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L’adolescenza ed il ruolo della scuola nella dispersione scolastica

La prevenzione della dispersione scolastica è volta a rendere consapevole lo studente delle proprie condotte ed ad avere un maggiore controllo delle proprie emozioni e del sé in generale.

 

Premessa

L’articolo è scritto per mettere in luce la gravità e la complessità del problema della dispersione scolastica, all’interno di precisi contesti sociali. Per tale problema risulta indispensabile l’attuazione di metodologie di intervento rivolte agli studenti, volte ad attenuare il rischio di abbandono scolastico. Molte di queste metodologie fanno parte di una prevenzione aspecifica del disadattamento che riguarda ‘tutti quegli interventi che scaturiscono da progetti mirati allo sviluppo di fattori protettivi e al contenimento di fattori generali di disagio personale e sociale, i quali possono ostacolare il percorso di adattamento del ragazzo’, che comprende tutte quelle attività ed i servizi rivolti a prevenire ed alleviare condizioni di deprivazione affettiva, sociale ed anche culturale; allo stesso tempo l’intervento di prevenzione prevede un’azione formativa rivolta ai docenti per poter interagire attivamente con gli adolescenti, attivando in loro alti livelli di partecipazione e di motivazione.

Dal punto di vista etimologico, il termine formazione deriva dal latino formatione, da formare, che, secondo il vocabolario Zingarelli, indica l’atto o l’effetto del formare o del formarsi professionalmente, ovvero si riferisce alla maturazione delle facoltà psichiche ed intellettuali dovute all’esperienza e allo studio.

Negli ultimi anni è stata riconosciuta l’importanza dell’esperienza formativa, intesa come un luogo deputato alla conoscenza-trasformazione delle singole individualità, ma altrettanto centrato sul rapporto tra le varie personalità che interagiscono fra loro e le attività condivise.

Secondo Gordon, la formazione è un sistema educativo volto ad aiutare un individuo ad educare se stesso.

Dispersione scolastica e ambiente scolastico

L’istituzione scolastica costituisce un ambito importante di socializzazione secondaria, all’interno del quale vengono costruite condotte e identità interattive, in cui si apprendono e perfezionano competenze sociali, in cui si svolgono una grande quantità di apprendimenti di natura sociale. Inoltre, in quanto istituzione pubblica, la scuola è fortemente coinvolta nei processi collettivi di costruzione di spiegazioni e di legittimazione di quei fenomeni (sviluppo, apprendimento, successo e insuccesso scolastico, gestione della diversità) sui quali la scuola stessa è chiamata ad agire quotidianamente.

Gli insegnanti, nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali, non possono che ricorrere a quelle stesse rappresentazioni che essi contribuiscono a generare, a sistematizzare e a perpetuare (Carugati e Selleri, 1996). Secondo l’autore Rutter producono risultati migliori, in termini di riuscita scolastica, quelle scuole in cui è incoraggiata la partecipazione attiva degli allievi, in cui viene messo in pratica l’ascolto reciproco fra insegnanti ed alunni. Nel presente articolo, lo spazio dedicato alla formazione, mira allo spostamento della centralità dei contenuti e delle metodologie didattiche, sino alla qualità della relazione, alla intenzionalità, ai processi di comunicazione e interazione, alla capacità dell’insegnante di facilitare gli alunni nella soluzione dei loro problemi e di essere congruente nella ricerca di una soluzione ai suoi stessi problemi.

In primo piano, la prevenzione della dispersione scolastica è volta a rendere consapevole lo studente delle proprie condotte ed ad avere un maggiore controllo delle proprie emozioni e del sé in generale.

Uno degli obiettivi generali da porsi, è quello di favorire una relazione produttiva tra gli insegnanti e gli studenti, al fine di attivare, in questi ultimi, maggiori livelli di motivazione e partecipazione alla vita scolastica.

Prevenzione scolastica: promuovere relazioni positive

Gli effetti di una buona relazione fra un adolescente e un adulto, si rispecchiano soprattutto se si tengono a mente e si mettono in pratica i seguenti punti sotto elencati:

  • promuovere l’accettazione dell’autorità dell’adulto;
  • stimolare l’espressione delle proprie emozioni e la comunicazione verbale e non verbale;
  • favorire la partecipazione all’attività di gruppo;
  • prevenire il fenomeno dell’abbandono scolastico;
  • incrementare la stima di sé e la fiducia nelle proprie potenzialità e nelle proprie competenze.

Per poter raggiungere i suddetti obiettivi, è preferibile il lavoro in équipe, per poter adottare le strategie metodologiche adeguate, caso per caso.

Un intervento preventivo del fenomeno di dispersione scolastica dovrebbe dunque prevedere degli incontri con gli insegnanti, quali:

  • seminari contestualizzati;
  • incontri di psicoeducazione;
  • lavori in sottogruppi per implementare un buon dialogo fra le parti;
  • incontri per la rielaborazione delle emozioni derivanti dal fenomeno dispersione scolastica (frustrazione, conflitto etc..);

Nel corso dei progetti preventivi del fenomeno di dispersione scolastica è bene dedicare spazio ad alcune aree tematiche, tra cui:

  • l’area dell’istruzione, in cui evocare aspetti relativi alla competenza professionale e alla didattica;
  • l’area relazionale, in cui evidenziare le abilità sociali e comunicative dell’insegnante, tanto nei confronti dei singoli allievi, quanto in rapporto alla conduzione del gruppo classe;
  • l’area della personalità, in cui soffermarsi sulle caratteristiche della persona, sui tratti idiosincratici.

Destinatari fondamentali, nei progetti di prevenzione della dispersione scolastica, sono gli studenti, per i quali si potrebbero strutturare vari incontri, quali:

  • discussioni di gruppo;
  • psicoeducazione e attività laboratoriali in sottogruppi;
  • giochi analogici;
  • somministrazione di un questionario (ex ante e post) di valutazione sulle aspettative e bisogni dei ragazzi che indaghi anche la relazione tra adolescenti e insegnanti.

Una variabile importante da analizzare, nel corso di tali interventi, è la dimensione relazionale, ossia l’area in cui si evidenziano le abilità sociali e comunicative dell’alunno, tanto nei confronti del gruppo classe, quanto in rapporto al gruppo docente, in relazione alle aspettative dell’alunno.

Anche la dimensione dell’istruzione risulta centrale, in quanto permette di analizzare come i ragazzi percepiscono le lezioni effettuate dagli insegnanti (chiarezza espositiva, interesse delle lezioni, coinvolgimento degli alunni durante la lezione).

Prevenzione della dispersione scolastica: progettare le fasi dell’intervento

L’articolazione di un intervento di prevenzione della dispersione scolastica dovrebbe prevedere più fasi.

In una prima fase sarebbe utile, ad esempio, organizzare un incontro per gli insegnanti e un incontro per gli alunni.

Gli incontri con gli insegnanti potrebbero essere dedicati all’analisi e all’accoglienza della domanda, mentre quelli con gli allievi all’analisi e all’accoglienza della domanda ed alla somministrazione di un questionario semi strutturato per indagare aspettative e bisogni dei ragazzi.

Utile potrebbe rivelarsi una fase di supervisione del fenomeno di dispersione scolastica, formata da incontri in cui vi sia la partecipazione congiunta di un’équipe di specialisti, quali psicologi specializzati e di coordinatori scolastici, per potere meglio collaborare ed indagare aspettative e bisogni di ciascuno studente.

I risultati attesi, a distanza di alcuni mesi, degli interventi preventivi così strutturati, riguardano innanzitutto gli studenti: tramite determinati progetti ci si attende un incremento della frequentazione scolastica, derivante dall’attivazione di livelli motivazionali come fattori stimolo per una maggiore partecipazione alla vita scolastica.

Da parte degli insegnanti invece ci si attende una maggiore presa di coscienza del ruolo istituzionale e della funzione socio educativa.

 

Il progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e disturbo dello spettro autistico: una teoria integrata

Punti chiave del progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e autismo riguardano massima autonomia possibile, sostegno alla famiglia, valutazione degli aspetti psicopatologici e tecniche basate su una teoria psicoeducativa con base scientifica (Keller, 2016).

 

Introduzione

Questo articolo propone un’ipotesi per strutturare un progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e/o disturbo dello spettro dell’autismo. I seguenti paragrafi ne prenderanno in esame i punti fondamentali, proponendo un’ottica integrata, ovvero l’utilizzo di diverse teorie che insieme possano essere utili nell’ambito riabilitativo. L’obiettivo di questo articolo è promuovere la ricerca clinica riguardo la riabilitazione per l’età adulta, migliorare il trattamento promuovendo la comunicazione tra psicologi, terapisti ed educatori, promuovere l’utilizzo di tecniche su base scientifica. Infine, l’obiettivo centrale è la riaffermazione dell’individuo al centro del progetto, l’importanza della relazione e del linguaggio, il rispetto del paziente e la condivisione completa degli obiettivi.

Riformulazione del progetto nell’ottica dell’autodeterminazione

Nella stesura di un progetto riabilitativo per l’età adulta, si ritiene necessario considerare come costrutto di cornice generale quello dell’autodeterminazione. Cottini (2016), riassume la definizione del termine in quattro componenti fondamentali. L’autonomia, ovvero la capacità di scegliere in base ai propri interessi, in modo indipendente. L’autoregolazione tramite il monitoraggio delle attività, autogestione generale, il conseguimento degli obiettivi, il problem-solving e l’acquisizione di maggiore controllo della propria vita. L’empowerment psicologico che si concretizza assumendo un locus of control interno e maggiore autoefficacia, aumentando di conseguenza la fiducia in se stessi. La quarta componente è l’autorealizzazione, che dipende molto dalla consapevolezza dell’individuo dei propri punti di forza, dei limiti, influenzata dal proprio ambiente e dalle valutazioni che gli altri fanno dell’individuo. L’autodeterminazione dovrebbe rientrare anche nel parent-training dei genitori con figli adulti, per incentivarli alla fiducia e la scoperta delle capacità decisionali dei figli. Inoltre il maggiore livello di autodeterminazione è spesso collegato ad un aumento nella qualità della vita dell’individuo con disabilità. Alcuni prerequisiti su cui lavorare, in particolare nello spettro dell’autismo, sono l’attenzione, la memoria, le funzioni esecutive complesse, il linguaggio, le capacità prassiche e l’orientamento spaziotemporale (Keller, 2016).

Il progetto individualizzato: la persona al centro

Nell’ambito della cura Geldard e Geldard (2002) propongono di tenere in considerazione l’approccio centrato sulla persona di Carl Rogers, secondo cui la relazione è più importante del problema e la persona più importante della soluzione. Secondo il modello di Rogers, le tre caratteristiche primarie per aiutare gli altri sono la congruenza, l’empatia e l’attenzione positiva incondizionata. Gli autori del testo propongono delle tecniche applicate al counseling che possono essere utilizzate anche in un progetto riabilitativo, in modo particolare le caratteristiche fondamentali, ovvero la fiducia, il rispetto dell’altro, l’empatia, l’accettazione, la sicurezza, la sincerità e l’expertise del paziente, che è l’unico a poter suggerire la migliore soluzione per se stesso.

Inoltre, ogni progetto individualizzato dovrebbe essere fondato sull’ascolto attivo e l’autenticità del terapista (Geldard & Geldard, 2008), disposto a creare un rapporto esistenziale e di mentoring con la persona che sta entrando nell’età adulta.

Punti chiave del progetto riguardano l’obiettivo della massima autonomia possibile, prevedibilità e comunicazione aumentativa alternativa in caso dello spettro dell’autismo, sostegno alla famiglia, valutazione degli aspetti psicopatologici e utilizzo di tecniche basate su una teoria psicoeducativa con base scientifica (Keller, 2016).

La diagnosi con l’ICF

La classificazione internazionale del Funzionamento, della disabilità e della salute, nota come ICF (WHO, 2001), ha lo scopo di fornire un linguaggio standard e unificato come riferimento per la descrizione della salute e degli stati correlati ad essa. I domini della salute riguardano le funzioni e strutture corporee, l’attività e partecipazione, e un’analisi dei contesti ambientali. Il termine “funzionamento” indica nel manuale la comprensione di questi domini, in cui la disabilità è intesa come termine per le menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della partecipazione alla vita pubblica. Complementare all’ICD e al DSM-5 (APA, 2013), gli scopi dell’ICF sono quelli di fornire una base scientifica, un linguaggio comune, un possibile confronto fra dati raccolti in paesi diversi, un sistema di codifica unico, che può essere utilizzato per qualsiasi individuo, non solo chi possiede delle specifiche diagnosi, sia in ambito clinico, statistico, di ricerca o educativo. Il manuale si fonda anche su scopi di politica sociale, ritenendo di non classificare le persone, ma di descrivere le situazioni di ciascuna, in una serie di domini della salute e degli stati ad essa correlati. L’analisi dei fattori ambientali in cui vive una persona sono fondamentali nel manuale, poichè la disabilità viene intesa come la conseguenza di una relazione tra le condizioni di salute e i fattori personali, con i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. L’ICF, combina il modello medico, secondo cui la disabilità è un problema della persona causato da una malattia, con il modello sociale, il quale vede la questione come un problema creato dalla società. Sarebbe quindi responsabilità collettiva nel suo complesso, l’implementazione di modifiche ambientali necessarie alla partecipazione delle persone con disabilità nella vita sociale.

Conoscere l’ICF è importante, inoltre, per la gravità di ogni singolo problema, la necessità di un facilitatore, la valutazione dei miglioramenti, e la sistematizzazione del progetto riabilitativo. Utilizzare un manuale completo permette di prendere in considerazione in modo ordinato tutti gli aspetti del funzionamento di una persona, osservando quali funzioni necessitino di supporto, e considerando questi aspetti per gli obiettivi riabilitativi del progetto.

Il linguaggio e il colloquio nella disabilità

La prosodia è un aspetto di cornice fondamentale durante tutta la terapia. In particolare un tono di voce calmo è utile alla sintonizzazione con il paziente, oltre che favorire l’attivazione del nervo vago, il quale costituisce un freno per i sistemi cerebrali primitivi (Porges, 2011; Dana, 2018).

Nella formulazione della frase, soprattutto nei casi difficili di credenze patogene invasive, può essere utile consultare il metodo proposto per la schizofrenia dalla terapia metacognitiva interpersonale (Salvatore et al., 2017).

Anche il testo proposto da Geldard & Geldard (2005) fornisce alcune importanti indicazioni su come effettuare il colloquio in maniera efficace. Il metodo principale è quello del parafrasare, ovvero riassumere il discorso validando l’individuo, ad esempio sostenendo che quanto messo in atto è molto positivo. Utilizzare sempre parole che aprono alla riflessione (“ho avuto l’impressione che”; “l’idea che”; ecc…), cercando di non essere intrusivi, di non interrogare l’altro, di non creare disuguaglianze elevate, cercando di non usare il “perché”. Il terapista inoltre non dovrebbe seguire esclusivamente il proprio piacere ed i propri obiettivi, ma seguire le necessità del soggetto, l’agenda degli argomenti primari portati dal paziente. Riflettere sulla possibilità di scegliere tra una domanda chiusa (o con scelta multipla) ed una domanda aperta, a seconda della situazione e della persona che si ha di fronte, è un altro aspetto importante. Si può usare la “domanda del guru”, facendo immaginare al soggetto di essere un “guru molto saggio”, che potrebbe dare consigli a qualcuno nella sua stessa situazione, e pensare a cosa direbbe.

Si possono utilizzare anche domande “miracolose”, ovvero chiedendo come diventerebbe la vita ideale nel caso in cui le cose cambiassero improvvisamente.

Ci sono anche le domande sull’obiettivo, chiedendo ad esempio come sarebbe la propria vita senza la rabbia. Può essere utile fare domande utilizzando una scala da 1 a 10 (“quanto sei felice oggi da 1 a 10?”), riflettere sull’essenza del discorso, affermare sempre i punti di forza dell’individuo alla fine dell’incontro, non lasciandolo in preda a riflessioni, sentimenti o contenuti non rielaborati. La preparazione del paziente alla fine del progetto è un altro aspetto fondamentale, poiché nelle disabilità è probabile che si instauri una certa dipendenza del soggetto agli incontri.

È importante rispettare ed accettare l’altro nella sua totalità, non essere giudicanti. Si possono fare in alcuni casi delle confrontazioni rispettose, soprattutto quando il soggetto evita di accorgersi di aspetti autodistruttivi o pericolosi per se stesso e gli altri.

Normalizzare le emozioni, le difficoltà e validare l’altro restano sempre punti fermi in ogni dialogo. Si cerca di esprimere un diverso punto di vista tollerabile alla comprensione altrui, magari utilizzando una scheda che confronta le credenze autodistruttive con le possibili alternative.

Altri aspetti importanti del colloquio riguardano il riconoscimento costante di un futuro positivo e ottimista, la focalizzazione sul “qui ed ora” per evitare pensieri negativi e ansiogeni, l’esplorazione di diverse scelte possibili favorendo l’autonomia, le soluzioni creative, e superando i possibili blocchi suddividendo l’obiettivo in piccoli steps (Geldard, & Geldard, 2005).

Altre considerazioni sono inserite dagli autori in un altro testo (Geldard & Geldard, 2008), in particolare si suggerisce di essere proattivi, gestire con attenzione le self-disclousure, essere creativi, avere un’ottica psicoeducativa, usare il significato simbolico, utilizzare il role-reversal nelle esercitazioni pratiche e la trasformazione delle credenze negative in positive con tabelle presentate dagli autori. Si potrebbero anche disegnare dei cerchi concentrici con all’interno le persone importanti, gli amici, il proprio spazio personale e gli altri conoscenti, per aumentare la consapevolezza del soggetto.

Per il corretto andamento della terapia, e per favorire l’alleanza terapeutica, è importante fare attenzione al linguaggio, soprattutto per quanto riguarda il disturbo dello spettro autistico. Un adulto può aver raggiunto una consapevolezza maggiore rispetto al significato di alcuni modi di dire o di parole astratte, ma è importante porre attenzione. De Clerq (2006) sintetizza gli aspetti peculiari. Innanzitutto vi possono essere difficoltà con le parole che vanno di moda e che quindi posseggono un significato dovuto dal contesto. Le persone con autismo fanno fatica a comprendere gli aspetti impliciti della comunicazione ed i significati nascosti di una frase, possono avere difficoltà nel discriminare tra concetti simili (ad esempio confondere una parte con l’intero, un oggetto ed i loro complementi funzionali o equivalenti funzionali), ovvero confondere una ruota con una macchina, un rasoio con la barba. Può esservi un’eccessiva generalizzazione della parola (ad esempio “sedia” per ogni oggetto su cui ci si può sedere), bisogna spiegare lentamente i significati delle parole utilizzate in contesti sociali o sentimentali, fare attenzione alle parole poiché verranno intese in modo estremamente preciso e concreto. Le parole ambigue sono fonte di difficoltà, ad esempio usando “probabilmente”, “forse”, “credo”, “può darsi”, “tra un po’”, si rischia di indurre stati ansiogeni. Il terapista dovrebbe essere coordinato e non confondere linguaggio e azioni differenti. Durante l’insegnamento del vestirsi, sarebbe utile non giocare al cellulare o fare un’attività differente, altrimenti il soggetto assocerà le parole all’azione sbagliata che sta osservando nel terapista, quindi è importante pronunciare la frase di vestirsi mentre il ragazzo sta effettivamente compiendo l’azione. Di qui si collega anche l’ecolalia, poiché se successivamente ad un’azione, la persona con autismo ascolterà delle specifiche parole, ogni volta che l’azione si ripresenterà vi sarà un’associazione con quella parola. Altre caratteristiche sono il linguaggio letterale e la polisemia, e quindi una necessità di tempo maggiore per l’elaborazione e la comprensione del linguaggio. L’autrice ricorda che il linguaggio madre nell’autismo è sempre quello visivo. Inoltre i soggetti con autismo possiedono un’elaborazione monocanale, utilizzando un canale sensoriale per volta. Se per esempio il paziente deve concentrarsi sull’espressione facciale che ha durante una conversazione, può non essere in grado di controllare anche il tono della voce o l’ordine delle parole. Frasi come la seguente sono da evitare: “ti va giocare, no?”. È necessario essere diretti, con domande semplici. Una persona con autismo non è in grado di comprendere il senso di un racconto, ma può identificarsi molto con un certo personaggio. Possono esservi difficoltà nella comunicazione sociale, nella pragmatica della comunicazione, nella pianificazione e nell’organizzazione.

Monitoraggio della relazione

L’Analisi transazionale, fondata da Eric Berne, si occupa di diagnosticare quale stato dell’Io della persona ha provocato uno stimolo transazionale e quale ha reagito nell’altra. Uno stato dell’Io è un sistema coerente di sentimenti, sensazioni, pensieri e comportamenti (Berne, 1964; 1972).

Lo stato dell’Io Genitore (G) si caratterizza da modi di essere provenienti da ciò che è stato introiettato dai propri genitori e dall’educazione ricevuta, avendo una forte influenza parentale sul comportamento. Lo stato dell’Io Adulto (A) giudica oggettivamente una situazione in base all’esperienza, e cerca di prendere la decisione migliore in base anche alle probabilità. Lo stato dell’Io Bambino (B), si comporta come il soggetto faceva da bambino/a, risolvendo un problema con i metodi sperimentati nel “lí e allora”. Quest’ultima è una parte preziosa della personalità, ricca di creatività e fiducia.

Nella riabilitazione si può fare riferimento al diagramma strutturale semplificato di primo ordine dell’analisi transazionale, ed utilizzarlo non a scopo tecnico per la pratica riabilitativa, ma piuttosto può essere presente nella mente dello psicologo/terapista, per calibrare costantemente la relazione nella giusta direzione. L’analisi transazionale permette un ragionamento sulla relazione, riguardante lo stimolo transazionale del paziente, e la risposta del terapista, sia dal punto di vista strutturale che psicologico. La collusione con il paziente, in questa modalità, è intuitiva e facilmente osservabile dal professionista, che può scegliere quale stato dell’Io possa essere il migliore per la relazione. Si presentano alcuni esempi. Il terapista e il paziente potrebbero avere una relazione esclusivamente Adulto-Adulto (A-A), una relazione tra “collaboratori”, come chiamata da Berne (1970), la stessa che avviene tra il meccanico ed il suo aiutante, ovvero una relazione materialistica dove si parla esclusivamente di materiali di lavoro, motori o carrozzerie. La relazione Bambino-Genitore, rappresenta “l’ammirazione”, in cui il paziente ammira il terapista fidandosi di questi, seguendolo in ogni cosa che fa, abolendo il ragionamento critico. Se il terapista non stimola anche l’adulto del paziente, quest’ultimo eseguirà tutti gli ordini senza ragionare, sino anche ad innamorarsi. Una variante rappresenta il terapista che scende nello stato dell’Io Bambino, dando vita a birichinate tra bambini.

Nella relazione di “affetto”, il Bambino di una persona sollecita il Genitore dell’altra. Può capitare che il terapista assuma un atteggiamento di preoccupazione verso lo stato di salute dell’altro, avendo in carica uno stato dell’Io Bambino, assumendo una faccia da funerale per la disabilità del paziente, quando invece dovrebbe incentivare il ragionamento e ad esempio usare l’umorismo.

La transazione “dell’amicizia” non prevede la presenza dello stato dell’Io Genitore nella relazione. Gli amici non si criticano a vicenda, al massimo si danno consigli razionali oggettivi, si accettano a vicenda, chiaramente la relazione tra terapista e paziente è differente. Questi sono alcuni esempi, e naturalmente bisognerebbe fare attenzione a non entrare eccessivamente in una transazione di intimità, ricordandosi che si riveste un ruolo professionale.

Una relazione psicologica professionale deve essere probabilmente quanto più elastica possibile. Necessiterebbe di un certo grado di costante consapevolezza e monitoraggio. Lo stato dell’Io Adulto è fondamentale per riportare il soggetto sul qui ed ora, ragionare sul problem-solving e su tutto ciò che concerne l’autodeterminazione. Allo stesso tempo vi è necessità di assumere un ruolo genitoriale, in grado di accettare e consolare. La relazione terapeutica necessita anche del genitore normativo, ovvero di colui in grado di dare delle norme e delle regole, soprattutto nei casi di emergenza e comportamenti a rischio. Si consiglia di tenere sotto monitoraggio questo stato dell’Io, e di ridurlo se necessario, per non minare la relazione e risultare un genitore severo e negativo. I pazienti con disabilità intellettiva potrebbero aver avuto diverse figure genitoriali normative, le quali hanno dettato costantemente regole e imposizioni nella loro vita, il terapista deve fornire alcune regole, ma non dovrebbe essere l’ennesimo genitore. Lo stato dell’Io Bambino permette di avere fiducia verso l’altro, di non intervenire costantemente nel comandare le azioni del paziente, ma di dargli spazio e possibilità per provare da solo. Il terapista non dovrebbe inseguire costantemente i risultati terapeutici a scapito della relazione e dei tempi di apprendimento della persona, non dovrebbe correre narcisisticamente verso il traguardo, bensí dare la possibilità di raggiungerlo favorendo l’autonomia del paziente.

 

Personalità: stabilità e cambiamento

Nel linguaggio comune, una persona autorevole spesso viene definita come una persona con ‘molta personalità‘, mentre una che stimiamo viene etichettata come avente una ‘bella personalità‘.

 

La definizione di personalità indica delle qualità psicologiche che formano delle strutture coerenti e stabili nel tempo, cioè persistenti, che caratterizzano il singolo e che lo determinano come quella specifica persona e non come un’altra (Psicocultura, n.s.). Ci sono diverse espressioni, come il sentire, il pensare e il comportarsi, che definiscono il soggetto nel tempo a livello mentale o sociale (Psicocultura, n.s.).

Etimologicamente parlando, personalità deriva dalla parola greca ‘pròsopon’, cioè ‘persona’, facendo riferimento alle maschere utilizzate dai greci nelle opere teatrali. Nel 1994, Cloninger affermò che la personalità si forma dall’insieme degli aspetti ereditari e biologici, cioè da parte del temperamento, e degli aspetti socioculturali che permettono all’individuo di apprendere, cioè da parte del carattere. (Psicocultura, n.s.). Nel DSM 5, i disturbi di personalità vengono definiti come modelli di esperienza abituali che, in termini comportamentali, percettivi e relazionali, si discostano dal contesto sociale: sono schemi disfunzionali che contribuiscono alla sofferenza del soggetto (APA, 2013). Hopwood e Bleidorn (2018) cercarono di osservare la stabilità e i cambiamenti dei tratti di personalità. La stabilità è stata osservata come una caratteristica della personalità e dei disturbi correlati ed è molto difficile dare una definizione univoca, in quanto sono stati stimati differenti fattori relativi a come la personalità è stata studiata e concettualizzata nel corso degli anni.

Aspetti stabili e dinamici della personalità

Alcune ricerche recenti suggeriscono come ci siano degli aspetti della personalità sia stabili che dinamici (Hopwood e Bleidorn, 2018). Nello specifico, la stabilità differenziale riflette il grado in cui l’ordinamento relativo degli individui si mantiene nel tempo (Anusic e Schimmack, 2016), cioè indica il grado con cui le persone sperimentano un cambiamento maggiore o minore rispetto ad un altro soggetto (Hopwood e Bleidorn, 2018). Il cambiamento assoluto, invece, riflette il grado con cui una caratteristica della personalità diminuisce o aumenta mediamente tra i soggetti della popolazione (Hopwood e Bleidorn, 2018). Altri fattori stimati come importanti nel determinare la stabilità di una personalità, sono i costrutti di indagine osservati attraverso l’approccio dimensionale o categoriale: Zanarini e colleghi (2010) riscontrarono un miglioramento in pazienti con disturbo borderline di personalità nel Mclean Study of Adult Development (MSAD). Nello specifico, il 93% dei pazienti aveva avuto una remissione della sintomatologia nell’arco di dieci anni (Zanarini et al., 2010; Hopwood e Bleidorn, 2018). Nonostante la ricerca di base (Roberts et al., 2006), che suggerisce come la stabilità della personalità sia assoluta a brevi intervalli e con un periodo di cambiamento più lungo, tali risultati (Zanarini et al., 2010) danno speranza alle persone con diagnosi di personalità. Un altro fattore di rilevante importanza riguarda i criteri di inclusione ed esclusione del campione: sono stati osservati dei sintomi su un campione all’interno del contesto ospedaliero, composto da partecipanti che soddisfacevano i criteri diagnostici legati a condizioni di stress acuto. Dato questo disegno di ricerca, alcuni dei cambiamenti osservati possono essere una funzione della regressione alla media, degli impatti degli interventi stessi e di altri fattori associati al campionamento: ne consegue che le stime di stabilità assoluta potrebbero risultare più alte all’interno di studi naturalistici, cioè in studi coerenti con i risultati della ricerca di base sulla personalità (Widiger, 2005; Hopwood e Bleidorn, 2018, p. 7).

Valutazione della personalità

La fase di valutazione è un fattore importante, in quanto tiene in considerazione la distribuzione delle variabili, il tipo di metodo utilizzato e la scala temporale su cui viene svolta una ricerca. Ci sono differenti quesiti di interesse: in primo luogo, la personalità può essere concettualizzata in modo categorico, cioè in modo tale che le persone siano classificate come aventi o meno un disturbo di personalità. Markon e colleghi (2011) scoprirono che le variabili continue dell’approccio dimensionale sono più affidabili e valide rispetto a quelle categoriali, ne consegue quindi che la stabilità sia più elevata quando i disturbi vengono diagnosticati grazie ad un conteggio continuo e non grazie a dei criteri fissi (Samuel et al., 2011). Secondariamente, anche se i questionari sono il metodo più comune per valutare la personalità nelle ricerche di base, le interviste diagnostiche sono maggiormente popolari negli studi clinici e rilevano delle stime di stabilità meno elevate rispetto ai questionari stessi: Samuel e i suoi colleghi (2011) scoprirono come, nell’arco di due anni, la stabilità differenziale era r = .69 per una misura rilevata dal questionario e di r = .60 per quella rilevata dall’intervista, mentre il valore assoluto della variazione della personalità era d = .21 per il questionario e d = .30 per l’intervista (Hopwood e Bleidorn, 2018). Infine, le stime di stabilità tendono ad essere più alte se i partecipanti vengono campionati a intervalli più brevi, in quanto la personalità cambia nel corso di molti anni e non nel corso di pochi giorni (Fraley e Roberts, 2005; Kandler et al., 2010; Wright e Simms, 2016). Per l’appunto, attualmente le scale temporali diverse hanno portato ad una concettualizzazione delle variabili della personalità come dimensioni su cui le persone variano (Wright e Simms, 2016; Hopwood et al., 2015).

Lo sviluppo della personalità

Un altro fattore rilevante è lo sviluppo della personalità, che non è uguale per tutti i soggetti: le ricerche longitudinali suggeriscono come la differenza nella stabilità incrementi durante la vita adulta (Roberts e Del Vecchio, 2000; Briley e Tucker-Drob, 2014). Per questo motivo, è importante evitare campioni composti da un range di età ampio per non confondere la stabilità della personalità con i processi di sviluppo (Hopwood e Bleidorn, 2018). Il motivo per cui i disturbi di personalità vengono diagnosticati durante l’età adulta riguarda il fatto che la giovane età può essere indice di instabilità o immaturità nel tratto di personalità sottostante (Hopwood e Bleidorn, 2018). L’ultimo fattore, che riguarda l’influenza del cambiamento e della stabilità nella personalità di un soggetto, indica dei fattori comuni tra gli individui che seguono una traiettoria in qualche modo simile: la ricerca genetica e comportamentale suggerisce un ruolo chiave sia dell’ereditarietà che dell’ambiente (Reichborn-Kiennerud et al., 2015, Briley e Tucker-Drob, 2014; Bleidorn et al., 2009; Hopwood et al., 2011).

Gli umani, probabilmente, sono predisposti a rimanere stabili e a cambiare in certi momenti della vita grazie a dei fattori genetici, mentre le persone selezionano ambienti che influenzano il modo in cui la loro personalità si manifesta nel corso del tempo (Hopwood e Bleidorn, 2018). Non solo specifici tipi di fattori ambientali hanno un impatto sul cambiamento della personalità, bensì la ricerca suggerisce che le persone possano cambiare la loro personalità attraverso la volontà e la pratica (Hudson e Fraley, 2015): l’esempio specifico è la psicoterapia in sé, che può avere un ampio impatto nella riduzione dei tratti (Roberts et al., 2017) e nei sintomi disfunzionali della personalità (Cristea et al., 2017). Tali riflessioni evidenziano delle lacune in letteratura che portano i due autori (Hopwood e Bleidorn, 2018) a suggerire di valutare diversi tipi di stabilità in studi longitudinali, che tengano conto dei fattori sopradescritti (Hopwood e Bleidorn, 2018).

 

Bioetica per perplessi. Una guida ragionata (2016) di Corbellini e Lalli – Recensione del libro

Il volume Bioetica per perplessi fa riflettere su come il progresso scientifico possa offrire nuove opportunità ma anche far sorgere importanti questioni etiche.

 

L’obiettivo che le moderne società si pongono è quello di assicurare il benessere dei propri cittadini. Perché questo avvenga sono importanti i progressi che si fanno nell’ambito della medicina e delle scienze in generale. Il reperimento del benessere passa attraverso il miglioramento della qualità della vita. Rendere la vita di qualità superiore significa dare un senso diverso ad essa e soprattutto cercare di diminuire tutte quelle situazioni che elicitano dolore e disagio.

In questa processualità quali sono i limiti che la scienza deve porsi nell’utilizzare le tecniche per controllare i processi biologici che sono alla base di molte patologie, le modalità di accostarsi al fine vita, l’eventuale sperimentazione di nuovi farmaci, la considerazione dell’inizio della vita e l’eventuale natura dell’embrione umano come depositario della vita? In aggiunta, i progressi delle scienze mediche hanno aperto nuove possibilità terapeutiche nell’ambito dei trapianti, della medicina genetica e della medicina rigenerativa, ponendo non pochi problemi etici relativi al loro utilizzo. D’altra parte, questo nuovo modo di intendere i progressi scientifici pone anche dei problemi di etica della comunicazione scientifica, ovvero essa deve attenersi a criteri di veridicità, ancorati ad una epistemologia autentica, che mettano in rilievo sia le potenzialità, ma anche i limiti della scienza.

Tutte queste tematiche divengono il paradigma fondante della bioetica, una scienza che si occupa di etica della vita. In altre parole, una scienza che riflette sugli aspetti etici della medicina, delle scienze biologiche e delle neuroscienze, in modo tale che i progressi scientifici di cui le nostre società sono portatrici non divengano degli strumenti che invece di elicitare il benessere dei propri fruitori, ne condizionino la loro libertà, creando situazioni di disagio. Di queste argomentazioni si occupa il libro dei professori Corbellino e Lalli, affrontando in maniera analitica le tematiche menzionate.

 

Nag Factor: le strategie del bambino-consumatore

Il concetto di Nag Factor o “Pester Power”, definito in italiano “Fattore Assillo” è uno dei temi più importanti del campo pubblicitario.

 

Descritto come l’abilità del bambino di tormentare i suoi genitori (McDermott, 2006 e Goldstein, 1999), il Nag Factor si esplicita durante l’infanzia e la prima adolescenza per ottenere uno specifico bene di consumo, reclamizzato nello spot televisivo o sotto la spinta e la pressione del gruppo dei pari. Il bambino più piccolo avanza richieste, arrivando a fare capricci o scenate, invece, quello più grande ha più probabilità di scegliere, chiedere e convincere all’acquisto del prodotto agendo con frasi del tipo “Tutti i miei amici lo hanno” o “Non mi vuoi bene, vuoi che sia diverso dagli altri” (Di Pardo, 2016).

Può essere di due tipologie differenti (Kalogerakis, 2017):

  • Assillo persistente: comportamento caratterizzato da richieste ripetitive da parte del bambino, il quale aumenta il volume e il tono della voce e diminuisce la pausa tra una richiesta e l’altra, fino alla resa dei genitori.
  • Assillo d’importanza: comportamento subdolo e ingannevole, in cui le informazioni sono apprese dai media. Il bambino, di solito più grandicello, argomenta le richieste facendo riferimento alla presunta importanza personale del possedere quel determinato prodotto.

Come rispondono i genitori al Nag Factor?

Gli psicologi Lawlor e Prothero, in una loro recente ricerca dal titolo “Pester power, a battle of wills between children and their parents”, indagano le principali reazioni che i genitori attuano in seguito alle richieste di acquisto dei propri figli.

Un articolo redatto da Raffaella Giordano nel 2016, e pubblicato su State of Mind le distingue in dissenso, procrastinazione e negoziazione.

Dissenso

In seguito alle richieste avanzate, la risposta che i bambini ricevono maggiormente è quella del rifiuto. Molteplici sono i modi di dire di no e i bambini sanno quali negazioni potranno mutarsi in un sì attuando strategie di assillo.

  • Il rifiuto deciso. Definito come ‘No categorico’, non consente né discussioni né possibili negoziazioni; le tipiche risposte riportate dai genitori sono “in nessun modo!” o “puoi scordartelo!”.
  • Il dissenso ambiguo. Il genitore nega al bambino l’acquisto di un prodotto ma allo stesso tempo gli propone modalità con cui ottenerlo, utilizzando ad esempio la propria paghetta o i soldi ricevuti in regalo.
  • Il rifiuto debole. In questo caso il genitore rifiuta l’acquisto in maniera non del tutto convincente; il bambino ne approfitta attuando strategie di assillo che potrebbero compromettere la volontà dei genitori.

Procrastinazione

I genitori rinviano l’acquisto di un prodotto ad un momento futuro nella speranza che il bambino si dimentichi. Un classico esempio di risposta di procrastinazione potrebbe essere ‘aspetta, per il tuo compleanno te lo compreremo!’.

I bambini, come suggerisce la ricerca, comprendono la strategia dei genitori e pertanto inizieranno a ricordare costantemente la promessa di acquisto.

Negoziazione

In questo caso il genitore chiede al bambino di svolgere un’attività o un compito in cambio del prodotto tanto desiderato. Tuttavia, vi è il rischio che il bambino incorri in una controtattica, comprendendo di poter utilizzare tutta una serie di comportamenti graditi ai genitori pur di farli cedere e comprare il bene di consumo.

Il Nag Factor è un fenomeno da temere?

Dipende!

Finché il genitore è consapevole di questa dinamica, il Nag factor non è un fenomeno da temere poiché, con la sua maturità, il genitore indirizza e orienta lo sviluppo del bambino come consumatore. Il ruolo dei genitori è quello di riconoscere e comprendere i comportamenti del figlio, impegnandosi ad aiutarlo nel suo percorso di crescita.

Tuttavia, il Nag Factor può essere considerato una minaccia perché incrina il rapporto genitori-figli, creando tensione nella relazione ed esasperazione nel genitore, che acquista l’articolo richiesto pur non volendo cedervi, perdendo in tal modo capacità di potere e autorevolezza (McDermott, 2006).

Il piccolo, infatti, recepisce dalla pubblicità che determinati prodotti sono per lui e non accetta che l’adulto gli neghi tale possesso, considerandolo “cattivo” se ciò dovesse avvenire. Il genitore sarà costretto ad attuare delle contro-mosse convincendo i figli a rispettare la loro scelta educativa (Anna Oliverio Ferraris, 2005).

 

Attualità e prospettive dell’attaccamento. Dalla teoria alla pratica clinica (2021) – Recensione

Attualità e prospettive dell’attaccamento è un viaggio narrato a più voci, che si sviluppa lungo traiettorie diverse e complementari.

 

L’interessante e attuale lavoro a cura di Giorgio Rezzonico e Saverio Ruberti raccoglie riflessioni, aggiornamenti, spunti e ricerche che raccontano le evoluzioni attuali e le prospettive future della teoria dell’attaccamento, in un viaggio che, partendo dalle illuminanti intuizioni di Bowlby, conduce il lettore attraverso apporti, influenze e progressi determinatisi nel tempo, fino ad oggi.

Il viaggio è narrato a più voci, e si sviluppa lungo traiettorie diverse e complementari.

Reda offre un contributo che connette Teoria dell’attaccamento e sistemi complessi. Psicopatologia, senso di sé e funzionamento affettivo e sociale vengono, in quest’ottica, ricondotti all’assenza di consapevolezza emotiva e a meccanismi di disregolazione tipicamente appresi già in età evolutiva. Il terapeuta è tratteggiato come una guida “perturbativa”: una base sicura, che consente al paziente di esplorare, e al contempo lo accompagna a sperimentare le emozioni fino a quel momento evitate e disconosciute, al fine di attribuire loro un personale significato e riappropriarsene.

Ruberti narra l’influenza della teoria dell’attaccamento sulla psicologia cognitiva italiana, ripercorrendo le tappe storicamente significative e delineando l’importanza rappresentata dall’apertura del cognitivismo rispetto al ruolo delle emozioni, dell’intersoggettività e della stessa relazione terapeutica.

Lambruschi illustra un interessante modello a tre assi per la concettualizzazione clinica, che integra, appunto, gli assunti della teoria dell’attaccamento alle organizzazioni di significato personale. Il modello, al quale lavora il gruppo di ricerca TAM della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, viene spiegato nel funzionamento ed esemplificato attraverso la descrizione di un caso clinico.

In successione, i contributi di Farina, Tagliavini e Boldrini si focalizzano in particolare sull’attaccamento disorganizzato, approfondendone le evoluzioni storiche, le applicazioni cliniche nell’ambito della psicopatologia dell’età adulta e della psicotraumatologia, nonché i possibili scenari futuri.

Maggiormente focalizzato sul versante clinico l’apporto di Rezzonico e Pellegrini, che, attraverso la narrazione di un caso clinico (che, peraltro, risulta molto interessante), esemplificano l’utilizzo della teoria dell’attaccamento nell’ambito della psicoterapia di matrice costruttivista e cognitivo-evoluzionista.

Ardito, Mensi e Adenzato presentano i risultati di uno studio longitudinale condotto in Romania (il BEIP, Bucharest Early Intervention Project). La ricerca, finalizzata ad indagare gli effetti dell’istituzionalizzazione e dell’affido sulle traiettorie evolutive dei bambini, si poneva l’obiettivo di comprendere in quale misura lo strumento dell’affido sia una alternativa migliore all’istituzionalizzazione. I ricercatori hanno esaminato le differenze tra i bambini istituzionalizzati o affidati, rispetto a quelli cresciuti nella famiglia di origine, sia rispetto allo stile di attaccamento che in merito al linguaggio, allo sviluppo intellettivo, alle abilità sociali e alla loro risposta allo stress.

A conclusione del testo, lo scritto di Gambarana pone in confronto le diverse concettualizzazioni dell’attaccamento proposte da Giovanni Liotti e Vittorio Guidano, sulle quali condivide stimolanti riflessioni.

Il testo risulta ricco di spunti e di dati, lasciando trasparire il lavoro considerevole compiuto dagli autori. Appare inoltre una lettura importante per intuire le traiettorie future e soprattutto per comprendere quanto la teoria dell’attaccamento, nel suo essere fonte di cambiamento socioculturale rispetto alla visione dell’essere umano e della società, abbia contribuito in modo sostanziale sia alle evoluzioni della Psicologia clinica che all’umanizzazione delle strutture socioeducative e assistenziali.

 

La co-ruminazione come variabile che media la relazione tra utilizzo dei social network e sintomi internalizzanti negli adolescenti

Data la centralità dell’uso dei social media nella vita degli adolescenti, è fondamentale esaminare i potenziali meccanismi di rischio interpersonali che possono essere alla base del legame tra l’uso dei social media e i sintomi internalizzanti.

 

Adolescenti e social network

Ad oggi, il 95% degli adolescenti possiede o ha almeno accesso ad uno smartphone e il 97% di loro riferisce di utilizzare i social media (Anderson & Jiang, 2018). Non è per cui sorprendente che l’utilizzo dei social media sia ormai divenuto un’attività di routine nella vita quotidiana degli adolescenti, cambiando la modalità con cui essi comunicano, permettendo una connettività quasi costante attraverso il loro utilizzo (Lenhart, 2015).

Molti studi si sono focalizzati sullo scarso benessere psicologico che accompagna un utilizzo frequente dei social media nei giovani adulti, mostrando che l’utilizzo dei social media è associato a sintomi internalizzanti quali ansia e depressione (Vannucci et al., 2017). Risulta essere plausibile che l’uso dei social media svolga un ruolo critico anche durante la prima adolescenza, quando gli adolescenti sono alle prese con l’esplorazione dell’identità, l’autonomia e i cambiamenti nelle relazioni tra pari (Gerwin et al., 2018).

Adolescenti e co-ruminazione

La ricerca ci mostra che le relazioni tra pari giocano un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo sociale ed emotivo durante il periodo adolescenziale (Rose & Rudolph, 2006) e che l’impegno ripetuto in co-ruminazione, ovvero la discussione riguardo i propri problemi personali con i coetanei (Spendelow et al., 2017), può avere sia effetti positivi che negativi sul benessere esperito dagli adolescenti (Rose & Rudolph, 2006). Ad esempio, la co-ruminazione può rappresentare una risposta adattiva al disagio psicologico apportando una maggiore intimità con gli amici, può promuovere la vicinanza emotiva e il sostegno sociale (Rose et al., 2007). Nonostante ciò, l’impegno frequente in un comportamento negativo e co-ruminativo può esacerbare il disagio e portare a sintomi internalizzanti (Spendelow et al., 2017).

Inoltre, un maggiore utilizzo dei social network può influenzare la frequenza del comportamento co-ruminativo tra adolescenti (Murdock et al., 2015). Essi, nel tentativo di far fronte a sentimenti negativi o fattori di stress, potrebbero utilizzare i social network con lo scopo di mantenere la connettività sociale e il sostegno, nonostante questi si rivelino non sempre utili nel fornire tipi di legami sociali e meccanismi di coping funzionali per proteggersi dallo sviluppo di problemi internalizzanti (Bickham et al., 2015).

Data la centralità dell’uso dei social media nella vita degli adolescenti, risulta fondamentale esaminare i potenziali meccanismi di rischio interpersonali che possono essere alla base del legame tra l’uso dei social media e i sintomi internalizzanti. Uno studio molto recente (Ohannessian et al., 2021) ha affrontato importanti lacune nella letteratura esaminando le associazioni longitudinali tra l’uso dei social media e i sintomi internalizzanti in un campione di adolescenti. Data la salienza delle relazioni interpersonali durante questo vulnerabile periodo di sviluppo, lo studio ha anche esplorato il potenziale ruolo di mediazione della co-ruminazione.

Adolescenti, social media e sintomi internalizzanti

I risultati hanno dimostrato che l’utilizzo quotidiano dei social network non ha predetto un aumento di sintomi internalizzanti come depressione e ansia, al contrario dei risultati ottenuti in letteratura per i giovani adulti (Vannucci et al., 2017), rendendo plausibile quindi l’ipotesi che la fase di sviluppo possa giocare un ruolo in questa discordanza di risultati. Infatti, alcuni autori suggeriscono che la relazione tra l’uso dei social media e il benessere psicologico è moderata dall’età (Hardy e Castonguay, 2018).

Nonostante l’uso dei social media non fosse direttamente correlato ai sintomi internalizzanti, si è visto che l’uso dei social prevedeva un maggiore impegno nella co-ruminazione, che a sua volta prevedeva un aumento dei sintomi internalizzanti. Nello specifico, quindi, la co-ruminazione sembra mostrarsi come una variabile che media la relazione tra l’uso dei social media e i sintomi dell’ansia. Data la facile accessibilità ai social da parte degli adolescenti, è probabile quindi che un uso più frequente dei social media possa fornire un maggior numero di opportunità per impegnarsi nella co-ruminazione con i coetanei. In relazione quindi ai risultati che mostrano la co-ruminazione come un comportamento collegato ad una serie di risultati psicosociali positivi, come una maggiore vicinanza e sostegno dell’amicizia percepita (Felton et al., 2019), potrebbe essere che la co-ruminazione non verbale guidata dai social media possa invece minimizzare le opportunità per gli adolescenti di sperimentare questi benefici interpersonali.

Infine, non sono state riscontrate differenze di genere all’interno del campione utilizzato, suggerendo che impegnarsi nella co-ruminazione può essere dannoso per la salute psicologica degli adolescenti, indipendentemente dal sesso. Questo risultato è particolarmente sorprendente poiché in contrasto con i risultati in letteratura che sembrano indicare differenze di genere sia per quanto concerne la co-ruminazione che per i sintomi internalizzanti (Felton et al., 2019; Rose, 2002). Diverse ricerche hanno infatti mostrato che le ragazze adolescenti tendono a impegnarsi più frequentemente nella co-ruminazione all’interno di diadi di amicizia dello stesso sesso, e successivamente riportano un maggiore disagio psicologico (Schwartz-Mette & Rose, 2012).

In conclusione, lo studio qui presentato ha identificato un importante meccanismo interpersonale che può aiutare a spiegare il legame tra l’uso dei social media e i problemi internalizzanti durante un periodo delicato e vulnerabile dello sviluppo come l’adolescenza. I programmi di prevenzione e di intervento progettati per diminuire gli effetti negativi che l’uso dei social media può avere sull’adattamento psicologico degli adolescenti dovrebbero mirare alla co-ruminazione come comportamento modificabile e includere l’addestramento all’uso di strategie di coping più positive e adattive. Inoltre, tali programmi dovrebbero insegnare agli adolescenti a riconoscere gli effetti potenzialmente negativi dell’uso frequente dei social media e della co-ruminazione con i coetanei.

 

Narcisista violento? Superamento della credenza comune su Narcisismo e violenza nella coppia

Il Narcisismo gioca davvero un ruolo nelle violenze all’interno della coppia? 

 

Negli ultimi anni abbiamo visto proliferare sui media e new media servizi, articoli, racconti e quant’altro che descrivono vicende in cui un soggetto, spesso di sesso maschile, ha attuato un comportamento violento o aggressivo nei confronti del partner, definendolo Narcisista/Narcisista perverso/Narcisista malevolo et simila.

Si è diffusa quindi nel sentire comune l’associazione mentale Narcisista = Soggetto aggressivo e pericoloso in particolare nelle relazioni di coppia.

Orbene tale associazione è assolutamente troppo semplicistica, e soprattutto non adeguatamente supportata da dati scientifici, che invero delineano una realtà ben più complessa, dove sì, il Tratto Narcisistico può avere un ruolo, ma è davvero il responsabile di tali violenze?

Per meglio inquadrare il discorso, si ritiene doveroso fare alcune premesse precisando meglio il tema di cui si parla.

Disturbo narcisistico di personalità e tratti di personalità

Innanzitutto occorre diversificare la Patologia denominata Disturbo Narcisistico di Personalità, quindi diagnosticabile secondo il Diagnostic and statisticmanual of mental disorder – DSM 5 (American PsychiatricAssociation, 2013), dal Tratto Narcisistico di Personalità non per forza patologico. Cercando di semplificare la spiegazione, possiamo sostenere come, secondo la teoria dei Tratti (Allport, 1936, Eysenk, 1990, Cattell,1970, ed altri), e prescindendo in questa sede dai diversi approcci dei molti autori a riguardo, ogni essere umano possiede svariati tratti di personalità; questi tratti possono avere diversi livelli di forza e pervasività, e solo e soltanto quando essi assurgono ad avere forza, inflessibilità, disadattività e pervasività tale da soddisfare i criteri del suddetto DSM. è possibile parlare di Franca Psicopatologia; altrimenti essi sono parte dell’assetto di personalità del soggetto e contribuiscono all’unicità dell’individuo con le sue caratteristiche e idiosincrasie.

Orbene, adesso è il momento di delineare meglio cosa sia il Disturbo Narcisistico di Personalità, e quindi il tema fondante del Tratto Narcisistico.

Secondo i criteri diagnostici del DSM-5, per poter diagnosticare tale disturbo occorre che sia presente un pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che inizia nella prima età adulta ed è presente in vari contesti. Il DSM poi elenca vari elementi, tra cui: grandiosità dell’Io, fantasie di successo/fascino/bellezza, sentirsi speciale, richiesta di ammirazione, senso di diritto, mancanza di empatia, arroganza e presunzione, etc., fissando la presenza di almeno 5 di questi elementi per poter effettuare la diagnosi.

Se un soggetto quindi, ha una problematica di questo tipo, ma non soddisfa i criteri (brevemente) citati, allora il clinico non può esprimersi con Diagnosi di Disturbo di Personalità Narcisistico; tuttavia potremmo essere  comunque in presenza di un Tratto di Personalità che può comportare notevoli disagi al soggetto a seconda della sua gravità, pervasività e disadattamento.

Fatta questa premessa, possiamo ora comprendere meglio quanto nel sentire comune venga spesso attribuito il termine “Narcisista”, che gli addetti ai lavori intendono come Disturbo Narcisistico di Personalità, ad una pluralità di individui i quali, nella maggior parte dei casi, non soddisferebbero i criteri per una diagnosi di tale disturbo, bensì potrebbero avere un forte tratto Narcisistico senza che questi sia in concreto un Disturbo della Personalità.

Vien da sé che un soggetto con un elevato tratto Narcisistico di Personalità, e tanto più con un Disturbo Narcisistico, possa andare incontro a serie problematiche di relazione interpersonale, dovute a nostro parere, in principal modo alla grandiosità dell’Io, alla bassa empatia, ed alla necessità di essere ammirato. Più ha forza il Tratto, più questi elementi sono “importanti e pervasivi”, fino ad arrivare ad essere stabili e inflessibili in una franca patologia di Disturbo di Personalità.

Narcisismo e psicopatia

Ma la domanda iniziale al momento resta inevasa: i Narcisisti sono violenti con il partner?

Per provare a dare risposta a tale domanda è doveroso sottolineare quanto il tratto del Narcisismo sia fortemente correlato al tratto della Psicopatia. Ciò significa che, molto spesso, alla elevazione dell’uno si può riscontrare, a vari livelli, l’elevazione anche dell’altro tratto, con, in genere, uno dei due dominante, quindi di maggiore entità. Tanto è vera questa constatazione che anche nei Manuali come il DSM nel descrivere questi Disturbi di Personalità (Narcisistico e Antisociale) si rilevano molti elementi in comune tra le due patologie, ed in alcuni casi la diagnosi differenziale può essere molto difficile!

Veniamo adesso al focus del discorso.

Secondo uno Studio del 2021 (F. Delicato, 2021) preliminarmente presentato al Congresso annuale EUROCRIM2020 (European Society of Criminology, AnnualCongress, 10/11 September 2020) il tratto Narcisistico di Personalità non ha correlazione con gli agiti violenti verso il partner, bensì il responsabile di tali violenze appare unicamente il tratto della Psicopatia. Tali risultati concordano con la letteratura scientifica internazionale inerente la Psicopatia, tratto sempre più studiato ed approfondito sotto vari aspetti come ad esempio l’aspetto Neurobiologico (per una revisione, Anderson, N. E., & Kiehl, K. A. 2013). Dalle risultanze di alcuni studi, dal punto di vista neurobiologico emergono dati che suggeriscono una minore attività nelle aree cerebrali di elaborazione degli affetti rispetto a stimoli emotivi/salienti, in soggetti con alti livelli nel tratto della psicopatia, e gli stessi sembrano anche mostrare una maggiore attività nelle regioni cerebrali tipicamente associate alla elaborazione della ricompensa e controllo cognitivo in compiti che comportano elaborazione morale, processo decisionale e ricompensa (Seara Cardoso A.,&Viding E., 2014). Anche riguardo all’aspetto di correlazione tra Psicopatia e aggressività o violenza, vediamo come la letteratura scientifica internazionale, approfondendo solo il tratto della psicopatia a riguardo, rileva tale correlazione in varie tipologie di comportamento violento, come ad esempio nella violenza nella coppia (Robertson E.L., Walker T.M., &Paul J.F, 2020) oppure nella violenza giovanile (Kimonis, E. R., Skeem, J. L.,Cauffman, E., &Dmitrieva, J.,2011).

Tutto ciò implica quindi che il solo Narcisismo non spiega gli agiti violenti nella relazione di coppia, bensì è la presenza di alti livelli del tratto della Psicopatia ad essere correlata con tali violenze.

Per questo motivo se un soggetto ha un elevato tratto narcisistico, e soltanto quello, ovvero non presenta elevazioni circa il tratto della psicopatia, i dati ci dicono che la probabilità di un agito violento nella relazione di coppia non è molto elevata.

Al contrario se un soggetto ha un elevato tratto Psicopatico, che egli possa mostrare o meno anche una elevazione nel tratto Narcisistico, ebbene in ogni caso vi è correlazione, e quindi aumento di probabilità, con agiti violenti verso il partner.

A questo punto possiamo comprendere quanto il sentire comune, e soprattutto i media, possano essere facilmente confusi da tutto ciò, notando e mettendo in evidenza il più evidente e “scenico” tratto narcisistico nel racconto di un soggetto violento con il partner, invece del vero responsabile, ma ben più subdolo e complesso, tratto Psicopatico!

In sostanza, Il Narcisista Perverso/Malevolo (o altre definizioni) non esiste così come viene descritto (e non è una Diagnosi)! E soprattutto, per quanto riguarda gli agiti violenti non è il Narcisismo il problema.

La realtà è ben più complessa, dove, anche in ambito subclinico, quindi in assenza di franca patologia diagnosticabile, possiamo riscontrare soggetti con alti livelli nel tratto Psicopatico, i quali avranno ben più probabilità di acting out violenti nella coppia, e contemporaneamente possiamo riscontrare negli stessi sia alti livelli nel tratto narcisistico, sia livelli di media entità, che finanche livelli bassi (sebbene sia più probabile vista la correlazione positiva tra i due tratti, almeno un livello medio/medio alto del tratto Narcisistico). Sta di fatto che, per dare una risposta divulgativa e semplice alla domanda iniziale, ovvero se il Narcisista è violento nelle relazioni di coppia, ebbene essa non può che essere negativa.

Conclusioni

Semplificando, possiamo quindi sostenere che:

  • Il Narcisista (in assenza di livelli alti di psicopatia) NON ha più probabilità di acting out violenti nelle relazioni di coppia rispetto ad altri.
  • È il tratto Psicopatico ad avere un ruolo predittivo nella violenza nella coppia, a prescindere dalla presenza o assenza di alti livelli in altri tratti di personalità.
  • È quindi scientificamente sbagliata l’associazione tra Narcisista (perverso, malevolo, etc.) e Violenza nella coppia.

Per concludere, in tema di Violenza nella Coppia e Personalità dell’Autore, possiamo sostenere che il problema NON è il Narcisismo, bensì il tratto Psicopatico.

 

La teoria della mente (TOM) dopo trauma cranico encefalico

Lo Strange-stories-task è stato utilizzato per valutare le capacità di ragionare sugli stati mentali e per rilevare deficit della teoria della mente in individui con lesioni cerebrali dovute a trauma cranico.

 

“In quanto esseri umani, assumiamo che gli altri vogliano, pensino, credano e simili, e quindi deduciamo stati che non sono direttamente osservabili, utilizzando questi stati in anticipo per prevedere il comportamento degli altri, oltre che il nostro. Queste inferenze, che equivalgono a una teoria della mente, sono, a nostra conoscenza, universali negli adulti umani” (Premack e Woodruff, 1978).

Trama cranico e teoria della mente: cos’è la ToM

La Teoria della Mente (ToM) è la capacità di comprendere lo stato mentale di un individuo partendo dal comportamento manifestato (Mazza M. et al., 2002). La ToM permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003) e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). Dopo alcuni anni, si è passati all’applicazione della ToM in ambito clinico, avvalorando l’ipotesi di un coinvolgimento delle strutture frontali del cervello (Ozonoff S. et al., 1991), per cui un danno a queste regioni comporterebbe un’alterazione delle funzioni cognitive sociali, del comportamento, della personalità, dei ricordi e soprattutto della consapevolezza di sé (Alexander MP. et al., 1979).

I principali modelli teorici relativi alla ToM:

  • Theory Theory (TT) (Churchland, 1991; Carruthers e Smith, 1996): L’essere umano leggerebbe lo stato mentale dell’altro attraverso un processo molto simile a quello di una teoria scientifica, in base al quale l’individuo ricorrerebbe ad un ragionamento teorico basato tacitamente su leggi causali note;
  • Simulation Theory (ST) (Devies e Stone, 1995): secondo cui la ToM si svilupperebbe grazie ai processi simulativi basati sul “mettersi nei panni dell’altro” e, dunque, replicando e modellando su di sé l’esperienza (mentale) dell’altro.

Trauma cranico e teoria della mente: cambiamenti

Vari cambiamenti comportamentali sono la conseguenza di un Trauma Cranio Encefalico (TCE) grave ed assume sempre maggiore importanza lo studio di deficit della ToM nelle interazioni quotidiane nei pazienti traumatizzati. La ToM, in quanto manifestazione della cognizione, è situata nel contesto del mondo circostante (Wilson, 2002). Uno dei metodi utilizzati per indagare su come la conoscenza condivisa nel mondo potrebbe facilitare la ToM è lo Strange-stories-task (SST) di Happè (1994). Si presentano ai partecipanti brevi descrizioni o set di immagini di scenari sociali e si chiede ad essi di inferire gli stati mentali dei personaggi o di prevedere i loro comportamenti sulla base di questi stati mentali inferiti (Happè, 1994; Havet-Thommasin et al., 2006). Lo SST è stato utilizzato per valutare le capacità di ragionare sugli stati mentali attraverso l’interazione della conoscenza condivisa nel mondo e per rilevare deficit della ToM in individui con lesioni cerebrali traumatiche.

Un altro modo in cui gli esseri umani deducono gli stati mentali degli altri è attraverso la percezione dei vari segnali sociali. A tal proposito, il test “Reading the mind in the eyes” (Baron-Cohen et al., 2001) è un’attività ToM non verbale molto utilizzata dagli studiosi. Si è appreso molto sul comportamento dello sguardo attraverso l’attivazione delle interazioni diadiche (Duncan 1972; Clark e Krych, 2004), così come attraverso la manipolazione sperimentale dei segmenti dello sguardo (Baron-Cohen et al., 1995, Bayliss e Tipper, 2006). Ai pazienti viene somministrato un test con l’immagine di un viso con gli occhi orientati in avanti o spostati in una direzione e poi gli viene chiesto di fare inferenze sulle intenzioni o stati mentali dei personaggi. De Sonneville et al. (2002) presentavano l’immagine di quattro volti, con espressioni diverse, e si chiedeva ai partecipanti di determinare se un’emozione target fosse dimostrata o no in uno dei quattro foil. La capacità di inferire stati mentali da segnali sociali è stata comunemente studiata come mezzo per comprendere meglio l’impatto dei deficit sociali sul funzionamento della vita quotidiana (Spell e Frank, 2000; Baron-Cohen et al., 2001; Croker e McDonald, 2005; Tonks et al., 2007; Turkstra 2008; Zupan et al., 2009).

Oltre a questi metodi utilizzati per la comprensione dei deficit ToM in pazienti con lesioni cerebrali traumatiche o con disturbi di vario genere, è recente l’uso di metodi computazionali basati sulla simulazione come l’interazione sociale simulata (Blascovich et al., 2002) e la simulazione cognitiva (Scasselati 2002). Metodi dove “l’interazione sociale simulata implica la generazione di comportamenti sociali in agenti artificiali come personaggi virtuali, che sono spesso incorporati in ambienti virtuali immersivi o come robot umani” (Lindsey, Byon e Mutlu, 2013).

 

Come intolleranza all’incertezza e variabili sociali condizionano ansia e sintomi depressivi in donne con diagnosi di cancro ovarico

Hill e Hamm (2019) hanno esaminato come un elevato supporto sociale e bassi livelli di solitudine potessero attenuare la relazione tra intolleranza all’incertezza e sintomi ansiosi e depressivi in un campione di donne con tumore ovarico.

 

Intolleranza all’incertezza e salute mentale

Secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è possibile distinguere due categorie di tumore ovarico maligno: quello primitivo, che origina dall’ovaio stesso; e quello secondario, che invece giunge all’ovaio dopo essere apparso in altre parti dell’organismo. Tra le donne con cancro ovarico, i tassi di sopravvivenza sono relativamente bassi: secondo il National Cancer Institute quando il tumore è in fase avanzata le possibilità di sopravvivere sono del 47,4 % (Howlader et al., 2012). Questi dati, uniti al faticoso corso del trattamento, hanno un elevato impatto sul funzionamento psicologico e sul benessere delle donne: alcune di loro sperimentano sentimenti di perdita di controllo e isolamento a causa della mancanza di supporto sociale; inoltre la salute fisica compromessa può provocare ansia, depressione, perdita di speranza e preoccupazione per la morte, che determinano una scarsa qualità di vita (Roland et al., 2013).

Una variabile che sembra avere un ruolo importante nella salute mentale e nel benessere è l’intolleranza all’incertezza, definita come l’incapacità di tollerare l’idea che eventi negativi possano verificarsi e che non possano essere necessariamente previsti. Il tratto dell’intolleranza all’incertezza può essere suddiviso in una componente inibitoria, caratterizzata da una ridotta probabilità di intraprendere un’azione a causa dell’incertezza, e l’intolleranza all’incertezza prospettica, legata a preoccupazioni e timori per il futuro (Carleton, 2016).

Intolleranza all’incertezza in pazienti oncologici

L’intolleranza all’incertezza sembra essere un costrutto particolarmente rilevante per gli individui a cui è stato diagnosticato il cancro. Frequentemente, la progressione della malattia e la prognosi sono sconosciute ed essere in grado di tollerare l’incertezza in generale (Strout et al., 2018), e più nello specifico riguardo alla malattia, può essere fondamentale per il benessere degli individui; un’elevata intolleranza all’incertezza sembra infatti esacerbare i sintomi d’ansia e quelli depressivi (Carleton et al., 2012). Inoltre, è associata a varie forme di angoscia tra gli individui affetti da cancro: alcuni studi presenti in letteratura si sono occupati di studiare quali fossero gli effetti dell’intolleranza all’incertezza come tratto. Kurita e colleghi (2013), per esempio, hanno scoperto che l’intolleranza all’incertezza era associata a sintomi depressivi, stress e minore benessere emotivo; Taha e colleghi (2012) hanno invece trovato che fosse legata a sintomi depressivi e sensibilità all’ansia nelle donne con cancro al seno, mentre, negli uomini con tumore alla prostata, ha provocato angoscia e ansia generalizzata (Eisenberg et al., 2015). Sembrerebbe quindi che, poiché i protocolli di trattamento sono molto invasivi e i tassi di recidiva sono elevati, l’intolleranza all’incertezza può svolgere un ruolo significativo nell’esacerbare il disagio e ridurre il benessere psicologico.

Supporto sociale e solitudine in pazienti oncologici

Altri fattori che sembrano giocare un ruolo importante nelle donne affette da cancro ovarico sono il supporto sociale e la solitudine. Alcuni dati mostrano come talvolta il supporto sociale, concettualizzato come la disponibilità di altri per il supporto emotivo, informativo o tangibile sia legato a veri e propri cambiamenti fisiologici associati a una diminuzione della progressione del cancro e a un aumento della sopravvivenza (Lutgendorf et al., 2012). Inoltre il supporto sociale sembra ridurre i sintomi depressivi e l’ansia, in quanto può facilitare strategie di coping e aiutare le persone ad elaborare emotivamente una diagnosi (Helgeson, & Cohen, 1999). Per quanto riguarda la solitudine, invece, che si riferisce alla percezione di essere isolati e insoddisfatti a causa della discrepanza tra le relazioni sociali desiderate ed effettive (Hawkley & Cacioppo, 2010), non sono presenti studi su come sia legata al cancro ovarico nello specifico, ma una recente revisione sistematica ha mostrato come essa sia associata a una minore qualità di vita legata alla salute e a una salute mentale peggiore tra gli individui con altri tipi di cancro (Deckx et al., 2014). Alla luce di ciò sembrerebbe che le esperienze sociali positive e una diminuzione della solitudine possano ridurre i sintomi ansiosi e depressivi.

Intolleranza all’incertezza e tumore ovarico: uno studio

Dato che l’intolleranza all’incertezza è un fattore di vulnerabilità nello sviluppo di sintomi di salute mentale, Hill e Hamm, nel 2019, si sono occupati di esaminare la misura in cui un elevato supporto sociale e bassi livelli di solitudine potessero attenuare la relazione tra intolleranza all’incertezza e sintomi di salute mentale. Tra Ottobre 2017 e Marzo 2018, 131 donne con diagnosi di cancro ovarico, di età compresa tra i 25 e i 72 anni, hanno partecipato allo studio, completando in primo luogo la Depression Anxiety Stress Scales (DASS-21) (Henry & Crawford, 2005) per valutare l’ansia e la depressione; successivamente il Medical Outcomes Study Social Support Survey (MOS- SSS -Sherbourne & Stewart, 1991), per raccogliere informazioni sul supporto sociale; l’intolleranza all’incertezza è stava valutata tramite la IUS (Carleton et al., 2007), che valuta sia l’intolleranza all’incertezza inibitoria che quella prospettica. Infine alle donne è stata somministrata la UCLA Loneliness Scale (Russel, 1996), per misurare i sentimenti di solitudine. Contrariamente alle previsioni degli autori, le variabili sociali non hanno influenzato la reazione tra intolleranza all’incertezza e sintomi di salute mentale; una possibile spiegazione è che talvolta l’intolleranza all’incertezza, l’ansia e i sintomi depressivi sono cosi connessi tra di loro che il supporto sociale o una diminuzione della solitudine non bastano per alterare l’associazione (Hill & Hamm, 2019). L’intolleranza all’incertezza e le variabili sociali sembrano tuttavia essere associate ai sintomi depressivi e all’ansia; in particolare, la solitudine emerge come il più forte predittore di questi ultimi. Inoltre, sembrerebbe che l’intolleranza all’incertezza inibitoria sia più correlata ai sintomi di salute mentale rispetto a quella prospettica: è possibile che paralisi, impotenza e comportamenti di evitamento, caratteristici dell’intolleranza all’incertezza inibitoria la rendano disadattiva e particolarmente problematica per le donne con diagnosi di cancro ovarico (Hong & Lee, 2015).

In conclusione i risultati evidenziano che, essendo la solitudine il più forte predittore di sintomi di salute mentale, affrontare la solitudine e l’intolleranza all’incertezza, in particolare, può essere particolarmente importante per contribuire a diminuire l’ansia e i sintomi depressivi; alcuni trattamenti efficaci sono, ad esempio, le terapie cognitivo-comportamentali che mirano alle cognizioni sociali negative dato che la percezione delle minacce sociali è radicata nell’esperienza della solitudine (Hawkley & Cacioppo, 2010).

 

Il fenomeno dell’enactment nel setting psicoanalitico

L’enactment, per quanto abbia origine nella sfera psichica del paziente, non può essere definito un accadimento individuale, in quanto è nel vissuto diadico del setting che riesce a strutturarsi autenticamente (Ponsi, 2012).

 

La relazione terapeutica è un’esperienza trasformante, basata su dinamiche intersoggettive che si evolvono alla ricerca di un delicato equilibrio, tra punti di contatto, rotture e tentativi di riparazione. Ma è soprattutto un impianto collaborativo in divenire, i cui costruttori sono le personalità e gli agiti dei soggetti, e la materia prima è costituita dal materiale inconscio e conscio, verbale e non verbalizzato, che emerge dalla relazione.

È noto come la psicoanalisi ponga uno dei propri fondamenti terapeutici proprio nell’analisi del non detto, dei meccanismi di difesa inconsci, degli agiti e di tutti quegli elementi non interpretativi del colloquio clinico che molto possono rivelare sul vissuto personale del paziente e anche del terapeuta.

Il setting diviene così teatro di un disvelamento interiore reciproco, nel quale paziente e terapeuta si mostrano l’uno all’altro, in un messaggio implicito dal prezioso ruolo comunicativo. Al di là e in assenza delle parole, attraverso il contenuto del non detto.

È in questo universo interiore gradualmente slatentizzato che ha luogo il fenomeno dell’enactment, in cui alcuni vissuti transferali del paziente- inconsci e non verbalizzati- vanno a ripercuotersi nella sfera emotiva del terapeuta, favorendo l’emersione di contenuti emotivi altrettanto inconsci e non verbalizzati (Craparo, 2017; Bromberg, 2001).

Più di frequente si tratta di episodi che, a causa della loro eccessiva portata pulsionale si trovano segregati nell’inconscio, sotto forma di memorie subsimboliche. Una sorta di elementi beta (Bion, 1967), la cui natura non pensabile si sottrae ad ogni possibile categorizzazione, mentalizzazione, traslazione simbolica; sono esperienze deprivanti depositate nella mente come frammenti psichici non assimilati, che hanno creato un’interruzione nella naturale sintesi del Sé, restando all’esterno della consapevolezza.

Natura relazionale dell’enactment

Nel momento in cui un paziente accede alla relazione terapeutica con la sua sofferenza vitale, spinge il terapeuta a riattivare la medesima sofferenza per i condensati psichici dei Sé materni, paterni o di altri oggetti affettivi precedentemente interiorizzati, in una modalità traumatica, e dunque soverchiante, dissociativa, non simbolizzata. E l’attacco che il paziente opera nei confronti dei propri condensati psicologici, si ripercuote inevitabilmente, in una ovvia risonanza empatica, anche in quelli del terapeuta, che ne fronteggia, forse per la prima volta, una inattesa emersione dal subconscio (Crocetti e Pallaoro, 2007).

Il disvelamento del paziente contribuisce ad originare uno stimolo attivante per i contenuti inesplorati del terapeuta, che a sua volta li accoglie, in un tentativo di contenimento sano e bonificante.

Per questo l’enactment, per quanto abbia origine nella sfera psichica del paziente, non può essere definito un accadimento individuale, in quanto è nel vissuto diadico del setting che riesce a strutturarsi autenticamente (Ponsi, 2012). È il non detto del paziente che funge da stimolo elicitante per il non detto del terapeuta, e questo incontro inconsapevole tra non parole dà vita ad un’inattesa occasione di contatto.

La volontà relazionale del paziente viene percepita inconsciamente dal clinico, che a sua volta accetta questo invito inconsapevole, creando un canale comunicativo sorprendentemente generato attraverso il non detto. A dimostrazione di come il vissuto comunicativo non si attui né si esaurisca esclusivamente mediante l’utilizzo dello strumento verbale, ma come in certe occasioni, proprio un linguaggio fondato sulla non parola risulti foriero di un inestimabile quanto inatteso potere relazionale.

La psicoanalisi relazionale ha evidenziato l’aspetto comunicativo dell’enactment, affermando come sia proprio la sua natura intrinsecamente intersoggettiva a distinguerlo dagli altri fenomeni non verbali generabili all’interno del setting (Mitchell, 2000).

In primo luogo si cita la differenza con l’acting out, un atto comunicativo non verbale attraverso il quale una pulsione angosciante viene letteralmente “agita”, senza essere preceduta da alcuno spunto riflessivo (Ponsi, 2012). La funzione liquidatoria dell’acting out è generata interamente nella dimensione psichica del paziente, e la sua manifestazione eterodiretta non ne inficia la natura unidirezionale. Il terapeuta può soltanto prenderne atto, può descriverlo, può notarlo e provare ad interpretarlo: ma non può reperire in esso il contenuto relazionale riscontrabile nell’enactment.

Malgrado i punti di contatto, non sembra possibile neppure accostare l’enactment all’identificazione proiettiva, meccanismo inconscio in cui si assiste alla proiezione difensiva di una pulsione inaccettabile, seguita dall’inserimento della stessa nell’universo psichico di un altro, che ne riconosce la presenza in modalità inconsciamente egosintonica (Madeddu e Lingiardi, 2002).

Le differenze con l’enactment sono evidenti: in primo luogo nell’identificazione proiettiva la funzione comunicativa non è ugualmente rilevante; per quanto la stessa Klein (1921-1958) vi legga una primaria forma di empatia, e dunque di una valenza relazionale allo stato embrionale, l’intento dell’identificazione proiettiva è volto principalmente a liberarsi di una pulsione inaccettabile, attribuendone l’esistenza ad un altro che la accoglie in Sé, sentendosene psichicamente colonizzato; inoltre il materiale proiettato appartiene al proiettante ed è depositato nell’altro, alla stregua di un oggetto parziale, solo con finalità difensive e liberatorie (Ogden, 1991). Al contrario il contenuto mnestico elicitato dall’enactment è relativo ad un vissuto che appartiene alla sfera psichica individuale del terapeuta in via pregressa.

Non sembra opportuno accostare l’enactment neppure al controtransfert somatico, nel quale si riscontra una mera risposta somatica del terapeuta di fronte all’esposizione del materiale inconscio del paziente: si tratta perciò di una condotta reattiva, una risposta il cui contenuto è affidato all’espressività somatica anziché alla parola.

Immaginiamo che uno schizofrenico esponga al terapeuta esperienze allucinatorie persecutorie, provocando nello stesso una reazione di mal di stomaco, o di una forte fitta alla testa: in questo momento non si sta tuttavia sperimentando un enactment, perché non c’è relazionalità nella risposta del terapeuta, né elicitazione inconscia di materiale dissociato. Piuttosto il corpo prende il sopravvento sul processo di simbolizzazione e dà vita ad un vissuto sensoriale, una pulsione che trova nel soma una possibilità di espressione immediata, non riflettuta né rielaborata (Lombardi, 2016).

Craparo (2017) precisa come nel controtransfert somatico il terapeuta si concentri sulla reazione somatica provocatagli dal racconto del paziente, escludendo al contempo la possibilità di identificare lo stato emotivo che si accompagna a quella sensazione (2017). Potremmo definirla una reazione immediata, qui e ora, che il terapeuta realizza in risposta ad una dinamica relazionale scaturita nel setting; un’empatia somatizzata, una risonanza emotiva controtransferale le cui intensità ed immediatezza si esprimono meglio tramite il linguaggio corporale. Al contrario, nell’enactment la reazione somatica del terapeuta non è contingente e contestualizzata ad un racconto del paziente, ma costituisce la risposta inconscia di vissuti non verbalizzati che proprio le memorie dissociate emerse nel setting hanno contribuito ad elicitare.

La gestione terapeutica dell’enactment

Nel fenomeno dell’enactment le memorie coinvolte hanno natura dissociativa. Sono frammenti di esperienze traumatiche che, a ragione della loro intensa portata pulsionale, non hanno trovato collocazione adattiva nella memoria semantica, né sono state dotate di una connotazione verbale o simbolica (Bromberg, 2011); al contrario, restando segregate nella memoria implicita, si sono tramutate in schegge di un passato traumatico impronunciabile, che non può essere inserito nella memoria episodica, né ricordato in una sequenza logica, ma solo riattivato, riattualizzato nel presente, nelle modalità e nei contesti più inattesi. Il loro unico strumento di espressione è il canale somatico, che ne offre testimonianza a mezzo di una sintomatologia “corporale” in grado di schermarne la reale radice psichica.

“In virtù del suo reale e inconscio rapporto con le emozioni traumatiche, il paziente mette in atto, articolandolo con il corpo, ciò che è al di là del linguaggio e che non è assimilabile alla simbolizzazione” (Evans, 1996, pp. 159-160). L’enactment comunica ciò che il paziente non riesce ad articolare consapevolmente, servendosi di un linguaggio formato da ritmi, suoni, sintomi, sensazioni somatiche.

Il trauma e le memorie dissociate ad esso collegate vengono ricostruite per la prima volta nel setting terapeutico, attraverso una delicata operazione a due, un incontro tra vissuti emotivi – quello del paziente e quello del clinico – destinati a lasciare tracce trasformative reciproche.

Le memorie traumatiche si trovano al di fuori di una dimensione temporale proprio perché sono sfuggite ad una rielaborazione conscia, ad una consapevolezza dell’accadimento che, pur verificatosi nella realtà, non è ancora “avvenuto” nell’interiorità psichica del paziente.

In questo senso il setting può essere inteso come un luogo di legittimazione esplicita del trauma, in cui il paziente si sente finalmente autorizzato a soffrire e inizia a dar sfogo ad un dolore mai realmente “accaduto”, provocando inconsciamente il medesimo effetto nella psiche del terapeuta, che si lascia contagiare da questa sofferenza inespressa per legittimare a sua volta la propria.

Ma si tratta di un’operazione complessa, di cui proprio la natura dissociata delle memorie rende insidioso il completamento. Esiste il pericolo concreto che l’analista non riconosca adeguatamente la presenza di questo non simbolizzato interno al proprio Sé, assecondando la percezione dissociata che percepisce nella sfera psichica del paziente (Bromberg, 2011). Ciò impedirà la rielaborazione adattiva delle memorie traumatiche sfuggite alla sintesi, causandone la ripetizione ricorsiva e atemporale, in una sorta di dinamica paralizzante e preclusiva dell’evoluzione.

Questo atteggiamento di resistenza all’enactment potrebbe indurlo ad esibire atteggiamenti sadici –ad esempio attacchi inconsci verso gli oggetti interni cattivi del paziente- o masochistici- aggressione passiva della propria realtà interna- o ancora potrebbe suscitargli vissuti di panico legati alla sensazione di essere inondato da contenuti emotivi ingestibili (Grotstein, 2007). Si verificherà così il “collasso” delle capacità dell’analista di tollerare consapevolmente i propri vissuti emotivi e quelli del paziente, con il risultato che entrambi rimarranno prigionieri del rispettivo non detto, impedendo ogni sua possibile rielaborazione attiva e provocando l’impasse funzionale della terapia (Steiner, 2008).

Ove venga opportunamente gestito, l’enactment può invece rivelarsi un prezioso strumento di interpretazione terapeutica, in grado di fornire occasione di indagine reciproca, di conoscenza del Sé attraverso il Sé di un altro: è un’associazione generata da una dissociazione, un accordo collaborativo che, per attuarsi in tutta la sua produttività, dovrà essere in primo luogo riconosciuto, lasciato emergere e dunque riattualizzato, aggirando ogni possibile mezzo di difesa. In seguito dovrà essere reso accessibile alla coscienza per ricevere adeguate etichette verbali, così da portare un non Sé allo stato di Sé riflessivo e auto centrato (Bromberg, 2011). Tutto questo cercando di tollerare collusioni con la dissociazione del paziente, e di gestirle in modo da non creare regressioni involutive controtransferali in grado di invalidare il percorso terapeutico.

Il terapeuta non dovrà sottrarsi all’enactment in una funzione difensiva, né assecondarlo eccessivamente in modo da annullare ogni distanza che differenzi il proprio Sé da quello del paziente: ciò che dovrà assecondare sarà piuttosto il provvisorio stato di impasse creato dall’enactment, e servirsi di questa attesa in una funzione evolutiva, evitando di cedere a tentativi di interpretazione precoci e implicitamente difensivi. Questo consentirà di aggirare ogni resistenza di fuga al trauma, che riceverà finalmente una propria connotazione logica, verbale e temporale fino ad allora negatagli (Craparo, 2018).

La terapia è soprattutto la costruzione di un legame in cui l’apporto collaborativo tra terapeuta e paziente è costantemente richiesto. Il paziente deve sperimentare un nuovo Sé nel e attraverso il terapeuta, avvalendosi di quel materiale psichico che è già in suo possesso; se ne origina una sorta di creazione maieutica in cui nulla viene concesso dall’esterno, perché il mutamento evolutivo giunge dalla trasformazione di un’interiorità inespressa e inesplorata (Crocetti e Pallaoro, 2007).

Al contempo il terapeuta deve lasciarsi distruggere consapevolmente, nella certezza che l’intento distruttivo del setting, lo stesso che è in grado di destare i suoi condensati più profondi, isolati e mai rielaborati, è un istinto inevitabilmente collegato alla vita; un modo per scoprire non solo il Sé dell’altro, ma anche l’altro nel Sé, e fonderne gli aspetti in una integrazione inter ed intrapsichica di cui l’elemento relazionale costituisce il fondamentale presupposto.

Conclusioni

L’enactment è il bozzolo dissociativo in cui le memorie traumatiche di due soggetti si incontrano, nell’intento di svelarsi le une alle altre (Bromberg, 2011).

Questo prezioso fenomeno relazionale consente la rievocazione del “già fatto” in funzione del non ancora (Crocetti e Pallaoro, 2007). Consente di far accadere il passato, e trovare in esso l’ombra di quell’oggetto relazionale traumatico nel quale si rispecchia, inevitabilmente, anche l’origine della memoria dissociata (Bollas, 1987).

Craparo (2018) osserva come l’esperienza di due inconsci non simbolici che si incontrano sia un impatto psichico di grande rilevanza. Sono due negazioni che si annullano, generando una positività che tramuta la circolarità ricorsiva in linearità progressiva, in impulso alla comunicazione e alla parola che rappresenta la sintesi del Sé e l’autentico successo del compito terapeutico.

Per certi aspetti l’enactment è un’esperienza verbale mancata che, pur nella sua condizione di non parola, anela di venir pronunciata. Ma non essendo mai divenuta parola non può che esprimersi con l’agito corporeo, dunque non può che agire se stessa.

Sta alla funzionalità del setting terapeutico coglierne, pur in questo aspetto di non verbalità, il profondo intento comunicativo, e trarre dallo stesso le risorse in grado di renderla, da elemento dissociato, un’esperienza simbolizzata, pronunciabile e finalmente integrata nel Sé.

 

Breve trattato sulla stupidità umana (2021) di Ricardo Moreno Castillo – Recensione del libro

Il titolo Breve trattato sulla stupidità umana del testo di Castillo sembra anticipare, come in un trattato di altri tempi, una disquisizione filosofica sul tema della stupidità.

 

Fin dalle prime righe si ha l’impressione di essersi imbattuti in un testo antico e poco noto, ripescato da qualche neofita e riportato alle stampe.

L’autore invece è un uomo di scienza contemporaneo (laureato sia in matematica che in filosofia e docente universitario a Santiago), attivo sul versante dell’impegno politico.

Ciascun capitolo del libro descrive un aspetto della stupidità a partire da una citazione dotta: qual è la natura della stupidità umana, quali rapporti intrattiene con l’infelicità e la cattiveria, quali sono i meccanismi alla base che l’alimentano? Ma soprattutto cosa si può fare per scoraggiarla, almeno in noi stessi?

Ogni concetto è argomentato secondo una sequenza di considerazioni logiche. Dal punto di vista formale la lettura risulta interessante e avvincente; sul piano dei contenuti l’argomento stesso del libro pone questioni spigolose e controverse. Il rischio di incappare in considerazioni assolutiste e dal piglio vagamente censorio è a volte dietro l’angolo.

L’autore si destreggia in questa trattazione a volte schivando il giudizio assolutista, altre volte prestando il fianco alla postura sottilmente snob di chi insegna a chi non sa. L’autorevolezza dell’autore a tratti rischia, a mio avviso, di confondersi con una forma di blanda supponenza.

Il libro si apre con una disamina sull’antitesi fra sicurezza e dubbio, credenza falsa e verità relativa. Le prime appartengono a chi affetto da stupidità, le seconde a chi in modo lungimirante guarda al mondo in cui vive con concretezza e impegno.

Di che natura è il legame fra stupidità e memoria? Secondo l’autore la stupidità soffre di amnesia. Non ricordare errori commessi in passato sarebbe la condizione che impedisce una riflessione su ciò che si è fatto e su cosa si potrebbe fare di meglio. L’autore contesta quindi l’assioma secondo cui intelligenza e memoria sarebbero inversamente proporzionali: la conoscenza, e quindi lo studio (anche quello mnemonico), sarebbero le condizioni necessarie per approfondire la riflessione e nutrire il pensiero.

Stupidità e preoccupazione sono per l’autore indissolubilmente connesse: esistono due tipi di preoccupazione, una intelligente e una stolta. La prima riguarda questioni per le quali vale la pena di crucciarsi, la seconda invece tende a rendere complesse situazioni e questioni che non lo sono.

Ne segue, secondo l’autore, che intelligenza è non complicare le questioni, assegnando loro lo status di problemi. Confondere quindi semplicità con stupidità sarebbe improprio: la prima descrive la natura di una cosa, la seconda tende a complicarla.

Fra i vari procedimenti utili a complicarsi la vita, un posto di rilievo spetta all’invidia. Francisco de Quevedo scrive “L’invidia è così magra e pallida perché morde e non mangia”, ovvero citando l’autore “Un ladro agisce con più logica e sensatezza di un invidioso”.

L’invidia innesca infatti un meccanismo che porta alla svalorizzazione delle qualità altrui, oggetto di invidia: una persona professionalmente competente viene così tacciata di “elitarismo”, una persona colta o precisa di “pedanteria” e una persona di carisma di “eccessivo protagonismo”.

L’invidia si sforza di togliere pregio a chi possiede le qualità invidiate senza tuttavia aggiungere nessun lustro a chi indivia.

L’ottusità appartiene in misura variabile a ciascuno di noi, così come in ciascuno di noi è presente una quota di intelligenza. Ma cosa determina il prevalere dell’una sull’altra? Il rapporto variabile fra le due componenti è, secondo l’autore, legato all’ostinazione con cui si difendono posizioni confutate da fatti o da ragionamenti logici.

Spesso accade che l’ottusità porti a identificare le proprie idee come assolute e definitive, spingendo chi vi aderisce a trincerarsi dietro a “una roccaforte insensata di assurdità” e a tacciare di ignoranza chi muove critiche a quelle idee.

Infine il tema del rapporto fra stupidità e malvagità: il piacere di far soffrire gli altri, per quanto perverso, esiste, ma fino a che punto si può giustificare la malvagità adducendo che chi la agisce non comprende ciò che sta facendo?

L’autore analizza il fenomeno bullismo: chi lo agisce è consapevole del danno che provoca e di quanto disdicevole sia tale condotta. Tuttavia, pur di non rinunciare a un piacere meschino (la sofferenza altrui), è disposto a rendersi egli stesso meschino di fronte a un compagno più vulnerabile. Quella stessa stupidità trova un freno quando l’avversario è un compagno più forte: quindi la stupidità, secondo questo criterio, è relativa, o meglio agita solo finché apporta danno agli altri, ma frenata quando rischia di recare danno a sé.

Combattere la stupidità che affligge in qualche misura chiunque richiede impegno: non esistono ricette, Castillo fornisce tuttavia alcuni spunti.

Impiegare il tempo libero in occupazioni solitarie come gli scacchi, la filatelia e la lettura allena la concentrazione, ma soprattutto l’abitudine a non disturbare gli altri.

Confrontare le idee con la realtà è lo strumento cardine per verificare la correttezza e l’efficacia delle prime: un’idea che non funzioni nella pratica non può dirsi buona.

Leggere aiuta a interpretare la realtà con un maggiore distacco, quindi con obiettività. Leggere la storia a maggior ragione: molte stupidaggini nel corso della storia si ripetono e ciclicamente tornano in auge. Esserne coscienti aiuta a ridimensionarne il peso.

Per analoga ragione leggere di filosofia aiuta a relativizzare il nostro sapere: la maggior parte delle idee che abbiamo le abbiamo lette o ascoltate altrove e quindi fatte nostre. Riconoscere di non essere pensatori originali o depositari di una propria verità assoluta aiuta a guardare, con maggior distacco, quelle idee che rischiano di diventare ideologie.

Ambire a una maggiore obiettività e lucidità implica infine la disponibilità a riconoscere i propri limiti, non necessariamente solo grazie all’erudizione e allo studio, ma anche (e mi sento di aggiungere – soprattutto) grazie al buon senso.

 

L’arte della cura: possono musica e pittura ridurre la severità dei sintomi da dolore cronico, migliorando l’umore, la qualità di vita ed il benessere cognitivo in pazienti con Alzheimer? 

Lo studio di Pongan et al. (2017) ha valutato l’efficacia dell’intervento musicale sul dolore cronico in pazienti con Alzheimer allo stadio di disturbo cognitivo minore o di disturbo cognitivo maggiore lieve.

 

La malattia di Alzheimer colpisce principalmente gli adulti dai 65 anni in su. I pazienti con Alzheimer presentano spesso comorbidità multiple che possono indurre dolore cronico e, nella fase iniziale, il declino cognitivo è spesso accompagnato da disturbi dell’umore. I farmaci prescritti nella gestione del dolore cronico e dei disturbi dell’umore non sono privi di effetti collaterali: possono aumentare il rischio di confusione, di cadute, di declino cognitivo e possono indurre una dipendenza fisica e psicologica (Arnstein, 2010). Le terapie non farmacologiche possono essere un’interessante strategia di cura complementare per il dolore e i disturbi dell’umore in questi pazienti. Tra le terapie, l’intervento musicale è spesso adoperato sia in pazienti con Alzheimer e demenza sia in pazienti con dolore cronico. È stato dimostrato che le capacità di percepire la musica, le emozioni che ne derivano e di riconoscere brani familiari rimangono conservate anche nelle fasi avanzate dell’Alzheimer (Cuddy & Duffin, 2005). Di conseguenza, l’intervento musicale viene sovente utilizzato negli approcci terapeutici che mirano a migliorare il funzionamento cognitivo, così come l’umore, i disturbi comportamentali e la qualità della vita. Negli adulti anziani sani le attività musicali svolte regolarmente, come cantare o suonare strumenti, possono contribuire a un invecchiamento positivo aumentando il benessere emotivo e riducendo l’isolamento sociale (Hays & Minichiello, 2005).

Malattia di Alzheimer e interventi non farmacologici: uno studio

Lo studio di Pongan et al. (2017) ha valutato l’efficacia dell’intervento musicale sul dolore cronico in pazienti con Alzheimer allo stadio di disturbo cognitivo minore o di disturbo cognitivo maggiore lieve. Gli obiettivi comprendevano misurare l’efficacia dell’intervento musicale su ansia, depressione, qualità della vita, autostima e cognizione. Tra gli interventi è stato scelto quello basato sul canto: questa pratica, infatti, può promuovere l’aumento della produzione di endorfine, che giocano un ruolo significativo nell’inibire la percezione del dolore (Pomorska et al., 2014). Inoltre, il canto ha dimostrato benefici sulle funzioni cognitive in studi precedenti sull’Alzheimer, poiché richiede l’ausilio di processi come la memoria a breve termine, il controllo della pianificazione a lungo termine degli errori e impegna diverse aree della corteccia prefrontale (Simmons-Stern et al., 2010). Come intervento di controllo, è stato selezionato l’intervento di pittura di gruppo, in quanto è simile a quello musicale in diversi punti: entrambi sono piacevoli attività artistiche e di svago, possono essere eseguiti in un ambiente di gruppo e prevedono un progetto finale (concerto e mostra) alla fine delle sessioni.

Sono stati selezionati 54 soggetti ultra sessantenni con problemi cognitivi. I partecipanti sono successivamente stati divisi in due gruppi di 27 persone in base alle attività proposte: attività inerente al canto (SI) e attività inerente alla pittura (PI).

Per definire una baseline (T1), i pazienti sono stati sottoposti ad un’ampia valutazione che comprende: la diagnosi e la fase di Alzheimer, il livello di dolore cronico, i fattori demografici e lo stile di vita, le qualità artistiche e musicali, l’autostima e le qualità neuropsicologiche. I dati sono stati nuovamente raccolti dopo 12 (T2) e 16 settimane (T3). Per misurare il dolore cronico sono stati utilizzati tre test: la Numeric Rating Scale (NRS) (Turk et al., 1993), la Simple Visual Scale (SVS) (Nuevo, 2004) e la Brief Pain Inventory (BPI) (Cleeland & Ryan,1994).

Per misurare i livelli di ansia di stato e di tratto è stata utilizzata la State Trait Anxiety Inventory (STAI) (Spielberger et al., 1983).

Sono stati raccolti anche dati inerenti ai sintomi depressivi che possono esordire in relazione alla demenza, utilizzando la Geriatric Depression Scale (GDS) (Yesavage et al., 1982).

Per valutare la qualità di vita ed i livelli di autostima sono state utilizzate rispettivamente la EuroQol-5 dimensions (EQ-5D) (Rabin & Charro, 2001) e la Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg,1979).

Per valutare le funzioni neuropsicologiche è stata proposta una batteria di test composta da: Free and Cued Recall Test (FCRT) (Van der Linden et al., 2004) per valutare la memoria verbale episodica, Trail Making Test (TMT) (Reitan, 1979) per valutare la flessibilità mentale, Digit Symbol test and Digit Span (Wechsler,2008) per la memoria di lavoro, Stroop test (Stroop,1935) per valutare la velocità di immagazzinamento delle informazioni, Letter and Category Fluency tests (Godefroy et al., 2014) per valutare la scioltezza verbale e Frontal Assessment Battery (FAB) (Dubois et al., 2000) per valutare la presenza di sindrome disesecutiva.

Per quanto riguarda l’intervento di tipo musicale (SI), i partecipanti sono stati seguiti da un direttore di coro professionista e da uno psicologo. Come attività sono stati proposti esercizi per scaldare la voce e l’apprendimento ed esecuzione di quattro brani scelti fra le preferenze dei partecipanti.

Per quanto riguarda l’intervento di tipo artistico (PI), un insegnante di disegno ed uno psicologo hanno seguito i partecipanti in una serie di attività fra cui: visione di alcuni dipinti famosi, creazioni di quadri a seconda di temi accordati in gruppo ed esposizione delle opere realizzate.

Malattia di Alzheimer e interventi non farmacologici: i risultati

Dal sopra citato studio, è emerso che i pazienti assegnati ai gruppi di pittura e di canto hanno mostrato un miglioramento significativo nella sfera del dolore, dei disturbi dell’umore, della qualità della vita e dell’autostima. Nei pazienti affetti da Alzheimer con un disturbo neurocognitivo minore, maggiore o lieve si è registrato un miglioramento della cognizione e l’utilizzo della pittura, più del canto, ha avuto un impatto positivo sui sintomi ansiosi e depressivi.

I risultati ottenuti sono in linea con le precedenti ricerche che mostrano come sia possibile migliorare la qualità della vita e l’autostima utilizzando terapie non farmacologiche, facendo dunque leva sui sentimenti di coerenza o appartenenza che derivano dal sentirsi parte di un gruppo e sulla sensazione di sentirsi presi in carico. Dal confronto tra i test pre e post intervento si deduce un miglioramento dei processi di inibizione e un aumento della funzionalità della memoria di lavoro dopo le sessioni di musica e di pittura, ma non sembrano emergere cambiamenti significativi in merito alle prestazioni cognitive con pazienti affetti da Alzheimer in forma grave (Narme et al.,2012). I risultati del presente studio suggeriscono che gli interventi musicali dovrebbero essere più efficaci sulle funzioni cognitive quando si hanno pazienti con Alzheimer in fase iniziale. L’effetto specifico del canto sulla memoria episodica suggerisce come la memorizzazione dei testi insieme alla musica sono in grado di stimolare le reti neurali coinvolte nella memorizzazione verbale in modo maggiore rispetto agli interventi di pittura. In conclusione, i risultati mostrano come il canto e la pittura possono apportare dei miglioramenti che non sono previsti nel corso naturale dell’Alzheimer. È emerso, inoltre, come questi interventi siano facilmente accessibili e non richiedano che i pazienti abbiano delle particolari predisposizioni per trarne benefici.

 

SimSensei Kiosk: una overview

Gli utenti che hanno interagito con ELLIE, una delle due funzioni di SimSensei Kiosk, hanno avuto meno paura di sentirsi valutati rispetto all’avere a che fare con un avatar gestito da una persona reale.

 

Nel 2011, grazie ad un lavoro svolto dall’Institute for Creative Technologies nell’ambito del progetto DCAPS (Detenction and Computational Analysis of Psychological Signals), viene creata l’Intelligenza artificiale (I.A.) conosciuta con il nome di SimSensei Kiosk (DeVault, D., Rizzo, A., Morency, L. P., et al., 2014). Appartenente alla categoria dei Super Clinici (Luxton, D.D. 2014), questa Intelligenza artificiale aveva richiesto una formazione specifica in letteratura sull’importanza delle espressioni facciali e la bodily communication all’interno della comunicazione. Inoltre un approfondimento aggiuntivo era stato svolto sulla prosodia (Ekman, P., Rosenberg, E. L. 1997). Concepito come Virtual Human system (VH), SimSensei presenta due funzioni: la presenza di ELLIE, una terapista virtuale dalle fattezze umane, nonché di un sistema di percezione multimodale noto come “Multisense” (Lazzeri, M., 2021). Nel dettaglio, questo sistema (Devault et al., 2014; Scherer et al., 2013) consente l’acquisizione, il monitoraggio nonché la fusione di indicatori comportamentali, visivi e sonori (come la cattura dinamica, l’orientamento e la posizione della testa, l’intensità, la postura del corpo ed una varietà di parametri del linguaggio) presi in tempo reale durante l’intervista semi-strutturata con ELLIE, con il fine ultimo di individuare la presenza di indicatori di disagio psicologico come la depressione, il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) o l’ansia (DeVault et al., 2014). Le informazioni carpite da ELLIE fanno uso di sensori standard come una webcam, un microfono e Microsoft Kinect, la cui creazione è diventata possibile anche per l’apporto di Jerome Lanier. (Baltrusaitis et al., 2012; Morbini., F., 2014; Morency et al., 2008).

Nella pubblicazione Clinical interviewing by a virtual human agent with automatic behavior analysis (A. Rizzo et al., 2016) ci viene mostrato come gli utenti che hanno interagito con ELLIE hanno meno paura di sentirsi valutati e di conseguenza divulgare più informazioni personali rispetto a quando hanno a che fare con un avatar gestito da una persona reale (Lucas et al., 2014). Il presente studio suggerisce inoltre che i militari, a seguito del loro dispiegamento, avevano maggiori probabilità di sviluppare sintomi di PTSD. Nello studio in questione erano presenti due differenti campioni: il primo gruppo era composto da ventinove membri (di cui 2 donne) facenti parte della Guardia Nazionale del Colorado con un’età media di 41,46 anni. Nel secondo gruppo invece il campione era costituito da 132 soggetti divisi in membri attivi e veterani, tra cui erano presenti 16 donne. L’età media era di 44,12 anni. Se i partecipanti del primo gruppo erano stati stanziati per nove mesi in Afghanistan, i membri del secondo gruppo erano tuttavia appena tornati da una singola missione. Nel primo studio i militari tornati dal loro dispiegamento erano stati sottoposti prima al PDHA ufficiale (ovvero il Post-Deployment Health Assessment), successivamente alla sua versione anonima ed infine ad un colloquio con Ellie per circa 20 minuti. I partecipanti del secondo gruppo invece hanno solamente preso parte alla versione anonima del PDHA e all’intervista con la terapeuta virtuale.

Dai risultati dei due campioni emerge quanto segue: tutti i soldati avevano parlato liberamente e senza alcun timore dei propri sintomi con ELLIE piuttosto che attraverso l’utilizzo dei due test. Ciò dimostra, come già affermato precedentemente, che le interviste fatte con un VH riducono l’esitazione dell’intervistato a rivelare più notizie e la paura di ricevere giudizi negativi. Il contesto rassicurante fornito dalla I.A viene facilitato dalla presenza degli atteggiamenti, posture, nonchè dalle espressioni facciali antropomorfe tipiche di un essere umano, le quali permettono il manifestarsi di sentimenti di connessione sociali tra la persona intervistata e la macchina. (Epstein., J., Klinkenberg, W.D., Wiley., D., McKinley., L. 2001).

Nel 2017 SimSensei Kiosk è stata traslata in un dispositivo VR quale il VIVE HMD. La realtà virtuale si è da sempre dimostrata una tecnologia utile in svariati ambiti: dalla ricerca iniziale tale strumento ha acquisito sempre di più una notevole rilevanza sia in ambito clinico per il trattamento di una varietà di disturbi psicologici, sia in ambito sportivo, militare ed infine ospedaliero. (Gorrindo, T., Groves, J. 2009; Krijn, M., et al. 2004; Lazzeri, M., 2011; Lazzeri, M., 2021; Reger, G.M., et al. 2011; Riva, 2010).

 

La riabilitazione cognitiva nelle RSA: il modello Alteya

Nella RSA Villa Albani è stato attivato un progetto, il modello Alteya, con l’obiettivo di migliorare i sintomi cognitivi e comportamentali dei pazienti, migliorare la loro qualità di vita e ridurre lo stress del personale.

 

Le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA)

La presenza diffusa di pazienti con deficit cognitivi che presentano disturbi comportamentali, tra i ricoverati nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), impone, come stabilito dalla vigente normativa, la ricerca e l’applicazione di adeguati interventi per la riabilitazione cognitiva ed il contenimento dei comportamenti disfunzionali.

Le residenze sanitarie assistenziali (Banchero, 2013) sono comparse in Italia negli anni ’90, si tratta di strutture a carattere sanitario. Si distinguono dagli ospedali e dalle case di cura perché non si occupano di pazienti con patologie acute, ma ospitano, per un periodo di tempo determinato od indeterminato, persone non autosufficienti per deficit fisici, psichici e sensoriali, che non possono essere assistite a domicilio.

La vigente normativa nazionale (Ministero della Sanità, 1994) prevede che le RSA offrano ai loro ricoverati, oltre ad una sistemazione residenziale adeguata, tutti gli interventi medici, infermieristici e riabilitativi necessari. Inoltre stabilisce che l’assistenza sia individualizzata ed orientata al miglioramento dei livelli di autonomia, degli interessi personali  e delle inclinazioni dei pazienti.

È elevata, tra i ricoverati nelle RSA, la percentuale di pazienti che presentano un decadimento cognitivo (D’Amuri, 2021). Questo dato, e ciò che la normativa dispone, hanno generato il bisogno di creare progetti d’intervento specifici nell’ambito della riabilitazione cognitiva e della gestione dei disturbi del comportamento frequentemente associati alla disabilità intellettiva (Croce L. 2019, Hersch E.C. Falzgraf S.2007).

Il progetto della cooperativa sociale onlus Alteya in RSA

Un concetto fondamentale, su cui si fonda la riabilitazione cognitiva, è che l’inattività porta alla perdita della funzione; inoltre nell’attuazione della terapia riabilitativa non deve mai essere sottovalutato l’elemento motivazionale (Mazzucchi A. 1999; M.Bocardi 2014).

La RSA Villa Albani è una struttura pubblica, appartenente alla Asl Roma 6, i cui costi residenziali ed assistenziali sono a carico del Sistema Sanitario Nazionale ed i servizi residenziali ed assistenziali sono gestiti dalla cooperativa sociale onlus Alteya. In questa struttura, gran parte degli utenti ospitati presentano deficit cognitivi secondari a svariate patologie. Nella RSA è stato attivato un progetto, il modello Alteya, che ha l’obiettivo di migliorare i sintomi cognitivi e comportamentali dei pazienti, rendere migliore la loro qualità di vita e ridurre lo stress di tutto il personale addetto all’assistenza.

Nel progetto, rispetto agli interventi di riabilitazione cognitiva, sono previste, oltre alle attività quotidiane ed ai laboratori svolti all’interno della struttura, una serie di attività che i pazienti svolgono sul territorio. Attualmente gli utenti di Villa Albani partecipano al laboratorio di agricoltura biologica (Alteya Onlus, 2021) frequentano la piscina comunale, sono impegnati in un corso (Alteya Onlus, 2021), tenuto da una pizzeria locale, che permette loro di apprendere il ciclo di lavorazione della pizza, così da divenire autonomi nella sua preparazione. Tali attività, oltre a mantenere e potenziare le capacità residue dei singoli pazienti, risultano particolarmente motivanti, migliorano le interazioni sociali e l’autostima personale.

Tutti gli operatori coinvolti nelle attività socio-asistenziali, partecipano periodicamente agli incontri tecnico-formativi organizzati per fornire, sulla base delle evidenze scientifiche e delle linee guida, gli strumenti necessari per rispondere ai bisogni assistenziali degli utenti (Alteya 2021). Attualmente, rispetto alla gestione dei disturbi comportamentali (Castrucci L., 2021), viene applicato un protocollo ad indirizzo cognitivo comportamentale che prevede l’utilizzazione di rinforzi positivi erogati tramite la consegna di ticket, l’applicazione del time-out, quando il paziente non abbandona il comportamento disfunzionale, e l’utilizzo dei cartellini di ammonizione se nemmeno il time-out si rivela efficace.

La valutazione dell’intervento riabilitativo è effettuata con la somminastrazione di test, come ad esempio il Mini Mental State Examination, in grado di misurare i progressi dei pazienti (Ruggeri M. 2011) e sull’analisi dei report settimanali compilati dagli operatori.

 

Il cambiamento della funzione sessuale nelle donne che sono state trattate per il vaginismo durante la pandemia COVID-19

Il trattamento del vaginismo ha un elevato tasso di successo (Pacik, 2011) e identificare la gravità del disturbo aiuta il terapeuta a capire cosa la paziente sta sperimentando e cosa è in grado di fare.

 

Il vaginismo è attualmente definito dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM5- APA, 2013) come un sottoinsieme del Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione (DGP-P) all’interno del quale qualsiasi forma di penetrazione vaginale come tamponi, dita, dilatatori vaginali, esami ginecologici e rapporti sessuali sono spesso dolorosi o impossibili. Il vaginismo ha una componente psicologica che si manifesta con marcata paura o ansia che possono essere sperimentate prima, dopo o durante la penetrazione; tali emozioni sono diffuse tra le donne che hanno provato regolarmente dolore durante un rapporto e in molti casi possono portare a un marcato evitamento di situazioni sessuali o intime. Inoltre, è presente anche una componente fisica che si manifesta con marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale (Pacik, 2011). Le difficoltà nella penetrazione vaginale possono presentarsi in maniera generalizzata a tutte le esperienze di penetrazione oppure essere specifiche ad alcune situazioni.

Il tasso di prevalenza del vaginismo in un ambiente clinico è stimato tra il 5% e il 17% e si ritiene che sia una delle più prevalenti disfunzioni sessuali femminili (Spector & Carey, 1990). Diversi fattori psicologici sono stati associati al vaginismo, tra i quali esperienze sessuali traumatiche, abusi sessuali, una rigida educazione religiosa e/o educazione sessuale, paura e/o problemi di ansia (Lahaie et al., 2010), sebbene diversi dati mostrino che non è sempre associato a problemi psicologici e alcune pazienti hanno un’anamnesi negativa per questi fattori.

Il vaginismo, inoltre, spesso porta a problemi coniugali, depressione e sentimenti di isolamento (Hamilton e Meston, 2013).

Trattamento del vaginismo

Rispetto ad altri dolori sessuali come la vulvodinia e la vestibulodinia, il trattamento del vaginismo ha un elevato tasso di successo (Pacik, 2011) e identificare la gravità del disturbo aiuta il terapeuta a capire cosa la paziente sta sperimentando e cosa è in grado di fare.

Solitamente i trattamenti maggiormente utilizzati prevedono l’uso di dilatatori vaginali di dimensioni gradualmente crescenti, utilizzati per realizzare il rilassamento pelvico. La maggior parte delle donne, dopo la terapia, riporta un miglioramento complessivo nella funzione sessuale e di avere penetrazioni confortevoli (Pacik & Geletta, 2017).

Sessualità, vaginismo e pandemia

La pandemia di COVID-19 è stata la principale crisi sanitaria globale degli ultimi decenni e ha creato enormi cambiamenti sociali, economici e politici in tutto il mondo. Allontanamento sociale, cambiamenti improvvisi nella routine quotidiana, lunghi periodi chiusi in casa e alcune limitazioni delle attività sociali, hanno avuto un significativo impatto psicosociale sulle persone (Wang et al., 2020).

La funzione sessuale femminile è influenzata da molteplici fattori che condizionano lo stato emotivo e ormonale (Hamilton & Meston, 2013): lo stress, il cambiamento della routine quotidiana e la paura di ammalarsi hanno effetti negativi sulla funzione sessuale e provocano cambiamenti emotivi e cognitivi con conseguenti effetti anormali sull’eccitazione genitale e soggettiva (Schiavi et al., 2020).

Diversi studi hanno valutato il cambiamento della funzione sessuale femminile durante la pandemia di COVID-19 in donne sane in età riproduttiva (Yuksel & Osgor, 2020). In particolare, uno studio di Ugurlucan e colleghi del 2021, si è occupato di valutare il cambiamento della funzione sessuale e della frequenza dei rapporti sessuali nelle donne che sono state trattate per il vaginismo durante la pandemia COVID-19. Sono state quindi incluse 77 donne trattate con dilatatori tra il 2018-2019 e sono stati confrontati i dati ottenuti 3 mesi dopo la prima penetrazione confortevole con quelli durante la fase di picco della pandemia (aprile-maggio 2020). In particolare sono stati somministrati il Female Sexual Function Index (FSFI-Rosen et al., 2000) per valutare la funzione sessuale (in sei domini: desiderio, eccitazione, lubrificazione vaginale, orgasmo, soddisfazione e dolore); il Golombok-Rust Inventory of Sexual Satisfaction (GRISS- Rust & Golombok, 1986), per valutare la disfunzione sessuale nelle coppie eterosessuali; infine il Beck Depression Inventory (BDI-Beck et al., 1996) per valutare gli atteggiamenti caratteristici e i sintomi depressivi. La frequenza dei rapporti sessuali e il dolore sperimentato sono stati confrontati utilizzando una scala analogica visiva. L’interesse degli autori era dapprima confrontare i punteggi  FSFI, GRISS e BDI; successivamente valutare il cambiamento della frequenza e del dolore dei rapporti. I risultati mostrano che ci sono stati miglioramenti significativi nelle sottoscale del desiderio, dell’eccitazione, dell’orgasmo e del dolore FSFI. C’è stato inoltre un miglioramento significativo nel punteggio totale e nei domini infrequenza, non comunicazione, evitamento, non sensualità e vaginismo del GRISS. Tuttavia, i punteggi sono significativamente peggiorati nei domini dell’insoddisfazione e dell’anorgasmia. Anche i punteggi del BDI mostrano un significativo peggioramento mentre la frequenza dei rapporti sessuali non è cambiata significativamente e i punteggi del dolore sono diminuiti significativamente.

Sessualità, vaginismo e pandemia: conclusioni

Le donne trattate per il vaginismo hanno quindi mantenuto la loro funzione sessuale durante la pandemia e nessuna ha sviluppato un disturbo secondario da dolore genito-pelvico e della penetrazione. Sebbene la frequenza dei rapporti sessuali sia rimasta la stessa e la scala del dolore sia diminuita, la qualità del rapporto sessuale è risultata essere peggiore durante la pandemia, come evidenziato dalle sottoscale del GRISS di insoddisfazione e anorgasmia e dalle sottoscale FSFI di lubrificazione e soddisfazione. La paura di prendere la malattia dai partner durante i rapporti, il contatto intimo e l’aumento di stress e ansia durante la pandemia potrebbero pertanto aver avuto un effetto negativo sulla funzione sessuale. È noto che l’attività sessuale è associata alla salute mentale e psicologica (Sansone et al., 2021) e dunque alti livelli di stress cronico possono provocare una diminuzione del desiderio sessuale. Sarebbe importante, quindi, valutare l’effetto del supporto psicologico in queste donne per far fronte allo stress, all’ansia e alla depressione e migliorare conseguentemente la loro funzione sessuale (Ugurlucan et al., 2021).

 

Il concetto di morte per chi soffre di anoressia

L’anoressia porta la persona che ne soffre ad avere un rapporto emblematico con la morte stessa.

 

L’uomo solitamente dà alla morte un significato che va ben oltre il suo reale aspetto naturale. La morte può infatti essere pensata, ragionata, fantasticata, temuta ed anche idealizzata (Morin & Bellusci, 2021).

In alcune menti, come in quelle di chi soffre di anoressia, l’avvicinarsi sempre di più ad un futuro morente a causa del deperimento fisico, non viene percepito, e neanche compreso, come uno degli scenari futuri possibili. Questo ci pone di fronte ad una vera e propria contraddizione: chi soffre di anoressia, nonostante abbia in mente il concetto di morte e le diverse condizioni che possono portare ad essa, decide inconsapevolmente di andarle incontro in modo del tutto spontaneo e graduale (De Clerq & Birattari, 2013).

Caratteristiche dell’anoressia

Partendo da questo presupposto, al fine di affrontare tale questione, è fondamentale andare ad analizzare il termine anoressia, il cui significato etimologico è mancanza di appetito, di fame (Treccani, 2017).

Una fame non unicamente legata al cibo, ma anche al desiderio di vita.

Una persona che desidera vivere è una persona in grado di “diventare corpo”, di acquisire forma e sostanza, è qualcuno capace di dar forma ai propri desideri ed obiettivi, capace di evolvere e dunque di diventare altro rispetto a quello che è nel presente. Tale processo evolutivo è differente in quei soggetti in cui prevalgono dinamiche di violenza, trascuratezza o in cui prevale una ricerca ossessiva al perfezionismo (Ciccolini & Cosenza, 2015).

In questi ultimi la spinta nel voler “prendere corpo” non esiste, perché bloccata da quanto vissuto, così l’impossibilità di “prendere corpo” nel tempo si trasforma in un rifiuto di quest’ultimo.

Procedendo in questo modo, il concetto di crescita prende forma nel suo opposto: si può “prendere corpo” solo nel momento in cui lo si perde. Matura così l’idea di dover diventare più magri.

Ed è qui che tutto questo si trasforma nella possibilità di una nuova rinascita, nella possibilità di poter essere quello che si vorrebbe essere o quello che non si è riusciti ad essere. Questa aspirazione può così portare l’anoressica ad intraprendere tale “carriera suicida” (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Chi osserva dall’esterno un corpo anoressico può notare come questo incarni la morte, di cui prende così le sembianze: il volto scavato, il corpo quasi inesistente (De Clerq & Birattari, 2013).

Un’immagine corporea che però non assume lo stesso significato per chi soffre di tale disturbo che, invece, guardandosi allo specchio, non vede un corpo in fin di vita, ma un corpo vitale capace di esistere solo nel momento in cui ha raggiunto un peso specifico (Cosenza, 2008).

Il corpo anoressico, rappresenta così quello che non si è riusciti ad essere, un insieme di tentativi falliti, rappresenta l’incapacità di poter dare voce alla propria persona e dunque alla propria essenza, l’incapacità di esistere e stare al mondo ma, allo stesso tempo, è l’unica modalità attraverso cui la persona riesce a comunicare tutto questo. Si tratta quindi di una sofferenza radicata e profonda che l’individuo nasconde dietro una forte dinamica di controllo personale.

Il corpo riflette l’identità della persona ed è il palcoscenico su cui prendono forma tutti gli elementi psichici espressi dalla sua mente (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Attraverso la perdita di peso, la persona acquisisce una forte carica vitale, capace di darle l’illusione di avere tutto sotto controllo.

Anoressia e restrizione

Alcuni studi hanno dimostrato come nel comportamento di rifiuto del cibo, sia coinvolto il circuito dopaminergico di reward, ovvero un sistema di connessioni cerebrali capaci di promuovere comportamenti volti a favorire un buon adattamento dell’individuo all’ambiente, garantendone così la sopravvivenza. È stato osservato come le aree cerebrali che si attivano in chi soffre di anoressia, siano le stesse presenti in chi fa uso di droghe e dunque capaci di favorire lo sviluppo di una vera e propria dipendenza. Nel caso del sintomo anoressico, parliamo però di una “dipendenza da privazione” ed è proprio questa che rende le anoressiche capaci di resistere e quindi di non rispondere alle proprie esigenze corporee. L’organismo infatti, nelle prime fasi di privazione da cibo, si attiva, andando ad innalzare il livello di funzionamento del soggetto, rendendolo in questo modo pieno di energie ed iperattivo; il tutto con lo scopo di favorirne la sopravvivenza (Fakhour, 2021).

Tali risvolti fisici, accompagnati dai tratti psichici della persona, non fanno che intensificare il comportamento anoressico e dunque il disturbo stesso, intrappolando così l’individuo all’interno di un mortale circolo vizioso.

Davanti a questo scenario è però importante rivolgere il proprio sguardo anche ai modelli proposti dalla società in cui viviamo. Ogni giorno veniamo bombardati da immagini preconfezionate di corpi perfetti che ci spingono a voler raggiungere standard inesistenti, anche quando questi non sono altro che la rappresentazione di persone incapaci di prendersi cura di sé, di nutrirsi e sostenersi.

Tali modelli non fanno che creare un senso di inadeguatezza ed insoddisfazione per la propria immagine corporea, andando in questo modo ad incentivare sempre di più il sintomo anoressico, direzionando così l’individuo ad un rischio di mortalità sempre più alto (De Clerq & Birattari, 2013).

Chi soffre di anoressia non percepisce il pericolo di vita, ma nel momento stesso in cui si rende conto di aver raggiunto il limite, allora percepisce di aver raggiunto il giusto livello di magrezza, quella magrezza che ora gli permette di poter “prendere corpo” e di poter così affrontare il mondo, nonostante la sua condizione fisica reale sia molto lontana dall’immagine di un corpo sano ed energico (De Clerq & Birattari, 2013).

L’anoressia è dunque la manifestazione di un disagio interiore che viene ribaltato all’esterno, così facendo il soggetto identifica il proprio corpo come una scala attraverso cui valutarsi e darsi o levarsi valore, con cui affrontare le proprie paure e ciò che lo circonda. Una scala valoriale che, se portata all’estremo, può condurre alla morte stessa (Siegel & Brisman, Judith & Weinshel, Margot., 1995).

Partendo da questo presupposto, possiamo notare come il sintomo anoressico non sia quindi la manifestazione di un tentato suicidio da parte dell’individuo, ma risulti essere l’unico mezzo attraverso cui il soggetto riesce effettivamente ad esistere, a “prender corpo”. L’individuo dà così un significato alla propria identità basandosi sul livello di magrezza raggiunto e questo perché il disturbo si manifesta attraverso il corpo, ma allo stesso tempo ne è infettata anche la psiche, condizionando tutti quei costrutti con cui il soggetto crea le rappresentazioni che ha di sé. Così la battaglia che intraprende chi soffre di anoressia nei confronti del proprio corpo, rappresenta un fallimento dei processi di rappresentazione e simbolizzazione mentale. In questi casi, il corpo diventa il capro espiatorio da poter colpire in ogni momento (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Il problema di fondo quindi non è il corpo, l’essere magri o grassi, ma è il significato ed il valore che l’individuo attribuisce alla propria identità.

Attraverso il lavoro clinico è dunque possibile accedere alle rappresentazioni mentali che il soggetto ha di sé e del suo “sentire”. Un sentire non costituito solo da affetti o pensieri ma da forti reazioni corporee, che spesso infastidiscono il soggetto e lo costringono a dar loro ascolto con rabbia e falsa comprensione.

Il lavoro clinico eseguito da un’equipe multidisciplinare integrata, permette di agire su tali rappresentazioni mentali andando a modificarle e aiuta la persona a divenire consapevole del pericolo mortale a cui sta andando incontro. Si può così scardinare la convinzione secondo cui si riesce a “vivere” solo raggiungendo un peso specifico, aiutando in questo modo l’individuo a divenire realmente corpo senza invece perderlo del tutto (Ciccolini & Cosenza, 2015).

 


Il tempo siamo noi (2015) di Marc Wittmann – Recensione

Il tempo siamo noi ci accompagna “passo passo” con studiata agilità presentandoci una visione moderna quanto complessa del senso del Tempo che ciascuno di noi possiede.

 

Il libro Il tempo siamo noi scritto da Marc Wittmann, esperto internazionale di psicologia del tempo che lavora all’Istituto di studi interdisciplinari di psicologia e igiene mentale di Friburgo in Germania, è semplicemente uno dei libri più completi ed aggiornati riguardo la tematica temporale nelle sue varie sfaccettature.

Con un linguaggio molto accessibile, ma che non rischia mai di semplificare in maniera riduzionistica i vari concetti citati, il testo rappresenta forse il libro che più sintetizza le molte conoscenze filosofiche, psicologiche e delle moderne neuroscienze che hanno a che fare con la dimensione temporale.

Spaziando dalla relazione psicologica che ognuno di noi possiede nei confronti del tempo, alle evidenze biologiche che determinano il concetto di tempo sul piano fisiologico, alle varie teorie che stanno alla base di come misuriamo il tempo che percepiamo, il libro ci accompagna “passo passo” con studiata agilità presentandoci una visione moderna quanto complessa del senso del Tempo che ciascuno di noi possiede.

Cercando sempre di offrire un messaggio non riduzionistico Marc Whittmann descrive delle prospettive originali quanto scientificamente solide che non rischiano mai di essere troppo frammentate tra di loro, malgrado il discutere della dimensione temporale sia notoriamente difficile da inquadrare senza generare una sorta di disorientamento concettuale.

L’autore riesce sempre con molta eleganza e abilità a parlare della dimensione del Tempo attraverso un filo rosso che collega ed intreccia argomenti specifici quali l’autocontrollo dello psicologo Walter Mischel (rappresentato dal suo noto esperimento sui marshmallow), la Prospettiva Temporale concettualizzata dallo psicologo Phil Zimbardo, le evidenze neurofisiologiche di quello che può essere definito il nostro “metronomo interno”, così come la dimensione esperienziale del senso del Tempo e le molteplici implicazioni sul nostro benessere e la nostra salute derivanti dall’“orologio interno” che definisce il ritmo di funzionamento della nostra fisiologia.

Personalmente ho trovato particolarmente interessanti le sezioni che trattano le moderne evidenze neurofisiologiche del senso del Tempo con l’enterocezione così come l’analisi di alcune emozioni specifiche come la noia o l’esperienza ottimale ma non c’è una parte del libro che non consiglierei di leggere con attenzione.

Anche le ricerche citate ed i concetti esposti relativi i Ritmi Circadiani e le loro numerose implicazioni psicofisiche derivanti la loro desincronizzazione dovuta all’attuale società caratterizzata da un cronico “social jet-lag”, sono particolarmente interessanti per comprendere in una nuova prospettiva dei comportamenti assolutamente diffusi all’interno della popolazione quanto spesso quasi patologici.

La profonda competenza dell’autore è evidente anche quando tratta i temi più squisitamente psicologici in particolare nel suo primo capitolo intitolato “Miopia temporale: il saper aspettare”.

Il tempo siamo noi è un libro che va letto più volte da quanti concetti sintetizza, ma soprattutto per quanti spunti e stimoli offre analizzando il fattore Tempo.

Consiglio vivamente questo libro per tutti coloro che sono interessati alla dimensione temporale (chi di noi non lo è?) ed in particolare ai colleghi curiosi di sapere come il fattore Tempo influenza le nostre vite, sia nei suoi aspetti più puramente psicologici esperienziali che in quelli biologico-fisiologici che determinano, entrambi, la nostra salute e la nostra qualità di vita.

 

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