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La sindrome del lobo frontale

Il lobo frontale rappresenta il lobo più grande del cervello ed è diviso in tre aree principali ben definite (corteccia motoria primaria, corteccia supplementare e premotoria e corteccia prefrontale) (L. Pirau et al., 2020).

 

Dopo un danno cerebrale alla corteccia prefrontale, varia è la natura dei disturbi della personalità acquisiti e numerose sono state le osservazioni cliniche a riguardo. Gli autori Barrash, Stuss, Aksan et al. (2018) hanno ipotizzato cinque sottotipi di disturbi acquisiti della personalità post Trauma Cranio Encefalico (TCE): esecutivi, comportamento sociale disturbato, disregolazione emotiva, ipoemotività/deenergizzazione ed angoscia. A seguito di un danno al lobo frontale, variano i processi di funzionamento più elevati del cervello, come la motivazione, la pianificazione, il comportamento sociale e la produzione del linguaggio, poiché i lobi frontali regolano le emozioni, le interazioni sociali e la personalità (L. Pirau et al., 2020). Famoso è il caso di Phineas Gage, operaio ferito da un’asta in un’esplosione ferroviaria che provocò lesioni al suo lobo frontale sinistro, causandogli drastici cambiamenti di personalità e comportamento, che vennero descritti per la prima volta da Harlow come ‘sindrome del lobo frontale‘. ‘Le lesioni nelle aree orbitofrontali classicamente causano drammatici cambiamenti nel comportamento che portano all’impulsività e alla mancanza di giudizio. Le lesioni si trovano solitamente nelle aree 10, 11, 12 e 47 di Broadmann e sono associate a una perdita di inibizione, labilità emotiva e incapacità di funzionare adeguatamente nelle interazioni sociali. Le lesioni nelle aree intorno alle aree 9 e 46 di Brodmann possono causare deficit nell’apprendimento delle regole, nella pianificazione e nella motivazione’ (L. Pirau e F. Lui; 2020).

Il lobo frontale: l’apprendimento delle regole e il cambio di attività

I pazienti con danni alla corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) hanno difficoltà ad eseguire il Wisconsin Card Sorting Task (WCST). Il WCST richiede ai pazienti di ordinare le carte in base a una regola (ad esempio, posizionare le carte in pile in base al colore, alla forma o al numero). Ad un certo punto durante l’attività, la regola viene modificata. I pazienti DLPFC spesso non sono in grado di passare a una nuova regola e continuano invece a seguire la regola originale (Milner, 1963; Shallice e Burgess, 1991). In particolare, i pazienti con danni nella PFC commettono errori casuali oltre ad errori perseveranti che possono derivare da interruzioni transitorie dell’attenzione (Barcelo e Knight, 2002). Questo comportamento perseverante in seguito al danno suggerisce che la DLPFC è importante per mantenere internamente regole comportamentali rilevanti per controllare le azioni e per passare in modo flessibile tra queste regole.

Il lobo frontale: la pianificazione e la risoluzione dei problemi

I pazienti con danno laterale sono spesso in grado di eseguire un’azione individuale che fa parte di una sequenza isolatamente, ma non sono in grado di eseguire le stesse azioni in un particolare ordine temporale. Invece, spesso omettono o perseverano sulle azioni o eseguono azioni nell’ordine errato (Duncan, 1986; Grafman, 1989). Questi pazienti spesso lottano con la pianificazione nelle situazioni della vita quotidiana, che è stata definita ‘disturbo dell’applicazione della strategia’ (Burgess, 2000). La Torre di Hanoi (TOH) e la Torre di Londra (TOL) sono due compiti tradizionalmente utilizzati per valutare la capacità di pianificare diverse mosse in anticipo per raggiungere un obiettivo (Shallice, 1982; Simon, 1975). Entrambi i compiti richiedono che i soggetti spostino dischi colorati disposti su più pioli da una posizione iniziale a una posizione finale predeterminata. I pazienti con danno PFC laterale sono molto più lenti e richiedono più movimenti quando risolvono i compiti TOH e TOL (Goel e Grafman, 1995; Manes et al., 2002; Owen et al., 1990; Shallice, 1982).

Il lobo frontale: la motivazione

Blumer e Benson (1975) hanno identificato una sindrome ‘pseudodepressiva’ che è spesso associata a danni alla DLPFC ed è caratterizzata da perdita di iniziativa e diminuita motivazione, appiattimento affettivo, manifestazione esteriore di apatia e indifferenza, ridotta produzione verbale e lentezza comportamentale (sintomi che sono clinicamente caratterizzati come abulia). I sintomi dell’abulia in seguito al danno DLPFC sono direttamente legati all’incapacità di questi pazienti di pianificare e mantenere sequenze di obiettivi e azioni. Infatti, i pazienti DLPFC spesso mostrano disprezzo per i requisiti del compito, anche se i requisiti sono compresi e ricordati, un fenomeno indicato come ‘negligenza dell’obiettivo’ (Duncan et al., 2008). La DLPFC è stata proposta come un’area all’interno di una rete, che comprende anche la corteccia motoria supplementare, la corteccia cingolata anteriore (ACC), i gangli della base e il talamo, che controlla le azioni volute (Jahanshahi e Frith, 1998). Pertanto, quando la DLPFC è danneggiata, i pazienti non hanno l’intenzione di agire.

 

Metacredenze e scopi sociali – Partecipa alla ricerca

Partecipa alla ricerca! Scopo di questo studio è l’indagine e la comprensione di alcune credenze metacognitive e motivazioni che le persone potrebbero avere quando si trovano in situazioni sociali.

 

I ricercatori e i clinici del MeThe Reseach Lab della Sigmund Freud University di Milano stanno effettuando una ricerca per comprendere e indagare come alcune specifiche credenze metacognitive e motivazioni possano influenzare il comportamento delle persone nelle situazioni sociali, ovvero quando si trovano ad interagire con gli altri, siano essi familiari o sconosciuti.

Credenze metacognitive: cosa sono? Il modello di Wells

Con l’espressione “credenze metacognitive” si intendono le credenze, le idee e le teorie che ognuno di noi possiede in merito al contenuto dei propri pensieri, delle proprie emozioni e dei propri comportamenti o motivazioni nell’agire. In generale, potremmo definire le credenze metacognitive come l’insieme delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento (Wells & Matthews, 2015).

Il modello teorico metacognitivo proposto da Wells (1991) assume che questa tipologia di credenze abbia un impatto significativo sul nostro modo di relazionarci con gli stati interni e i pensieri, influenzando l’importanza, il significato e l’attenzione che diamo ad essi. In linea con questo modello, quando tale attribuzione diventa eccessiva, pervasiva e negativa, avrebbe ripercussioni nello sviluppo e nel mantenimento di alcuni disturbi psicologici come ansia e depressione e della sofferenza emotiva.

Credenze metacognitive, relazioni e interventi terapeutici

Di recente, alcuni studi  (Gao et al., 2017; Liebke et al., 2018) hanno altresì cominciato a sottolineare come in alcuni casi la loro presenza possa compromettere anche la costruzione e il mantenimento di una buona e soddisfacente vita sociale oltre che il benessere psicofisico della persona. Ad oggi il contenuto specifico di queste credenze e il loro impatto nell’ambito sociale è poco esplorato e pertanto il laboratorio di ricerca MeThe Reseach Lab della Sigmund Freud University di Milano sarebbe interessato a far luce sia sulla loro natura sia sugli effetti che queste potrebbero avere sulle motivazioni che spingono le persone ad interagire con gli altri.

Questa ricerca permetterebbe di approfondire l’impatto che le credenze metacognitive potrebbero avere nella vita relazionale delle persone favorendo così la realizzazione di ricerche future e interventi clinici più mirati. Infatti per poter pianificare un intervento clinico efficace è necessario ampliare le conoscenze attualmente disponibili su questo fenomeno e sui suoi meccanismi di funzionamento attraverso precise ricerche sperimentali come questa.

Partecipa alla ricerca

La ricerca è stata già approvata dal comitato etico e scientifico competente. Ti chiediamo di compilare un breve questionario. Impiegherai all’incirca 20 minuti e ti verrà garantito il completo anonimato. Siamo agli inizi e il tuo contributo è per noi prezioso!

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Il team del MeThe Lab

L’utilizzo problematico dello smartphone tra gli adolescenti influenza gli atti di bullismo e cyberbullismo

Nel 2020 Méndez e colleghi hanno condotto uno studio per valutare se si verificassero aumenti significativi degli atti di bullismo e cyberbullismo tra gli adolescenti che fanno un uso problematico dello smartphone.

 

Gli smartphone sono diventati uno degli strumenti più utilizzati nella nostra vita quotidiana, in particolare tra gli adolescenti. Svolgono diverse funzioni ludico-espressive e comunicative: ci permettono di comunicare, di esprimerci, di accedere ad alcune informazioni e di trascorrere il tempo libero (Besoli et al., 2018). Inoltre le reti sociali che si creano mediante l’uso dei telefoni costituiscono una forma di interazione sociale che permette di allargare la comunicazione abituale e l’espressione emotiva. Le persone spesso condividono sentimenti e opinioni, talvolta dicendo cose che non riescono a dire a voce, altre volte creando fraintendimenti in quanto i messaggi possono venire male interpretati. È noto in letteratura che l’uso problematico dello smartphone possa anche danneggiare le relazioni interpersonali (Díaz-López et al., 2020). In molti casi, specialmente tra i giovani, è possibile che l’uso del telefono possa diventare problematico e creare dipendenze comportamentali che hanno alcuni meccanismi in comune con quelle da sostanze (tolleranza, meccanismi neurobiologici, comorbilità ecc.).

Uso problematico dello smartphone: quali rischi

Sebbene il DSM-5 abbia una categoria diagnostica dedicata alle dipendenze e disturbi correlati senza sostanze, l’uso del cellulare non è compreso (APA, 2013). Inoltre, spesso ci si serve dello smartphone come tampone alla noia, solitudine, irritabilità, nervosismo o per alleviare la tensione emotiva (Santana-Vega et al., 2019). L’uso intensivo di telefoni cellulari tra gli adolescenti è stato associato all’uso di droghe, scarso rendimento scolastico, bassa autostima e scarse relazioni sociali; impulsività, ansia e stress; maggiore disagio emotivo e bassa coesione familiare (Amendola et al., 2019). Gli adolescenti solitamente usano lo smartphone in modo ricreativo o comunicativo e lo rendono una forma di evasione o distrazione per navigare su internet, sui social network, ascoltare la musica o divertirsi collettivamente. Spesso, però, mostrano un’incapacità di scollegare o spegnere i telefoni che, di conseguenza, riduce il sonno e aumenta preoccupazione e ansia. Inoltre talvolta l’ambiente sociale e il bisogno di appartenenza rendono i cellulari un veicolo di comunicazione essenziale: i ragazzi prediligono la comunicazione online piuttosto che di persona poiché permette loro di divertirsi, socializzare e promuovere lo status sociale (Moral e Suárez, 2016).

Un ulteriore rischio collegato ai cellulari riguarda la condivisione istantanea di video o immagini che possono essere utilizzati in modi impropri e provocare gravi danni alle vittime in differenti contesti. Tale scambio è frequente nel contesto scolastico: gli adolescenti che usano in modo problematico le nuove tecnologie sono coinvolti in maggiori problemi di bullismo e cyberbullismo (Arnaiz et al., 2016). Inoltre, i ragazzi con un comportamento problematico sui social media sono più coinvolti in comportamenti aggressivi tra i pari (Martínez- Ferrer et al., 2018). Gli adolescenti però spesso non sono consapevoli dei rischi che comporta il condividere informazioni relative a sé stessi e agli altri su internet. Tra le forme di cyberbullismo esiste infatti il ‘doxing’ che consiste nel rivelare informazioni relative a un utente (vero nome, indirizzo di residenza, luogo di lavoro ecc.), informazioni che vengono divulgate pubblicamente senza l’autorizzazione della vittima (Chen et al., 2019).

Smartphone e cyberbullismo: uno studio

Nel 2020 Méndez e colleghi hanno condotto uno studio per valutare se esistessero differenze significative negli atti di bullismo e cyberbullismo tra gli adolescenti con un utilizzo problematico del cellulare. Nello specifico si sono occupati di identificare diversi profili che differivano nei problemi conseguenti all’uso dello smartphone e nei modelli comunicativi ed emotivi inappropriati. La prima ipotesi riguardava l’esistenza di diverse tipologie di uso problematico dello smartphone tra gli adolescenti; secondariamente hanno ipotizzato che i ragazzi che utilizzano lo smartphone in modo maggiormente problematico sono coinvolti in problemi di violenza scolastica come bullismo o cyberbullismo. 810 adolescenti della scuola secondaria, sono stati inclusi nella ricerca. Gli autori hanno sottoposto loro il questionario sulla violenza scolastica (Álvarez-García et al.,2011) che valuta diverse manifestazioni di violenza scolastica (violenza fisica indiretta degli studenti, violenza fisica diretta tra studenti, esclusione sociale, violenza degli insegnanti ecc.). Infine agli studenti è stato sottoposto il il Mobile Related Experiences Questionnaire (CERM-Beranuy et al., 2009) per valutare l’abuso del cellulare, composto da due fattori: i problemi conseguenti all’abuso del cellulare e i problemi dovuti all’uso comunicativo ed emotivo inappropriato del cellulare.

I risultati hanno identificato tre diversi tipi di uso problematico dello smartphone: un primo gruppo di 534 studenti (65,9%), caratterizzato da bassi livelli di problemi legati all’abuso del telefono cellulare e bassi livelli di uso comunicativo ed emotivo inappropriato (definito uso non problematico); un secondo gruppo di 209 studenti (25,8%), caratterizzato da moderati livelli di problemi e livelli moderati di uso comunicativo ed emotivo inappropriato (definito uso problematico moderato); e infine un terzo gruppo di 67 studenti (8,3%), caratterizzato da alti livelli di problemi e alti livelli di uso comunicativo ed emotivo inappropriato. Inoltre i risultati hanno rilevato differenze significative tra le tre modalità di uso problematico dello smartphone e le manifestazioni di violenza scolastica.

Conclusioni

Questo avvalora la ricerca che dimostra che l’uso problematico delle nuove tecnologie si relaziona con un maggiore coinvolgimento nelle diverse manifestazioni di violenza scolastica (bullismo e cyberbullismo) (Arnaiz et al., 2016). I problemi nelle relazioni sociali, dovuti a un uso problematico dello smartphone e a uno scarso adattamento emotivo e comunicativo, spesso sono conseguenti al fatto che l’uso del cellulare è collegato alle emozioni intense e alle tensioni dell’adolescente (Serrano-Puche, 2016). I risultati evidenziano quindi la necessità di rendere i ragazzi consapevoli dei problemi che possono derivare da un uso inadeguato del telefono e realizzare inizialmente azioni che promuovano la convivenza, le abilità sociali e comunicative, la gestione delle emozioni e dello stress per gli adolescenti (Moral e Suárez, 2016). Secondariamente, un coinvolgimento della famiglia, degli insegnanti e della scuola, per creare spazi che incoraggino un uso responsabile del cellulare (Santana-Vega et al., 2019), permettere di individuare il prima possibile quando diventa problematico e valutare il rischio che porta alla violenza scolastica (Arnaiz et al., 2016).

 

Uno psicoanalista sul cammino di Santiago (2021) di Carlo Arrigone – Recensione del libro

Nel libro Uno psicoanalista sul cammino di Santiago, per il dilagante vissuto depressivo che sembrava aver attanagliato l’intera comunità dopo il suicidio di Stella, Carlo decide di partire per il Cammino di Santiago di Compostela.

 

Il dolore deve essere liberato, la tristezza deve trovare le sue lacrime, la paura deve trovare una sicurezza, la solitudine deve trovare un conforto, la colpa deve trovare un perdono e la rabbia deve trovare una riconciliazione.

Un giorno di una rovente estate una telefonata irrompe nella quotidianità di Carlo, psicoanalista responsabile di una comunità che ospita ragazze adolescenti affette dal Disturbo Borderline di Personalità. In un attimo lo sgomento prende il sopravvento: Stella ha deciso di suicidarsi, buttandosi sui binari della metropolitana, proprio dopo aver chiesto di essere dimessa.

È a partire da questo tragico evento che prende le mosse il cammino di Carlo, come professionista, ma soprattutto come uomo, con tutto il suo carico di fragilità, di domande e di emozioni contrastanti.

Il suicidio di Stella sconvolge tutti, gli operatori e le altre ragazze ospiti, al punto che diventa impossibile poterne parlare, impossibile condividere il dolore. Il cammino di Stella era stato interrotto e tutti attorno a lei sembravano assecondare questa frattura che Stella aveva deciso per la sua vita. Non parlarne più, non poter esprimere la sofferenza, equivaleva però a non poter elaborare ciò che era accaduto e quindi non poter accettare e andar avanti, proseguire nel proprio cammino.

Ed è proprio per il dilagante vissuto depressivo che sembrava aver attanagliato l’intera comunità, dopo il suicidio di Stella, che Carlo decide di partire per il Cammino di Santiago di Compostela. Un gesto forte, a tratti folle: lui stesso in più occasioni riconosce che lasciare le ragazze e le operatrici in quel momento poteva essere rischioso, ma un gesto che si rivelerà indispensabile per poter elaborare, raccontare, liberamente soffrire e infine perdonarsi e perdonare.

Il suicidio di Stella aveva infatti insinuato, tra le ragazze ospiti della comunità, l’idea che per loro non vi fosse speranza alcuna, aveva confermato il profondo senso di indegnità che le attanagliava e che purtroppo caratterizza chi è affetto da un Disturbo Borderline di Personalità. Sentirsi indegni, non meritevoli di nulla di buono, e spesso senza speranze per il futuro rende il proprio cammino quotidiano un’esperienza drammaticamente estenuante, per chi lo vive come paziente, ma a volte anche per chi lo vive al loro fianco come operatore.

La mancanza di speranza e il senso di impotenza che da essa deriva sono estremamente contagiosi e non c’è nulla di peggio quando proprio chi dovrebbe infondere speranza per un cambiamento, chi tecnicamente è lì per aiutare e guidare, è invaso dallo stesso senso di impotenza. Carlo era quindi di fronte ad un bivio: provare ad andare avanti attanagliato dal dolore, con il rischio di rimanere inesorabilmente fermo, oppure partire per un cammino tanto intenso quanto emozionante che ridarà speranza, innanzitutto a Carlo come uomo, e poi a tutte le persone a lui care, ma soprattutto alle sue ‘guerriere’, come a lui piace chiamare le ragazze ospiti della comunità.

Camminerò perché c’è sempre una speranza, un domani, una redenzione che ci aspetta, una felicità che un giorno potremo abbracciare. Camminerò per tutte voi, per il vostro dolore, per il vostro coraggio, per le vostre battaglie di ogni giorno, per le paure, per gli errori, per le miserie, ma anche perché ciascuna di voi merita l’onore di essere riconosciuta come una grande anima coraggiosa, che lotta e cammina ogni giorno per tornare a vivere degnamente, per vivere con serenità.

Ridare dignità al dolore, dare dignità a delle vite distrutte da vicende ai limiti dell’umana sopportazione. Le guerriere di Carlo sono delle sopravvissute al trauma, e come tutti i sopravvissuti portano sul corpo e nell’anima ferite profondissime, che rendono la loro vita spesso uno strazio, tra esplosioni di rabbia, comportamenti aggressivi e autolesivi. Non aver paura del dolore, non spaventarsi di fronte alla rabbia accecante, accoglierle anche se sembra non vogliano essere accolte, guardare oltre la maschera rabbiosa e vedere le bambine fragili e desiderose d’amore e attenzioni, che si celano dietro quelle maschere. Questo è il compito che Carlo e le sue operatrici cercano, faticosamente, di svolgere ogni giorno. Una sfida estremamente complessa e ambiziosa quella di ridare speranza a chi non ne ha più: fornire un ponte che traghetti dalla disperazione ad una possibilità di vita degna di essere vissuta. Carlo e le sue operatrici ci provano e come tutte le sfide ambiziose, a volte falliscono.

Carlo parte con il suo zaino rosso fuoco in spalla, con un’unica accompagnatrice: Stella. ‘Cammino per Stella’ sarà il messaggio che Carlo porterà con sé sul suo zaino, assieme ad una foto di Stella, bella e sorridente. Nello zaino porterà gli oggetti che gli hanno affidato le ragazze, in segno di speranza. Durante il suo cammino, Carlo si troverà a dover raccontare più e più volte la sua storia, a dover rispondere alla fatidica domanda: ‘Stella è morta? Era tua figlia?’, fino al momento più commovente, quando sente che è arrivato il momento di lasciar andare Stella, affidandola a qualcun altro che possa accompagnarla degnamente nel suo cammino. Arrivato al santuario di O Cabreiro sente che è quello il luogo giusto per Stella

dopo tanto piangere e ricordare è arrivato il momento. Non mi sento pronto, ma non sarò mai pronto, devo farlo, è difficile…rimango ancora a guardare la chiesa, ma adesso sorrido e sono sollevato, mi sento avvolto da una nuova leggerezza e uno stato di pace.

Un racconto intenso, a tratti commovente, in cui l’autore non si esime dal mostrarsi in tutta la propria autenticità di uomo, a volte fragile, a volte presuntuoso, ma sempre mosso da un profondo desiderio di amore e vicinanza, per le ragazze, per la propria famiglia, per le operatrici e per tutte le persone che incontrerà sul suo cammino, di cui sentirà il calore e la profonda empatia, nonostante le lingue diverse, ma grazie ‘a quella lingua universale che sono le emozioni‘.

Nel lungo cammino, che è innanzitutto un cammino di introspezione ed elaborazione, Carlo riguarda una ferita in fondo mai rimarginata: Luca, quel figlio che in fondo non si è sentito abbastanza degno da avere una famiglia che lo amasse e che ora vive per strada.

Perché la libertà è anche questa: libertà di accogliere una speranza di vita migliore, libertà di rifiutare la propria stessa vita, qualunque essa sia.

La vera scoperta a cui Carlo giunge, anche grazie al prezioso contributo di una sua collaboratrice, nonché ex paziente, è proprio questa:

Stella ha solo fatto qualcosa che non capisco e non potrò capire…è una scelta, è la libertà…Stella è libera…è come una storia d’amore, l’altro può anche decidere di non amarti più. Stella è libera anche di scegliere di non starci.

Quella del suicidio è una scelta che Carlo non ha compreso, né tantomeno condiviso, ma accettarla ha restituito dignità a Stella, e alla sua libertà di scegliere e autodeterminarsi.

 

Intervenire con gli Hikikomori: il progetto Psicologo Fuori Studio per il ritiro sociale estremo

Con i giovani Hikikomori, le modalità terapeutiche spesso tentate sono la psicoterapia individuale, la terapia familiare, la psicoeducazione, la farmacoterapia, la terapia EMDR. Spesso funzionano, ma altre volte no. Quando non si trova appiglio nelle risposte più tradizionali, diviene necessario trovare soluzioni nuove e creative.

 

Il ritiro sociale estremo, termine con cui si possono identificare i ragazzi Hikikomori, mette ogni clinico davanti ad un dilemma.

I ragazzi che si sottraggono alle relazioni sociali e alla scuola, e che possiamo definire come ritirati sociali, compiono questa “scelta” pacificamente e volontariamente: un Hikikomori non fa male a nessuno, non compie atti estremi, possibilmente cerca proprio di passare inosservato… Ma il buon clinico può notare, o meglio può intuire, anche dei segnali di sofferenza psicologica, significativa ed acuta, che meriterebbero di essere approfonditi. In fondo il ragazzo, nel momento in cui si ritira, lo fa per paura, ansia, o evitamento di una situazione attuale (gli amici, la scuola…), ma non ha piena consapevolezza di quanto della propria vita stia realmente sacrificando, nel presente e nel futuro. E noi non possiamo sapere quanto davvero, nel profondo, viva della fatica o del dolore legati alla propria vicenda esistenziale e relazionale.

Il dilemma è quindi tra accettare la volontarietà di questo atto, del ritiro sociale, lasciando il ragazzo alla sua vita isolata, oppure tentare di superare l’ostacolo di questa chiusura al mondo, per provare a lenire quella sofferenza.

Se si opta per la seconda possibilità, ci si trova a dover affrontare un fatto: i ragazzi Hikikomori molto spesso rifiutano di definirsi come sofferenti e quindi rifiutano di farsi aiutare, sono difficili da avvicinare e tendono a non fidarsi degli altri.

La psicoterapia individuale, la terapia familiare, la psicoeducazione, la farmacoterapia, la terapia EMDR sono modalità terapeutiche spesso tentate per aggirare questi ostacoli. Talvolta funzionano, ma molte altre volte no. Quando non si trova appiglio nelle risposte più tradizionali, diviene necessario trovare soluzioni nuove e creative.

Negli anni 2013 e 2014, all’interno del nostro percorso di formazione come terapeuti, abbiamo iniziato a confrontarci con situazioni di questo tipo, situazioni complesse che rimbalzavano da un esperto ad un altro, da un servizio specialistico al successivo, senza che nessuno riuscisse a trovare una soluzione efficace. Quando il paziente principale si rifiuta di recarsi in studio, o lo fa saltuariamente ma controvoglia, chiunque si può trovare ad oscillare tra la tentazione di gettare la spugna e la consapevolezza di dover tener duro e avere pazienza, anche se i risultati in un primo momento sono minimi.

Ci capitava di essere chiamati in campo da colleghi ben più esperti di noi, con l’idea di tentare un ultimo disperato approccio, ma senza che fosse chiaro quale fosse la specificità e l’obiettivo del nostro intervento domiciliare: l’importante era inviare a casa qualcuno, che provasse a fare qualcosa, non importa esattamente cosa, ma che tentasse di smuovere le acque e proponesse qualche attività, perché il ragazzo, o ragazza, rifiutava di recarsi in studio, ma certamente si trovava in uno stato di difficoltà.

In quegli anni, abbiamo quindi iniziato ad osservare come esistessero situazioni in cui nessuna delle “classiche” modalità terapeutiche sembrava ottenere risultati soddisfacenti. Spesso non riuscivano proprio a “raggiungere”, ad incontrare, questi ragazzi.

In poco tempo, invece, ci siamo accorti delle potenzialità di questa diversa modalità di intervento domiciliare e siamo stati incoraggiati anche dai primi, promettenti, risultati. Presto abbiamo però anche constatato quanto fosse necessario costruire un preciso modello che facesse da guida per il lavoro psicologico domiciliare. Non bastava infatti “fare qualcosa” o “offrire una relazione”. Non bastava nemmeno solo proporre delle attività. Abbiamo sentito la necessità di costruire un modo di lavorare che sfruttasse al massimo tutte le potenzialità del setting domiciliare, che fosse adeguato alle difficoltà delle situazioni che incontravamo e che fosse di reale aiuto ai nostri pazienti.

Abbiamo quindi iniziato a riflettere su un modello di intervento che fosse diretto a ragazzi e ragazze gravemente sofferenti, ma non motivati a percorrere un classico percorso psicoterapico. Quindi pensato non esclusivamente per gli Hikikomori, ma soprattutto per loro.

Il Progetto Psicologo Fuori Studio

In collaborazione con la Scuola di Psicoterapia Mara Selvini Palazzoli di Milano abbiamo quindi deciso di far diventare quest’idea un progetto di lavoro, il progetto Psicologo Fuori Studio.

Ad oggi, con questo intervento, abbiamo raggiunto oltre settanta ragazzi e famiglie, grazie anche al coinvolgimento di diversi giovani colleghi che sono stati formati e che collaborano con noi negli interventi domiciliari.

Il progetto ha raggiunto ragazzi e ragazze non solo a Milano e hinterland, ma anche nelle province lombarde di Pavia, Bergamo, Brescia, Como, Monza e Lecco, oltre che a Roma, a Faenza, a Vercelli e prossimamente a Torino.

L’obiettivo del progetto è duplice: in primis andare incontro (letteralmente) a questi ragazzi e ragazze, alla loro sofferenza e alle loro famiglie, costruendo un intervento terapeutico efficace e completo. In secondo luogo, abbiamo cercato di dare forma, definizione e dignità a un modello di lavoro psicologico domiciliare che abbiamo chiamato appunto Psicologo Fuori Studio.

Il nostro modello prevede azioni in due luoghi dell’intervento:

  • a casa e sul territorio un intervento individuale con il ragazzo, con una presenza intensiva (due volte alla settimana) e una commistione di livelli di lavoro, che vanno dalla condivisione pratica di attività quotidiane, alla costruzione di una relazione terapeutica, al lavoro clinico sulla sofferenza e sui sintomi.
  • in studio una psicoterapia familiare, o un percorso di sostegno ai genitori, con uno psicoterapeuta familiare e lo stesso Psicologo Fuori Studio.

A ciò si aggiunge un lavoro in rete con tutti gli altri professionisti coinvolti.

Crediamo sia importante che la presa in carico principale sia svolta da un unico professionista: lo Psicologo Fuori Studio, un professionista appositamente formato, supervisionato mensilmente da un referente e inserito in un’équipe di colleghi. Oltre che del percorso terapeutico egli si occupa di costruire le necessarie relazioni che permettano a tutti gli altri operatori coinvolti nel caso di essere in connessione tra loro e procedere in modo armonico. Nel tipo di situazioni in cui lavoriamo, spesso abbastanza complesse, risulta fondamentale avere un unico professionista che sia molto presente nella vita del ragazzo, poiché con competenze terapeutiche, valutative e osservative specifiche può divenire un referente sia per la famiglia che per l’équipe terapeutica, oltre che un catalizzatore del processo di cura nel suo insieme.

Come appare chiaro, il ruolo dello Psicologo Fuori Studio è definito e si distingue da altre figure più tradizionali, e conosciute, come quelle dell’educatore o del terapeuta domiciliare, poiché racchiude, come detto, diversi compiti e competenze in un’unica figura, un unico professionista di riferimento.

Ragazzi fuori dal mondo: qualche informazione sul fenomeno Hikikomori

Come ormai noto, il fenomeno del ritiro sociale estremo è stato inizialmente osservato in Giappone già a partire dalla fine degli anni Settanta. Lo psichiatra giapponese Saitō (1998) coniò il termine Hikikomori, letteralmente “stare in disparte”, per definire questa particolare forma di ritiro sociale.

Oggi si registra un costante aumento di casi in tutto il mondo Occidentale, soprattutto in Italia. Gli studi su questo fenomeno sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni e si è osservato che spesso il ritiro sociale volontario si può associare a disturbi dell’area ansiosa, disturbi dell’umore, forme di natura psicotica, disturbi dell’attaccamento e disturbi post traumatici (Suwa et al., 2003; Suwa & Suzuki, 2013).

L’emergere di questo fenomeno si associa ad un significativo e preoccupante aumento della dispersione scolastica, lavorativa e, possiamo dire, sociale: basti pensare che i ragazzi non impegnati in un percorso formativo o di lavoro (NEET) sono oggi in Italia quasi 1 ogni 4 nella fascia 15-29 anni (ISTAT 2020), e probabilmente in aumento per effetto delle restrizioni legate alla pandemia di Covid-19.

Alcuni di loro diventano Hikikomori: ritirati sociali.

Per capire meglio di cosa si parla quando ci riferiamo ai termini “Hikikomori” o “ritiro sociale estremo” citiamo un nostro articolo, pubblicato nel 2019 sulla rivista specialistica Terapia Familiare.

Dalla nostra esperienza e da quanto emerge nella letteratura italiana e internazionale, l’insorgenza e lo sviluppo del ritiro sociale estremo possono essere descritti come segue.

Il ragazzo inizia a saltare sempre più di frequente la scuola, fino a non andarci più. Si ritrae gradualmente dalle relazioni sociali fino a restare con pochi amici, che comunque non vede, o con nessun amico. Sviluppa un senso sempre maggiore di vergogna, fino a temere gli altri per via del proprio aspetto, del proprio odore, dei propri comportamenti percepiti come inadeguati. Dopo alcune settimane di ritiro inverte il ritmo sonno/veglia. Spesso vive una condizione di forte depressione e/o ansia. Passa da periodi in cui mangia moltissimo ad altri in cui non mangia affatto. Alterna aggressività ad atteggiamenti fortemente dipendenti verso i genitori. Con il passare del tempo, dei mesi e degli anni l’auto-reclusione può portare a manifestazioni violente e allo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi, episodi psicotici o deliri persecutori. Nella maggior parte dei casi, benché avverta un disagio, il ragazzo non chiede aiuto. Non in tutti i casi è presente l’uso di internet o videogame, da considerare come minimi indicatori di apertura verso l’esterno e quindi come possibili strumenti di mediazione, utili per entrare in contatto con il ragazzo (Saito 1998; Li e Wong 2015; Ranieri 2015).

Come evidenziano Li e Wong (2015) in un’interessante revisione della letteratura sul tema, si possono identificare differenti forme di ritiro sociale sulla base di diversi criteri: assenza/presenza di comorbidità con altri disturbi psichiatrici (Hikikomori primario e secondario), legame di attaccamento, livello di socialità/asocialità, gravità e pervasività del ritiro.

Superare quella porta: il nostro intervento per il ritiro sociale

La domanda che sorge quindi spontanea è: come si può aiutare un ragazzo sofferente, che però non riconosce il suo malessere e rifiuta il mondo esterno, dunque anche un nostro aiuto?

Solitamente si suggerisce ai genitori di non “strattonare”, o cacciare, i ragazzi fuori dalla loro stanza o fuori di casa, di evitare azioni forti e aggressive: raramente queste soluzioni possono funzionare e, anzi, spesso peggiorano la loro condizione, incrementando l’isolamento o contribuendo allo sviluppo di una sintomatologia peggiorativa.

Questo perché quando si incontra un ragazzo ritirato bisogna avere bene in mente che l’isolamento dal mondo esterno è per lui una forma estrema di protezione, che gli permette di evitare il contatto con le parti di sé ferite e più sofferenti. Evitarle, chiudendosi, significa quindi avere la garanzia di non essere soverchiati da vissuti emotivi ingestibili: vergogna, senso di inadeguatezza, dolore profondo.

In primo luogo, è quindi necessario comprendere a fondo questa sofferenza e non esporla troppo bruscamente a nuovi traumi, ma tutto ciò non è sufficiente.

Bisogna prendersi cura di quella sofferenza, lentamente avvicinarla e lasciarla, molto gradualmente, emergere, per poter lenire pian piano le ferite. Occorre anche aprire degli spiragli tra il mondo chiuso del ragazzo e il mondo esterno. Piccole finestre dove sperimentarsi in relazione con il mondo, in sicurezza, con qualcuno di cui ci si fida.

Lo strumento principale in questo caso, come in ogni psicoterapia, non può essere altro che la relazione, il luogo dove questi passi graduali ma necessari si possono fare. Costruire una relazione di fiducia, un’alleanza, permette al ragazzo di percepire lo Psicologo Fuori Studio come quella che nella teoria dell’attaccamento si chiama “base sicura” (Bowlby, 1989), un luogo per vivere alcune esperienze senza sentirsi sopraffatti, un porto da cui partire e a cui ritornare in caso di necessità, dubbi o incertezze. Questa funzione della relazione è centrale per costruire un vero recupero e la costruzione graduale di un’autonomia serena e consapevole.

Con i ragazzi ritirati la costruzione di una buona relazione è inizialmente un obiettivo tutt’altro che scontato, un obiettivo che necessita di un certo tempo per essere raggiunto. Come detto, per proteggersi dalla sofferenza (personale, esistenziale, generazionale), i ragazzi Hikikomori cercano proprio di evitare la relazione con gli altri, compresi la maggior parte dei familiari e naturalmente anche lo psicologo.

In questa prima fase, molto delicata, per costruire un vero processo di terapia e cercare di avvicinarci sempre più al ragazzo, cerchiamo quindi di usare il tempo in modo graduale, concentrandoci sulla comprensione, la condivisione delle attività, la valorizzazione delle sue risorse.

Senza il giusto tempo non è possibile ottenere qualcosa. Non si può costringere nessuno a fidarsi contro la sua volontà, specialmente qualcuno che non si fida del mondo esterno. Ragione per cui gli interventi domiciliari devono essere intensivi, due volte alla settimana e della durata di due ore, e ci aspettiamo, per esperienza e conoscenza, che ci vogliano alcuni mesi di frequentazione assidua per poter raggiungere un consolidamento del rapporto di fiducia.

In questo tempo, e anche successivamente, lo Psicologo Fuori Studio si impegna nello sviluppare temi, argomenti, oltre che situazioni concrete, in cui sia possibile incrementare la condivisione di passioni, interessi, idee, pensieri, in un clima di comprensione e riconoscimento del valore del ragazzo. Solitamente i ragazzi ritirati si chiudono in una torre d’avorio proprio per evitare di sentirsi incompetenti o inetti davanti al difficile, ed esigente, mondo esterno: favorire l’emergere delle loro qualità, valorizzarle, farle esprimere è un passaggio centrale per potersi sentire in grado di mettere il naso fuori dal proprio spazio domestico, sicuro, e affrontare le proprie difficoltà.

Parlare non basta. A volte nemmeno si riesce: ci sono troppa resistenza, troppa sfiducia, troppa chiusura. Allora bisogna attivarsi sul piano del fare. La condivisione di un’attività piacevole e interessante è un generatore naturale di relazioni. Stare e fare insieme vanno spesso di pari passo. Camminare, cucinare, ascoltare musica, fare un gioco, visitare un luogo, andare al cinema sono attività che possono sembrare banali, ma per un ragazzo Hikikomori fare queste attività insieme a qualcun altro, in un clima armonico, è un’esperienza positiva e toccante. In quel momento sarà compito dello Psicologo Fuori Studio introdurre anche temi più personali e profondi, propri della psicoterapia.

Come detto, solo quando si è costruita una buona alleanza di lavoro e sarà in atto una graduale ripresa della fiducia in sé e delle proprie attività quotidiane, sarà possibile iniziare a prendersi cura della sofferenza acuta di cui abbiamo parlato.

Questo è l’obiettivo finale del lavoro di uno Psicologo Fuori Studio, un obiettivo che, come detto, richiede tempo, dedizione e cura.

L’accesso alle sofferenze più acute e profonde, e la loro cura, rientrano nelle normali competenze di ogni psicoterapeuta, è il percorso da fare per arrivarci che secondo noi fa la differenza. Arrivarci partendo da una comune esperienza di condivisione e vicinanza è un grande punto di partenza per un percorso che vuole andare a trovare e risolvere i nodi sofferenti, traumatici, disfunzionali del ragazzo.

La famiglia come protagonista

L’esperienza ci insegna che lavorare soltanto con il ragazzo spesso non è sufficiente. La famiglia è il contesto in cui ciascun Hikikomori vive ed è cresciuto e per questo siamo fortemente convinti che sia anche il miglior contesto possibile per favorire un recupero.

Per questo motivo chiediamo alla famiglia tenacia, continuità e attiva partecipazione al percorso terapeutico del figlio. Tutta la famiglia viene quindi coinvolta nel processo di cura, attraverso sedute familiari in studio condotte da una coppia di psicoterapeuti familiari, dei quali possibilmente uno è lo stesso Psicologo Fuori Studio.

Sappiamo per esperienza che la sofferenza acuta di cui tanto abbiamo parlato spesso è condivisa, con tutti o con alcuni familiari, e il più delle volte si attiva proprio nelle dinamiche relazionali della famiglia allargata. Un lavoro congiunto per un cambiamento di tali dinamiche è terapeutico non solo per i ragazzi ritirati, ma anche per i loro familiari.

Senza l’alleanza e la partecipazione attiva dei genitori, il percorso per qualsiasi ragazzo diventa assai più impervio ed incerto.

Guarire la sindrome Hikikomori

Il concetto di guarigione è, dal punto di vista teorico e clinico, piuttosto complesso. Quello che possiamo affermare è che nel seguire i casi cerchiamo di raggiungere non solo la remissione del sintomo e un recupero comportamentale (tornare a scuola, uscire di casa, riprendere le relazioni sociali con i pari), ma anche un’evoluzione psicologica del ragazzo ritirato e del suo contesto familiare, in modo da permettergli di intraprendere nella vita un cammino più stabile, completo e soddisfacente. I risultati ottenuti in questi anni ci incoraggiano a perseguire questo obiettivo e crederlo realizzabile.

 

“È la vecchiaia!”: come il sistema di credenze influenza la prestazione

Secondo l’immaginario collettivo con l’invecchiamento si va incontro a un declino fisico e cognitivo a cui difficilmente ci si può sottrarre, portando così l’anziano a essere percepito come un individuo fragile e malato da proteggere e a cui sostituirsi.

 

Famoso è l’aforisma del commediografo romano Terenzio “senectus ipsa est morbus” ovvero “la vecchiaia è di per sé una malattia”. Questo, però, è solo uno dei tanti stereotipi legati al processo di invecchiamento a cui veniamo esposti fin dalla prima infanzia. Secondo l’immaginario collettivo, infatti, con l’avanzare dell’età si va incontro a un declino fisico e cognitivo a cui difficilmente ci si può sottrarre, portando così l’anziano a essere percepito come un individuo fragile e malato da proteggere e a cui sostituirsi.

Se un tempo l’anziano veniva più facilmente considerato una risorsa per la comunità, sinonimo di saggezza, meritevole di rispetto e riconoscenza, oggi l’atteggiamento collettivo nei suoi confronti è cambiato: egli viene percepito come un peso, un cittadino di serie B. Tale atteggiamento si è accentuato senza ombra di dubbio negli ultimi due anni, quando a inizio pandemia, nell’imprevedibilità più totale, si è optato per una sanità selettiva che vedeva l’età come criterio di accesso o meno ai trattamenti sanitari (Ansa, 2020).

Questo comportamento altamente discriminatorio nei confronti dell’anziano prende il nome di ageismo (Butler, 1969). Secondo il recente report pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2021), questa forma di discriminazione ha un forte impatto sulla salute psico-fisica di chi ne è vittima: sembrerebbe, infatti, che chi viene esposto regolarmente a comportamenti negativi nei confronti dell’invecchiamento vive in media 7 anni e mezzo in meno rispetto a chi non lo è.

Stereotipi e pregiudizi sulla vecchiaia incidono profondamente anche sugli aspetti motivazionali e sul raggiungimento degli obiettivi personali, impedendo la promozione di un invecchiamento attivo, influenzando il modo in cui la persona interpreta i propri fallimenti cognitivi e accelerando il declino fisico e cognitivo (Borella & Carbone, 2020).

Per contrastare questo fenomeno è indispensabile, quindi, diffondere una cultura positiva dell’invecchiamento per mezzo della condivisione di informazioni corrette circa il funzionamento mentale e i reali cambiamenti dettati dall’avanzamento dell’età. Risulta necessario, di conseguenza, promuovere un atteggiamento mentale di tipo incrementale che permetta all’individuo di impegnarsi in compiti nuovi e stimolanti, rafforzando così la fiducia nelle proprie abilità. Infine, è fondamentale avere intorno a sé un ambiente supportivo che sia in grado di favorire l’autonomia e l’autodeterminazione dell’anziano (De Beni & Borella, 2015).

Invecchiamento e motivazione: atteggiamento mentale e fallimenti cognitivi

Ognuno di noi, sulla base delle proprie esperienze, sviluppa delle teorie “ingenue” circa il funzionamento delle proprie abilità cognitive. Prendendo in esame il modello di Carol Dweck (2000), possiamo individuare due tipologie di atteggiamento mentale nei confronti delle proprie abilità, ovvero quello statico e quello incrementale.

Chi possiede un atteggiamento di tipo statico ritiene che le proprie abilità non siano modificabili, dunque eventualmente migliorabili, per cui tende a mettersi in gioco solo in quei compiti routinari e semplici che garantiscono un’alta probabilità di successo, evitando sfide e situazioni nuove.

Chi, invece, presenta un atteggiamento incrementale considera le proprie abilità modificabili se opportunamente stimolate. Dunque, le esperienze nuove vengono vissute come opportunità di crescita che consentono di ampliare le proprie competenze.

Questi due tipi di atteggiamento si caratterizzano, inoltre, per un diverso stile attributivo, ovvero per una diversa modalità di attribuzione delle cause dei propri successi/insuccessi. Sembrerebbe, infatti, che chi abbraccia un atteggiamento statico tenda a spiegare i risultati delle proprie prestazioni tramite fattori non controllabili né modificabili, come l’età. Per contro, chi possiede un atteggiamento incrementale attribuisce i propri successi/fallimenti a cause controllabili e modificabili come ad esempio l’impegno (Weiner, 1972, 2010).

Errori e fallimenti cognitivi capitano spesso nella vita di tutti i giorni e sono causati principalmente da disattenzione, stress, mind wandering, scarsa motivazione e/o disinteresse per quello che si sta facendo (Borella & Carbone, 2020). A tal proposito, la letteratura evidenzia differenze tra giovani e anziani nel modo di interpretare i propri insuccessi. Nonostante gli studi non riscontrino differenze nella frequenza con cui vengono riportati tra giovani e anziani, questi ultimi tendono a sovrastimare i propri errori cognitivi e ad attribuirli all’avanzare dell’età, mentre i giovani imputano i fallimenti ai troppi impegni. Queste diverse spiegazioni date evidenziano il tipo di teoria ingenua posseduta: attribuire i propri fallimenti cognitivi all’età, causa stabile e non modificabile, denota un atteggiamento statico, incentivato in parte dagli stereotipi sull’invecchiamento (Borella et al., 2017). “È la vecchiaia!”: pensieri di questo tipo portano a un circolo vizioso che vede i pensieri demotivanti alimentare comportamenti di evitamento (es. lascio fare ai giovani) che a loro volta altro non fanno che confermare i pensieri disfunzionali e gli stereotipi sull’invecchiamento, minando il benessere della persona.

Risulta, dunque, necessario focalizzare l’attenzione sul ruolo determinante che credenze e atteggiamenti hanno sulla motivazione e sulla prestazione stessa dell’individuo, proponendo interventi psicoeducativi che forniscono conoscenze corrette e supportate da evidenze scientifiche rispetto al proprio funzionamento mentale e ai cambiamenti che si verificano con l’avanzare dell’età e che sottolineano la necessità di adottare un atteggiamento mentale impegnato e attivo.

Invecchiamento e motivazione: il ruolo dell’ambiente

Oltre ai pensieri, anche l’ambiente gioca un ruolo determinante nella motivazione. Quanto più i cari pensano che i successi/insuccessi dell’anziano dipendono da cause controllabili o incontrollabili, tanto più l’anziano sarà portato a pensare allo stesso modo. Lo stile attributivo, quindi, nasce nell’ambiente. È importante promuovere un ambiente che sia supportivo e che, dunque, favorisca l’autonomia e l’autodeterminazione dell’anziano.

Una delle modalità tramite cui un ambiente può risultare controllante – e quindi demotivante – è indubbiamente la sostituzione (De Beni & Borella, 2015). Spesso capita che il caregiver, reputando il compito troppo difficile e impegnativo per l’anziano o avendo il timore che quest’ultimo possa fallire, si sostituisca alla persona minandone il bisogno di sentirsi competente. Per rendere l’ambiente più supportivo è necessario seguire alcune indicazioni come ad esempio semplificare il compito dividendolo in step, evitare messaggi svalutanti e rispettare i tempi dell’altro.

Conclusioni

Per raggiungere e mantenere un adeguato livello di benessere e una miglior qualità di vita è fondamentale promuovere un invecchiamento attivo. Ormai centro focale delle politiche governative e delle attività di ricerca a livello nazionale e internazionale, l’invecchiamento attivo è considerato uno strumento utile per contribuire a risolvere alcune delle principali sfide legate all’invecchiamento della popolazione (WHO, 2015).

Ciò non significa negare i normali cambiamenti dettati dall’età, ma divenire consapevoli di essi e compensarli tramite le risorse possedute e lo sviluppo di nuove competenze, ricoprendo così un ruolo attivo ed evitando un atteggiamento passivo di rassegnazione.

 

Il tema della fiducia interpersonale in psicologia: una breve introduzione

La psicologia ha colto la rilevanza del concetto di fiducia già da molto tempo e molte sono le teorie dello sviluppo psicologico che la considerano centrale nella strutturazione e nel funzionamento della personalità.

 

Introduzione

Pensare a un episodio nel quale la nostra fiducia è stata tradita non è molto difficile, anzi. Tutti conoscono quella sensazione bruciante derivante dall’idea di essere stati ingannati. Tutti conoscono la delusione di aver riposto la propria fiducia nella persona sbagliata o la spietata autocritica che siamo in grado di fare a noi stessi per non aver visto i difetti o le mancanze dell’altro, assieme a tutta la gamma dei sentimenti e dei pensieri connessi a queste circostanze. Non daremmo la nostra fiducia all’altro se non pensassimo di avere buone ragioni per farlo.

Questo articolo si pone come obiettivo quello di offrire, a chi fosse interessato, un panoramica necessariamente non esaustiva delle prospettive psicologiche sulla fiducia interpersonale, fornendo alcuni riferimenti bibliografici. Il lettore a digiuno di psicologia potrà invece farsi un’idea, non dico avvincente, ma almeno stimolante, su quello che la psicologia ha da dire su questo tema.

Fiducia e rapporti interpersonali

Sulla fiducia si reggono la gran parte delle relazioni sociali improntate alla cooperazione e alla collaborazione, andando dai rapporti di mera colleganza, all’amicizia, fino all’amore: insomma, tutte le situazioni in cui è presente quel sottile equilibrio di scambi grazie al quale manteniamo rapporti cordiali con gli altri, forniamo e riceviamo supporto di qualche tipo, condividiamo con l’altro parti superficiali e/o profonde di noi stessi e ci sentiamo relativamente al sicuro da iniziative ostili nei nostri confronti.

A livello intimo la fiducia interpersonale coinvolge le paure, le preoccupazioni e i desideri più profondi della persona. Non a caso le situazioni nelle quali essa è fondamentale (pensiamo a un progetto di lavoro o alla vita di coppia) spesso producono in noi reazioni emotive e comportamenti anche molto intensi, soprattutto se nella relazione è presente un’asimmetria di potere tra le parti, e di conseguenza uno dei partner deve contare sulla benevolenza dell’altro per realizzare i propri desideri (Simpson, 2007).

La psicologia ha colto la rilevanza del concetto di fiducia già da molto tempo e molte sono le teorie dello sviluppo psicologico che considerano questa dimensione dell’esistenza umana come centrale nella strutturazione e nel funzionamento della personalità. Essa viene considerata a fondamento degli schemi espressivi, cognitivi e relazionali che la persona usa quando è in relazione con gli altri e, in questo senso, le esperienze evolutive nelle quali la fiducia è stata rilevante avrebbero un’influenza duratura sull’identità e sulle relazioni lungo tutto l’arco della vita. Viene subito da pensare alla teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson (1963), per la quale nel primo anno e mezzo il conflitto determinante il percorso evolutivo del futuro adulto (le direzioni di sviluppo delle vulnerabilità e delle potenzialità psicologiche e sociali del bambino) è proprio quello di costruire una posizione fondamentale di fiducia nel futuro. La teoria dell’attaccamento fornisce poi ulteriori specifiche. Per essa la fiducia circa la disponibilità, la sensibilità e la responsività della figura di riferimento (la persona o le persone a cui ci rivolgiamo quando siamo affaticati, tristi, impauriti, bisognosi di cura e sostegno) è il perno attorno al quale la mente costruisce modelli operativi interni equilibrati (schemi cognitivi e affettivi di sé, degli altri e delle relazioni), e l’aspettativa di ricevere da essa sostegno, rassicurazione e supporto (sia realmente che in forma simbolica, se non disponibile concretamente) è considerata centrale per lo sviluppo di una personalità resiliente, proattiva, aperta e in grado di mantenere l’equilibrio sotto stress (cfr. Mikulincer & Shaver, 2009). Dal punto di vista clinico, infine, si può pensare a quanto la fiducia tra paziente e psicoterapeuta sia fondamentale per la costruzione dell’alleanza terapeutica, elemento fondamentale per il buon esito della terapia, con tutta la fatica che ciò a volte comporta (cfr Colli & Lingiardi, 2014).

Fiducia e prospettive a confronto

La fiducia è centrale per determinare il modo in cui iniziamo, manteniamo e sosteniamo la maggior parte delle nostre relazioni. Inoltre essa promuove la cooperazione, permettendo benefici a lungo termine che altrimenti non sarebbero ottenibili in altro modo. Ed è proprio a partire da quest’ultima osservazione che le prospettive evoluzionistiche cercano di spiegarne l’origine. Per questo gruppo di teorie (ad esempio Hamilton, 1964; Trivers, 1971; Tooby & Cosmides, 1990) la ragione fondamentale dell’esistenza della fiducia risiede nel fatto che sia la cooperazione che le capacità cognitive dedicate alla valutazione dell’affidabilità dell’altro promuovono la riproduzione dell’individuo e la sopravvivenza della specie, garantiscono l’allevamento della prole da parte dei membri del gruppo sociale di riferimento e promuovono il bene comune, massimizzando i benefici di attività come la caccia, l’allevamento del bestiame e lo scambio di risorse (Axelrod & Hamilton, 1981).

Queste idee possono spiegare in che modo nel corso dell’evoluzione il meccanismo sociale del dare e ottenere fiducia si sia evoluto e perfezionato. Tuttavia anche la storia personale, l’ambiente sociale e la cultura di riferimento, per quanto transitori, contingenti e situati storicamente, sono importanti nella determinazione di una posizione di fiducia verso l’altro, ed ecco che le teorie viste poco sopra, la teoria di Erikson e la teoria dell’attaccamento, ci forniscono elementi di una prospettiva parziale sull’impatto delle determinanti sociali. Ad esse può essere affiancata la teoria dei sistemi familiari (Bowen, 1976) per la quale la storia delle interazioni con i membri della propria famiglia, che include anche episodi nei quali la fiducia è stata ben riposta o tradita, è un elemento fondamentale per la differenziazione del proprio concetto di sé (un Sé differenziato connota stabilità emotiva, capacità di gestione dell’ansia, autonomia, indipendenza) e determina la capacità futura della persona di mantenere legami emotivi con gli altri, cogliendo i benefici dell’intimità e dell’interdipendenza, evitando allo stesso tempo l’invischiamento (definire sé stessi, sentire, pensare e comportarsi in base alle emozioni, alle scelte, alle azioni dell’altro), situazione quest’ultima che sancisce la perdita di quote di identità personale, di capacità autoregolatorie e di autonomia. Se non riesco a fidarmi dell’altro (e se l’altro non mi sembra degno della mia fiducia) come confidare in una relazione duratura? Come dedicarmi completamente ai miei progetti con flessibilità e impegno costante se manca la sicurezza di ricevere sostegno o comunque di non essere ostacolati in qualche modo dalla persona che mi è vicina? Come esprimere pienamente sé stessi e crescere se una relazione autentica non è presente, e ci sentiamo continuamente costretti ad adattarci a ciò che l’altro fa, dice e mostra di provare?

Per quanto penetranti, il limite che appare evidente dalle teorie accennate fino a questo momento è che esse non sono ancora in grado di spiegare in base a quali parametri le situazioni immediate e concrete vissute dalle persone, come anche le caratteristiche specifiche degli attori che vi partecipano, possano spiegare la nascita, il mantenimento e la trasformazione della fiducia interpersonale nel tempo. Insomma, restano ancora troppo sulle generali e non colgono né l’impatto dell’interazione tra le caratteristiche della situazione specifica in cui le persone si trovano, né le differenze individuali. Entrambi gli elementi sono importanti, al punto tale che a chiunque studi psicologia è noto il mantra ‘individuo X ambiente’. Cambia qualcosa se di base sono molto diffidente oppure fiducioso, estroverso oppure introverso? Cambia qualcosa se la fiducia nell’altro viene messa alla prova sul lavoro o in un contesto informale e ludico, oppure in una situazione in cui un partner abbia tutto da perdere e l’altro tutto da guadagnare? E che peso hanno le motivazioni di fondo a stare nella relazione?

Fattori determinanti la fiducia

Riguardo a quest’ultimo aspetto, McClintock (1972) identifica cinque motivi personali per i quali le persone scelgono di dare fiducia all’altro, e si focalizza sulla relazione tra i margini di profitto (materiale o simbolico) che i partecipanti alla relazione ottengono cooperando tra loro: massimizzazione dei propri guadagni (orientamento egoistico/individualistico); massimizzazione dei propri guadagni in relazione a quelli dell’altro (orientamento competitivo); massimizzazione dei guadagni comuni, in modo che entrambi ottengano di più di quanto otterrebbero agendo come singoli (orientamento cooperativo); massimizzazione dei guadagni altrui (orientamento altruistico); minimizzazione dei guadagni altrui (orientamento aggressivo/maligno). Per quanto semplice e intuitiva, questa prospettiva tuttavia fornisce poco spazio per cogliere gli aspetti ‘caldi’, emotivi, delle motivazioni personali sottostanti il dare e il ricevere fiducia, come anche non sembra considerare la diversità delle possibili ragioni individuali alla base di essa, adottando invece una prospettiva esclusivamente utilitaristica.

Questi limiti sono superati dalla teoria di Deutsch (1973) che costruisce una tassonomia di ‘ragioni motivazionali’ alla base della fiducia nell’altro, considerando differenze individuali come le aspettative sui pensieri o le condotte altrui, la conoscenza posseduta, la propensione a seguire le norme sociali, i propri desideri, e altre caratteristiche della persona.

Ci si potrebbe fidare dell’altro, ad esempio, per la disperazione connessa alle conseguenze che il non fidarsi comporta (si pensi a quando si va a fare una visita medica per un malessere che non riusciamo a spiegarci); ci si può fidare per ragioni di conformità sociale, evitando la violazione di norme sociali esplicite o tacite (si pensi ad esempio alla norma tacita espressa che impone, quando si sta male, che si chiami il medico, e come il non farlo sia considerato al minimo poco intelligente, se non insensato); si può dare fiducia all’altro per innocenza, derivante dalla mancanza di conoscenza, informazione oppure esperienza (tutta la gamma di situazioni possibili relative a ‘non accettare caramelle dagli sconosciuti’); per impulsività (ad esempio la decisione di fidarsi ‘perché non mi va di pensarci su più di tanto’). Si può investire l’altro di fiducia, inoltre, nella speranza di essere traditi (masochismo), per la speranza che le conseguenze temute non si presentino (fede), nell’aspettativa che si otterrà ciò che si desidera; o per il puro desiderio di prendersi dei rischi. Altri motivi, infine, riguardano le ragioni e gli scopi personali dell’altro (ad esempio sapere che l’altro ci ama e vuole il nostro bene), motivi di ordine morale (ad esempio il rispetto degli impegni presi) o, finalmente, motivi di ordine strutturale (ad esempio sapere che le amicizie e/o i possessi dell’altro sarebbero messi a rischio se non venisse rispettata la fiducia riposta).

Le informazioni di questo autore sulle motivazioni personali hanno sicuramente un buon valore euristico, poiché ci forniscono una spiegazione del perché ci fidiamo dell’altro sulla base di ragioni ampie e che considerano timori, desideri e speranze, anche inconsapevoli, nelle quali ognuno può rispecchiarsi nella vita di tutti i giorni.

Sempre prestando attenzione ai contenuti mentali individuali, infine, alcuni autori identificano come maggiormente pertinenti la costruzione della fiducia le aspettative sociali, le credenze e le attribuzioni routinarie delle persone, come anche la percezione di quanto l’altro valorizzi il proprio interesse personale in contrapposizione al nostro (ad esempio Barber, 1983; Pruitt & Rubin, 1986; Tyler, 2001).

Purtroppo il problema principale di ogni prospettiva focalizzata solo sull’individuo è che non coglie l’interdipendenza tra i partner. Non considera, infatti, l’impatto che azioni, pensieri ed emozioni di ciascuno di essi ha sull’altro partner e neppure l’impatto che le caratteristiche della situazione (reali o anche solo percepite) hanno sulla relazione che si viene a costruire tra di loro. Una panoramica sulle teorie psicologiche sulla fiducia, quindi, rende obbligatorio considerare anche solo brevemente quelle prospettive, decisamente più complesse, che considerano le caratteristiche individuali (proprie e altrui) in relazione alle caratteristiche dell’altra persona coinvolta e quelle della situazione.

La fiducia può essere così considerata come una particolare situazione interpersonale che implica elevata interdipendenza tra partner (cfr. Kelley & Thibaut, 1978) in relazione ai loro scopi, che possono essere condivisi o esclusivamente personali, e nella quale possono essere di volta in volta determinanti l’impegno profuso nella relazione, le intenzioni (benevole o meno) degli attori, la volontà di questi di mettere in discussione le proprie motivazioni. La fiducia da parte dell’altro si alimenterebbe, soprattutto, dalla trasformazione delle motivazioni individualistiche in motivazioni altruistiche (orientate all’altro o alla relazione) in modo che ne derivino comportamenti che ai suoi occhi attestino la volontà di sacrificarsi per il bene congiunto e/o per il suo bene esclusivo, anche solo sotto forma di comportamenti accomodanti. Altri autori, si focalizzano poi su aspetti come la prevedibilità dei partner (affidabili, interessati al benessere e ai desideri dell’altro), la lealtà verso l’altro e verso la relazione (dependability) e la fiducia nella forza e nella stabilità di entrambi (Holmes & Rempel, 1989).

La ricerca sulla fiducia dal punto di vista della relazione ‘persone X situazione’ è vasta e ha prodotto una mole altissima di dati. Le teorie presentate in questa breve rassegna sono quelle maggiormente citate. Altre teorie sono disponibili, con ricerche che tendono a prestare attenzione anche ad aspetti molto specifici della situazione interpersonale, come l’odore o la distanza interpersonale (ad esempio van Nieuwenburg, de Groot & Smeets, 2019).

Per queste ragioni anche una pur rapida escursione sui risultati disponibili è al di fuori degli scopi di questo articolo. Il lettore interessato che volesse confrontarsi con una panoramica esaustiva sulle teorie che indagano la fiducia interpersonale può rivolgersi a due compendi sintetici, agevoli da consultare e di taglio critico, come il libro di Rotenberg (2020) e la rassegna di Simpson (2007), cui si rimanda per ulteriori riferimenti.

 

Una scuola per tutti, una scuola per ognuno (2021) di Daniele Nappo e Naomi Aceto – Recensione

Una scuola per tutti, il nuovo libro edito da Giunti Editore, descrive un modello scolastico pienamente inclusivo.

 

Gli autori, attraverso la loro quotidiana esperienza, raccontano al lettore come l’importanza di mettere lo studente al centro della missione scolastica possa realmente contribuire alla crescita personale di ognuno.

Una scuola per tutti, scritto dal sociologo Daniele Nappo, direttore della scuola dalla Scuola Paritaria S. Freud e dalla psicologa e psicoterapeuta Naomi Aceto, presenta un modello scolastico in cui vengono prese in considerazione le esigenze e le necessità di ogni studente, nel tentativo di predisporre ambienti di apprendimento e attività scolastiche che possano incentivare la partecipazione attiva e autonoma di ogni ragazzo.

Con il termine inclusione, gli autori si riferiscono a una serie di strategie e osservazioni, finalizzate al coinvolgimento di ogni singolo studente, per valorizzare di conseguenza il potenziale di apprendimento dell’intero gruppo classe.

Il libro, rivolto a psicologi dell’età evolutiva, a insegnanti, educatori e a tutti coloro che vogliano approfondire il delicato rapporto tra gli adolescenti e la scuola, passa in rassegna il concetto di adolescenza e quella che può essere l’influenza del contesto familiare e scolastico nella vita di ogni ragazzo, illustrando, secondo gli autori, alcuni elementi meritevoli di attenzione e approfondimento in ambito scolastico.

Evidenzia poi l’importanza dello sportello psicologico scolastico, volto ad accogliere e a rispondere ai bisogni degli studenti, delle famiglie e della scuola stessa, facilitando l’alleanza educativa tra i diversi protagonisti.

In appendice è presente, inoltre, un piccolo manuale di autoaiuto a orientamento cognitivo-comportamentale, mirato all’individuazione e alla gestione di pensieri di natura depressiva in chiave evolutiva. Una guida utile a chi lavora con ragazzi adolescenti, capace di accompagnare questi ultimi, in modo chiaro ed esemplificativo, a riconoscere e comprendere la natura di alcune loro emozioni e trovare strategie più utili e funzionali per gestirle. Senza dubbio un intervento adatto a fornire suggerimenti e spiegazioni utili a modificare comportamenti di chiusura e pensieri negativi.

Nel modello proposto dagli autori, attraverso l’osservazione dei bisogni di ognuno, non si mira all’omologazione degli studenti, bensì alla valorizzazione di ogni ragazzo, ognuno con le proprie peculiarità, con i propri ritmi e con i propri tempi. Una scuola per tutti evidenzia a tal proposito, come sia poco funzionale al benessere degli studenti, una didattica standardizzata. Gli autori sottolineano l’importanza di una didattica persuasiva e di una educazione volta alla partecipazione e all’inclusività, definendoli elementi fondamentali per una didattica efficace, volta a valorizzare le differenze soggettive di ognuno e a garantire, di conseguenza, pari opportunità e diritti a tutti.

Una scuola per tutti pensa alla scuola come uno strumento condiviso per consentire ad ogni alunno, attraverso il dialogo e la cooperazione, di crescere, maturare e affacciarsi nel migliore dei modi alla prima età adulta; volge, infine, uno sguardo al futuro, in cui prende in considerazione alcuni aspetti che ancora oggi rappresentano sfide e opportunità da realizzare.

 

Esiste una relazione fra Endometriosi e rischio di insorgenza del Disturbo Bipolare?

L’Endometriosi è una malattia ginecologica cronica e progressiva caratterizzata dalla crescita di tessuto endometriale al di fuori della cavità uterina. Le donne affette da tale disturbo presenterebbero una maggiore vulnerabilità a patologie psichiatriche quali depressione, ansia e Disturbo Bipolare.

 

Cos’è l’Endometriosi?

 L’Endometriosi è una malattia ginecologica cronica e progressiva caratterizzata dalla crescita di tessuto endometriale al di fuori della cavità uterina, principalmente sul miometrio uterino, sulle ovaie, sul peritoneo pelvico e sul setto rettovaginale. L’Endometriosi può causare infiammazione pelvica, infertilità e dolore cronico, con conseguente disabilità e ridotta qualità della vita per le donne in età riproduttiva (Zondervan et al., 2018). L’onere dell’Endometriosi non si limita ai sintomi e alle disfunzioni della malattia. Le donne affette da tale disturbo presentano una maggiore vulnerabilità a patologie psichiatriche quali depressione, ansia e Disturbo Bipolare (Pope et al., 2015).

Il disturbo bipolare

Il Disturbo Bipolare è un grave disturbo cronico dell’umore caratterizzato da episodi di mania, ipomania, ed episodi di depressione. Gli episodi di mania e di depressione influenzano notevolmente la vita dell’individuo e sono fortemente debilitanti sul piano lavorativo, sociale, affettivo e familiare. L’episodio maniacale è caratterizzato da un periodo definito di umore estremamente elevato, espanso o irritabile e di un aumento anomalo e persistente dell’attività finalizzata o dell’energia. Un episodio maniacale meno grave è chiamato episodio ipomaniacale. L’episodio depressivo maggiore prevede un umore distinto da sentimenti di tristezza, vuoto e disperazione, ma anche da una marcata diminuzione di interesse o piacere per le attività (Grande et al., 2015). Il Disturbo Bipolare può presentarsi in vesti diverse a seconda del tipo di episodi dell’umore, per giunta la gravità dei sintomi può variare in modo considerevole (Vieta et al., 2018).

Il rischio di Disturbo Bipolare in donne con Endometriosi

Recentemente, molteplici dati provenienti dalla ricerca sulla personalità, dall’endocrinologia, dalla psichiatria e dalla medicina convergono nel sospettare un legame tra Endometriosi e Disturbo Bipolare (Dinsdale & Crespi, 2017). La conoscenza attuale dell’associazione tra suddetti disturbi è rimasta limitata a causa delle differenze metodologiche tra le ricerche e il numero ridotto di studi. Oltre a ciò, alcuni trattamenti ormonali o chirurgici per l’Endometriosi sono stati associati a effetti collaterali indesiderati, compresi i sintomi psichiatrici. I contraccettivi ormonali e gli agonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH), per esempio, sono stati associati a maggiore instabilità emotiva e depressione (Pope et al., 2015). Allo stesso modo, è stato trovato che l’isterectomia può aumentare il rischio di sviluppo del Disturbo Bipolare (Shen et al., 2019).

Lo studio di Chen et al. (2020) ha indagato il rischio di sviluppare il Disturbo Bipolare nelle pazienti con Endometriosi, prendendo in considerazione anche gli effetti del trattamento ormonale o chirurgico.

Il campione è stato selezionato dalla banca dati del programma nazionale di assicurazione per la salute di Taiwan, contenente informazioni mediche di circa il 99% della popolazione.

Le informazioni raccolte fornivano dati demografici, diagnosi sanitarie basate sul manuale diagnostico ICD-9-CM ed interventi medici. Partendo da questa popolazione, sono stati creati sottogruppi di dati tra cui il “Longitudinal Health Insurance Database 2000” (LHID2000), utilizzato da Chen e colleghi (2020) per il loro studio. Nel LHID2000 sono state incluse tutte le informazioni sanitarie di 1.000.000 di individui, selezionati casualmente tra i dati raccolti fra il 1995 ed il 2013.

Sono state incluse le pazienti a cui è stata diagnosticata l’Endometriosi (EM), fra il 2000 ed il 2012, mentre sono state escluse le donne che, nell’arco di tempo precedente a quello selezionato, hanno avuto l’insorgenza ed il decorso del Disturbo Bipolare (BD). Ad ogni paziente selezionata è stata associata, per età, diagnosi di Endometriosi e punteggio del Charlson Comorbidity Index (CCI)* (Charlson et al., 1987), una paziente che potesse appartenere al gruppo di controllo. Il CCI è un indice che serve a valutare quanto la comorbidità tra due condizioni mediche possa incidere sul rischio di mortalità di un individuo. L’indice è stato testato per la sua capacità di prevedere il rischio di morte dato dallo sviluppo e decorso simultaneo di due patologie (Charlson et al., 1987)

Coloro a cui è stato diagnosticato il Disturbo Bipolare a seguito della diagnosi di Endometriosi, sono state considerate come “indice di incidenza”. Sono stati raccolti dati demografici di base che potrebbero influenzare il rischio di sviluppare Disturbo Bipolare, tra cui l’età (<25, 25-35,> 35) e la comorbilità fisica data dal punteggio del CCI (0, 1–2, ≥3)  (Rowland & Marwaha, 2018). Il punteggio CCI è stato calcolato sommando l’incidenza di 19 condizioni mediche, basandosi sul potenziale che esse potessero esercitare sull’indice di mortalità. È stato utilizzato per quantificare le relazioni di comorbidità complessive presenti fra le malattie fisiche delle pazienti (Charlson et al., 1987). Successivamente è stata presa in considerazione la possibile influenza delle cure ormonali quali, ad esempio, contraccettivi o farmaci per la cura progestinica rispetto all’esordio del Disturbo Bipolare. Coloro che si erano sottoposte ad una terapia ormonale sono state suddivise in due sottogruppi: terapia a breve termine e terapia a lungo termine. Infine sono state indagate le possibili relazioni fra trattamento chirurgico per l’Endometriosi ed incidenza di diagnosi di Disturbo Bipolare.

Dal campione rappresentativo preso in esame è emerso che le donne affette da Endometriosi hanno più probabilità di sviluppare un Disturbo Bipolare rispetto al gruppo di controllo non affetto da Endometriosi. Inoltre, un punteggio CCI basale più alto potrebbe rappresentare un potenziale fattore di rischio per lo sviluppo di un Disturbo Bipolare.

Possibili spiegazioni del legame tra Endometriosi e Disturbo Bipolare

Il legame tra Endometriosi e Disturbo Bipolare potrebbe avere diverse spiegazioni: in primo luogo le risposte immunologiche e infiammatorie causate dall’Endometriosi portano alla formazione delle citochine (Zondervan et al., 2018), le quali possono causare disturbi dell’umore o del comportamento contribuendo così allo sviluppo di un Disturbo Bipolare (Brietzke et al., 2009; Rege & Hodgkinson, 2013). In secondo luogo, l’Endometriosi può esacerbare gli sbalzi d’umore in pazienti con una vulnerabilità subclinica al Disturbo Bipolare in presenza di dolore o di altre conseguenze correlate all’Endometriosi, come l’infertilità e la disfunzione sessuale (Pope et al., 2015). Infine, l’Endometriosi e il Disturbo Bipolare possono condividere un’eziologia comune attraverso l’ossitocina (Dinsdale e Crespi, 2017). Quest’ultima rappresenta un messaggero chimico presente nel corpo e nel cervello che contribuisce alla contrazione della muscolatura liscia, specialmente dell’utero durante il parto, (Bethlehem et al., 2013; Gimpl e Fahrenholz, 2001) ed ha un impatto positivo sui comportamenti prosociali caratterizzati da empatia, fiducia e sensibilità materna (Striepens et al., 2011). Nelle donne affette da Endometriosi, l’aumento del livello di ossitocina sembra contribuire all’aumento del movimento uterino causando la migrazione del tessuto endometriale oltre l’utero, mentre nel caso del Disturbo Bipolare un alto livello di ossitocina può aumentare l’attività sociale causando un episodio maniacale (Dinsdale e Crespi, 2017). Bisogna tenere presente che più comorbilità mediche possono aumentare ulteriormente il rischio di sviluppare un Disturbo Bipolare e che il succitato studio suggerisce che il trattamento ormonale o chirurgico dell’Endometriosi sembra avere un impatto limitato sul rischio di sviluppare un Disturbo Bipolare. In conclusione, sebbene sia emerso un legame tra Endometriosi e Disturbo Bipolare sarebbero necessari studi aggiuntivi per chiarire il meccanismo che collega le due condizioni.

La scrittura autobiografica nella condizione di malattia come ricerca e ricostruzione di un’identità perduta

Davanti alla malattia i pazienti si trovano a dover costruire una nuova narrazione che presuppone una revisione di convinzioni e aspettative, un cambio del punto di vista sugli eventi e talvolta un faticoso processo di reinterpretazione di sé stessi. Con il termine patografia si intende una pratica letteraria che consiste in una narrazione biografica scritta che ha per oggetto un’esperienza di malattia.

 

L’esperienza di malattia e il confronto con il pensiero e la paura della morte portano spesso il paziente a porsi degli interrogativi sul senso della propria esistenza, ma soprattutto lo conducono verso una rielaborazione della vita vissuta, delle esperienze passate, che possono essere riviste e re-interpretate da un’ottica completamente diversa, attribuendo significati nuovi e facendo spazio, nella propria narrazione, all’evento malattia. Proprio questa ricerca di significato è ciò che può caratterizzare i racconti dei pazienti che vivono una condizione patologica. Questo perché la malattia rappresenta una frattura nella trama narrativa dell’esistenza che interrompe il flusso lineare degli eventi e sconvolge le rappresentazioni mentali, i ruoli e le dinamiche sociali e relazionali del paziente (Bert, 2007); è necessario che venga integrata nella propria narrazione affinché non rimanga un evento sospeso, privo di significato, sconnesso dagli altri elementi caratterizzanti la storia dell’individuo, sottraendosi così a qualsiasi possibilità di elaborazione e accettazione. La perdita di senso è quindi insita nell’esperienza di malattia soprattutto nei casi di malattie croniche o terminali, in cui si stravolgono i consueti sistemi di significati, così come le aspettative, i progetti futuri, le possibilità di realizzazione; viene meno la sensazione di esercitare un controllo sulla propria vita mentre si apre il pensiero alla precarietà e della perdita di speranza. Tutto questo può spingere l’individuo malato ad una ancora più affannosa ricerca di senso, che può diventare però anche uno stimolo e una risorsa per affrontare le situazioni più difficili. I pazienti si trovano quindi a dover costruire una nuova narrazione che presuppone una revisione di convinzioni e aspettative, ma soprattutto un cambio del punto di vista sugli eventi e talvolta un faticoso processo di reinterpretazione di sé stessi (Bruzzone, 2018). Ciò che il paziente racconterà di sé attraverso le sue narrazioni, definirà la sua identità che spesso, in condizioni di malattia, viene aggredita e compromessa. La narrazione permette di costruire nuove storie capaci di curare le ferite dell’anima, quelle che persistono anche quando la malattia come processo patologico appare superata. In questo senso guarire significa guarire dalla malattia intesa come “problema” appartenente al malato, come il suo personale discorso e non solo come processo biologico, significa raccontare una nuova storia di vita (Bert, 2007). Possiamo dire che la narrazione rappresenta quindi una via attraverso cui dare nuova forma alla propria identità.

La patografia

Con il termine patografia si intende una pratica letteraria, particolarmente diffusa a partire dal Novecento, che consiste in una narrazione biografica scritta che ha per oggetto un’esperienza di malattia. Il narratore, che corrisponde poi all’autore, può essere il paziente stesso o una persona a lui vicina. Nelle patografie, il racconto può limitarsi all’evento malattia nelle sue diverse fasi, o trasformarsi in una rilettura dell’intera biografia alla luce della nuova condizione patologica. I motivi invece, che sottendono il bisogno di raccontare la malattia sono molteplici: ad esempio la denuncia di un determinato stato di cose, il racconto di una rinascita dopo la malattia, il ripercorrere la vicenda medica e, forse il motivo più importante, la ricerca di nuovi significati che favoriscano un’elaborazione dell’esperienza attraverso la costruzione di una storia dotata di nessi cronologici e causali (Loddo, 2015). Oggi è possibile ritrovare un’ampia varietà di patografie, scritte da pazienti comuni o personaggi noti; sebbene non si tratti quindi sempre di scrittori professionisti, questi scritti hanno indubbiamente un impareggiabile valore come testimonianze e stimolo per i lettori che possono trovarsi ad affrontare situazioni simili a quelle raccontante.

Il caso di Riccardo

Riccardo è un paziente di 65 anni affetto da una malattia neurodegenerativa progressiva che produrrà, in un tempo relativamente breve, una graduale perdita della motricità degli arti superiori e inferiori.

La presa in carico del paziente avviene in un momento particolarmente difficile del percorso di malattia ovvero quando egli inizia ad esperire i primi significativi peggioramenti e quindi le prime perdite funzionali. Riccardo non si muove più autonomamente, cammina solo con l’aiuto di un deambulatore, è compromesso l’utilizzo degli arti superiori e sta andando incontro ad una disfunzione diaframmatica sempre più importante. Nel momento del nostro primo colloquio Riccardo è molto diffidente sebbene si mostri aperto al dialogo; la rabbia è l’emozione predominante nel suo atteggiamento verbale e non verbale. È possibile pensare che la rabbia fosse in quel momento l’unica strategia, sebbene difensiva, che Riccardo era riuscito a trovare per mantenersi in equilibrio. Ho compreso quindi fin da subito che era necessario trovare un chiave giusta per entrare nel mondo di quel paziente, un qualcosa che mi consentisse di “agganciarlo” per poi offrirgli un appiglio. Fin dal primo colloquio Riccardo mi racconta di sua spontanea volontà il suo percorso di malattia, il momento della diagnosi, il decorso e, infine, la sua vita prima dell’esordio. Riccardo accoglie difficilmente i miei interventi, per lui è difficile sentirsi compreso, la rabbia prevale su qualsiasi altro vissuto e diventa lo sfondo di ogni sua conversazione. Nonostante ciò, è evidente la sua voglia di vivere, la sua tendenza a ricercare ancora uno stimolo per andare avanti, nonostante sia pienamente consapevole della prognosi di malattia. A distanza di circa tre colloqui, Riccardo inizia ad acquisire fiducia soprattutto perché inizia a comprendere che la mia presenza è funzionale a contenere i suoi vissuti, compresa la rabbia, e che può sentirsi libero di esprimersi. Nel corso di un colloquio mi spiega quindi che gli piacerebbe raccontare come la sua vita è cambiata in seguito alla diagnosi, raccontare di quelli che erano i suoi progetti e di come sta cercando di far fronte a questo momento drammatico, rivolgendosi in particolare ai pazienti che si trovano nella sua medesima condizione. È così che nasce l’idea di trasformare i suoi racconti in un libro. Un libro che parlasse della sua vita prima della diagnosi, delle sue esperienze, e poi delle sue trasformazioni, delle sue scelte, delle debolezze ma anche dei punti di forza.

Di seguito riporto un frammento di un dialogo con il paziente che racconta in particolare i suoi vissuti e stati d’animo e che consente di evidenziare la forza vitale che la narrazione è riuscita a sprigionare pur nella condizione di malattia.

L’obiettivo è il domani, quello che farò domani. La malattia ti mette in continuazione in difficoltà, ma il vero dramma per me è desiderare ancora di fare le cose normali, come tutti, come prima. Perché questa malattia ti dice di stare fermo, di rinunciare a tutto e ti pone in una condizione di dipendenza continua dagli altri, dagli altri che non sempre possono capire, anche se ti amano… e tu sei sempre più impotente e sempre più vulnerabile. E non riesco a spiegarmi perchè la mia mente lavora ancora in positivo pensando che prima o poi guarirò! Eppure, lo sento che ogni giorno peggioro… ma non voglio pensare al peggio… voglio pensare che io sia sempre lo stesso, nonostante tutto. Nei fatti, la malattia, non ti fa più camminare, non ti fa più fare le cose, ma la persona rimane uguale, io sono lo stesso, la mia mente funziona sempre bene anche se è spaccata in due: una parte gode di quello che ho e una parte si dispera per quello che un posso più avere. Ma io sono un illuso e penso che un giorno tornerò alla mia vita di prima!! Ma quella, forse, è solo speranza, non illusione.

 

Paternità. Nuovi padri in bilico tra alleanza e complicità (2021) a cura di Marina D’Amato – Recensione

Il tema di Paternità. Nuovi padri in bilico tra alleanza e complicità è certamente d’attualità. Il modo di interpretare il ruolo paterno, infatti, si è sostanzialmente modificato negli ultimi decenni.

 

Si è concordi nell’affermare che il sempre più massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro sia stato il fattore più importante nel provocare una modifica dei ruoli genitoriali. Nel nostro paese si considera la metà degli anni sessanta come data d’inizio di questo fenomeno di massa. Il paterno non è più il nome dell’autorità e sempre più padri sono impegnati, anche con entusiasmo, nello svolgere funzioni di accudimento, in passato di esclusivo appannaggio delle madri. Non a caso, in una ricerca citata nella prefazione, svolta con studenti di un corso universitario di Scienze della Formazione a cui era stato chiesto di indicare con una sola parola quale fosse il tratto saliente del proprio padre, la risposta più frequente è stata “dolcezza”. Abbiamo dunque dei padri che sono mammi? Ma è davvero così? Ed i ruoli genitoriali sono davvero interscambiabili?

La curatrice del volume, Marina D’Amato, è una sociologa che è stata docente presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, attualmente professore emerito, che negli anni ha collaborato con molte istituzioni accademiche straniere ed ha ricevuto importanti incarichi dirigendo istituzioni pubbliche e commissioni dedicate all’infanzia. Numerose le sue precedenti pubblicazioni, molte delle quali dedicate al mondo dei bambini e al loro rapporto con le tecnologie.

Il testo, nelle pagine successive alla ricca introduzione della curatrice, è suddiviso in due parti per un totale di 13 contributi, di lunghezza assai diversa tra loro. La prima osservazione riguarda il dato che, mentre i capitoli scritti da autrici affrontano il tema della paternità in modo più ampio, quelli degli autori maschili sono invece quasi sempre dedicati esclusivamente al tema del padre separato. Anche il capitolo della Ardone in effetti si occupa dell’evento separativo, facendo riferimento alla mediazione familiare e soprattutto al modello adottato da lei e alle attività del suo gruppo di lavoro. Di fatto nel suo contributo il tema del paterno è tutto sommato secondario e non affrontato. Fa eccezione, tra gli articoli “maschili” il capitolo di Spallacci, che commenta uno studio statistico quali-quantitativo sui mutamenti della paternità nel nostro paese e fornisce utili informazioni in merito. In effetti, tutti i contributi della prima parte sono più estesi, mentre nella seconda parte si tratta di contributi prevalentemente di poche pagine, che sembrano più un’appendice che descrive la posizione dei papà separati.

Tra i vari contributi, quello che mi è parso maggiormente fuori contesto mi è sembrato il capitolo di Covato dedicato all’esperienza dell’accudimento paterno nell’Ottocento (ma, beninteso, si tratta esclusivamente di un parere personale). Il tema è troppo vasto per poter essere trattato con pochi esempi tratti da storie reali. Interessante il contributo della Argentieri, dedicato al rapporto tra padri e figlie femmine ed in particolare a quelle situazioni familiari in cui sono i padri a fornire le prime cure in età precoce.

Il tema della paternità è sicuramente molto ampio e forse è un limite aver dato nel libro troppo spazio al padre separato, che sicuramente è un tema importante, ma non è l’unica declinazione della paternità. Ad esempio, sarebbe stato interessante un contributo concernente la paternità nelle coppie omosessuali, questione oggi al centro del dibattito pubblico. Anche l’argomento dell’età anagrafica in cui si diventa padri, oggi ci sono persone che diventano genitori a sessant’anni, è interessante.

Certamente una materia così ampia non può essere affrontata in modo esaustivo in un volumetto di circa 120 pagine, ma in ogni caso il testo può essere considerato un utile strumento per chi vuole iniziare ad approcciare tale argomento. Probabilmente il volume è pensato come un libro di testo che, insieme ad altri, serve per preparare un esame universitario.

Per chi invece volesse approfondire dal punto di vista psicologico il ruolo e la funzione del padre consiglio il libro di Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, tradotto in molte lingue e divenuto punto di riferimento per gli studi sull’evoluzione della paternità. Lo psicoanalista junghiano, che ha lavorato anche in Svizzera e negli Stati Uniti, ha dedicato al tema anche numerose interviste reperibili in rete.

 

Il nostro cervello: autonomo, potente e dinamico definisce chi siamo durante tutto il corso della nostra vita

Il nostro cervello è una macchina fantastica, complessa e ancora per certi versi misteriosa. Ci consente di essere ciò che siamo e fare ciò che facciamo senza richiedere il nostro diretto intervento.

 

Autonomo, potente e dinamico è infatti la cosa più importante che abbiamo perché ci rende ciò che siamo stati, chi siamo ora e ci consentirà di essere ciò che diventeremo.

Noi stessi infatti siamo il nostro meraviglioso cervello, per questo siamo unici: cosa possiamo fare per preservarlo? Come tutto il nostro corpo, infatti, anche il cervello beneficia di una sana e consapevole attività.

Se noi siamo il nostro cervello siamo in grado di fare tutto ciò che è in nostro potere per mantenerlo attivo. Se lui è attivo, lo saremo anche noi e viceversa.

Il nostro cervello: un lavoro ininterrotto

Il nostro cervello lavora ininterrottamente senza la nostra diretta consapevolezza. Svolge i compiti per cui è stato programmato con naturalezza: calibrato in ogni suo aspetto, gestisce, smista, organizza e indirizza un numero innumerevole di flussi informativi senza che ce ne rendiamo conto.

Compie in tempo reale una serie complessa di calcoli per decodificare le informazioni che provengono dalle diverse strutture periferiche a cui è connesso e, simultaneamente, produce informazioni che invia in tempo reale ai centri preposti a compiere ad esempio un’azione di cui abbiamo coscienza (alzarsi da una sedia) o di cui non abbiamo diretta coscienza (la respirazione).

Se pensiamo al nostro encefalo come ad un hardware e alla mente come ad ad un software, le informazioni che vengono processate funzionano come algoritmi che producono soluzioni specifiche in seguito a richieste precise.

Nel processare le informazioni, il cervello cambia costantemente: apprende a rimanere efficiente in modo del tutto funzionale e proprio per questo è da considerarsi un sistema unico e per certi versi imprevedibile.

Ciò che lo rendere speciale, infatti, è il principio stesso che lo guida, ovvero il cambiamento: il nostro encefalo non è mai statico, non è mai passivo, è un sistema completamente adattivo, in continuo divenire nel tempo dal momento in cui nasciamo fino alla fine della sua vita.

Nel suo modificarsi, spesso il nostro cervello deve fare fronte a situazioni difficili che lo obbligano a trovare modalità alternative di funzionare per consentire a tutto il sistema di continuare a ricoprire il suo ruolo in modo ottimale. Un cervello che avanza con l’età, si rimodella sempre, anche di fronte a danni più o meno gravi che possono colpirlo.

Le cellule neuronali si connettono tra loro per motivi precisi e nel farlo creano nuovi legami che si traducono in nuove funzionalità. I nuovi legami spesso servono anche ad affrontare, risolvere o gestire malfunzionamenti che possono insorgere durante il corso della sua esistenza.

Per quanto possa essere considerata una macchina perfetta, tuttavia, il nostro cervello non è una macchina. È la fonte di ciò che siamo noi, ovvero esseri umani imperfetti che cambiano ininterrottamente, in ogni nostro ambito di vita, dal momento in cui veniamo concepiti.

Il nostro cervello: prendersi cura della nostra mente

Tutto quanto descritto fino ad ora accade senza che ce ne rendiamo conto: ora che leggiamo queste parole – per quanto ci riteniamo specializzati in materia – stiamo fornendo alla nostra mente nutrimento per nuovi pensieri o idee e questo crea nuova linfa al nostro hardware.

Siamo quindi tutti molto ricchi, in quanto abbiamo con noi uno strumento unico nella sua specie. Divenire consapevoli di questo prezioso strumento ci rende responsabili del fatto che averne cura significa avere cura di noi stessi e del nostro futuro.

Per quanto in nostro potere, la nostra mente – intesa come software – va nutrita ed esercitata per poter mantenere attivo l’hardware che la rende efficiente. Con infatti l’esercizio potremo rafforzare e fortificare le sue funzionalità intrinseche.

Se stimoliamo la nostra mente con uno stato di apprendimento continuo, questo a sua volta influirà su tutte le strutture che, per loro natura, sono strettamente connesse alla funzionalità che andremo a stimolare.

Imparare a fare qualcosa di nuovo, apprendere un concetto nuovo, fare nuovi movimenti, nuove esperienze, socializzare, parlare con le persone, sono tutte fonti inesauribili di potenziamento del nostro cervello e di noi stessi. Averne coscienza ci farà senz’altro apprezzare maggiormente il valore di ogni nostro pensiero e di ogni nostra azione.

 

Il ruolo dell’olfatto nei veterani di guerra con PTSD

È importante studiare il funzionamento del sistema olfattivo per comprendere i processi cerebrali coinvolti nel Disturbo da Stress Post Traumatico. Poiché l’anatomia del sistema olfattivo coinvolge le stesse strutture del cervello che supportano la memoria dichiarativa e l’elaborazione delle emozioni, gli odori possono innescare ricordi di esperienze traumatiche

 

L’olfatto svolge diverse funzioni per gli esseri umani tra le quali la comunicazione sociale, il legame, la regolazione del comportamento alimentare (Beauchamp & Mennella, 2009) e la rilevazione di minacce: ci mette in allarme da un incendio, una fuga di gas, un cibo potenzialmente nocivo, è dunque fondamentale per la sopravvivenza.

Sistema olfattivo e PTSD

Alcuni studi della letteratura hanno dimostrato un aumento di rilevamento degli odori e dell’eccitazione simpatica tra cui la frequenza cardiaca (HR) e la conduttanza cutanea (SCL) in corrispondenza di odori legati alla paura, odori sgradevoli, ansia di tratto o disturbi d’ansia (Pacharra et al, 2016). Per quanto riguarda il disturbo da stress post traumatico (PTSD) non è chiaro se un odore possa provocare disfunzioni autonomiche e di attenzione legate ad una minaccia, in quanto spesso gli studi utilizzano stimoli uditivi o visivi. Negli ultimi 40 anni, c’è stato un interesse sporadico in quello che è comunemente noto come fenomeno Proust, in cui le memorie autobiografiche vengono recuperate e vissute in modo diverso se evocate da odori rispetto ad altri tipi di segnali, come le parole, le immagini o i suoni. Il fenomeno Proust, si riferisce a un passaggio del libro di Marcel Proust, “Swann’s Way” (1913). In questo passaggio, l’autore descrive in modo molto dettagliato come l’odore, tra gli altri segnali, di un biscotto gli faccia riemergere un ricordo a lungo dimenticato della sua infanzia. La ricerca sulla memoria per gli odori ha dimostrato infatti che questi ultimi possono essere dimenticati a un ritmo più lento rispetto ad altri tipi di stimoli (Engen & Ross, 1973). Inoltre, gli odori sembrano essere efficaci segnali contestuali della memoria (Hackländer e Bermeitinger, 2017) e la memoria autobiografica sembra funzionare in maniera differente quando i ricordi personali sono associati a odori rispetto ad altri tipi di segnali.

È importante, quindi, studiare il funzionamento del sistema olfattivo per comprendere i processi cerebrali coinvolti nel PTSD. Poiché l’anatomia del sistema olfattivo coinvolge le stesse strutture del cervello che supportano la memoria dichiarativa e l’elaborazione delle emozioni (cervello limbico e circuiti del lobo temporale mediale), gli odori possono innescare ricordi antichi ed emotivi tra cui ricordi di esperienze traumatiche (Willander & Larsson, 2006). Diversi studi in letteratura hanno studiato l’effetto di alcuni odori di bruciato legati a esperienze di combattimento, sui veterani di guerra in Iraq e in Afghanistan, trovando un significativo aumento dell’angoscia provocata dagli odori in soldati con PTSD. Sembra quindi che esista una relazione tra trauma, sensibilità agli odori e disturbo da stress post traumatico: alcuni risultati hanno dimostrato che l’HR suscitato dagli odori aumenta in funzione della valenza edonica negativa (sgradevolezza) e che i veterani di combattimento con PTSD considerano l’odore di bruciato come sgradevole e che provoca forte angoscia legata al trauma (Cortese et al., 2015).

Un studio su olfatto e PTSD

Inoltre, uno studio di Croy e colleghi del 2010 ha misurato i potenziali chemiosensoriali correlati agli odori in adulti che avevano subito maltrattamenti infantili, riportando un aumento della gravità dei sintomi del disturbo da stress post traumatico e un’elaborazione più rapida degli odori spiacevoli. Wilkerson e colleghi, nel 2018, hanno condotto uno studio per comprendere la reattività autonoma suscitata da alcuni odori nei veterani di guerra (con o senza PTSD), determinandone la relazione con la sensibilità agli odori, le valutazioni degli odori di ciascun soggetto e infine la sintomatologia del PTSD provocata da un odore. Gli autori ipotizzavano che ci fossero dei cambiamenti maggiori in SCL e HR provocati da un odore nei veterani con PTSD rispetto ai soldati sani. Inoltre si aspettavano che l’odore di bruciato provocasse dei cambiamenti fisiologici correlati positivamente alle valutazioni dell’intensità e della sgradevolezza dell’odore e ai sintomi del disturbo da stress post traumatico. Per lo studio sono stati reclutati veterani della guerra in Iraq o in Afghanistan con diagnosi di PTSD (CV+DPTS) e senza (CV-PTSD), valutata tramite la Clinician Administered PTSD Scale (CAPS; Blake et al., 1995). Ai soldati sono state somministrate la Combat Exposure Scale (CES; Keane et al., 1989), per determinare il grado in cui sono stati sperimentati fattori di stress da guerra; la Smell Threshold Test TM (STTTM; Doty, 2009): una serie di bottiglie da annusare contenenti alcol etilico fenile (PEA), un odore neutro “simile alla rosa” per valutare la sensibilità generale degli odori. Inoltre ai veterani sono stati presentati stimoli odorosi (Cortese et al., 2015) alcuni relativi a possibili ricordi traumatici (es.: gomma che brucia), altri invece piacevoli (es.: lavanda). Tramite scale analogiche (VAS) sono state valutate l’intensità dell’odore, la sgradevolezza e i sintomi del PTSD provocati dall’odore (rivivere ricordi legati all’odore, evitamento/stordimento, iperarousal). Infine sono state rilevate diverse misure fisiologiche tramite il sistema di acquisizione dati MP150 e il software AcqKnowledge 4.1 per Windows e i valori di SCL e HR in serie da 90 secondi (LaRowe et al., 2007).

I risultati, coerentemente con le ipotesi, mostrano che l’intensità dell’odore e le valutazioni di sgradevolezza per gli odori “di bruciato” sono aumentati significativamente nei CV + PTSD rispetto ai CV – PTSD. Inoltre, tali odori erano significativamente più efficaci di quelli piacevoli nel suscitare i sintomi del PTSD nei veterani (CV+DPTS). In aggiunta, la sensibilità per gli odori di bruciato sembrerebbe correlare con il tempo trascorso dal trauma nei (CV+DPTS): contrariamente ai sintomi generali del PTSD che di solito diventano meno gravi, la sintomatologia innescata dall’odore può intensificarsi con il tempo (Perkonigg et al., 2005). Le variazioni di HR e di SCL correlate a maggiore intensità e valenza negativa degli stimoli odorosi sono state invece variabili; la diminuzione della frequenza cardiaca e della conduttanza cutanea provocata da stimoli minacciosi può essere, però, una strategia di sopravvivenza per evitare l’individuazione dei predatori, caratterizzata da immobilità/congelamento comportamentale e decelerazione della frequenza cardiaca (Lang et al., 2011).

Infine, i risultati mostrano una maggiore sensibilità per gli odori di bruciato dopo un trauma da combattimento, che provoca evitamento e risposte fisiologiche alterate per far fronte all’intensificazione di tale sensibilità. In conclusione i risultati ottenuti e ulteriori indagini approfondite potrebbero dimostrare i benefici per alcuni individui dell’integrazione di stimoli odorosi nei trattamenti comportamentali del disturbo da stress post traumatico (Wilkerson et al., 2018).

Gli effetti della distrazione sull’assunzione di cibo: come può aiutare a diminuire un comportamento alimentare restrittivo

Diversi studi hanno messo a confronto l’intervento di mindful eating con l’intervento di distrazione e hanno osservato come possono influire sull’ansia delle persone con disturbi alimentari durante i pasti.

 

Spesso si può pensare che l’assunzione di cibo sia correlata solo a fattori biologici come la sensazione di fame o di pienezza, tuttavia sono numerosi i fattori che entrano in gioco. In particolar modo si è osservato che sia gli aspetti psicologici che fattori esterni rivestono un ruolo importante.

Difatti, per le persone che soffrono di Disturbi Alimentari, l’atto del mangiare cela un mondo, ove risiedono tutte le preoccupazioni relative al peso e alle forme del corpo.

Per loro la circostanza del pasto è il momento più difficile e delicato, si manifestano i pensieri ostili e le emozioni negative. Questi sono aspetti critici e possono rappresentare degli ostacoli non indifferenti alla riabilitazione psiconutrizionale, pertanto alla rottura del ciclo di mantenimento del disturbo alimentare.

Disturbi alimentari e atteggiamento mindful o mindless: cosa potrebbe alleviare quei momenti?

Numerosi studi si sono concentrati sul ruolo che l’attenzione e la distrazione possono avere sulla regolazione dell’assunzione di cibo.

L’atteggiamento mindful rispecchia l’alimentazione consapevole ove ogni sensazione legata al mangiare viene monitorata (Wansink & Sobal, 2007). Si favorisce sia la percezione degli stati interni legati alla fame che agli stati esterni legati alla piacevolezza del cibo, al contesto sociale e ambientale. Difatti, la mindfulness è una strategia terapeutica che insegna a rimanere nel momento presente usando un atteggiamento non giudicante. Essa è utilizzata per ridurre comportamenti di evitamento derivati dall’ansia, che nei disturbi alimentari possono equivale ad esempio al tagliare il cibo in piccoli pezzi o al mangiare velocemente.

L’atteggiamento mindless, invece, è rappresentato da un comportamento opposto, ovvero dal mangiare in modalità automatica, senza un’elaborazione cosciente ed è favorito dalla distrazione.

Diversi studi scientifici hanno messo a confronto l’intervento di mindful eating con l’intervento di distrazione e hanno osservato come possono influire sull’ansia delle persone con disturbi alimentari durante il momento del pasto. È stato dimostrato che l’alimentazione consapevole non produce benefici e provoca un aumento di ansia e un maggior senso di pienezza rispetto alla condizione di distrazione (Warren et al., 2013). Inoltre, si è osservato che l’attenzione focalizzata può causare la sovrastima della quantità di cibo assunta (Long et al., 2011). Quindi, il mindful eating potrebbe essere iatrogeno (Warren et al., 2013).

Il ruolo della distrazione nei disturbi alimentari

La distrazione può avere un impatto incisivo nella regolazione dell’assunzione di cibo e dei cambiamenti dello stato di fame e del desiderio di mangiare. Essa attiva una modalità in cui i fattori esterni non permettono una elaborazione cosciente del mangiare e di rilevare tutti i cambiamenti di stato interni.

La distrazione ha una natura multidimensionale e la ricerca scientifica ha individuato due forme legate all’alimentazione: la distrazione dalla sensazione fisica di fame e la distrazione dal compito del mangiare. Uno studio del 2012 ha valutato l’effetto che diverse attività distraenti, come guardare la TV o guidare, possono avere sull’assunzione di cibo e sul desiderio di mangiare, rispetto a una condizione in cui si mangia da soli senza distrazioni. La ricerca ha constatato che le persone davanti alla tv tendono a mangiare di più, perché l’attenzione è distolta dalla fame e non dal compito. Mentre la guida distrae da entrambe le modalità comportando un consumo minore di cibo. Infine, mangiare da soli permetteva un’attenzione più consapevole comportando una riduzione delle quantità e del desiderio di mangiare (Ogden et al., 2012).

Quindi attività distraenti, che non richiedono sforzi cognitivi, permettono di distogliere il focus attentivo dalla fame e di mantenerlo nell’attività del mangiare. Di conseguenza, viene promosso un aumento della quantità di cibo assunto.

Dati questi risultati, nelle cliniche specialistiche dei disturbi dell’alimentazione, gli operatori che offrono assistenza ai pasti possono considerare l’intervento di distrazione come ausilio alla riabilitazione nutrizionale.

 


 

Plasticità neuronale: memoria e apprendimento

Memoria e apprendimento sono manifestazioni della plasticità neuronale, cioè della capacità del sistema nervoso di adattarsi a cambiamenti dell’ambiente interno o esterno.

 

L’apprendimento è il processo mediante il quale le nostre esperienze modulano e cambiano il sistema nervoso e il comportamento: esso, pertanto, implica cambiamenti, che si verificano a livello delle connessioni sinaptiche. Il processo di apprendimento ha inizio con la trascrizione del segnale a livello della corteccia cerebrale: se il segnale inviato dalla corteccia cerebrale all’ippocampo è forte e ripetuto a lungo si formano nuovi ricordi a lungo termine che vengono trasmessi alla corteccia cerebrale, dove vengono immagazzinati. Alterazioni nell’ippocampo interferiscono con la formazione di nuovi ricordi, senza però influenzare quelli già preesistenti.

Le connessioni sinaptiche – alla base della memoria e dell’apprendimento – possono modificarsi nel tempo secondo un fenomeno noto come plasticità neuronale: tendiamo a ricordare o, in alternativa, dimenticare informazioni proprio perché l’uso frequente di una sinapsi la rafforza mentre il suo mancato utilizzo porta alla sua eliminazione. La sinapsi è una giunzione tra il bottone terminale di un assone e la membrana del neurone post sinaptico: la principale via di comunicazione tra i neuroni è per l’appunto la trasmissione sinaptica, in quanto l’assone veicola, in forma di potenziale d’azione, il messaggio neurale. Una stimolazione elettrica prolungata e ad alta frequenza del neurone pre sinaptico rafforza la sinapsi con quello post sinaptico: tale fenomeno prende il nome di potenziamento a lungo termine.

Le connessioni sinaptiche meglio caratterizzate sul fronte della memoria e dell’apprendimento sono le connessioni sinaptiche presenti nell’ippocampo – regione limbica deputata al consolidamento della memoria – che utilizzano come neurotrasmettitore il glutammato. Il glutammato, a seguito di una stimolazione elettrica, viene liberato nella fessura sinaptica, cioè la fessura frapposta tra la membrana pre sinaptica e quella post sinaptica; dopodiché raggiunge la membrana del neurone post sinaptico, dove lega i suoi recettori specifici, ossia i recettori NMDA e AMPA.

Il potenziamento a lungo termine avviene in due fasi.

Nella fase precoce gli ioni calcio avviano un processo di trasduzione del segnale attivando le proteine che facilitano la comunicazione sinaptica attraverso la fosforilazione dei recettori AMPA già presenti o reclutando ulteriori recettori AMPA ed esponendoli sulla membrana post sinaptica; questa prima fase è considerata la fase biologica della memoria a breve termine, che perdura per poche ore. Le informazioni per essere ricordate necessitano di essere consolidate, ma la consolidazione è labile ed altamente suscettibile a cancellazione (oblio).

Nella seconda fase, cruciale per la formazione di ricordi a lungo termine, subentra l’intervento di specifici neurotrasmettitori capaci di modificare il funzionamento da un processo transitorio ad un processo stabile di conservazione delle informazioni che si accompagna alla crescita di nuove connessioni sinaptiche. I neurotrasmettitori coinvolti sono:

  • noradrenalina, utilizzata dal locus coeruleus, uno dei nuclei della formazione reticolare che apporta un effetto eccitatorio sulle funzioni cerebrali; il sistema noradrenergico è collegato allo stato di vigilanza (arousal), fondamentale nei processi di apprendimento e memorizzazione;
  • acetilcolina, implicata nell’elaborazione delle informazioni a livello delle funzioni cerebrali superiori;
  • dopamina, la stessa sostanza implicata negli effetti di rinforzo delle droghe e nelle dipendenze. Viene rilasciata da stimoli di rinforzo in regioni cerebrali quali i gangli della base e l’ippocampo dorsale ed è fondamentale nei processi di apprendimento e memorizzazione;
  • neuropeptidi.

Dal punto di vista cerebrale, le strutture neuroanatomiche coinvolte nei processi della memoria sono principalmente le cortecce associative temporali, il complesso ippocampale, le aree corticali e sottocorticali e la corteccia prefrontale.

 

Un disturbo alimentare invisibile

La persona con ortoressia non ricerca un programma alimentare dietetico con lo scopo di perdere peso o migliorare la propria salute, bensì sperimenta un’ossessione patologica per il consumo di cibi sani e biologici.

 

L’ortoressia nervosa (ON) è un termine introdotto da Steven Bratman nel 1997, in un articolo sulla rivista Yoga Journal (Atzeni, Converso e Loera, 2021), con criteri che descrivono una preoccupazione ossessiva per il consumo di cibo ‘sano’ e focalizzata sulla qualità e sulla composizione degli alimenti (Moroze et al., 2015). Nello specifico, i soggetti che ne soffrono tendono a seguire una dieta sbilanciata, che porta nel tempo all’esclusione di determinate classi di alimenti, in funzione della purezza alimentare: si sentono in colpa se ‘trasgrediscono’ mangiando cibo impuro (Moroze et al., 2015). I soggetti che ne soffrono temono di assumere cibo considerato ‘malsano’, evitando cibi composti da derivati, additivi o sostanze considerate nocive, spendendo molte ore (almeno più di due al giorno) e soldi per cercare un tipo di alimentazione salutare.

Tale preoccupazione eccessiva, che compromette la salute fisica e fa sperimentare ai soggetti un notevole stress a causa delle credenze sul cibo (Moroze et al., 2015), può essersi sviluppata come un’estremizzazione dell’attenzione dedicata alla qualità degli alimenti: come riportò Pollan (2006) nel Paradosso dell’onnivoro, tale focalizzazione attentiva può essere vista come una strategia di coping nei confronti del ‘cibo spazzatura’ occidentale, ipernutriente e contaminato da molti conservanti chimici, che porta al suo evitamento con la preferenza di prodotti orientali come zenzero, papaya o bacche di gogji (Pollan, 2006; Atzeni, Converso e Loera, 2021). La persona ortoressica non ricerca un programma alimentare dietetico con lo scopo di perdere peso o migliorare la propria salute, bensì sperimenta un’ossessione patologica per il consumo di cibi sani e biologici (Atzeni, Converso e Loera, 2021).

Teorie sull’ortoressia nervosa

Secondo la teoria di Bratman, l’ortoressia percorre due tappe specifiche: la prima, definita come ‘innocente’ e ‘meritevole’, consiste sostanzialmente nel cambiamento delle proprie abitudini alimentari in funzione di un miglioramento, sia in termini fisici che salutistici. Nella seconda tappa, con l’incremento del rigore alimentare rispettato e con il conseguente aumento di autostima, si sviluppa una vera e propria ossessione patologica nei confronti degli alimenti, ossessione che porta i soggetti alla ‘spiritualità della cucina’, cioè a spendere la maggior parte del tempo nella pianificazione, nell’acquisto, nella preparazione e nel consumo dei pasti (Atzeni, Converso e Loera, 2021).

Dopo la teoria di Bratman (1997), altri autori cercarono di dare una definizione all’ortoressia nervosa: Donini (2004) la definì come un ‘comportamento salutare fanatico’ che nasce dalla comorbilità tra un disturbo alimentare ed un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, mentre Bagci Bosi (2007) si focalizzarono sul desiderio alimentare e su ‘atteggiamenti altamente sensibili nel comportamento alimentare’ (Atzeni, Converso e Loera, 2021, p. 207). Nicolosi (2006) definisce questa società come ‘ortoressica’, in quanto si è sviluppata progressivamente non solo la preoccupazione per il cibo, bensì anche la relazione triadica tra corpo, ideologie simboliche-identitarie (si pensi ai canoni di bellezza femminili odierni) ed etico-ideologiche (ad esempio, il veganismo). Dato che Bratman (2017) precisò che i criteri per l’ortoressia nervosa devono discriminare lo stile alimentare sano dalle fissazioni ossessive e dai comportamenti compulsivi, sono stati coniati differenti strumenti utili a misurare i sintomi correlati a questo disturbo.

Strumenti per rilevare l’ortoressia nervosa

Il primo strumento, coniato da Bratman e Knight (2000), è il Bratman Orthorexia Test (BOT) per indagare il tempo dedicato alla pianificazione alimentare, la quantità del cibo, la compromissione della qualità di vita correlata ad una rigida alimentazione sana, l’autostima, il perfezionismo e l’isolamento sociale (Atzeni, Converso e Loera, 2021). È composto da dieci domande a cui si può rispondere in modo affermativo o negativo. La scala più diffusa è la ORTO-15 (Domini et al., 2004; 2005), utile per rilevare la presenza di un’abitudine ossessiva nella scelta, nell’acquisto, nella preparazione o nel consumo di specifici alimenti: tale batteria, composta da 15 item, può essere utilizzata come screening (Atzeni, Converso e Loera, 2021). Gli strumenti messi a punto negli ultimi anni sono l’Eating Habits Questionnaire (EHQ; Gleaves et al., 2013) che è composto da 21 item utili a indagare i comportamenti alimentari salutari, le sensazioni positive ed eventuali problemi correlati ad uno stile alimentare disequilibrato. La Duesseldorf Orthorexia Scale (DOS; Barthels et al., 2015; Depa et al., 2017), suddivisa in tre sottoscale indaganti il comportamento alimentare ortoressico, l’evitamento degli additivi e la fornitura di minerali. La Teruel Orthorexia Scale (TOS; Barrada e Roncero, 2018) è comporta da 17 item per identificare i fattori correlati all’ortoressia sana e nervosa, infine la Barcelona Orthorexia Scale (BOS; Bauer et al., 2019) è stata sviluppata per identificare sei sottocategorie dell’ortoressia nervosa: dominio cognitivo, emotivo, comportamentale, conseguenze negative per la salute, negative per l’ordine sociale e la diagnosi differenziale (Atzeni, Converso e Loera, 2021).

Controversie sulla diagnosi di ortoressia nervosa

Nonostante la consistente attività teorica e gli strumenti sviluppati che evidenziano l’esistenza di un disagio psicologico correlato alla dimensione alimentare, l’impegno dei ricercatori non ha ancora portato all’inserimento della diagnosi di ortoressia nel DSM 5, in quanto non rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione a causa della non identificazione di criteri diagnostici validati (Valente e Galimberti, 2018; Atzeni, Converso e Loera, 2021). Un altro motivo per cui non è stata inserita all’interno del DSM 5 riguarda i dubbi nel considerarla un disturbo a sé stante: condivide delle caratteristiche peculiari con l’anoressia (AN) e la bulimia nervosa (BN) circa i tratti perfezionistici e l’ansia elevata nei confronti della propria immagine corporea, nonché con il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) per i pensieri intrusivi e ricorrenti circa l’alimentazione e la salute, la preoccupazione legata al rischio di essere contaminati e al consumo dei pasti in modo ritualistico (Valente e Galimberti, 2018). Probabilmente, ciò che distingue l’ortoressia nervosa dal DOC è la natura egosintonica dei pensieri ossessivi sul cibo, consapevoli e coerenti con il proprio sistema di valori, bisogni e credenze (Valente e Galimberti, 2018).

La mente autistica. Le risposte della ricerca scientifica all’enigma dell’autismo (2021) di Giacomo Vivanti – Recensione

Nel volume La mente autistica l’autore delinea un quadro molto ampio su una delle condizioni più studiate al mondo: l’autismo.

 

La realtà è una massa confusa di eventi, persone, luoghi, suoni e cose, non ci sono confini tra le cose, non c’è un ordine, non c’è un significato. Consumo la maggior parte delle mie energie per cercare di capire il senso dietro questo caos (Jolliffe, Lansdown e Robinson, 1992)

Introduzione

Esiste un effetto corrosivo sulla placida meditazione del senso comune così come in chi, dall’altro lato del continuum, osanna le capacità non comuni di soggetti che appaiono diversi. È il caso dell’autismo. Si tratta di un discostamento dalla normalità vissuta nella pelle di chi deve fare i conti con un mondo ‘non a propria immagine e somiglianza’ e, per questo, un mondo che non rispecchia i propri stati mentali.

Se nello sviluppo tipico si guadagna l’interazione sociale con una certa facilità, nei soggetti autistici è l’uso del verbo al futuro (‘guadagnerai’). Lontana è la capacità della interazione come molti la conoscono, lontano è l’Eden sociale. L’autismo viene concepito come conflittualità di fondo, trattenuto ‘al di qua’ di una certa soglia stabilita per criterio statistico.

Autismo tra pregiudizi e nuovi modelli di intervento

In questo volume l’autore delinea un quadro molto ampio su una delle condizioni più studiate al mondo: l’autismo, esistito in tutte le epoche e in tutte le parti del mondo, anche se solo nel ventesimo secolo viene avanzato il concetto di autismo come categoria diagnostica. Questo interesse, di progressivo approfondimento, consolidatosi negli ultimi due decenni, ha portato i suoi frutti: sono stati spazzati via i pregiudizi degli anni cinquanta e sessanta, sono nati modelli di intervento di documentata efficacia e si sono raccolti dati in grado di illuminare molti aspetti della sindrome. Ciononostante, l’incremento della qualità e quantità nella ricerca scientifica sull’autismo sembra generare più domande che risposte.

In questo libro ampio di contenuti si tenta – da un lato mediante una ‘collezione’ di ricerche di largo rilievo, dall’altro con fine logica investigativa – di fornire al lettore una visione d’insieme sull’universo autistico.

Il suo punto di forza è certamente la capacità descrittiva in un susseguirsi ordinato di eventi che fanno comprendere il sistema chiuso dell’autismo antistante al sistema aperto del mondo sociale caratterizzato da un flusso continuo di novità e variazioni, ‘tipiche’.

Comportamenti come ‘giocare con i coetanei in cortile’ o ‘fare una conversazione con la persona seduta di fronte a me in mensa’ non si manifestano mai allo stesso modo, e le circostanze particolari in cui ci veniamo a trovare modellano infinite ‘eccezioni alla regola’ nelle norme del comportamento sociale. Invece, la meccanica dei movimenti di un treno sulle rotaie o la fisica dello spostamento di liquidi in un sistema idraulico obbediscono a regole immutabili e infallibili – costituendo un mondo più prevedibile e concreto in cui le persone con autismo riescono a destreggiarsi meglio.

Tuttavia, non è solo la questione sociale ad essere differente nei soggetti con autismo: anomalie nell’orientamento sociale e nella sintonizzazione verso l’input verbale fornito dai caregiver, ridotta partecipazione ad episodi di attenzione congiunta e, di conseguenza, ad episodi di apprendimento che facilitano l’acquisizione del linguaggio, difficoltà nell’elaborazione parallela e nell’integrazione di informazioni, difficoltà nell’utilizzo di simboli astratti, reclutamento di modalità di elaborazione visiva nella comprensione verbale e anomalie nella connettività tra diverse aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione di stimoli linguistici e sociali. Questi processi interagiscono tra loro secondo complesse dinamiche non lineari nel cervello in via di sviluppo, dando luogo a un’espressione sintomatologica eterogenea.

Lo ‘spettro’ autistico e la prospettiva storica

Si afferma l’idea che l’autismo sia uno spettro di manifestazioni dai confini sfumati che si collocano lungo un continuum di gravità. Agli estremi del continuum ci sono da un lato bambini che non parlano, non manifestano alcun interesse per il mondo sociale e la cui unica occupazione sono comportamenti ripetitivi e stereotipati (come far roteare oggetti agitando le braccia), e dall’altro bambini quasi indistinguibili dai coetanei senza autismo.

Tra i due estremi vi sono mille sfumature, sia nella dimensione della comunicazione sociale che in quella della rigidità e ripetitività comportamentale nonché di interessi ristretti.

Particolarmente apprezzata è la descrizione storica in cui, di contro, L. Kanner considerava l’autismo come una condizione rara e ‘monolitica’ (ovvero presente o assente, senza vie di mezzo), mentre Asperger vede nell’autismo un continuum che confina con la ‘normalità’. Inoltre, la relazione di Kanner è incentrata su deficit e difficoltà, mentre Asperger nota che alcuni sintomi di questa condizione, come la tendenza a focalizzarsi su interessi ristretti senza farsi ‘distrarre’ dal mondo sociale, possono costituire un punto di forza (oggi diremmo un ‘asset’). E questa enfasi può riflettere una rappresentazione sociale dell’autismo focalizzata sui punti di forza anziché sui deficit, in modo che le persone con autismo non introiettino un senso di inferiorità, ma si identifichino con orgoglio nel concetto di autismo come minoranza culturale caratterizzata da connotazioni positive.

Una possibile ipotesi del caso del piccolo Victor

Un caso storico che mi ha colpito maggiormente è l’interpretazione sul – rarissimo – caso del piccolo Victor dell’Aveyron, vissuto nei boschi della Francia in solitudine – e privo della capacità di linguaggio – che, preso in carico dal pedagogista G. Itard, venne rieducato (o almeno si tentò) con scarsi risultati. Per chi non lo sapesse, sussiste la realistica possibilità (come riferito nel libro citando Frith, 1989) che egli fosse autistico, anche se i suoi contemporanei credevano che non parlasse e non socializzasse perché cresciuto nella foresta come un lupo, lontano dalla società e, quindi, non si fosse evoluto a causa della condizione vissuta. Questo aspetto cambia molto la valenza psicologica che si può dare a questo caso. Prendendo per vera questa ipotesi, la domanda che emerge di primo acchito è: «E se non fosse stato autistico?».

Il libro continua con un’analisi interessante basata su molteplici aspetti: intersoggettività, cognizione e percezione, apprendimento, comunicazione, linguaggio, etc. al fine di comprendere meglio la ‘mente autistica‘ e capire il come, quando e perché mettere o non mettere in atto determinate strategie di intervento e come facilitare, nelle persone con autismo, l’accesso alle stesse opportunità di autorealizzazione che hanno le persone senza autismo.

 

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