine sociale e la diagnosi differenziale (Atzeni, Converso e Loera, 2021).

Controversie sulla diagnosi di ortoressia nervosa

Nonostante la consistente attività teorica e gli strumenti sviluppati che evidenziano l’esistenza di un disagio psicologico correlato alla dimensione alimentare, l’impegno dei ricercatori non ha ancora portato all’inserimento della diagnosi di ortoressia nel DSM 5, in quanto non rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione a causa della non identificazione di criteri diagnostici validati (Valente e Galimberti, 2018; Atzeni, Converso e Loera, 2021). Un altro motivo per cui non è stata inserita all’interno del DSM 5 riguarda i dubbi nel considerarla un disturbo a sé stante: condivide delle caratteristiche peculiari con l’anoressia (AN) e la bulimia nervosa (BN) circa i tratti perfezionistici e l’ansia elevata nei confronti della propria immagine corporea, nonché con il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) per i pensieri intrusivi e ricorrenti circa l’alimentazione e la salute, la preoccupazione legata al rischio di essere contaminati e al consumo dei pasti in modo ritualistico (Valente e Galimberti, 2018). Probabilmente, ciò che distingue l’ortoressia nervosa dal DOC è la natura egosintonica dei pensieri ossessivi sul cibo, consapevoli e coerenti con il proprio sistema di valori, bisogni e credenze (Valente e Galimberti, 2018).

La mente autistica. Le risposte della ricerca scientifica all’enigma dell’autismo (2021) di Giacomo Vivanti – Recensione

Nel volume La mente autistica l’autore delinea un quadro molto ampio su una delle condizioni più studiate al mondo: l’autismo.

 

La realtà è una massa confusa di eventi, persone, luoghi, suoni e cose, non ci sono confini tra le cose, non c’è un ordine, non c’è un significato. Consumo la maggior parte delle mie energie per cercare di capire il senso dietro questo caos (Jolliffe, Lansdown e Robinson, 1992)

Introduzione

Esiste un effetto corrosivo sulla placida meditazione del senso comune così come in chi, dall’altro lato del continuum, osanna le capacità non comuni di soggetti che appaiono diversi. È il caso dell’autismo. Si tratta di un discostamento dalla normalità vissuta nella pelle di chi deve fare i conti con un mondo ‘non a propria immagine e somiglianza’ e, per questo, un mondo che non rispecchia i propri stati mentali.

Se nello sviluppo tipico si guadagna l’interazione sociale con una certa facilità, nei soggetti autistici è l’uso del verbo al futuro (‘guadagnerai’). Lontana è la capacità della interazione come molti la conoscono, lontano è l’Eden sociale. L’autismo viene concepito come conflittualità di fondo, trattenuto ‘al di qua’ di una certa soglia stabilita per criterio statistico.

Autismo tra pregiudizi e nuovi modelli di intervento

In questo volume l’autore delinea un quadro molto ampio su una delle condizioni più studiate al mondo: l’autismo, esistito in tutte le epoche e in tutte le parti del mondo, anche se solo nel ventesimo secolo viene avanzato il concetto di autismo come categoria diagnostica. Questo interesse, di progressivo approfondimento, consolidatosi negli ultimi due decenni, ha portato i suoi frutti: sono stati spazzati via i pregiudizi degli anni cinquanta e sessanta, sono nati modelli di intervento di documentata efficacia e si sono raccolti dati in grado di illuminare molti aspetti della sindrome. Ciononostante, l’incremento della qualità e quantità nella ricerca scientifica sull’autismo sembra generare più domande che risposte.

In questo libro ampio di contenuti si tenta – da un lato mediante una ‘collezione’ di ricerche di largo rilievo, dall’altro con fine logica investigativa – di fornire al lettore una visione d’insieme sull’universo autistico.

Il suo punto di forza è certamente la capacità descrittiva in un susseguirsi ordinato di eventi che fanno comprendere il sistema chiuso dell’autismo antistante al sistema aperto del mondo sociale caratterizzato da un flusso continuo di novità e variazioni, ‘tipiche’.

Comportamenti come ‘giocare con i coetanei in cortile’ o ‘fare una conversazione con la persona seduta di fronte a me in mensa’ non si manifestano mai allo stesso modo, e le circostanze particolari in cui ci veniamo a trovare modellano infinite ‘eccezioni alla regola’ nelle norme del comportamento sociale. Invece, la meccanica dei movimenti di un treno sulle rotaie o la fisica dello spostamento di liquidi in un sistema idraulico obbediscono a regole immutabili e infallibili – costituendo un mondo più prevedibile e concreto in cui le persone con autismo riescono a destreggiarsi meglio.

Tuttavia, non è solo la questione sociale ad essere differente nei soggetti con autismo: anomalie nell’orientamento sociale e nella sintonizzazione verso l’input verbale fornito dai caregiver, ridotta partecipazione ad episodi di attenzione congiunta e, di conseguenza, ad episodi di apprendimento che facilitano l’acquisizione del linguaggio, difficoltà nell’elaborazione parallela e nell’integrazione di informazioni, difficoltà nell’utilizzo di simboli astratti, reclutamento di modalità di elaborazione visiva nella comprensione verbale e anomalie nella connettività tra diverse aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione di stimoli linguistici e sociali. Questi processi interagiscono tra loro secondo complesse dinamiche non lineari nel cervello in via di sviluppo, dando luogo a un’espressione sintomatologica eterogenea.

Lo ‘spettro’ autistico e la prospettiva storica

Si afferma l’idea che l’autismo sia uno spettro di manifestazioni dai confini sfumati che si collocano lungo un continuum di gravità. Agli estremi del continuum ci sono da un lato bambini che non parlano, non manifestano alcun interesse per il mondo sociale e la cui unica occupazione sono comportamenti ripetitivi e stereotipati (come far roteare oggetti agitando le braccia), e dall’altro bambini quasi indistinguibili dai coetanei senza autismo.

Tra i due estremi vi sono mille sfumature, sia nella dimensione della comunicazione sociale che in quella della rigidità e ripetitività comportamentale nonché di interessi ristretti.

Particolarmente apprezzata è la descrizione storica in cui, di contro, L. Kanner considerava l’autismo come una condizione rara e ‘monolitica’ (ovvero presente o assente, senza vie di mezzo), mentre Asperger vede nell’autismo un continuum che confina con la ‘normalità’. Inoltre, la relazione di Kanner è incentrata su deficit e difficoltà, mentre Asperger nota che alcuni sintomi di questa condizione, come la tendenza a focalizzarsi su interessi ristretti senza farsi ‘distrarre’ dal mondo sociale, possono costituire un punto di forza (oggi diremmo un ‘asset’). E questa enfasi può riflettere una rappresentazione sociale dell’autismo focalizzata sui punti di forza anziché sui deficit, in modo che le persone con autismo non introiettino un senso di inferiorità, ma si identifichino con orgoglio nel concetto di autismo come minoranza culturale caratterizzata da connotazioni positive.

Una possibile ipotesi del caso del piccolo Victor

Un caso storico che mi ha colpito maggiormente è l’interpretazione sul – rarissimo – caso del piccolo Victor dell’Aveyron, vissuto nei boschi della Francia in solitudine – e privo della capacità di linguaggio – che, preso in carico dal pedagogista G. Itard, venne rieducato (o almeno si tentò) con scarsi risultati. Per chi non lo sapesse, sussiste la realistica possibilità (come riferito nel libro citando Frith, 1989) che egli fosse autistico, anche se i suoi contemporanei credevano che non parlasse e non socializzasse perché cresciuto nella foresta come un lupo, lontano dalla società e, quindi, non si fosse evoluto a causa della condizione vissuta. Questo aspetto cambia molto la valenza psicologica che si può dare a questo caso. Prendendo per vera questa ipotesi, la domanda che emerge di primo acchito è: «E se non fosse stato autistico?».

Il libro continua con un’analisi interessante basata su molteplici aspetti: intersoggettività, cognizione e percezione, apprendimento, comunicazione, linguaggio, etc. al fine di comprendere meglio la ‘mente autistica‘ e capire il come, quando e perché mettere o non mettere in atto determinate strategie di intervento e come facilitare, nelle persone con autismo, l’accesso alle stesse opportunità di autorealizzazione che hanno le persone senza autismo.

 

L’importanza delle relazioni nei modelli terapeutici: l’approccio teorico e clinico di Gilliéron

La teorizzazione originalissima di Edmond Gilliéron si fonda su un approccio di tipo bio-psico-sociale, ossia sul fatto che lo sviluppo individuale è determinato da diversi fattori: biologico, psicologico e sociale.

 

Per parte nostra siamo partiti dal postulato che la realtà psichica è inconoscibile. Se ne conoscono tutt’al più certi derivati che si manifestano nella relazione interpersonale.

L’aggettivo relazionale ha avuto varie precisazioni nel corso della evoluzione del pensiero psicoanalitico, dopo Freud. Inizialmente designava il legame tra le relazioni interpersonali e le relazioni oggettuali interne. Le relazioni umane, caratterizzate da specificità ed unicità, giocano una funzione fondamentale sia nella genesi del carattere e della psicopatologia sia nella pratica clinica psicoanalitica. Con l’approfondirsi della riflessione teorica e clinica dopo Freud si è allargato il campo di interesse, dall’intrapsichico all’interpersonale.

Non soltanto dal punto di vista professionale, ma anche da quello esistenziale è di un certo interesse per la persona sapere che esiste una circolarità di influenze tra il mondo interno dei vissuti e il mondo esterno, fatto di luoghi – non solo fisici – dove questi vissuti vengono esperiti; tra la vita reale e quella fantasmatica, tra l’intrapsichico e l’interpersonale.

Le relazioni che viviamo tutti, soprattutto quelle più significative e dei primi mesi di vita, incidono – insieme con i fattori biologici – sulle nostre caratteristiche, ossia il nostro temperamento, la nostra costituzione somatica, la responsività fisiologica del nostro corpo. La stessa idea del conflitto (che in Freud avviene tra pulsioni e difese) in senso relazionale ha come attori principali le differenti e opposte configurazioni relazionali.

Non siamo il risultato di un riduzionismo biologico, in senso freudiano, ma nello svolgimento evolutivo delle nostre configurazioni caratteriologiche sono molto importanti i concetti di motivazione e attribuzione di significato, elementi essenzialmente relazionali, che nascono cioè perché veniamo in contatto con rapporti umani.

La teoria di Edmond Gilliéron

Il termine relazionale, quindi, implica non solo, come accennato prima, il legame tra le relazioni interpersonali e le relazioni oggettuali interne; esso si riferisce anche alle relazioni oggettuali esterne, ossia all’oggetto esterno reale. Oggetto, come si dice in psicoanalisi, indica la persona. Tale assunto è il punto di partenza della teoria dell’appoggio oggettuale, secondo la teorizzazione originalissima di Edmond Gilliéron. Essa si fonda su un approccio di tipo bio-psico-sociale, ossia sul fatto che lo sviluppo individuale è determinato da diversi fattori: biologico, psicologico e sociale. Questi fattori sono tutti complementari, perché insieme concorrono a formare la personalità. Secondo la teoria dell’appoggio oggettuale, pertanto, l’individuo si appoggia sull’ambiente esterno allo scopo di mantenere il suo equilibrio psichico. La strutturazione dello psichismo del bambino sembra quindi discendere da fattori complessi, da un equilibrio dinamico e circolare, che implica il contesto culturale, il comportamento dei genitori e le tensioni intrapsichiche individuali.

L’organizzazione di personalità secondo tale modello è l’insieme dei fattori che costituiscono l’individuo, ossia il corpo, lo psichismo e la relazione con l’ambiente. La descrizione della sua struttura – come cioè è fatta la personalità – si basa su una teoria, dunque non è visibile la personalità, ciò che invece è visibile di una persona, ciò che appare manifesto, è il suo carattere, perché esso si mostra nelle sue relazioni con l’ambiente. La struttura perciò si potrebbe dedurre dalle formazioni caratteriali dell’individuo. Questo si riallaccia alla questione della relazione oggettuale. In psicoanalisi, parlare di relazioni oggettuali ha sempre significato far riferimento alla relazione con gli oggetti interni (cioè le rappresentazioni) e non alla relazione con gli oggetti esterni. E’ invece molto realistico ciò su cui pone l’accento la teoria di cui stiamo parlando: considerare l’appoggio oggettuale come uno degli indici più sicuri dell’organizzazione permanente della personalità e della sua struttura.

Il modello di Edmond Gilliéron è innovativo e interessante, infatti, perché il carattere rappresenterebbe in questa visione quell’elemento che può essere osservato, in quanto emergente grazie alle reazioni che l’ambiente mette in atto nei confronti dell’individuo. L’ambiente reagisce alla modalità di relazione del soggetto il quale inconsciamente anticipa quelle reazioni, sentendosi così confermato nei propri fantasmi. L’equilibrio psichico di una persona, infatti, dipende anche dall’ambiente. Se, ad esempio, una persona con tendenze paranoiche si aspetta delle ingiustizie, attraverso il suo atteggiamento inconscio provoca delle risposte di rifiuto dall’ambiente, inconsciamente. In una sorta di circolo vizioso, essa, in questo modo, è confermata nella sua certezza che il mondo è ingiusto. Quando si considera la persona non si può non pensare che il suo funzionamento psichico si appoggia da un lato sulla biologia (la sua integrità biologica) e, dall’altro, sull’ambiente (il suo carattere).

Si attua con questa impostazione il superamento di un modello di funzionamento psichico basato su un meccanicismo pulsionale di matrice esclusivamente intrapsichica, dove prevale la natura biologica del desiderio e si tende a considerare la persona nella sua unicità e totalità di fattori. Si intuisce quanto questa teoria abbia una grande funzionalità dal punto di vista psicoterapeutico, perché si può guardare alla persona in tutti i suoi aspetti, tentativamente.

I bisogni nell’approccio di Edmond Gilliéron

Nel modello di derivazione biologica di Freud, invece, lo sviluppo individuale procede da interessi corporei, che sono orientati da dimensioni differenti (quella orale, anale, fallica) così come predominanti nelle varie fasi evolutive; per arrivare alla dimensione adulta (quella genitale), seguendo in questo modo le disposizioni naturali della persona. Ma c’è una dimensione essenziale dell’uomo: il desiderio. Se questa dimensione è reale, occorre trovare una dimensione teorica che ne spieghi la genesi. Il desiderio può avere un abbrivio biologico, aver a che fare con i bisogni, innanzitutto corporei, ma emerge nella sua natura sostanziale a livello superiore.

Un primo bisogno è la fame, legato alla sopravvivenza, e sta all’origine di una tensione. La madre che procura il cibo al bambino (il seno) placa questa tensione. In questa dinamica materna, il seno – che rappresenta l’immagine della madre soddisfacente – ha un posto privilegiato nella formazione dei desideri del bambino. Quando avrà di nuovo fame, in assenza della madre, egli cercherà di ripetere questa esperienza di soddisfazione in modo allucinatorio: l’esito sarà un abbassamento di tensione, almeno temporaneo.

Ma la soddisfazione allucinatoria non è minimamente comparabile con l’esperienza reale di soddisfazione avuta con la madre, perciò il bambino, secondo Edmond Gilliéron, vive una dinamica in cui è costretto al desiderio: l’eccitazione non si riduce tanto semplicemente e allo stesso tempo la madre non arriva per placarla, così non arrivando il sollievo, il bambino scopre il desiderio.

In tal modo, il desiderio, che nasce da un bisogno biologico non soddisfatto, si fissa su una rappresentazione che non è quella del bisogno medesimo, bensì attiene alla dimensione del piacere che normalmente accompagna la soddisfazione del bisogno. Il bambino esprime così una ricerca di piacere a scapito della realtà.

In questo processo, il desiderio si distaccherebbe dalla realtà biologica per costituire progressivamente l’apparato psichico del soggetto.

La prospettiva davvero innovativa di questa impostazione, all’interno della concezione psicoanalitica, risiede nella sottolineatura della natura relazionale del desiderio: il modo di soddisfazione allucinatoria della pulsione non può essere equiparato alla soddisfazione reale, quella che si ha nel momento dell’apparizione della madre che risponde adeguatamente al bisogno del bambino, estinguendo il suo bisogno della fame.

L’appoggio oggettuale pertanto descrive il tipo di interazione che si crea tra il bambino e l’ambiente in cui è immerso, e si basa sulla concezione freudiana della coazione a ripetere.

L’interazione è al di là della coscienza del soggetto, non si tratta di comportamento dal valore simbolico, ma semplicemente di un sistema ripetitivo di azioni che suscita reazioni specifiche nell’ambiente. Si tratta dunque di un sistema di atti e non di un sistema di pensiero. Secondo questa concezione, tutte le cosiddette psicopatologie sono alla ricerca di complici; uno psicotico ha bisogno di essere rifiutato dagli altri per rinchiudersi nel suo mondo autistico.

Nell’ottica di Gilliéron, dunque, l’assenza dell’oggetto (la madre in questo caso) non dà come risultato l’allucinazione, bensì rende possibile il realizzarsi di una potenzialità umana, ossia la capacità di provare piacere sulla base di un ricordo e non soltanto con un oggetto reale.

Implicazioni dell’approccio di Edmond Gilliéron in psicoterapia

Perché è importante tutto questo in psicoterapia? Per la questione del metodo.

Se la persona può subire un attacco biologico, una difficoltà relazionale o un disturbo dell’organizzazione dell’apparato psichico, questi fattori possono provocare una crisi, quella combinazione di fattori, cioè, è responsabile dell’incrinatura dell’equilibrio della personalità.

Alla luce di quanto descritto, il campo di osservazione per l’analisi terapeutica è un insieme oggettivo di elementi osservabili anche dall’esterno, insieme che rappresenta un aggregato di indizi con cui esplorare le dinamiche relazionali che usualmente la persona mette in atto, ripetendole –  circostanza molto importante – anche nella relazione terapeutica. Il carattere è dunque una manifestazione visibile della struttura di personalità che si esprime in segni concreti.

Dal punto di vista metodologico, nel setting terapeutico, il momento di crisi rappresenta un punto focale, poiché rimette in discussione l’equilibrio della personalità.

Poiché l’adulto ripropone la sua organizzazione – ormai cristallizzata – di sentimenti, reazioni affettive, pensieri, atteggiamenti difensivi, investendo il mondo esterno con l’immaginario interno e riproponendo pertanto le esperienze infantili nella visione attuale del mondo, l’interazione che avviene all’interno del setting terapeutico è osservabile e permette di inferire l’organizzazione di personalità del soggetto, riproponendo nella dinamica terapeutica le medesime dinamiche relazionali che vive nella vita ordinaria.

Metodologicamente, viene dato molto rilievo al primo colloquio, alla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente, la quale è in grado di fornire nel suo dipanarsi la chiave della diagnosi, attraverso cui si possono rilevare i meccanismi di difesa, il tipo di angoscia e la natura dei conflitti vissuti dal soggetto.

 

Demenza con Corpi di Lewy: diagnosi e segni prodromici

Scopo dell’articolo è fornire delle indicazioni utili per l’assessment neuropsicologico nell’oggettivazione dei segni prodromici di una Demenza con Corpi di Lewy (DLB).

 

Nel panorama delle demenze, quella con corpi di Lewy è la seconda in ordine di frequenza. L’età media di insorgenza del disturbo è compresa tra i 58 e i 78 anni, con un picco di incidenza nella sesta decade di vita.

DLB, Morbo di Parkinson, Demenza in malattia di Parkinson e Atrofia Multisistemica sono definite sinucleinopatie e, oltre a condividere molti aspetti clinici e genetici, sono accomunate dalla medesima caratteristica fisiopatologica: l’accumulo di ammassi proteici sferici (corpi di Lewy) nel citoplasma neuronale. Composti da aggregati della proteina alfa-sinucleina, alterano progressivamente l’equilibrio dei neurotrasmettitori e delle vie neuronali corticali e striato-corticali.

In particolare la Demenza con Corpi di Lewy e la Demenza in malattia di Parkinson (PDD) possiedono caratteristiche sovrapponibili. Entrambe sono infatti caratterizzate da parkinsonismo, da un progressivo deterioramento cognitivo, e da disturbi comportamentali e neuropsichiatrici. La caratteristica che può aiutare a differenziarle riguarda la sequenza di esordio dei sintomi: solitamente nella DLB il deficit cognitivo precede o è concomitante alla sindrome motoria parkinsoniana, mentre nella PDD la sindrome motoria precede il declino cognitivo (Erkkinen et al., 2018).

La diagnosi di Demenza con Corpi di Lewy

Secondo i criteri attualmente accettati (McKeith, et al., 2017) i sintomi della Demenza con Corpi di Lewy includono:

  • fluttuazione della cognizione;
  • allucinazioni visive;
  • disturbo comportamentale del sonno REM;
  • parkinsonismo.

Se le condizioni utili a diagnosticare una demenza sono soddisfatte, è sufficiente la presenza di due dei precedenti sintomi per considerare probabile il disturbo. Le caratteristiche di supporto alla diagnosi includono: grave sensibilità agli antipsicotici, instabilità posturale, cadute ripetute, sincope, disfunzioni autonomiche (costipazione, ipotensione ortostatica, incontinenza urinaria), ipersonnia, iposmia, allucinazioni non visive, deliri strutturati, apatia, ansia e depressione.

I biomarcatori indicativi comprendono la riduzione dell’assorbimento di dopamina nei gangli della base rilevabile attraverso SPECT o PET, riduzione della captazione cardiaca di metaiodobenzilguanidina rilevabile attraverso la scintigrafia miocardica e la conferma di assenza di atonia muscolare durante il sonno REM attraverso l’indagine polisonnografica (Outeiro, et al., 2019).

Come accade per altri disturbi neurodegenerativi la diagnosi definitiva richiede campioni autoptici di tessuto cerebrale.

Prodromi della Demenza con Corpi di Lewy

La ricerca sui segni prodromici di DLB è relativamente recente e non ha ancora prodotto risultati consistenti e generalizzabili. Tuttavia diversi studi stanno contribuendo ad una loro accurata disamina, concentrando la loro attenzione soprattutto sulle alterazioni neuropsichiatriche e cognitive che possono manifestarsi anni prima rispetto all’insorgenza dei sintomi.

Per comprendere quali segni poter osservare in fase prodromica è utile ricordare che le basi neuropatologiche di una Demenza con Corpi di Lewy sono rappresentate da una perdita neuronale e dalla presenza di corpi di Lewy nei nuclei sottocorticali e nei lobi frontali e parietali, soprattutto a carico dell’insula destra (Park, et al., 2011). Tali alterazioni, a partire dalla fase sintomatologica, producono disordini via via ingravescenti (disturbi visuopercettivi, disprassia, deficit di attenzione, difficoltà di denominazione, deficit di recupero dalla memoria episodica, deficit di fluenza verbale), che non sono osservabili in una fase prodromica.

Nel periodo che precede il disturbo si osservano principalmente disturbi neuropsichiatrici, quali apatia o sintomi depressivi, uniti a difficoltà esecutive e visuocostruttive. Solitamente non si evidenziano evidenti disturbi a carico della memoria (van de Beek, et al., 2020), che invece risulta coinvolta con il progredire del disturbo.

Il quadro clinico nella fase prodromica di una DLB può comprendere:

  • un MCI solitamente non-amnesico, con difficoltà visuopercettive e/o esecutive e assenza di deficit nelle attività di vita quotidiana (Kemp, et al., 2017)
  • disturbi neuropsichiatrici
  • assenza di parkinsonismi, che poi interesseranno l’85% dei pazienti affetti da DLB (Smirnov, et al., 2020);
  • la presenza di un disturbo comportamentale del sonno REM (RBD) (Jellinger, et al., 2018), al quale deve essere posta particolare attenzione. Esso infatti precede di molti anni la comparsa dei deficit cognitivi caratteristici (Donaghy, et al., 2015) e possiede una forte correlazione con l’esordio di una sinucleinopatia in generale. Diversi studi longitudinali evidenziano come i pazienti con RDB possiedano un indice percentuale di rischio molto elevato per lo sviluppo di una sindrome neurodegenerativa: 35% a 5 anni dalla comparsa di RDB, 73% a 10 anni, fino a raggiungere una percentuale compresa tra l’81% e il 92% a 16 anni (Barone, et al., 2018).

A riguardo, un altro studio (Génier Marchand, et al., 2017) suggerisce di includere sempre una misurazione delle funzioni visuospaziali nell’assessment neuropsicologico di un paziente che presenti RBD, per cogliere l’opportunità di rilevare precocemente una Demenza con Corpi di Lewy.

Ulteriori indicazioni utili al clinico possono derivare dalla valutazione qualitativa dei test neuropsicologici:

Uno studio in particolare (Mitolo, et al., 2014) suggerisce che un ridotto numero di angoli nella prova della copia del pentagono del MMSE potrebbe essere un buon marcatore della DLB prodromica e possiede inoltre una specificità del 91% nella discriminazione dall’Alzheimer.

Allo Stroop Test può essere evidenziata precocemente una difficoltà nella discriminazione dei colori a causa dell’interruzione del circuito dedicato alla funzione nella corteccia prefrontale dorsolaterale (Park, et al., 2011)

L’Attenzione sostenuta è spesso la funzione inizialmente più compromessa.

La performance al RCFT (Test della figura Complessa di Rey) è precocemente deficitaria, tuttavia l’interpretazione del risultato può essere fuorviante se il paziente presenta un basso livello di scolarizzazione e un basso punteggio al MMSE  (Kemp, et al., 2017).

Il TMT può mostrare un deficit in entrambe le prove (A e B) per una compromissione della funzione di ricerca visiva piuttosto che per un problema di shifting (Kemp, et al., 2017). A questo riguardo i test non grafomotori potrebbero essere più sensibili nell’identificare deficit esecutivi puri.

La performance nei test di memoria verbale è migliore rispetto a quella dei test di memoria visiva (Noe, et al., 2004).

Può essere osservata una flessione nei compiti di memoria semantica su stimolo figura piuttosto che su stimolo vocabolo, in accordo con l’ipotesi del deficit primario a carico della visuopercezione nella DLB (Kemp, et al., 2017).

La cognizione sociale non risulta generalmente compromessa in fase prodromica. Può essere osservata una difficoltà nell’attribuzione dei sentimenti al RME test, che deve essere interpretata con cautela soprattutto nel caso sia presente un deficit visuopercettivo o esecutivo, in quanto il riconoscimento dell’espressività e l’inferenza circa sentimenti e intenzioni presuppongono l’integrità delle capacità visuospaziali e frontali (Heitz, et al., 2016).

 

L’influenza delle esperienze avverse infantili sull’adozione di comportamenti devianti e la mancanza di comportamenti altruistici

Uno studio recente (Gomis Pomares & Villanueva, 2020) ha esplorato l’effetto delle esperienze avverse avvenute nell’infanzia sull’adozione di strategie di rischio (comportamenti devianti), e sulla mancanza di strategie positive (comportamenti altruistici), tra giovani adulti.

 

Per esperienze avverse dell’infanzia (Adverse Childhood Experiences – ACE) si intendono tutte quelle esperienze traumatiche come abusi sessuali, fisici o emotivi o negligenza emotiva e fisica, nonché circostanze familiari avverse che si sono verificate durante l’infanzia o l’adolescenza.

La letteratura sottolinea che le esperienze avverse sono più comuni tra i bambini di età inferiore ai 6 anni (Thompson et al., 2015) e che, una volta verificatosi un evento avverso nella vita di un bambino, la probabilità che egli ne viva altri aumenta in modo significativo, motivo per cui si apre una catena di rischi precoci. Per questo motivo, vari studi hanno sottolineato sempre più l’importanza delle prime esperienze in età infantile per la salute delle persone lungo tutto il corso della vita (Hughes et al., 2017).

Esperienze traumatiche e comportamenti devianti

L’aver vissuto una o più esperienze traumatiche sembra comportare risultati negativi in ​​età avanzata come ad esempio comportamenti a rischio (Felitti & Anda, 2010), inoltre, la tipologia dell’esperienza avversa vissuta sembra essere un elemento importante dato che potrebbe comportare differenti esiti (Agnew, 2001; Sharp et al., 2012). Ad esempio, Agnew (2001) sostiene che alcune esperienze possono avere un forte impatto sui comportamenti devianti, mentre altri hanno un impatto minimo o nullo.

Per comportamento deviante si intende un comportamento che viola le norme e i valori sociali, inclusa una vasta gamma di atti come furto, menzogna e aggressione. La definizione include comportamenti antisociali che sono violazioni del diritto penale, solitamente indicati come reati o crimini, nonché atti che non sono soggetti a sanzioni da parte del sistema di giustizia penale, come comportamenti esternalizzanti o distruttivi (Braga et al., 2017).

Riassumendo, quindi, i risultati ottenuti in questo campo portano al presupposto teorico che le avversità infantili siano fortemente legate al deterioramento sociale, emotivo e cognitivo e all’adozione di comportamenti a rischio per la salute che promuovono un’ampia gamma di esiti negativi: malattia precoce, disabilità, problemi sociali fino ad arrivare alla morte prematura (Felitti et al., 1998; Hughes et al., 2017).

Alla luce dei dati riportati, un’identificazione precoce delle esperienze infantili avverse è fondamentale per prevenire comportamenti devianti e favorire comportamenti altruistici, prevenendo così esiti negativi a lungo termine.

Esperienze avverse e comportamenti devianti: uno studio

Uno studio recente (Gomis Pomares & Villanueva, 2020) ha avuto come scopo quello di esplorare l’effetto complessivo e differenziale delle esperienze avverse avvenute nell’infanzia sull’adozione di strategie di rischio (comportamenti devianti), e sulla possibile mancanza di strategie positive (comportamenti altruistici), in una popolazione di giovani adulti spagnoli.

Come ci si aspettava, i risultati ci mostrano che l’aver sperimentato un’esperienza avversa durante l’infanzia sembra essere un predittore di comportamenti devianti, supportando così studi precedenti (ad es. Craig, 2019), e che l’aver vissuto quattro o più esperienze avverse in età infantile ha aumentato in modo considerevole la probabilità di presentare comportamenti devianti nella giovane età adulta.

Analizzando nello specifico il contributo dei diversi sottotipi di esperienze avverse, coerentemente con studi precedenti (ad es. Braga et al., 2018), si è scoperto che l’abuso fisico era il principale predittore dei comportamenti devianti. Ciò non sorprende, dato che i bambini che hanno subito abusi fisici hanno più problemi di esternalizzazione nell’infanzia rispetto ai bambini trascurati, inclusa una maggiore inadempienza e aggressività nei confronti degli adulti e degli altri bambini (Hildyard & Wolfe, 2002). Ciò potrebbe essere dovuto a meccanismi di apprendimento che spingono bambini vittime di violenza ad imitare questo comportamento, soprattutto quando percepiscono che tale violenza si traduce in ricompense (Braga et al., 2017). Oltre all’abuso fisico, anche l’abuso di sostanze nell’ambiente domestico si è mostrato un predittore significativo di comportamenti devianti nella giovane età adulta.

Per quanto concerne le strategie positive, l’abbandono emotivo era l’unico evento avverso che prevedeva la mancanza di altruismo. Questo risultato può essere dovuto al fatto che i bambini che non sono mai stati amati dalle figure significative durante l’infanzia, che non si sono mai sentiti speciali o importanti nell’ambiente familiare, non sono riusciti ad apprendere la capacità di amare o preoccuparsi degli altri. Ciò sembra essere in linea con la Teoria cognitiva integrata del potenziale antisociale, che prevede che l’esposizione a situazioni avverse durante l’infanzia o l’adolescenza può indebolire il legame sociale che dovrebbe essere stabilito in condizioni normali (Farrington, 2017). Allo stesso modo, alcuni autori considerano anche queste esperienze di abbandono come una minaccia allo sviluppo complessivo del sé dei bambini, in quanto, non ricevendo alcuna attenzione o cura, non ricevono nessun contributo prezioso al processo di auto-costruzione. Ciò sembra coerente con altri risultati della letteratura che indicano che i bambini trascurati presentano più ritiro sociale e interazioni limitate con i coetanei e più problemi di interiorizzazione rispetto ai bambini abusati fisicamente (Hildyard & Wolfe, 2002).

Tenendo in considerazione il genere, i risultati mostrano che le esperienze avverse infantili sono più predominanti nelle donne che negli uomini, supportando studi precedenti (Basto-Pereira et al., 2016). Inoltre, l’essere maschio ed aver subito esperienze avverse era predittivo di comportamenti devianti, mentre il solo essere di sesso femminile era un predittore di comportamenti altruistici. Questi risultati sono coerenti con ricerche precedenti che mostrano la più alta associazione del genere maschile a comportamenti esternalizzanti o distruttivi, nonché a violazioni del diritto penale (Godinet et al., 2014).

Conclusioni

In sintesi, possiamo presumere che diversi disturbi socio-emotivi e cognitivi abbiano luogo a causa di queste esperienze avverse. L’effetto cumulativo e alcune dimensioni specifiche di esperienze avverse avevano una relazione con il rischio di presentare comportamenti devianti e di inibire l’espressione di comportamenti altruistici. Nell’abuso fisico, la costruzione di uno schema mentale ostile (comportamento deviante) sembra essere il fattore chiave, mentre, nei bambini i cui bisogni sono stati sistematicamente ignorati, l’assenza di uno schema mentale dei bisogni degli altri è il punto centrale.

Si sottolinea l’importanza dell’implementare strategie affinché i bambini trascurati siano in grado di sviluppare abilità come l’empatia o la comprensione delle emozioni degli altri con il fine di promuovere comportamenti altruistici tra i bambini che non hanno imparato a farlo prima nella vita.

 

Tutta colpa del cervello: un’introduzione alla neuroetica (2013) di G. Corbellini e E. Sirgiovanni – Recensione

Tutta colpa del cervello ha come oggetto l’analisi dei fondamenti della neuroetica, disciplina che si occupa di stabilire le limitazioni etiche delle ricerche neuroscientifiche.

 

Il libro dei professori Corbellini e Sirgiovanni ha come oggetto l’analisi dei fondamenti epistemici della neuroetica, intendendo con essa una disciplina che si occupa di stabilire le limitazioni che dal punto di vista etico devono avere le ricerche che attualmente sono svolte nell’ambito delle neuroscienze, grazie ai moderni ausili utilizzati nell’ambito delle tecniche di neuroimaging. Questo pone un’altra problematica, ovvero può essere l’uomo inteso nei suoi comportamenti e nelle sue peculiarità come frutto delle scoperte delle neuroscienze? Questa prospettiva appare fortemente limitante, togliendo per esempio ad altre scienze umane la possibilità di poter intervenire sul dibattito sui comportamenti umani e sugli agenti motivanti che li determinano.

La neuroetica si occupa anche di capire quali siano le basi che in ambito neurobiologico determinano la formazione del giudizio morale nell’uomo. Da questo punto di vista assumono un significato differente, alla luce delle teorizzazioni delle neuroscienze, i concetti di io, di libertà di volere e di responsabilità individuale. In altre parole, anche alcuni costrutti dell’etica, attraverso questa rivisitazione neuroetica, si sostanziano in una significazione differente, che conduce ad una diversificazione semantica, certamente più adeguata alla contestualità epistemologica attuale, alcuni costrutti classici della filosofia morale.

La neuroetica, quindi, si pone l’obiettivo di coniugare i concetti filosofici legati alla natura dell’uomo, al suo essere nel mondo, al significato da dare alla sua esistenza e al senso del suo esserci nel mondo con la nuova epistemologia neuroscientifica, che deve divenire la prospettiva teorica ed empirica delle ricerche in ambito filosofico – morale e bioetico.

Cosa può nascondersi dietro ad intimità, condivisione emotiva e vicinanza: la Schadenfreude nell’amicizia tra donne

Talvolta le persone sperimentano schadenfreude, ovvero il piacere provato per la sfortuna di qualcun altro. Uno studio di Abell e Brewer del 2018 si è occupato di indagare l’esperienza di schadenfreude nelle amicizie tra donne.

 

Solitamente proviamo empatia nei confronti delle persone che soffrono (Wispé, 1991). L’empatia è la principale emozione sperimentata quando sono coinvolti amici e familiari ma non è ancora chiaro, tra gli studi in letteratura, se l’empatia sia ugualmente sentita verso altre persone che non siano parenti e affini. Talvolta infatti le persone sperimentano schadenfreude, ovvero ‘soddisfazione o piacere provato per la sfortuna di qualcun altro’. Schadenfreude è un termine tedesco e può essere tradotto con ‘gioia maligna’; la parola deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). La Schadenfreude descrive infatti l’esperienza di provare piacere nella sfortuna di un’altra persona (Takahashi et al., 2009).

Quando si sperimenta la schadenfreude

Alcuni studi di Norman Feather (2006) hanno analizzato diverse circostanze in cui si sperimenta la schadenfreude, individuando tre spiegazioni. La prima afferma che le persone talvolta possono effettivamente guadagnare dalla sfortuna altrui e il piacere è una reazione naturale al guadagno personale. La seconda circostanza deriva dalla percezione di quanto un risultato sia meritato: una disgrazia altrui è percepita come meritata poiché ritenuta giusta. L’ultima spiegazione deriva da sentimenti di invidia; questa è fortemente connessa alle prime due ragioni: una disgrazia che colpisce una persona invidiata porta, tra le altre cose, a un piacevole guadagno personale e un senso soggettivo ma soddisfacente di meritocrazia. Le differenze individuali che predicono la schadenfreude, includono quindi il risentimento, il merito, l’invidia e la competizione che determinano il provare piacere per la sfortuna di qualcuno (Smith et al., 2009).

Schadenfreude e personalità

Alcuni studi si sono occupati inoltre di determinare come la schadenfreude sia influenzata da fattori di personalità malevola come la cosiddetta Triade Oscura: una caratterizzazione personologica contraddistinta da alcuni tratti di personalità che hanno in comune sentimenti di aggressività e freddezza emotiva. La triade Oscura include il narcisismo, la psicopatia e il machiavellismo; quest’ultimo è definito come un tratto di personalità caratterizzato da uno stile interpersonale manipolativo, dalla volontà di sfruttare gli altri e da una preferenza per relazioni emotivamente distaccate (Christie & Geis, 2013). Il termine deriva da un’ interpretazione della dottrina politica di Niccolò Machiavelli al quale viene attribuita erroneamente la frase ‘il fine giustifica i mezzi’, che indica il servirsi di ogni espediente, indipendentemente da ogni considerazione di carattere morale, per raggiungere il proprio fine.

La psicopatia, caratterizzata da insensibilità, impulsività e livelli di ansia molto bassi per le conseguenze delle proprie azioni, è stata associata alla schadenfreude negli scenari di calamità, competizione e fallimento degli altri, mentre il machiavellismo, caratterizzato da manipolazione per obiettivi a lungo termine, è stato associato alla schadenfreude in relazione alla competizione e al fallimento (Jones & Paulhus, 2011). Gli studi presenti in letteratura non hanno tuttavia studiato la possibile relazione tra machiavellismo e schadenfreude nelle relazioni personali strette; è noto, infatti, che soprattutto le amicizie femminili siano influenzate dal machiavellismo (Abell et al., 2016).

Schadenfreude nelle amicizie femminili

Spesso le amicizie tra donne, sebbene presentino intimità, condivisione emotiva e vicinanza (Vigil, 2007), sono caratterizzate da manipolazioni come l’aggressione relazionale, la reputazione sprezzante, l’ostracismo e la ridicolizzazione (McAndrew, 2014). Le relazioni amicali tra donne possono quindi essere un contesto in cui la schadenfreude è sperimentata con livelli più elevati di machiavellismo, invidia e competizione. Poiché la ricerca precedente ha dimostrato che il machiavellismo, l’invidia e la competizione predicono sentimenti di schadenfreude nelle relazioni generali e che il machiavellismo è legato all’invidia e alla competizione (Jonason et al., 2015), uno studio di Abell e Brewer del 2018 si è occupato di indagare il machiavellismo, l’invidia, la competizione e l’esperienza di schadenfreude nelle amicizie tra donne. Le ipotesi iniziali prevedevano che i soggetti con livelli più alti di machiavellismo, invidia e competizione avrebbero riportato livelli più alti di schadenfreude in differenti contesti, tra i quali la capacità accademica, l’aspetto fisico e le relazioni romantiche. 4133 donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni, con un’amicizia di durata media di 7,5 anni, sono state reclutate tramite social network e sottoposte a differenti misurazioni. Inizialmente hanno valutato tre vignette per misurare la schadenfreude (James et al., 2014), successivamente è stato misurato il machiavellismo tramite la scala Il Mach IV (Christie & Geis, 2013); infine sono state sottoposte alla scala dell’invidia dispositiva (Smith et al., 1999) e all’indice di competizione interpersonale (Singleton & Vacca, 2007).

I risultati mostrano correlazioni tra machiavellismo, invidia, competizione e, relativamente alla schadenfreude, mostrano che questa correla positivamente e significativamente con l’invidia e la competizione nelle abilità accademiche. Inoltre il machiavellismo, l’invidia e la competizione correlano positivamente nelle relazioni romantiche e nell’aspetto fisico. Sembrerebbe dunque che le donne con un livello più alto di machiavellismo possono provare sentimenti di piacere quando un’amica sperimenta una sfortuna nella relazione con un/una partner e nell’aspetto fisico. Lo studio sottolinea anche il ruolo dell’invidia e della competizione nel provare schadenfreude: l’invidia ha predetto l’esperienza di schadenfreude in relazione alla capacità accademica/lavorativa e alle relazioni romantiche, mentre la competizione ha predetto l’esperienza di schadenfreude in tutti e tre gli scenari. Il machiavellismo non ha tuttavia predetto l’invidia o la competizione; questo suggerisce che le donne non hanno visto le amiche come avvantaggiate o non provavano invidia per i vantaggi altrui. Una possibile spiegazione a questo fenomeno è data dal fatto che le partecipanti non abbiano provato invidia in quanto tenderebbero a selezionare attentamente le amiche della cerchia sociale da frequentare, le quali sono quasi sempre vulnerabili ad essere manipolate o sfruttate. Anche per quanto riguarda la competizione accade un fenomeno simile: le donne con punteggi alti di machiavellismo selezionano amici che non vedono competitivi poiché competere con loro richiederebbe troppe energie (Abell & Brewer, 2018). La ricerca ha dimostrato, infatti, che coloro che hanno un alto livello di machiavellismo selezionano amici che sono gentili e danno poca importanza alla qualità dell’amicizia, alla compagnia e all’intimità (Abell et al., 2016). In conclusione i risultati sono coerenti con le ricerche precedenti, in particolare quelle che documentano il piacere in risposta alla sfortuna di un collega. Tuttavia, il machiavellismo non ha predetto l’invidia o la competizione, anche se questi ultimi hanno predetto la schadenfreude.

 

I meccanismi di mantenimento dei disturbi dell’alimentazione

I disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati da un anomalo rapporto con il cibo e contribuiscono alla comparsa di problematiche significative per la salute fisica e per il funzionamento psicosociale.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i disturbi dell’alimentazione rappresentano una delle più frequenti cause di disabilità per gli adolescenti e i giovani adulti nei paesi occidentali e sono in costante aumento.

Negli ultimi anni molte sono state le ricerche in questo campo con l’obiettivo di comprendere a fondo le caratteristiche delle problematiche alimentari e le modalità migliori con cui trattarle e prevenirle. Tra i vari aspetti studiati, ci si è chiesti quali siano i fattori implicati nel loro mantenimento. Una risposta a questa domanda è stata sviluppata all’interno della cornice teorica cognitivo comportamentale transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione su cui si basa la CBT-E (enhanced cognitive behaviour therapy), trattamento d’elezione per questa psicopatologia.

Meccanismi di mantenimento specifici dei disturbi dell’alimentazione

Secondo questo approccio teorico, il nucleo psicopatologico centrale dei disturbi dell’alimentazione sembra essere uno schema di valutazione di sé disfunzionale (Fairburn et al., 2003), ossia la tendenza delle persone affette da questa problematica a giudicare il proprio valore secondo canoni poco realistici ed equilibrati.

Il sistema di autovalutazione solitamente si basa sulla percezione soggettiva delle proprie prestazioni in vari ambiti della vita, come il lavoro, le amicizie, la scuola, la famiglia o lo sport. Nel contesto del disturbo alimentare, invece, questo sistema si stravolge e il giudizio sul proprio valore dipende quasi esclusivamente dal controllo che si esercita sul peso o la forma del corpo o l’alimentazione.

Stabilire il proprio valore basandosi prevalentemente su variabili legate al controllo alimentare o corporeo è rischioso e poco funzionale perché:

  • una dimensione (e.g., peso, alimentazione, forma del corpo) molto sproporzionata rispetto alle altre (e.g., lavoro, famiglia, amicizie, …) è in grado di compromettere l’intero sistema in caso di fallimento;
  • spesso gli obiettivi legati al peso o alla forma del corpo non vengono raggiunti (si potrebbe essere sempre più magri e con una forma più gradevole);
  • il focus attentivo è orientato selettivamente verso questi aspetti, marginalizzando e trascurando molte aree di vita (Dalle Grave e Calugi, 2015).

Le altre caratteristiche cliniche peculiari del disturbo, come il sentirsi grassi, i comportamenti estremi di controllo del peso o l’evitare di esporre il corpo, derivano in modo diretto o indiretto dal nucleo psicopatologico centrale. Questi aspetti, infatti, sono spiegabili solamente alla luce della sproporzionata importanza che il controllo di corpo, peso o alimentazione ha sull’autovalutazione (Dalle Grave, 2012).

In persone che soffrono di disturbi dell’alimentazione il sistema di autovalutazione disfunzionale viene mantenuto attivo dalle diverse manifestazioni cliniche del disturbo (e.g., la marginalizzazione di altre aree di vita). Questi elementi costituiscono l’insieme dei fattori di mantenimento interni o specifici (Dalle Grave et al., 2018), chiamati in questo modo perché peculiari del disturbo dell’alimentazione.

Meccanismi di mantenimento esterni dei disturbi dell’alimentazione

Esiste un sottogruppo di persone che soffrono di un disturbo dell’alimentazione in cui si possono riscontrare dei fattori di mantenimento aggiuntivi (esterni o non specifici) legati ad altre problematiche: perfezionismo clinico, bassa autostima nucleare, difficoltà interpersonali marcate o intolleranza alle emozioni. I meccanismi esterni interagiscono con quelli specifici e contribuiscono al mantenimento della psicopatologia, ostacolando ulteriormente il processo di cambiamento.

In particolare, siamo in presenza di perfezionismo clinico quando le attitudini e i comportamenti perfezionistici sono così estremi da danneggiare significativamente la vita della persona. Quando un disturbo dell’alimentazione coesiste con il perfezionismo clinico le due psicopatologie interagiscono tra loro e le persone che ne soffrono sono sia impegnate a raggiungere un “perfetto” controllo del peso, della forma del corpo o alimentare, sia a soddisfare standard molto esigenti negli altri ambiti di vita (Dalle Grave et al., 2018). Il perfezionismo clinico intensifica alcuni aspetti della psicopatologia, rendendoli difficili da trattare e favorendo il mantenimento della problematica (Shafran et al., 2002).

La bassa autostima nucleare, invece, è caratterizzata da un incondizionato e pervasivo giudizio negativo su di sé, non dipendente da condizioni attuali, di lunga durata e non conseguente a uno stato depressivo. Questo aspetto, combinato con il disturbo dell’alimentazione, favorisce un senso di impotenza, una visione negativa del futuro e la convinzione di non avere le capacità necessarie per affrontare un cambiamento; favorisce, inoltre, la focalizzazione su aspetti importanti (legati al disturbo) per migliorare la propria autostima (e.g., il controllo dell’alimentazione), rendendo difficile l’adesione e ostacolando il trattamento (Dalle Grave et al., 2018).

Spesso le persone con un disturbo dell’alimentazione hanno difficoltà interpersonali che migliorano con l’andamento della terapia. Tuttavia, ci sono alcuni pazienti per cui è necessario affrontarle in modo specifico. Alcune difficoltà interpersonali che favoriscono il mantenimento delle problematiche alimentari sono l’isolamento sociale e la mancanza di esperienze (questo favorisce la concentrazione sulla psicopatologia) o i conflitti, le liti e le emozioni negative associate che accentuano alcuni comportamenti del disturbo (e.g., cibo per modulare le emozioni).

Alcune persone con disturbi dell’alimentazione presentano una specifica difficoltà nel tollerare stati d’animo intensi o un’eccessiva sensibilità a tali stati (Fairburn et al., 2003). Il fatto di gestire in modo poco adeguato le emozioni porta spesso alla messa in atto di comportamenti disfunzionali, come gesti autolesivi o l’uso di sostanze psicoattive. I pazienti con disturbi dell’alimentazione possono usare alcuni comportamenti tipici del disturbo (e.g., vomito, esercizio, abbuffate, …) come comportamenti di modulazione emotiva.

I meccanismi esterni, quindi, possono diventare un importante ostacolo al cambiamento. In questi casi, infatti, il trattamento prevede dei moduli aggiuntivi per lavorare sugli aspetti extra-patologia che non permettono una risoluzione del disturbo dell’alimentazione.

 


 

Il moderno concetto di stress necessita di concettualizzare ed operazionalizzare anche lo stress positivo

La letteratura scientifica attualmente disponibile fa emergere l’esigenza di una migliore definizione concettuale ed operativa del cosiddetto eustress (stress positivo).

 

Se l’aspetto negativo dello stress (il cosiddetto distress) è un fenomeno ben studiato ed al quale corrisponde, nell’attuale paradigma, una enunciazione operativa apparentemente ben definita sia a livello biologico molecolare che psicologico, lo stesso non si può dire del suo opposto ossia dell’eustress.

Questo significa che l’attuale paradigma dello stress necessita di progredire ulteriormente per aumentare la sua capacità esplicativa soprattutto nei confronti dei fenomeni legati agli aspetti benefici e che promuovono la salute ed il benessere in particolare di quello umano.

L’esigenza di cambiare il paradigma generalmente accettato dello stress nasce anche dalla consapevolezza che, anche attualmente, non disponendo di un modello operativo che distingue lo stress positivo da quello negativo vi è una inevitabilmente ricaduta nelle pratiche poco efficaci se non controproducenti attualmente adottate dalla popolazione se non dagli stessi operatori e professionisti del settore.

Stress, eustress e distress

Così come per la psicologia, con la concettualizzazione della Psicologia Positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000), vi è stata una rivoluzione concettuale che ha modificato, e continua a modificare, sia la cultura che le pratiche adottate anche dai professionisti del settore psicologico, in maniera analoga il concetto di stress (storicamente ancorato agli studi biologici comparativi animali) deve progredire inglobando lo studio scientifico degli aspetti che promuovono e rinforzano la salute ed il benessere umano.

La transizione concettuale del vecchio paradigma in quello più aggiornato, prevede che l’orientamento teorico non sia più focalizzato in maniera esclusiva sul modello patologico di salute umana, né sbilanciato in maniera preponderante sul piano strettamente biologico (per la sua eredità culturale derivante dal modello biomedico del Novecento), né polarizzato in modo prioritario sullo studio delle invarianti comuni con altre specie animali.

Le conseguenze, sia concettuali che operative, di questo nuovo, moderno e scientificamente aggiornato paradigma relativo allo stress, dove anche l’eustress trova una sua collocazione logica altrettanto importante quanto lo stress negativo, comporta molteplici conseguenze anche applicative che riguardano le strategie pratiche da adottare al fine di ridurre i danni dello stress negativo e promuovere quello positivo per incrementare il nostro benessere e la nostra salute psicofisica.

Come già riportato in un altro scritto (Agnoletti 2021), dalla letteratura scientifica attualmente disponibile emerge la necessità concettuale di considerare anche la dimensione del significato nella comprensione dello stress, pena la mancata distinzione, soprattutto nella specie umana, tra stress positivo e negativo.

Soprattutto per il benessere e la salute umana vi è infatti l’esigenza di distinguere dal punto di vista operativo lo stress negativo (distress) da quello positivo (eustress) e questo significa superare concettualmente l’attuale paradigma generalmente accettato (quello che chiamo “paradigma classico dello stress”) dove tale distinzione è esclusivamente di natura quantitativa.

Considerando l’attuale letteratura scientifica sia biomedica che psicologica, sono sempre più convinto che oltre alla dimensione quantitativa, occorra aggiungere anche la dimensione del significato informazionale per aspirare a comprendere la complessità che caratterizza le dinamiche dello stress, soprattutto nel contesto umano.

A mio modo di vedere, unicamente considerando anche la dimensione informazionale relativa al significato all’interno del fenomeno stress è possibile comprendere i risultati di alcune recenti e preziose ricerche scientifiche così come capire la dimensione soggettiva, che può cambiare nel tempo, relativa la differenza tra eustress e distress nella specie umana.

Solo esaminando contemporaneamente le componenti oggettive con quelle soggettive dello stress vi è la possibilità di spiegare la notevole eterogeneità riscontrabile sia tra gli individui (diversi soggetti possono reagire in maniera molto diversa se esposti allo stesso stimolo/agente stressante) che all’interno dell’arco temporale di uno stesso individuo (la medesima persona può reagire molto diversamente se esposta allo stesso stimolo/agente stressante in due momenti diversi della propria vita).

Suppongo che l’unico modo di comprendere le dinamiche dello stress e le loro conseguenze psicofisiologiche che impattano sulla salute umana sia possedere un corretto concetto di stress che permetta di distinguere anche dal punto di vista operativo il distress dall’eustress, cosa che l’attuale paradigma non offre se non in termini assolutamente approssimativi.

Il paradigma classico dello stress

Attualmente in genere la definizione di stress consiste in un complesso processo messo in atto dall’organismo per ristabilire o garantire un equilibrio statico o dinamico (tecnicamente detto “omeostatico” o “allostatico”) perturbato da qualche fattore esterno all’organismo stesso (Bottaccioli & Bottaccioli, 2017; Charmandari, Tsigos, & Chrousos, 2005; Lazarus & Folkman, 1984; McEwen, 2007; Sapolsky, 2006; Selye, 1976).

Pur riconoscendo i progressi avvenuti soprattutto negli ultimi decenni, in particolare nei dettagli biologici e molecolari, questa visione fa fatica a definire con chiarezza ed in maniera operativa la differenza tra eustress e distress applicata alla specie umana.

Uno dei pochi esempi dove l’attuale paradigma dello stress considera operativamente anche lo stress positivo, distinguendolo da quello negativo, è il grafico che rappresenta la cosiddetta “legge di Yerkes e Dodson”.

In questo contesto si mette in relazione il livello di arousal psicofisico dell’organismo in funzione del tempo; la curva che descrive questa interazione rappresenta una generica prestazione (che può essere ad esempio una performance sportiva).

Come viene generalmente descritto in questo grafico, la distinzione tra eustress e distress è convenzionalmente quantitativa nel senso che l’unica cosa che distingue lo stress positivo da quello negativo è il grado di attivazione psicofisica dell’organismo (se troppo poca o troppa allora lo stress è negativo, diversamente è positivo).

Questa visione meccanicistica prevede quindi che non sia necessario un coinvolgimento degli aspetti psicologici o sociali per capire se si tratta di eustress o distress, l’unico aspetto veramente importante è quello quantitativo legato alle variabili fisico-chimiche presenti (produzione di sostanze bioattive come, per esempio, il cortisolo e/o l’attivazione fisiologica di un’area cerebrale come, per esempio, l’amigdala).

Ritengo importante notare che in questo ambito il criterio vero e proprio per distinguere l’eustress dal distress è definito in relazione alla performance ed implicitamente il contesto psicologico, sociale o anche strettamente biologico inteso come fitness non hanno alcun ruolo né uno spazio logico.

Paradossalmente una performance potrebbe essere ottimale anche se vissuta emotivamente come molto negativa dalla persona che la sta attuando e con il risultato della performance che mette in pericolo di vita il soggetto stesso (pensiamo a chi pratica sport estremi ad esempio).

In altri termini se la differenza tra distress e eustress rimane puramente quantitativa, allora l’unico modo di distinguere i due domini rimane la durata e l’intensità della reazione psicofisiologica prodotta dall’organismo, ma questo è palesemente in contrasto con l’evidenza scientifica di tutti quegli studi che dimostrano che a parità di attivazione psicofisiologica (livelli di cortisolo, attivazione di aree cerebrali, etc.) lo stress può essere positivo in una persona e negativo per un’altra.

La seducente quanto semplicistica visione rappresentata dal paradigma dello stress classico si traduce operativamente in uno schema dove: se la reazione psicofisica dell’organismo è breve ma intensa (si parla infatti di reazione “acuta” dello stress) allora viene considerato come positivo (eustress) per il valore positivo in termini di sopravvivenza biologica (il cosiddetto meccanismo “attacco o fuga”), mentre se la reazione ha una dimensione quantitativa più prolungata nel tempo (chiamato infatti stress “cronico”), anche nel caso in cui sia meno intensa, è sempre e comunque negativa (distress) per il valore disadattivo in termini di salute.

Ribadisco che questa visione non prevede né necessita assolutamente del coinvolgimento dei domini psicologici né di quelli sociali-culturali per decretare cosa viene considerato eustress e distress.

Nel paradigma classico dello stress, la complessità umana ormai riconosciuta come entità inestricabile bio-psico-sociale viene completamente ridimensionata esclusivamente nel suo piano biologico dove le dimensioni emotive/psicologiche, ed ancor meno quelle socio culturali, non vengono minimamente prese in considerazione.

Un po’ come quando si cerca di rappresentare bidimensionalmente una sfera disegnando un cerchio, il paradigma classico dello stress coglie degli aspetti della realtà ma non nella loro complessità.

In genere il paradigma dello stress normalmente inteso prevede, nella specie umana così come fondamentalmente tutti gli altri Vertebrati, l’attivazione psico-neuro-endocrina finalizzata a risolvere una situazione potenzialmente pericolosa per la sopravvivenza perché considerata all’interno della “categoria” potenzialmente perturbante l’omeostasi (o l’allostasi) dell’organismo stesso.

Dal fisiologo Walter Cannon che inizialmente definì lo stress nei termini di specifica reazione fisiologica dell’organismo di fronte ad una minaccia percepita (chiamata anche “fight or flight” response), agli autori molto più recenti quali Selye, Lazarus, McEwen, Chrousos, Sapolsky, che hanno effettivamente arricchito di dettagli lo stesso concetto di stress, la logica relativa la priorità conservativa biologica dello stress è sempre rimasta la stessa.

La soggettività all’interno della concezione dello stress

A mio avviso non c’è stato finora uno sforzo concettuale altrettanto importante per sintetizzarne il ruolo dello stress sia in contesti non omeostatici che all’interno della particolare complessità ed eterogeneità presente e caratterizzante la specie umana.

Questo probabilmente è uno dei motivi per cui è così difficile riuscire a definire lo stress, misurarlo (estrapolandone valori oggettivi) e valutarlo (positivo o negativo) nelle persone (Agnoletti, 2019; Agnoletti, 2020; Agnoletti & Formica, 2021a; Agnoletti, 2021b).

La lacuna concettuale oggetto del presente scritto nasce dal fatto che, almeno per quanto riguarda la specie umana, la definizione di stress non può prescindere dalle altre due teleonomie caratterizzanti le persone: la teleonomia psicologica relativa al significato attribuito all’evento stressante e quella socioculturale.

Se, all’interno dello studio dei comportamenti umani, non si considerano anche queste due teleonomie il potere esplicativo del concetto dello stress rimarrà unicamente limitato ai contesti dove vi è un vantaggio biologico/evoluzionistico.

Comprendere comportamenti tipicamente umani caratterizzati dalla rilevanza psico-sociale (per esempio dove i fattori psicologici come il Flow o dinamiche psicosociali come la scelta di praticare la castità di un prete non possono essere ascrivibili ad una teleonomia biologica) o dove la valenza dello stress è palesemente positiva, quindi dove siamo in presenza di eustress che migliora la nostra salute ed il nostro benessere, saranno virtualmente impossibili da interpretare nel contesto del paradigma classico dello stress perché non vi è uno spazio logico ad esse dedicate.

Anche alcuni importanti e solidi risultati scientifici non troveranno posto all’interno del classico paradigma dello stress perché tali risultati possono essere compresi solo considerando anche le teleonomie psicologiche e sociali oltre che quelle squisitamente biologiche.

Mi riferisco qui ad esempio a quanto è stato già dimostrato riguardo all’influenza del concetto medesimo di stress e di mindset (approccio mentale) sulla nostra fisiologia determinando sia la nostra longevità che la probabilità di sviluppare problematiche di varia natura (Crum, Salovey, & Achor, 2013; Epel et al. 2004; Jamieson, Nock, & Mendes, 2012; Keller et al., 2012).

Probabilmente uno degli studi più emblematici a questo riguardo è la ricerca di Keller e colleghi (Keller et al., 2012) condotta in otto anni su quasi trentamila persone dove si è visto che gli alti livelli quantitativi di stress (in termini di misurazioni biometriche) aumentano il rischio di morte del 43% unicamente in coloro che dichiaravano di possedere un concetto di stress esclusivamente negativo.

Sottolineo il risultato della ricerca che ha dimostrato che alti livelli quantitativi di stress rilevato misurando parametri biometrici erano associati ad un rischio di morte pari al 43% solo ed esclusivamente quando la valenza cognitiva/emotiva dello stress era unicamente negativa ed associata, come significato, al danneggiamento della salute ed il benessere.

Le persone che avevano riportato ugualmente elevati livelli di stress (quindi che dal punto di vista quantitativo erano identici al gruppo di persone precedentemente citate), ma che psicologicamente non consideravano lo stress unicamente come fattore dannoso, non avevano probabilità maggiori di morire, anzi, la loro condizione si associava ad un rischio di morte più basso rispetto qualunque altro individuo coinvolto nell’indagine, persino più basso rispetto coloro che avevano parametri quantitativi di stress molto meno intensi ma abbracciavano un concetto di stress esclusivamente negativo.

Chiaramente questi risultati sono paradossali se analizzati alla luce del modello classico di stress perché, essendo focalizzato nell’identificare ed enfatizzare solo i fattori quantitativi relativi l’attività fisiologica ed i fattori comuni a molte altre specie animali, non riesce a cogliere la ricchezza e l’eterogeneità umana.

Se ad esempio una persona si impegna per raggiungere la laurea, affronterà un lungo periodo stressante che richiederà tempo, energia ed una forte capacità di concentrare la propria attenzione focalizzandola su di uno scopo intenzionalmente definito, ma un aspetto fondamentale per capire come si tradurrà questo stress, se in senso negativo o positivo, è comprendere anche la sua teleonomia psicosociale ovvero, in questo caso, se sta perseguendo l’obiettivo della laurea (rispettivamente) per non deludere le aspettative dei genitori o se è una scelta nata da una propria motivazione intrinseca.

Come l’insieme della configurazione grafica necessaria per comporre la parola “APE” non ne determina il significato (infatti la stessa configurazione grafica è associata al significato di “grandi scimmie antropomorfe” nel caso della lingua inglese ed invece a quella di “insetti sociali” in quella italiana), similmente la descrizione dello stress solo in termini quantitativi non ne coglie la complessità né la sua valenza positiva o negativa (tranne che nel contesto ristretto della teleonomia squisitamente biologica).

Come nello studio della semiotica è solo l’effetto interattivo determinato dall’intreccio di segni e significati, componenti oggettive e soggettive e convenzionali a far emergere le caratteristiche linguistiche, similmente solo un concetto di stress che include l’interazione tra gli aspetti quantitativi e qualitativi, oggettivi e soggettivi può ambire a gettare luce sulla natura umana.

Questa sfida scientifica è un qualcosa di molto più complesso rispetto ciò che si è finora pensato relativamente lo stress ma rappresenta la direzione corretta per continuare a migliorare la comprensione di ciò che ci danneggia da ciò che invece promuove il nostro benessere psicofisico con tutte le implicazioni pratiche che essa comporta.

 

Nata due volte (2021) di Giorgia Bellini – Recensione del libro

Grazie al libro Nata due volte è possibile perlustrare “dal di dentro” il forte senso di smarrimento e di vuoto causato dalla Bulimia Nervosa.

 

Nell’ambito della salute mentale le informazioni raccolte in un linguaggio universale come nel DSM-5 o nell’ICD-10 sono essenziali per far sì che i diversi professionisti possano comunicare e collaborare tra di loro, ma questo non basta proprio per il principio di unicità che sta alla base dell’Identità. Erik Erikson utilizza il termine Ego-identity per definire il senso del proprio essere continuo come un’unità distinta e distinguibile dalle altre, stabile nel tempo, che in un soggetto sano permette di sentirsi integro nello spazio, di essere consapevole della continuità del tempo, di percepirsi autore delle proprie azioni e centro delle proprie emozioni. Lo studio della personalità ha la necessità di integrare un approccio nomotetico e uno ideografico, questa è la base essenziale per distinguere lo spiegare (Erklaeren) dal comprendere (Verstehen).

E allora chi meglio di una persona che ha sofferto può spiegare il proprio disagio riuscendo a raggiungere un pubblico più vasto, fatto non solo da esperti nel settore, ma anche di gente comune che prova un dolore similare?

Giorgia Bellini, 24 anni, ha deciso di condividere la sua storia e soprattutto di esplicare i suoi 8 anni di convivenza con quello che definisce «vento nero», ossia la Bulimia Nervosa, uno dei disturbi alimentari che colpisce soprattutto l’età adolescenziale o la prima età adulta. Si rivolge ad un pubblico ben definito di «persone ricche d’animo» in grado di comprendere senza giudicare o etichettare. L’autrice, infatti, sottolinea nella sua introduzione di essersi imbattuta in troppe persone povere di sentimenti e emozioni, capaci solo di giudicare e godere dei fallimenti altrui, oggi non considerate tra i destinatari del suo racconto.

Grazie a questo libro è possibile perlustrare “dal di dentro” il forte senso di smarrimento e di vuoto causato dal disturbo, un gesto di vero amore nei confronti di chi ha bisogno di ascoltare e di sentirsi meno solo, in quanto si abbandona qualsiasi barriera difensiva, qualsiasi scudo protettivo, porgendo in vista la propria esperienza più intima.

Il libro è diviso in XXXI parti che rappresentano dei microcosmi di esperienze vissute da Giorgia, talmente dense di significato da risultare magnetiche: è davvero difficile staccarsi dalla lettura, in quanto ogni singola parte di storia è talmente coinvolgente da essere letta tutta d’un fiato, quasi per paura di perderne dei frammenti.

È il racconto di una adolescente che ci collega indissolubilmente a quelli che vengono definiti sintomi dalle categorie diagnostiche e psichiatriche, ma che, in realtà, hanno un’importanza ed un significato più profondo, ossia tentativi disperati di riemergere da un buco nero intriso di dolore che fa tendere sempre più verso il basso e verso l’oscurità.

Con una delicatezza e una semplicità impossibili da replicare, l’autrice racconta di sé come una bimba bisognosa di affetto in una famiglia caratterizzata da innumerevoli liti genitoriali che la portano a credere di non meritare il loro amore e, dunque, la spingono alla ricerca spasmodica di colmare il vuoto e la distanza attraverso la fatica di raggiungere una perfezione che, in realtà, non esiste, una perfezione che costa sudore, controllo, punizioni e che con il tempo porta ad ammalarsi. Un grido nel tentativo di ottenere un briciolo di attenzione nella velocità e nello stress della quotidianità, un grido che però ai famigliari non arriva, quasi fosse senza voce o in una lingua incomprensibile. E allora ciò che rimane come unico baluardo di salvezza, perché ha una forma a cui aggrapparsi, è il proprio corpo, colmato fino all’orlo e poi svuotato fino alle viscere, colmato e poi di nuovo svuotato, in un meccanismo che si ripete senza mai fine, accompagnato da un senso di impotenza nel controllo di tali impulsi.

Tutto parte dalla percezione alterata di avere delle gambe grosse e di voler a tutti costi renderle sottili come quelle di una sua compagna di classe: ecco allora diete rigide, accompagnate da attività fisica sfrenata, alternate a momenti di abbuffate, in cui la disperazione e la sofferenza è tale da non riuscire più a smettere di mangiare e poi quei maledetti sensi di colpa che riportano al conteggio delle calorie e alle punizioni inferte con diete prive di carboidrati. Giorgia trova uno spiraglio di luce solo nel rapporto con i nonni a cui tra l’altro dedica il suo libro, in particolare con nonna Anna che si accorge della richiesta silente di aiuto della nipote e la convince a parlarne con i genitori. Ma i genitori vedono la figlia così bella, brava e perfetta che non danno il giusto peso al disagio e Giorgia, nonostante la confessione coraggiosa, si ritrova nuovamente in un turbine maledetto dove la disperazione prende il sopravvento, a tal punto da spingere la ragazza ad un tentativo di suicidio. In un articolo di analisi sul tema della suicidalità in pazienti anoressiche e bulimiche il Prof. Maurizio Pompili et al. mettono in evidenza come il suicidio sia tra le principali cause di morte nella Anoressia Nervosa, molto più dell’inedia o delle complicanze del dimagrimento: i tentativi di suicidio sono un alto e serio pericolo per la vita di queste pazienti. Purtroppo i dati, soprattutto rispetto alla Bulimia Nervosa, risultano ancora incompleti, nonostante si annoverino come numerosi i tentativi di suicidio. Tale problematica risulta ancora troppo sottostimata e a testimonianza di questo troviamo il racconto di Giorgia che lo valida.

Si rischia già di perdere la vita a causa di quei comportamenti auto mutilanti inferti al corpo con imperativi rigidi e categoriali, alla ricerca di un riconoscimento e un apprezzamento dal mondo sociale che sembra prediligere forme silenti, forme senza sostanza, una magrezza che diventa sinonimo di bellezza, a tal punto da generare una percezione deforme di sé che scatena una sofferenza ogni giorno sempre meno sopportabile. Dalla cosiddetta luna di miele, quella fase iniziale, quasi idilliaca, che scatena quel circolo tossico di comportamenti autoalimentanti che generano euforia e creano dipendenza, si passa presto ad una fase ossessiva dove conta solo il controllo del cibo e del peso. E inconsapevolmente si cerca quell’attenzione che magari non arriva e questo porta verso uno stato limite in cui sembra più facile abbandonarsi alla fine. Si oscilla tra attimi di felicità e momenti di completo sconforto, così pieni di solitudine da ritrovarsi soli con quel vento nero ormai fastidioso, ma l’unico in grado di non abbandonare. Si arriva a perdere il senso di sé, della propria identità, fino a non riuscire nemmeno a provare alcuna emozione, una sorta di apatia senza spazio, senza tempo e senza sogni, «un mondo che ti illude di proteggersi da quello che c’è al di fuori, mentre ti divora in una spirale senza fine». Non ci sono più obbiettivi, né perché, e allora l’ultimo gesto appare l’unica soluzione.

Ma Giorgia ce l’ha fatta, ha dovuto toccare il fondo per farcela, ma oggi è qui a trasmettere quanto le è successo per aiutare tutte le persone che vivono i suoi stessi drammi a comprendere, a farsi aiutare, ma non solo. Scrive anche per rendere più consapevoli le famiglie del bisogno sfrenato di amore che necessitano le persone con disturbi alimentari, dell’importanza della loro comprensione, del loro appoggio e della loro vicinanza. Giorgia parla a nome di una forza di volontà in grado di spronarti, della necessità di credere fermamente nella possibilità di riuscire a superare un disagio così soffocante e di lottare, non certo per vincere qualcosa, ma per vivere.

Giorgia decide di curarsi, entra in quella clinica di Todi il 23/10/2016 con l’intento di salvarsi. Conosce persone che parlano la sua stessa lingua, che non banalizzano la sofferenza e non giudicano. Scrive di quanto sia importante la professionalità dei medici che trova sicuramente in quella clinica per curare un disturbo come il suo, ma afferma anche che non basta. Il fulcro sta altrove, ossia sta nel cuore, e dunque la cura ha bisogno di «essere umani», di amore. Giorgia esce dalla clinica, non sarà semplice. Si ritrova allo scoperto, senza più quella campana di vetro della clinica, ma con una nuova consapevolezza acquisita nel suo percorso: non inseguire più quella vita che gli altri si aspettano che insegua, ma cercare la sua passione, il suo Ikigai, lo scopo della sua vita.

Qui sta il segreto. “Va’ dove ti porta il cuore”, questo è il punto di ripartenza.

Giorgia ce l’ha fatta, è arrivata al limite della vita, ha sfiorato la morte, ma poi è rinata, anzi è nata due volte.

 

I neuroni bussola ci aiutano ad orientarci tra i pensieri

Sono stati pubblicati, dalla rivista scientifica internazionale Communications Biology, i risultati di uno studio dell’Università di Trento che ha portato ad una nuova scoperta: gli stessi neuroni che indicano la direzione del movimento nello spazio fisico si attivano anche per orientarci tra i concetti nello spazio astratto delle idee.

 

Nei mammiferi esiste un sistema neuronale localizzato nel lobo temporale mediale che si attiva quando i soggetti si muovono in ambienti reali o virtuali o svolgono compiti spaziali (Epstein RA et al. 2017).

Grazie agli studi di neuroimaging magnetico funzionale si è potuto stabilire che nell’uomo i neuroni coinvolti nell’orientamento utilizzano due tipi di codici per la navigazione. A livello dell’ippocampo usano il codice a distanza mentre nella corteccia entorinale un codice a griglia (MorganLK et al. 2011; Nielson DM et al. 2015; Doeller CF, et al. 2010). I neuroni che utilizzano questi codici permettono di identificare la disposizione dell’ambiente e la posizione degli oggetti.

I ricercatori dell’Università di Trento, in passato, hanno già dimostrato che questi due codici vengono attivati anche in contesti non spaziali e precisamente quando un individuo “naviga” in uno spazio astratto come quello delle forme visive o degli odori o quando si fa riferimento a simboli come le parole (Constantinescu, AO et al. 2016; Viganò  S. et al. 2021).

Neuroni bussola: lo studio

Lo studio, recentemente condotto dai ricercatori dell’Università di Trento, i cui risultati sono stati pubblicati su  Communications Biology, ha indagato se durante la navigazione in un ambiente non fisico ma concettuale vi fossero delle popolazioni neuronali, complementari a quelle già conosciute, in grado di funzionare come una bussola che permette di trovare l’orientamento nello spazio delle idee.

Il team universitario ha utilizzato un campione di 9 soggetti, che sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale dopo aver effettuato un particolare addestramento. Ciascun soggetto ha imparato a nominare nove nuovi oggetti con nove nuove parole, differenti per suono e dimensioni. Il compito dei partecipanti allo studio era quello di abbinare correttamente parola ed oggetto senza essere informati sulla geometria bidimensionale dello spazio degli stimoli. La risonanza magnetica funzionale ha permesso di ricercare le aree cerebrali che rappresentano la direzione nello spazio astratto delle parole.

Conclusioni

I ricercatori sono così giunti alla conclusione che una rete di aree cerebrali localizzate nella corteccia fronto-parietale e occipitale rappresenta la direzione assoluta tra i significati delle parole durante un compito comparativo. In passato, studi dei ricercatori di Trento ed altri studi, avevano localizzato i neuroni deputati all’orientamento spaziale reale e virtuale nel lobo mediale-temporale (Baumann, O. & Mattingley, J. B. 2010  Shine J. P et al .2016;); l’attuale ricerca evidenzia che l’orientamento, in maniera complementare, può essere veicolato anche con un codice di direzione nelle cortecce parietale e occipitale. Queste conclusioni estendono le scoperte precedenti sul reclutamento di codici neurali e confermano l’evidenza empirica che mostra che il sistema di navigazione del cervello si estende al di fuori del lobo temporale mediale.

Mindful eating. Per scoprire una sana e gioiosa relazione con il cibo (2021) di J. C. Bays – Recensione

Nel libro Mindful eating, Jan Chozen Bays racconta in maniera semplice, ma estremamente efficace, cosa si intende per mindful eating e perché valga la pena svolgere questo tipo di pratica.

 

Attraverso la guida esperta dell’autrice, medico pediatra, insegnante di meditazione e superiora del Great Vow Zen Monastery in Oregon, il lettore comincia progressivamente ad interrogarsi sul proprio rapporto con il cibo e sulle sue abitudini alimentari. In questa riflessione si è guidati da una serie di esercizi che accompagnano la presentazione dei diversi contenuti, e che conferiscono a questo libro una dimensione molto più simile a quella di una guida pratica che a un manuale sul mindful eating.

Scopriamo così che esistono 9 tipi di fame, alcuni dei quali non trovano soddisfazione nel mangiare. Che il nostro agire spesso risulta condizionato da fattori che esulano dalla nostra coscienza e che possono avere radici anche molto profonde. Ma soprattutto nasce il desiderio di capire schemi e abitudini che regolano la nostra relazione con il cibo.

Mindful eating significa alimentazione consapevole

Ci ritroviamo così ad osservarci in maniera curiosa durante i pasti, a fare attenzione a cosa, quando e come lo mangiamo. Iniziamo dunque a portare consapevolezza sulla nostra alimentazione.

È questo il concetto fondamentale alla base del mindful eating, ma in generale della mindfulness, e si riferisce all’essere presenti alle proprie azioni mentre stanno accadendo. Tale consapevolezza passa innanzitutto dal corpo e dalle sue sensazioni che, se correttamente ascoltate, possono aiutarci a riprendere contatto con i nostri bisogni e a rispondervi in maniera coerente.

Jan Chozen Bays ci incoraggia a lasciare andare qualsiasi segnale esterno per tornare a concentrarci su ciò che proviamo internamente perché, parafrasando le sue parole, abbiamo a disposizione un corpo che sa perché sente e non perché pensa. A distrarci sono spesso abitudini e schemi riguardanti il cibo e il mangiare, appresi nel corso della crescita e delle diverse esperienze. Esercizio dopo esercizio arriviamo a prenderne coscienza fino al punto di riuscire a riconoscerli e a distaccarcene.

In questo viaggio verso l’acquisizione di consapevolezza e dunque verso la libertà che ne deriva, l’autrice non manca di ricordarci di vivere questo processo con gentilezza, in accordo con il principio di non giudizio della mindfulness. Ancora una volta l’invito è ad essere connessi semplicemente con le nostre sensazioni, con intenzione, e a lasciare fuori qualsiasi fonte di distrazione, tra cui anche la nostra parte più critica.

Perché leggere questo libro sul mindful eating e a chi è rivolto

Questo libro è adatto a chiunque desideri riscoprire il proprio rapporto con il cibo, a chi ha voglia di avvicinarsi alla pratica della mindfulness oppure a chi è semplicemente curioso.

La questione fondamentale che viene trattata è infatti l’importanza di essere consapevoli, di ciò che succede dentro di noi, dei nostri meccanismi e dei nostri bisogni, e di come da ciò derivi la possibilità di sentirsi liberi e autentici.

Il vantaggio di parlare di questo argomento in relazione all’alimentazione è ciò che lo rende concreto e facilmente sperimentabile. Spesso capita che le persone si lamentino di non poter praticare mindfulness nelle proprie giornate troppo impegnate, ma il mindful eating ci dimostra che è possibile farlo ad ogni pasto, ad ogni spuntino o persino ad ogni morso della fame.

Tanti gli esercizi tra cui scegliere, sempre ben spiegati e accompagnati da una cornice teorica e da una buona dose di ironia, che rendono la lettura piacevole e fanno venire voglia di mettersi alla prova.

L’augurio è che questo possa essere solo “il primo boccone” di un pasto così succulento da voler provare a praticare mindfulness anche negli altri aspetti della propria vita. Buon appetito!

 

Animali domestici e salute mentale: uno studio su una popolazione over 65

Vi sono prove evidenti che possedere un animale domestico può apportare una serie di benefici per la salute mentale, specialmente per quanto riguarda gli adulti più anziani.

 

Animali domestici e salute mentale

Le prove esistenti hanno indicato che la compagnia di un animale domestico può aiutare a ridurre lo stress, la solitudine e migliorare la qualità della vita. Facilita altresì l’interazione sociale e la partecipazione all’interno della comunità, aiutando lo sviluppo di abilità di coping per persone a cui è stata diagnosticata una malattia mentale come, ad esempio, la schizofrenia e il disturbo borderline di personalità. (Brooks et al., 2016).

Alcuni studi hanno trovato che esiste una correlazione positiva tra il possesso di un animale domestico e il benessere del proprietario dell’animale, e questa relazione è più forte quando gli animali domestici svolgono un ruolo nel soddisfare i bisogni degli adulti più anziani (McConnell et al., 2011). Altre ricerche hanno riportato, tuttavia, che l’animale domestico può addirittura comportare un declino della salute mentale. Gli animali domestici possono aumentare la suscettibilità dei proprietari nel contrarre certi tipi di malattie, e tali rischi per la salute possono causare un aumento dello stress (Herzog, 2011). È stato anche suggerito che gli animali domestici possono esacerbare i sintomi depressivi negli adulti più anziani, a causa delle varie responsabilità e dei legami emotivi che sono legati al loro possesso (Gilbey et al., 2007).

Animali domestici e salute mentale negli anziani

Lo studio di Hui Gan et al., (2019) ha esplorato in modo approfondito come gli animali domestici possono influenzare la salute mentale degli adulti anziani.

Nello studio sono stati coinvolti 14 soggetti (uomini e donne) di un’età compresa fra i 65 e gli 85 anni. La partecipazione allo studio era su base volontaria, in quanto sono stati distribuiti dei volantini in una struttura per anziani. Per indagare la relazione fra compagnia di un animale domestico e benessere mentale è stato scelto un approccio qualitativo fenomenologico descrittivo (Creswell, 2014). In questo modo sono stati esplorati i pensieri, le credenze e le esperienze legate alla vicinanza ad un animale domestico, senza giudizi a priori (Creswell, 2014). Per raccogliere i dati sono state proposte delle interviste semi strutturate, svolte a domicilio, composte da due parti: una raccolta di dati demografici ed una riguardante la percezione della salute mentale in relazione alla compagnia di un animale domestico. I dati raccolti sono stati analizzati facendo riferimento all’analisi a sette fasi di Colaizzi (1978). In un primo momento un ricercatore esterno ha trascritto ogni intervista e annotato su un diario le sue reazioni, entrando in contatto con la prospettiva di ciascun partecipante. Successivamente lo stesso ricercatore ha identificato le frasi più significative riguardo all’esperienza relativa al possedere un animale domestico. L’analisi è stata condivisa con altri due ricercatori che hanno formulato sette cluster (categorie) tematici, ridotti a quattro temi principali. In conclusione i ricercatori hanno condiviso con i partecipanti una trascrizione narrativa dei risultati delle loro analisi.

Conclusioni

Nel complesso, dai risultati di questo studio esplorativo è emerso che possedere un animale domestico ha un impatto positivo sulla salute mentale grazie all’instaurarsi di un legame unico animale-umano (HAB) che può essere paragonato ad una relazione genitore-figlio o marito-moglie (Brown, 2011). I partecipanti erano disposti a rinunciare alle loro comodità personali per il benessere dei loro animali, riflettendo in qualche modo il ruolo di genitore. Il concetto di ‘genitorialità’ e cura di un animale domestico è stato trovato socialmente prezioso e significativo (Blouin, 2013; Laurent-Simpson, 2017), poiché l’essere proprietari di un animale fornisce uno scopo nella routine di una persona anziana. Questo porta a una diminuzione della solitudine e dell’isolamento sociale, aumentando i livelli di autostima e il coinvolgimento in attività significative (McConnell et al., 2011).

Un animale domestico incrementa la percezione di sicurezza riducendo al minimo il livello di ansia soprattutto negli anziani che vivono da soli (Oliveira, 2018; Shaffer & Yates, 2010), oltre a fornire conforto attraverso la loro compagnia. Inoltre, i partecipanti hanno descritto come la presenza fisica del loro animale domestico fornisce una gratificazione tattile che soddisfa uno dei bisogni sensoriali essenziali per l’uomo. Da quanto emerso sembrerebbe che, nel caso degli anziani, gli animali domestici possono essere di aiuto nel permettere loro di ritrovare un ruolo sociale stabile in un momento in cui le circostanze della loro vita iniziano a cambiare.

 

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