Con elderspeak ci si riferisce a uno stile di linguaggio particolarmente utilizzato con gli anziani, spesso in maniera automatica e inconscia, risultando così essere il prodotto di un atteggiamento implicito. Questo linguaggio è simile a quello con cui ci si rivolgerebbe a un bambino.
L’invecchiamento della popolazione a cui assistiamo, spiegato da un aumento vertiginoso della speranza di vita e dalla diminuzione del tasso di natalità, porta sempre più in evidenza fenomeni di ageismo.
Con questo termine si intende una combinazione di attitudini pregiudiziali nei confronti di persone di età differente dalla propria (Butler, 1969). A causa di questa forma di discriminazione, è comune pensare che l’anziano sia destinato inevitabilmente a declino fisico e cognitivo, a essere un peso economico e sociale, a vivere in solitudine e per la maggior parte del tempo triste.
Tale stereotipo viene interiorizzato dall’anziano stesso, vivendo così uno stato di vergogna, passività, negazione, perdita di autostima, disprezzo e ritiro (Applewhite, 2017).
Tale visione negativa dell’anziano si manifesta non solo nelle azioni ma anche nelle modalità comunicative che adottiamo con chi è nella terza (anche quarta) età, un esempio è l’elderspeak.
Elderspeak: studi e modelli teorici
Con elderspeak ci si riferisce a uno stile di linguaggio particolarmente utilizzato con gli anziani, spesso in maniera automatica e inconscia, risultando così essere il prodotto di un atteggiamento implicito. Tale linguaggio è caratterizzato da frasi brevi, grammaticalmente semplici, pronunciate ad alta voce e lentamente, accompagnate da gestualità enfatizzate, come se ci si rivolgesse a un bambino. L’elderspeak è, dunque, un linguaggio infantile e semplificato che sottintende la presenza di una difficoltà di comprensione da parte dell’anziano (Applewhite, 2017).
Kemper (1994) ha dimostrato che i caregiver tendono a ridurre la complessità e la lunghezza delle frasi quando parlano con un gruppo di anziani rispetto a quando si rivolgono a un gruppo di giovani.
Tuttavia, questa forma di linguaggio risulta controproducente, infatti gli anziani riportano che minore complessità grammaticale e maggiore elaborazione semantica sono caratteristiche che rendono la comunicazione efficace, mentre tono di voce alto, utilizzo di molte pause e frasi corte e telegrafiche ne riducono la comprensione (Kemper & Harden, 1999).
Oltre all’efficacia dello scambio comunicativo, l’elderspeak mina il senso di autoefficacia e i bisogni individuali dell’anziano, come delineato da Tom Kitwood nel suo approccio di cura centrato sulla persona (1997). Trattando di demenza, il gerontologo afferma che l’esperienza di malattia non dipende solamente dalla compromissione neurologica, ma anche da una serie di altri fattori come la personalità, la salute fisica, gli eventi di vita e il contesto psicosociale. Relativamente a quest’ultimo fattore, Kitwood con Psicologia Sociale Maligna si riferisce a tutte quelle interazioni svalutanti, condotte spesso in maniera inconsapevole dai caregiver formali e non, che possono minare i bisogni psicologici della persona con demenza (identità, attaccamento, inclusione, conforto, occupazione), aumentandone così i disturbi del comportamento. Tra i 17 approcci negativi individuati dall’autore vi è proprio l’infantilizzazione. L’utilizzo di un atteggiamento paternalistico e di termini come “tesoro”, “caro” o “amore” quando ci si rivolge ad un anziano, che sia sano o con demenza, ne aumentano l’agitazione, l’aggressività e il wandering (Williams et al., 2011).
Risulta, dunque, necessario includere nei percorsi di formazione rivolti a operatori e caregiver familiari temi riguardanti l’ageismo e le sue manifestazioni in contesti di istituzionalizzazione e non.