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Schizofrenia: basi biologiche e alterazioni

La schizofrenia si configura come una patologia mentale ereditaria, con loci cromosomici continuativamente associati al disturbo.

 

La schizofrenia è un grave disturbo mentale a carattere evolutivo che comporta disfunzioni cognitive, comportamentali, emotive e perdita del rapporto con la realtà, pregiudica tutti gli aspetti che qualificano la salute mentale dell’individuo, solitamente inizia in tarda adolescenza e colpisce circa l’1% della popolazione mondiale e, in pari numero, uomini e donne. Diversi studi psicometrici indicano che la schizofrenia presenta sintomi universali, descritti nel DSM-5, che si sviluppano in modo graduale e insidioso in un periodo di 3-5 anni e che possono essere raggruppati in cinque cluster:

  • Sintomi positivi, cioè quelli visibili (disturbo del pensiero, allucinazioni, deliri, agitazioni e catatonia)
  • Sintomi negativi, dovuti ad ipofrontalità, cioè ridotta attività dei lobi frontali (anedonia, apatia, alogia, assenza di iniziativa, appiattimento affettivo, ritiro sociale)
  • Sintomi cognitivi, dovuti ad anomalie cerebrali (bassa prontezza psicomotoria, deficit di apprendimento e memoria, scarsa capacità di problem solving, difficoltà a sostenere l’attenzione)
  • Sintomi di aggressività (autolesionismo, impulsività e ostilità verbale e fisica)
  • Sintomi ansioso-depressivi (preoccupazione, tensione, irritabilità, senso di colpa e umore depresso e ansioso)

La schizofrenia deriva soprattutto da cause genetiche e biologiche; fattori ambientali quali abuso di sostanze o un ambiente sociale problematico costituiscono, più che altro, elementi coadiuvanti piuttosto che motivazioni scatenanti. La schizofrenia si configura come una patologia mentale ereditaria, come hanno dimostrato importanti studi di natura psicobiologica quali gli studi sui gemelli e sull’adozione, che hanno identificato la presenza di loci cromosomici (geni omologhi) continuativamente associati al disturbo. Pare inoltre che i bambini con i padri più anziani siano più propensi a sviluppare il suddetto disturbo, a causa di mutazioni negli spermatozoi che possono provocare un errore di trascrizione durante la duplicazione del DNA: anche l’età del padre rientra tra le cause genetiche sottostanti la schizofrenia.

L’ipotesi dopaminergica della schizofrenia

Dal punto di vista biologico, l’ipotesi dopaminergica propone che i sintomi siano causati da una disfunzione della neurotrasmissione dopaminergica a livello cerebrale. L’ipotesi dopaminergica afferma che l’iperattività dopaminergica nei disturbi schizofrenici sia la condizione causa dei sintomi, mentre il blocco dopaminergico sui recettori D2 sia prodotto da antipsicotici tipici utilizzati nella terapia farmacologica, che elicitano importanti effetti prevalentemente sui sintomi positivi della schizofrenia, ma non su quelli negativi. Successivamente l’introduzione di antipsicotici atipici ha costituito una svolta nel trattamento farmacologico della schizofrenia: essi sono associati ad una comparsa sostanzialmente inferiore di effetti collaterali e ad un minor rischio di discinesie (alterazioni motorie) tardive rispetto agli antipsicotici tipici. La maggiore tollerabilità degli antipsicotici atipici è attribuita all’azione su vari tipi recettoriali: oltre all’azione sui recettori dopaminergici D2 viene inclusa l’azione sui recettori serotoninergici 5- HT.

Le alterazioni cerebrali nella schizofrenia

Oltre alla variazione nella neurochimica, un’altra possibile causa potrebbe essere data da un’alterazione della struttura morfologica cerebrale, dovuta ad una probabile lesione prenatale: il quadro lesionale interessa le strutture corticali del sistema limbico (il giro del cingolo, il giro ippocampale e la parte ventro mediale della corteccia temporale), un aumento del volume dei ventricoli cerebrali e atrofia corticale e sottocorticale su cervelletto e corpo calloso.

 

Analisi della psicologia di Sette Anime – La sindrome del sopravvissuto e il complesso del salvatore

Con questo articolo non voglio razionalizzare una delle pellicole più emozionanti dell’ultimo millennio ma semplicemente fornire un’analisi psicologica del film Sette Anime.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Sette anime è un film di Gabriele Muccino uscito nelle sale nel 2008. Il titolo sette anime è un riferimento a un’ opera di Shakespeare, ma concidenziale è il fatto che la parola psiche derivi dal greco, psykhe, ovvero anima, perciò Sette anime è un film che parla di sette anime così come di sette psichi. Il protagonista, Tim, è un ingegnere aerospaziale laureatosi al M.I.T. Il film si apre con Tim con il capo chinato di lato, in una mano una cornetta telefonica, nell’altra  poggia la fronte e ha il seguente dialogo con un Operatrice del 911:

Operatrice 911: «Nove uno uno emergenza»
Tim: «Mi serve un’ambulanza»
Operatrice 911: «Mi risulta che lei chiama da West word street 52 12 a Los Angeles!»
Tim: «Stanza numero 2»
Operatrice 911: «Qual è l’emergenza?»
Tim: «C’è stato un suicidio»
Operatrice 911: «Chi è la vittima?»
Tim: «Io!».

È necessario vedere l’intero film per capire ciò che ha spinto Tim a suicidarsi o meglio a sacrificarsi, la causa di tutto è un incidente causato da una sua distrazione. Nell’incidente muore sua moglie e altre sei persone, ma lui sopravvive. Da un punto di vista psicologico il protagonista ha la sindrome del sopravvissuto.

La sindrome del sopravvissuto è caratterizzata da un forte senso di colpa per essere appunto sopravvissuti a un evento traumatico come incidente, un cataclisma, un attacco terroristico ecc. La sindrome del sopravvissuto che oggi giorno viene considerata un sintomo del disturbo da stress post traumatico, ed è stata rimossa dal DSM.

Approfondimento: Uno dei libri che più indaga il disturbo da stress post traumatico è il Cognitive Behavioral Therapeutic for Trauma, in cui viene anche ripercorsa brevemente la storia del disturbo da stress post traumatico, che esiste da sempre ma solo con l’avvento dell’uso del metodo scientifico in psicologia, ossia nel diciannovesimo secolo, si è iniziato a studiarlo. Il libro fa iniziare la storia dei traumi psichici con la messa in guardia da parte del chirurgo John Erichsen (1882) dal confondere (quello che presumeva essere) i sintomi causati organicamente dalla colonna vertebrale con isteria, la diagnosi prevalente dei tempi; successivamente Herman Oppenheim coniò il termine ‘nevrosi traumatica’ asserendo che fosse causata da sottili cambiamenti molecolari nel sistema nervoso. Sigmund Freud si ribellò all’attenzione primaria sulle spiegazioni organiche per la psicopatologia in voga in quel periodo. A causa della sua influenza, le eziologie psicologiche iniziarono a essere proposte per la comprensione, trattando la psicopatologia, in generale, e le reazioni post-traumatiche. In particolare Freud teorizzò che, poiché gli eventi traumatici travolgono la psiche, gli individui traumatizzati devono impegnarsi in meccanismi di difesa estremamente primitivi come la dissociazione.

La sindrome del sopravvissuto è causata da un forte senso di colpa per essere appunto sopravvissuti a un evento traumatico come un incidente, un cataclisma, un attacco terroristico oppure a una pandemia. Di fatto Tim prova un dispiacere attribuendosi erroneamente la responsabilità dell’incidente, probabilmente per l’hindsight bias (un bias di giudizio che porta il soggetto a percepire le probabilità che un determinato evento accada maggiori di quanto siano realmente, dopo che è accaduto; i bias di giudizio e bias cognitivi sono indagati in: Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahemman). Per questo Tim si sente in debito di sette vite e avverte il bisogno di (ri)stabilire un senso di equità e giustizia cosmica che dovrebbe vigere sugli esseri umani, ed è per questo che Tim redimerà la vita di sette persone fino ad arrivare alla propria distruzione, fino al sacrificio estremo. Ciò ricorda molto la figura di Cristo, di fatto nel film sono presenti numerosi riferimenti biblici, il primo riferimento compare a inizio film quando la voce fuori campo di Tim dice: «Dio ci ha messo sette giorni a creare il mondo. Io ci ho messo sette secondi a distruggere il mio» un altro riferimento è: «Io ho il potere di cambiare drasticamente la sua condizione. Ma non vorrei fargli un regalo che lui non si merita. Ho bisogno che lei mi dica se lui è o non è una brava persona» queste citazioni sono collegabili alla sindrome del salvatore, Tim sente in sé il potere di un messia e avverte il bisogno di aiutare gli altri. Senza alcun dubbio aiutare gli altri è uno di quei comportamenti più premiati da punto di vista sociale. Tim probabilmente pensa che aiutare sia il miglior modo per espiare la propria colpa.

Tutto ciò non è anormale: molte persone hanno il complesso del salvatore, ciò che è desueto è che Tim, nel film, vive una relazione interdipendente e non codipendente, come la maggior parte delle persone che hanno il complesso del salvatore, con Emily, un’artigiana che stampa biglietti d’auguri e che ha una malformazione cardiaca e perciò necessità urgentemente di un trapianto di cuore. Entrambi si danno amore l’un l’altro, la loro relazione è ciò che gli psicologi positivi chiamano ‘relazioni fiorenti’ ossia i due, dalla loro relazione non ricavano solo felicità, ma anche intimità e resilienza. Tanto è vero che è proprio dal suo amore verso Emily che Tim trae la forza per poter portare a termine il suo piano. Ed Emily condivide con Tim speranze e sogni ma anche la sofferenza di un futuro incerto.

Lo scopo di Sette anime è celebrare l’amore fraterno e incondizionato anche se a volte, per fare bene a tuo fratello, devi fare male a te stesso.

 

SETTE ANIME – Guarda il trailer del film:

L’ossessione per la preoccupazione pandemica: il modello di credenza sulla salute (HBM) e COVID-19

La vaccinazione è un tema che crea preoccupazione durante la pandemia di COVID-19.

 

Dato che questo virus si diffonde molto velocemente in tutto il mondo (World Health Organization, 2020), i tassi crescenti di infezione e di mortalità, soprattutto nelle persone con malattie croniche, hanno portato all’ottimizzazione di un vaccino che potesse essere rilevante non solo per la salute fisica, bensì anche per il funzionamento psicologico, per le conseguenze psicosociali e per l’economia mondiale (Bashir et al., 2020; Norouzi et al., 2020; Iacob et al., 2021). Considerando il numero crescente di persone contrarie al vaccino, l’intenzionalità a vaccinarsi è stata studiata in modo approfondito (Greenberg et al., 2019), valutando i fattori che possono influenzare tale presa di decisione: si evidenziano la preoccupazione per la pandemia e la minaccia della malattia (Ashbaugh et al., 2013; Liao et al., 2013), l’abitudine di fare il vaccino antiinfluenzale (Schmid et al., 2017), la fiducia nei confronti delle informazioni fornite sulla sicurezza della somministrazione del vaccino, i confronti sociali con persone che vogliono vaccinarsi (Podlesek et al., 2011), l’età, il livello di istruzione (Bonfiglioli et al., 2013) e le categorie sociali esposte a rischio di infezione (Bish et al., 2011; Iacob et al., 2021).

Vaccino e modello di credenza sulla salute

I due quadri teorici prevalenti, su cui si basano la maggior parte degli studi sull’intenzione a vaccinarsi, e che spiegano il 60% della varianza di tali intenzioni contro il papillomavirus (HPV; Bennet et al., 2012), sono la teoria del comportamento pianificato (Gallagher e Povey, 2006) e il modello di credenza sulla salute (HBM; Cummings et al., 1979). Nello specifico, l’HBM è uno dei modelli più utilizzati nella ricerca sanitaria (Skinner et al., 2015), strutturato in quattro componenti: la suscettibilità della malattia, cioè la probabilità percepita di contrarla; la gravità percepita; i benefici riguardo le azioni preventive e il trattamento; infine le barriere percepite nell’attuare le raccomandazioni (Janz e Becker, 1984; Iacob et al., 2021). Le componenti aggiunte successivamente riguardano i dati demografici, l’autoefficacia e il controllo percepito (DiClemente e Peterson, 1994). Liao e colleghi (2013) evidenziarono come la componente HBM, collegata all’intenzione vaccinale, riguardasse principalmente la minaccia percepita della malattia per le sue conseguenze sulla salute. La preoccupazione pandemica è vista come una risposta emotiva alla malattia (Ro et al., 2017) e include la percezione del potenziale rischio di infezione, il rischio per la famiglia, la gravità e le conseguenze (Goulia et al., 2010). Dato che tale componente è correlata alla percezione del rischio e ai comportamenti preventivi messi in atto durante la pandemia, Iacob e colleghi (2021) hanno svolto uno studio, aderendo all’HBM, per spiegare l’intenzione della vaccinazione.

Modello di credenza sulla salute applicato al vaccino contro il Covid-19

Tale modello è stato utilizzato per spiegare la relazione tra preoccupazione pandemica e intenzione di vaccinarsi, evidenziando come i mediatori fossero la minaccia percepita delle malattie, i benefici e le barriere delle vaccinazioni (Scherr et al., 2016). Questo studio trasversale ha l’obiettivo di esplorare le differenze tra adulti, con o senza malattie croniche, l’intenzionalità a vaccinarsi e la preoccupazione per la pandemia (Iacob et al., 2021). Il campione è composto da 864 adulti della comunità rumena (66,6% femmine), con un’età compresa tra i 31 e i 65 anni: il 20,5% dei soggetti riportano malattie croniche, come diabete, malattie respiratorie e cardiovascolari, ed uno dei criteri di esclusione è la diagnosi precedente o attuale di COVID-19. Per misurare l’intenzionalità, è stata posta la domanda seguente “Hai intenzione di vaccinarti quando ti viene offerto un vaccino contro l’infezione da COVID-19?”, mentre le risposte sono state codificate con 1 (no), 2 (forse) e 3 (sì). La frequenza e la gravità delle preoccupazioni riguardo alla pandemia sono state misurate con la Dispositional Pandemic Worry (Scherr et al., 2016), inizialmente strutturata per la pandemia influenzale H1N1 del 2009 e del 2010. Le componenti HBM, cioè la minaccia percepita della malattia, i benefici, l’autoefficacia e le barriere sono state valutate attraverso un riadattamento degli strumenti Champion (1999). I cambiamenti comportamentali sono stati indagati attraverso tre domande poste sulla quantità del cibo, farmaci e articoli igienico-sanitari acquistati da parte dei partecipanti durante la pandemia, mentre i dati sociodemografici sono stati ottenuti mediante un questionario utile a raccogliere informazioni sul genere, sull’età, sul livello di istruzione e sulle malattie croniche (Iacob et al., 2021). I risultati mostrano come i soggetti con malattie croniche riportano un livello di preoccupazione pandemica più elevato, livelli maggiori di minaccia percepita, maggiori benefici dovuti alla vaccinazione, minore autoefficacia e un acquisto maggiore di prodotti sanitari. Per quanto riguarda l’intenzionalità a vaccinarsi, non sono state riscontrare differenze significative (Iacob et al., 2021). La minaccia percepita e i benefici tratti dal vaccino mediano parzialmente la relazione tra preoccupazione pandemica e intenzionalità. Questi risultati suggeriscono come presentare delle prove sull’efficacia del vaccino per il COVID-19 possa portare la popolazione a seguire le raccomandazioni suggerite, soprattutto da parte dei gruppi di soggetti vulnerabili o con malattie croniche (Iacob et al., 2021).

 

Mantenere la prestazione sotto pressione: gli stili di concentrazione di Nideffer

La relazione tra attenzione, concentrazione ed elaborazione delle informazioni è al centro della teoria nota come ‘Theory of Attentional and Interpersonal Style’ (Nideffer, 1976).

 

Nello studio, nel lavoro, nello sport e in genere in tutti gli ambiti in cui il fattore umano è determinante per la performance individuale o di gruppo, l’attenzione, la concentrazione e l’elaborazione delle informazioni rivestono un ruolo di fondamentale importanza.

Senza attenzione non cogliamo ciò che nell’ambiente esterno o interno è necessario – come mezzo o come fine – per raggiungere i nostri obiettivi; senza concentrazione sul compito non possiamo portare a termine le operazioni che iniziamo, perché distratti e interrotti continuamente da altro; senza un’adeguata elaborazione delle informazioni non saremmo in grado di portare a termine operazioni mentali o concrete anche molto semplici se prese singolarmente (come ad esempio guidare e messaggiare con lo smartphone).

La relazione tra attenzione, concentrazione ed elaborazione delle informazioni è al centro della teoria nota come ‘Theory of Attentional and Interpersonal Style’ (Nideffer, 1976). Considerata in psicologia dello sport come uno dei modelli maggiormente comprensivi per la spiegazione di questi fenomeni (Moran, 1996), la teoria cerca di fornire un quadro di riferimento per comprendere e predire le condizioni in base alle quali il potenziale fisico e mentale dell’atleta può essere pienamente espresso negli sport individuali o di squadra, senza comunque escludere altri ambiti di applicazione, come lo studio o il lavoro. Esiste inoltre un questionario, sviluppato dallo stesso autore, il ‘Test of Attentional and Interpersonal Style’ (TAIS; Nideffer, 1976) che è stato poi soggetto a revisioni successive.

Concentrazione e stili attentivi

La teoria afferma che il focus attentivo di una persona può variare entro uno spazio a due dimensioni definito dall’intersezione di due assi, che rispettivamente ne colgono l’ampiezza (focus ampio – ristretto: asse orizzontale) e la direzione (focus orientato all’esterno – all’interno: asse verticale). Vengono così definiti quattro stili di concentrazione, uno per ogni quadrante, che definiscono in termini globali le possibili interazioni tra attenzione, concentrazione e elaborazione delle informazioni, che possono essere messe in relazione all’attività in corso di svolgimento oppure oggetto di analisi:

  • Stile Consapevole: è caratterizzato da un focus attentivo ampio ed orientato all’esterno. L’individuo cerca di cogliere dall’ambiente informazioni da analizzare per reagire velocemente e anche istintivamente alle sollecitazioni ambientali. La persona deve prestare uguale attenzione sia a se stesso che a quanto accade intorno a lui; per esempio, il pilota di formula uno, concentrato nel mezzo di un sorpasso in curva;
  • Stile Strategico: è caratterizzato da un focus attentivo ampio ed orientato all’interno. L’individuo è teso all’analisi, alla pianificazione e alla creazione di strategie. Per attuare questi processi egli sfrutta le informazioni presenti nell’ambiente in relazione a quelle da lui già possedute per esperienza o apprendimento. L’esempio è il giocatore di scacchi, concentrato nella ricerca della prossima mossa da fare a partire dal proprio repertorio di mosse e da quelle che vede fare all’avversario, in relazione alle pedine presenti sulla scacchiera;
  • Stile Sistematico: è caratterizzato da un focus attentivo ristretto ed orientato internamente. L’individuo è impegnato nelle ripetizione sistematica delle informazioni necessarie a portare a termine il compito o per valutare e/o manipolare i propri stati interni (motivazione, respirazione, tensione muscolare etc.) in maniera sistematica. Un esempio è quello del tuffatore, concentrato prima di lanciarsi dal trampolino;
  • Stile Focalizzato: è caratterizzato da un focus attentivo ristretto ed orientato esternamente. L’individuo è teso a realizzare una procedura o un obiettivo di natura concreta oppure interpersonale (ad esempio fare una domanda). Ne sono un esempio il matematico che controlla le derivazioni successive di un’equazione o lo studente che si appresta a fare una domanda al professore.

Concentrazione stili di Nideffer e prestazione sotto pressione Psicologia Fig 1

Fig.1 Stili attentivi di Nideffer

Secondo la teoria (Nideffer,1976) gli individui in genere presentano uno stile di concentrazione preferenziale, nel quale si trovano nella maggior parte del tempo e, nel caso le circostanze lo richiedano, sono in grado di passare più o meno agevolmente da uno all’altro, per conformarsi alle richieste della situazione presente. Forse l’esempio più calzante è la distinzione tra l’atleta dello sport di squadra e lo studente o il manager. Nel primo caso, l’atleta sarà per lo più interessato a cosa accade attorno a lui (focus orientato all’esterno) e si muoverà perlopiù sulla dimensione dell’ampiezza. Per tirare un rigore, ad esempio, il calciatore sarà soprattutto focalizzato sul compito di calciare (focus ristretto); invece, per fare un passaggio decisivo potrebbe essere ugualmente importante considerare la posizione dei propri compagni di squadra e degli avversari sul campo da gioco (focus ampio). Lo studente e il manager, all’opposto, potrebbero perlopiù essere interessati all’autoregolazione emotiva e comportamentale (focus orientato all’interno) e muoversi anch’essi sulla dimensione dell’ampiezza, ma con scopi diversi, come accade ad esempio nella presa di decisione (focus ristretto) o nella pianificazione di un corso d’azione futuro (focus ampio) (cfr. Nideffer, Sagal, Lowry, & Bond, 2001). Lo studente potrebbe ad esempio essere interessato a rimanere calmo e concentrato sulla materia da studiare per l’esame (orientato all’interno) e oscillare tra lo studio del singolo argomento d’esame (focus ristretto) o la pianificazione della successione di argomenti da trattare (focus ampio).

D’altra parte è previsto che ci siano individui che invece si trovano prevalentemente su una posizione ampia o ristretta e che tendono a spostarsi sulla dimensione interno-esterno come anche, infine, trovare individui che di preferenza si trovano su un quadrante (stile consapevole- focalizzato- strategico- sistematico) e che in base alle richieste della situazione si muovono sugli altri.

Quest’ultima idea sembra essere supportata da resoconti esperienziali, studi osservazionali e rilevazioni empiriche (Nideffer, 2002). Ad esempio Landers Wang e Courtet (1995) mostrano che all’approssimarsi del compito l’ampiezza del focus attentivo diminuisce; Lacy (1967), invece, dimostra che la frequenza cardiaca tende ad accelerare (orientamento verso l’interno) o decelerare (orientamento verso l’esterno) in accordo con lo slittamento del focus attentivo sulla dimensione orientamento interno-esterno.

Pressione ambientale, performance e concentrazione

Ma cosa succede quando ci troviamo improvvisamente sotto pressione? Cosa accade, ad esempio, quando ci troviamo a competere con i nostri avversari di fronte a uno stadio gremito di spettatori? Cosa accade quando dobbiamo discutere la nostra tesi di laurea di fronte ad amici e parenti? Cosa accade quando il tempo stringe e dobbiamo consegnare un lavoro? Per esperienza diretta o resoconto riferito da altri, conosciamo bene la situazione di chi, nonostante una profonda, lunga e tenace preparazione, si è trovato improvvisamente senza parole di fronte ad una commissione, ha sbagliato un lancio decisivo, ha improvvisamente lasciato incompiuto un lavoro importante… Non esiste limite agli esempi che si possono fare, allora forse è meglio una domanda più generale: ‘Cosa accade quando aumentano le pressioni ambientali e, in conseguenza di ciò, anche il livello di attivazione (arousal)?’. La teoria afferma che sotto queste condizioni, lo slittamento da una stile attentivo all’altro diviene più difficile e la persona tenderà sempre più ad orientare la concentrazione verso l’interno e a sperimentare un restringimento del focus attentivo, determinando in questo modo un deterioramento significativo della performance, descritto dall’autore nei termini di una ‘spirale discendente’ di decisioni e azioni frettolose e una percezione del tempo velocizzata (Nideffer, 1986).

Concentrazione stili di Nideffer e prestazione sotto pressione Psicologia Fig 2

Fig. 2 Downward Spiral Degradazione performance

Come prevenire una situazione di questo tipo? Ma soprattutto, come mai gli atleti che gareggiano a livelli molto elevati, e che osserviamo tutti i giorni confrontarsi in competizioni serrate in stadi rumorosi e gremiti di folla, non soccombono alle pressioni ambientali?

In realtà la performance sportiva individuale sotto pressione, secondo l’autore (Nideffer, 2002), è determinata da quattro parametri:

  • Differenze genetiche: che determinano ad esempio l’ansia di tratto (Eysenck, 1988), il temperamento, la reattività allo stress;
  • Differenze individuali nella consapevolezza e nell’uso di strategie usate per ‘trattare’ i problemi, come l’evitamento di distrazioni e la focalizzazione volontaria dell’attenzione (Orlick, 1990), l’uso dei segnali che provengono dall’ambiente in relazione al compito in corso (Abernethy & Russell, 1987) etc.;
  • Grado con il quale la prestazione è stata appresa e automatizzata grazie alla sua ripetizione, fino al punto in cui la messa in atto sia eseguita ‘senza pensarci’, ovvero con un dispendio minimo di risorse cognitive (elaborazione ‘mindless’; Shiffrin & Schneider, 1977);
  • Grado di fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare la situazione. Sono in gioco qui variabili come il senso di autoefficacia percepita (Bandura, 1997), la valutazione delle situazioni in termini sfida e opportunità (Lazarus & Folkman, 1984), l’ottimismo disposizionale (Carver, Scheier, & Segerstrom, 2010), tra le altre.

Così, una volta venuti a conoscenza di quali sono le situazioni in cui ci è richiesto -e soprattutto desideriamo- esercitare livelli elevati di performance, e una volta conosciuto in che modo i parametri di cui sopra si presentano in noi, dovremmo essere in grado sia di predire i comportamenti che metteremo in atto quando la pressione ambientale sarà per noi troppo elevata, sia quali situazioni potrebbero essere per noi fonte di stress eccessivo, in grado di erodere la nostra prestazione (cfr. Nideffer, 2002).

In conclusione, la teoria degli stili di concentrazione ci fornisce indicazioni preziose da seguire se vogliamo mantenere livelli elevati di performance anche sotto stress:

  • Conoscere la propria reattività alle situazioni: se si è troppo reattivi per qualsiasi motivo (mancanza di sonno, responsabilità eccessive, disagio psichico etc.) ricercare modalità per diminuirla: curare il sonno, l’alimentazione, impegnarsi in attività di qualità durante il tempo libero etc.;
  • Imparare a focalizzare l’attenzione e acquisire/implementare nuove strategie di risoluzione dei problemi, se quelle già in uso non funzionano;
  • Esercitarsi nel compito fin quando non viene automatizzato, eseguito ‘senza pensarci’, in modo rapido e preciso;
  • Costruire la fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare il compito, coltivare l’ottimismo, vedere le situazioni problematiche in termini di sfida;
  • Imparare a riconoscere quando la pressione ambientale diviene per noi eccessiva: quando il respiro si fa corto, i muscoli si irrigidiscono e tendiamo a fare le cose ‘di corsa’, è probabile che la nostra concentrazione sia orientata internamente e ristretta a pochi elementi, e la prestazione stia subendo un calo. In questo caso è opportuno fare un passo indietro, allontanarsi dal compito e recuperare l’equilibrio, per ritornare a livelli di prestazione ottimali;
  • Conoscere il proprio stile di concentrazione preferenziale e imparare a riconoscere in quali dei quattro stili tendiamo a ‘slittare’ quando siamo sotto stress, per sfruttarlo a nostro vantaggio.

Il supporto di un professionista, consulente psicologico o psicoterapeuta, potrebbe rendere il conseguimento di questi obiettivi più rapido e meno dispendioso in termini di tempo e risorse impiegate.

Se lo scopo prossimale è eseguire meglio i compiti nei quali ci impegniamo, volenti o nolenti, lo scopo finale è sempre lo stesso: vivere meglio. E dare una prestazione ottimale nelle situazioni della vita che richiedono un impegno da parte nostra, è uno dei modi di cui disponiamo per ottenere, almeno in parte, questo risultato.

 

‘Siamo solo dei fili d’erba’: la psicologia di Strappare lungo i bordi

Strappare lungo i bordi è una serie animata, creata da Zerocalcare, uscita nel 2021 sulla piattaforma Netflix.

 

Accanto a me c’è il mio amico armadillo immaginario, che facilita la comprensione dei miei pensieri ed elucubrazioni

(Zerocalcare, La profezia dell’armadillo).

 Strappare lungo i bordi sta riscuotendo un notevole successo sia per gli aspetti grafici e tecnici, sia per gli aspetti psicologici che si rivolgono tendenzialmente alla popolazione adulta. Considerando lo stile fumettistico che contraddistingue la serie, lo stile grafico è il risultato di una sintesi di Zerocalcare, in quanto i modelli anatomici che aveva adottato inizialmente apparivano troppo disomogenei e non erano in grado di soddisfare le sue aspettative (Urbanova, 2018). Inizialmente, la sua carriera da fumettista è stata contraddistinta dall’atteggiamento politico: il G8 a Genova (2001) ha dato un impulso alla sua produzione, impulso che lo portò nel 2003 ad essere contattato dagli editori del nascente mensile ‘XL’ avviato sotto gli auspici de ‘la Repubblica’ (Urbanova, 2018). Inizialmente, il suo stile trae ispirazione da fumetti come ‘Topolino’, ‘Cattivik’, ‘Lupo Alberto’ e ‘Dragonball’, nonché da fumetti d’autore come ‘Blacksad’ e da autori come Alan Moore, Bill Watterson e Miguel Angel Martin con ‘Brian the Brain’ (Urbanova, 2018).

Il segno del fumettista romano è contraddistinto dall’utilizzo di pochi grigi e da forti linee nere, realizzato su carta A3 dal punto di vista tecnico. Rappresenta personaggi ‘fissi’ come Zerocalcare, Secco, Madre e Armadillo, ritratti in modo antropomorfo o zoomorfo (la madre rappresentata come Lady Cocca della Disney e il padre come Mr. Pink, il padre di Po in Kung Fu panda), e personaggi ‘derivati’ dalla cultura popolare degli anni ’80 quali film o videogiochi (Urbanova, 2018).

Sul piano psicologico, i derivati sono un elemento funzionale in quanto permettono agli spettatori o ai lettori di immedesimarsi in una generazione specifica. L’umorismo e l’ironia sono due elementi chiave utilizzati per produrre un effetto comico, solitamente accompagnati da esagerazione e iperbole. Usa questi elementi per descrivere ansiosamente, come opprimente o spropositata, ogni situazione che vive attraverso un ragionamento che ha fatto identificare il pubblico e che ha attribuito una grande riuscita delle sei puntate. In una scena, il protagonista ha la possibilità di scegliere tra la solita pizza e una pizza molto invitante mai assaggiata prima: rimugina contemplando due scenari negativi possibili per osservare come ne esista un terzo, più probabile e nettamente meno catastrofico, che sperimentano la maggior parte delle persone durante la quotidianità.

 Zerocalcare utilizza diverse strategie linguistiche per evidenziare le caratteristiche varietà giovanili, tra cui turpiloqui, forestierismo, neologismi e tratti dialettali: il romano, rapido e difficile da comprendere in alcuni punti della serie, si affianca al flusso di coscienza del personaggio che esternalizza in modo chiaro e dettagliato il vissuto di Zerocalcare. A differenza delle metafore e delle onomatopee, utilizzate frequentemente nella produzione del fumettista, gli ideofoni (ad esempio, la tristezza rappresentata con “sigh”) sono elementi sonori che veicolano un valore aggiuntivo, utile ad esprimere uno stato d’animo (Urbanova, 2018). Il testo, come affermato dall’autore stesso, è una parte cruciale del suo lavoro che prevale sul disegno, in quanto svolge un ruolo espressivo insieme al ritmo della narrazione. Il disegno ha lo scopo di alleggerire la storia, creando un equilibrio che permetta di rendere comprensibili anche gli argomenti trattati più seri e complessi (Urbanova, 2018).

Il messaggio che cerca di passare Strappare lungo i bordi è legato al disagio provato da parte di un’intera generazione, che si ritrova a sperimentare un senso di vuoto causato dalla perdita di certezze e di punti di riferimento, come maestri o persone care: viene suggerita una visione meno egocentrica che permettere di vivere, in modo più leggero, le proprie responsabilità e i propri pensieri. Evidenziare le disillusioni o le difficoltà delle persone adulte, utilizzando un formato ironico importante per stemperare la forte espressività emotiva, permette di cogliere la fragilità psicologica e gli stereotipi sociali, ricordando comunque che ‘siamo tutti dei fili d’erba’ che si muovono nel vento, giorno dopo giorno (Figini, 2021).

 

Strappare lungo i bordi – La teoria del filo d’erba – Guarda il video:

“Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico” di Claudio Vio, Patrizio Tressoldi e Gianluca Lo Presti – Recensione

Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico, edito da Erickson, rappresenta la nuova edizione del primo testo scritto nel 1996.

 

Il manuale vuole essere una guida che racchiude le direttive vigenti in termini di disturbi dell’apprendimento sia dal punto di vista scientifico che secondo le normative scolastiche.

I disturbi specifici dell’apprendimento (conosciuti anche con l’acronimo DSA) e le difficoltà scolastiche sono un’area d’intervento che negli ultimi anni ha riscontrato un interesse sempre maggiore, complici le diverse conferenze svolte sul tema e l’introduzione prima della legge 170 del 2010, riguardante propriamente i Disturbi specifici dell’Apprendimento, poi della successiva direttiva ministeriale del 2012 in materia di Bisogni Educativi Speciali. Sempre di più quindi si è percepita la necessità di condividere linee guida per la diagnosi e il trattamento di tali disturbi, nonché aggiornamenti continui sia in ambito scientifico e di ricerca sia nell’ambiente scolastico attraverso un dialogo sempre più stretto con il Ministero dell’Istruzione (MIUR).

Il libro Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico scritto da Vio, Tressoldi e Lo Presti, tre tra le figure maggiormente competenti nell’area dei disturbi dell’apprendimento, fa parte delle Guide Neurosviluppo della casa editrice Erickson e rappresenta la versione aggiornata della prima scrittura del manuale.

La presentazione è a cura di Cesare Cornoldi – figura di spicco all’interno del panorama delle psicopatologie evolutive in riferimento alla scuola – che ricorda l’importanza del volume per chiarire modalità di valutazione e diagnosi basate sull’osservazione di linee guida scientificamente approvate e condivise. Cornoldi poi avanza una citazione, degna di nota, all’aggiunta tra gli autori di una figura clinica e non meramente legata al mondo universitario e della ricerca per sottolineare come sia importante e fondamentale anche il punto di vista della pratica clinica quotidiana, che si trova a relazionarsi con difficoltà proprie del mondo pubblico e privato e con la necessità di creare una rete di professionisti e di sviluppare capacità comunicative per meglio interagire con le famiglie.

Il libro si presenta diviso in 9 capitoli. Dopo un’introduzione sui DSA e sulle diverse consensus conference avvenute attorno al tema, il secondo capitolo è dedicato all’approccio metodologico da adottare nella rilevazione dei casi di DSA e alla stesura di quella che viene definita diagnosi funzionale. I capitoli successivi analizzano specificamente ogni disturbo evolutivo, in particolare: dilsessia, il disturbo specifico della lettura; disortografia, della scrittura; disgrafia; discalculia, del numero e/o del calcolo; della comprensione del testo e dell’apprendimento non verbale.

Per ogni disturbo viene analizzata la sua definizione specificando l’abilità compromessa e i criteri diagnostici scientificamente condivisi per confermarne la presenza. Parte del capitolo si interessa alla psicologia cognitiva sottostante la strumentalità presa in esame con le relative teorie circa il suo apprendimento e la sua disfunzionalità. La seconda parte invece punta i riflettori sul percorso diagnostico da mettere in atto partendo dalla richiesta di consulenza nei diversi momenti – scuola primaria, secondaria o universitaria – al colloquio clinico e anamnestico (con le diverse aree da indagare per meglio definire il quadro della situazione). I paragrafi conclusivi riguardano le prove strumentali da utilizzare e la stesura della diagnosi. In conclusione poi vengono presentati alcuni casi clinici per offrire esempi relativi alla relazione clinica e alla sintesi diagnostica (con i relativi test utilizzati per la valutazione).

Il nono capitolo è dedicato alla relazione di questi disturbi con l’ambiente scolastico, scritto da Claudia Zamperlin e Vio con l’aiuto di un dirigente scolastico che si occupa dell’ordinamento attuale dell’istituzione scolastica italiana in materia di DSA. La presenza e l’incidenza dei disturbi vengono presentate e analizzate per i diversi gradi scolastici e indirizzi (in riferimento alla scuola secondaria di secondo grado), successivamente il testo spiega nel dettaglio la legge 170/10 nei suoi diversi articoli, presentando le diverse implicazioni previste compresa la spiegazione di cosa e quali siano gli strumenti compensativi e le misure dispensative attualmente utilizzabili.

A conclusione del volume sono presenti due sezioni, utilissime dal punto di vista clinico. In particolare gli argomenti presenti in appendice riguardano i diversi strumenti diagnostici (test e questionari) presenti nel panorama scientifico attuale suddivisi a seconda delle abilità strumentali di interesse, un’indicazione circa la conduzione del colloquio anamenstico nel momento di richiesta di valutazione, le indicazioni principali per la stesura della relazione, le diverse risorse internet in tema di materiali, strumenti e spunti operativi per i disturbi specifici dell’apprendimento e una nuova proposta criteriale per la diagnosi di disgrafia del gruppo AIRIPA (Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento).

La sezione dedicata agli allegati invece presenta una lista di questionari e scale riferiti a diverse tematiche (per ogni questionario sono presenti le istruzioni per le modalità di somministrazione, le procedure di scoring e l’interpretazione dei punteggi emersi).

In conclusione Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico rappresenta una guida estremamente utile per chi si occupa di diagnosi e di difficoltà scolastiche. Da un lato offre una panoramica aggiornata e completa sulle diverse evoluzioni in termini scientifici e di ricerca in riferimento al tema e mostra come queste continue condivisioni abbiano dato origine a linee guida per la diagnosi; dall’altro permette di essere aggiornati sul tema dei DSA e della scuola, per comprendere come questi disturbi siano tutelati nell’ambiente scolastico e quali implicazioni comporti. Dal punto di vista clinico poi offre la possibilità di accedere facilmente ad un panoramica riassuntiva dei diversi strumenti testistici da impiegare nella valutazione di questi disturbi e chiari esempi di casi clinici e di questionari da poter utilizzare nella pratica clinica quotidiana.

Consigliato per i clinici del settore, linguaggio adatto al tema trattato e agli argomenti proposti che appaiono molto settorializzati essendo il volume completamente dedicato al tema dei DSA. Gli autori sono figure di spicco del settore che riassumo nel testo, in modo chiaro e preciso, le loro competenza sul tema, aggiungendo osservazioni derivanti da anni di esperienza sul campo e di ricerca.

Obbligatoriamente da avere in libreria per tutte le figure professionali che in diverso modo si occupano di  Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

 

“Non essere in ansia!”- Ansia, disturbi d’ansia ed emergenze

Tutti possiamo provare ansia dinanzi a situazioni di pericolo, questa attiva in noi uno stato d’allerta che ci spinge in maniera adattiva o disadattiva a ricercare soluzioni rispetto alla situazione che stiamo vivendo o che percepiamo come potenzialmente pericolosa.

 

Quando l’ansia si struttura come disturbo, non è più un’esperienza contigente, ma delinea, secondo il DSM-5, una specifica classe di disturbi che comprende: il disturbo d’ansia da separazione, il mutismo selettivo, la fobia specifica, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia e il disturbo d’ansia genealizzata. In alcuni casi il disturbo può essere indotto da una condizione medica o dall’uso specifico di sostanze o farmaci.

Il disturbo d’ansia generalizzata

Il disturbo d’ansia generalizzata (GAD), in particolare, si caratterizza secondo il DSM-5, per la presenza di: ansia e preoccupazione che accompagnano la persona per un periodo di almeno sei mesi e per gran parte della giornata, coinvolgendo ogni evento della quotidianità. La preoccupazione è tale da interferire con un sano funzionamento psicologico in quanto pervasiva, durevole e capace di emergere in assenza di stimoli evidentemente allarmanti.

I sintomi del GAD sono:

  • sensazione di “nervi a fior di pelle”
  • facile affaticamento
  • difficoltà di concentrazione
  • irritabilità
  • tensione muscolare
  • alterazione del sonno.

Lo stato di tensione, come si evince dai sintomi, coinvolge aspetti “emotivi” e “fisici” tanto da compromettere il funzionamento di vita della persona in ambito sociale, lavorativo e interpersonale.

Secondo l’ICD-10 la sintomatologia è dunque sia somatica che psichica, evidenziando, negli effetti, un’ampia variabilità individuale, in cui la preoccupazione maggiore di fondo appare il timore che possa accadere qualcosa di negativo a sé stessi o alle persone care.

In un’ottica psicoanalitica, alla base delle manifestazioni del GAD compare l’angoscia, sia essa da separazione, di castrazione, morale, di annichilimento e di frammentazione del sé. Il PDM aggiunge l’angoscia derivante dalla perdita di controllo, intesa come incapacità di autoregalazione nei pensieri, nei sentimenti e nelle sensazioni.

I pattern alla base del disturbo riguardano aspetti:

  • cognitivi, che comprendono difficoltà di pensiero;
  • somatici, che comprendono vari stati di arousal fisico che possono indurre, a seconda del livello di attivazione, tensione, sudorazione, palpitazione o urgenza di minzionare e/o defecare;
  • relazionali, che comprendono conflitti relativi alla dipendenza, alla paura del rifiuto o al sentimento di colpa.

L’ansia in ottica cognitivo-comportamentale

Da un punto di vista cognitivo-comportamentale le persone con disturbi ansiosi tendono ad avere una percezione della realtà circostante costantemente influenzata da credenze disadattive che nascono da schemi mentali rigidi, ovvero modelli di lettura con cui tendiamo ad organizzare e valutare le informazioni provenienti dal mondo che ci circonda. Questi schemi, nello specifico nel GAD, si presentano come disadattivi in quanto rigidi, “semplicistici” e tendenzialmente negativi, capaci di attivare processi di pensiero:

  • dicotomici, per cui i pensieri tendono a collocarsi su estremi assoluti, Chissà come potrà andare questa cosa? Sicuramente male!
  • catastrofizzanti, ovvero tendenti a vedere in ogni problema qualcosa di irrisolvibile, Non c’è nulla che possa fare per risolvere questo problema!
  • etichettanti, ovvero tendenti a definire le situazioni in base a caratteristiche generalizzate e dunque aspecifiche, Perché dovrebbe succedermi qualcosa di bello se mi va sempre tutto male?
  • personalizzanti, ovvero tendenti a presumere in modo errato di essere causa di eventi o situazioni,
    Non riuscirò mai a fare questa cosa io!

Le distorsioni cognitive tendono dunque sia a far sovrastimare la pericolosità degli eventi, quando rivolte verso l’esterno, ma anche a dubitare delle proprie abilità di coping quando rivolte verso sé.

La cura della salute mentale è sempre indispensabile, ma soprattutto lo è nei casi di emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo, in cui il potenziamento delle abilità di coping, ovvero la capacità di trovare o seguire la giusta soluzione o indicazione, costituirebbe un fattore protettivo per sé e per l’intera comunità circostante.

Ansia nel periodo pandemico

Possiamo dunque chiederci e riflettere, in termini di salute mentale, cosa può essere utile per la nostra ansia e per chi soffre di disturbi d’ansia in relazione al delicato momento che stiamo vivendo?

  • È importante prendersi cura della propria salute mentale sempre, al fine di avere strumenti – risorse psicologiche per affrontare situazioni allarmanti;
  • Evita l’inondamento continuo di informazioni sia attivo che passivo. Non diffondere continuamente informazioni attraverso più canali di comunicazione (mail, social, Wa, messaggistica etc. etc,). Le persone hanno il diritto di alternare momenti di informazione autonoma a momenti in cui spostare il focus attentivo su altro. Puoi destinare dei momenti della tua giornata per informarti, che siano specifici e non continuativi, ma soprattutto finalizzati ad adottare strategie utili a fronteggiare il problema;
  • Evita di confondere “pareri” con giudizi scientifici selezionando le fonti che decidi di leggere o ascoltare. Il valore delle informazioni ha come unica attendibilità la fonte da cui queste provengono: pareri o “teorie” basate su credenze personali seppur diffuse non costituiscono un’alternativa alla competenza scientifica;
  • Non confondere l’ansia in risposta ad un evento allarmante con un disturbo d’ansia preesistente. In ogni caso è doveroso rispettare lo stato di preoccupazione della persona in ansia, senza “sminuire” la sensazione provata, ma tentando di non rendersi spaventanti. Ricordati che provare ansia non è una scelta della persona, ma un automatismo che fa soffrire per prima la persona che lo esperisce;
  • Sposta il tuo focus attentivo dedicandoti ad attività differenti nell’arco della giornata che non ti pongano solamente in ascolto passivo di tematiche allarmanti;
  • Individua la tua “fetta di responsabilità”, in linea con le indicazioni degli esperti, per capire ciò che puoi fare in maniera corretta. Queste strategie ti porteranno ad applicare “piccole soluzioni” utili per aumentare il tuo livello di sicurezza a dispetto dell’aumento della preoccupazione, che si traduce a livello psicologico come capacità di problem solving.

La salute mentale non è qualcosa di così astratto se pensiamo ai comportamenti che questa è in grado di generare. Preservare la capacità di tendere alla razionalizzazione in momenti altamente stressanti della nostra vita, col fine di incrementare le nostre risorse per produrre comportamenti adeguati e capaci di interrompere l’escalation della preoccupazione e della conseguente ansia, è un indispensabile fattore protettivo per il benessere dell’individuo e della società. Utilizziamo questi piccoli accorgimenti per gestire la nostra ansia e soprattutto per evitare che persone con disturbi d’ansia possano, in questo particolare momento, soffrire ancor di più.

N.B.: Le indicazioni presenti nell’articolo non sostituiscono né la valutazione né i trattamenti indispensabili alla cura dei disturbi d’ansia.

 

Coppie in mediazione (2019) di F. Canevelli e M. Lucardi – Recensione del libro

L’approccio di Canevelli e Lucardi in Coppie in mediazione ha come obiettivo quello di offrire una visione differente della crisi di coppia, considerandola un’opportunità di crescita.

 

Il numero delle separazioni negli ultimi quarant’anni è drammaticamente aumentato. I dati Istat mostrano che in Italia, rispetto al 2008, i divorzi sono cresciuti del 15,8 %. I conflitti che derivano dalla disgregazione familiare non sono esclusivamente individuali, ma riflettono profonde divisioni della società e tale groviglio di questioni pubbliche e private può rendere ancora più difficile, alla coppie che divorziano, gestire i reciproci sentimenti negativi rimanendo tuttavia genitori uniti.

Il focus di Canevelli e Lucardi in Coppie in mediazione è posto sui legami di coppia, sui conflitti e sulle gravi ripercussioni sui figli e gli altri familiari coinvolti nelle loro difficoltà. Nella prima parte del manuale gli autori forniscono una meticolosa analisi psicologica del passaggio dall’innamoramento alla rottura del rapporto di coppia, indagando i motivi alla base della decisione, ricercando “i fatti che hanno scavato un solco incolmabile tra i due partner”. Quelli che Canevelli e Lucardi definiscono “fattori esplicativi della crisi di coppia” sono assimilabili a significativi aspetti dei vissuti personali che non trovano più corrispondenza in un progetto condiviso. In altre parole, la fase di separazione o allontanamento è caratterizzata da percezioni soggettive di incompatibilità sperimentati da uno dei membri della coppia e che emergono più o meno all’improvviso. Allo stesso tempo, spiegano gli autori, i sentimenti di insoddisfazione nel rapporto, i rancori e le delusioni accumulate nel tempo, non giustificano né spiegano la decisione di porre fine al rapporto. Come per qualunque decisione, infatti, possono manifestarsi idee di separazione nel rapporto e tuttavia non concretizzarsi mai, oppure comparire all’improvviso in seguito a eventi critici e addirittura rientrare.

Se durante la fase d’innamoramento l’altro diviene lo specchio del sé desiderabile o, per meglio dire, della rappresentazione migliore di sé, è proprio durante la possibilità della crisi che questa fase dovrebbe sopraggiungere, poiché una percentuale funzionale della dimensione dell’innamoramento sopravvive alle fasi successive del rapporto di coppia, quelle negoziali, che segnano la costruzione di quel “noi” meno idealizzato. “Non crediamo si possa veramente amare senza avere sperimentato la delusione legata all’emergere della totalità dell’altro e di sé in relazione all’altro nella sua interezza”.

L’approccio di Canevelli e Lucardi ha come obiettivo quello di offrire una visione differente della crisi di coppia, considerandola un’opportunità di crescita, per dare significato al rapporto, guardando al conflitto come evoluzione e possibilità di negoziare piuttosto che come la fine. Risultano molto utili le indicazioni e gli interventi per gestire i conflitti che si presentano durante il percorso della coppia, finalizzati a ridurre il più possibile i traumi dei componenti della famiglia, soprattutto per i figli. La disgregazione della famiglia potrà essere sì dolorosa, ma non distruttiva. E questo vale in particolare per quei figli che vengono “triangolati” dai due genitori nei loro dissidi. É piuttosto frequente, infatti, che i genitori separandi, nelle loro “guerre”, non tengano conto dei bisogni (specifici e diversi per ogni età evolutiva) dei propri figli, i quali si ritrovano a subire il trauma della separazione, e per giunta in balìa delle loro ostilità. In questo passaggio, affermano gli autori, è fondamentale limitare i danni della separazione considerandola non come mero evento negativo e conclusivo di una relazione, ma come momento di riorganizzazione dell’assetto familiare. La mediazione familiare, quale intervento di prevenzione delle difficoltà, è il tema dominante della seconda parte del libro: essa si configura come valido strumento di fronte alla necessità di ristabilire una comunicazione funzionale ed equilibrata nella coppia, trasformando il rapporto coniugale in rapporto genitoriale a beneficio dei figli. Sempre e comunque.

 

Linee di supporto telefonico: una fonte di informazioni sulla salute mentale durante la pandemia di COVID-19

La pandemia da COVID-19 ha aggravato i fattori di rischio che sono generalmente associati ad una scarsa salute mentale, quali ad esempio la disoccupazione, la paura esperita, l’insicurezza finanziaria.

 

I fattori protettivi come l’occupazione, la connessione sociale, l’accesso ai servizi sanitari ed il possedere una routine quotidiana, invece, sono stati drasticamente limitati. La situazione che la popolazione mondiale si è trovata a vivere durante la pandemia ha portato ad un peggioramento significativo e senza precedenti della salute mentale della popolazione (OECD, 2021).

Per sopperire a questa situazione di crisi causata dal COVID-19, la maggior parte dei Paesi ha messo a disposizione dei cittadini delle linee di supporto telefonico e alcuni hanno aumentato/apportato finanziamenti per la salute mentale (OECD, 2021).

Supporto telefonico durante la pandemia di Covid-19

Le linee di supporto telefonico svolgono un ruolo significativo nel supporto per la salute mentale e, in alcuni casi, è anche l’unica forma di terapia ricevuta. Grazie all’immediatezza dell’aiuto, all’anonimato, al basso costo e alla facilità di accesso per le comunità remote, la consulenza telefonica ha assunto una grande popolarità (Leach & Christensen, 2006). Ad oggi esistono diverse linee di supporto che sono specializzate in questioni specifiche come il suicidio, il supporto per i minori o la violenza contro le donne, che dimostrano di avere un’efficacia in termini di prevenzione e supporto (De Leo et al., 2002)

Durante la pandemia di COVID-19, le linee di supporto telefonico assumono ancora più importanza dato che i contatti diretti comportano rischi di infezione e possono persino essere impossibili a causa delle restrizioni (Batchelor et al., 2021; Zalsman et al., 2021; Turkington et al., 2020; Brülhart & Lalive, 2020).

Utilizzare i dati provenienti dalle linee di supporto telefonico per monitorare la salute mentale degli individui può avere diversi vantaggi. In primo luogo, le chiamate effettuate possono essere considerate una vera e propria manifestazione di disagio psicologico, dato che i chiamanti sostengono il costo mentale e di tempo del mettersi in contatto senza essere stati invitati a farlo. Pertanto, le chiamate al servizio di assistenza assomigliano ai dati clinici offrendo una misura della salute mentale che non è influenzata dalla progettazione e dall’inquadratura dello studio dei ricercatori. In secondo luogo, le informazioni sulle chiamate di assistenza sono registrate digitalmente con frequenza giornaliera e coprono un’ampia gamma di argomenti di conversazione.

Un recente studio (Brülhart et al., 2021) ha utilizzato i dati provenienti da 23 linee di supporto telefonico in 14 paesi europei, Stati Uniti, Cina, Hong Kong, Israele e Libano, come fonti di informazioni riguardo i problemi di salute mentale e il disagio generale della popolazione, analizzando la crescita e la composizione delle chiamate al servizio di assistenza, nonché i loro determinanti legati alla pandemia.

Il dataset analizzato dallo studio in questione comprende un totale di 8 milioni di chiamate individuali effettuate tra il 2019 e l’inizio del 2021, che ha permesso di analizzare gli effetti della diffusione dei contagi e delle misure di restrizione sulle chiamate ricevute dalle linee di supporto.

Supporto telefonico durante la pandemia: argomenti delle telefonate

Gli argomenti discussi nelle chiamate ricevute dalle diverse linee di supporto sono stati categorizzati formando categorie comuni: solitudine (isolamento sociale, sensazione di essere in trappola), paura (paura generale, disturbo d’ansia, paura di infezione), suicidalità (ideazione suicidaria, pensieri o piani suicidari, tentativi di suicidio, suicidalità di altri), dipendenza (droghe, alcol, altre dipendenze), violenza (violenza fisica e abusi, molestie sessuali, stupro), salute (malattia, malattia di lunga durata, disabilità), sostentamento (situazione lavorativa, disoccupazione, problemi finanziari, alloggio) e relazioni (vita familiare, genitorialità, matrimonio e relazioni intime, separazione).

I risultati dimostrano che la maggior parte delle chiamate pre-COVID-19 sono state effettuate a causa di problemi di relazione (37%), solitudine (20%) o varie paure e ansie (13%). Durante la pandemia le chiamate sono aumentate fino a raggiungere un picco sei settimane dopo lo scoppio della pandemia, che supera il pre-livello di pandemia del 35%, e gli argomenti trattati sembrano aver subito delle modifiche. Le categorie di chiamate la cui quota è aumentata significativamente sono la categoria ‘paura’ (che include per lo più paura per l’infezione) e ‘solitudine’, aumentate soprattutto durante la prima ondata della pandemia. A seguito, durante le ondate successive, l’argomento ‘salute fisica’ si è aggiunto ai precedenti diventando anch’esso centrale.

La quota di tutti gli altri argomenti di conversazione sembra invece essere diminuita durante la prima ondata della pandemia. Un risultato degno di nota risiede nell’aumento di 0,9 punti percentuali della quota di chiamate legate alla violenza effettuate maggiormente da donne under 30, nonostante potrebbe essere stato più difficile date le restrizioni esistenti effettuare chiamate di assistenza in situazioni di violenza domestica.

Dati particolari vengono mostrati anche per quanto riguarda il fenomeno del suicidio. In alcuni Paesi, durante i primi mesi della pandemia, il numero di chiamate alla linea di assistenza per il suicidio sembrano essere diminuite. Un’interpretazione di questo risultato è che la pandemia stessa possa aver attenuato le ansie suicide, forse spostando l’attenzione delle persone verso il disagio degli altri o verso la propria paura della pandemia.

Conclusioni

In generale, analizzando i dati ottenuti per tutta la durata della pandemia fino ad ora, a seconda dei tassi di infezione, le chiamate relative al suicidio sono aumentate quando le politiche di contenimento sono diventate più rigorose e sono diminuite in concomitanza con le misure di sostegno al reddito.

Nel complesso, i risultati ottenuti dallo studio suggeriscono che l’aumento osservato delle chiamate di assistenza durante la pandemia di COVID-19 è stato guidato in larga misura dai timori del virus stesso e dalla solitudine. L’aumento delle chiamate risulta essere influenzato dall’andamento dei contagi e dalla severità delle misure restrittive nei paesi presi in considerazione.

Nonostante quindi misure più rigorose fossero associate ad un maggior numero di chiamate alle linee di supporto, è stato visto che un sostegno al reddito da parte del governo ha avuto l’effetto opposto. Ciò implica che i pagamenti compensativi ai lavoratori e alle imprese colpiti economicamente dalla pandemia, progettati per preservare la domanda e la capacità produttiva, non solo riducono le difficoltà economiche ma apportano una serie di benefici dal punto della salute mentale. Infatti, un sostegno al reddito più generoso riduce il numero di chiamate per la paura, per la solitudine, per salute fisica e per l’ansia da sostentamento.

In conclusione, le linee di assistenza telefonica offrono dei dati longitudinali molto utili che possono essere combinati agli approcci empirici esistenti basati su sondaggi, dati amministrativi e clinici (come statistiche sui suicidi e ricoveri nei centri di cura) e dati di ricerca su Internet per meglio comprendere la reale situazione di disagio esperito dalla popolazione.

 

Le polarità semantiche familiari nella terapia sistemico relazionale

La terapia sistemico-relazionale nasce dallo spostamento del focus dall’individuo all’individuo contestuale, ovvero inserito in un contesto familiare, sociale e culturale ben preciso.

 

La famiglia, riprendendo la teoria ecologica di Bronfenbrenner, è il primo nucleo dove inizia a svilupparsi la personalità dell’individuo, dalla diade madre-bambino studiata da Bowlby e Mary Ainsworth, fino a concepire la triangolazione, la teoria dell’intersoggettività primaria di Stern per cui il bambino già dai nove mesi riesce a concepire la conversazione oltre la diade, a rappresentarsi sino ad almeno due figure.

I principi della terapia sistemico-relazionale

Bateson della scuola di Palo-Alto, introduce i concetti di schismogenesi complementare e simmetrica; la schismogenesi complementare racchiude quella gamma di comportamenti adottati da alcuni gruppi indigeni osservati da Bateson, nei quali si possono sviluppare dei comportamenti opposti (ad esempio un indigeno è prepotente e testardo mentre l’altro è tranquillo e remissivo) che vanno mano a mano a diventare sempre più estremi, l’uno in un polo e l’altro in quello opposto (il rabbioso diventa sempre più rabbioso, il timido sempre più timido), invece la schismogenesi simmetrica include quei comportamenti speculari (all’interno di un gruppo il tratto emotivo tende a essere simile, non c’è opposizione tra un timido e un prepotente ma condivisione tra due soggetti tranquilli o due rabbiosi) nella semantica polare (posizione mediana, classico nei soggetti ossessivo-compulsivi).

Infine la Dott.ssa Ugazio introduce la teoria delle polarità semantiche familiari, ovvero quei frame conversazionali entro cui un individuo si ritrova all’interno di una famiglia; in una famiglia può esserci la polarità della rabbia, per cui i soggetti della famiglia si oppongono sulla base dei loro tratti caratteriali tra rabbiosi e remissivi, o ancora può dominare la polarità della timidezza, per cui invece i soggetti si differenziano specularmente tra chi è timido e chi è molto sicuro di sé (questa teoria parte dal presupposto che in ogni nucleo famigliare vi siano identità con tratti caratteriali opposti).

I disturbi psicologici nella terapia sistemico-relazionale

Le semantiche principali che vanno a caratterizzare quattro disturbi specifici sono le seguenti: semantica della bontà (che vede come poli opposti buono-cattivo), semantica della libertà (come poli opposti contempla libero-prigioniero), semantica della potenza (poli opposti: forte/debole) e dell’appartenenza (poli: dentro/fuori). La semantica della bontà è alla base del disturbo ossessivo-compulsivo, quella della libertà caratterizza i disturbi dello spettro fobico, la semantica della potenza struttura i disturbi alimentari e l’appartenenza è il substrato del disturbo depressivo (sentirsi al di fuori di un gruppo, sentirsi solo e quindi depresso).

Analizzando ciascuna famiglia, si è potuto osservare che ci sono sempre dei “positioning” differenti e molto spesso opposti tra loro all’interno di determinate semantiche che dominano la conversazione. Questo può verificarsi nel nucleo famigliare stretto (prima generazione) oppure può capitare che in alcuni casi i poli opposti di una semantica si trovino solamente andando ad analizzare le generazioni precedenti (seconda, terza generazione ecc.), tracciando il genogramma familiare.

Il lavoro terapeutico consiste nel rendere consapevole il cliente del suo positioning familiare all’interno della semantica conversazionale così da attivare la possibilità di cambiare alcuni atteggiamenti determinati sostanzialmente in maniera inconscia dalla situazione semantica particolare in cui il soggetto si trova, che gli preclude di vivere la sua storia narrativa in quella semantica. Secondo il paradigma delle polarità semantiche familiari la sintomatologia di uno o più membri della famiglia è quasi sempre un comportamento adattivo che il soggetto sviluppa in relazione al tipo di famiglia in cui vive, perciò ogni paziente è in qualche modo da considerarsi molto intelligente nel costruire meccanismi di difesa, che servono a farlo sopravvivere in quello specifico sistema familiare nel quale cresce e si sviluppa. Questi meccanismi, una volta contestualizzati alla luce dei costrutti sopra elencati e trattati con modalità terapeutiche sistemico-relazionali (tra le quali spicca come fondamentale il lavoro in equipe, come spiega Rodolfo de Bernart in un’intervista), vengono resi più flessibili, meno rigidi, per consentire una progressiva riduzione della sintomatologia.

 

Un convitato di pietra al pranzo di Natale

Le prove che le famiglie ricomposte devono affrontare prima di trovare un equilibrio soddisfacente sono innumerevoli, e la strada non è mai né breve né diritta e richiede, di norma, il ricorso a molte risorse, interne ed esterne alla famiglia.

 

Dalla cucina Roberto poteva guardare il figlio Mattia che, seduto sul divano in salotto e con lo sguardo perso nel vuoto, aveva ripreso a mangiarsi le unghie. ‘Onicofagia’, aveva sentenziato lo psicologo, ‘è spesso sintomo di ansia’. Roberto aveva pensato che non c’era bisogno dello psicologo da cui Marcella, la madre di Mattia, aveva voluto trascinarli a tutti i costi: lo sapeva anche lui che c’entrava l’ansia, e per la precisione sapeva anche perché Mattia, che solo un mese prima aveva fatto i 15 anni, aveva ripreso quella abitudine: era tutta colpa del Natale, che si avvicinava a passi da gigante…e lui non sapeva cosa consigliare al figlio…questa era la verità.

Dopo la separazione da Marcella, una rottura che Roberto aveva subito con rabbia e dolore, Mattia aveva voluto restare con lui, mentre la sorella più piccola, Eva, era andata con la mamma. Un capolavoro di fallimento, pensava Roberto: nel giro di qualche mese i brandelli di quella che era una famiglia erano sparsi di qua e di là nella città. Il tutto era successo due anni prima. Eva e Mattia ne avevano molto sofferto ma in qualche modo Eva sembrava aver superato la crisi, mentre invece Mattia, Roberto lo vedeva, ancora adesso ci stava male, e la situazione era peggiorata da qualche mese, da quando cioè Marcella era andata a convivere con Dario, costringendo anche Eva a quella convivenza. Roberto era convinto che la storia tra Marcella e Dario fosse all’origine della loro crisi, anche se non poteva provarlo, e questa novità lo amareggiava molto, anche se faceva di tutto per controllarsi e non far trapelare il suo stato d’animo con i figli…ma a volte proprio non ci riusciva e qualche parola rabbiosa gli scappava, pentendosene subito dopo. Del resto Mattia si rendeva conto del malessere del padre ed erano numerosi i fine settimana nei quali si rifiutava di andare a casa della madre, e Roberto era convinto che lo faceva per stare con lui, per fargli compagnia. Roberto sapeva che era una situazione sbagliata, lo aveva detto anche lo psicologo ma, nel proprio intimo, era contento quando Mattia decideva di stare con lui. E poi il lockdown per il Covid era stato un gradito pretesto per rinsaldare il legame tra lui e il figlio: erano stati mesi in cui erano sempre insieme, senza mai sfiorare l’argomento ‘mamma’, la quale mamma telefonava anche due volte al giorno per parlare con Mattia, che però le rispondeva con mugugni e monosillabi.

Eva invece aveva reagito meglio alla separazione dei genitori, probabilmente perché, così piccola, aveva ora 7 anni, era molto legata alla mamma. O magari perché Dario aveva una figlia della stessa età di Eva, che stava con la propria mamma e passava fine settimana alterni con il padre. Marcella e Dario avevano fatto in modo da far coincidere i fine settimana delle due bambine.

E tra poco sarà Natale, e toccava a Marcella tenere entrambi i figli, e anche la figlia di Dario. Proprio ieri Mattia gli aveva detto che non avrebbe voluto andare ma poi ‘la mamma si è messa a piangere al telefono…e io ho detto che va bene, sarei andato…Tanto tu, papà, andrai dalla zia, no? Ci siamo andati anche l’anno scorso…’, e mentre glielo diceva lo guardava di sottecchi. ‘Vai, vai, sarete contenti tutti insieme…’. A queste parole Mattia si era zittito ed era andato in camera sua. E adesso lui lo vedeva mangiarsi le unghie e, con qualche scusa, rifiutarsi di uscire con gli amici. La sensazione di stare sbagliando qualcosa cominciava a farsi strada in Roberto…

Le prove che le famiglie ricomposte devono affrontare prima di trovare un equilibrio soddisfacente sono innumerevoli, e la strada non è mai né breve né diritta e richiede, di norma, il ricorso a molte risorse, interne ed esterne alla famiglia.

Le caratteristiche delle famiglie ricomposte

Intanto è necessario ricordare che per ogni famiglia ri-composta, ne esiste almeno una de-composta: le cosiddette famiglie ricomposte sono infatti costituite sia da elementi che non provengono da precedenti nuclei familiari (es. i bambini nati in questa nuova famiglia, oppure partner che non avevano una precedente unione, oppure nuclei che erano monoparentali da lungo tempo), che da ‘frammenti’ di precedenti famiglie che si sono, per le ragioni più varie (separazioni e/o divorzi; morte di un partner), de-composte. Le famiglie ricomposte hanno dunque una storia di perdita e spesso, nell’immaginario di chi quella perdita non ha ancora elaborato, né tantomeno accettato la nuova realtà (che significa accettare il fallimento del precedente progetto), e in special modo nelle rappresentazioni fantastiche dei bambini, tutti i frammenti della vecchia famiglia si riuniscono, in uno scenario di straziante nostalgia, provocando un conflitto emotivo con l’attuale realtà e sollecitando speranze, rimpianti e sofferenza. Tutti questi sentimenti ed emozioni si acuiscono naturalmente in prossimità di quelle feste che tradizionalmente vedono riunirsi le famiglie in un clima di calda affettuosità. Il genitore ed il nuovo partner possono allora assistere ad un repentino cambio di umore dei bambini e non sanno darsene ragione.

Non tutti i ‘frammenti’ dei vecchi nuclei si ricompongono in nuove famiglie e rimangono quindi ‘frammenti’ orfani di famiglia, sia nella loro stessa rappresentazione (specialmente in quella del partner che ha subito la separazione e la perdita del progetto iniziale), che in quella dei ‘frammenti’ che invece si sono ricomposti in una nuova famiglia. Nel pensiero di questi ultimi, specie nei bambini o adolescenti, resta una zona dolorante che ha come oggetto proprio quel frammento che non si è ricomposto e verso il quale sviluppano sovente un importante senso di colpa, con conseguente atteggiamento protettivo, che può arrivare fino al rifiuto della nuova famiglia ri-composta.

Occorrono tempo (anni), pazienza e maturità educativa prima che il penoso alternarsi di emozioni e sentimenti attorno alle vecchie e alle nuove famiglie possa risolversi in modo equilibrato.

È sufficiente riflettere sul fatto che il bambino che cresce in una famiglia tradizionale deve con-frontarsi (cioè trarre conclusioni dalla esperienza maturata nel rapporto o dalla sua osservazione) con al massimo una decina di rapporti diadici, e che lo stesso bambino, inserito in una famiglia ricomposta, dovrà con-frontarsi con il triplo, se non il quadruplo, di rapporti diadici, per capire con quanta complessità devono fare i conti le famiglie ricomposte. E naturalmente la stessa cosa vale per gli adulti, i quali però hanno (si spera) più strumenti e più risorse per comprendere e governare tale complessità.

La complessità nelle famiglie ricomposte

Ed è infatti la complessità l’altra cifra della famiglia ricomposta.

E, a proposito di complessità e rapporti diadici, qual è il ruolo che devono ricoprire i nuovi partners dei genitori? È chiaro che, indipendentemente dalla loro volontà, ricopriranno una funzione educativa con il loro semplice atteggiamento, con il loro semplice esserci, e saranno a volte combattuti dal desiderio di non restare neutrali ma di inserirsi a gamba tesa dentro il rapporto tra i bambini/adolescenti e il loro genitore biologico: ho sempre vivamente sconsigliato tale genere di atteggiamento, che inevitabilmente genera rimproveri e rimostranze da parte del genitore biologico e rabbiose gelosie nell’altro genitore biologico, che vede minacciato il proprio ruolo di ‘vero’ genitore. E allora, come ci si deve comportare? Non c’è una risposta univoca e molto dipende dall’età del minore e dai rapporti che esistono tra i genitori biologici. Se i rapporti sono buoni, se non ci sono manipolazioni e/o strumentalizzazioni, allora forse porsi nei confronti dei figli del proprio partner come un adulto attento e che, rispettosamente e affettuosamente, risponde all’eventuale chiamata del minore, potrebbe essere l’atteggiamento più adeguato. Insomma, bisogna a tutti i costi evitare di essere patrigni e matrigne: un ruolo da sempre ingrato, senza tenere conto che di norma i figli del partner non riconoscono alcuna autorità al/alla nuovo/a compagno/a del genitore.

Ma le cose possono essere ancora più complicate: immaginiamo che nella famiglia ricomposta convivano, in modo più o meno stabile, i figli biologici di entrambi i partners, e che abbiano storie e stili educativi diversi, magari uno più permissivo e l’altro invece improntato ad una maggiore autorevolezza: due stili apparentemente antitetici che faranno molta fatica a trovare una sintesi soddisfacente e non esplosiva.

E poi ancora: non è affatto raro che nella famiglia ricomposta in cui ci sono figli di precedenti legami, nascano figli biologici dei nuovi partners. Questi ‘ultimi arrivati’ godranno di un privilegio che gli altri figli non potranno avere mai più: vivranno stabilmente insieme alla mamma e al papà sotto lo stesso tetto: la differenza esperienziale con gli altri figli è emotivamente abissale e quasi inevitabilmente ne scaturiranno gelosie, regressioni, fughe e rivendicazioni. Non dimenticherò mai il caso del piccolo Pietro, un bambino di 6 anni che mi era stato segnalato dai servizi sociali, su sollecitazione della scuola, per comportamenti aggressivi verso compagni e insegnanti: Pietro viveva con la madre, con il nuovo compagno di lei e con il loro figlio Luca, un vivace bambinetto di 4 anni. Il padre biologico di Pietro non pareva molto interessato alla sorte del figlio, anche se regolarmente andava a prenderlo per i fine-settimana assegnati a lui (in realtà affidandolo alla propria madre, nonna di Pietro, per poi sparire fino alla domenica sera). In uno dei colloqui di assessment, in cui cercavo di capire come Pietro si percepisse nelle dinamiche familiari, riferendomi a lui e a Luca avevo detto: ‘….dato che tu e Luca siete i figli veri della mamma…’. Lui per un attimo mi aveva guardato e poi aveva detto: ‘Sì, io sono il vero figlio, e lui è il figlio vero’, calcando molto il tono sull’ultimo ‘vero’.

Anche se non ho intenzione di compilare un catalogo delle difficoltà che deve affrontare la famiglia ricomposta, non posso fare a meno di ricordarne alcune che più frequentemente mi capita di incontrare nella pratica clinica:

La gelosia nelle famiglie ricomposte

La gelosia verso il vecchio partner del/della compagno/a, che può essere ‘arricchita’ dalla gelosia verso i figli biologici del/della compagno/a. Si tratta di un sentimento che nasce dalla paura della perdita e da quella di non essere amato/a a sufficienza. Spesso come forma di autoterapia si pretende di avere un figlio biologico insieme al nuovo compagno/a.

Il timore del genitore biologico di essere soppiantato nel ruolo di padre/madre, dal nuovo/a compagno/a dell’altro genitore. Da questo timore, più o meno motivato, nascono spesso estenuanti battaglie giudiziarie che durano anni e anni.

Molta attenzione bisogna porre al sentimento di lealtà che il bambino e l’adolescente nutrono verso il genitore che percepiscono come più debole, di norma quello che ha ‘subito’ la separazione e il fallimento del primitivo progetto familiare. Questa lealtà va riconosciuta e legittimata e, nello stesso tempo, va incoraggiato il genitore ‘debole’ (il Roberto della storia iniziale di questo articolo) a iniziare un percorso di elaborazione della perdita.

Conclusioni

Naturalmente ci sono situazioni in cui le cose non sono così difficili, per esempio nel caso in cui il nucleo originario era perennemente permeato di tensione e violenza, psicologica e fisica: nella famiglia ricomposta anche i minori potranno trovare rassicurazione e dare senso positivo ai legami familiari in tempi piuttosto brevi.

Anche le famiglie ricomposte dopo una vedovanza o dopo una lunga storia di mono-genitorialità rappresentano di norma una occasione importante per ritrovare figure di riferimento affettuose ed equilibrate.

In ogni caso, se si affrontano con maturità e consapevolezza le crisi e le difficoltà, nel giro di tre-quattro anni, le famiglie ricomposte troveranno il loro modo soddisfacente di stare insieme e di relazionarsi serenamente anche con quei ‘frammenti’ che un tempo facevano parte di un’altra famiglia.

In definitiva le famiglie ricomposte diventeranno funzionali quando avranno elaborato la perdita; quando il nuovo partner non pretenderà di fare il genitore, ma anzi valorizzerà le funzioni educative dei genitori biologici; quando si accetterà che a far parte della narrazione familiare ci siano anche le storie precedenti alla nuova unione e, per finire, quando queste storie precedenti non saranno motivo di conflitto tra i nuovi partner.

Per tornare al pranzo di Natale, ricordiamoci che attorno alla tavola, quel giorno, non ci saranno solo i presenti: nel loro immaginario ci saranno anche gli assenti, quelli che sono seduti ad un’altra tavola ricomposta, e quelli che cercano di sfuggire ad uno straziante senso di solitudine. Parlare e raccontare di loro, con rispetto e sensibilità, mentre si sta facendo festa, è un modo per affrontare positivamente la crisi del Natale (e di Capodanno, di Pasqua, etc.).

 

I danni dell’alcol sugli altri: l’importanza di un intervento sui figli di genitori che abusano di alcol

Il consumo di alcol è uno dei principali fattori di rischio per le malattie croniche a livello globale (Rehm et al., 2009) e, nei paesi ad alto reddito, rappresenta circa il 27% delle morti premature tra i giovani (Toumbourou et al., 2007).

 

La valutazione dei fattori di rischio per il consumo di alcol dei giovani e i danni correlati è quindi importante. Nel tempo l’abuso di alcol può provocare una serie di gravi sintomi fisici e psicologici oltre a danni nella sfera sociale: in molti soggetti si riscontrano cambiamenti cognitivi, neurofisiologici e scarso funzionamento del dominio attenzione/esecuzione (APA, 2013).

I danni dell’alcol agli altri

Negli ultimi anni è cresciuto in letteratura l’interesse scientifico e politico per i ‘danni dell’alcol agli altri’ (Greenfield at al., 2009), che valuta i possibili danni ai bambini derivanti dal consumo di alcol da parte dei genitori. Numerosi studi hanno esaminato sia gli effetti dell’esposizione prenatale all’alcol, sia i possibili effetti sui bambini che vivono con genitori con gravi e duraturi problemi di alcol (Johnson & Leff, 1999). Alcune precedenti revisioni si sono occupate di studiare le associazioni tra il comportamento alcolico dei genitori e quello conseguente dei figli (Ryan et al., 2010); Queste risultano spesso statisticamente significative. L’abuso di alcol da parte dei genitori può portare a molte altre conseguenze negative per i figli come problemi cognitivi, emotivi, comportamentali e problemi di salute mentale in età adulta (Bountress & Chassin, 2015). A causa dell’incapacità di fornire un ambiente sicuro per i loro figli e di rispondere adeguatamente ai loro bisogni fisici ed emotivi, i bambini nelle famiglie in cui l’uso di alcol domina la vita familiare sono particolarmente vulnerabili e spesso si verificano altre avversità come la povertà, la mancanza di istruzione e i problemi di salute mentale, che possono complicare ulteriormente la vita dei bambini (Raitasalo et al., 2019).

Diversi studi in letteratura hanno dimostrato che nei contesti di trattamento per l’abuso di alcol, i bisogni dei figli sono raramente considerati; in molti paesi non ci sono abbastanza servizi che si occupano dei bambini e i professionisti che seguono i genitori dipendenti non sono formati per lavorare anche con i figli. Un ulteriore problema riguarda il fatto che i bambini sono di rado incontrati di persona (Cleaver, 2007) se non da alcune figure come infermieri, assistenti sociali, medici generici, insegnanti e operatori sanitari. Alcuni dati dimostrano, tuttavia, l’importanza di un intervento precoce per fornire supporto e monitorare il benessere dei bambini al fine di evitare l’aggravarsi dei problemi (Barnard & Bain, 2015). È importante quindi capire come la gravità dell’abuso d’alcol genitoriale sia legata a problemi nei figli.

Effetti dell’abuso di alcol da parte dei genitori

Uno studio del 2019, di Raitasalo e colleghi, si è occupato di verificare se la gravità dell’abuso di alcol da parte dei genitori fosse correlata ad un maggior rischio di sviluppare sia disturbi mentali e comportamentali nei figli, che ulteriori danni nei genitori stessi come difficoltà finanziarie, basso livello di istruzione e problemi di salute mentale. Lo studio ha utilizzato dati provenienti da registri nazionali di assistenza sanitaria e sociale (Haukka, 2004; Sund, 2012). Il campione era costituito da 57.377 bambini, 57.074 madri e 56.714 padri; bambini e genitori sono stati seguiti dalla nascita del bambino (1997) fino alla fine del 2012. La gravità del problema di alcol dei genitori è stata classificata in due categorie: aventi un problema di alcol meno grave se avevano solo una diagnosi primaria o secondaria ICD-10 (WHO, 2004) relativa a ubriachezza acuta o uso dannoso alcol; aventi un grave problema di alcol con una diagnosi primaria o secondaria ICD-10 di dipendenza da alcol. Inoltre i genitori sono stati classificati come affetti da disturbi psichiatrici se avevano una diagnosi ICD-10 di schizofrenia, disturbi schizotipici e deliranti, disturbi dell’umore, disturbi nevrotici, legati allo stress e somatoformi e disturbi della personalità. Infine come indicatori dello status socio-demografico dei genitori, gli autori hanno preso in considerazione l’istruzione post-secondaria, la povertà di lunga data (definita come coloro che hanno ricevuto assistenza sociale per più di 3 mesi all’anno per almeno 3 anni) e gli anni di convivenza con un bambino. Per quanto riguarda i bambini sono stati inclusi quelli aventi disturbi dell’umore, disturbi nevrotici, legati allo stress e somatoformi, disturbi dello sviluppo psicologico e disturbi comportamentali ed emotivi. I risultati mostrano che l’abuso di alcol sia del padre che della madre è correlato a disturbi mentali e comportamentali nei bambini, indipendentemente dalla gravità del problema, da altri disturbi, dal livello d’istruzione, dalle difficoltà finanziarie o dalla sistemazione abitativa. Solitamente l’abuso di alcol della madre ha un effetto più dannoso di quello del padre, soprattutto durante la gravidanza: i bambini esposti all’uso materno di alcol in gravidanza hanno maggiori problemi nello sviluppo cognitivo, psicosociale e alla salute mentale. Le donne con disturbo da uso di sostanze hanno inoltre più probabilità degli uomini di sviluppare disturbi psichiatrici come depressione, ansia, disturbi alimentari e minore autostima, di avere una storia di vittimizzazione o di aver subito violenza (Alexander, 1996).

In conclusione gli interventi per genitori e figli diminuiscono il rischio di diagnosi di disturbi mentali o comportamentali nei bambini: gli interventi psicosociali rivolti alle madri producono esiti positivi anche sui bambini; in aggiunta alcuni interventi basati sulla scuola, comunità e famiglia, che includono una formazione sulle abilità dei bambini e dei genitori, hanno un effetto positivo sulle abilità di coping, sul comportamento sociale, sull’autostima e sul funzionamento della famiglia. Interventi tempestivi e ben realizzati possono quindi aiutare a trovare delle linee d’azione in cui le autorità, gli operatori sanitari e i genitori prendano insieme le migliori decisioni sulla vita del bambino (Raitasalo et al., 2019).

 

Dave Grossman e la “killologia”

Dave Allen Grossman è il padre della killologia, ovvero lo studio delle reazioni di persone sane in circostanze di uccisione (come polizia e militari in combattimento) e sui fattori che consentono e limitano l’uccisione in queste situazioni

 

Dave Allen Grossman tedesco di origine, ma americano nel cuore, ad oggi è considerato dai più un guru nel campo della psicologia della forza letale. Tenente Colonnello dei Ranger dell’esercito americano, dove ha prestato servizio per anni fino al suo pensionamento, partendo dalla sua esperienza sul campo sia come militare in prima linea che come formatore, ha fondato il ‘Killology Research Group’ in cui, riportando la definizione dell’autore stesso, si occupa di quanto segue:

Lo studio accademico dell’atto distruttivo, così come la sessuologia è lo studio accademico dell’atto procreativo. In particolare, la killologia si concentra sulle reazioni di persone sane in circostanze di uccisione (come polizia e militari in combattimento) e sui fattori che consentono e limitano l’uccisione in queste situazioni (Grossman, 2016).

Grossman scrittore di diversi libri e seminarista, nel tempo sviluppa un pensiero decisamente interessante, da approfondire, che porta a conclusioni con importanti risvolti pratici.

L’avversione a uccidere secondo Dave Grossman

In ‘On Killing’, forse il suo libro più famoso, affronta il delicato tema dell’avversione a uccidere insita in ogni essere umano. Attraverso una meticolosa analisi che parte da dati raccolti nella Seconda Guerra Mondiale, fino ad arrivare alla Guerra del Vietnam, l’autore dimostra come in condizioni reali, solo una piccola percentuale dei militari realmente spari contro i nemici e come, solo attraverso un adeguato addestramento, questo limite possa essere superato (Grossman, 1996).

‘On Combat’, il prosieguo del primo libro, è invece rivolto all’analisi psicologica e fisiologica dei meccanismi che avvengono durante momenti di stress intenso. L’alterazione del sistema simpatico e parasimpatico viene messa in relazione allo sviluppo di importanti distorsioni cognitive che comportano modifiche nella percezione del tempo, visione a tunnel, alterazioni della percezione uditiva ed altri meccanismi di difesa con importanti implicazioni sulla performance dei militari. La loro conoscenza, unita a tecniche di rilassamento quali la ‘respirazione tattica’ e ad un’adeguata formazione, sia in simulazione che sul campo, permette di vincere almeno in parte questi ostacoli imposti dalla nostra fisiologia.

Inevitabile è la trattazione del Disturbo da Stress Post Traumatico, che viene descritto a partire dagli aspetti nosografici presenti sul Manuale dei Disturbi Mentali fino ad una sua trattazione in chiave maggiormente riflessiva.

Quella che forse rimane come pietra miliare è la classificazione che Grossman propone delle persone: le pecore che guardano ai loro affari, il lupo che si nutre delle pecore e il cane pastore (sheepdog) che protegge il gregge.

Il comportamento violento tra i giovani secondo Dave Grossman

Nell’ultima parte del libro traspare l’autore nella sua veste di formatore prendendo in analisi come l’uso di videogiochi violenti e, più in generale, dei media, unito ad altri fattori concomitanti, possa incidere in maniera importante sul comportamento dei giovani talvolta con risvolti davvero imprevedibili come il fenomeno delle stragi nelle scuole diffuso negli Stati Uniti (Grossman, Christensen, De Becker, 2004).

Un vero e proprio specchio dell’anima degli studi di Grossman, in cui assume particolare rilievo l’addestramento, viene senza dubbi dal celebre film d’azione ‘American Sniper’ (2014), in cui un tiratore scelto dei Navy Seal, durante la guerra in Iraq, riesce ad uccidere un numero spropositato di nemici: non a caso era proprio lui che da bambino passava intere giornate in compagnia del babbo andando a caccia. Ad oggi è programmato per uccidere?

Molto probabile! Resta il fatto che la regia è di Clint Eastwood, un tempo attore in quello che fu uno dei film cult degli anni ’80, ‘Gunny’ (1986), in cui un veterano sergente dei marine era intento ad occuparsi della preparazione di un gruppo di reclute destinate ad andare in missione.

È inevitabile che la regia venga influenzata da attori e trame del passato, trovando nella rappresentazione attuale un prodotto di indiscussa originalità.

Personalmente, mi sono interessato a Grossman leggendo ‘On Combat’ e studiando alcuni suoi video come verifica della sua liceità: l’epilogo è quello di un militare che ha fatto della propria esperienza tesoro, diventando col tempo formatore lui stesso, e che, attraverso la riflessione critica, affronta il delicato tema della violenza nella società.

 

Sex Robots: attrazione o repulsione? Uno studio sugli “Otaku”

Otaku è un termine controverso, che fa riferimento ad individui ossessionati dalla cultura giapponese, in particolare da manga, anime/animazione e videogiochi.

 

Sex Robots

Per molti anni i robot sono stati coinvolti nella produzione di automobili, prodotti chimici e altri beni industriali. La visione di una proliferazione di tecnologie robotiche è stata accolta con reazioni contrastanti (Gnambs & Appel, 2019); i robot simil-umani sono stati causa di scetticismo ed emozioni negative tra i potenziali utenti, in particolare nei confronti di quelli di tipo sessuale. Un sex robot può essere descritto come una bambola meccanica di aspetto e dimensioni simili a quelle umane che è in grado di eseguire rapporti sessuali per mezzo di genitali artificiali dotati di motore. Prototipi avanzati sono in grado di effettuare comunicazioni verbali, simulare diverse personalità ed esprimere divertimento, al fine di aumentarne il realismo antropomorfo. Alcuni studiosi si sono espressi a favore di restrizioni sull’ulteriore sviluppo dei sex robots, temendo un possibile rinforzo dell’oggettivazione, degli stereotipi di genere e delle forme non empatiche di incontro sessuale che si potrebbero accompagnare alla loro ascesa (Sullins, 2012).

Chi sono gli Otaku

Quello degli Otaku è un fenomeno subculturale iniziato in Giappone e che negli ultimi anni ha trovato ampia diffusione in Occidente. Otaku è un termine controverso, originario di un fenomeno culturale nato in Giappone, che fa riferimento ad individui ossessionati dalla cultura giapponese, in particolare dai manga (fumetti giapponesi), anime/animazione (film o serie con trame e personaggi del mondo dei manga) e videogiochi. In casi estremi, la loro passione tende ad isolarli dal mondo esterno assorbendoli, ad esempio, nella collezione di merchandising quale modellini, poster, waifu o costumi da cosplay (travestimenti per la riproduzione fedele di personaggi di film, fumetti, videogiochi) (Appel et al., 2019). Mentre nella cultura giapponese il termine Otaku può avere una connotazione negativa, in America questo termine indica semplicemente una forte passione e coinvolgimento per i manga ed/o anime (Urban Dictionary: Otaku, 2005).

Gli Otaku preferiscono trascorrere gran parte del tempo a casa, sono descritti come timidi, poco abili nei contatti sociali e, a differenza dei Geek (termine originariamente offensivo, che identifica un individuo ossessivamente interessato ed informato su un particolare argomento o esperto in un ambito; Peeples et al., 2018), sono principalmente interessati all’animazione, ai fumetti e ai giochi di origine asiatica (Kam, 2013).

Questi media coinvolgono prevalentemente manga e anime, tra cui robot umanoidi con sentimenti e comportamenti umani (Kinsella, 1998). I fan si divertono a guardarli, leggerli o giocarci e spendono una notevole quantità di denaro per il relativo merchandising (Niu et al., 2012). I risultati di diversi studi suggeriscono che alcuni fan (principalmente il gruppo di Weeaboo) sviluppano una stretta affinità pseudo-romantica con uno o più di questi personaggi fittizi, indicati come waifu (moglie) o husbando (marito) (Zeng, 2018). Weeaboo è un termine slang utilizzato per identificare individui con un’ossessione morbosa nei confronti del Giappone o della cultura giapponese che li porta al distacco o rifiuto delle loro origini. Tendenzialmente tendono a fare affidamento sugli stereotipi trovati nei manga, anime o videogiochi, avendo di conseguenza una percezione distorta dell’effettiva realtà giapponese. (Urban Dictionary: Weeaboo, 2017). Waifu (wifu) da wife (moglie), viene utilizzato per indicare il personaggio dei manga/anime da cui ci si sente attratti romanticamente e/o sessualmente. Il merchandising legato alle waifu comprende cuscini lunghi con stampe di personaggi dei manga, poster ed animazioni olografiche (Appel et al., 2019).

Okatu e sex robots

A causa delle loro caratteristiche, Appel et al. (2019) hanno preso in considerazione gli Otaku per identificare le differenze individuali che possono essere associate al fascino verso i sex robots (Fig.1).

Otaku uno studio su attrazione e repulsione verso i sex robots Fig 1

Fig.1: Sex robot simil-umani

I partecipanti sono stati reclutati tramite annuncio su MTurk (Amazon Mechanical Turk), limitando le risposte ai membri della comunità digitale presenti negli Stati Uniti. Il campione definitivo era composto da 261 partecipanti, mediamente trentacinquenni.

In un momento preliminare i ricercatori hanno preso in considerazione di presentare un sex robot (Ellix), un robot-infermiere ed un organismo geneticamente modificato (androide).

Il robot-infermiere è stato selezionato come termine di paragone al sex robot in quanto anch’esso ha un ruolo sociale che include il contatto fisico, anche se non sessuale, mentre l’organismo geneticamente modificato (androide) è stato incluso per rendere visivamente evidente la relazione fra uomo e macchina.

I ricercatori hanno previsto tre condizioni, una target e due di controllo, di cui ad ogni partecipante è stata assegnata una sola. La condizione target consisteva nel presentare Ellix come robot adibito a dare piacere sessuale.

Nella prima condizione di controllo Ellix è stata descritta come robot impiegato nell’assistenza, mentre nella seconda condizione di controllo veniva descritta come un elemento geneticamente modificato.

Sono state raccolte quattro dimensioni legate alle caratteristiche degli Otaku: (1) la propensione verso anime, manga o videogiochi, (2) il livello di interesse per la cultura giapponese, (3) la preferenza delle attività svolgibili in casa (al chiuso) e (4) il livello di timidezza.

Inizialmente è stato misurato il livello d’inquietudine provocato dalla lettura delle descrizioni proposte e secondariamente i partecipanti hanno attribuito un punteggio alla tecnologia presentata che andava da -3 a +3.

Statisticamente sono state indagate tre relazioni: (a) focus dimensionale sulle differenze individuali e risposte ai sex robots, (b) rapporto fra differenze individuali e robot umanoidi con diverse mansioni, (c) associazione fra differenze individuali e risposta alle tecnologie ibride.

Ad oggi si pensa che i sex robot siano prossimi ad occupare una quota sostanziale e multimiliardaria nel settore tecnologico del sesso, sebbene molti degli attuali prototipi non siano probabilmente abbastanza sofisticati per essere commercializzati in massa (Kleeman, 2017). Il gruppo subculturale degli Otaku è stato scelto come punto di partenza non per esaminare le interazioni uomo-robot reali ma per indagare le risposte dei potenziali futuri utenti in merito alle innovazioni robotiche presentate nell’esperimento.

Dallo studio è emerso che i sex robots vengono percepiti come più inquietanti rispetto ai robot-infermieri e, per questo, i partecipanti erano meno inclini ad acquistarli. A tal proposito, la timidezza è risultata essere un predittore rilevante per le intenzioni di acquisto dei sex robots da parte degli uomini. Per quanto concerne la differenza di genere, le donne si sono dimostrate più riservate rispetto agli uomini e le loro valutazioni complessive sono state particolarmente negative nei confronti dei robot sessuali rispetto a quelli infermieristici.

I risultati hanno confermato che avere una propensione per anime, manga, giochi e attività al chiuso può portare ad una relazione significativamente positiva con il fascino per tutte e tre le tecnologie esaminate, evidenziando come entrare in mondi immaginari possa portare ad una maggiore accettazione delle tecnologie in generale (cfr. Mara & Appel, 2015; Appel et al., 2016).

Un numero crescente di giovani sembra preferire mondi immaginari a quelli reali, amici virtuali a quelli fisici e, come indicato dalla presente ricerca, robot sessuali a partner umani, pertanto le ricerche future dovranno tenere in considerazione le origini e i meccanismi alla base di queste tendenze.

 

I veri bisogni personali al tempo del Covid, la scoperta del Sé come regolatore dell’ansia

Sono gli adulti che hanno trovato un equilibrio tra ansia e paure ad essere in grado di aiutare bambini e adolescenti ad esprimere e gestire le emozioni suscitate dalla pandemia.

 

Il modello globale della società contemporanea è stato notevolmente messo in crisi dalla pandemia Covid, non solo per il ridimensionamento della sua aspirazione all’allargamento dei confini fisici ma anche per la frustrazione dei bisogni intrinseci, afferenti alla sfera del soggetto in rapporto con se stesso. Come Maslow ci ricorda, (in Motivation and Personality del 1954) i bisogni sono il propulsore della persona e in base al loro ordine gerarchico influenzano più o meno ampiamente i suoi vari aspetti: da quelli esclusivamente fisiologici fino ad arrivare alla psiche. Con la nuova situazione emergenziale che siamo stati tutti costretti a vivere, dalla famosa piramide con cui Maslow li ha classificati, i veri bisogni emergenti non sono stati quelli di base (mangiare, bere, dormire), bensì i bisogni sociali e di realizzazione del Sé. In particolare, gli adolescenti e i bambini sono stati travolti dall’emergenza sanitaria e menomati nelle loro più ordinarie ed esistenziali aspirazioni: la socialità, l’educazione, il movimento fisico, il gioco, le attività ricreative, ma anche la motivazione a fare, la paura. Quali ricadute emotive ci possono essere sui ragazzi? Com’è possibile attuare un supporto adeguato alla loro età e alle loro esigenze per affrontare le conseguenze delle ripercussioni della pandemia?

Pandemia e bisogni in età evolutiva

La risposta a queste domande non è un fare, non una strategia, un modello di comportamenti da applicare, ma la riscoperta che l’origine del senso di sicurezza nel bambino è in una relazione.

È in essa, esprimendosi in una riflessione apparentemente assai elementare, l’unica possibilità di accorgersi primariamente dei loro bisogni.

Chi deve accorgersi dei loro bisogni primari? Quegli adulti che, avendo trovato un personale equilibrio tra ansia e paure, possano aiutare i minori ad esprimere le loro emozioni e affrontare rispettive paura e ansia. Si tratta qui di bisogni altrettanto primari, anche se non sono come il mangiare e il bere.

Non è affatto scontato che questi adulti siano i genitori, ma questi possono essere messi in grado attraverso un sostegno alla genitorialità, ad ampio spettro, di acquisire la consapevolezza dei loro limiti e dei loro punti di forza. Per i più piccoli, in particolare, è fondamentale la possibilità di immedesimazione con le potenzialità riparatrici dell’adulto: da questi essi possono imparare, non tanto dei comportamenti, quanto lo sguardo con cui essi si muovono nella realtà. I bambini imparano per osmosi, respirano l’essere dei genitori più che assimilare i loro precetti, seppure saggi e legittimi, funzionali, in molte situazioni. Infatti, i piccoli sono più spaventati dalla paura dell’adulto che dalla paura che nasce direttamente dal pericolo.

L’esperienza mostra con evidenza quanto sia fondamentale restare su un piano di realtà: i genitori non sono invincibili, non sono super-eroi, ma persone che mostrano come si possa stare umanamente di fronte ai pericoli, anche quelli invisibili dei virus. Come si evince, in programma non c’è un fare, delle regole da applicare e far applicare, ma la consapevolezza di una relazione, di essere in relazione con i propri figli. Da questa consapevolezza nasce pure un fare, ma secondariamente.

Come ci ricorda Kohut (e la sua Psicologia del Sé), il punto centrale dell’educazione (che è quel tipo peculiare di relazione che intercorre tra genitori e figli) è porre il focus sulle relazioni esterne come condizione per l’autostima e la coesione del Sé.

Possiamo capire di più di questa relazione se ne consideriamo l’elemento centrale: il Sé, fulcro della teorizzazione di Kohut. Si tratta di un concetto che si riferisce ad un aspetto molto reale e concreto della personalità – di un adulto e di un bambino –  perché la vita psicologica fin dal suo inizio è una relazione tra il Sé e l’oggetto-Sé. Quest’ultimo è, nel tema che stiamo trattando, il genitore, ed ha una funzione di supporto narcisistico allo sviluppo dell’identità del bambino.

Ci viene in soccorso la psicoanalisi per mostrare un dato di realtà: i genitori (o il caregiver in generale) concorrono sia al mantenimento degli investimenti del Sé, sia all’esperienza nei figli di sentire i genitori stessi come parte del proprio Sé. Kohut chiama internalizzazione trasmutante quel processo naturale attraverso cui il bambino assimila a poco a poco le funzioni psicologiche, che gli sono fornite inizialmente dall’oggetto esterno.

Prima di un evento terrorizzante, come può essere lo stravolgimento dello stile di vita causato dalla pandemia, vi è pertanto la personalità; l’evento terrorizzante non infierisce su un terreno incolto, ma su un campo con una sua precisa destinazione a coltura, coltivata dalla relazione genitoriale: una personalità che, nel rapporto con i genitori, ha potuto prendere una direzione piuttosto che un’altra.

Lo sviluppo equilibrato e funzionale si appoggia su un ambiente responsivo nei confronti dei bisogni del bambino, ma questi bisogni sono innanzitutto di legame e di appoggio.

Dopo Freud, sia esso investito di libido o di affetti, che sia interno oppure esterno, è incontestabile che l’oggetto (in psicoanalisi si intende la persona, qui il genitore) svolga una funzione essenziale nel processo di maturazione e sviluppo del bambino, attraverso cui passa quel nutrimento emozionale, primario bisogno.

Emozioni e pandemia

Sono proprio le emozioni il tema dominante in questa pandemia. Le emozioni possono essere contenute se il genitore fa l’esperienza di essere il contenitore adeguato al bambino. Come il terapeuta nella psicoterapia non deve sostituire la posizione narcisistica del paziente con un amore oggettuale (cioè frustrare l’espressione del Sé del paziente perché la scelta oggettuale sembrerebbe più matura), così il genitore può calmare il bambino non innanzitutto insegnandogli/imponendogli dei comportamenti esteriori di fronte a una difficoltà, ma facendo emergere, conoscendo le risorse del bambino, i suoi aspetti personali (per alcuni bambini può essere la curiosità di conoscere, per altri la rassicurazione di un abbraccio, per altri ancora la conoscenza logica di un fatto, ecc ecc, a seconda delle caratteristiche evolutive specifiche di ciascun bambino, nel momento preciso del suo sviluppo) così da convogliare queste caratteristiche verso una integrazione di quelle che sono strutture psicologiche primitive del bambino. L’integrazione cioè nasce dall’equilibrio delle diverse funzioni fisiologiche: la paura può non essere esclusivamente guidata dall’auriga dell’emotività, ma accompagnata alle altre funzioni della mente, facendo leva sulle caratteristiche del bambino. Appare ovvio che si tratti di un lavoro/strategia eminentemente personale, ad hoc per ciascuna relazione bambino/adulto. Nella vita ordinaria, non stravolta da eventi drammatici, è attraverso un rapporto che si stabilisce il Sé del bambino, nella misura in cui i caregiver rispondono empaticamante a certe sue potenzialità. Le risposte empatiche dell’ambiente sono quindi determinanti al fine di un funzionale ed equilibrato sviluppo psicologico del bambino. La ragione sta nel fatto che il genitore possiede un’organizzazione psicologica matura che può supportare l’organizzazione psichica del bambino, ancora incompleta e immatura. Per questo è importante innanzitutto come l’adulto affronta l’evento drammatico per sé, perché il come passa per osmosi al figlio.

La configurazione psicologica primaria del bambino, infatti, è costituita dal suo bisogno di un oggetto-Sé, per dirla con Kohut; non il desiderio del cibo, primariamente, ma il bisogno che la persona che si prende cura di lui gli fornisca il cibo, ossia il bisogno di essere nutrito in maniera empaticamente modulata.

Nei casi in cui si lasci insoddisfatto questo bisogno è l’intera configurazione psicologica del bambino, la sua unitarietà, che viene esperita come disintegrata.

Ovviamente, non si richiede ai genitori che sappiano rispondere in maniera empatica sempre e perfettamente, oppure che mostrino una ammirazione irrealistica per i propri figli.

Nello sviluppo ordinario o straordinario (come nel caso di pericoli dall’esterno) il Sé sano nasce dalla capacità dell’adulto di avere una risonanza speculare adeguata almeno per la maggior parte del tempo: infatti, come ci ricorda sempre Kohut, ciò che non è funzionale non è il fallimento occasionale dell’adulto, ma la sua incapacità cronica di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino. La risposta alla domanda iniziale, almeno nelle sue determinazione generali, sta dunque nella considerazione che il primo compito di un genitore non sia il  progetto educativo del bambino, ma una tentata consapevolezza di sé, come polo autonomo di giudizio e relazione.

Il vero ed essenziale bisogno è dunque crescere in un rapporto empatico e comprensivo (cum prehendere: tenere insieme, contenere elementi eterogenei) dove il bambino si senta accolto e contenuto nell’interezza della sua persona, premessa indispensabile per la realizzazione di un nuovo adulto.

 

La comprensione del testo: dalla teoria alla pratica (2021) di J. Oakhill, K. Cain K. e C. Elbro – Recensione

La comprensione del testo: dalla ricerca alla pratica (Oakhill, Cain, Elbro, 2021) è l’edizione italiana, a cura di Maria Giulia Cataldo, di un contributo di tre autorità internazionali nel campo della ricerca sulla lettura e la comprensione del testo.

 

La capacità di leggere un testo scritto è una delle abilità fondamentali che il sistema educativo ci trasmette nel corso del periodo di istruzione obbligatoria, e che viene insegnato in maniera sistematica fin dal primo anno della scuola primaria.

La sua importanza non può essere sopravvalutata. Immaginare un mondo dove fosse assente la possibilità di comunicare tramite scrittura e lettura è talmente difficile da sembrare assurdo. Semplicemente: parte della vita civile si regge sulla produzione, trasmissione e ricezione di testi scritti. Un individuo incapace di leggere e comprendere le semplici istruzioni di un cartello stradale o le indicazioni del medico, o un qualsiasi altro messaggio veicolato da un testo scritto sarebbe tagliato fuori dalla vita in società, incapace di adeguarsi alle sue norme e incapace di assorbirle, se non per tramite di altri.

Allontanandoci da questi estremi – il primo impossibile e il secondo, purtroppo, in parte reale in fasce molto svantaggiate della popolazione – possiamo poi considerare che la maggior parte della conoscenza ad oggi posseduta dall’uomo è veicolata da testi scritti, e che questa forma di trasmissione pervade la vita di una persona dall’infanzia alla tomba, definendone in varia misura anche il destino. Si pensi ad esempio all’importanza della lettura per il successo scolastico e per quello accademico, e come, in genere, questi si correlino al successo nella vita e al benessere (cfr. Smith, Firman, 2019).

C’è comunque una distinzione da fare e che ad un primo sguardo può sembrare superflua, ed quella tra lettura e comprensione di un testo scritto. Questa distinzione è fondamentale perché permette di cogliere tutti quei casi nei quali ad una piena capacità di decifrare con esattezza lo scritto non corrisponde la piena comprensione del contenuto veicolato dal testo, soprattutto se esso presenta sensi impliciti.

Ed è proprio per informare il lettore sulla ricerca riguardante la comprensione del testo e la sua applicazione all’insegnamento scolastico (ma non solo), che questo manualetto è stato scritto.

La comprensione del testo: dalla ricerca alla pratica (Oakhill, Cain, Elbro, 2021) è l’edizione italiana, a cura di Maria Giulia Cataldo, di un contributo recente (Oakhill, Cain, Elbro, 2015) di tre autorità internazionali nel campo della ricerca sulla lettura e la comprensione del testo.

Gli autori fanno riferimento alla letteratura più pertinente per mostrare, da una parte, che la comprensione durante la lettura è un processo complesso e articolato in diverse componenti (produzione di inferenze, vocabolario e background di conoscenze, sintassi ed elementi di coesione testuale, struttura testuale, monitoraggio della comprensione) e dall’altra che questa complessità non esclude in alcun modo la possibilità di accompagnare l’alunno nel miglioramento di ognuna di esse, utilizzando anche solo il tempo disponibile in classe.

Questo bel manuale di circa duecentodieci pagine presenta nove brevi capitoli di agevole lettura, preceduti da una prefazione, a cura di Barbara Carretto (Università di Padova), e una nota del traduttore. I capitoli sono organizzati in una struttura fissa che comprende: gli obiettivi che il capitolo si prefigge di raggiungere, il contenuto teorico e le evidenze empiriche ad esso relative, attività che coinvolgono il lettore nell’applicazione di quanto sta leggendo, un riepilogo, un glossario dei termini utilizzati e le risposte consigliate per le attività svolte.

Nel primo capitolo vengono introdotti alcuni contenuti che accompagneranno il lettore per tutto il manuale: la relazione tra decodifica di un testo e la sua comprensione; la distinzione tra lettori che hanno difficoltà in uno o nell’altro processo; il modello della ‘Simple View of Reading’; e infine l’assunto, che la ricerca supporta con abbondanti evidenze empiriche, che il lettore si rappresenti nella mente il testo sotto forma di un ‘modello mentale’, costruito a partire dalle informazioni che vi estrapola.

Nel secondo capitolo viene approfondita la nozione di modello mentale, vengono descritte le abilità e i processi a livello di decodifica e comprensione linguistica responsabili della comprensione di un testo scritto, vengono brevemente considerate le interazioni presenti tra essi, e viene posto in rilievo il ruolo della memoria.

Il terzo capitolo nella prima parte fornisce i riferimenti per tracciare una distinzione tra buoni e ‘cattivi’ lettori, articolata attorno all’importanza della comprensione del testo e dei processi ad essa relativi. La seconda parte del terzo capitolo è poi dedicata alle ragioni per le quali è importante identificare le due categorie di lettori e indica i modi per farlo, sia all’interno del gruppo classe che al di fuori di esso.

I capitoli dal quarto all’ottavo sono dedicati alla teoria e all’intervento sulle componenti della comprensione, e presentano ognuno uno schema fisso: la presentazione del costrutto oggetto di discussione, la modalità per la valutazione dell’abilità relativa, brevi informazioni sulle linee evolutive del suo sviluppo, chi potrebbe avere difficoltà e perché e, infine, indicazioni per migliorarne l’utilizzo.

Il quarto capitolo è dedicato all’inferenza, il processo di produzione di senso a partire dal testo. Viene presentata una distinzione interna alla categoria di inferenza tra inferenze necessarie ed inferenze elaborative, e sono fornite indicazioni su come valutare la capacità del bambino di produrle e su come migliorarla.

Nel quinto capitolo il focus è posto sul lessico. Viene presentata l’interazione tra conoscenza lessicale e comprensione di un testo e vengono forniti i parametri per la valutazione del vocabolario; sono infine fornite indicazioni per il suo sviluppo e il suo insegnamento.

La sintassi, e più in generale la struttura della frase, sono trattati nel sesto capitolo. L’attenzione è posta sulla coesione testuale e sugli elementi grammaticali che la costruiscono (ad esempio le anafore e i connettivi): in che modo facilitano la comprensione, come valutarne la conoscenza nell’alunno, come identificare difficoltà in questo ambito e come trasmetterne la conoscenza relativa e insegnarne l’uso.

Nel settimo capitolo vengono fornite le medesime indicazioni riguardo alla struttura del testo, basandosi primariamente sulla distinzione tra testo narrativo e testo informativo. Molto interessante secondo me anche per il lettore profano adulto e colto, la rassegna sulle diverse strutture del testo informativo (problema-soluzione, causa-effetto, descrizione, contrasto e confronto, sequenza) e le loro controparti grafiche miranti all’organizzazione delle informazioni estrapolabili da esso.

Il capitolo ottavo verte sul monitoraggio della comprensione, la sua importanza e i vincoli a cui è sottoposta; sono indicate alcune semplici strategie di riparazione (fix-up) della comprensione e sono suggerite modalità per migliorarla attraverso l’insegnamento.

Il nono capitolo, infine, fa sintesi e presenta alcune interazioni tra le componenti della comprensione trattate fino a quel momento, riportando il tutto allo scopo di creare un modello mentale del testo e mettendo questo compito in relazione agli scopi che il lettore si prefigge quando si accosta alla lettura, anche fosse solo per ricavarne piacere personale. Gli scopi infatti orientano i processi e le abilità di elaborazione e di conseguenza il modello mentale che verrà costruito.

Chiudono il libro un indice dei nomi e la bibliografia.

Il libro è dedicato ai professionisti dell’insegnamento scolastico, ai pedagogisti, e tutti coloro che a vario titolo sono impegnati nella formazione primaria. Il logopedista potrà cogliervi indicazioni per il potenziamento delle abilità di lettura nei bambini a sviluppo tipico. Il ricercatore in psicologia troverà una bibliografia aggiornata e un quadro globale di taglio applicativo sul problema della difficoltà di comprensione nella lettura, anche eventualmente per ipotizzare interventi brevi e focalizzati. Chi invece lo leggesse per migliorare le proprie capacità di lettura troverà un manuale chiaro e immediatamente fruibile, in grado di fornirgli maggiore consapevolezza e controllo sul processo globale di comprensione di quanto legge, permettendogli di fruire al meglio dei testi narrativi o informativi con i quali viene a contatto.

 

Sistema Limbico e amigdala

All’interno delle regioni cerebrali che costituiscono il sistema limbico, una funzione di vitale importanza è rivestita dall’amigdala.

 

Il nostro cervello è suddiviso anatomicamente in tre parti diverse – prosencefalo (o cervello anteriore), mesencefalo (o cervello medio) e romboencefalo (o cervello posteriore) – che originano a partire dalle prime settimane dello sviluppo cerebrale, più precisamente intorno al ventottesimo giorno dopo il concepimento. Il proencefalo a sua volta si suddivide in telencefalo, che comprende gli emisferi cerebrali, e diencefalo, che comprende principalmente il talamo e, alla base del cervello, l’ipotalamo.

Gli emisferi cerebrali sono due: quello destro, intuitivo, creativo ed immaginativo, deputato all’interpretazione emotiva e alla sintesi delle informazioni, e quello sinistro, logico, pratico e analitico, deputato all’analisi delle informazioni e specializzato nei processi linguistici. I suddetti emisferi, coperti dalla corteccia cerebrale, contengono due strutture fondamentali, cioè i gangli della base, un raggruppamento di nuclei sottocorticali coinvolti nel controllo del movimento che operano in sintonia con il sistema cortico spinale, e il sistema limbico.

Il sistema limbico

Il sistema limbico è una struttura primitiva, che scambia informazioni con diverse aree cerebrali e che per lungo tempo è stata oggetto di studio della psicobiologia e della psicologia fisiologica: il neuroanatomista Papez, nel 1937, ipotizzò per primo l’esistenza di un circuito di aree neurali interconnesse tra di loro, in cui collocò la radice biologica e fisiologica delle emozioni; tale circuito, detto “Circuito di Papez”, comprenderebbe le vie del cervello che congiungono la corteccia cingolata, l’ippocampo, il talamo e l’ipotalamo. Il sistema limbico così come lo conosciamo oggi venne concettualizzato dal fisiologo MacLean qualche anno dopo, nel 1949: MacLean vi incluse altre strutture e coniò come terminologia identificativa sistema limbico. Il sistema limbico consiste in un complesso di strutture cerebrali, che comprende strutture corticali (il giro del cingolo, il giro ippocampale e la parte ventro-mediale della corteccia temporale) e strutture sottocorticali (i nuclei talamici anteriori, la corteccia limbica, l’amidgala, l’ippocampo, il talamo, l’ipotalamo, il fornice – un fascio di fibre nervose interconnesse tra di loro -, il bulbo olfattivo, il setto e parte dei gangli della base).

Esso si configura dal punto di vista funzionale come un sistema omeostatico, pulsionale, vegetativo ed affettivo, che assolve a funzioni paragonabili ad aree sensoriali primarie ed associative: è implicato nell’integrazione dell’olfatto, nei processi di apprendimento e memorizzazione, nella presa di decisione, nell’elaborazione delle emozioni e delle risposte vegetative che le accompagnano, organizza le risposte comportamentali indispensabili per la sopravvivenza dell’individuo e influenza percezioni, comportamenti e attività cognitive sulla base dello stato emotivo ed affettivo. Sicuramente, all’interno delle regioni cerebrali che costituiscono il sistema limbico, una funzione di vitale importanza è rivestita dall’amigdala, una struttura a forma di mandorla localizzata nel lobo temporale, vicino al ventricolo laterale, composta da tre nuclei (basale, centrale e laterale), che memorizza ed elabora l’esperienza emotiva e i processi decisionali.

Sistema limbico e amigdala

L’amigdala è la sede dei ricordi emotivi, il centro di controllo del comportamento inconscio e istintivo e di identificazione del pericolo, valuta l’intensità emotiva delle situazioni e conserva sensazioni correlate a ricordi, traumi infantili, momenti di sofferenza vissuti, angosce e fobie. Grazie alla connessione con il lobo frontale, gestisce le nostre emozioni, modula sensibilità affettive ed interpreta situazioni sociali complesse nel contesto di scelte che inducono diverse emozioni; grazie alla connessione con l’ipotalamo, impregna di colore emotivo i processi basilari associandoli a risposte fisiologiche e vegetative. L’amigdala è la prima struttura cerebrale che si attiva quando insorge un’emozione complessa come la paura e ci aiuta a riconoscere le potenziali minacce alla sopravvivenza fisica e psicologica: quando intercetta uno stimolo potenzialmente pericoloso, attiva il ramo simpatico del sistema nervoso autonomo che, tramite l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, provoca a sua volta la secrezione di catecolamine e di cortisolo, rispondenti alla situazione d’allarme. Si aziona di fronte a stimoli ambientali e a stimoli interni come pensieri e preoccupazioni ed interpretando eventi stressanti fa emergere disturbi psicologici come ansia, stress e attacchi di panico correlati a stimoli che fungono da innesco emotivo. Pare che l’amigdala degli uomini abbia dimensioni morfologiche maggiori rispetto a quella delle donne, cosa che spiega il fatto che negli uomini si riscontri una maggiore predisposizione all’aggressività.

 

Trattamenti per il Disturbo dell’Orgasmo Femminile: una revisione

Il Disturbo dell’Orgasmo Femminile è definito come l’assenza, ritardo, infrequenza o marcata diminuzione dell’intensità dell’orgasmo in almeno il 75% delle esperienze sessuali.

 

L’orgasmo, definito come ‘il rilascio improvviso e involontario della tensione sessuale’ (Nagoski, 2015), è una componente fondamentale della soddisfazione sessuale sia per gli uomini che per le donne (Laan & Rellini, 2011). Per molte donne però, l’assenza o la difficoltà nel raggiungere un orgasmo è un evento molto comune: a livello nazionale, la difficoltà nel raggiungere un orgasmo colpisce circa il 16/28% delle donne negli Stati Uniti, Europa, Centro e Sud America e Cina continentale e fino al 46% in altri paesi asiatici (Laan et al., 2013; Zhang et al., 2017)

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) (APA, 2013) il Disturbo dell’Orgasmo Femminile (Female Orgasmic Disorder – FOD) è definito come l’assenza, ritardo, infrequenza o marcata diminuzione dell’intensità dell’orgasmo in almeno il 75% delle esperienze sessuali, che persiste per almeno 6 mesi provocando angoscia. In base al momento di insorgenza e al contesto in cui il disturbo si manifesta può essere classificato in: permanente (se la donna non ha mai raggiunto un orgasmo) o acquisito (se è stato raggiunto in passato ma al momento sperimenta difficoltà), generalizzato (in ogni contesto) o situazionale (esclusivamente in determinate situazioni).

Esso, in qualunque forma, può comportare difficoltà legate a molteplici aspetti della condizione: alcune donne riferiscono sentimenti di inadeguatezza, possono sentirsi come se ci fosse qualcosa di ‘sbagliato’ in loro, possono percepire delusione nei loro partner, possono sentirsi come se si stessero ‘perdendo’ una preziosa esperienza di vita (Rowland et al., 2018).

Fattori legati al Disturbo dell’Orgasmo Femminile

I fattori che possono influenzare lo sviluppo del Disturbo dell’Orgasmo Femminile sono sia di natura fisiologica e neurologica che psicosociale. Ad esempio, fattori fisiourologici e medici possono includere la disfunzione dei muscoli del pavimento pelvico, cambiamenti ormonali (menopausa o contraccettivi ormonali), alcune tipologie di farmaci e/o malattie croniche. La maggior parte dei casi però sembra essere principalmente causata da fattori psicosociali. Tra questi vi sono fattori legati al contesto sociale, che possono riguardare proibizioni culturali, divieti religiosi o atteggiamenti negativi verso il piacere piacere sessuale femminile, mancanza di informazioni sulla sessualità, atteggiamenti sul sesso. Fattori emotivi e psicologici che includono depressione, ansia, bassa autostima, vergogna o imbarazzo legati al sesso, problemi di immagine corporea, inibizione sessuale e esperienze sessuali passate traumatiche. Infine, i fattori di relazione intima che possono contribuire includono la soddisfazione generale del rapporto, i problemi con il desiderio per uno o entrambi i partner, disfunzioni sessuali del partner, mancanza di abilità o interesse del partner nel sesso, scarsa comunicazione e repertorio sessuale limitato (Marchand, 2021).

Trattamenti per il Disturbo dell’Orgasmo Femminile

Una recente revisione (Marchand, 2021) si è focalizzata sui trattamenti utilizzati per il Disturbo dell’Orgasmo Femminile individuando quelli con maggiore efficacia. I trattamenti presi in considerazione nello studio sono di seguito elencati.

Psicoterapia

Psicoterapia è un termine ampio che indica il trattamento di preoccupazioni psicologiche ed emotive attraverso il parlare e trovare strategie per affrontare i problemi in collaborazione con un terapeuta professionista. Può essere eseguita in forma individuale, di coppia o di gruppo e può includere una varietà di interventi e approcci teorici.

Masturbazione diretta

Ad oggi, le attuali raccomandazioni di best practice prevedono l’inclusione di questa componente nel trattamento di prima linea del Disturbo dell’Orgasmo Femminile (Laan et al., 2013). La masturbazione diretta è una tecnica cognitivo-comportamentale basata sulla consapevolezza che comporta l’esposizione graduale alla stimolazione genitale, avvalendosi di strumenti psicologici per migliorare l’attenzione ai segnali sessuali, includendo anche la stimolazione con vibratori. Questa tecnica punta a ridurre l’ansia e lo spectatoring, concettualmente intesa come una forma di fissazione cognitiva sulle percezioni di sé negative durante l’attività sessuale, identificando e sfidando atteggiamenti e credenze non utili sul sesso, e implementando strumenti per aumentare l’eccitazione, come la fantasia o materiali erotici (Laan & Rellini, 2011; Laan et al., 2013)

Desensibilizzazione sistematica

La Desensibilizzazione sistematica è una terapia basata sull’esposizione ad un evento/elemento ansiogeno specifico: la persona crea una gerarchia di esperienze temute per poi esporsi gradualmente dalla meno alla più ansiogena, fino a quando il soggetto sperimenta poca o nessuna ansia in merito alle situazioni precedentemente temute (Lazarus, 1963). Può essere in vivo o immaginario ed è stato testato per ridurre l’ansia e promuovere il piacere e l’orgasmo in situazioni sessuali.

Focus sensoriale

Il Focus Sensoriale è una tecnica comportamentale basata sulla consapevolezza con il fine di ridurre l’ansia e aumentare l’attenzione alle sensazioni fisiche durante attività di coppia (Weiner & Avery-Clark, 2014). Prevede lo scambio di carezze sul corpo dei partner in un contesto non impegnativo, dapprima escludendo il contatto con i genitali o il seno e in seguito incorporando quelle aree man mano che gli individui acquisiscono comfort e capacità di prestare attenzione alle sensazioni corporee.

Educazione sessuale

Gli individui sono invitati a visualizzare del materiale educativo che può comprendere diapositive, foto e/o video di masturbazione e attività sessuale.

Biblioterapia

La biblioterapia è una tipologia di trattamento che prevede l’utilizzo di un libro che ha lo scopo di guidare una persona attraverso il trattamento a casa.

Tecnica di allineamento coitale (Coital Alignment Technique – CAT)

La CAT è una posizione per il rapporto eterosessuale che posiziona i partner in modo che il bacino dell’uomo stimoli il clitoride della donna durante la spinta. Questo può essere uno strumento utile per le coppie da usare per aumentare la stimolazione clitoridea e il piacere femminile durante il rapporto, ma questa tecnica non è stata stata testata specificamente su donne con FOD.

Conclusioni

La revisione mostra un supporto più consistente per la masturbazione diretta, per il focus sensoriale e per la psicoterapia. L’educazione sessuale è una componente standard di questi approcci e può fornire valore terapeutico di per sé. L’inclusione dei partner nel trattamento può essere utile in alcuni casi, soprattutto quando la difficoltà orgasmica si verifica principalmente con un partner specifico, nonostante sia stato dimostrato che i benefici del trattamento individuale si generalizzano alle situazioni di coppia (Kuriansky et al., 1982). La desensibilizzazione sistematica, il CAT training e la biblioterapia non hanno dimostrato prove di efficacia come modalità primaria di trattamento.

Rimangono tuttavia quesiti irrisolti: perché i trattamenti esistenti non sono efficaci per alcune donne? O ancora, perché non ci sono state innovazioni significative nel trattamento del disturbo dagli anni ’80? Future ricerche potrebbero far luce su meccanismi attualmente poco chiari, come le motivazioni alla base della poca efficacia dei trattamenti su alcune tipologie del disturbo, comprendendone meglio l’eziologia, o su come adattare il trattamento dell’anorgasmia alle popolazioni multiculturali e comunitarie, che possono avere storie sessuali più più complesse.

 

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