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L’importanza delle relazioni nei modelli terapeutici: l’approccio teorico e clinico di Gilliéron

La teorizzazione originalissima di Edmond Gilliéron si fonda su un approccio di tipo bio-psico-sociale, ossia sul fatto che lo sviluppo individuale è determinato da diversi fattori: biologico, psicologico e sociale.

 

Per parte nostra siamo partiti dal postulato che la realtà psichica è inconoscibile. Se ne conoscono tutt’al più certi derivati che si manifestano nella relazione interpersonale.

L’aggettivo relazionale ha avuto varie precisazioni nel corso della evoluzione del pensiero psicoanalitico, dopo Freud. Inizialmente designava il legame tra le relazioni interpersonali e le relazioni oggettuali interne. Le relazioni umane, caratterizzate da specificità ed unicità, giocano una funzione fondamentale sia nella genesi del carattere e della psicopatologia sia nella pratica clinica psicoanalitica. Con l’approfondirsi della riflessione teorica e clinica dopo Freud si è allargato il campo di interesse, dall’intrapsichico all’interpersonale.

Non soltanto dal punto di vista professionale, ma anche da quello esistenziale è di un certo interesse per la persona sapere che esiste una circolarità di influenze tra il mondo interno dei vissuti e il mondo esterno, fatto di luoghi – non solo fisici – dove questi vissuti vengono esperiti; tra la vita reale e quella fantasmatica, tra l’intrapsichico e l’interpersonale.

Le relazioni che viviamo tutti, soprattutto quelle più significative e dei primi mesi di vita, incidono – insieme con i fattori biologici – sulle nostre caratteristiche, ossia il nostro temperamento, la nostra costituzione somatica, la responsività fisiologica del nostro corpo. La stessa idea del conflitto (che in Freud avviene tra pulsioni e difese) in senso relazionale ha come attori principali le differenti e opposte configurazioni relazionali.

Non siamo il risultato di un riduzionismo biologico, in senso freudiano, ma nello svolgimento evolutivo delle nostre configurazioni caratteriologiche sono molto importanti i concetti di motivazione e attribuzione di significato, elementi essenzialmente relazionali, che nascono cioè perché veniamo in contatto con rapporti umani.

La teoria di Edmond Gilliéron

Il termine relazionale, quindi, implica non solo, come accennato prima, il legame tra le relazioni interpersonali e le relazioni oggettuali interne; esso si riferisce anche alle relazioni oggettuali esterne, ossia all’oggetto esterno reale. Oggetto, come si dice in psicoanalisi, indica la persona. Tale assunto è il punto di partenza della teoria dell’appoggio oggettuale, secondo la teorizzazione originalissima di Edmond Gilliéron. Essa si fonda su un approccio di tipo bio-psico-sociale, ossia sul fatto che lo sviluppo individuale è determinato da diversi fattori: biologico, psicologico e sociale. Questi fattori sono tutti complementari, perché insieme concorrono a formare la personalità. Secondo la teoria dell’appoggio oggettuale, pertanto, l’individuo si appoggia sull’ambiente esterno allo scopo di mantenere il suo equilibrio psichico. La strutturazione dello psichismo del bambino sembra quindi discendere da fattori complessi, da un equilibrio dinamico e circolare, che implica il contesto culturale, il comportamento dei genitori e le tensioni intrapsichiche individuali.

L’organizzazione di personalità secondo tale modello è l’insieme dei fattori che costituiscono l’individuo, ossia il corpo, lo psichismo e la relazione con l’ambiente. La descrizione della sua struttura – come cioè è fatta la personalità – si basa su una teoria, dunque non è visibile la personalità, ciò che invece è visibile di una persona, ciò che appare manifesto, è il suo carattere, perché esso si mostra nelle sue relazioni con l’ambiente. La struttura perciò si potrebbe dedurre dalle formazioni caratteriali dell’individuo. Questo si riallaccia alla questione della relazione oggettuale. In psicoanalisi, parlare di relazioni oggettuali ha sempre significato far riferimento alla relazione con gli oggetti interni (cioè le rappresentazioni) e non alla relazione con gli oggetti esterni. E’ invece molto realistico ciò su cui pone l’accento la teoria di cui stiamo parlando: considerare l’appoggio oggettuale come uno degli indici più sicuri dell’organizzazione permanente della personalità e della sua struttura.

Il modello di Edmond Gilliéron è innovativo e interessante, infatti, perché il carattere rappresenterebbe in questa visione quell’elemento che può essere osservato, in quanto emergente grazie alle reazioni che l’ambiente mette in atto nei confronti dell’individuo. L’ambiente reagisce alla modalità di relazione del soggetto il quale inconsciamente anticipa quelle reazioni, sentendosi così confermato nei propri fantasmi. L’equilibrio psichico di una persona, infatti, dipende anche dall’ambiente. Se, ad esempio, una persona con tendenze paranoiche si aspetta delle ingiustizie, attraverso il suo atteggiamento inconscio provoca delle risposte di rifiuto dall’ambiente, inconsciamente. In una sorta di circolo vizioso, essa, in questo modo, è confermata nella sua certezza che il mondo è ingiusto. Quando si considera la persona non si può non pensare che il suo funzionamento psichico si appoggia da un lato sulla biologia (la sua integrità biologica) e, dall’altro, sull’ambiente (il suo carattere).

Si attua con questa impostazione il superamento di un modello di funzionamento psichico basato su un meccanicismo pulsionale di matrice esclusivamente intrapsichica, dove prevale la natura biologica del desiderio e si tende a considerare la persona nella sua unicità e totalità di fattori. Si intuisce quanto questa teoria abbia una grande funzionalità dal punto di vista psicoterapeutico, perché si può guardare alla persona in tutti i suoi aspetti, tentativamente.

I bisogni nell’approccio di Edmond Gilliéron

Nel modello di derivazione biologica di Freud, invece, lo sviluppo individuale procede da interessi corporei, che sono orientati da dimensioni differenti (quella orale, anale, fallica) così come predominanti nelle varie fasi evolutive; per arrivare alla dimensione adulta (quella genitale), seguendo in questo modo le disposizioni naturali della persona. Ma c’è una dimensione essenziale dell’uomo: il desiderio. Se questa dimensione è reale, occorre trovare una dimensione teorica che ne spieghi la genesi. Il desiderio può avere un abbrivio biologico, aver a che fare con i bisogni, innanzitutto corporei, ma emerge nella sua natura sostanziale a livello superiore.

Un primo bisogno è la fame, legato alla sopravvivenza, e sta all’origine di una tensione. La madre che procura il cibo al bambino (il seno) placa questa tensione. In questa dinamica materna, il seno – che rappresenta l’immagine della madre soddisfacente – ha un posto privilegiato nella formazione dei desideri del bambino. Quando avrà di nuovo fame, in assenza della madre, egli cercherà di ripetere questa esperienza di soddisfazione in modo allucinatorio: l’esito sarà un abbassamento di tensione, almeno temporaneo.

Ma la soddisfazione allucinatoria non è minimamente comparabile con l’esperienza reale di soddisfazione avuta con la madre, perciò il bambino, secondo Edmond Gilliéron, vive una dinamica in cui è costretto al desiderio: l’eccitazione non si riduce tanto semplicemente e allo stesso tempo la madre non arriva per placarla, così non arrivando il sollievo, il bambino scopre il desiderio.

In tal modo, il desiderio, che nasce da un bisogno biologico non soddisfatto, si fissa su una rappresentazione che non è quella del bisogno medesimo, bensì attiene alla dimensione del piacere che normalmente accompagna la soddisfazione del bisogno. Il bambino esprime così una ricerca di piacere a scapito della realtà.

In questo processo, il desiderio si distaccherebbe dalla realtà biologica per costituire progressivamente l’apparato psichico del soggetto.

La prospettiva davvero innovativa di questa impostazione, all’interno della concezione psicoanalitica, risiede nella sottolineatura della natura relazionale del desiderio: il modo di soddisfazione allucinatoria della pulsione non può essere equiparato alla soddisfazione reale, quella che si ha nel momento dell’apparizione della madre che risponde adeguatamente al bisogno del bambino, estinguendo il suo bisogno della fame.

L’appoggio oggettuale pertanto descrive il tipo di interazione che si crea tra il bambino e l’ambiente in cui è immerso, e si basa sulla concezione freudiana della coazione a ripetere.

L’interazione è al di là della coscienza del soggetto, non si tratta di comportamento dal valore simbolico, ma semplicemente di un sistema ripetitivo di azioni che suscita reazioni specifiche nell’ambiente. Si tratta dunque di un sistema di atti e non di un sistema di pensiero. Secondo questa concezione, tutte le cosiddette psicopatologie sono alla ricerca di complici; uno psicotico ha bisogno di essere rifiutato dagli altri per rinchiudersi nel suo mondo autistico.

Nell’ottica di Gilliéron, dunque, l’assenza dell’oggetto (la madre in questo caso) non dà come risultato l’allucinazione, bensì rende possibile il realizzarsi di una potenzialità umana, ossia la capacità di provare piacere sulla base di un ricordo e non soltanto con un oggetto reale.

Implicazioni dell’approccio di Edmond Gilliéron in psicoterapia

Perché è importante tutto questo in psicoterapia? Per la questione del metodo.

Se la persona può subire un attacco biologico, una difficoltà relazionale o un disturbo dell’organizzazione dell’apparato psichico, questi fattori possono provocare una crisi, quella combinazione di fattori, cioè, è responsabile dell’incrinatura dell’equilibrio della personalità.

Alla luce di quanto descritto, il campo di osservazione per l’analisi terapeutica è un insieme oggettivo di elementi osservabili anche dall’esterno, insieme che rappresenta un aggregato di indizi con cui esplorare le dinamiche relazionali che usualmente la persona mette in atto, ripetendole –  circostanza molto importante – anche nella relazione terapeutica. Il carattere è dunque una manifestazione visibile della struttura di personalità che si esprime in segni concreti.

Dal punto di vista metodologico, nel setting terapeutico, il momento di crisi rappresenta un punto focale, poiché rimette in discussione l’equilibrio della personalità.

Poiché l’adulto ripropone la sua organizzazione – ormai cristallizzata – di sentimenti, reazioni affettive, pensieri, atteggiamenti difensivi, investendo il mondo esterno con l’immaginario interno e riproponendo pertanto le esperienze infantili nella visione attuale del mondo, l’interazione che avviene all’interno del setting terapeutico è osservabile e permette di inferire l’organizzazione di personalità del soggetto, riproponendo nella dinamica terapeutica le medesime dinamiche relazionali che vive nella vita ordinaria.

Metodologicamente, viene dato molto rilievo al primo colloquio, alla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente, la quale è in grado di fornire nel suo dipanarsi la chiave della diagnosi, attraverso cui si possono rilevare i meccanismi di difesa, il tipo di angoscia e la natura dei conflitti vissuti dal soggetto.

 

Demenza con Corpi di Lewy: diagnosi e segni prodromici

Scopo dell’articolo è fornire delle indicazioni utili per l’assessment neuropsicologico nell’oggettivazione dei segni prodromici di una Demenza con Corpi di Lewy (DLB).

 

Nel panorama delle demenze, quella con corpi di Lewy è la seconda in ordine di frequenza. L’età media di insorgenza del disturbo è compresa tra i 58 e i 78 anni, con un picco di incidenza nella sesta decade di vita.

DLB, Morbo di Parkinson, Demenza in malattia di Parkinson e Atrofia Multisistemica sono definite sinucleinopatie e, oltre a condividere molti aspetti clinici e genetici, sono accomunate dalla medesima caratteristica fisiopatologica: l’accumulo di ammassi proteici sferici (corpi di Lewy) nel citoplasma neuronale. Composti da aggregati della proteina alfa-sinucleina, alterano progressivamente l’equilibrio dei neurotrasmettitori e delle vie neuronali corticali e striato-corticali.

In particolare la Demenza con Corpi di Lewy e la Demenza in malattia di Parkinson (PDD) possiedono caratteristiche sovrapponibili. Entrambe sono infatti caratterizzate da parkinsonismo, da un progressivo deterioramento cognitivo, e da disturbi comportamentali e neuropsichiatrici. La caratteristica che può aiutare a differenziarle riguarda la sequenza di esordio dei sintomi: solitamente nella DLB il deficit cognitivo precede o è concomitante alla sindrome motoria parkinsoniana, mentre nella PDD la sindrome motoria precede il declino cognitivo (Erkkinen et al., 2018).

La diagnosi di Demenza con Corpi di Lewy

Secondo i criteri attualmente accettati (McKeith, et al., 2017) i sintomi della Demenza con Corpi di Lewy includono:

  • fluttuazione della cognizione;
  • allucinazioni visive;
  • disturbo comportamentale del sonno REM;
  • parkinsonismo.

Se le condizioni utili a diagnosticare una demenza sono soddisfatte, è sufficiente la presenza di due dei precedenti sintomi per considerare probabile il disturbo. Le caratteristiche di supporto alla diagnosi includono: grave sensibilità agli antipsicotici, instabilità posturale, cadute ripetute, sincope, disfunzioni autonomiche (costipazione, ipotensione ortostatica, incontinenza urinaria), ipersonnia, iposmia, allucinazioni non visive, deliri strutturati, apatia, ansia e depressione.

I biomarcatori indicativi comprendono la riduzione dell’assorbimento di dopamina nei gangli della base rilevabile attraverso SPECT o PET, riduzione della captazione cardiaca di metaiodobenzilguanidina rilevabile attraverso la scintigrafia miocardica e la conferma di assenza di atonia muscolare durante il sonno REM attraverso l’indagine polisonnografica (Outeiro, et al., 2019).

Come accade per altri disturbi neurodegenerativi la diagnosi definitiva richiede campioni autoptici di tessuto cerebrale.

Prodromi della Demenza con Corpi di Lewy

La ricerca sui segni prodromici di DLB è relativamente recente e non ha ancora prodotto risultati consistenti e generalizzabili. Tuttavia diversi studi stanno contribuendo ad una loro accurata disamina, concentrando la loro attenzione soprattutto sulle alterazioni neuropsichiatriche e cognitive che possono manifestarsi anni prima rispetto all’insorgenza dei sintomi.

Per comprendere quali segni poter osservare in fase prodromica è utile ricordare che le basi neuropatologiche di una Demenza con Corpi di Lewy sono rappresentate da una perdita neuronale e dalla presenza di corpi di Lewy nei nuclei sottocorticali e nei lobi frontali e parietali, soprattutto a carico dell’insula destra (Park, et al., 2011). Tali alterazioni, a partire dalla fase sintomatologica, producono disordini via via ingravescenti (disturbi visuopercettivi, disprassia, deficit di attenzione, difficoltà di denominazione, deficit di recupero dalla memoria episodica, deficit di fluenza verbale), che non sono osservabili in una fase prodromica.

Nel periodo che precede il disturbo si osservano principalmente disturbi neuropsichiatrici, quali apatia o sintomi depressivi, uniti a difficoltà esecutive e visuocostruttive. Solitamente non si evidenziano evidenti disturbi a carico della memoria (van de Beek, et al., 2020), che invece risulta coinvolta con il progredire del disturbo.

Il quadro clinico nella fase prodromica di una DLB può comprendere:

  • un MCI solitamente non-amnesico, con difficoltà visuopercettive e/o esecutive e assenza di deficit nelle attività di vita quotidiana (Kemp, et al., 2017)
  • disturbi neuropsichiatrici
  • assenza di parkinsonismi, che poi interesseranno l’85% dei pazienti affetti da DLB (Smirnov, et al., 2020);
  • la presenza di un disturbo comportamentale del sonno REM (RBD) (Jellinger, et al., 2018), al quale deve essere posta particolare attenzione. Esso infatti precede di molti anni la comparsa dei deficit cognitivi caratteristici (Donaghy, et al., 2015) e possiede una forte correlazione con l’esordio di una sinucleinopatia in generale. Diversi studi longitudinali evidenziano come i pazienti con RDB possiedano un indice percentuale di rischio molto elevato per lo sviluppo di una sindrome neurodegenerativa: 35% a 5 anni dalla comparsa di RDB, 73% a 10 anni, fino a raggiungere una percentuale compresa tra l’81% e il 92% a 16 anni (Barone, et al., 2018).

A riguardo, un altro studio (Génier Marchand, et al., 2017) suggerisce di includere sempre una misurazione delle funzioni visuospaziali nell’assessment neuropsicologico di un paziente che presenti RBD, per cogliere l’opportunità di rilevare precocemente una Demenza con Corpi di Lewy.

Ulteriori indicazioni utili al clinico possono derivare dalla valutazione qualitativa dei test neuropsicologici:

Uno studio in particolare (Mitolo, et al., 2014) suggerisce che un ridotto numero di angoli nella prova della copia del pentagono del MMSE potrebbe essere un buon marcatore della DLB prodromica e possiede inoltre una specificità del 91% nella discriminazione dall’Alzheimer.

Allo Stroop Test può essere evidenziata precocemente una difficoltà nella discriminazione dei colori a causa dell’interruzione del circuito dedicato alla funzione nella corteccia prefrontale dorsolaterale (Park, et al., 2011)

L’Attenzione sostenuta è spesso la funzione inizialmente più compromessa.

La performance al RCFT (Test della figura Complessa di Rey) è precocemente deficitaria, tuttavia l’interpretazione del risultato può essere fuorviante se il paziente presenta un basso livello di scolarizzazione e un basso punteggio al MMSE  (Kemp, et al., 2017).

Il TMT può mostrare un deficit in entrambe le prove (A e B) per una compromissione della funzione di ricerca visiva piuttosto che per un problema di shifting (Kemp, et al., 2017). A questo riguardo i test non grafomotori potrebbero essere più sensibili nell’identificare deficit esecutivi puri.

La performance nei test di memoria verbale è migliore rispetto a quella dei test di memoria visiva (Noe, et al., 2004).

Può essere osservata una flessione nei compiti di memoria semantica su stimolo figura piuttosto che su stimolo vocabolo, in accordo con l’ipotesi del deficit primario a carico della visuopercezione nella DLB (Kemp, et al., 2017).

La cognizione sociale non risulta generalmente compromessa in fase prodromica. Può essere osservata una difficoltà nell’attribuzione dei sentimenti al RME test, che deve essere interpretata con cautela soprattutto nel caso sia presente un deficit visuopercettivo o esecutivo, in quanto il riconoscimento dell’espressività e l’inferenza circa sentimenti e intenzioni presuppongono l’integrità delle capacità visuospaziali e frontali (Heitz, et al., 2016).

 

L’influenza delle esperienze avverse infantili sull’adozione di comportamenti devianti e la mancanza di comportamenti altruistici

Uno studio recente (Gomis Pomares & Villanueva, 2020) ha esplorato l’effetto delle esperienze avverse avvenute nell’infanzia sull’adozione di strategie di rischio (comportamenti devianti), e sulla mancanza di strategie positive (comportamenti altruistici), tra giovani adulti.

 

Per esperienze avverse dell’infanzia (Adverse Childhood Experiences – ACE) si intendono tutte quelle esperienze traumatiche come abusi sessuali, fisici o emotivi o negligenza emotiva e fisica, nonché circostanze familiari avverse che si sono verificate durante l’infanzia o l’adolescenza.

La letteratura sottolinea che le esperienze avverse sono più comuni tra i bambini di età inferiore ai 6 anni (Thompson et al., 2015) e che, una volta verificatosi un evento avverso nella vita di un bambino, la probabilità che egli ne viva altri aumenta in modo significativo, motivo per cui si apre una catena di rischi precoci. Per questo motivo, vari studi hanno sottolineato sempre più l’importanza delle prime esperienze in età infantile per la salute delle persone lungo tutto il corso della vita (Hughes et al., 2017).

Esperienze traumatiche e comportamenti devianti

L’aver vissuto una o più esperienze traumatiche sembra comportare risultati negativi in ​​età avanzata come ad esempio comportamenti a rischio (Felitti & Anda, 2010), inoltre, la tipologia dell’esperienza avversa vissuta sembra essere un elemento importante dato che potrebbe comportare differenti esiti (Agnew, 2001; Sharp et al., 2012). Ad esempio, Agnew (2001) sostiene che alcune esperienze possono avere un forte impatto sui comportamenti devianti, mentre altri hanno un impatto minimo o nullo.

Per comportamento deviante si intende un comportamento che viola le norme e i valori sociali, inclusa una vasta gamma di atti come furto, menzogna e aggressione. La definizione include comportamenti antisociali che sono violazioni del diritto penale, solitamente indicati come reati o crimini, nonché atti che non sono soggetti a sanzioni da parte del sistema di giustizia penale, come comportamenti esternalizzanti o distruttivi (Braga et al., 2017).

Riassumendo, quindi, i risultati ottenuti in questo campo portano al presupposto teorico che le avversità infantili siano fortemente legate al deterioramento sociale, emotivo e cognitivo e all’adozione di comportamenti a rischio per la salute che promuovono un’ampia gamma di esiti negativi: malattia precoce, disabilità, problemi sociali fino ad arrivare alla morte prematura (Felitti et al., 1998; Hughes et al., 2017).

Alla luce dei dati riportati, un’identificazione precoce delle esperienze infantili avverse è fondamentale per prevenire comportamenti devianti e favorire comportamenti altruistici, prevenendo così esiti negativi a lungo termine.

Esperienze avverse e comportamenti devianti: uno studio

Uno studio recente (Gomis Pomares & Villanueva, 2020) ha avuto come scopo quello di esplorare l’effetto complessivo e differenziale delle esperienze avverse avvenute nell’infanzia sull’adozione di strategie di rischio (comportamenti devianti), e sulla possibile mancanza di strategie positive (comportamenti altruistici), in una popolazione di giovani adulti spagnoli.

Come ci si aspettava, i risultati ci mostrano che l’aver sperimentato un’esperienza avversa durante l’infanzia sembra essere un predittore di comportamenti devianti, supportando così studi precedenti (ad es. Craig, 2019), e che l’aver vissuto quattro o più esperienze avverse in età infantile ha aumentato in modo considerevole la probabilità di presentare comportamenti devianti nella giovane età adulta.

Analizzando nello specifico il contributo dei diversi sottotipi di esperienze avverse, coerentemente con studi precedenti (ad es. Braga et al., 2018), si è scoperto che l’abuso fisico era il principale predittore dei comportamenti devianti. Ciò non sorprende, dato che i bambini che hanno subito abusi fisici hanno più problemi di esternalizzazione nell’infanzia rispetto ai bambini trascurati, inclusa una maggiore inadempienza e aggressività nei confronti degli adulti e degli altri bambini (Hildyard & Wolfe, 2002). Ciò potrebbe essere dovuto a meccanismi di apprendimento che spingono bambini vittime di violenza ad imitare questo comportamento, soprattutto quando percepiscono che tale violenza si traduce in ricompense (Braga et al., 2017). Oltre all’abuso fisico, anche l’abuso di sostanze nell’ambiente domestico si è mostrato un predittore significativo di comportamenti devianti nella giovane età adulta.

Per quanto concerne le strategie positive, l’abbandono emotivo era l’unico evento avverso che prevedeva la mancanza di altruismo. Questo risultato può essere dovuto al fatto che i bambini che non sono mai stati amati dalle figure significative durante l’infanzia, che non si sono mai sentiti speciali o importanti nell’ambiente familiare, non sono riusciti ad apprendere la capacità di amare o preoccuparsi degli altri. Ciò sembra essere in linea con la Teoria cognitiva integrata del potenziale antisociale, che prevede che l’esposizione a situazioni avverse durante l’infanzia o l’adolescenza può indebolire il legame sociale che dovrebbe essere stabilito in condizioni normali (Farrington, 2017). Allo stesso modo, alcuni autori considerano anche queste esperienze di abbandono come una minaccia allo sviluppo complessivo del sé dei bambini, in quanto, non ricevendo alcuna attenzione o cura, non ricevono nessun contributo prezioso al processo di auto-costruzione. Ciò sembra coerente con altri risultati della letteratura che indicano che i bambini trascurati presentano più ritiro sociale e interazioni limitate con i coetanei e più problemi di interiorizzazione rispetto ai bambini abusati fisicamente (Hildyard & Wolfe, 2002).

Tenendo in considerazione il genere, i risultati mostrano che le esperienze avverse infantili sono più predominanti nelle donne che negli uomini, supportando studi precedenti (Basto-Pereira et al., 2016). Inoltre, l’essere maschio ed aver subito esperienze avverse era predittivo di comportamenti devianti, mentre il solo essere di sesso femminile era un predittore di comportamenti altruistici. Questi risultati sono coerenti con ricerche precedenti che mostrano la più alta associazione del genere maschile a comportamenti esternalizzanti o distruttivi, nonché a violazioni del diritto penale (Godinet et al., 2014).

Conclusioni

In sintesi, possiamo presumere che diversi disturbi socio-emotivi e cognitivi abbiano luogo a causa di queste esperienze avverse. L’effetto cumulativo e alcune dimensioni specifiche di esperienze avverse avevano una relazione con il rischio di presentare comportamenti devianti e di inibire l’espressione di comportamenti altruistici. Nell’abuso fisico, la costruzione di uno schema mentale ostile (comportamento deviante) sembra essere il fattore chiave, mentre, nei bambini i cui bisogni sono stati sistematicamente ignorati, l’assenza di uno schema mentale dei bisogni degli altri è il punto centrale.

Si sottolinea l’importanza dell’implementare strategie affinché i bambini trascurati siano in grado di sviluppare abilità come l’empatia o la comprensione delle emozioni degli altri con il fine di promuovere comportamenti altruistici tra i bambini che non hanno imparato a farlo prima nella vita.

 

Tutta colpa del cervello: un’introduzione alla neuroetica (2013) di G. Corbellini e E. Sirgiovanni – Recensione

Tutta colpa del cervello ha come oggetto l’analisi dei fondamenti della neuroetica, disciplina che si occupa di stabilire le limitazioni etiche delle ricerche neuroscientifiche.

 

Il libro dei professori Corbellini e Sirgiovanni ha come oggetto l’analisi dei fondamenti epistemici della neuroetica, intendendo con essa una disciplina che si occupa di stabilire le limitazioni che dal punto di vista etico devono avere le ricerche che attualmente sono svolte nell’ambito delle neuroscienze, grazie ai moderni ausili utilizzati nell’ambito delle tecniche di neuroimaging. Questo pone un’altra problematica, ovvero può essere l’uomo inteso nei suoi comportamenti e nelle sue peculiarità come frutto delle scoperte delle neuroscienze? Questa prospettiva appare fortemente limitante, togliendo per esempio ad altre scienze umane la possibilità di poter intervenire sul dibattito sui comportamenti umani e sugli agenti motivanti che li determinano.

La neuroetica si occupa anche di capire quali siano le basi che in ambito neurobiologico determinano la formazione del giudizio morale nell’uomo. Da questo punto di vista assumono un significato differente, alla luce delle teorizzazioni delle neuroscienze, i concetti di io, di libertà di volere e di responsabilità individuale. In altre parole, anche alcuni costrutti dell’etica, attraverso questa rivisitazione neuroetica, si sostanziano in una significazione differente, che conduce ad una diversificazione semantica, certamente più adeguata alla contestualità epistemologica attuale, alcuni costrutti classici della filosofia morale.

La neuroetica, quindi, si pone l’obiettivo di coniugare i concetti filosofici legati alla natura dell’uomo, al suo essere nel mondo, al significato da dare alla sua esistenza e al senso del suo esserci nel mondo con la nuova epistemologia neuroscientifica, che deve divenire la prospettiva teorica ed empirica delle ricerche in ambito filosofico – morale e bioetico.

Cosa può nascondersi dietro ad intimità, condivisione emotiva e vicinanza: la Schadenfreude nell’amicizia tra donne

Talvolta le persone sperimentano schadenfreude, ovvero il piacere provato per la sfortuna di qualcun altro. Uno studio di Abell e Brewer del 2018 si è occupato di indagare l’esperienza di schadenfreude nelle amicizie tra donne.

 

Solitamente proviamo empatia nei confronti delle persone che soffrono (Wispé, 1991). L’empatia è la principale emozione sperimentata quando sono coinvolti amici e familiari ma non è ancora chiaro, tra gli studi in letteratura, se l’empatia sia ugualmente sentita verso altre persone che non siano parenti e affini. Talvolta infatti le persone sperimentano schadenfreude, ovvero ‘soddisfazione o piacere provato per la sfortuna di qualcun altro’. Schadenfreude è un termine tedesco e può essere tradotto con ‘gioia maligna’; la parola deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). La Schadenfreude descrive infatti l’esperienza di provare piacere nella sfortuna di un’altra persona (Takahashi et al., 2009).

Quando si sperimenta la schadenfreude

Alcuni studi di Norman Feather (2006) hanno analizzato diverse circostanze in cui si sperimenta la schadenfreude, individuando tre spiegazioni. La prima afferma che le persone talvolta possono effettivamente guadagnare dalla sfortuna altrui e il piacere è una reazione naturale al guadagno personale. La seconda circostanza deriva dalla percezione di quanto un risultato sia meritato: una disgrazia altrui è percepita come meritata poiché ritenuta giusta. L’ultima spiegazione deriva da sentimenti di invidia; questa è fortemente connessa alle prime due ragioni: una disgrazia che colpisce una persona invidiata porta, tra le altre cose, a un piacevole guadagno personale e un senso soggettivo ma soddisfacente di meritocrazia. Le differenze individuali che predicono la schadenfreude, includono quindi il risentimento, il merito, l’invidia e la competizione che determinano il provare piacere per la sfortuna di qualcuno (Smith et al., 2009).

Schadenfreude e personalità

Alcuni studi si sono occupati inoltre di determinare come la schadenfreude sia influenzata da fattori di personalità malevola come la cosiddetta Triade Oscura: una caratterizzazione personologica contraddistinta da alcuni tratti di personalità che hanno in comune sentimenti di aggressività e freddezza emotiva. La triade Oscura include il narcisismo, la psicopatia e il machiavellismo; quest’ultimo è definito come un tratto di personalità caratterizzato da uno stile interpersonale manipolativo, dalla volontà di sfruttare gli altri e da una preferenza per relazioni emotivamente distaccate (Christie & Geis, 2013). Il termine deriva da un’ interpretazione della dottrina politica di Niccolò Machiavelli al quale viene attribuita erroneamente la frase ‘il fine giustifica i mezzi’, che indica il servirsi di ogni espediente, indipendentemente da ogni considerazione di carattere morale, per raggiungere il proprio fine.

La psicopatia, caratterizzata da insensibilità, impulsività e livelli di ansia molto bassi per le conseguenze delle proprie azioni, è stata associata alla schadenfreude negli scenari di calamità, competizione e fallimento degli altri, mentre il machiavellismo, caratterizzato da manipolazione per obiettivi a lungo termine, è stato associato alla schadenfreude in relazione alla competizione e al fallimento (Jones & Paulhus, 2011). Gli studi presenti in letteratura non hanno tuttavia studiato la possibile relazione tra machiavellismo e schadenfreude nelle relazioni personali strette; è noto, infatti, che soprattutto le amicizie femminili siano influenzate dal machiavellismo (Abell et al., 2016).

Schadenfreude nelle amicizie femminili

Spesso le amicizie tra donne, sebbene presentino intimità, condivisione emotiva e vicinanza (Vigil, 2007), sono caratterizzate da manipolazioni come l’aggressione relazionale, la reputazione sprezzante, l’ostracismo e la ridicolizzazione (McAndrew, 2014). Le relazioni amicali tra donne possono quindi essere un contesto in cui la schadenfreude è sperimentata con livelli più elevati di machiavellismo, invidia e competizione. Poiché la ricerca precedente ha dimostrato che il machiavellismo, l’invidia e la competizione predicono sentimenti di schadenfreude nelle relazioni generali e che il machiavellismo è legato all’invidia e alla competizione (Jonason et al., 2015), uno studio di Abell e Brewer del 2018 si è occupato di indagare il machiavellismo, l’invidia, la competizione e l’esperienza di schadenfreude nelle amicizie tra donne. Le ipotesi iniziali prevedevano che i soggetti con livelli più alti di machiavellismo, invidia e competizione avrebbero riportato livelli più alti di schadenfreude in differenti contesti, tra i quali la capacità accademica, l’aspetto fisico e le relazioni romantiche. 4133 donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni, con un’amicizia di durata media di 7,5 anni, sono state reclutate tramite social network e sottoposte a differenti misurazioni. Inizialmente hanno valutato tre vignette per misurare la schadenfreude (James et al., 2014), successivamente è stato misurato il machiavellismo tramite la scala Il Mach IV (Christie & Geis, 2013); infine sono state sottoposte alla scala dell’invidia dispositiva (Smith et al., 1999) e all’indice di competizione interpersonale (Singleton & Vacca, 2007).

I risultati mostrano correlazioni tra machiavellismo, invidia, competizione e, relativamente alla schadenfreude, mostrano che questa correla positivamente e significativamente con l’invidia e la competizione nelle abilità accademiche. Inoltre il machiavellismo, l’invidia e la competizione correlano positivamente nelle relazioni romantiche e nell’aspetto fisico. Sembrerebbe dunque che le donne con un livello più alto di machiavellismo possono provare sentimenti di piacere quando un’amica sperimenta una sfortuna nella relazione con un/una partner e nell’aspetto fisico. Lo studio sottolinea anche il ruolo dell’invidia e della competizione nel provare schadenfreude: l’invidia ha predetto l’esperienza di schadenfreude in relazione alla capacità accademica/lavorativa e alle relazioni romantiche, mentre la competizione ha predetto l’esperienza di schadenfreude in tutti e tre gli scenari. Il machiavellismo non ha tuttavia predetto l’invidia o la competizione; questo suggerisce che le donne non hanno visto le amiche come avvantaggiate o non provavano invidia per i vantaggi altrui. Una possibile spiegazione a questo fenomeno è data dal fatto che le partecipanti non abbiano provato invidia in quanto tenderebbero a selezionare attentamente le amiche della cerchia sociale da frequentare, le quali sono quasi sempre vulnerabili ad essere manipolate o sfruttate. Anche per quanto riguarda la competizione accade un fenomeno simile: le donne con punteggi alti di machiavellismo selezionano amici che non vedono competitivi poiché competere con loro richiederebbe troppe energie (Abell & Brewer, 2018). La ricerca ha dimostrato, infatti, che coloro che hanno un alto livello di machiavellismo selezionano amici che sono gentili e danno poca importanza alla qualità dell’amicizia, alla compagnia e all’intimità (Abell et al., 2016). In conclusione i risultati sono coerenti con le ricerche precedenti, in particolare quelle che documentano il piacere in risposta alla sfortuna di un collega. Tuttavia, il machiavellismo non ha predetto l’invidia o la competizione, anche se questi ultimi hanno predetto la schadenfreude.

 

I meccanismi di mantenimento dei disturbi dell’alimentazione

I disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati da un anomalo rapporto con il cibo e contribuiscono alla comparsa di problematiche significative per la salute fisica e per il funzionamento psicosociale.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i disturbi dell’alimentazione rappresentano una delle più frequenti cause di disabilità per gli adolescenti e i giovani adulti nei paesi occidentali e sono in costante aumento.

Negli ultimi anni molte sono state le ricerche in questo campo con l’obiettivo di comprendere a fondo le caratteristiche delle problematiche alimentari e le modalità migliori con cui trattarle e prevenirle. Tra i vari aspetti studiati, ci si è chiesti quali siano i fattori implicati nel loro mantenimento. Una risposta a questa domanda è stata sviluppata all’interno della cornice teorica cognitivo comportamentale transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione su cui si basa la CBT-E (enhanced cognitive behaviour therapy), trattamento d’elezione per questa psicopatologia.

Meccanismi di mantenimento specifici dei disturbi dell’alimentazione

Secondo questo approccio teorico, il nucleo psicopatologico centrale dei disturbi dell’alimentazione sembra essere uno schema di valutazione di sé disfunzionale (Fairburn et al., 2003), ossia la tendenza delle persone affette da questa problematica a giudicare il proprio valore secondo canoni poco realistici ed equilibrati.

Il sistema di autovalutazione solitamente si basa sulla percezione soggettiva delle proprie prestazioni in vari ambiti della vita, come il lavoro, le amicizie, la scuola, la famiglia o lo sport. Nel contesto del disturbo alimentare, invece, questo sistema si stravolge e il giudizio sul proprio valore dipende quasi esclusivamente dal controllo che si esercita sul peso o la forma del corpo o l’alimentazione.

Stabilire il proprio valore basandosi prevalentemente su variabili legate al controllo alimentare o corporeo è rischioso e poco funzionale perché:

  • una dimensione (e.g., peso, alimentazione, forma del corpo) molto sproporzionata rispetto alle altre (e.g., lavoro, famiglia, amicizie, …) è in grado di compromettere l’intero sistema in caso di fallimento;
  • spesso gli obiettivi legati al peso o alla forma del corpo non vengono raggiunti (si potrebbe essere sempre più magri e con una forma più gradevole);
  • il focus attentivo è orientato selettivamente verso questi aspetti, marginalizzando e trascurando molte aree di vita (Dalle Grave e Calugi, 2015).

Le altre caratteristiche cliniche peculiari del disturbo, come il sentirsi grassi, i comportamenti estremi di controllo del peso o l’evitare di esporre il corpo, derivano in modo diretto o indiretto dal nucleo psicopatologico centrale. Questi aspetti, infatti, sono spiegabili solamente alla luce della sproporzionata importanza che il controllo di corpo, peso o alimentazione ha sull’autovalutazione (Dalle Grave, 2012).

In persone che soffrono di disturbi dell’alimentazione il sistema di autovalutazione disfunzionale viene mantenuto attivo dalle diverse manifestazioni cliniche del disturbo (e.g., la marginalizzazione di altre aree di vita). Questi elementi costituiscono l’insieme dei fattori di mantenimento interni o specifici (Dalle Grave et al., 2018), chiamati in questo modo perché peculiari del disturbo dell’alimentazione.

Meccanismi di mantenimento esterni dei disturbi dell’alimentazione

Esiste un sottogruppo di persone che soffrono di un disturbo dell’alimentazione in cui si possono riscontrare dei fattori di mantenimento aggiuntivi (esterni o non specifici) legati ad altre problematiche: perfezionismo clinico, bassa autostima nucleare, difficoltà interpersonali marcate o intolleranza alle emozioni. I meccanismi esterni interagiscono con quelli specifici e contribuiscono al mantenimento della psicopatologia, ostacolando ulteriormente il processo di cambiamento.

In particolare, siamo in presenza di perfezionismo clinico quando le attitudini e i comportamenti perfezionistici sono così estremi da danneggiare significativamente la vita della persona. Quando un disturbo dell’alimentazione coesiste con il perfezionismo clinico le due psicopatologie interagiscono tra loro e le persone che ne soffrono sono sia impegnate a raggiungere un “perfetto” controllo del peso, della forma del corpo o alimentare, sia a soddisfare standard molto esigenti negli altri ambiti di vita (Dalle Grave et al., 2018). Il perfezionismo clinico intensifica alcuni aspetti della psicopatologia, rendendoli difficili da trattare e favorendo il mantenimento della problematica (Shafran et al., 2002).

La bassa autostima nucleare, invece, è caratterizzata da un incondizionato e pervasivo giudizio negativo su di sé, non dipendente da condizioni attuali, di lunga durata e non conseguente a uno stato depressivo. Questo aspetto, combinato con il disturbo dell’alimentazione, favorisce un senso di impotenza, una visione negativa del futuro e la convinzione di non avere le capacità necessarie per affrontare un cambiamento; favorisce, inoltre, la focalizzazione su aspetti importanti (legati al disturbo) per migliorare la propria autostima (e.g., il controllo dell’alimentazione), rendendo difficile l’adesione e ostacolando il trattamento (Dalle Grave et al., 2018).

Spesso le persone con un disturbo dell’alimentazione hanno difficoltà interpersonali che migliorano con l’andamento della terapia. Tuttavia, ci sono alcuni pazienti per cui è necessario affrontarle in modo specifico. Alcune difficoltà interpersonali che favoriscono il mantenimento delle problematiche alimentari sono l’isolamento sociale e la mancanza di esperienze (questo favorisce la concentrazione sulla psicopatologia) o i conflitti, le liti e le emozioni negative associate che accentuano alcuni comportamenti del disturbo (e.g., cibo per modulare le emozioni).

Alcune persone con disturbi dell’alimentazione presentano una specifica difficoltà nel tollerare stati d’animo intensi o un’eccessiva sensibilità a tali stati (Fairburn et al., 2003). Il fatto di gestire in modo poco adeguato le emozioni porta spesso alla messa in atto di comportamenti disfunzionali, come gesti autolesivi o l’uso di sostanze psicoattive. I pazienti con disturbi dell’alimentazione possono usare alcuni comportamenti tipici del disturbo (e.g., vomito, esercizio, abbuffate, …) come comportamenti di modulazione emotiva.

I meccanismi esterni, quindi, possono diventare un importante ostacolo al cambiamento. In questi casi, infatti, il trattamento prevede dei moduli aggiuntivi per lavorare sugli aspetti extra-patologia che non permettono una risoluzione del disturbo dell’alimentazione.

 


 

Il moderno concetto di stress necessita di concettualizzare ed operazionalizzare anche lo stress positivo

La letteratura scientifica attualmente disponibile fa emergere l’esigenza di una migliore definizione concettuale ed operativa del cosiddetto eustress (stress positivo).

 

Se l’aspetto negativo dello stress (il cosiddetto distress) è un fenomeno ben studiato ed al quale corrisponde, nell’attuale paradigma, una enunciazione operativa apparentemente ben definita sia a livello biologico molecolare che psicologico, lo stesso non si può dire del suo opposto ossia dell’eustress.

Questo significa che l’attuale paradigma dello stress necessita di progredire ulteriormente per aumentare la sua capacità esplicativa soprattutto nei confronti dei fenomeni legati agli aspetti benefici e che promuovono la salute ed il benessere in particolare di quello umano.

L’esigenza di cambiare il paradigma generalmente accettato dello stress nasce anche dalla consapevolezza che, anche attualmente, non disponendo di un modello operativo che distingue lo stress positivo da quello negativo vi è una inevitabilmente ricaduta nelle pratiche poco efficaci se non controproducenti attualmente adottate dalla popolazione se non dagli stessi operatori e professionisti del settore.

Stress, eustress e distress

Così come per la psicologia, con la concettualizzazione della Psicologia Positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000), vi è stata una rivoluzione concettuale che ha modificato, e continua a modificare, sia la cultura che le pratiche adottate anche dai professionisti del settore psicologico, in maniera analoga il concetto di stress (storicamente ancorato agli studi biologici comparativi animali) deve progredire inglobando lo studio scientifico degli aspetti che promuovono e rinforzano la salute ed il benessere umano.

La transizione concettuale del vecchio paradigma in quello più aggiornato, prevede che l’orientamento teorico non sia più focalizzato in maniera esclusiva sul modello patologico di salute umana, né sbilanciato in maniera preponderante sul piano strettamente biologico (per la sua eredità culturale derivante dal modello biomedico del Novecento), né polarizzato in modo prioritario sullo studio delle invarianti comuni con altre specie animali.

Le conseguenze, sia concettuali che operative, di questo nuovo, moderno e scientificamente aggiornato paradigma relativo allo stress, dove anche l’eustress trova una sua collocazione logica altrettanto importante quanto lo stress negativo, comporta molteplici conseguenze anche applicative che riguardano le strategie pratiche da adottare al fine di ridurre i danni dello stress negativo e promuovere quello positivo per incrementare il nostro benessere e la nostra salute psicofisica.

Come già riportato in un altro scritto (Agnoletti 2021), dalla letteratura scientifica attualmente disponibile emerge la necessità concettuale di considerare anche la dimensione del significato nella comprensione dello stress, pena la mancata distinzione, soprattutto nella specie umana, tra stress positivo e negativo.

Soprattutto per il benessere e la salute umana vi è infatti l’esigenza di distinguere dal punto di vista operativo lo stress negativo (distress) da quello positivo (eustress) e questo significa superare concettualmente l’attuale paradigma generalmente accettato (quello che chiamo “paradigma classico dello stress”) dove tale distinzione è esclusivamente di natura quantitativa.

Considerando l’attuale letteratura scientifica sia biomedica che psicologica, sono sempre più convinto che oltre alla dimensione quantitativa, occorra aggiungere anche la dimensione del significato informazionale per aspirare a comprendere la complessità che caratterizza le dinamiche dello stress, soprattutto nel contesto umano.

A mio modo di vedere, unicamente considerando anche la dimensione informazionale relativa al significato all’interno del fenomeno stress è possibile comprendere i risultati di alcune recenti e preziose ricerche scientifiche così come capire la dimensione soggettiva, che può cambiare nel tempo, relativa la differenza tra eustress e distress nella specie umana.

Solo esaminando contemporaneamente le componenti oggettive con quelle soggettive dello stress vi è la possibilità di spiegare la notevole eterogeneità riscontrabile sia tra gli individui (diversi soggetti possono reagire in maniera molto diversa se esposti allo stesso stimolo/agente stressante) che all’interno dell’arco temporale di uno stesso individuo (la medesima persona può reagire molto diversamente se esposta allo stesso stimolo/agente stressante in due momenti diversi della propria vita).

Suppongo che l’unico modo di comprendere le dinamiche dello stress e le loro conseguenze psicofisiologiche che impattano sulla salute umana sia possedere un corretto concetto di stress che permetta di distinguere anche dal punto di vista operativo il distress dall’eustress, cosa che l’attuale paradigma non offre se non in termini assolutamente approssimativi.

Il paradigma classico dello stress

Attualmente in genere la definizione di stress consiste in un complesso processo messo in atto dall’organismo per ristabilire o garantire un equilibrio statico o dinamico (tecnicamente detto “omeostatico” o “allostatico”) perturbato da qualche fattore esterno all’organismo stesso (Bottaccioli & Bottaccioli, 2017; Charmandari, Tsigos, & Chrousos, 2005; Lazarus & Folkman, 1984; McEwen, 2007; Sapolsky, 2006; Selye, 1976).

Pur riconoscendo i progressi avvenuti soprattutto negli ultimi decenni, in particolare nei dettagli biologici e molecolari, questa visione fa fatica a definire con chiarezza ed in maniera operativa la differenza tra eustress e distress applicata alla specie umana.

Uno dei pochi esempi dove l’attuale paradigma dello stress considera operativamente anche lo stress positivo, distinguendolo da quello negativo, è il grafico che rappresenta la cosiddetta “legge di Yerkes e Dodson”.

In questo contesto si mette in relazione il livello di arousal psicofisico dell’organismo in funzione del tempo; la curva che descrive questa interazione rappresenta una generica prestazione (che può essere ad esempio una performance sportiva).

Come viene generalmente descritto in questo grafico, la distinzione tra eustress e distress è convenzionalmente quantitativa nel senso che l’unica cosa che distingue lo stress positivo da quello negativo è il grado di attivazione psicofisica dell’organismo (se troppo poca o troppa allora lo stress è negativo, diversamente è positivo).

Questa visione meccanicistica prevede quindi che non sia necessario un coinvolgimento degli aspetti psicologici o sociali per capire se si tratta di eustress o distress, l’unico aspetto veramente importante è quello quantitativo legato alle variabili fisico-chimiche presenti (produzione di sostanze bioattive come, per esempio, il cortisolo e/o l’attivazione fisiologica di un’area cerebrale come, per esempio, l’amigdala).

Ritengo importante notare che in questo ambito il criterio vero e proprio per distinguere l’eustress dal distress è definito in relazione alla performance ed implicitamente il contesto psicologico, sociale o anche strettamente biologico inteso come fitness non hanno alcun ruolo né uno spazio logico.

Paradossalmente una performance potrebbe essere ottimale anche se vissuta emotivamente come molto negativa dalla persona che la sta attuando e con il risultato della performance che mette in pericolo di vita il soggetto stesso (pensiamo a chi pratica sport estremi ad esempio).

In altri termini se la differenza tra distress e eustress rimane puramente quantitativa, allora l’unico modo di distinguere i due domini rimane la durata e l’intensità della reazione psicofisiologica prodotta dall’organismo, ma questo è palesemente in contrasto con l’evidenza scientifica di tutti quegli studi che dimostrano che a parità di attivazione psicofisiologica (livelli di cortisolo, attivazione di aree cerebrali, etc.) lo stress può essere positivo in una persona e negativo per un’altra.

La seducente quanto semplicistica visione rappresentata dal paradigma dello stress classico si traduce operativamente in uno schema dove: se la reazione psicofisica dell’organismo è breve ma intensa (si parla infatti di reazione “acuta” dello stress) allora viene considerato come positivo (eustress) per il valore positivo in termini di sopravvivenza biologica (il cosiddetto meccanismo “attacco o fuga”), mentre se la reazione ha una dimensione quantitativa più prolungata nel tempo (chiamato infatti stress “cronico”), anche nel caso in cui sia meno intensa, è sempre e comunque negativa (distress) per il valore disadattivo in termini di salute.

Ribadisco che questa visione non prevede né necessita assolutamente del coinvolgimento dei domini psicologici né di quelli sociali-culturali per decretare cosa viene considerato eustress e distress.

Nel paradigma classico dello stress, la complessità umana ormai riconosciuta come entità inestricabile bio-psico-sociale viene completamente ridimensionata esclusivamente nel suo piano biologico dove le dimensioni emotive/psicologiche, ed ancor meno quelle socio culturali, non vengono minimamente prese in considerazione.

Un po’ come quando si cerca di rappresentare bidimensionalmente una sfera disegnando un cerchio, il paradigma classico dello stress coglie degli aspetti della realtà ma non nella loro complessità.

In genere il paradigma dello stress normalmente inteso prevede, nella specie umana così come fondamentalmente tutti gli altri Vertebrati, l’attivazione psico-neuro-endocrina finalizzata a risolvere una situazione potenzialmente pericolosa per la sopravvivenza perché considerata all’interno della “categoria” potenzialmente perturbante l’omeostasi (o l’allostasi) dell’organismo stesso.

Dal fisiologo Walter Cannon che inizialmente definì lo stress nei termini di specifica reazione fisiologica dell’organismo di fronte ad una minaccia percepita (chiamata anche “fight or flight” response), agli autori molto più recenti quali Selye, Lazarus, McEwen, Chrousos, Sapolsky, che hanno effettivamente arricchito di dettagli lo stesso concetto di stress, la logica relativa la priorità conservativa biologica dello stress è sempre rimasta la stessa.

La soggettività all’interno della concezione dello stress

A mio avviso non c’è stato finora uno sforzo concettuale altrettanto importante per sintetizzarne il ruolo dello stress sia in contesti non omeostatici che all’interno della particolare complessità ed eterogeneità presente e caratterizzante la specie umana.

Questo probabilmente è uno dei motivi per cui è così difficile riuscire a definire lo stress, misurarlo (estrapolandone valori oggettivi) e valutarlo (positivo o negativo) nelle persone (Agnoletti, 2019; Agnoletti, 2020; Agnoletti & Formica, 2021a; Agnoletti, 2021b).

La lacuna concettuale oggetto del presente scritto nasce dal fatto che, almeno per quanto riguarda la specie umana, la definizione di stress non può prescindere dalle altre due teleonomie caratterizzanti le persone: la teleonomia psicologica relativa al significato attribuito all’evento stressante e quella socioculturale.

Se, all’interno dello studio dei comportamenti umani, non si considerano anche queste due teleonomie il potere esplicativo del concetto dello stress rimarrà unicamente limitato ai contesti dove vi è un vantaggio biologico/evoluzionistico.

Comprendere comportamenti tipicamente umani caratterizzati dalla rilevanza psico-sociale (per esempio dove i fattori psicologici come il Flow o dinamiche psicosociali come la scelta di praticare la castità di un prete non possono essere ascrivibili ad una teleonomia biologica) o dove la valenza dello stress è palesemente positiva, quindi dove siamo in presenza di eustress che migliora la nostra salute ed il nostro benessere, saranno virtualmente impossibili da interpretare nel contesto del paradigma classico dello stress perché non vi è uno spazio logico ad esse dedicate.

Anche alcuni importanti e solidi risultati scientifici non troveranno posto all’interno del classico paradigma dello stress perché tali risultati possono essere compresi solo considerando anche le teleonomie psicologiche e sociali oltre che quelle squisitamente biologiche.

Mi riferisco qui ad esempio a quanto è stato già dimostrato riguardo all’influenza del concetto medesimo di stress e di mindset (approccio mentale) sulla nostra fisiologia determinando sia la nostra longevità che la probabilità di sviluppare problematiche di varia natura (Crum, Salovey, & Achor, 2013; Epel et al. 2004; Jamieson, Nock, & Mendes, 2012; Keller et al., 2012).

Probabilmente uno degli studi più emblematici a questo riguardo è la ricerca di Keller e colleghi (Keller et al., 2012) condotta in otto anni su quasi trentamila persone dove si è visto che gli alti livelli quantitativi di stress (in termini di misurazioni biometriche) aumentano il rischio di morte del 43% unicamente in coloro che dichiaravano di possedere un concetto di stress esclusivamente negativo.

Sottolineo il risultato della ricerca che ha dimostrato che alti livelli quantitativi di stress rilevato misurando parametri biometrici erano associati ad un rischio di morte pari al 43% solo ed esclusivamente quando la valenza cognitiva/emotiva dello stress era unicamente negativa ed associata, come significato, al danneggiamento della salute ed il benessere.

Le persone che avevano riportato ugualmente elevati livelli di stress (quindi che dal punto di vista quantitativo erano identici al gruppo di persone precedentemente citate), ma che psicologicamente non consideravano lo stress unicamente come fattore dannoso, non avevano probabilità maggiori di morire, anzi, la loro condizione si associava ad un rischio di morte più basso rispetto qualunque altro individuo coinvolto nell’indagine, persino più basso rispetto coloro che avevano parametri quantitativi di stress molto meno intensi ma abbracciavano un concetto di stress esclusivamente negativo.

Chiaramente questi risultati sono paradossali se analizzati alla luce del modello classico di stress perché, essendo focalizzato nell’identificare ed enfatizzare solo i fattori quantitativi relativi l’attività fisiologica ed i fattori comuni a molte altre specie animali, non riesce a cogliere la ricchezza e l’eterogeneità umana.

Se ad esempio una persona si impegna per raggiungere la laurea, affronterà un lungo periodo stressante che richiederà tempo, energia ed una forte capacità di concentrare la propria attenzione focalizzandola su di uno scopo intenzionalmente definito, ma un aspetto fondamentale per capire come si tradurrà questo stress, se in senso negativo o positivo, è comprendere anche la sua teleonomia psicosociale ovvero, in questo caso, se sta perseguendo l’obiettivo della laurea (rispettivamente) per non deludere le aspettative dei genitori o se è una scelta nata da una propria motivazione intrinseca.

Come l’insieme della configurazione grafica necessaria per comporre la parola “APE” non ne determina il significato (infatti la stessa configurazione grafica è associata al significato di “grandi scimmie antropomorfe” nel caso della lingua inglese ed invece a quella di “insetti sociali” in quella italiana), similmente la descrizione dello stress solo in termini quantitativi non ne coglie la complessità né la sua valenza positiva o negativa (tranne che nel contesto ristretto della teleonomia squisitamente biologica).

Come nello studio della semiotica è solo l’effetto interattivo determinato dall’intreccio di segni e significati, componenti oggettive e soggettive e convenzionali a far emergere le caratteristiche linguistiche, similmente solo un concetto di stress che include l’interazione tra gli aspetti quantitativi e qualitativi, oggettivi e soggettivi può ambire a gettare luce sulla natura umana.

Questa sfida scientifica è un qualcosa di molto più complesso rispetto ciò che si è finora pensato relativamente lo stress ma rappresenta la direzione corretta per continuare a migliorare la comprensione di ciò che ci danneggia da ciò che invece promuove il nostro benessere psicofisico con tutte le implicazioni pratiche che essa comporta.

 

Nata due volte (2021) di Giorgia Bellini – Recensione del libro

Grazie al libro Nata due volte è possibile perlustrare “dal di dentro” il forte senso di smarrimento e di vuoto causato dalla Bulimia Nervosa.

 

Nell’ambito della salute mentale le informazioni raccolte in un linguaggio universale come nel DSM-5 o nell’ICD-10 sono essenziali per far sì che i diversi professionisti possano comunicare e collaborare tra di loro, ma questo non basta proprio per il principio di unicità che sta alla base dell’Identità. Erik Erikson utilizza il termine Ego-identity per definire il senso del proprio essere continuo come un’unità distinta e distinguibile dalle altre, stabile nel tempo, che in un soggetto sano permette di sentirsi integro nello spazio, di essere consapevole della continuità del tempo, di percepirsi autore delle proprie azioni e centro delle proprie emozioni. Lo studio della personalità ha la necessità di integrare un approccio nomotetico e uno ideografico, questa è la base essenziale per distinguere lo spiegare (Erklaeren) dal comprendere (Verstehen).

E allora chi meglio di una persona che ha sofferto può spiegare il proprio disagio riuscendo a raggiungere un pubblico più vasto, fatto non solo da esperti nel settore, ma anche di gente comune che prova un dolore similare?

Giorgia Bellini, 24 anni, ha deciso di condividere la sua storia e soprattutto di esplicare i suoi 8 anni di convivenza con quello che definisce «vento nero», ossia la Bulimia Nervosa, uno dei disturbi alimentari che colpisce soprattutto l’età adolescenziale o la prima età adulta. Si rivolge ad un pubblico ben definito di «persone ricche d’animo» in grado di comprendere senza giudicare o etichettare. L’autrice, infatti, sottolinea nella sua introduzione di essersi imbattuta in troppe persone povere di sentimenti e emozioni, capaci solo di giudicare e godere dei fallimenti altrui, oggi non considerate tra i destinatari del suo racconto.

Grazie a questo libro è possibile perlustrare “dal di dentro” il forte senso di smarrimento e di vuoto causato dal disturbo, un gesto di vero amore nei confronti di chi ha bisogno di ascoltare e di sentirsi meno solo, in quanto si abbandona qualsiasi barriera difensiva, qualsiasi scudo protettivo, porgendo in vista la propria esperienza più intima.

Il libro è diviso in XXXI parti che rappresentano dei microcosmi di esperienze vissute da Giorgia, talmente dense di significato da risultare magnetiche: è davvero difficile staccarsi dalla lettura, in quanto ogni singola parte di storia è talmente coinvolgente da essere letta tutta d’un fiato, quasi per paura di perderne dei frammenti.

È il racconto di una adolescente che ci collega indissolubilmente a quelli che vengono definiti sintomi dalle categorie diagnostiche e psichiatriche, ma che, in realtà, hanno un’importanza ed un significato più profondo, ossia tentativi disperati di riemergere da un buco nero intriso di dolore che fa tendere sempre più verso il basso e verso l’oscurità.

Con una delicatezza e una semplicità impossibili da replicare, l’autrice racconta di sé come una bimba bisognosa di affetto in una famiglia caratterizzata da innumerevoli liti genitoriali che la portano a credere di non meritare il loro amore e, dunque, la spingono alla ricerca spasmodica di colmare il vuoto e la distanza attraverso la fatica di raggiungere una perfezione che, in realtà, non esiste, una perfezione che costa sudore, controllo, punizioni e che con il tempo porta ad ammalarsi. Un grido nel tentativo di ottenere un briciolo di attenzione nella velocità e nello stress della quotidianità, un grido che però ai famigliari non arriva, quasi fosse senza voce o in una lingua incomprensibile. E allora ciò che rimane come unico baluardo di salvezza, perché ha una forma a cui aggrapparsi, è il proprio corpo, colmato fino all’orlo e poi svuotato fino alle viscere, colmato e poi di nuovo svuotato, in un meccanismo che si ripete senza mai fine, accompagnato da un senso di impotenza nel controllo di tali impulsi.

Tutto parte dalla percezione alterata di avere delle gambe grosse e di voler a tutti costi renderle sottili come quelle di una sua compagna di classe: ecco allora diete rigide, accompagnate da attività fisica sfrenata, alternate a momenti di abbuffate, in cui la disperazione e la sofferenza è tale da non riuscire più a smettere di mangiare e poi quei maledetti sensi di colpa che riportano al conteggio delle calorie e alle punizioni inferte con diete prive di carboidrati. Giorgia trova uno spiraglio di luce solo nel rapporto con i nonni a cui tra l’altro dedica il suo libro, in particolare con nonna Anna che si accorge della richiesta silente di aiuto della nipote e la convince a parlarne con i genitori. Ma i genitori vedono la figlia così bella, brava e perfetta che non danno il giusto peso al disagio e Giorgia, nonostante la confessione coraggiosa, si ritrova nuovamente in un turbine maledetto dove la disperazione prende il sopravvento, a tal punto da spingere la ragazza ad un tentativo di suicidio. In un articolo di analisi sul tema della suicidalità in pazienti anoressiche e bulimiche il Prof. Maurizio Pompili et al. mettono in evidenza come il suicidio sia tra le principali cause di morte nella Anoressia Nervosa, molto più dell’inedia o delle complicanze del dimagrimento: i tentativi di suicidio sono un alto e serio pericolo per la vita di queste pazienti. Purtroppo i dati, soprattutto rispetto alla Bulimia Nervosa, risultano ancora incompleti, nonostante si annoverino come numerosi i tentativi di suicidio. Tale problematica risulta ancora troppo sottostimata e a testimonianza di questo troviamo il racconto di Giorgia che lo valida.

Si rischia già di perdere la vita a causa di quei comportamenti auto mutilanti inferti al corpo con imperativi rigidi e categoriali, alla ricerca di un riconoscimento e un apprezzamento dal mondo sociale che sembra prediligere forme silenti, forme senza sostanza, una magrezza che diventa sinonimo di bellezza, a tal punto da generare una percezione deforme di sé che scatena una sofferenza ogni giorno sempre meno sopportabile. Dalla cosiddetta luna di miele, quella fase iniziale, quasi idilliaca, che scatena quel circolo tossico di comportamenti autoalimentanti che generano euforia e creano dipendenza, si passa presto ad una fase ossessiva dove conta solo il controllo del cibo e del peso. E inconsapevolmente si cerca quell’attenzione che magari non arriva e questo porta verso uno stato limite in cui sembra più facile abbandonarsi alla fine. Si oscilla tra attimi di felicità e momenti di completo sconforto, così pieni di solitudine da ritrovarsi soli con quel vento nero ormai fastidioso, ma l’unico in grado di non abbandonare. Si arriva a perdere il senso di sé, della propria identità, fino a non riuscire nemmeno a provare alcuna emozione, una sorta di apatia senza spazio, senza tempo e senza sogni, «un mondo che ti illude di proteggersi da quello che c’è al di fuori, mentre ti divora in una spirale senza fine». Non ci sono più obbiettivi, né perché, e allora l’ultimo gesto appare l’unica soluzione.

Ma Giorgia ce l’ha fatta, ha dovuto toccare il fondo per farcela, ma oggi è qui a trasmettere quanto le è successo per aiutare tutte le persone che vivono i suoi stessi drammi a comprendere, a farsi aiutare, ma non solo. Scrive anche per rendere più consapevoli le famiglie del bisogno sfrenato di amore che necessitano le persone con disturbi alimentari, dell’importanza della loro comprensione, del loro appoggio e della loro vicinanza. Giorgia parla a nome di una forza di volontà in grado di spronarti, della necessità di credere fermamente nella possibilità di riuscire a superare un disagio così soffocante e di lottare, non certo per vincere qualcosa, ma per vivere.

Giorgia decide di curarsi, entra in quella clinica di Todi il 23/10/2016 con l’intento di salvarsi. Conosce persone che parlano la sua stessa lingua, che non banalizzano la sofferenza e non giudicano. Scrive di quanto sia importante la professionalità dei medici che trova sicuramente in quella clinica per curare un disturbo come il suo, ma afferma anche che non basta. Il fulcro sta altrove, ossia sta nel cuore, e dunque la cura ha bisogno di «essere umani», di amore. Giorgia esce dalla clinica, non sarà semplice. Si ritrova allo scoperto, senza più quella campana di vetro della clinica, ma con una nuova consapevolezza acquisita nel suo percorso: non inseguire più quella vita che gli altri si aspettano che insegua, ma cercare la sua passione, il suo Ikigai, lo scopo della sua vita.

Qui sta il segreto. “Va’ dove ti porta il cuore”, questo è il punto di ripartenza.

Giorgia ce l’ha fatta, è arrivata al limite della vita, ha sfiorato la morte, ma poi è rinata, anzi è nata due volte.

 

I neuroni bussola ci aiutano ad orientarci tra i pensieri

Sono stati pubblicati, dalla rivista scientifica internazionale Communications Biology, i risultati di uno studio dell’Università di Trento che ha portato ad una nuova scoperta: gli stessi neuroni che indicano la direzione del movimento nello spazio fisico si attivano anche per orientarci tra i concetti nello spazio astratto delle idee.

 

Nei mammiferi esiste un sistema neuronale localizzato nel lobo temporale mediale che si attiva quando i soggetti si muovono in ambienti reali o virtuali o svolgono compiti spaziali (Epstein RA et al. 2017).

Grazie agli studi di neuroimaging magnetico funzionale si è potuto stabilire che nell’uomo i neuroni coinvolti nell’orientamento utilizzano due tipi di codici per la navigazione. A livello dell’ippocampo usano il codice a distanza mentre nella corteccia entorinale un codice a griglia (MorganLK et al. 2011; Nielson DM et al. 2015; Doeller CF, et al. 2010). I neuroni che utilizzano questi codici permettono di identificare la disposizione dell’ambiente e la posizione degli oggetti.

I ricercatori dell’Università di Trento, in passato, hanno già dimostrato che questi due codici vengono attivati anche in contesti non spaziali e precisamente quando un individuo “naviga” in uno spazio astratto come quello delle forme visive o degli odori o quando si fa riferimento a simboli come le parole (Constantinescu, AO et al. 2016; Viganò  S. et al. 2021).

Neuroni bussola: lo studio

Lo studio, recentemente condotto dai ricercatori dell’Università di Trento, i cui risultati sono stati pubblicati su  Communications Biology, ha indagato se durante la navigazione in un ambiente non fisico ma concettuale vi fossero delle popolazioni neuronali, complementari a quelle già conosciute, in grado di funzionare come una bussola che permette di trovare l’orientamento nello spazio delle idee.

Il team universitario ha utilizzato un campione di 9 soggetti, che sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale dopo aver effettuato un particolare addestramento. Ciascun soggetto ha imparato a nominare nove nuovi oggetti con nove nuove parole, differenti per suono e dimensioni. Il compito dei partecipanti allo studio era quello di abbinare correttamente parola ed oggetto senza essere informati sulla geometria bidimensionale dello spazio degli stimoli. La risonanza magnetica funzionale ha permesso di ricercare le aree cerebrali che rappresentano la direzione nello spazio astratto delle parole.

Conclusioni

I ricercatori sono così giunti alla conclusione che una rete di aree cerebrali localizzate nella corteccia fronto-parietale e occipitale rappresenta la direzione assoluta tra i significati delle parole durante un compito comparativo. In passato, studi dei ricercatori di Trento ed altri studi, avevano localizzato i neuroni deputati all’orientamento spaziale reale e virtuale nel lobo mediale-temporale (Baumann, O. & Mattingley, J. B. 2010  Shine J. P et al .2016;); l’attuale ricerca evidenzia che l’orientamento, in maniera complementare, può essere veicolato anche con un codice di direzione nelle cortecce parietale e occipitale. Queste conclusioni estendono le scoperte precedenti sul reclutamento di codici neurali e confermano l’evidenza empirica che mostra che il sistema di navigazione del cervello si estende al di fuori del lobo temporale mediale.

Mindful eating. Per scoprire una sana e gioiosa relazione con il cibo (2021) di J. C. Bays – Recensione

Nel libro Mindful eating, Jan Chozen Bays racconta in maniera semplice, ma estremamente efficace, cosa si intende per mindful eating e perché valga la pena svolgere questo tipo di pratica.

 

Attraverso la guida esperta dell’autrice, medico pediatra, insegnante di meditazione e superiora del Great Vow Zen Monastery in Oregon, il lettore comincia progressivamente ad interrogarsi sul proprio rapporto con il cibo e sulle sue abitudini alimentari. In questa riflessione si è guidati da una serie di esercizi che accompagnano la presentazione dei diversi contenuti, e che conferiscono a questo libro una dimensione molto più simile a quella di una guida pratica che a un manuale sul mindful eating.

Scopriamo così che esistono 9 tipi di fame, alcuni dei quali non trovano soddisfazione nel mangiare. Che il nostro agire spesso risulta condizionato da fattori che esulano dalla nostra coscienza e che possono avere radici anche molto profonde. Ma soprattutto nasce il desiderio di capire schemi e abitudini che regolano la nostra relazione con il cibo.

Mindful eating significa alimentazione consapevole

Ci ritroviamo così ad osservarci in maniera curiosa durante i pasti, a fare attenzione a cosa, quando e come lo mangiamo. Iniziamo dunque a portare consapevolezza sulla nostra alimentazione.

È questo il concetto fondamentale alla base del mindful eating, ma in generale della mindfulness, e si riferisce all’essere presenti alle proprie azioni mentre stanno accadendo. Tale consapevolezza passa innanzitutto dal corpo e dalle sue sensazioni che, se correttamente ascoltate, possono aiutarci a riprendere contatto con i nostri bisogni e a rispondervi in maniera coerente.

Jan Chozen Bays ci incoraggia a lasciare andare qualsiasi segnale esterno per tornare a concentrarci su ciò che proviamo internamente perché, parafrasando le sue parole, abbiamo a disposizione un corpo che sa perché sente e non perché pensa. A distrarci sono spesso abitudini e schemi riguardanti il cibo e il mangiare, appresi nel corso della crescita e delle diverse esperienze. Esercizio dopo esercizio arriviamo a prenderne coscienza fino al punto di riuscire a riconoscerli e a distaccarcene.

In questo viaggio verso l’acquisizione di consapevolezza e dunque verso la libertà che ne deriva, l’autrice non manca di ricordarci di vivere questo processo con gentilezza, in accordo con il principio di non giudizio della mindfulness. Ancora una volta l’invito è ad essere connessi semplicemente con le nostre sensazioni, con intenzione, e a lasciare fuori qualsiasi fonte di distrazione, tra cui anche la nostra parte più critica.

Perché leggere questo libro sul mindful eating e a chi è rivolto

Questo libro è adatto a chiunque desideri riscoprire il proprio rapporto con il cibo, a chi ha voglia di avvicinarsi alla pratica della mindfulness oppure a chi è semplicemente curioso.

La questione fondamentale che viene trattata è infatti l’importanza di essere consapevoli, di ciò che succede dentro di noi, dei nostri meccanismi e dei nostri bisogni, e di come da ciò derivi la possibilità di sentirsi liberi e autentici.

Il vantaggio di parlare di questo argomento in relazione all’alimentazione è ciò che lo rende concreto e facilmente sperimentabile. Spesso capita che le persone si lamentino di non poter praticare mindfulness nelle proprie giornate troppo impegnate, ma il mindful eating ci dimostra che è possibile farlo ad ogni pasto, ad ogni spuntino o persino ad ogni morso della fame.

Tanti gli esercizi tra cui scegliere, sempre ben spiegati e accompagnati da una cornice teorica e da una buona dose di ironia, che rendono la lettura piacevole e fanno venire voglia di mettersi alla prova.

L’augurio è che questo possa essere solo “il primo boccone” di un pasto così succulento da voler provare a praticare mindfulness anche negli altri aspetti della propria vita. Buon appetito!

 

Animali domestici e salute mentale: uno studio su una popolazione over 65

Vi sono prove evidenti che possedere un animale domestico può apportare una serie di benefici per la salute mentale, specialmente per quanto riguarda gli adulti più anziani.

 

Animali domestici e salute mentale

Le prove esistenti hanno indicato che la compagnia di un animale domestico può aiutare a ridurre lo stress, la solitudine e migliorare la qualità della vita. Facilita altresì l’interazione sociale e la partecipazione all’interno della comunità, aiutando lo sviluppo di abilità di coping per persone a cui è stata diagnosticata una malattia mentale come, ad esempio, la schizofrenia e il disturbo borderline di personalità. (Brooks et al., 2016).

Alcuni studi hanno trovato che esiste una correlazione positiva tra il possesso di un animale domestico e il benessere del proprietario dell’animale, e questa relazione è più forte quando gli animali domestici svolgono un ruolo nel soddisfare i bisogni degli adulti più anziani (McConnell et al., 2011). Altre ricerche hanno riportato, tuttavia, che l’animale domestico può addirittura comportare un declino della salute mentale. Gli animali domestici possono aumentare la suscettibilità dei proprietari nel contrarre certi tipi di malattie, e tali rischi per la salute possono causare un aumento dello stress (Herzog, 2011). È stato anche suggerito che gli animali domestici possono esacerbare i sintomi depressivi negli adulti più anziani, a causa delle varie responsabilità e dei legami emotivi che sono legati al loro possesso (Gilbey et al., 2007).

Animali domestici e salute mentale negli anziani

Lo studio di Hui Gan et al., (2019) ha esplorato in modo approfondito come gli animali domestici possono influenzare la salute mentale degli adulti anziani.

Nello studio sono stati coinvolti 14 soggetti (uomini e donne) di un’età compresa fra i 65 e gli 85 anni. La partecipazione allo studio era su base volontaria, in quanto sono stati distribuiti dei volantini in una struttura per anziani. Per indagare la relazione fra compagnia di un animale domestico e benessere mentale è stato scelto un approccio qualitativo fenomenologico descrittivo (Creswell, 2014). In questo modo sono stati esplorati i pensieri, le credenze e le esperienze legate alla vicinanza ad un animale domestico, senza giudizi a priori (Creswell, 2014). Per raccogliere i dati sono state proposte delle interviste semi strutturate, svolte a domicilio, composte da due parti: una raccolta di dati demografici ed una riguardante la percezione della salute mentale in relazione alla compagnia di un animale domestico. I dati raccolti sono stati analizzati facendo riferimento all’analisi a sette fasi di Colaizzi (1978). In un primo momento un ricercatore esterno ha trascritto ogni intervista e annotato su un diario le sue reazioni, entrando in contatto con la prospettiva di ciascun partecipante. Successivamente lo stesso ricercatore ha identificato le frasi più significative riguardo all’esperienza relativa al possedere un animale domestico. L’analisi è stata condivisa con altri due ricercatori che hanno formulato sette cluster (categorie) tematici, ridotti a quattro temi principali. In conclusione i ricercatori hanno condiviso con i partecipanti una trascrizione narrativa dei risultati delle loro analisi.

Conclusioni

Nel complesso, dai risultati di questo studio esplorativo è emerso che possedere un animale domestico ha un impatto positivo sulla salute mentale grazie all’instaurarsi di un legame unico animale-umano (HAB) che può essere paragonato ad una relazione genitore-figlio o marito-moglie (Brown, 2011). I partecipanti erano disposti a rinunciare alle loro comodità personali per il benessere dei loro animali, riflettendo in qualche modo il ruolo di genitore. Il concetto di ‘genitorialità’ e cura di un animale domestico è stato trovato socialmente prezioso e significativo (Blouin, 2013; Laurent-Simpson, 2017), poiché l’essere proprietari di un animale fornisce uno scopo nella routine di una persona anziana. Questo porta a una diminuzione della solitudine e dell’isolamento sociale, aumentando i livelli di autostima e il coinvolgimento in attività significative (McConnell et al., 2011).

Un animale domestico incrementa la percezione di sicurezza riducendo al minimo il livello di ansia soprattutto negli anziani che vivono da soli (Oliveira, 2018; Shaffer & Yates, 2010), oltre a fornire conforto attraverso la loro compagnia. Inoltre, i partecipanti hanno descritto come la presenza fisica del loro animale domestico fornisce una gratificazione tattile che soddisfa uno dei bisogni sensoriali essenziali per l’uomo. Da quanto emerso sembrerebbe che, nel caso degli anziani, gli animali domestici possono essere di aiuto nel permettere loro di ritrovare un ruolo sociale stabile in un momento in cui le circostanze della loro vita iniziano a cambiare.

 

Schizofrenia: basi biologiche e alterazioni

La schizofrenia si configura come una patologia mentale ereditaria, con loci cromosomici continuativamente associati al disturbo.

 

La schizofrenia è un grave disturbo mentale a carattere evolutivo che comporta disfunzioni cognitive, comportamentali, emotive e perdita del rapporto con la realtà, pregiudica tutti gli aspetti che qualificano la salute mentale dell’individuo, solitamente inizia in tarda adolescenza e colpisce circa l’1% della popolazione mondiale e, in pari numero, uomini e donne. Diversi studi psicometrici indicano che la schizofrenia presenta sintomi universali, descritti nel DSM-5, che si sviluppano in modo graduale e insidioso in un periodo di 3-5 anni e che possono essere raggruppati in cinque cluster:

  • Sintomi positivi, cioè quelli visibili (disturbo del pensiero, allucinazioni, deliri, agitazioni e catatonia)
  • Sintomi negativi, dovuti ad ipofrontalità, cioè ridotta attività dei lobi frontali (anedonia, apatia, alogia, assenza di iniziativa, appiattimento affettivo, ritiro sociale)
  • Sintomi cognitivi, dovuti ad anomalie cerebrali (bassa prontezza psicomotoria, deficit di apprendimento e memoria, scarsa capacità di problem solving, difficoltà a sostenere l’attenzione)
  • Sintomi di aggressività (autolesionismo, impulsività e ostilità verbale e fisica)
  • Sintomi ansioso-depressivi (preoccupazione, tensione, irritabilità, senso di colpa e umore depresso e ansioso)

La schizofrenia deriva soprattutto da cause genetiche e biologiche; fattori ambientali quali abuso di sostanze o un ambiente sociale problematico costituiscono, più che altro, elementi coadiuvanti piuttosto che motivazioni scatenanti. La schizofrenia si configura come una patologia mentale ereditaria, come hanno dimostrato importanti studi di natura psicobiologica quali gli studi sui gemelli e sull’adozione, che hanno identificato la presenza di loci cromosomici (geni omologhi) continuativamente associati al disturbo. Pare inoltre che i bambini con i padri più anziani siano più propensi a sviluppare il suddetto disturbo, a causa di mutazioni negli spermatozoi che possono provocare un errore di trascrizione durante la duplicazione del DNA: anche l’età del padre rientra tra le cause genetiche sottostanti la schizofrenia.

L’ipotesi dopaminergica della schizofrenia

Dal punto di vista biologico, l’ipotesi dopaminergica propone che i sintomi siano causati da una disfunzione della neurotrasmissione dopaminergica a livello cerebrale. L’ipotesi dopaminergica afferma che l’iperattività dopaminergica nei disturbi schizofrenici sia la condizione causa dei sintomi, mentre il blocco dopaminergico sui recettori D2 sia prodotto da antipsicotici tipici utilizzati nella terapia farmacologica, che elicitano importanti effetti prevalentemente sui sintomi positivi della schizofrenia, ma non su quelli negativi. Successivamente l’introduzione di antipsicotici atipici ha costituito una svolta nel trattamento farmacologico della schizofrenia: essi sono associati ad una comparsa sostanzialmente inferiore di effetti collaterali e ad un minor rischio di discinesie (alterazioni motorie) tardive rispetto agli antipsicotici tipici. La maggiore tollerabilità degli antipsicotici atipici è attribuita all’azione su vari tipi recettoriali: oltre all’azione sui recettori dopaminergici D2 viene inclusa l’azione sui recettori serotoninergici 5- HT.

Le alterazioni cerebrali nella schizofrenia

Oltre alla variazione nella neurochimica, un’altra possibile causa potrebbe essere data da un’alterazione della struttura morfologica cerebrale, dovuta ad una probabile lesione prenatale: il quadro lesionale interessa le strutture corticali del sistema limbico (il giro del cingolo, il giro ippocampale e la parte ventro mediale della corteccia temporale), un aumento del volume dei ventricoli cerebrali e atrofia corticale e sottocorticale su cervelletto e corpo calloso.

 

Analisi della psicologia di Sette Anime – La sindrome del sopravvissuto e il complesso del salvatore

Con questo articolo non voglio razionalizzare una delle pellicole più emozionanti dell’ultimo millennio ma semplicemente fornire un’analisi psicologica del film Sette Anime.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Sette anime è un film di Gabriele Muccino uscito nelle sale nel 2008. Il titolo sette anime è un riferimento a un’ opera di Shakespeare, ma concidenziale è il fatto che la parola psiche derivi dal greco, psykhe, ovvero anima, perciò Sette anime è un film che parla di sette anime così come di sette psichi. Il protagonista, Tim, è un ingegnere aerospaziale laureatosi al M.I.T. Il film si apre con Tim con il capo chinato di lato, in una mano una cornetta telefonica, nell’altra  poggia la fronte e ha il seguente dialogo con un Operatrice del 911:

Operatrice 911: «Nove uno uno emergenza»
Tim: «Mi serve un’ambulanza»
Operatrice 911: «Mi risulta che lei chiama da West word street 52 12 a Los Angeles!»
Tim: «Stanza numero 2»
Operatrice 911: «Qual è l’emergenza?»
Tim: «C’è stato un suicidio»
Operatrice 911: «Chi è la vittima?»
Tim: «Io!».

È necessario vedere l’intero film per capire ciò che ha spinto Tim a suicidarsi o meglio a sacrificarsi, la causa di tutto è un incidente causato da una sua distrazione. Nell’incidente muore sua moglie e altre sei persone, ma lui sopravvive. Da un punto di vista psicologico il protagonista ha la sindrome del sopravvissuto.

La sindrome del sopravvissuto è caratterizzata da un forte senso di colpa per essere appunto sopravvissuti a un evento traumatico come incidente, un cataclisma, un attacco terroristico ecc. La sindrome del sopravvissuto che oggi giorno viene considerata un sintomo del disturbo da stress post traumatico, ed è stata rimossa dal DSM.

Approfondimento: Uno dei libri che più indaga il disturbo da stress post traumatico è il Cognitive Behavioral Therapeutic for Trauma, in cui viene anche ripercorsa brevemente la storia del disturbo da stress post traumatico, che esiste da sempre ma solo con l’avvento dell’uso del metodo scientifico in psicologia, ossia nel diciannovesimo secolo, si è iniziato a studiarlo. Il libro fa iniziare la storia dei traumi psichici con la messa in guardia da parte del chirurgo John Erichsen (1882) dal confondere (quello che presumeva essere) i sintomi causati organicamente dalla colonna vertebrale con isteria, la diagnosi prevalente dei tempi; successivamente Herman Oppenheim coniò il termine ‘nevrosi traumatica’ asserendo che fosse causata da sottili cambiamenti molecolari nel sistema nervoso. Sigmund Freud si ribellò all’attenzione primaria sulle spiegazioni organiche per la psicopatologia in voga in quel periodo. A causa della sua influenza, le eziologie psicologiche iniziarono a essere proposte per la comprensione, trattando la psicopatologia, in generale, e le reazioni post-traumatiche. In particolare Freud teorizzò che, poiché gli eventi traumatici travolgono la psiche, gli individui traumatizzati devono impegnarsi in meccanismi di difesa estremamente primitivi come la dissociazione.

La sindrome del sopravvissuto è causata da un forte senso di colpa per essere appunto sopravvissuti a un evento traumatico come un incidente, un cataclisma, un attacco terroristico oppure a una pandemia. Di fatto Tim prova un dispiacere attribuendosi erroneamente la responsabilità dell’incidente, probabilmente per l’hindsight bias (un bias di giudizio che porta il soggetto a percepire le probabilità che un determinato evento accada maggiori di quanto siano realmente, dopo che è accaduto; i bias di giudizio e bias cognitivi sono indagati in: Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahemman). Per questo Tim si sente in debito di sette vite e avverte il bisogno di (ri)stabilire un senso di equità e giustizia cosmica che dovrebbe vigere sugli esseri umani, ed è per questo che Tim redimerà la vita di sette persone fino ad arrivare alla propria distruzione, fino al sacrificio estremo. Ciò ricorda molto la figura di Cristo, di fatto nel film sono presenti numerosi riferimenti biblici, il primo riferimento compare a inizio film quando la voce fuori campo di Tim dice: «Dio ci ha messo sette giorni a creare il mondo. Io ci ho messo sette secondi a distruggere il mio» un altro riferimento è: «Io ho il potere di cambiare drasticamente la sua condizione. Ma non vorrei fargli un regalo che lui non si merita. Ho bisogno che lei mi dica se lui è o non è una brava persona» queste citazioni sono collegabili alla sindrome del salvatore, Tim sente in sé il potere di un messia e avverte il bisogno di aiutare gli altri. Senza alcun dubbio aiutare gli altri è uno di quei comportamenti più premiati da punto di vista sociale. Tim probabilmente pensa che aiutare sia il miglior modo per espiare la propria colpa.

Tutto ciò non è anormale: molte persone hanno il complesso del salvatore, ciò che è desueto è che Tim, nel film, vive una relazione interdipendente e non codipendente, come la maggior parte delle persone che hanno il complesso del salvatore, con Emily, un’artigiana che stampa biglietti d’auguri e che ha una malformazione cardiaca e perciò necessità urgentemente di un trapianto di cuore. Entrambi si danno amore l’un l’altro, la loro relazione è ciò che gli psicologi positivi chiamano ‘relazioni fiorenti’ ossia i due, dalla loro relazione non ricavano solo felicità, ma anche intimità e resilienza. Tanto è vero che è proprio dal suo amore verso Emily che Tim trae la forza per poter portare a termine il suo piano. Ed Emily condivide con Tim speranze e sogni ma anche la sofferenza di un futuro incerto.

Lo scopo di Sette anime è celebrare l’amore fraterno e incondizionato anche se a volte, per fare bene a tuo fratello, devi fare male a te stesso.

 

SETTE ANIME – Guarda il trailer del film:

L’ossessione per la preoccupazione pandemica: il modello di credenza sulla salute (HBM) e COVID-19

La vaccinazione è un tema che crea preoccupazione durante la pandemia di COVID-19.

 

Dato che questo virus si diffonde molto velocemente in tutto il mondo (World Health Organization, 2020), i tassi crescenti di infezione e di mortalità, soprattutto nelle persone con malattie croniche, hanno portato all’ottimizzazione di un vaccino che potesse essere rilevante non solo per la salute fisica, bensì anche per il funzionamento psicologico, per le conseguenze psicosociali e per l’economia mondiale (Bashir et al., 2020; Norouzi et al., 2020; Iacob et al., 2021). Considerando il numero crescente di persone contrarie al vaccino, l’intenzionalità a vaccinarsi è stata studiata in modo approfondito (Greenberg et al., 2019), valutando i fattori che possono influenzare tale presa di decisione: si evidenziano la preoccupazione per la pandemia e la minaccia della malattia (Ashbaugh et al., 2013; Liao et al., 2013), l’abitudine di fare il vaccino antiinfluenzale (Schmid et al., 2017), la fiducia nei confronti delle informazioni fornite sulla sicurezza della somministrazione del vaccino, i confronti sociali con persone che vogliono vaccinarsi (Podlesek et al., 2011), l’età, il livello di istruzione (Bonfiglioli et al., 2013) e le categorie sociali esposte a rischio di infezione (Bish et al., 2011; Iacob et al., 2021).

Vaccino e modello di credenza sulla salute

I due quadri teorici prevalenti, su cui si basano la maggior parte degli studi sull’intenzione a vaccinarsi, e che spiegano il 60% della varianza di tali intenzioni contro il papillomavirus (HPV; Bennet et al., 2012), sono la teoria del comportamento pianificato (Gallagher e Povey, 2006) e il modello di credenza sulla salute (HBM; Cummings et al., 1979). Nello specifico, l’HBM è uno dei modelli più utilizzati nella ricerca sanitaria (Skinner et al., 2015), strutturato in quattro componenti: la suscettibilità della malattia, cioè la probabilità percepita di contrarla; la gravità percepita; i benefici riguardo le azioni preventive e il trattamento; infine le barriere percepite nell’attuare le raccomandazioni (Janz e Becker, 1984; Iacob et al., 2021). Le componenti aggiunte successivamente riguardano i dati demografici, l’autoefficacia e il controllo percepito (DiClemente e Peterson, 1994). Liao e colleghi (2013) evidenziarono come la componente HBM, collegata all’intenzione vaccinale, riguardasse principalmente la minaccia percepita della malattia per le sue conseguenze sulla salute. La preoccupazione pandemica è vista come una risposta emotiva alla malattia (Ro et al., 2017) e include la percezione del potenziale rischio di infezione, il rischio per la famiglia, la gravità e le conseguenze (Goulia et al., 2010). Dato che tale componente è correlata alla percezione del rischio e ai comportamenti preventivi messi in atto durante la pandemia, Iacob e colleghi (2021) hanno svolto uno studio, aderendo all’HBM, per spiegare l’intenzione della vaccinazione.

Modello di credenza sulla salute applicato al vaccino contro il Covid-19

Tale modello è stato utilizzato per spiegare la relazione tra preoccupazione pandemica e intenzione di vaccinarsi, evidenziando come i mediatori fossero la minaccia percepita delle malattie, i benefici e le barriere delle vaccinazioni (Scherr et al., 2016). Questo studio trasversale ha l’obiettivo di esplorare le differenze tra adulti, con o senza malattie croniche, l’intenzionalità a vaccinarsi e la preoccupazione per la pandemia (Iacob et al., 2021). Il campione è composto da 864 adulti della comunità rumena (66,6% femmine), con un’età compresa tra i 31 e i 65 anni: il 20,5% dei soggetti riportano malattie croniche, come diabete, malattie respiratorie e cardiovascolari, ed uno dei criteri di esclusione è la diagnosi precedente o attuale di COVID-19. Per misurare l’intenzionalità, è stata posta la domanda seguente “Hai intenzione di vaccinarti quando ti viene offerto un vaccino contro l’infezione da COVID-19?”, mentre le risposte sono state codificate con 1 (no), 2 (forse) e 3 (sì). La frequenza e la gravità delle preoccupazioni riguardo alla pandemia sono state misurate con la Dispositional Pandemic Worry (Scherr et al., 2016), inizialmente strutturata per la pandemia influenzale H1N1 del 2009 e del 2010. Le componenti HBM, cioè la minaccia percepita della malattia, i benefici, l’autoefficacia e le barriere sono state valutate attraverso un riadattamento degli strumenti Champion (1999). I cambiamenti comportamentali sono stati indagati attraverso tre domande poste sulla quantità del cibo, farmaci e articoli igienico-sanitari acquistati da parte dei partecipanti durante la pandemia, mentre i dati sociodemografici sono stati ottenuti mediante un questionario utile a raccogliere informazioni sul genere, sull’età, sul livello di istruzione e sulle malattie croniche (Iacob et al., 2021). I risultati mostrano come i soggetti con malattie croniche riportano un livello di preoccupazione pandemica più elevato, livelli maggiori di minaccia percepita, maggiori benefici dovuti alla vaccinazione, minore autoefficacia e un acquisto maggiore di prodotti sanitari. Per quanto riguarda l’intenzionalità a vaccinarsi, non sono state riscontrare differenze significative (Iacob et al., 2021). La minaccia percepita e i benefici tratti dal vaccino mediano parzialmente la relazione tra preoccupazione pandemica e intenzionalità. Questi risultati suggeriscono come presentare delle prove sull’efficacia del vaccino per il COVID-19 possa portare la popolazione a seguire le raccomandazioni suggerite, soprattutto da parte dei gruppi di soggetti vulnerabili o con malattie croniche (Iacob et al., 2021).

 

Mantenere la prestazione sotto pressione: gli stili di concentrazione di Nideffer

La relazione tra attenzione, concentrazione ed elaborazione delle informazioni è al centro della teoria nota come ‘Theory of Attentional and Interpersonal Style’ (Nideffer, 1976).

 

Nello studio, nel lavoro, nello sport e in genere in tutti gli ambiti in cui il fattore umano è determinante per la performance individuale o di gruppo, l’attenzione, la concentrazione e l’elaborazione delle informazioni rivestono un ruolo di fondamentale importanza.

Senza attenzione non cogliamo ciò che nell’ambiente esterno o interno è necessario – come mezzo o come fine – per raggiungere i nostri obiettivi; senza concentrazione sul compito non possiamo portare a termine le operazioni che iniziamo, perché distratti e interrotti continuamente da altro; senza un’adeguata elaborazione delle informazioni non saremmo in grado di portare a termine operazioni mentali o concrete anche molto semplici se prese singolarmente (come ad esempio guidare e messaggiare con lo smartphone).

La relazione tra attenzione, concentrazione ed elaborazione delle informazioni è al centro della teoria nota come ‘Theory of Attentional and Interpersonal Style’ (Nideffer, 1976). Considerata in psicologia dello sport come uno dei modelli maggiormente comprensivi per la spiegazione di questi fenomeni (Moran, 1996), la teoria cerca di fornire un quadro di riferimento per comprendere e predire le condizioni in base alle quali il potenziale fisico e mentale dell’atleta può essere pienamente espresso negli sport individuali o di squadra, senza comunque escludere altri ambiti di applicazione, come lo studio o il lavoro. Esiste inoltre un questionario, sviluppato dallo stesso autore, il ‘Test of Attentional and Interpersonal Style’ (TAIS; Nideffer, 1976) che è stato poi soggetto a revisioni successive.

Concentrazione e stili attentivi

La teoria afferma che il focus attentivo di una persona può variare entro uno spazio a due dimensioni definito dall’intersezione di due assi, che rispettivamente ne colgono l’ampiezza (focus ampio – ristretto: asse orizzontale) e la direzione (focus orientato all’esterno – all’interno: asse verticale). Vengono così definiti quattro stili di concentrazione, uno per ogni quadrante, che definiscono in termini globali le possibili interazioni tra attenzione, concentrazione e elaborazione delle informazioni, che possono essere messe in relazione all’attività in corso di svolgimento oppure oggetto di analisi:

  • Stile Consapevole: è caratterizzato da un focus attentivo ampio ed orientato all’esterno. L’individuo cerca di cogliere dall’ambiente informazioni da analizzare per reagire velocemente e anche istintivamente alle sollecitazioni ambientali. La persona deve prestare uguale attenzione sia a se stesso che a quanto accade intorno a lui; per esempio, il pilota di formula uno, concentrato nel mezzo di un sorpasso in curva;
  • Stile Strategico: è caratterizzato da un focus attentivo ampio ed orientato all’interno. L’individuo è teso all’analisi, alla pianificazione e alla creazione di strategie. Per attuare questi processi egli sfrutta le informazioni presenti nell’ambiente in relazione a quelle da lui già possedute per esperienza o apprendimento. L’esempio è il giocatore di scacchi, concentrato nella ricerca della prossima mossa da fare a partire dal proprio repertorio di mosse e da quelle che vede fare all’avversario, in relazione alle pedine presenti sulla scacchiera;
  • Stile Sistematico: è caratterizzato da un focus attentivo ristretto ed orientato internamente. L’individuo è impegnato nelle ripetizione sistematica delle informazioni necessarie a portare a termine il compito o per valutare e/o manipolare i propri stati interni (motivazione, respirazione, tensione muscolare etc.) in maniera sistematica. Un esempio è quello del tuffatore, concentrato prima di lanciarsi dal trampolino;
  • Stile Focalizzato: è caratterizzato da un focus attentivo ristretto ed orientato esternamente. L’individuo è teso a realizzare una procedura o un obiettivo di natura concreta oppure interpersonale (ad esempio fare una domanda). Ne sono un esempio il matematico che controlla le derivazioni successive di un’equazione o lo studente che si appresta a fare una domanda al professore.

Concentrazione stili di Nideffer e prestazione sotto pressione Psicologia Fig 1

Fig.1 Stili attentivi di Nideffer

Secondo la teoria (Nideffer,1976) gli individui in genere presentano uno stile di concentrazione preferenziale, nel quale si trovano nella maggior parte del tempo e, nel caso le circostanze lo richiedano, sono in grado di passare più o meno agevolmente da uno all’altro, per conformarsi alle richieste della situazione presente. Forse l’esempio più calzante è la distinzione tra l’atleta dello sport di squadra e lo studente o il manager. Nel primo caso, l’atleta sarà per lo più interessato a cosa accade attorno a lui (focus orientato all’esterno) e si muoverà perlopiù sulla dimensione dell’ampiezza. Per tirare un rigore, ad esempio, il calciatore sarà soprattutto focalizzato sul compito di calciare (focus ristretto); invece, per fare un passaggio decisivo potrebbe essere ugualmente importante considerare la posizione dei propri compagni di squadra e degli avversari sul campo da gioco (focus ampio). Lo studente e il manager, all’opposto, potrebbero perlopiù essere interessati all’autoregolazione emotiva e comportamentale (focus orientato all’interno) e muoversi anch’essi sulla dimensione dell’ampiezza, ma con scopi diversi, come accade ad esempio nella presa di decisione (focus ristretto) o nella pianificazione di un corso d’azione futuro (focus ampio) (cfr. Nideffer, Sagal, Lowry, & Bond, 2001). Lo studente potrebbe ad esempio essere interessato a rimanere calmo e concentrato sulla materia da studiare per l’esame (orientato all’interno) e oscillare tra lo studio del singolo argomento d’esame (focus ristretto) o la pianificazione della successione di argomenti da trattare (focus ampio).

D’altra parte è previsto che ci siano individui che invece si trovano prevalentemente su una posizione ampia o ristretta e che tendono a spostarsi sulla dimensione interno-esterno come anche, infine, trovare individui che di preferenza si trovano su un quadrante (stile consapevole- focalizzato- strategico- sistematico) e che in base alle richieste della situazione si muovono sugli altri.

Quest’ultima idea sembra essere supportata da resoconti esperienziali, studi osservazionali e rilevazioni empiriche (Nideffer, 2002). Ad esempio Landers Wang e Courtet (1995) mostrano che all’approssimarsi del compito l’ampiezza del focus attentivo diminuisce; Lacy (1967), invece, dimostra che la frequenza cardiaca tende ad accelerare (orientamento verso l’interno) o decelerare (orientamento verso l’esterno) in accordo con lo slittamento del focus attentivo sulla dimensione orientamento interno-esterno.

Pressione ambientale, performance e concentrazione

Ma cosa succede quando ci troviamo improvvisamente sotto pressione? Cosa accade, ad esempio, quando ci troviamo a competere con i nostri avversari di fronte a uno stadio gremito di spettatori? Cosa accade quando dobbiamo discutere la nostra tesi di laurea di fronte ad amici e parenti? Cosa accade quando il tempo stringe e dobbiamo consegnare un lavoro? Per esperienza diretta o resoconto riferito da altri, conosciamo bene la situazione di chi, nonostante una profonda, lunga e tenace preparazione, si è trovato improvvisamente senza parole di fronte ad una commissione, ha sbagliato un lancio decisivo, ha improvvisamente lasciato incompiuto un lavoro importante… Non esiste limite agli esempi che si possono fare, allora forse è meglio una domanda più generale: ‘Cosa accade quando aumentano le pressioni ambientali e, in conseguenza di ciò, anche il livello di attivazione (arousal)?’. La teoria afferma che sotto queste condizioni, lo slittamento da una stile attentivo all’altro diviene più difficile e la persona tenderà sempre più ad orientare la concentrazione verso l’interno e a sperimentare un restringimento del focus attentivo, determinando in questo modo un deterioramento significativo della performance, descritto dall’autore nei termini di una ‘spirale discendente’ di decisioni e azioni frettolose e una percezione del tempo velocizzata (Nideffer, 1986).

Concentrazione stili di Nideffer e prestazione sotto pressione Psicologia Fig 2

Fig. 2 Downward Spiral Degradazione performance

Come prevenire una situazione di questo tipo? Ma soprattutto, come mai gli atleti che gareggiano a livelli molto elevati, e che osserviamo tutti i giorni confrontarsi in competizioni serrate in stadi rumorosi e gremiti di folla, non soccombono alle pressioni ambientali?

In realtà la performance sportiva individuale sotto pressione, secondo l’autore (Nideffer, 2002), è determinata da quattro parametri:

  • Differenze genetiche: che determinano ad esempio l’ansia di tratto (Eysenck, 1988), il temperamento, la reattività allo stress;
  • Differenze individuali nella consapevolezza e nell’uso di strategie usate per ‘trattare’ i problemi, come l’evitamento di distrazioni e la focalizzazione volontaria dell’attenzione (Orlick, 1990), l’uso dei segnali che provengono dall’ambiente in relazione al compito in corso (Abernethy & Russell, 1987) etc.;
  • Grado con il quale la prestazione è stata appresa e automatizzata grazie alla sua ripetizione, fino al punto in cui la messa in atto sia eseguita ‘senza pensarci’, ovvero con un dispendio minimo di risorse cognitive (elaborazione ‘mindless’; Shiffrin & Schneider, 1977);
  • Grado di fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare la situazione. Sono in gioco qui variabili come il senso di autoefficacia percepita (Bandura, 1997), la valutazione delle situazioni in termini sfida e opportunità (Lazarus & Folkman, 1984), l’ottimismo disposizionale (Carver, Scheier, & Segerstrom, 2010), tra le altre.

Così, una volta venuti a conoscenza di quali sono le situazioni in cui ci è richiesto -e soprattutto desideriamo- esercitare livelli elevati di performance, e una volta conosciuto in che modo i parametri di cui sopra si presentano in noi, dovremmo essere in grado sia di predire i comportamenti che metteremo in atto quando la pressione ambientale sarà per noi troppo elevata, sia quali situazioni potrebbero essere per noi fonte di stress eccessivo, in grado di erodere la nostra prestazione (cfr. Nideffer, 2002).

In conclusione, la teoria degli stili di concentrazione ci fornisce indicazioni preziose da seguire se vogliamo mantenere livelli elevati di performance anche sotto stress:

  • Conoscere la propria reattività alle situazioni: se si è troppo reattivi per qualsiasi motivo (mancanza di sonno, responsabilità eccessive, disagio psichico etc.) ricercare modalità per diminuirla: curare il sonno, l’alimentazione, impegnarsi in attività di qualità durante il tempo libero etc.;
  • Imparare a focalizzare l’attenzione e acquisire/implementare nuove strategie di risoluzione dei problemi, se quelle già in uso non funzionano;
  • Esercitarsi nel compito fin quando non viene automatizzato, eseguito ‘senza pensarci’, in modo rapido e preciso;
  • Costruire la fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare il compito, coltivare l’ottimismo, vedere le situazioni problematiche in termini di sfida;
  • Imparare a riconoscere quando la pressione ambientale diviene per noi eccessiva: quando il respiro si fa corto, i muscoli si irrigidiscono e tendiamo a fare le cose ‘di corsa’, è probabile che la nostra concentrazione sia orientata internamente e ristretta a pochi elementi, e la prestazione stia subendo un calo. In questo caso è opportuno fare un passo indietro, allontanarsi dal compito e recuperare l’equilibrio, per ritornare a livelli di prestazione ottimali;
  • Conoscere il proprio stile di concentrazione preferenziale e imparare a riconoscere in quali dei quattro stili tendiamo a ‘slittare’ quando siamo sotto stress, per sfruttarlo a nostro vantaggio.

Il supporto di un professionista, consulente psicologico o psicoterapeuta, potrebbe rendere il conseguimento di questi obiettivi più rapido e meno dispendioso in termini di tempo e risorse impiegate.

Se lo scopo prossimale è eseguire meglio i compiti nei quali ci impegniamo, volenti o nolenti, lo scopo finale è sempre lo stesso: vivere meglio. E dare una prestazione ottimale nelle situazioni della vita che richiedono un impegno da parte nostra, è uno dei modi di cui disponiamo per ottenere, almeno in parte, questo risultato.

 

‘Siamo solo dei fili d’erba’: la psicologia di Strappare lungo i bordi

Strappare lungo i bordi è una serie animata, creata da Zerocalcare, uscita nel 2021 sulla piattaforma Netflix.

 

Accanto a me c’è il mio amico armadillo immaginario, che facilita la comprensione dei miei pensieri ed elucubrazioni

(Zerocalcare, La profezia dell’armadillo).

 Strappare lungo i bordi sta riscuotendo un notevole successo sia per gli aspetti grafici e tecnici, sia per gli aspetti psicologici che si rivolgono tendenzialmente alla popolazione adulta. Considerando lo stile fumettistico che contraddistingue la serie, lo stile grafico è il risultato di una sintesi di Zerocalcare, in quanto i modelli anatomici che aveva adottato inizialmente apparivano troppo disomogenei e non erano in grado di soddisfare le sue aspettative (Urbanova, 2018). Inizialmente, la sua carriera da fumettista è stata contraddistinta dall’atteggiamento politico: il G8 a Genova (2001) ha dato un impulso alla sua produzione, impulso che lo portò nel 2003 ad essere contattato dagli editori del nascente mensile ‘XL’ avviato sotto gli auspici de ‘la Repubblica’ (Urbanova, 2018). Inizialmente, il suo stile trae ispirazione da fumetti come ‘Topolino’, ‘Cattivik’, ‘Lupo Alberto’ e ‘Dragonball’, nonché da fumetti d’autore come ‘Blacksad’ e da autori come Alan Moore, Bill Watterson e Miguel Angel Martin con ‘Brian the Brain’ (Urbanova, 2018).

Il segno del fumettista romano è contraddistinto dall’utilizzo di pochi grigi e da forti linee nere, realizzato su carta A3 dal punto di vista tecnico. Rappresenta personaggi ‘fissi’ come Zerocalcare, Secco, Madre e Armadillo, ritratti in modo antropomorfo o zoomorfo (la madre rappresentata come Lady Cocca della Disney e il padre come Mr. Pink, il padre di Po in Kung Fu panda), e personaggi ‘derivati’ dalla cultura popolare degli anni ’80 quali film o videogiochi (Urbanova, 2018).

Sul piano psicologico, i derivati sono un elemento funzionale in quanto permettono agli spettatori o ai lettori di immedesimarsi in una generazione specifica. L’umorismo e l’ironia sono due elementi chiave utilizzati per produrre un effetto comico, solitamente accompagnati da esagerazione e iperbole. Usa questi elementi per descrivere ansiosamente, come opprimente o spropositata, ogni situazione che vive attraverso un ragionamento che ha fatto identificare il pubblico e che ha attribuito una grande riuscita delle sei puntate. In una scena, il protagonista ha la possibilità di scegliere tra la solita pizza e una pizza molto invitante mai assaggiata prima: rimugina contemplando due scenari negativi possibili per osservare come ne esista un terzo, più probabile e nettamente meno catastrofico, che sperimentano la maggior parte delle persone durante la quotidianità.

 Zerocalcare utilizza diverse strategie linguistiche per evidenziare le caratteristiche varietà giovanili, tra cui turpiloqui, forestierismo, neologismi e tratti dialettali: il romano, rapido e difficile da comprendere in alcuni punti della serie, si affianca al flusso di coscienza del personaggio che esternalizza in modo chiaro e dettagliato il vissuto di Zerocalcare. A differenza delle metafore e delle onomatopee, utilizzate frequentemente nella produzione del fumettista, gli ideofoni (ad esempio, la tristezza rappresentata con “sigh”) sono elementi sonori che veicolano un valore aggiuntivo, utile ad esprimere uno stato d’animo (Urbanova, 2018). Il testo, come affermato dall’autore stesso, è una parte cruciale del suo lavoro che prevale sul disegno, in quanto svolge un ruolo espressivo insieme al ritmo della narrazione. Il disegno ha lo scopo di alleggerire la storia, creando un equilibrio che permetta di rendere comprensibili anche gli argomenti trattati più seri e complessi (Urbanova, 2018).

Il messaggio che cerca di passare Strappare lungo i bordi è legato al disagio provato da parte di un’intera generazione, che si ritrova a sperimentare un senso di vuoto causato dalla perdita di certezze e di punti di riferimento, come maestri o persone care: viene suggerita una visione meno egocentrica che permettere di vivere, in modo più leggero, le proprie responsabilità e i propri pensieri. Evidenziare le disillusioni o le difficoltà delle persone adulte, utilizzando un formato ironico importante per stemperare la forte espressività emotiva, permette di cogliere la fragilità psicologica e gli stereotipi sociali, ricordando comunque che ‘siamo tutti dei fili d’erba’ che si muovono nel vento, giorno dopo giorno (Figini, 2021).

 

Strappare lungo i bordi – La teoria del filo d’erba – Guarda il video:

“Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico” di Claudio Vio, Patrizio Tressoldi e Gianluca Lo Presti – Recensione

Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico, edito da Erickson, rappresenta la nuova edizione del primo testo scritto nel 1996.

 

Il manuale vuole essere una guida che racchiude le direttive vigenti in termini di disturbi dell’apprendimento sia dal punto di vista scientifico che secondo le normative scolastiche.

I disturbi specifici dell’apprendimento (conosciuti anche con l’acronimo DSA) e le difficoltà scolastiche sono un’area d’intervento che negli ultimi anni ha riscontrato un interesse sempre maggiore, complici le diverse conferenze svolte sul tema e l’introduzione prima della legge 170 del 2010, riguardante propriamente i Disturbi specifici dell’Apprendimento, poi della successiva direttiva ministeriale del 2012 in materia di Bisogni Educativi Speciali. Sempre di più quindi si è percepita la necessità di condividere linee guida per la diagnosi e il trattamento di tali disturbi, nonché aggiornamenti continui sia in ambito scientifico e di ricerca sia nell’ambiente scolastico attraverso un dialogo sempre più stretto con il Ministero dell’Istruzione (MIUR).

Il libro Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico scritto da Vio, Tressoldi e Lo Presti, tre tra le figure maggiormente competenti nell’area dei disturbi dell’apprendimento, fa parte delle Guide Neurosviluppo della casa editrice Erickson e rappresenta la versione aggiornata della prima scrittura del manuale.

La presentazione è a cura di Cesare Cornoldi – figura di spicco all’interno del panorama delle psicopatologie evolutive in riferimento alla scuola – che ricorda l’importanza del volume per chiarire modalità di valutazione e diagnosi basate sull’osservazione di linee guida scientificamente approvate e condivise. Cornoldi poi avanza una citazione, degna di nota, all’aggiunta tra gli autori di una figura clinica e non meramente legata al mondo universitario e della ricerca per sottolineare come sia importante e fondamentale anche il punto di vista della pratica clinica quotidiana, che si trova a relazionarsi con difficoltà proprie del mondo pubblico e privato e con la necessità di creare una rete di professionisti e di sviluppare capacità comunicative per meglio interagire con le famiglie.

Il libro si presenta diviso in 9 capitoli. Dopo un’introduzione sui DSA e sulle diverse consensus conference avvenute attorno al tema, il secondo capitolo è dedicato all’approccio metodologico da adottare nella rilevazione dei casi di DSA e alla stesura di quella che viene definita diagnosi funzionale. I capitoli successivi analizzano specificamente ogni disturbo evolutivo, in particolare: dilsessia, il disturbo specifico della lettura; disortografia, della scrittura; disgrafia; discalculia, del numero e/o del calcolo; della comprensione del testo e dell’apprendimento non verbale.

Per ogni disturbo viene analizzata la sua definizione specificando l’abilità compromessa e i criteri diagnostici scientificamente condivisi per confermarne la presenza. Parte del capitolo si interessa alla psicologia cognitiva sottostante la strumentalità presa in esame con le relative teorie circa il suo apprendimento e la sua disfunzionalità. La seconda parte invece punta i riflettori sul percorso diagnostico da mettere in atto partendo dalla richiesta di consulenza nei diversi momenti – scuola primaria, secondaria o universitaria – al colloquio clinico e anamnestico (con le diverse aree da indagare per meglio definire il quadro della situazione). I paragrafi conclusivi riguardano le prove strumentali da utilizzare e la stesura della diagnosi. In conclusione poi vengono presentati alcuni casi clinici per offrire esempi relativi alla relazione clinica e alla sintesi diagnostica (con i relativi test utilizzati per la valutazione).

Il nono capitolo è dedicato alla relazione di questi disturbi con l’ambiente scolastico, scritto da Claudia Zamperlin e Vio con l’aiuto di un dirigente scolastico che si occupa dell’ordinamento attuale dell’istituzione scolastica italiana in materia di DSA. La presenza e l’incidenza dei disturbi vengono presentate e analizzate per i diversi gradi scolastici e indirizzi (in riferimento alla scuola secondaria di secondo grado), successivamente il testo spiega nel dettaglio la legge 170/10 nei suoi diversi articoli, presentando le diverse implicazioni previste compresa la spiegazione di cosa e quali siano gli strumenti compensativi e le misure dispensative attualmente utilizzabili.

A conclusione del volume sono presenti due sezioni, utilissime dal punto di vista clinico. In particolare gli argomenti presenti in appendice riguardano i diversi strumenti diagnostici (test e questionari) presenti nel panorama scientifico attuale suddivisi a seconda delle abilità strumentali di interesse, un’indicazione circa la conduzione del colloquio anamenstico nel momento di richiesta di valutazione, le indicazioni principali per la stesura della relazione, le diverse risorse internet in tema di materiali, strumenti e spunti operativi per i disturbi specifici dell’apprendimento e una nuova proposta criteriale per la diagnosi di disgrafia del gruppo AIRIPA (Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento).

La sezione dedicata agli allegati invece presenta una lista di questionari e scale riferiti a diverse tematiche (per ogni questionario sono presenti le istruzioni per le modalità di somministrazione, le procedure di scoring e l’interpretazione dei punteggi emersi).

In conclusione Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico rappresenta una guida estremamente utile per chi si occupa di diagnosi e di difficoltà scolastiche. Da un lato offre una panoramica aggiornata e completa sulle diverse evoluzioni in termini scientifici e di ricerca in riferimento al tema e mostra come queste continue condivisioni abbiano dato origine a linee guida per la diagnosi; dall’altro permette di essere aggiornati sul tema dei DSA e della scuola, per comprendere come questi disturbi siano tutelati nell’ambiente scolastico e quali implicazioni comporti. Dal punto di vista clinico poi offre la possibilità di accedere facilmente ad un panoramica riassuntiva dei diversi strumenti testistici da impiegare nella valutazione di questi disturbi e chiari esempi di casi clinici e di questionari da poter utilizzare nella pratica clinica quotidiana.

Consigliato per i clinici del settore, linguaggio adatto al tema trattato e agli argomenti proposti che appaiono molto settorializzati essendo il volume completamente dedicato al tema dei DSA. Gli autori sono figure di spicco del settore che riassumo nel testo, in modo chiaro e preciso, le loro competenza sul tema, aggiungendo osservazioni derivanti da anni di esperienza sul campo e di ricerca.

Obbligatoriamente da avere in libreria per tutte le figure professionali che in diverso modo si occupano di  Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

 

“Non essere in ansia!”- Ansia, disturbi d’ansia ed emergenze

Tutti possiamo provare ansia dinanzi a situazioni di pericolo, questa attiva in noi uno stato d’allerta che ci spinge in maniera adattiva o disadattiva a ricercare soluzioni rispetto alla situazione che stiamo vivendo o che percepiamo come potenzialmente pericolosa.

 

Quando l’ansia si struttura come disturbo, non è più un’esperienza contigente, ma delinea, secondo il DSM-5, una specifica classe di disturbi che comprende: il disturbo d’ansia da separazione, il mutismo selettivo, la fobia specifica, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia e il disturbo d’ansia genealizzata. In alcuni casi il disturbo può essere indotto da una condizione medica o dall’uso specifico di sostanze o farmaci.

Il disturbo d’ansia generalizzata

Il disturbo d’ansia generalizzata (GAD), in particolare, si caratterizza secondo il DSM-5, per la presenza di: ansia e preoccupazione che accompagnano la persona per un periodo di almeno sei mesi e per gran parte della giornata, coinvolgendo ogni evento della quotidianità. La preoccupazione è tale da interferire con un sano funzionamento psicologico in quanto pervasiva, durevole e capace di emergere in assenza di stimoli evidentemente allarmanti.

I sintomi del GAD sono:

  • sensazione di “nervi a fior di pelle”
  • facile affaticamento
  • difficoltà di concentrazione
  • irritabilità
  • tensione muscolare
  • alterazione del sonno.

Lo stato di tensione, come si evince dai sintomi, coinvolge aspetti “emotivi” e “fisici” tanto da compromettere il funzionamento di vita della persona in ambito sociale, lavorativo e interpersonale.

Secondo l’ICD-10 la sintomatologia è dunque sia somatica che psichica, evidenziando, negli effetti, un’ampia variabilità individuale, in cui la preoccupazione maggiore di fondo appare il timore che possa accadere qualcosa di negativo a sé stessi o alle persone care.

In un’ottica psicoanalitica, alla base delle manifestazioni del GAD compare l’angoscia, sia essa da separazione, di castrazione, morale, di annichilimento e di frammentazione del sé. Il PDM aggiunge l’angoscia derivante dalla perdita di controllo, intesa come incapacità di autoregalazione nei pensieri, nei sentimenti e nelle sensazioni.

I pattern alla base del disturbo riguardano aspetti:

  • cognitivi, che comprendono difficoltà di pensiero;
  • somatici, che comprendono vari stati di arousal fisico che possono indurre, a seconda del livello di attivazione, tensione, sudorazione, palpitazione o urgenza di minzionare e/o defecare;
  • relazionali, che comprendono conflitti relativi alla dipendenza, alla paura del rifiuto o al sentimento di colpa.

L’ansia in ottica cognitivo-comportamentale

Da un punto di vista cognitivo-comportamentale le persone con disturbi ansiosi tendono ad avere una percezione della realtà circostante costantemente influenzata da credenze disadattive che nascono da schemi mentali rigidi, ovvero modelli di lettura con cui tendiamo ad organizzare e valutare le informazioni provenienti dal mondo che ci circonda. Questi schemi, nello specifico nel GAD, si presentano come disadattivi in quanto rigidi, “semplicistici” e tendenzialmente negativi, capaci di attivare processi di pensiero:

  • dicotomici, per cui i pensieri tendono a collocarsi su estremi assoluti, Chissà come potrà andare questa cosa? Sicuramente male!
  • catastrofizzanti, ovvero tendenti a vedere in ogni problema qualcosa di irrisolvibile, Non c’è nulla che possa fare per risolvere questo problema!
  • etichettanti, ovvero tendenti a definire le situazioni in base a caratteristiche generalizzate e dunque aspecifiche, Perché dovrebbe succedermi qualcosa di bello se mi va sempre tutto male?
  • personalizzanti, ovvero tendenti a presumere in modo errato di essere causa di eventi o situazioni,
    Non riuscirò mai a fare questa cosa io!

Le distorsioni cognitive tendono dunque sia a far sovrastimare la pericolosità degli eventi, quando rivolte verso l’esterno, ma anche a dubitare delle proprie abilità di coping quando rivolte verso sé.

La cura della salute mentale è sempre indispensabile, ma soprattutto lo è nei casi di emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo, in cui il potenziamento delle abilità di coping, ovvero la capacità di trovare o seguire la giusta soluzione o indicazione, costituirebbe un fattore protettivo per sé e per l’intera comunità circostante.

Ansia nel periodo pandemico

Possiamo dunque chiederci e riflettere, in termini di salute mentale, cosa può essere utile per la nostra ansia e per chi soffre di disturbi d’ansia in relazione al delicato momento che stiamo vivendo?

  • È importante prendersi cura della propria salute mentale sempre, al fine di avere strumenti – risorse psicologiche per affrontare situazioni allarmanti;
  • Evita l’inondamento continuo di informazioni sia attivo che passivo. Non diffondere continuamente informazioni attraverso più canali di comunicazione (mail, social, Wa, messaggistica etc. etc,). Le persone hanno il diritto di alternare momenti di informazione autonoma a momenti in cui spostare il focus attentivo su altro. Puoi destinare dei momenti della tua giornata per informarti, che siano specifici e non continuativi, ma soprattutto finalizzati ad adottare strategie utili a fronteggiare il problema;
  • Evita di confondere “pareri” con giudizi scientifici selezionando le fonti che decidi di leggere o ascoltare. Il valore delle informazioni ha come unica attendibilità la fonte da cui queste provengono: pareri o “teorie” basate su credenze personali seppur diffuse non costituiscono un’alternativa alla competenza scientifica;
  • Non confondere l’ansia in risposta ad un evento allarmante con un disturbo d’ansia preesistente. In ogni caso è doveroso rispettare lo stato di preoccupazione della persona in ansia, senza “sminuire” la sensazione provata, ma tentando di non rendersi spaventanti. Ricordati che provare ansia non è una scelta della persona, ma un automatismo che fa soffrire per prima la persona che lo esperisce;
  • Sposta il tuo focus attentivo dedicandoti ad attività differenti nell’arco della giornata che non ti pongano solamente in ascolto passivo di tematiche allarmanti;
  • Individua la tua “fetta di responsabilità”, in linea con le indicazioni degli esperti, per capire ciò che puoi fare in maniera corretta. Queste strategie ti porteranno ad applicare “piccole soluzioni” utili per aumentare il tuo livello di sicurezza a dispetto dell’aumento della preoccupazione, che si traduce a livello psicologico come capacità di problem solving.

La salute mentale non è qualcosa di così astratto se pensiamo ai comportamenti che questa è in grado di generare. Preservare la capacità di tendere alla razionalizzazione in momenti altamente stressanti della nostra vita, col fine di incrementare le nostre risorse per produrre comportamenti adeguati e capaci di interrompere l’escalation della preoccupazione e della conseguente ansia, è un indispensabile fattore protettivo per il benessere dell’individuo e della società. Utilizziamo questi piccoli accorgimenti per gestire la nostra ansia e soprattutto per evitare che persone con disturbi d’ansia possano, in questo particolare momento, soffrire ancor di più.

N.B.: Le indicazioni presenti nell’articolo non sostituiscono né la valutazione né i trattamenti indispensabili alla cura dei disturbi d’ansia.

 

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