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MOOC e nuovi modelli di apprendimento nel XXI secolo

Massive Open Online Course (MOOC) sono corsi online ad accesso aperto a tutti, gratuiti e accessibili da qualsiasi dispositivo, con materiali sempre disponibili.

 

Oggi l’e-learning rappresenta una rivoluzione e questo ambiente di apprendimento può essere sfruttato per fornire corsi online di formazione ad un costo minore rispetto alla partecipazione a formazioni tradizionali. Internet permette agli studenti di avere un accesso immediato alle risorse didattiche, di riconsultare i materiali on line e di vedere gli aggiornamenti inseriti in tempo reale e agli insegnanti di diffondere conoscenze e competenze, fornire percorsi formativi personalizzati nella struttura dei contenuti, possibilità di raggiungere numeri elevati di studenti e persone situate a grandi distanze, abbattendo le frontiere di spazio e tempo. Dunque internet può essere usato sia dai professionisti (esperti riconosciuti in un campo di studio) per offrire il proprio lavoro e percepire un guadagno, che dagli alunni per apprendere e imparare, restando comodamente seduti alla sedia della propria scrivania.

La diffusione dei Massive Open Online Course (MOOC)

In questo contesto, si prospetta un tipo di corso online ad accesso aperto a tutti, gratuito e accessibile da qualsiasi dispositivo, con materiali sempre disponibili, ossia il Massive Open Online Course (MOOC). Esso si presenta come un programma educativo liberamente condiviso, che non richiede commissioni o spese e nessun requisito ad eccezione di una buona connessione Internet. I Massive Open Online Courses hanno attirato l’interesse globale nei pochi anni dalla loro prima apparizione nel 2008. Nel 2012, l’Università di Harvard e il Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno lanciato la piattaforma MOOC edX, la quale ha offerto i suoi primi sette corsi nel mese di Ottobre, uno di questi con 53.000 iscritti. Nel 2013 ci sono stati 77 partner globali che hanno lavorato con Coursera, uno dei principali fornitori di MOOC.

Negli ultimi anni sono state lanciate in Europa molte piattaforme no-profit per i corsi online aperti di massa (MOOC) allo scopo di fornire un apprendimento permanente e un’istruzione soddisfacente di alto livello. Di conseguenza, le offerte MOOC continuano ad espandersi, comprendendo non solo argomenti di scienze e tecnologie informatiche (Rodriguez 2012), ma anche sostenibilità ambientale, cambiamento climatico, conoscenza e consapevolezza di sé e benessere psicologico.

Pro e contro dei MOOC

Vari autori hanno fornito riepiloghi completi dei pro e dei contro di un MOOC (Gettler, 2013; Hartman, 2013; Zellner, 2013). Tra i vantaggi vengono riconosciuti: la possibilità di condividere informazioni, di avere un’esperienza di apprendimento continuo e flessibilità temporale nel lavoro. Invece, tra le criticità sono state annoverate: l’eventualità di incorrere in cattive esperienze, una più alta probabilità di abbandono rispetto ai corsi in presenza e la necessità di tempo a disposizione. In virtù di un crescente interesse per i MOOC sia da parte delle Università che da altri fornitori, Littlefield (2015) ha definito alcuni motivi per cui numerosi studenti hanno iniziato a preferire l’istruzione a distanza piuttosto che l’istruzione in aula e faccia a faccia, tra cui la possibilità di studiare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, l’opportunità di incontrare professori e collaboratori da tutto il mondo e di scegliere una scuola adatta al proprio stile di apprendimento e la dimostrazione scientifica che l’apprendimento basato sul web è altrettanto potente dell’apprendimento in una classe convenzionale. Molti MOOC includono anche attività interattive che consentono di “imparare facendo”.

L’articolo di Bier et al. (2015) esplora i benefici di apprendimento dell’uso di risorse informative (ad es. video e testo) nei MOOC, rispetto al learning by doing, ossia alle opportunità offerte dalle attività interattive. Un’opportunità emersa di recente per confrontare le caratteristiche didattiche di questi due diversi modelli è quella di constatare come le variazioni nell’uso di essi da parte degli studenti influiscano sui risultati di apprendimento ottenuti. Entrambe le modalità offrono ricchi set di dati, anche se con obiettivi diversi e catturano diversi tipi di interazioni con gli studenti. La progettazione di un MOOC con obiettivi di apprendimento implica la considerazione di ulteriori fattori importanti come gli atteggiamenti preesistenti degli studenti e le loro credenze (Dole e Sinatra 1998; Sinatra et al. 2012). Mentre la letteratura esistente discute varie definizioni di atteggiamento (Simonson e Maushak 1996), il termine per lo più si riferisce alle valutazioni psicologiche che un individuo ha riguardo a una persona, un oggetto o un evento (Gagne et al. 1992; Zimbardo e Leippe 1991). Inoltre, l’atteggiamento ha tre componenti: cognitiva, affettiva e comportamentale; pertanto, la ricerca raccomanda un’istruzione che cerca di considerare tutte e tre le componenti (Kamradt e Kamradt 1999). Infatti, dal punto di vista della progettazione di un MOOC, è di estrema importanza: specificare i prerequisiti in termini di target di interesse, il livello di istruzione dei partecipanti, il possesso o no di competenze specifiche per il corso; dunque occorre pensare a chi è rivolto per rendere il MOOC il più possibile adeguato. Definire gli obbiettivi, che ad esempio in un MOOC sul bullismo potrebbero essere quelli di creare consapevolezza ed empatia di fronte alla sofferenza delle vittime, portare alle luce opinioni diverse e ambiguità, accompagnare l’insegnante nel percorso di messa in discussione di sé rispetto all’efficacia delle proprie modalità di insegnamento, acquisire strumenti per modificare le modalità comunicative inefficaci, promuovere le soft skills dei docenti e portare il focus sui segnali d’allarme.

Il tasso di abbandono dei MOOC

Un MOOC non può esistere senza la suddivisone in moduli e la creazione di micro-aree di contenuti del corso. Poiché i corsi e-Learning in genere, non solo i MOOC, hanno un dropout più alto rispetto ai corsi in sede (Levy, 2007), aggiungere strumenti interattivi rende il corso più interessante e previene i tassi di abbandono, quali test d’ingresso, domande intermedie, immagini interattive, approfondimenti, esempi chiarificatori, riepilogo degli argomenti trattati, podcast sia audio sia schematizzanti in forma scritta, podcast video, domande come spunti di riflessione tra i partecipanti e successiva risposta comunitaria, testi da completare, immagini animate con narrazione di sottofondo, contenuti interattivi da attivare con il mouse, schemi conclusivi semplificati, riferimenti a leggi, test finale. Dunque, una delle questioni più dibattute sui MOOC riguarda quella della partecipazione. A tal proposito, due principali filoni pedagogici di MOOC: cMOOC e xMOOC, hanno riportato grandi dimensioni di tassi di “abbandono” nei MOOC rispetto ai corsi tradizionali. Meyer (2012) ha riferito che i MOOC offerti da Stanford e Massachusetts Institute of Technology avevano registrato tassi di abbandono dell’80-95% (Yuan e Powell 2013). Ad esempio, tra i 50.000 studenti che hanno partecipato ad un corso offerto dall’Università della California sulla Piattaforma Coursera, solo il 7% ha completato tutto il corso (Yuan e Powell 2013). Il progetto di ricerca qualitativo di Liyanagunawardena, T. R., Parslow, P. and Williams, S. (2014) nell’Università di Reading ha studiato le prospettive dei partecipanti utilizzando un approccio etnografico, dove i ricercatori stessi sono partecipanti al MOOC e esplorano le prospettive su “abbandono”, “completamento” e “successo”. Tale lavoro ha esplorato le prospettive dei partecipanti ad un MOOC attraverso sei interviste qualitative semi-strutturate faccia a faccia della durata di 30-35 minuti, audio registrate con autorizzazione dei partecipanti e successivamente trascritte integralmente in base ai temi inizialmente identificati e considerandone dei nuovi. Nella maggior parte dei trascritti l’abbandono sembrava riferirsi a tutti coloro che hanno fallito nel finire il corso. Tuttavia, nel chiarire le loro opinioni sull’abbandono di un corso, sono emerse dimensioni interessanti, come la prevalenza di un apparente desiderio da parte degli intervistati di chiarire questo punto di vista. Ad esempio viene affermato “se un partecipante non ha guardato tutte le lezioni o completato uno dei compiti non significa necessariamente che ha abbandonato il corso”. Il fatto che i MOOC siano aperti a tutti, in qualsiasi momento, anche dopo che i corsi sono iniziati potrebbe portare qualche iscritto al programma in tempi successivi all’impossibilità di completare tutte le attività. Queste idee suggeriscono che il tempismo è un fattore cruciale per determinare se un partecipante è un dropout oppure no. Un altro punto di vista è che finché un partecipante al MOOC è stato in grado di imparare qualcosa dal corso, di riflettere su esso e aumentare l’apprendimento, il partecipante non è un droupout. Questo tiene conto del fatto che ci sono molte persone che si iscrivono ad un corso per imparare argomenti specifici e che non sono necessariamente interessate all’intera offerta formativa. Quindi il momento dell’abbandono diventa irrilevante mentre assume maggiore importanza imparare qualcosa di nuovo e/o utile. I partecipanti al MOOC contestano la definizione generalmente usata per gli abbandoni e suggeriscono la necessità di guardare agli abbandoni in una nuova prospettiva considerando la situazione e i fattori dei partecipanti. La partecipazione volontaria gratuita di un corso consente ai partecipanti di visitare il MOOC per argomenti di proprio interesse. Ciò è particolarmente importante per studenti iscritti ad Università a cui vengono proposte anche attività di formazione online e che possono decidere quale argomento approfondire e in quale modalità, cioè se optare per uno studio esclusivamente attraverso le piattaforme online o in modalità blended, quindi una formazione che combina i metodi tradizionali in aula, faccia a faccia, e la formazione autonoma, per creare una metodologia ibrida, in modo che i due approcci si completino a vicenda. Infatti, i MOOC diventano sempre più una metodologia importante nella didattica universitaria, in quanto sono state riportate numerose esperienze positive, seppur molti docenti disapprovano i MOOC in quanto favorirebbero il plagio e tramanderebbero la dominanza di alcuni atenei, una forma di “neocolonialismo” (Altbach, 2014) e le disuguaglianze di classe (Murphy et al., 2014; Stohl, 2014). In contrapposizione a quanto affermato pocanzi, un lavoro di Kolowich (2013) ha dimostrato che molti professori che insegnano tramite MOOC hanno avuto una prospettiva positiva circa questi strumenti: alla domanda se credono che valga la pena utilizzare i MOOC, il 79% ha detto di sì. Pertanto, sono necessari ulteriori studi che approfondiscono gli argomenti trattati in questo articolo.

 

Percorsi alcologici in tempo di pandemia – L’esperienza di un servizio territoriale

Quanto segue illustra il protocollo terapeutico di base per l’alcolismo della Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D. 2 di Salerno. In particolare, si cercherà di valutare anche l’influenza dell’emergenza sanitaria su consumi e modalità di presa in carico.

Riassunto

Il presente lavoro riassume il protocollo terapeutico di base utilizzato dalla Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D 2 di Salerno, in un particolare momento storico come quello marchiato dall’evento pandemico. L’emergenza alcol che la società contemporanea sta registrando, anche nel faticoso periodo attuale – benché attualmente sia venuta un po’ meno l’enfasi delle cronache riportate dai mass-media – richiede di intervenire su un ampio settore della popolazione: oltre la prevenzione, programmi terapeutici integrati, praticabili ed efficaci, consentono una prima risposta a tale problematica. Solo in periodi successivi è possibile valutare l’opportunità di interventi più strutturati.

Summary

The present work reassumes the basic therapeutic protocol, used at Salerno’s Operative Unite for Drugs Addiction, Alcoholisms Section.

Alcohol emergency that the contemporary society is recording, so emphasised by mass media, requires acting on a large sector of population: beside the prevention also an efficacious and feasible therapeutic program, integrated and effective, can give a first answer to this problems. Only afterwards it can be adopted, if necessary, more organised interventions.

Introduzione

L’emergenza alcol che la società attuale registra, benché attualmente più nascosta dall’attenzione rivolta alla pandemia, è tuttavia di portata tale da rappresentare un’assoluta priorità nelle politiche d’intervento sulle problematiche socio-sanitarie; se le cifre ufficiali sono evidenti, la cronaca e l’esperienza diretta del personale sanitario testimoniano il drammatico presentarsi dei danni collegati all’uso di alcolici.

Il concetto di “problema alcolcorrelato”, che ha sostituito quello tradizionale di alcolismo, ha consentito alle dipendenze patologiche in generale di superare ingorghi definitori che impedivano una convincente articolazione terminologica. In altri termini, se resta una differenza clinicamente utile la classica distinzione, espunta dal DSM-5, tra semplice abuso e dipendenza, la definizione succitata permette di ricomprendere nelle tematiche derivate dall’uso di sostanze anche situazioni più sfumate. A questo punto la suddivisione tra uso problematico, abuso e dipendenza ha un valore diagnostico per il singolo caso clinico, ma rispetto ai possibili danni l’intera popolazione può essere esposta, anche nel caso di un singolo comportamento di assunzione, come nel Binge Drinking.

Il progressivo aumento degli utenti con problemi alcolcorrelati che afferiscono ai servizi per le dipendenze ha costretto a riorientare nel tempo l’offerta delle prestazioni erogate, in modo da diversificare i trattamenti, somministrati sulla base delle esigenze dei pazienti e del loro livello di motivazione (De Rosa, 2018). Una presa in carico che comprenda un’attenta valutazione diagnostica, oltre che delle risorse e del livello motivazionale del paziente, prelude alla stesura del piano terapeutico personalizzato; in questa fase il lavoro è centrato sulle caratteristiche dell’utente, sulle dimensioni cliniche presenti e sull’identificazione degli aspetti del suo contesto di vita, in maniera da sviluppare un progetto articolato di cura (Gallant, 1987). Va sempre tenuta in adeguata considerazione la caratteristica cronicità di tale paziente (Mc Lellan, 2000), che ne complica ulteriormente e ne connota in senso specifico la presa in carico.

Quanto segue illustra il protocollo terapeutico di base della Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D. 2 di Salerno. In particolare, si cercherà di valutare anche l’influenza dell’emergenza sanitaria su consumi e modalità di presa in carico. Fondamentalmente, viste le difficoltà insite nel trattamento di un ‘paziente difficile’, e schematizzando, è previsto un percorso a due fasi: un primo livello affronta gli aspetti critici e basali del problema, mirando a promuovere cambiamenti individuali e familiari concreti e il più possibile rapidi. Il secondo livello, raggiungibile nei casi maggiormente favorevoli, persegue obiettivi di più lungo periodo, tesi a promuovere mutamenti sostanziali e strutturalmente definiti.

Considerando che, in molti casi, si accede ad un servizio per le dipendenze con un livello di motivazione non particolarmente alto, è importante offrire delle opportunità adatte a tali situazioni. L’impostazione che la nostra struttura persegue, esaurita la fase diagnostica affrontata ai più vari livelli, si concreta in un eventuale trattamento farmacologico non disgiunto da un breve ciclo di colloqui psicologici, finalizzati a disegnare una nuova cornice di senso entro il quale uno specifico comportamento, che per definizione è comunicazione e ha valore di messaggio, assume finalmente un significato, e una volta ottenuta una comprensibilità della situazione clinica si definisce un intervento di mantenimento. Naturalmente, laddove il livello motivazionale del paziente lo consenta, si prende in considerazione un trattamento più specifico, quale una psicoterapia strutturata, in particolare una terapia ad orientamento cognitivo-comportamentale (Galanter e Kleber, 1998). Inoltre, in alcuni casi viene effettuata un’immissione in un gruppo di autoaiuto, la cui frequenza si affianca al programma terapeutico concordato con il servizio. In altri casi, infine, in seguito alla valutazione della struttura e alla richiesta dell’utente, si provvede all’invio presso una Comunità Terapeutica.

La presa in carico

Il paziente che si presenta al servizio, in genere su iniziativa personale o familiare o tramite invio del medico curante o di altra struttura sanitaria, è sottoposto ad un iter diagnostico approfondito, al fine di inquadrare nel migliore dei modi la sua situazione specifica.

Il primo momento è rappresentato dall’anamnesi sociale e della sua situazione di vita attuale. L’assistente sociale, oltre al colloquio teso alla ricerca dei dati personali, somministra alcuni questionari di primo livello, in particolare l’AUDIT, che permettono una comprensione generale del tipo di problema dell’utente (Reinert e Allen, 2002). Per monitorare l’impatto dell’emergenza sanitaria Covid-19 sull’utenza che afferisce al servizio, è stato realizzato un questionario ad hoc al fine di indagare tre aree principali:

  • Stato percepito dell’emergenza, per comprendere la messa in atto di comportamenti precauzionali al fine di tutelare la salute propria e altrui.
  • Stato dei consumi, per rilevare i cambiamenti dell’utilizzo di alcool e altre sostanze psicoattive, nella quantità, nella tipologia, nella frequenza e nelle modalità.
  • Relazione con il servizio, per esplorare i cambiamenti nella richiesta e nell’accesso ai servizi sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo.

Attraverso questionari di questo tipo si inizia ad avviare la relazione con il paziente, cercando di costruire un rapporto di fiducia attraverso l’atteggiamento empatico dell’operatore, così da predisporre interventi di trattamento contestualizzati.

Segue una prima valutazione da parte dello psicologo, che inizia ad inquadrare l’utente, formulando una prima ipotesi diagnostica, anche rispetto a una possibile co-morbilità. A tal fine risulta utile, accanto al colloquio clinico, valutare l’utilizzo di alcuni test psicologici, quali ASI, MMPI e BIS-11, per formulare una prima ipotesi diagnostica sulla struttura di personalità dell’utente preso in carico.

Vengono altresì convocati e coinvolti i familiari, in modo da avere ulteriori riscontri rispetto al comportamento problematico, al fine di valutare ogni possibile risorsa per attivare un percorso di riabilitazione efficace.

Il terzo ed ultimo momento di questa fase è rappresentato dalla visita medica e dalla prescrizione di esami ematochimici e tossicologici.

Dai dati emersi in questi vari momenti, viene stilato un progetto terapeutico-riabilitativo, da revisionare nel tempo sulla base del rimando del paziente. Naturalmente in questa fase è importante il trattamento delle condizioni fisiche, che possono andare dalla sindrome di astinenza alle complicanze di patologie legate al consumo di alcolici. Per queste ultime ci si avvale anche di consulenze esterne, mentre per gravi sintomatologie astinenziali si ricorre a ricoveri ospedalieri o in case di cura specializzate.

Un’adeguata terapia farmacologica, inizialmente anti-astinenziale e successivamente anti-craving, consentendo un effettivo compenso delle condizioni cliniche, rappresenta la base per impostare dei programmi di cura ulteriori. Si utilizzano farmaci che, agendo a vari livelli, permettono in primo tempo un controllo dei sintomi dell’astinenza alcolica, condizione che può preludere a gravi conseguenze, e, in seguito, arginano il più insidioso fattore delle ricadute, la forte appetizione all’uso delle bevande alcoliche. L’uso del Sodio Oxibato, dell’Acamprosato, del Disulfiram o del Naltrexone viene continuato per un periodo sufficiente alla stabilizzazione del paziente, che può così impegnarsi nel percorso di recupero.

La fase della presa in carico è di fondamentale importanza per il successivo andamento del programma, non soltanto per una corretta valutazione della situazione, ma anche per lo sviluppo di una relazione feconda tra operatori e paziente, in grado di incidere sull’intenzione a impegnarsi attivamente nel trattamento. Inoltre non si tralascia, in questa fase, di supportare il contesto familiare, fortemente implicato nella gestione del problema, in modo da evitare manovre non idonee che possano costituire fattori di mantenimento della problematica alcolcorrelata.

Al termine di questo periodo, si decide anche per un eventuale ricorso alle comunità terapeutiche o ai gruppi di auto-aiuto, sulla base delle richieste formulate dall’utente e dalle valutazioni dell’équipe curante. Anche in questo caso è molto importante non limitarsi all’invio puro e semplice, delegante e deresponsabilizzante, ma fornire il necessario supporto alla scelta concordata con il paziente e la sua famiglia in relazione alle proprie esigenze e caratteristiche e, successivamente, monitorare il percorso comunitario, in modo da poter intervenire in caso di crisi.

Terminata la fase della presa in carico con tutto il corteo dei dati acquisiti, inizia il piano terapeutico vero e proprio. Raggiunta l’astinenza dall’alcol, un’accurata prevenzione delle ricadute minimizzerà i rischi di una ripresa del consumo e consentirà anche di mantenere un rapporto di medio periodo con il servizio, funzionale all’incremento della motivazione al cambiamento dello stile di vita. A questo punto, in accordo con l’utente e in condizioni favorevoli, si valuterà l’inserimento in un programma più avanzato, come una psicoterapia individuale, familiare o di gruppo.

Nella revisione attuale del DSM-5 (APA, 2000), il craving rientra tra i criteri diagnostici e l’interesse sostenuto da emergenti evidenze clinico-scientifiche dimostra come esso possa predire episodi di ricaduta nelle addiction. Così, la possibilità di delineare modelli di previsione delle ricadute degli utenti in carico presso la nostra struttura ha reso fondamentale l’inserimento nel protocollo terapeutico di base del Substance Craving Questionnaire (SCQ-Now), un test che permette la misurazione multidimensionale del craving. Il questionario, validato in italiano, è suddiviso in cinque dimensioni (desiderio di usare la sostanza, intenzione di usare la sostanza, anticipazione degli effetti positivi, anticipazione dei sintomi d’astinenza e disforia, perdita di controllo) che indagano la percezione del desiderio della sostanza nel preciso momento della somministrazione del test. I risultati permettono di osservare la correlazione tra i costrutti in esame ed intervenire nelle dimensioni a rischio. L’ulteriore vantaggio di questo strumento è la possibilità di utilizzarlo come follow up per gli utenti in trattamento e per coloro che tornano dopo una fase di assenza dal servizio.

Nella pratica clinica del nostro servizio il Substance Craving Questionnaire è associato ad un questionario sulle esperienze avverse dell’infanzia, l’Adverse Childhood Experiences – International Questionnaire (ACE-IQ) che valuta le fonti di stress più intense e frequenti durante le fasi significative del ciclo vitale (matrimonio, relazione con i genitori, ambiente familiare, violenza tra pari, violenza nella comunità e violenza collettiva). L’indagine retrospettiva permette di conoscere le modalità di reazione messe in campo per affrontare eventi importanti e può avere un valore aggiunto in termini di strategie di prevenzione e trattamento.

Tuttavia, uno sforzo costante deve essere dedicato anche a quelle situazioni che non implicano quella linearità ideale sopra descritta, rispetto alle quali valgono le indicazioni che ci vengono dalla cultura della Riduzione del danno, il cui obiettivo è in definitiva la riduzione dei consumi o comunque il migliore governo possibile del problema presentato dal paziente.

Il trattamento di base

Dal momento della costituzione nel nostro servizio di una sezione alcologica, abbiamo approntato una sorta di protocollo di base – i cui fondamenti essenziali sono stati esplicitati sopra – che potesse consentirci di fornire un primo trattamento ambulatoriale, per poi successivamente e qualora fosse necessario, indirizzarsi verso cure più articolate e strutturate. I capisaldi di tale intervento di base sono stati essenzialmente due: innanzitutto il colloquio motivazionale (Rollnick e Miller, 2003), che costituisce la pietra angolare del trattamento, poiché permette di monitorare i nostri interventi momento per momento, in base alla fase del paziente. Nella valutazione iniziale, quindi, è opportuno introdurre il concetto di livello di recettività al cambiamento, determinando la fase in cui il paziente si trova. La disponibilità al cambiamento in un determinato periodo può essere influenzato da vari fattori: grado di consapevolezza del problema costituito dall’utilizzo di sostanze, comprese le conseguenze connesse a tale pratica; percezione della necessità del cambiamento; grado di accettazione degli interventi proposti, che è condizionato dal livello di coerenza di questi con i reali bisogni e interessi del paziente, con le sue aspettative in merito alle modifiche comportamentali proposte; possibilità di intraprendere e mantenere l’adesione a programmi anche minimi.

L’altro caposaldo è invece la prevenzione delle ricadute (PR) secondo Marlatt e Gordon (1985), un intervento cognitivo-comportamentale che combina procedure comportamentali con tecniche di intervento cognitivo, per aiutare i soggetti a mantenere i cambiamenti di comportamento ottenuti. Il fondamento di una tale prospettiva ai problemi d’abuso di sostanze è il training delle abilità. Tramite tale addestramento, ai pazienti vengono insegnate abilità comportamentali e cognitive quali il resistere alla pressione sociale, l’aumento dell’assertività, il rilassamento e la gestione dello stress e la comunicazione interpersonale. Uno degli obiettivi della prevenzione delle ricadute consiste nell’offrire ad un individuo le competenze e le strategie cognitive necessarie per evitare che un errore si tramuti in una ricaduta completa.

Nel tempo, abbiamo provato a declinare questi momenti all’interno di una vera e propria struttura psicoterapica, ispirati dal lavoro di Denning e Little, Practice Harm Reduction Psychotherapy (2000), in cui – pur piegando la psicoterapia in un senso latamente eretico, laddove essa assume un carattere di trattamento sintomatico, almeno in apparenza – la cura concentra i diversi momenti in un percorso in qualche modo unitario che risponda alle esigenze del paziente. La stessa eventualità di un trattamento farmacologico viene gestita all’interno di una relazione terapeutica compartecipata dal curato. Una “Psicoterapia della riduzione del danno”, infatti, prova a incrementare le capacità decisionali e di autogestione del problema da parte del paziente, evitando l’accanimento terapeutico derivato dal prospettare come unico fine dell’intervento l’astensione completa dalla sostanza. La responsabilizzazione dell’utente è stato anche l’obiettivo di un lavoro di Self Change (Klingemann, 2016), approntato al fine di promuovere un “auto-cambiamento” che attingesse alle risorse personali, naturalmente presenti nei pazienti, e opportunamente favorite e facilitate nei casi più refrattari a percorsi convenzionali; qui l’obiettivo consiste nel non puntare in ogni caso all’astinenza completa, ma anche all’obiettivo minimo della semplice riduzione del consumo e miglioramento della qualità della vita (Zuffa, 20156). Questo livello minimo di intervento risponde a una precondizione essenziale della cura delle dipendenze: la permanenza in trattamento, aspetto che tende al contrasto dei possibili eventi sfavorevoli e che appunto consente la messa in opera di un dispositivo di cura teso in prima istanza alla riduzione del danno.

Conclusioni

La sezione di Alcologia di una U.O.C. Ser.D. 2 deve affrontare il continuo incremento di utenza che da qualche anno si riscontra costantemente. Rispetto alla terapia, si è ritenuto fondamentale una filosofia di fondo che, innanzitutto, dia delle risposte essenziali a una larga fascia di utenti, in modo da raggiungere una parte considerevole delle persone che chiedono aiuto per problemi alcolcorrelati.

Come già sottolineato, un intervento semplice ma rigoroso, scientificamente fondato, riesce a ottenere dei cambiamenti importanti nei consumi e nello stile di vita delle persone in difficoltà, come tutte le ricerche testimoniano in maniera inconfutabile. Questo, nel nostro caso, si è concretato nel protocollo di intervento che abbiamo sommariamente descritto in queste pagine. Naturalmente un intervento di base può essere l’obiettivo primario di un trattamento che si sviluppa ulteriormente con risposte più specifiche, volte ad ottenere cambiamenti strutturali della personalità. Se tale evoluzione rappresenta la condizione ideale, in molti casi i trattamenti si fermano a tale livello basale, ma non bisogna considerare come parzialmente fallimentari le situazioni del genere. Nel campo delle dipendenze patologiche anche la semplice riduzione dei consumi è un risultato non marginale, particolarmente rispetto a una sostanza legale come l’alcol.

Tenendo presente queste considerazioni, l’obiettivo realistico di un servizio alcologico, perseguito attraverso una attenta ricognizione delle risorse cui attingere e delle esigenze cui rispondere, ci obbliga a confrontarci con la necessità di fronteggiare il disagio con i mezzi effettivamente a disposizione, all’interno della dialettica costi/benefici.

La pressante situazione in cui versa la società attuale in materia di consumi alcolici, con l’incremento esponenziale anche in fasce giovanili di popolazione (Fuller-Thomas et al., 2016), le amplissime occasioni di consumo per chiunque voglia farlo e, quindi, l’esposizione di un numero considerevole di persone a problemi alcolcorrelati di diversa natura (Dawson et al., 2005), ci interroga sulle misure da promuovere in merito al tema dell’educazione alla salute. Raggiungere i medici di base, stimolarli e formarli all’intervento breve (IPIB) in questo campo, come appunto dimostrano i diversi studi pubblicati (Bartoli et al., 2001), significa ottenere un livello assistenziale importante e, inoltre, consente di concentrare l’attività delle strutture specialistiche su situazioni particolarmente complesse di disagio.

 

Super Survivors. Come usare la Superhero therapy per affrontare le esperienze traumatiche correlate ai disastri (2021) di Janina Scarlet – Recensione del testo

In Super Survivors, ancora una volta, l’autrice Janina Scarlet ha confermato la sua capacità di affrontare argomenti importanti come traumi, catastrofi, sofferenze psichiche, con rispettosa leggerezza, con giusto equilibrio, senza sfociare nella banalità e superficialità.

 

Scritto e pubblicato in piena pandemia da Covid 19, il testo riprende e racconta in modo anche interattivo, di sessioni di Superhero Therapy, ispirata ai principi terapeutici dell’ACT (Acceptance Commitment Therapy). Non si parla solo di supereroi, ma i protagonisti sono per lo più medici, infermieri e personale sanitario che stanno manifestando sintomi da disturbo da stress post traumatico, o presentando a seguito del forte stress al quale sono stati sottoposti fisicamente ed emotivamente, altre sintomatologie come disturbi da attacchi di panico, disturbo ossessivo compulsivo o manifestazioni emotive che non riescono più a gestire come rabbia, tristezza, angoscia, sensi di colpa, vergogna e ansia.

Turni estenuanti in cliniche ed ospedali, stupore e sgomento per ciò che inizialmente stava accadendo e non si conosceva ancora, persone viste morire lontano dai propri affetti, ritirarsi in casa e mantenere il distaziamento sociale… Questi alcuni tra i vissuti che raccontano i protagonisti del testo. Ma c’è chi sta rivivendo anche traumi passati, come l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle…

Con la narrazione delle varie sessioni, seppur ambientate oltre oceano, il lettore potrà sperimentare una similitudine di vissuto emotivo e leggere utili informazioni e suggerimenti pratici.

L’invito principale che l’autrice rivolge è quello di aprirci alla sofferenza, così come alla paura, non temendo ciò, ma imparando cosa tali vissuti rappresentano, con coraggio ed autocompassione, con vicinanza e connettendoci all’altro, perché come argomenta Janina Scarlet all’interno del suo libro, l’isolamento sociale diviene un’ulteriore variabile dannosa per la salute sia fisica che psichica.

Allora come gran parte dei supereroi, che nascono da perdite e sofferenze, possiamo sperimentare delle ‘battute di arresto’, ma ciò che diventa indispensabile è aprici ed avvicinarci alla propria sofferenza per guarire dalla stessa.

Come?

In tal senso, l’autrice, riprendendo i principi terapeutici dell’ACT, della Self Compassion e strategie di problem solving, invita ad individuare ciò che conta veramente per noi o il cambiamento che vorremmo si verifichi nella nostra vita, cercando concretamente di farne una lista accurata e dettagliata, affinchè la stessa possa diventare la lista dei nostri obiettivi quotidiani, sceglierne giornalmente uno che sia il meno difficoltoso della lista ed applicarlo.

Con impegno, dedizione, costanza e coraggio, potremmo così costruire delle armature più sane e solide, che ci consentano di affrontare il nostro dolore a testa alta, liberi dalla vergogna e divenire tutti noi un po’ ‘fenice’ che si riduce in cenere consapevole di risorgere.

 

L’importanza degli stili genitoriali nello sviluppo del pensiero creativo

Il pensiero creativo consiste nella capacità di produrre e valutare diverse soluzioni alternative per risolvere un problema, tramite un ragionamento flessibile che favorisce la creazione di risposte insolite ed originali ad un quesito (OECD, 2019).

 

Tra i molteplici fattori che possono contribuire allo sviluppo del pensiero creativo degli studenti, la famiglia gioca un ruolo molto importante (Jankowska & Karwowski, 2019; Fan & Williams, 2010), in particolare, una genitorialità adeguata può migliorare in maniera efficace lo sviluppo di alcune competenze, come ad esempio il pensiero creativo, mentre la mancanza di tutoraggio e incoraggiamento non è benefica per lo sviluppo di tali competenze.

La ricerca in questo ambito si è concentrata principalmente su fattori come lo status socioeconomico della famiglia, le dimensioni della famiglia, il numero di fratelli e sorelle (Baer et al., 2005; Jankowska & Karwowski, 2019), tuttavia, l’effetto degli stili genitoriali sul pensiero creativo rimane poco chiaro, così come il ruolo delle variabili demografiche e del background familiare, o le differenze tra sottogruppi.

Pensiero creativo, locus of control e stili genitoriali

Ricerche precedenti hanno inoltre riportato che il locus of control è correlato agli stili genitoriali e al pensiero creativo. Il ruolo degli stili genitoriali sulla formazione del locus of control è ancora relativamente poco conosciuto; In generale, una genitorialità calda e reattiva sembra portare allo sviluppo di un locus of control interno nei bambini, mentre la genitorialità negligente e non reattiva porta ad un locus of control esterno (ad es. Keshavarz & Baharudin, 2012).

Tuttavia, la relazione tra questi tre fattori non è stata studiata prima, pertanto, non è ancora noto se il locus of control medii la relazione tra gli stili genitoriali e il pensiero creativo.

Oltre che il collegamento con il pensiero creativo, lo stile genitoriale sembra essere collegato all’autostima (Baumrind, 1968), costrutto che a sua volta mostra collegamenti con il pensiero creativo (Barbot, 2020).

Uno studio molto recente (Zhao & Yang, 2021), considerando la letteratura appena riportata, ha tentato di esplorare l’associazione tra gli stili genitoriali e il pensiero creativo degli studenti, tenendo in considerazione le variabili demografiche e il background familiare. In aggiunta, è stato analizzato un ipotetico effetto di mediazione da parte di due variabili: locus of control e autostima.

Pensiero creativo e calore emotivo dei genitori

I risultati mostrano che esiste una relazione positiva tra il calore emotivo dei genitori e il pensiero creativo, portandoci alla conclusione che maggiore è il calore emotivo fornito dai genitori, migliore sarà lo sviluppo del pensiero creativo dello studente. Il rifiuto da parte dei genitori, inteso come l’assenza o la mancanza significativa di calore, affetto o amore verso i loro figli, e l’iperprotezione si associano negativamente al pensiero creativo, creando l’effetto opposto. Questo conferma risultati precedenti in letteratura (Gralewski & Jankowska, 2020; Mehrinejad et al., 2015).

È interessante sottolineare che il calore emotivo del padre ha un effetto positivo maggiore sul pensiero creativo dei bambini e ragazzi rispetto a quello della madre, mentre il rifiuto materno e l’iperprotezione hanno un effetto negativo maggiore sul pensiero creativo rispetto a quello del padre.

I risultati confermano inoltre che l’autostima e il locus of control influiscono sulla relazione tra stili genitoriali e pensiero creativo, mediando la relazione tra queste due variabili. Infatti, quando nel modello, in fase di analisi, viene introdotta la variabile dell’autostima, l’effetto dell’iperprotezione dei genitori sul pensiero creativo si trasforma in un effetto indiretto.

Pensiero creativo e stili genitoriali: differenze di genere ed età

Lo studio analizza inoltre le potenziali variazioni della relazione tra stili genitoriali e pensiero creativo nei diversi gruppi. Per quanto concerne le differenze di genere sembra delinearsi una differenza tra maschi e femmine, mostrando che gli stili genitoriali hanno un effetto maggiore sul pensiero creativo delle ragazze. Per quanto riguarda invece l’età, gli stili genitoriali hanno un effetto maggiore sul pensiero creativo degli studenti di età inferiore (e quindi di grado d’istruzione inferiore), specialmente per il rifiuto dei genitori e il calore emotivo. Con l’aumento dell’età (e quindi del livello scolastico raggiunto), i coefficienti degli stili genitoriali sul pensiero creativo diminuiscono ottenendo anche effetti non significativi. Questo risultato sembra essere in linea con i risultati di altri studi (Wei-gang et al., 2006) che sottolineano che la creatività degli studenti più grandi è meno malleabile, questo perché gli approcci, le strategie e le abilità cognitive e non cognitive degli studenti più grandi nell’apprendimento sono essenzialmente stabili, così come il pensiero creativo. In generale, gli stili genitoriali non sembrano rappresentare un fattore chiave che influenza il pensiero creativo degli studenti con grado di istruzione più alto.

Inoltre, come previsto, la relazione tra stili genitoriali e pensiero creativo è diversa per gli studenti con vari background familiari. Forse il risultato più sorprendente è che c’è un potente effetto positivo del calore emotivo dei genitori sul pensiero creativo degli studenti con background familiare non privilegiato, cioè quelli provenienti da zone rurali, con molti fratelli, o con padri meno istruiti.

Conclusioni

In conclusione, come per altre abilità, una formazione mirata e adeguata può promuovere il pensiero creativo (Fleith et al., 2002). Il calore emotivo dei genitori gioca un ruolo più forte per le ragazze, il che implica che gli interventi mirati alle ragazze con scarso pensiero creativo possono portare a rendimenti più elevati, quindi intervenire sui genitori può colmare il divario di genere nel pensiero creativo. Inoltre, dato che il calore emotivo dei genitori ha un basso effetto sul pensiero creativo degli studenti di grado superiore, non sarà un fattore chiave per il pensiero creativo degli studenti più grandi. Questo suggerisce che la compensazione tardiva è spesso inferiore allo sviluppo delle competenze precoci nello sviluppo del pensiero creativo (Heckman & Mosso, 2014). Inoltre, gli interventi mirati per gli studenti svantaggiati possono portare a rendimenti più elevati e colmare il divario nel pensiero creativo causato dalle variazioni del background familiare. Pertanto, i responsabili politici possono aiutare gli studenti svantaggiati a sviluppare il pensiero creativo per potenziare efficacemente il loro sviluppo successivo introducendo una guida parentale di qualità (Gertler et al., 2014).

 

È stata la mano di Dio (2021) di P. Sorrentino – Recensione del film

È stata la mano di Dio, il film di Paolo Sorrentino candidato all’Oscar 2022, è la rappresentazione di un lutto che riecheggia, segna la vita e genera creatività. Un’immersione nel passato che travolge. Il trauma di cui finalmente il regista sembra liberarsi dando in pasto agli spettatori i propri vissuti emotivi

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Una bolla di ricordi in cui la resilienza creativa spicca, spacca, smuove e commuove. Il trauma di cui finalmente il regista sembra liberarsi dando in pasto agli spettatori i propri vissuti emotivi, con abilità cinematografica, orgoglio e umiltà e abbandonando per una volta l’immagine del “protettore distaccato”.

È stata la mano di Dio, il film di Paolo Sorrentino candidato all’Oscar 2022, è la rappresentazione di un lutto che riecheggia, segna la vita e genera creatività. Un’immersione nel passato che travolge. “Tuuf, tuuf”, lo schiaffo del motoscafo offshore sull’acqua, scandisce un refrain di suoni che lo portano a rivivere la sua vita, come se fosse il nastro riavvolto di un percorso terapeutico.

La pellicola del regista de La grande bellezza però parla soprattutto un linguaggio psicologico, intimo, elabora un vissuto traumatico, regalando così al grande pubblico la parte più vulnerabile del suo autore: disvela la sua sofferenza che sembra essere l’origine dell’esaltazione estetica, della bellezza, dell’erotismo, dell’eccesso come antidoto alla tristezza, tratto caratteristico della sua opera cinematografica.

Il film reclama infatti (volutamente?) concetti cari alla psicologia: la colpa del sopravvissuto, il mito salvifico (Maradona), l’attaccamento, le fasi del lutto: dalla rabbia all’accettazione e alla capacità di reinvestire su altri scopi; affronta il tema complesso della perdita: la tendenza verso la fuga e poi il ritorno in un dinamico conflitto fra distacco e appartenenza. Offre spunti di riflessione sul quel duro e al contempo adrenalinico passaggio fra adolescenza ed età adulta, sulla separazione e l’individuazione. Seppure potrebbe non essere un evento autobiografico, ma una mera costruzione artistica, la scena di sesso con l’anziana nobildonna che inizia Fabietto al piacere sembra rappresentare un trauma nel trauma che paradossalmente scuote il protagonista, tirandolo fuori dalla stasi in cui lo aveva costretto il dolore.

La morte e il trauma, come la città di Napoli, nel film, fungono da sfondo e da cornice alla scelta creativa, cinematografica, futura, del giovane e, per noi spettatori, retrospettivamente, a tutte le opere di Paolo Sorrentino.

Un continuo flusso di ricordi che tornano, montati quasi fossero una narrazione del regista che da esterno racconta il suo processo interiore di elaborazione del proprio vissuto doloroso passando per i ricordi più ancestrali come il “Monaciello” che rappresenta la doppia faccia della natura, al contempo magnanima e dispettosa.

Appare interessante come la pellicola viene prodotta in un periodo che porta con sé qualcosa di traumatico, vale a dire la pandemia, che certamente risveglia tematiche di lutto, morte e solitudine. Sembra plausibile pensare che vi sia una connessione tra il clima pandemico durante il quale il film viene concepito e il trauma narrato nel film.

Una madre che si diverte a fare scherzi, una giocoliera con un carattere meravigliosamente dolce che soffre per un tradimento, una famiglia unita, scherzosa e il dramma improvviso che irrompe e trasforma tutto.

“Ti hanno abbandonato! Non ti disunire! Devi piangere! Devi riprenderti la vita”.

Come nello stile sorrentiniano, il film offre una carrellata di personaggi, tipi umani, tipi psicologici, diversità espresse in ogni manifestazione, tipizzando le emozioni quali la rabbia (la donna che fagocita la mozzarella), la vergogna e al contempo la gelosia (del marito della zia che con fare istrionico seduce alla vita), la tristezza (che appartiene in qualche senso a tutti i protagonisti).

Tutte figure che cercano di smuovere un dolore ancora vivo, seppure lenito da un’estetica meravigliosa e da un’ironia travolgente, catapultando lo spettatore fra risate e pianto, fra comico e tragico, con un saliscendi di dolore che non dà tregua.

Non mancano la descrizione del vuoto e delle strambe e stravaganti forme di riempimento, la sofferenza psicologica e la volontà di combatterla o affrontarla, fra esuberanza e creatività.

La cornice resta la bellezza in sincretismo con l’erotismo “napoletano”, sincero, senza vergogna, spudorato, che si mescola a un materno tanto giocoso quanto disperato. La donna come filo costante della sua ispirazione che ti conduce a cogliere in ogni minimo dettaglio “gli sparuti, incostanti, sprazzi di bellezza” che decantava nel film già premio oscar.

Sembra come se il protagonista nel dolore cercasse il piacere, passando per il sesso e provando poi a superare la colpa, finché non realizza che il cinema, il suo mezzo, gli serve per affrontare una “deludente realtà”.

Un film autentico che porta chi guarda a rivivere la storia del regista, fin dentro al suo trauma: una catarsi, che rappresenta l’ineluttabile compiutezza di una fase cruciale della sua vita, una sintesi nel senso greco del termine che unisce e integra e ri-scrive gli scenari traumatici.

L’opera tutta spinge sulle emozioni, senza però trascurare tecnica e acrobazie cinematografiche in cui ogni personaggio ritorna, reclamando i precedenti film di cui il regista ci ha già omaggiati: i topos dei suoi film, le memorie incostanti di personaggi, vestiti, luci, dettagli, gli affreschi umani che hanno costellato i suoi ricordi. Questa storia però, così intima, stimola empatia e solletica le lacrime di chiunque abbia vissuto una perdita o la teme. È la perfezione di una creatività dolorosa che afferra l’emotività e la porta a spasso nei cieli della cinematografia.

 

Oltre i genitali. Introduzione alla fluidità di genere

Cosa si intende per fluidità di genere? Possiamo parlare di un binarismo di genere quando ci riferiamo al cervello? Come vivono le persone gender fluid nella società contemporanea? Possiamo dire che l’identità di genere ci è involontariamente assegnata da una cultura eterocentrica? Passando in rassegna il dibattito neuroscientifico e alcuni contributi psicodinamici si è cercato di rispondere a queste domande.

 

Per iniziare

È necessario definire quelli che sono dei termini utili ad una migliore comprensione del seguente articolo.

Sesso e genere sono due termini che, nel linguaggio comune, potevano essere visti come intercambiabili, eppure c’è una sostanziale differenza. Il termine “sesso” include le caratteristiche strutturali, fisiologiche e funzionali degli individui determinate dai cromosomi sessuali, sottintendendo dunque una divisione dicotomico-organica del tipo maschio/femmina; “genere” viene invece a riferirsi al modo in cui una persona può auto-rappresentarsi come maschio o femmina (Torgrimson & Minson, 2005).

Il “ruolo di genere” è definibile come ciò che in una società ci si aspetta da una persona appartenente ad un determinato sesso biologico (Ordine degli Psicologi del Lazio, 2015): però questo concetto di per sé esclude sia tutte le persone “intersessuali” – in cui caratteristiche considerate maschili o femminili possono essere presenti in una certa misura in uno stesso individuo e non possono essere attribuibili a una condizione medica: una caratteristica che non preclude né l’“orientamento sessuale” (cioè poter avere attrazione romantica e/o sessuale di tipo etero, gay, lesbica, bisessuale, asessuale etc.) né l’identificazione con un genere preciso – (United Nation for LGBT Equality, 2017) che le persone “transgender” – cioè che sentono di appartenere ad un genere diverso dal loro sesso.

I termini “genderqueer”, “fluidità di genere” o “non binary” indicano un genere che non è né maschile né femminile o che può identificarsi sia come maschio che come femmina contemporaneamente (Richards, Bouman et al., 2016). Il concetto di “espressione di genere” è individuabile in quei comportamenti associati a un’espressione di modi culturalmente definiti di comunicare la mascolinità e/o la femminilità, o un rifiuto di questi stereotipi (magari tramite abbigliamento, acconciatura, linguaggio) (Matsuno & Budge, 2017).

L’influenza dell’ambiente: cervello dimorfico o intersessuale?

Consultando la letteratura, si riscontrano proliferanti studi neuroscientifici circa un’eventuale dicotomia: possiamo dire che il cervello è maschile o femminile?

Cahill (2006) ha riportato come non ci fossero prove del fatto che le influenze sessuali potessero differire dall’effetto che in media altre varianti potrebbero avere sulle funzioni cerebrali e che, quindi, non si potessero sottostimare le differenze tra cervelli di sessi diversi. Una maggiore proporzione di materia bianca e di ippocampo nei maschi, di materia grigia nelle femmine, l’amigdala più grande nei maschi e la corteccia ventrofrontale più grande nelle femmine potrebbero però rivelare differenze funzionali non chiare: il cervello non opererebbe secondo circuiti neurali già definiti alla nascita, ma selezionerebbe le sue connessioni sinaptiche in base all’ambiente sociale, fisico e sensoriale nel quale sono immersi secondo un processo di plasticità neurale (Eliot, 2013).

Penn Medicine nel 2013 ha riportato come da uno studio sia risultato che le femmine avessero un punteggio più alto in compiti di attenzione, memoria di parole e volti e test di cognizione sociale; i maschi invece avevano mostrato risultati migliori nell’elaborazione spaziale e nella velocità sensomotoria: differenze che si andavano ad evidenziare particolarmente dopo i 14 anni.

Si è pensato che i livelli di testosterone prenatale potessero influenzare le capacità cognitive e quindi intervenire nelle modalità di apprendimento generale, nel successo nella matematica, nell’uso della parola (Hines, 2007) o ad un aumento della densità della materia grigia nelle strutture diencefaliche del lato destro nei maschi (Lenroot & Giedd, 2010). In un esperimento, però, studenti universitari maschi e femmine con background matematico equivalente sono stati testati in una condizione di deindividuazione – cioè di anonimato: ad un gruppo di partecipanti fu detto che il test di matematica al quale sarebbero stati sottoposti aveva mostrato precedentemente delle differenze tra i sessi, mentre ad un altro gruppo era stato comunicato che il test si era dimostrato non essere soggetto a queste differenze. L’esperimento mostrò come nella condizione in cui i partecipanti sapevano del test equo non si rivelarono differenze tra maschi e femmine nelle prestazioni, differentemente da quanto emerso nel gruppo di coloro che si aspettavano queste discordanze. Questa manipolazione del contesto dimostrò come le differenze nelle prestazioni possano in un qual modo dipendere dall’ambiente nel quale il soggetto è inserito e che non siano differenze stabili (Hyde, 2005).

Le differenze nella struttura neurale degli adulti possono risultare da una vita di esperienze differenziate in base al sesso piuttosto che da una diversa e più rigida struttura di connessioni. Quando gli ambienti etichettano gli individui, si potrebbero dunque andare a evidenziare le differenze e a sviluppare maggiori pregiudizi intergruppo, inibendo l’interazione positiva e cooperativa con membri di altri gruppi, che potrebbe migliorare invece le relazioni (Halpern, 2011). Il modo in cui l’ambiente influenzerebbe le strutture cerebrali andrebbe rivalutato: numerosi sono infatti gli studi (Gurvits et al., 1996; Gilbertson et al., 2002; Woodward et al., 2006; Morey et al., 2012; Knutson et al., 2013; Henigsberg et al., 2019) che hanno rilevato una riduzione della dimensione dell’ippocampo negli individui che sono stati soggetti a forti stress e che hanno sviluppato PTSD, come ad esempio i veterani del Vietnam; inoltre, si è visto come i tassisti londinesi in pensione che avevano memorizzato 25mila percorsi, mostrassero un cervello più grande di tassisti apprendisti che lavoravano su tragitti fissi o come giocare a videogiochi sia un predittore più affidabile delle abilità spaziali rispetto al sesso biologico: le esperienze che cambiano il cervello possono essere diverse per uomini e donne perciò, se un gruppo è più propenso a impegnarsi in un’attività rispetto a un altro, ciò determinerà il successo in un’abilità (Rippon, 2019).

Nonostante questo, continuano ad emergere studi sulle differenze di funzionamento dei cervelli. Ad esempio mentre il cervello maschile svilupperebbe connessioni per aumentare la comunicazione intraemisferica, in quello femminile la comunicazione sarebbe maggiormente interemisferica: seppur non si riscontri una differenza statisticamente significativa nell’interazione età-sesso (cioè non si rilevano differenze nella traiettoria degli effetti dello sviluppo maschile o femminile), si riscontra comunque una divergenza nella dimensione delle varie zone cerebrali e nella creazione di reti neurali (più dense nei maschi e a lungo raggio nelle femmine) (Ingalhalikara et al., 2014). Ancora, è risultato come i maschi, in media, abbiano un cervello di taglia maggiore delle femmine ma è stato ipotizzato come le differenze tra i sessi nelle dimensioni del corpo calloso (che permette la connessione tra i due emisferi) possano essere conseguenze di variazioni allometriche e non di caratteri sessuali specifici: queste differenze morfologiche, che potrebbero influenzare le funzioni esecutive, l’intelligenza o la connettività, potrebbero essere associate a fattori intrinseci, come modelli di connettività e volumi delle fibre neurali, ma possono essere anche conseguenze di componenti estrinseche, come l’influenza di pressioni esercitate dagli elementi cerebrali circostanti (Bruner et al., 2012).

Si è ipotizzato come le interpretazioni dei vari risultati emersi dalle analisi di fMRI potessero in un qual modo essere distorte per andare a favore degli stereotipi di genere: quando si attribuirono le funzioni cognitive superiori ai lobi frontali, quest’area è stata trovata più grande negli uomini che nelle donne; quando invece si suggerì che la cognizione avveniva nelle aree parietali, i nuovi dati mostrarono come questi fossero più piccoli nelle donne. In alcuni studi, dunque, si sarebbe stati soggetti al fenomeno della “profezia che si autoavvera”, andando a confermare degli stereotipi come quello che le donne siano più emotive degli uomini (Bluhm, 2014).

In quanto documentate, le differenze nella dimensione e morfologia del cervello, nella composizione dei neuroni, nel contenuto di neurotrasmettitori, non possono che evidenziare una presenza di divergenze ma l’idea che le differenze di sesso nel cervello portino a differenze di sesso nel comportamento può essere messa in discussione. Un cervello dimorfico non considera le manipolazioni prenatali e postnatali (ad esempio, l’esposizione allo stress da sbarramento, la separazione materna, le condizioni di allevamento, stress postnatale acuto e cronico, esposizione a farmaci psicoattivi, anestesia) che si sono dimostrate invertire, abolire, creare o esagerare le differenze di sesso in esperimenti sul cervello di topi. Questi fattori quindi possono cambiare alcune caratteristiche ma non altre, creando un mosaico cerebrale talmente eterogeneo che non è possibile nemmeno inserirlo in un continuum tra un “cervello maschile” e un “cervello femminile”. Si possono perciò avere diverse combinazioni di caratteristiche cerebrali tanto da poter definire il cervello come “intersessuale” (Joel, 2011). Il modo più appropriato per riferirsi alle varie conformazioni del cervello non può limitarsi ad una terminologia quantitativa quanto piuttosto qualitativa – forma maschile, forma femminile. Anche se ci sono differenze tra i sessi nella struttura cerebrale, i cervelli non possono rientrare in due classi dicotomiche rigide perché ogni cervello è unico (Joel et al., 2015).

È però importante notare come l’esistenza di differenze nell’incidenza di un disturbo, ci imponga di approfondire le influenze del sesso nella ricerca per trattare i vari disturbi (Cahill, 2006): la prevalenza, l’età di insorgenza e la sintomatologia di molte condizioni neurologiche e psichiatriche differiscono sostanzialmente tra maschi e femmine, come nei casi di autismo, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbo della condotta, disturbo specifico del linguaggio, sindrome di Tourette, depressione, disturbo d’ansia e anoressia nervosa (Baron-Cohen et al., 2011; Ruigrok et al., 2014). A questo proposito andrebbe fatto un appunto: nel caso della maggiore vulnerabilità del sesso femminile a sintomi d’ansia e depressione, si è visto come in questo caso i fattori socio-culturali possano causare sintomi depressivi maggiormente nelle donne a causa delle discriminazioni di genere che subiscono (Kuehner, 2017). Infatti, in un gruppo sociale eterogeneo le donne possono essere soggette a certi fattori sociali che creeranno una vulnerabilità alla depressione; in un gruppo di carattere omogeneo nel quale le differenze di genere non hanno un peso rilevante, questo divario può essere meno marcato (Parker & Brotchie, 2010).

Verso un’identità di genere più fluida: una panoramica psicodinamico-analitica e culturale

Freud (1905) inizialmente ritenne l’omosessualità come un’inibizione del normale sviluppo psicosessuale ma ciò non avrebbe rappresentato un ostacolo allo sviluppo di altri aspetti della personalità del soggetto: l’orientamento omosessuale era riscontrabile infatti sia in persone che si distinguevano per uno sviluppo intellettuale ed una cultura etica particolarmente elevati, sia in coloro che non mostravano discostarsi dalla norma. Sempre in Freud, gli esseri umani nascerebbero tutti bisessuali e poi, con lo sviluppo, la maggior parte sarebbe diventata eterosessuale, seppur tali tendenze rimarrebbero a livello latente: tale disposizione bisessuale deriverebbe dall’identificazione inconscia con aspetti dei genitori di entrambi i sessi e, una volta sublimate, le tendenze omoerotiche costituirebbero la base delle amicizie tra persone dello stesso sesso (Crapanzano, 2019).

Parlando dell’universalità della tendenza bisessuale, Freud esprime più di una perplessità circa la cura degli omosessuali e ammette di considerare la scelta dell’oggetto eterosessuale come un fenomeno altrettanto enigmatico quanto quella omosessuale, tanto che l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che ha bisogno anch’esso di essere chiarito poiché non è affatto cosa ovvia, sottolineando inoltre quanto il mondo contemporaneo guardi più all’oggetto dell’amore piuttosto che alla pulsione amorosa (Lingiardi, 1997). Non possiamo dunque dire che esista il tipo psicologico dell’omosessuale: “Esistono gli omosessuali, cioè persone, dei tipi più svariati, che desiderano e amano persone anatomicamente dello stesso sesso. Un problema degli psicoanalisti è proprio quello di continuare a pensare all’omosessualità senza riuscire a pensare agli omosessuali” (Lingiardi, 1997 pg. 2).

Allontanando l’idea della perversione o parafilia, “l’omosessualità implicherebbe una disposizione sessuale e un insieme di attività sessuali che possono essere tanto ampie, flessibili e ricche quanto l’impegno eterosessuale; e così come esiste negli omosessuali uno spettro clinico che va dalla salute alla psicopatologia, questo è riscontrabile anche negli eterosessuali” (Kernberg, 2002 pg. 4). Inoltre, il genere è biologicamente determinato, così come lo è culturalmente. Il nucleo dell’identità di genere, dato dal senso soggettivo di essere maschio o femmina, è identificato dalla società e, sebbene l’identità di genere inizi con l’assegnazione del sesso, alcune ricerche ricondurrebbero l’identificazione del genere ai fattori biologici (Kernberg 2002).

Riprendendo la tesi del Complesso di Edipo freudiano (secondo la quale il bambino si identificherebbe nel genitore dello stesso sesso per provare attrazione nei confronti del genitore del sesso opposto per sviluppare, dunque, un orientamento eterosessuale), Mario Mieli introdusse il termine “transessualità” intendendola come “la disposizione erotica polimorfa e indifferenziata infantile, che la società reprime e che, nella vita adulta, ogni essere umano reca in sé allo stato di latenza oppure confinata negli abissi dell’inconscio sotto il giogo della rimozione” (Mieli, 1977 pg.19). Per lui, il bambino non conosce limiti fin quando la cultura etero-normativa non lo induce a considerare l’eterosessualità la normalità delle cose, secondo un processo che definisce di “educastrazione”. L’adulto perciò dovrebbe riappropriarsi del bambino-rimosso in modo da potersi riappropriare di un eros polimorfo. Il transessualismo di Mieli va oltre la semplice bisessualità e non è intendibile come il transessuale che non si riconosce nel corpo in cui è nato, ma come una persona che vive il suo eros indipendentemente dal corpo nel quale vive (Mieli, 1977): eliminando dunque una distinzione tra generi, apre ad un proto-queer.

Il genere serve come principio che organizza gli individui per elaborare informazioni su sé stessi e sul mondo esterno. Un’identità di genere che si basi esclusivamente sulla mascolinità implicherebbe la netta separazione dal suo opposto femminile e viceversa. Tuttavia, quelli con una identità di genere femminile possono dirsi non interessati ad argomenti quali moda o al semplice interagire con altri: elementi, questi, che rientrerebbero nei ruoli e comportamenti che ci si aspetta sulla base del loro genere femminile; allo stesso modo, individui con un’identità di genere maschile potrebbero essere visti come poco mascolini se non interessati al calcio o se non particolarmente aggressivi (Spence, 1993).

I confini etero-normativi e patriarcali, ritenuti troppo stretti dalle nuove generazioni, hanno fatto sì che alcuni soggetti potessero sentirsi non accuratamente descritti dai termini maschile/femminile oppure descritti da entrambi. In Jung si potrebbe riscontrare infatti come l’offuscamento del binarismo di genere, sia una manifestazione di un’energia archetipica androgina (Gosling, 2018): prendendo in prestito il mito degli androgini di Platone vedremmo come “l’androgino era un’unità per forma e per nome, essendo costituito dal maschio e dalla femmina insieme” e come inizialmente “tre erano i generi degli uomini, e non due come ora, maschio e femmina, ma c’era anche un terzo genere che metteva in comune gli altri due: l’androgino” (Platone, IV secolo a.C., in Veneziani, 2012 pgg.13-15). Poiché le norme culturali, come il genere, posso essere definite fluide, gli individui dunque starebbero esprimendo in maniera più fluida e creativa l’energia archetipica junghiana (Gosling, 2018).

Ma è giusto dire che la fluidità di genere è una questione solo delle nuove generazioni? Se pensassimo a David Bowie, no: i personaggi di Bowie rappresentavano già negli anni ‘70 la sua lotta contro le restrizioni della regolamentazione culturale mettendo in atto un cambiamento che potesse essere utile ad ampliare le numerose sfaccettature dell’identità (Bradley & Page, 2017).

Mancanza di riconoscimento identitario e salute mentale

Classificare le azioni e attribuire la condotta e le pratiche umane all’interno di categorie ben precise consente una regolazione culturale: c’è una pressione culturale sul soggetto perché si comporti secondo le aspettative in modo da essere sanzionato per comportamenti inappropriati (Bradley & Page, 2017).

Nel corso degli anni si sono sviluppati degli approcci riparativi dell’omosessualità per rinforzare le attività e lealtà tipiche del genere, sollevando non poche questioni etiche e non considerando il genere come uno spettro fluido e la non conformità di genere al sesso come una normale variazione umana (Malpas, 2011). Riguardo ciò, l’American Psychological Association (APA) si è espressa raccomandando terapie accoglienti e supportive nel rispetto dei valori sociali, religiosi e relazionali, volte a ridurre stigmi, pregiudizi e discriminazioni degli individui e delle loro famiglie: la forte preoccupazione verso queste terapie riparative ha fatto sì che venisse espresso un parere contrario ad esse (Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, 2010).

Quando persone dall’identità fluida giungono in terapia, si dovrebbe tener conto delle loro esperienze come più complesse e moltiplicate e solo in tal modo si potrebbero avere risultati sulla loro salute mentale. Si dovrebbe tenere a mente di come alcuni omosessuali, transessuali o gender fluid possano essere a rischio di sviluppare “stress da minoranza” perché maggiormente discriminati, con conseguenti problemi di apprezzamento del proprio corpo (Richards et al., 2016; Becker et al., 2017; Tabaac et al., 2018).

Gli individui con un’identificazione non binaria possono manifestare maggiori vulnerabilità a problemi psicologici rispetto agli individui con identità binaria (cis- o trans-): questo perché, non conformandosi alle aspettative di un contesto sociale che prevede un binarismo di genere, provano maggiori difficoltà nel relazionarsi con gli altri e sono sottoposti a un maggiore stress (de Graaf et al., 2021). È proprio la mancanza di riconoscimento della propria identità di genere che alimenta sentimenti di insicurezza, bassa autostima e problemi emotivi (Nicholas, 2019). L’invalidazione identitaria alla quale sono soggetti, aumenta anche il dubbio su sé stessi e la vergogna interiorizzata (Johnson et al., 2019).

È bene ripetere come l’identificazione in un genere fluido (non-binario) è un concetto diverso dalla transessualità, che prevede che l’individuo non si senta a suo agio nel corpo in cui è nato. Infatti si sono riscontrate differenze tra questi due gruppi: gli appartenenti al genere fluido hanno mostrato punteggi più alti rispetto ai soggetti cis-gender nella disforia di genere, ma più bassi rispetto a individui transgender binari; inoltre, transessuali binari hanno riscontrato preoccupazioni riguardo il corpo maggiori rispetto ai soggetti fluidi (Kennis et al., 2021).

Il rispetto per l’identità di genere altrui passa anche dal linguaggio: si sono portate avanti proposte lodevoli che possano aumentare l’inclusività e la sensibilità verso l’argomento in questione, ma al momento non ci sono proposte che non comportino ripercussioni sulla grammatica o sulla lingua parlata (Jones & Mullany, 2016; Moser & Devereux, 2016).

 

Psicoterapia delle psicosi (2021) di Michael Garrett – Recensione del libro

Psicoterapia delle psicosi riassume le attuali teorie biologiche e psicologiche sull’eziologia della psicosi, presenta una possibile integrazione degli approcci CBT e psicodinamico ed infine descrive la realtà attuale del trattamento, suggerendo un modello di cambiamento.

 

L’autore, psichiatra e psicoterapeuta con una grande esperienza nell’ambito del trattamento delle psicosi, introduce il suo libro facendo una premessa: il bisogno di una scelta “coraggiosa” nell’ambito del servizio pubblico, cioè l’integrazione della farmacoterapia, che predomina attualmente gli interventi, con la psicoterapia e, in linea con il concetto di recovery, con interventi familiari, la psicoterapia centrata sulla resilienza, il lavoro assistito. Citando una serie di ricerche recenti e tenendo presente la sua esperienza clinica, gli interventi che lui sostiene siano più efficaci sono un ridotto apporto di antipsicotici (per ridurre i sintomi acuti e prevenire le ricadute) e la psicoterapia come pilastro.

“Harrow e colleghi (2017) hanno monitorato gli esiti clinici in un gruppo di pazienti con diagnosi di schizofrenia per vent’anni. Al traguardo dei quindici anni, solo il 10-20% aveva un esito relativamente positivo (recovery), mentre il 25-35% presentava sintomi psicotici cronici senza remissione. I restanti pazienti mostravano un decorso intermittente e variabile. I pazienti ai quali non erano stati prescritti antipsicotici manifestavano un numero significativamente inferiore di sintomi e condizioni lavorative migliori rispetto a quelli a cui erano stati prescritti (Harrow, Jobe, Faull, 2014). I dati longitudinali indicano che, nella maggior parte dei pazienti, i neurolettici a lungo termine non ripristinano la capacità funzionale premorbosa (Harrow et al., 2017).”

Il libro è strutturato in tre parti.

Nella prima parte viene fatta una rassegna sulle attuali teorie biologiche e psicologiche sull’eziologia della psicosi e viene proposto un modello che le integri.

Viene spiegato come la CBT è la tecnica più adatta a mostrare ai pazienti di essere incorsi in un errore che ha comportato una credenza letteralmente falsa, mentre la psicoterapia psicodinamica li aiuta a scoprire perché quel particolare errore esprima una verità figurativa.

Chi vuole comprendere il mondo delle psicosi, può scoprire come si applica la teoria delle relazioni oggettuali alla vita mentale normale di bambini e adulti, estendendo questo schema per includere la comprensione dei deliri e delle allucinazioni. Secondo l’autore, i sintomi psicotici sono espressioni significative della vita mentale della persona psicotica, analogamente a come un’opera teatrale è un’espressione significativa dell’immaginazione e dell’esperienza di vita del drammaturgo. Viene analizzato anche il linguaggio nelle psicosi, come le associazioni non convenzionali (allentamento delle associazioni), i disturbi nella formazione dei simboli e l’uso di metafore concrete piuttosto che figurative. “La metafora concreta congela la risonanza emotiva, che altrimenti emergerebbe all’esterno tramite penose sequenze associative, trasformandola in una cosa concreta che ha perso la sua vitalità emotiva”.

Nella seconda parte viene descritta una tecnica che integra gli approcci CBT e psicodinamico. È interessante leggere cosa hanno in comune (anche come concetti, come per esempio quelli di “schema” e quello di “fantasia inconscia”) e in cosa si differenziano i due approcci, nel caso del trattamento delle psicosi, nonché cosa porti ognuno di utile e cosa invece sembra meno utile, per poi capire come utilizzare entrambi in maniera flessibile, come in una danza. Sono descritti anche dei criteri per valutare l’idoneità dei pazienti al trattamento e viene dato spazio a come affrontare i sintomi negativi e i disturbi del pensiero. Viene poi descritta la tecnica dell’autore nelle sue 9 fasi:

  • Ingaggiare il paziente.
  • Sollecitare il paziente a raccontare la sua storia: la linea temporale e la valutazione iniziale.
  • Discutere la realtà con un individuo psicotico.
  • Valutare le capacità di coping.
  • Presentare tre modelli alla base della cbtp: il modello di vulnerabilità allo stress della psicosi; il continuum tra psicosi e vita mentale normale; il modello cognitivo mediato dalle credenze A-B-C (l’evento attivante A porta alla credenza B e provoca conseguenze emotivo-comportamentali angoscianti C).
  • Lavorare con formulazioni CBTp e psicodinamiche.
  • Lavorare con le voci e altre tecniche CBTp.
  • Sfidare i deliri.
  • Sfidare i deliri attraverso l’interpretazione psicodinamica dei sintomi psicotici.

La sezione viene arricchita di 2 casi clinici, presentati in modo dettagliato, con la descrizione delle sedute, con frammenti di colloquio e l’impiego delle tecniche CBT e psicodinamiche.

Nella parte terza l’autore descrive la realtà attuale del trattamento delle persone psicotiche nel settore pubblico e suggerisce un modello di cambiamento. Attualmente ci si confronta con un sovraffollamento della richiesta, da una parte, e la pressione delle casse assicurative di ridurre i termini di degenza, la scarsità del personale (che porta al burnout e turnover). In questo contesto, l’autore propone la psicoterapia come un aiuto nell’affrontare le difficoltà della sanità mentale pubblica: nel ridurre le riammissioni e la violenza, dimettere i pazienti in lungo degenza in sicurezza, ottenere un miglioramento clinico nei pazienti ambulatoriali cronicamente psicotici e alleviare il burnout del personale. Mentre i requisiti per migliorare il servizio implicherebbero insegnanti esperti per formare il personale in prima linea e fornire una supervisione continua, e un’organizzazione che permetta ai medici di incontrare i pazienti per la psicoterapia per quarantacinque minuti ogni settimana.

Per i terapeuti che sono curiosi e/o appassionati dalle psicosi, è un libro da leggere, non facile ma interessante.

 

Dark Dreams Are Made of This: esiste una relazione tra la Triade Oscura e i sogni aggressivi ed erotici?

Negli ultimi vent’anni nel campo della personalità è stata proposta la nozione di Triade Oscura per riferirsi a tre tratti che denotano caratteristiche “malevole”. Cosa sognano gli individui con tali caratteristiche? È possibile che i loro sogni presentino più contenuti aggressivi e sessuali rispetto alla popolazione generale?

 

Con la nozione di Triade Oscura ci si riferisce a tre tratti che denotano caratteristiche “malevole”: essi sono il machiavellismo, il narcisismo e la psicopatia. Tali tratti condividono allo stesso modo una base di egoismo e insensibilità, con particolarità uniche associate a ciascuno dei tre. Il machiavellismo è caratterizzato da cinismo e uso di strategie calcolatrici, il narcisismo da grandiosità e vanità e la psicopatia comporta impulsività e un freddo orientamento interpersonale. Gli individui all’estremità del continuum appaiono come ingannevoli, aggressivi, sessualmente promiscui e coercitivi. Questi comportamenti apparentemente avversi potrebbero, infatti, essere parte di una serie di comportamenti adattivi che indicano una “strategia di vita veloce”, ovvero una visione della vita caratterizzata da maggiore violenza, un elevato interesse per la sessualità e una condotta prettamente impulsiva. Poiché la “strategia di vita veloce” è associata ad abitudini sessuali promiscue e a uno stile interpersonale aggressivo (Figueredo & Jacobs, 2011), è possibile che sia correlata a una vita onirica dal contenuto parimenti aggressivo, coercitivo e sessuale. Questa tipologia di sogni potrebbe essere vista come un insieme di simulazioni adattive della “strategia di vita veloce” e potrebbe essere più comune tra i sognatori con i tratti di personalità della Triade Oscura.

Triade oscura, aggressività e sessualità

Coerentemente con quanto affermato, lo studio di Lyons et al. (2018) ha indagato se gli individui con un punteggio alto nei tratti della Triade Oscura sognano più spesso temi aggressivi e sessuali rispetto agli individui che hanno riportato un punteggio basso.

Nello studio sono stati coinvolti 265 giovani inglesi mediamente ventunenni. I ricercatori hanno condiviso online (social networks, pagine web) un sondaggio intitolato “Ci esercitiamo mentre sogniamo?”, coinvolgendo anche  gli studenti del primo anno di psicologia in cambio di crediti formativi universitari.

Per raccogliere informazioni rispetto al machiavellismo, al narcisismo e alla psicopatia i ricercatori hanno utilizzato la versione breve (27 item) del “Dark Triad Questionnaire” (Jones & Paulhus, 2014). Ad ogni tratto corrispondono nove quesiti a cui assegnare una preferenza su una scala a cinque punti (1=totalmente in disaccordo, 5=totalmente d’accordo). Un esempio di item per ogni tratto potrebbe essere “Non è saggio condividere i propri segreti” (machiavellismo), “So di essere speciale perché tutti me lo dicono” (narcisismo) “Posso essere cattivo nei confronti degli altri” (psicopatia).

Per indagare i contenuti aggressivi dei sogni, i ricercatori hanno usato tre quesiti dalla Dream Motif Scale (Yu, 2012)-fighting subscale, una scala a 5 punti, aggiungendo il quesito “essere violenti o aggressivi verso agli altri”.

Per analizzare i contenuti erotici dei sogni è stata utilizzata la Dream Motif Scale (Yu, 2012)-sex subscale, aggiungendo quesiti sull’attività sessuale (fare sesso con il proprio partner, con uno sconosciuto o con tante persone diverse).

Sogni aggressivi e sessuali nella Triade Oscura

Dai risultati è emerso che tutti e tre i tratti hanno una correlazione positiva con la frequenza dei sogni aggressivi e sessuali. Nello specifico, la psicopatia e il machiavellismo sono predittori significativi dei sogni connotati da aggressività, mentre la psicopatia e il narcisismo sono predittori positivi dei sogni a sfondo sessuale. È plausibile che le differenze comportamentali riguardo lo stato di veglia tra ciascuno dei tratti della Triade Oscura si possano spiegare attraverso l’ipotesi della continuità, la quale propone che il contenuto del sogno rifletta semplicemente il contenuto della propria vita durante il periodo di veglia e non debba svolgere necessariamente una funzione di adattamento (Schredl & Hofmann, 2003). A sostegno di questa ipotesi, i dati confermano che gli individui che assumono comportamenti aggressivi da svegli avranno più probabilità di fare sogni aggressivi (Schredl & Mathes, 2014), mentre coloro che hanno una vita sessuale attiva quotidianamente faranno più sogni caratterizzati da dinamiche sessuali (Yu, 2013).

 

Il lato oscuro dei social media: FOMO, stalking, competizione e affaticamento

Con la proliferazione dell’uso dei social media, gli studiosi hanno rivolto la loro attenzione alle implicazioni psicosociali di tali comportamenti, tra questi troviamo la FOMO, ovvero la ‘paura di rimanere esclusi’

 

La FOMO, ovvero la paura di rimanere esclusi

In particolare, la ricerca si è concentrata sui fenomeni negativi associati all’uso di queste piattaforme, parimenti definibili come il ‘lato oscuro’ (Dhir et al., 2021). Tra questi, la ‘paura di rimanere esclusi’ (dall’inglese Fear of Missing Out, FOMO) è stato argomento di forte interesse nel corso degli ultimi anni. Centrale per la FOMO è il bisogno percepito di rimanere costantemente connessi con la propria rete sociale, con conseguente uso frequente, e per alcune persone eccessivo, di siti di social networking e servizi di messaggistica. La FOMO è stata definita nella letteratura scientifica come coinvolgente due componenti primarie specifiche:

  • a) l’apprensione che gli altri stiano vivendo esperienze gratificanti dalle quali si è assenti,
  • b) il desiderio persistente di rimanere connessi con le persone della propria rete sociale.

La prima componente si collega all’aspetto cognitivo dell’ansia (ad esempio, preoccupazione, ruminazione, ecc.). La seconda componente coinvolge una strategia comportamentale volta ad alleviare tale ansia – analogamente a come le compulsioni mirano (anche se in modo disadattivo) ad alleviare l’ansia nel disturbo ossessivo compulsivo. Attualmente, questa componente comportamentale della FOMO coinvolge più spesso il controllo frequente di social network e servizi di messaggistica per mantenere le connessioni sociali ed evitare di perdere esperienze gratificanti (Li et al., 2020).

FOMO e utilizzo problematico dei social media

La FOMO, e dunque il tempo crescente o eccessivo trascorso sui social media, porta gli individui a monitorare e raccogliere informazioni sulle attività degli altri. L’assenza di intenti malevoli distingue tuttavia questo atto passivo di monitoraggio e raccolta di informazioni dal tradizionale comportamento di cyberstalking, ovvero il ripetuto ricorrere alle comunicazioni online per molestare o spaventare qualcuno. La devianza nell’uso dei social media (ad esempio, l’uso eccessivo, compulsivo o problematico) è stata inoltre collegata alla competizione e al confronto sociale (Holmgren & Coyne, 2017). La valutazione distorta della vita degli altri durante il processo di confronto sociale può far emergere emozioni negative o essere un fattore di stress che induce un impegno eccessivo nell’uso delle piattaforme al fine di alleviare questi sintomi. Si può dire che l’intensità e la frequenza di utilizzo forniscono agli utenti dei social media un maggiore accesso alle dimostrazioni altrui dei loro sé idealizzati, il che suggerisce che l’aumento della competizione potrebbe essere legato alla fatica. È stato inoltre trovato da Lim e Choi (2017) che il confronto sociale potrebbe addirittura portare gli utenti a sperimentare un esaurimento emotivo.

Il lato oscuro del social media: uno studio

Lo studio di Tandon et al. (2021) ha esplorato le interrelazioni tra la paura di rimanere esclusi (FOMO), lo stalking, il confronto sociale e l’affaticamento nell’uso dei social media.

In questo studio sono stati coinvolti, tramite la piattaforma Prolific Academic, 321 giovani adulti inglesi di età compresa fra i 18 e i 25 anni. Di questi il 55% era di sesso femminile. La fascia d’età selezionata deriva da precedenti studi in cui si è scoperto che i giovani adulti possano avere una predisposizione agli effetti negativi legati all’uso dei social media (Marino et al., 2016; Zhou, 2019). Per misurare i livelli di invidia sono state selezionate 9 affermazioni tratte da scale precedentemente utilizzate da Charoensukmongkol (2018) e Tandoc e colleghi (2015). Ad esempio, è stata selezionata l’affermazione “di solito non apprezzo che i miei amici appaiano meglio di me sui social media”. Per misurare la frequenza di aggiornamento dello stato sui social, ai partecipanti è stato chiesto di rispondere alla domanda tratta da uno studio di Lin e colleghi (2018) “Con che frequenza carichi post di aggiornamento sui social?”. Per misurare la tendenza allo stalking online sono state utilizzate affermazioni inerenti al Social Media Stalking (Dhir et al., 2021). Successivamente sono stati proposti ai partecipanti degli items selezionati da strumenti utilizzati in studi sulla Online Social Comparison (Gibbons and Buunk, 1999; Steers et al., 2014; Reer et al., 2019; Latif et al., 2021) per valutare la tendenza a formulare paragoni con gli altri online. La paura di rimanere esclusi (FOMO) è stata misurata attraverso delle affermazioni utilizzate da Przybylski e colleghi (2013) in uno studio sulla Fear of Missing Out. Infine, per misurare l’affaticamento legato all’utilizzo dei social media sono stati selezionati da diversi studi items quali “faccio fatica a rilassarmi dopo aver usato a lungo i social media” (Dhir et al., 2018; Islam
et al., 2020; Whelan et al., 2020).

Il lato oscuro del social media: i risultati dello studio

I risultati confermano che la paura di rimanere esclusi (FOMO) ha un’associazione positiva con la fatica, il confronto sociale e lo stalking: credere che i propri amici e conoscenti abbiano esperienze relativamente più gratificanti sui social media può portare ad una sofferenza in termini di ansia, ed è più probabile che ci si senta sopraffatti e tesi a causa della grande quantità di informazioni disponibili. Inoltre, chi sperimenta la FOMO ha più probabilità di impiegare il proprio tempo per controllare e monitorare i profili social degli altri utenti per vedere cosa stanno facendo e di confrontarsi con loro in merito alla posizione sociale e alla realizzazione personale. I risultati del presente studio confermano che la FOMO può motivare ed indurre gli utenti dei social media ad investire più tempo nella sorveglianza passiva o “stalking” (Doster et al. 2013). Quest’ultimo può rappresentare una strategia per allontanare la frustrazione derivata dal non essere in grado di stare al passo con ciò che stanno facendo i propri amici (Wiesner, 2017). Pertanto, impegnarsi nello stalking rappresenta un meccanismo di coping o sollievo che non va a tradursi in fatica. Inaspettatamente, non è stato riscontrato nessun effetto di moderazione in merito alla frequenza con cui si aggiornano i propri stati sui social poiché, probabilmente a causa di un uso frequente, gli utenti potrebbero essere abituati a pubblicare o condividere, pertanto non sperimentano una maggiore stanchezza correlata alla FOMO. Un altro dato sorprendente riguarda la percezione di invidia nel contesto dell’uso dei social media che non ha avuto un effetto significativo rispetto all’associazione della FOMO con lo stalking. Una potenziale spiegazione potrebbe essere che chi si dedica a tale attività non è incline a provare invidia a causa della revisione passiva dei contenuti condivisi da altri sui social.

Date le crescenti preoccupazioni sulla pervasività dei social media e sulle influenze negative che questi ultimi hanno sui nativi digitali, sarebbe necessario attuare programmi educativi che possano incrementare la consapevolezza e il benessere degli utenti con il fine di incrementare le interazioni offline e mitigare l’uso eccessivo dei social media e della tecnologia.

 

Alessitimia, strategie di autoregolazione e metacognizione – Partecipa alla ricerca

Questa ricerca si propone di indagare la relazione che intercorre tra i livelli di alessitimia, il ricorso a specifiche strategie di autoregolazione, elementi metacognitivi ed esperienze infantili traumatiche/stressanti.

 

Le emozioni giocano un ruolo chiave nell’esperienza quotidiana di ogni individuo e rappresentano un segnale fondamentale per l’essere umano spingendolo all’azione o, viceversa, all’autoprotezione. La capacità di prendere contatto con il proprio mondo interno, elaborarlo ed utilizzarlo a fini adattivi consiste in un processo complesso e continuo che spesso rappresenta una sfida. Soprattutto quando ci si trova di fronte a situazioni emotivamente difficili (sentimenti negativi di rabbia, colpa, tristezza, ansia) o a eventi potenzialmente destabilizzanti (un lutto, la solitudine, una pandemia mondiale). In questi casi, la regolazione emotiva e in particolar modo l’auto-regolazione, rappresentano alcuni degli elementi centrali in grado di orientare il vissuto individuale nella direzione di una progressiva risoluzione oppure di una crescente sofferenza.

L’alessitimia è attualmente considerata un tratto di personalità relativamente stabile che riflette un deficit nella capacità di elaborare cognitivamente le emozioni e regolarle (Luminet, Taylor & Bagby, 2018). Appare evidente che una condizione di questo tipo, pur non rappresentando un indice di patologia in sé, si accompagna facilmente a situazioni di difficoltà e sofferenza, innescando potenziali circoli viziosi da cui l’individuo fatica a uscire.

La prima concettualizzazione del costrutto risale agli anni ‘70 quando il ricercatore Peter E. Sifneos coniò il termine “alexithimic”, letteralmente una “mancanza di parole per le emozioni”, ad indicare una costellazione sintomatica frequentemente riscontrabile in pazienti psicosomatici (Sifneos, 1973). Oggi la ricerca scientifica che ruota attorno a questo costrutto si è notevolmente ampliata diffondendosi ben oltre il ristretto campo della psicosomatica. Di fatto, grazie a evidenze empiriche che ne riferiscono la presenza in condizioni cliniche differenti così come in popolazione generale (es. Honkalampi et al., 2000; Salminet et al., 1999; Westwood, 2017), le indagini odierne tendono a collocare l’alessitimia nel più ampio panorama dei processi affettivi e della regolazione emotiva.

Parlare di alessitimia significa parlare di un elemento di vulnerabilità transnosografico e multidimensionale che si caratterizza per: (i) una difficoltà nell’identificare le proprie emozioni, (ii) una difficoltà nel discriminare le emozioni da percezioni più prettamente fisiologiche, (iii) una difficoltà nel descrivere e comunicare i propri stati emotivi, e (iv) uno stile di pensiero concreto orientato all’esterno (Taylor, Bagby & Parker, 1997). La presenza di elevati tratti alessitimici confluisce poi in specifici pattern relazionali, caratterizzati da distacco e superficialità, che precludono al soggetto la possibilità aprirsi alla vicinanza emotiva con l’altro (Vanheule et al., 2007) e quindi al supporto sociale. Uno stile intra e interpersonale di questo genere si ripercuote inevitabilmente nella relazione psicoterapeutica con conseguenti difficoltà di trattamento, sia nell’alleanza che negli esiti (es. Vanheule, Verhaeghe & Desmet, 2011).

La derivazione descrittivo-fenomenologica del costrutto ha contribuito a creare confusione in merito ai meccanismi eziologici-esplicativi in essa coinvolti. Innumerevoli modelli teorici si sono alternati prediligendo talvolta fattori di natura biologica innata (nature), talvolta elementi ambientali appresi (nurture). Questa ricerca si propone di indagare la relazione che intercorre tra i livelli di alessitimia, il ricorso a specifiche strategie di autoregolazione, elementi metacognitivi ed esperienze infantili traumatiche/stressanti. L’obiettivo principale dello studio è stabilire se la presenza di tratti alessitimici possa rappresentare una proprietà emergente (descriptive outcome) dell’adottare specifiche strategie di autoregolazione in virtù di certe credenze metacognitive. In altre parole, vuole comprendere se le difficoltà alessitimiche possano effettivamente rappresentare l’esito di un processo disfunzionale (teorie funzionaliste) piuttosto che una mancanza strutturale in senso stretto (teorie del deficit). Raggiungere una comprensione dei meccanismi eziopatologici coinvolti nell’alessitimia è essenziale non solo per una spiegazione teorica lineare, che pure sarebbe vantaggiosa, ma soprattutto per le implicazioni cliniche differenti che ne deriverebbero e la conseguente possibilità di strutturare tecniche d’intervento specifiche e maggiormente efficaci.

Il progetto di ricerca, nato dall’Università Sigmund Freud di Milano, abbraccia una prospettiva cognitiva-comportamentale nel tentativo di comprendere quali siano le variabili che maggiormente influenzano il rapporto che la persona adulta (18-60 anni) intrattiene con i propri stati interni, siano essi pensieri e/o emozioni. I livelli di alessitimia individuali saranno analizzati in relazione alle strategie di autoregolazione, alle credenze metacognitive e ad eventuali esperienze di vita particolarmente avverse. Verrà inoltre indagata la presenza di variabili confondenti che potrebbero influenzare l’analisi, quali le sfumature personologiche e la presenza di aspetti ansiosi e/o depressivi. Tale aspetto è estremamente innovativo dal momento che gran parte della ricerca sull’alessitimia si concentra ora su aspetti evolutivi, quali eventi traumatici/stressanti in infanzia o stili di attaccamento (teorie del deficit), ora su aspetti funzionali, quali strategie di autoregolazione (teorie funzionaliste), senza però indagare contemporaneamente entrambi gli elementi che ugualmente potrebbero concorrere, seppur in modo diverso, all’esacerbazione e al mantenimento di tratti alessitimici.

Per partecipare alla ricerca:

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Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo (2021) di Steven Pinker – Recensione

L’autore Steven Pinker, in Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo, scrivendo di ragione e irrazionalità, spiega con chiarezza e rigore quanto sia importante nella quotidianità compiere scelte razionali.

 

Che cosa è la razionalità? In realtà nessuna definizione può stabilirne esattamente il significato, come avviene per la maggior parte dei vocaboli d’uso comune. I dizionari definiscono razionale colui che è “dotato di ragione”; si tratterebbe fondamentalmente della «capacità di usare la conoscenza per raggiungere obiettivi». A sua volta, la definizione di «conoscenza» consiste in una «credenza vera giustificata».

Non si definisce razionale infatti chi agisce sulla base di credenze ingiustificate, come ad esempio cercare il portafogli dove si sa che non può essere, e neppure sulla base di convinzioni irrealistiche che derivano, ad esempio, dall’utilizzo di sostanze psicoattive anziché da una visione oggettiva.

Nel testo le scelte razionali vengono confrontate con quelle intuitive sulla base dei più grandi studi di psicologia della decisione, indagando le cause della ragione e dell’irragionevolezza.

Le credenze dovrebbero quindi innanzitutto essere coerenti con la realtà, dovrebbero poi servire per perseguire un obiettivo implementando le azioni necessarie. Tutto ciò può essere fatto basandosi su ogni conoscenza relativa alle circostanze.

Le capacità di ragionamento, ossia la razionalità, vengono però incrinate dai pregiudizi perché la mente tende a prendere delle scorciatoie giudicando a priori. In generale, ciò che si crede, ossia tutto ciò che riguarda le proprie convinzioni, determina le scelte che verranno intraprese, comprese quelle più rischiose. Qualsiasi tipo di prova che alteri la propria fiducia connessa a un risultato modificherà quindi la sua probabilità nonché le azioni adottate.

Ecco il motivo per cui di fronte a svariati dilemmi le persone falliscono restando ancorate ai propri pregiudizi: è evidente come i limiti del cervello ci facciano intraprendere percorsi che ci allontanano dalla razionalità. È possibile tuttavia sforzarsi di scegliere i percorsi della mente, ossia di ragionare in modo da ottenere così conseguenze migliori. Tramite alcuni studi è stato infatti dimostrato che le persone che s’impegnano maggiormente in un ragionamento approfondito, non solo commetteno meno errori, ma hanno di conseguenza anche meno guai nella vita rispetto al resto della popolazione.

L’autore spiega infatti che se le persone di fronte a una scelta ragionano sulle probabilità connesse all’esito, riescono a commettere meno errori.

La razionalità correla solo in parte con l’intelligenza, e nello specifico con l’intelligenza grezza, ma intelligenza non è sinonimo di razionalità. Occorre in particolare anche avere la padronanza di altri strumenti cognitivi quali la probabilità matematica e la logica formale, nonché l’apertura mentale e la riflessività.

L’autore valorizza così le abilità decisionali degli esseri umani, rifiutando l’idea che siamo esseri irrazionali, bensì basandosi sul fatto che sarebbe proprio la razionalità a distinguerci dalle altre specie.

In conclusione, Pinker dimostra quanto sia importante essere razionali, sia perché questo atteggiamento ci induce a compiere scelte più vantaggiose per la nostra vita privata e pubblica, sia perché rappresenta il motore del progresso morale e della giustizia sociale.

 

Il Funzionalismo moderno e lo stress

Perché uno stress positivo, che rivitalizza, dà energie, rende la vita briosa e non piatta deve poi divenire negativo? Cosa lo fa cronicizzare?

 

Stress o stanchezza?

Lo stress è una delle malattie tipiche del nostro tempo, della nostra società.

Perché parlare di stress? Perché il fenomeno dello stress è il fenomeno più emblematico e significativo quando si vuole comprendere i fattori molteplici che intervengono nella conservazione o nella perdita della salute: come quando si affronta la complessità mente-corpo dell’individuo, la persona nella sua interezza.

Oggi siamo arrivati a conoscere, con profondità scientifica, i meccanismi di cronicizzazione dello stress (stress negativo o distress).

Lo stress cronico viene confuso, troppo spesso, con l’affaticamento, con la stanchezza, con il carico di lavoro. In realtà è ben altra cosa dallo stress temporaneo (stress positivo o eustress) che stimola l’organismo rivitalizzandolo e che lo predispone a superare situazioni e problemi in tempi brevi, agendo immediatamente, con tutte le energie e le capacità che si possiedono.

L’eustress, quindi, scompare dopo che si è affrontato lo stimolo stressante (o stressor) contrariamente a quanto accade per lo stress cronico (o distress) che permane nel tempo, creando disturbi oggi molto diffusi, logorando l’organismo, fino a farlo ammalare di malattie importanti, quali le cardiologiche, le oncologiche, il diabete, le cefalee, le malattie gastroenteriche, per arrivare anche a quelle autoimmuni oggi in continua crescita.

Ma perché uno stress positivo, che rivitalizza, dà energie, rende la vita briosa e non piatta deve poi divenire negativo? Cosa lo fa cronicizzare?

Per capirlo dobbiamo guardare all’individuo che è sottoposto allo stimolo stressante, al suo Funzionamento e in particolare al modo in cui l’evento stressante impatta su di lui a livello emotivo, cognitivo ma anche sensoriale e fisiologico.

Il Filtro Funzionale secondo la teoria del Neo-Funzionalismo

È il “filtro Funzionale” (costrutto teorico del Neo-Funzionalismo presente in Rispoli, Di Nuovo, Genta, 2000; Di Nuovo, Rispoli, 2011) che costituisce la maniera in cui l’individuo attraversa un evento stressante (stressor) con tutto il proprio organismo: vale a dire con lo stato delle sue emozioni, lo stato cognitivo, ma anche la respirazione, la condizione muscolare, le sue posture, la sua voce, la condizione fisiologica e biologica profonda. Lo stressor può venire percepito come qualcosa di affrontabile oppure di non affrontabile, come un evento ordinario oppure come una condizione drammatica.

Il “filtro Funzionale” viene condizionato nella sua capacità di reagire all’evento stressante da esperienze precedenti; esperienze negative (che non hanno aiutato il pieno funzionamento della persona, possono aver alterato questo filtro, per cui eventi stressanti che non sono insormontabili ma abbastanza normali vengono vissuti come molto allarmanti, pericolosi, drammaticamente stressanti.

Le conseguenze

Le conseguenze sono fondamentalmente di due tipi.

L’organismo è già debilitato, e ciò fa permanere lo stato di stress più a lungo. Le condizioni che caratterizzano la reazione di stress non si esauriscono, nell’organismo, il quale non è più in grado di ritornare allo stato primario di allentamento e benessere, ma permangono al di là dell’evento. Lo stress diventa cronico e l’organismo ne esce ancora più debilitato e il filtro Funzionale più alterato. La persona non riesce più a gestire eventi stressanti anche lievi.

Questo è lo stress cronico.

Permanendo le condizioni di stress ormai cronicizzato, la persona soffrirà di disturbi di vario genere, comunque sempre abbastanza invalidanti, come difficoltà a concentrarsi, irritabilità, disturbi di ansia, insonnia, cefalee e disturbi neurovegetativi. E, cosa ancor più grave, si creerà nel tempo un terreno che è la base biopsichica di quasi tutte le malattie.

L’altra tipologia di conseguenza è la seguente. La persona perde anche la capacità di comportarsi secondo quelle norme elementari che aiutano a conservare la salute: potrà bere alcolici, stare sveglio fino a tardi, prendere più caffè, impegnarsi in un lavoro ancora più logorante, accollarsi altri impegni, mangiare molto o troppo, mangiare male. Tutte condizioni che peggiorano lo stato di salute in generale.

Le radici dell’ammalarsi

Allora è fondamentale capire dove si àncora questo ammalarsi, cioè questa alterazione dei funzionamenti, questo stress cronicizzato.

Oggi, dopo gli studi che ho condotto per oltre 30 anni con la mia equipe della psicologia Funzionale, sappiamo molto bene come funziona lo stress: sappiamo dove si inizia a formare; sappiamo che non dipende dalle differenti situazioni di vita, ma da come funziona la persona ai suoi livelli più profondi. Lo stress è esattamente lo specchio di questi livelli di funzionamenti profondi, perciò, è un fenomeno di importanza vitale.

E lo stress inizia ad annidarsi nel respiro alterato che diventa toracico, nelle contrazioni muscolari e nelle ipertonie, nelle posture non più mobili, nei movimenti che in parte diventano stereotipati, nelle sensazioni fisiche alterate; per poi diffondersi al pensiero che diventa sempre più sovraccarico di preoccupazioni, alle emozioni che si colorano di scuro, alle fantasie negative che tendono ad aumentare sempre di più.

La cura e i consigli più immediati per lo stress

Tutti i consigli che si possono dare, perciò, devono essere necessariamente rivolti a recuperare i Funzionamenti di fondo alterati di cui la persona non può avere reale consapevolezza. Questi funzionamenti sono costituiti da tutti i piani psichici e corporei, e sono alla base di emozioni, pensieri, comportamenti. Ed è su questi che bisogna agire perché sui funzionamenti profondi alterati il soggetto non può intervenire senza un aiuto specifico esterno, dal momento che sono al di là della sua volontà. È questo un agire sulle radici sulle quali si è innescato lo stress negativo, per poter così invertire il processo di cronicizzazione dello stress.

Ciononostante qui cercheremo comunque di dare alcuni consigli più immediati e pratici che possono costituire un momento di autoaiuto, suggerendo anche alcune semplici tecniche per cercare di non farsi sopraffare dallo stress in alcune situazioni chiave.

Una riunione di lavoro difficile, un impegno importante nel dover parlare ed esporre

Preparare il lavoro un po’ di tempo prima, prospettando alla mente i possibili andamenti della riunione, progettando attraverso l’immaginazione le modalità più adatte per raggiungere gli obiettivi voluti.

Terminare la progettazione almeno un giorno prima, e poi dimenticare per un giorno tutto, distrarsi, e cercare momenti piacevoli e di divertimento.

Un’ora prima praticare una respirazione diaframmatica profonda: inspirazione a bocca aperta lunga (3-4 tempi), nessuna pausa, espirazione più rapida a lasciare con un po’ di voce (2 tempi), pausa (di 2 tempi), e poi ricominciare il ciclo. La respirazione deve durare almeno 10 minuti. A poco a poco si instaurerà una calma profonda.

Subito dopo fare alcuni movimenti di slancio, per creare convinzione e determinazione, movimenti veloci e intensi con le braccia e le mani, muovendosi con fermezza e decisione anche sulle gambe.

Un momento di rabbia, di lite pericolosa

Non rispondere subito.

Portare lo sguardo in giro e cercare di vedere veramente cosa c’è intorno a noi.

Espirare rapidamente diverse volte e poi effettuare lunghi respiri con una inspirazione molto lunga e lenta. Molte volte.

Cercare in mente una canzone molto allegra. Meglio se se ne ha una già a portata di mano, una che ci piace molto.

Provare a dire qualcosa di molto diverso da quello che si stava per dire. Senza paura di perdere la faccia, di perdere una posizione da mantenere a tutti i costi.

Poi parlare lentamente con voce intensa ma non acuta e tenendo la testa ben sollevata, esprimendo sicurezza, determinazione ma con grande calma.

Conclusioni

Dal momento in cui vengono sempre più conosciuti i meccanismi dello stress negativo diventa possibile mettere in atto un piano di prevenzione serio, efficace e scientificamente basato. Le conseguenze di questo disfunzionamento stanno aumentando sempre di più nelle nostre società, in tutti i paesi, e in età che stanno diventando sempre più precoci. Tra l’altro nel mondo del lavoro il danno economico dovuto alla presenza sempre più diffusa e ampia di stress, con i relativi disturbi e patologie, sta diventando veramente insostenibile.

La lotta allo stress è una cosa molto seria, e lo sarà sempre di più nel futuro.

 

L’influenza di TikTok nell’insorgenza dei disturbi alimentari

TikTok ha riscosso grande successo attirando l’attenzione di una larga fetta della popolazione caratterizzata da una variabilità nel genere e nell’età in diversi paesi del mondo. Questo social tanto utilizzato può avere un ruolo nell’insorgenza dei Disturbi Alimentari?

 

Introduzione

Tiktok, applicazione che fornisce brevi video dai 15 ai 60 secondi, a Dicembre 2020 ha raggiunto i 2 miliardi di iscritti e per la maggior parte sono adolescenti. Promuove video su una larga gamma di tematiche: dalla cucina, alle esibizioni dei ballerini più famosi, alle discussioni politiche. Basata su algoritmi, più volte mirino di attacchi mediatici per la difficoltà nel limitare e filtrare contenuti spesso maladattivi. Sebbene nell’attuale panorama scientifico si promuova una visione bio-psico-sociale nel definire i fattori che predispongono l’esordio di un disturbo alimentare, diversi studi riconoscono i contenuti dei diversi social media come fondamentali nell’interiorizzazione di un ideale di bellezza.

TikTok – For You: di cosa si tratta?

TikTok, applicazione sviluppata e lanciata dalla compagnia cinese ByteDance Ltd nel 2016, è attualmente riconosciuta come una delle piattaforme social più utilizzate. Dal suo lancio, l’applicazione ha riscosso pieno successo attirando l’attenzione di una larga fetta della popolazione caratterizzata da una variabilità nel genere e nell’età, non solo in Giappone ma in diversi Paesi del mondo. Infatti, un report del Dicembre 2020, ha rilevato i dati demografici degli utenti TikTok in Giappone: il 15% della popolazione appartenente alla fascia dei teenegers, il 12,1% intorno ai 40 anni. Nel 2019, in India, TikTok ha visto una crescita esponenziale del 50%, giungendo ad avere 75 milioni di utenti attivi a Dicembre 2019. Ulteriori statistiche relative a Paesi come Germania, U.S., Brasile, dimostrano nel corso dell’ultimo anno una crescita esponenziale raggiungendo quasi i 10 milioni di utenti android a Dicembre 2019.

Formalmente riconosciuta come Musical.ly, TikTok è un’ applicazione telefonica accessibile sia agli utenti con sistema Apple che Android. L’app permette ai suoi utenti la creazione e la condivisione con altri audience di tutto il mondo, di diverse modalità di video clips: brevi video in cui imitare i balletti di famosi tiktokers, mediante musica in background o la creazione di proprie versioni originali, mediante l’uso di specifiche tecniche di editing e filtri immagini, forniti dall’app.

Più in generale si può affermare che, in pochi anni, la piattaforma ha raggiunto più di 2 miliardi di persone che hanno scaricato l’app, più di 800 milioni di utenti attivi, in cui quasi la metà di essi ha un’età compresa tra i 16 e i 24 anni.

Ulteriore caratteristica propria della presente applicazione è il “For-You” pagina feed video, in cui si susseguono video di account, non sempre riguardanti persone seguite, ma consigliate sulla base della propria cronologia.

Nel corso del 2020, con la condizione pandemica, in Italia si è osservato un incremento del 33%. Come riferito dall’Ansa, pur avendo ancora un utilizzo soprattutto tra i giovanissimi – nel 2020 è stata utilizzata da circa il 26% dei 18-54enni – può vantare un tempo di permanenza di circa 5 ore al mese a persona.

TikTok influenza l’insorgenza dei disturbi alimentari?

L’applicazione è stata più volte contestata per i contenuti spesso poco filtrati e la scarsa protezione della privacy. Una recente indagine del The Guardian del 2020, ha denunciato come i contenuti pro-anoressia siano ancora facilmente rintracciabili nonostante le compagnie dei diversi social media abbiano proibito pubblicità riguardanti la perdita di peso mediante condotte alimentari estreme (Garson, 2020; Kaufman, 2020; Lantos, 2020). Pertanto, sebbene la compagnia avesse bloccato alcuni hashtag, digitando le stesse parole, sono emersi dozzine di account che promuovevano condotte di vita pericolose e disturbi alimentari, utilizzando lievi errori ortografici o sinonimi dei termini comuni. Ulteriormente in relazione all’uso dei “For you”, diverse persone avevano testimoniato di essere venute facilmente in contatto con account i cui contenuti riguardavano i disturbi alimentari, la perdita di peso o le diete, e ciò in quanto, come riferisce Ysabel Gerrard dell’università di Sheffield: “TikTok è designato a mostrarti solo ciò che pensa possa piacerti”.

In accordo con l’indagine di The Guardian, anche diversi studi (Lantos, 2020, Herrick, 2020) hanno sottolineato la facilità con la quale, nonostante gli hashtag contenenti il testo completo “#EDrecovery”, i Tiktok potessero essere anticipati da immagini proprie di un contenuto definito “thininspiration”. Portando alla luce, da un lato la semplicità con la quale molte tipologie di Tiktok e di narrative associate possono finire per essere mal interpretate, dall’altro lato la difficoltà con la quale tracciare e fermare i contenuti maladattivi.

In accordo con tali dati, diversi studi in letteratura sottolineano l’aumento dell’incidenza dei disturbi alimentari. Secondo un’analisi dell’Ospedale San Raffaele di Milano, con lo stress associato alla condizione di pandemia 2020, le persone che già soffrivano di Disturbi alimentari hanno vissuto una ricaduta. Nella popolazione sana, quasi il 30 % di adolescenti hanno iniziato a soffrire di tali problematiche.

La metanalisi di Rodger e colleghi (2016) dimostra la relazione diretta tra la visione di contenuti online “pro- eating disorder” e la manifestazione delle problematiche alimentari. Nello specifico la ricerca rivela che l’esposizione ai siti web “thinspiration”, è associata all’aumento dell’insoddisfazione corporea, dieta ferrea, affettività negativa. La visione di pro-Ana website, aumenterebbe la sensibilità alla propria soddisfazione -insoddisfazione per l’immagine corporea, al “drive for thinness” e al cibo, portando così allo sviluppo di tali disturbi in relazione ad una soggettiva vulnerabilità.

Nel recente studio caso-singolo, LoGrieco e colleghi, 2021, descrivono il caso di un’utente di 14 anni ricoverata presso l’ospedale Bambin Gesù di Roma con diagnosi di Anoressia Nervosa. Durante il colloquio iniziale con la neuropsichiatra, la paziente riferisce di essersi ispirata a TikTok, piattaforma in cui molte ragazze condividono le loro personali esperienze nella lotta contro profonde sofferenze, contro i disturbi alimentari o  gesti autolesionistici. Afferma, dunque, di voler intraprendere tali condotte per dimostrare a se stessa e agli altri la difficoltà della condizione che l’ha portata all’ospedalizzazione. Pertanto, gli autori sottolineano la gravità degli effetti dell’esposizione a contenuti pro-Ana soprattutto su giovani utenti, già insicuri della propria immagine corporea.

CBT-E: cause multifattoriali nello sviluppo dei DA

Secondo la formulazione transdiagnostica della CBT-E, i disturbi alimentari sono  accomunati all’interno di un’unica categoria ombrello. Il protocollo, definito agli inizi degli anni 2000 presso il centro CREDO di Oxford dal prof.re Fairburn e, successivamente, introdotto in Italia dal dott.re Dalle Grave, prevede come al centro di tutte le categorie nosografiche dei disturbi alimentari si possa riconoscere un unico nucleo psicopatologico: l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo.

Se generalmente le persone tendono a valutarsi sulla base della percezione delle loro prestazioni in una larga varietà di domini di vita (scuola, lavoro, amicizie), quelle affette da problematiche alimentari fondano la propria autovalutazione principalmente sul peso, sulla forma del corpo e sull’alimentazione. Secondo tale teorizzazione, alla base della condotta di restrizione alimentare cognitiva o calorica, comportamento che generalmente rappresenta l’inizio di un disturbo alimentare, possono esserci due possibili condizioni: da un lato l’aver interiorizzato un ideale di bellezza, dall’altro la necessità di controllo dei vari domini di vita.

In quest’ottica, dunque, non esiste un’unica causa. In un panorama più bio- psico- sociale, si possono riscontrare i fattori predisponenti in una multifattorialità, ovvero, una più ampia gamma di fattori combinati tra loro (da quelli genetici a quelli ambientali). Tra i diversi fattori di rischio si può sottolineare in primis la fase dell’adolescenza. Vari studi dimostrano come le persone intraprendono la prima dieta soprattutto nell’adolescenza, prima età adulta, e ciò per diversi motivi: la necessità di definire il proprio valore in termini di bellezza e aspetto fisico, le modificazioni fisiche che rendono il proprio corpo lontano dal proprio ideale di bellezza o la necessità di mantenere un proprio senso di autocontrollo. In secondo luogo, i fattori socio-culturali sembrerebbero giocare un ruolo importante soprattutto nei paesi occidentali. Rinforzata dai messaggi dei mass-media, si fa propria l’idea che il proprio valore e dunque la propria autostima, dipenda principalmente dai tratti fisici e dalla capacità di conformarsi a dei canoni di bellezza, noti nella propria società. Infatti, mentre per le donne, il concetto di bellezza è associato maggiormente alla necessità di dimagrire per raggiungere la condizione di “thinness”, per gli uomini la bellezza promossa è associata al “drive for mascularity” e dunque ad un corpo tonico e muscoloso. Concorde, con i precedenti studi, con il fatto che l’esposizione a media che mostrano persistentemente l’ideale di bellezza può associarsi alla preoccupazione e all’insoddisfazione per la propria immagine corporea.

 


 

Cos’è la comunicazione?

Nella linguistica la comunicazione è una trasmissione dinamica, cioè uno scambio di informazioni mediante uno o più linguaggi tra un emittente e un destinatario. In psicologia è la produzione intenzionale di qualche tipo di segno che possa essere percepito e interpretato come tale da un’altra persona.

 

La comunicazione

Comunicare ha una duplice valenza: indica sia l’atto di costruire messaggi costituiti da segni, che offrano la possibilità di agire sulle cose e sulle persone senza che vi sia necessariamente contatto con esse, sia quello di produrre qualcosa di concreto; infatti, secondo la Teoria degli Atti Linguistici, dire qualcosa è sempre fare qualcosa. Tale teoria distingue l’atto linguistico in tre livelli:

  • atto locutorio, cioè l’atto di dire qualcosa, l’azione che si compie per il fatto stesso di parlare.
  • atto illocutorio, cioè l’atto nel dire qualcosa, l’azione che si compie attraverso il parlare e corrisponde alle intenzioni comunicative di chi parla.
  • atto perlocutorio, cioè l’azione che si compie con il parlare e corrisponde alle conseguenze sui sentimenti, sulle credenze e sui valori dell’interlocutore.

La comunicazione è una peculiarità universale, tant’è vero che gli animali utilizzano forme di comunicazione più o meno complesse, anche vocali. La comunicazione negli animali è associata ad una condotta specie-specifica, è innata e identica in animali della stessa specie, assolve a funzione adattiva e serve principalmente per segnalare gerarchie, stati d’animo e accoppiamenti. Negli esseri umani la comunicazione conosce tre settori:

  • la sintassi, che si occupa di problemi sintattici associati alle proprietà statistiche del linguaggio (parole e configurazioni).
  • la semantica, che analizza i simboli e il significato della comunicazione stessa (parole e significato).
  • la pragmatica, che analizza gli effetti della comunicazione sul comportamento, il legame tra lingua e contesto e la competenza comunicativa.

L’intenzione comunicativa si traduce in vero e proprio atto comunicativo a seguito di tre fasi diverse:

  • concettualizzazione (definizione della struttura semantica della parola)
  • formulazione (trasposizione della struttura semantica in struttura linguistica)
  • articolazione (esecuzione delle parole).

L’atto comunicativo avviene in un ambiente detto “contesto”. Gli elementi che concorrono a realizzare tale atto sono tre:

  • emittente (che codifica l’informazione di partenza)
  • ricevente (che accoglie, decodifica, comprende e interpreta la suddetta informazione)
  • codice (insieme dei simboli e delle regole adoperati nella comunicazione stessa)

Esistono tre diversi codici comunicativi:

  • verbale (che comprende lessico, parole e concetti)
  • paraverbale (che comprende ritmo, accento, tono e volume)
  • non verbale (che comprende gestualità, mimica facciale, postura e prossemica).

Il linguaggio non verbale o gestuale è tendenzialmente più efficace di quello verbale per esprimere emozioni complesse, in quanto può trasformare la comunicazione stessa, rafforza il codice comunicativo verbale e lo carica di un significato affettivo ed emotivo.

Emittente, ricevente e codice costituiscono il circuito comunicativo: esso si configura come un circuito dinamico, nel quale assume fondamentale importanza il concetto di feedback o retroazione, cioè l’effetto che l’informazione esercita quando, dal ricevente, torna indietro all’emittente. Il feedback può essere positivo o negativo, a seconda che generi un cambiamento nel ricevente oppure no. Come abbiamo detto, l’emittente codifica l’informazione e il ricevente la decodifica, producendo un feedback. Tuttavia, quando il ricevente decodifica l’informazione diventa emittente di una nuova informazione, pertanto egli sceglie un canale comunicativo, cioè un mezzo tramite cui propaga il codice, e, in una prospettiva prettamente retroattiva, manda un messaggio all’emittente.

Il linguaggio è una forma di comunicazione superiore che può essere espressa tramite un canale verbale o non verbale: è un sistema di segnalazione arbitrario, costituito da fonemi, morfemi, sintagmi, frasi e testi che possono costituire infinite combinazioni per via di regole ricorsive di scrittura. Ha come finalità la decodificazione contenutistica e come proprietà fondamentale la dislocazione: è possibile alludere ad eventi e oggetti assenti alla percezione dei comunicanti.

La comunicazione e lo sviluppo del linguaggio

Il linguaggio, nell’uomo, evolve e si sviluppa modulandosi lungo diverse fasi:

Fase preverbale o prelinguistica (da 0 a 6 mesi): in questa fase, in cui il bambino è molto piccolo, pianto e vocalizzazioni sono le produzioni vocali principali e tendono ad interporsi nei turni comunicativi e nelle pause verbali dell’adulto con cui il bambino si relaziona. Intorno al terzo mese di vita compaiono le prime associazioni vocali-consonanti, che il bambino ripete per formare delle parole bisillabiche. Intorno al sesto mese compaiono le lallazioni canoniche, sequenze di sillabe ripetute che il bambino crea ricorrendo alle medesime associazioni di consonanti e vocali (per esempio, una lallazione è “da-da-da”). Intorno al decimo mese di vita compaiono le lallazioni variate: la natura della sillaba si fa più complessa ed eterogenea.

Fase protoverbale o monolinguistica (dagli 11 ai 12 mesi): il bambino in questa fase utilizza una sola parola. Le prime parole sono caratterizzate da uno scopo comunicativo chiaro; ad esse si avvicina gradualmente e soprattutto grazie a sollecitazioni da parte di un adulto. Inizialmente le parole sono utilizzate in contesti specifici e situazioni abituali e riguardano in particolar modo nomi comuni di animali o cibi, in seguito vengono applicate anche in contesti nuovi e ad uso generalmente referenziale.

Linguaggio telegrafico (dai 20 ai 24 mesi): quando intorno al ventiquattresimo mese si sviluppa la morfologia, il bambino si accosta ad un linguaggio telegrafico, composto principalmente da due parole. Intorno al trentaseiesimo mese di vita il bambino inizia ad utilizzare tutte le parti di una frase.

Acquisizione grammaticale e sintattica (tra i 2 e i 4 anni): man mano che cresce, si estende la gamma di termini che il bambino apprende, memorizza e pronuncia.

Molti psicologi concordano nel dire che il linguaggio sia una caratteristica insita nell’uomo: nel 1979, il linguista Chomsky formulò che gli esseri umani nascono con una capacità linguistica innata e universale che emerge con lo sviluppo. Secondo Chomsky, tutte le lingue del mondo possiedono una struttura denominata “Grammatica Universale (GU)”, che contiene la descrizione degli aspetti strutturali condivisi dalle lingue naturali. Grazie al LAD (Language Acquisition Device), cioè un dispositivo di acquisizione linguistica, che non localizza in nessuna specifica area cerebrale, è possibile comprendere il funzionamento esatto di una lingua: tale dispositivo garantisce la comprensione e la realizzazione del linguaggio stesso. Jean Piaget, il fondatore dell’epistemologia genetica, ha invece una posizione interazionista, in bilico tra Innatismo ed Empirismo: il linguaggio compare nel periodo sensomotorio (il primo stadio dello sviluppo cognitivo del bambino).

Gli assiomi della comunicazione

Tra il 1971 e il 1974 Paul Watzlawick e la Scuola di Palo Alto delinearono cinque assiomi fondamentali della comunicazione umana:

Primo assioma – Impossibilità di non comunicare: una comunicazione include sempre un comportamento. Ogni comportamento è un messaggio e comunica qualcosa di noi. Dal momento che è impossibile non comportarsi, è impossibile non comunicare.

Secondo assioma – Livello di contenuto e livello di relazione: ogni comunicazione umana ha un livello di contenuto, relativo alla componente di informazione trasmessa, e un livello di relazione, relativo ai ruoli dei comunicanti.

Terzo assioma – La punteggiatura della sequenza di eventi: la comunicazione comprende diverse versioni della realtà, ognuna delle quali dipende dalla punteggiatura della sequenza degli eventi, ossia dal modo in cui ognuno tende a pensare che l’unica versione possibile dei fatti sia la propria. La punteggiatura della sequenza degli eventi organizza gli eventi comportamentali.

Quarto assioma – Comunicazione numerica e analogica: la comunicazione può essere numerica (cioè connessa al linguaggio verbale e alla logica dei contenuti trasmessi e funzionale a veicolare il contenuto della relazione e a tramandare la conoscenza nel tempo) o analogica (cioè connessa al linguaggio non verbale o para verbale e funzionale a veicolare la relazione stessa).

Quinto assioma – Interazione simmetrica e complementare: gli scambi comunicativi sono simmetrici (la persona che parla tende a rispecchiare il comportamento dell’altro, generando un’interazione simmetrica) e complementari (la persona che parla tende a completare il comportamento dell’altro, generando un’interazione complementare).

 

A un metro dal futuro. Speranze e paure di una gioventù sospesa (2021) di Marco David Benadì – Recensione

A un metro dal futuro. Speranze e paure di una gioventù sospesa di Marco David Benadì è un libro che appartiene ad una nuova collana, I Trampolini, delle edizioni del Gruppo Abele ed è stato edito nel 2021.

 

Questo progetto editoriale intende presentare libri, dedicati agli adolescenti, che hanno come tema il mondo giovanile e le sue attuali trasformazioni. Marco David Benadì è laureato in economia, è professore presso la Facoltà di Economia ed il Master in Marketing e Comunicazione a Torino e, oltre ad essere titolare di altre docenze, è autore di diversi libri.

A un metro dal futuro è un libro, illustrato in bianco e nero da Inka Mantovani, che racconta il mondo giovanile italiano attraverso una serie d’interviste. L’autore, attraversando il nostro paese da nord a sud e fermandosi in città e paesi, ha incontrato ed ascoltato ragazzi tra i 15 ed i 19 anni. Gli incontri con i ragazzi, delle periferie e dei quartieri “alti”, sono stati organizzati in collaborazione con Libera, l’associazione contro le mafie, che lavora con le giovani generazioni e sono avvenuti durante il lockdown.

La prospettiva utilizzata da Benadì non è quella di parlare dei giovani, ma è quella di permettere ai giovani di raccontarsi, di narrare la propria vita. Attraverso la voce della nuova generazione l’autore cerca di comprendere come i ragazzi di oggi si sentono, pensano, sognano e cerca di capire se i giovani hanno ancora la voglia di cambiare le cose ed il mondo in cui vivono. «I miei sogni sono veramente grandi – dice Beatrice, di 17 anni di Sanremo – così mi capita di pensare: “Quand’è che si potrà fare?”».

Leggendo le testimonianze raccolte da Marco Benadì ci si accorge di come i giovani, differenti per età, per regione geografica e per status sociale, si raccontino con libertà e franchezza. Quello che emerge è che la generazione zeta mostra una grande ricchezza interiore al di là dello stereotipo che i ragazzi di oggi siano superficiali e privi di valori. Questo fatto è ben rappresentato dall’intervista di Francesca che narra il momento in cui vide una rosa: «una cavolata, però secondo me ogni giorno dovremmo trovare una cosa bella per la quale poter dire: “Ma che bello!”».

Il valore aggiunto di questo libro di Marco David Benadì sta, non solo nel suo essere un’opera che nasce dai ragazzi per tornare ai ragazzi, ma anche nel fatto che i proventi delle vendite concorreranno a finanziare i progetti educativi del Gruppo Abele per il contenimento dell’abbandono scolastico e per la promozione dell’inclusione in contesti sociali difficili. Il libro di Benadì finanzierà i progetti educativi di strada che intendono favorire l’accesso agli strumenti formativi per quei ragazzi che si trovano in difficoltà.

 

“So di non sapere”. Monitoraggio metacognitivo e illusione di sapere

Lo scopo del lavoro di Avhustiuk e colleghi (2021) è quello di analizzare l’illusione del sapere nel monitoraggio metacognitivo dell’attività di apprendimento degli studenti universitari.

 

La metacognizione ed il monitoraggio metacognitivo

La metacognizione è definita come la capacità di “pensare al proprio pensiero” (Flavell, 1979, p. 906), cioè indica l’attitudine a monitorare e a controllare il proprio flusso mentale (Martinez, 2006, p. 696).

Il monitoraggio metacognitivo è definito come l’abilità di controllo dell’attività cognitiva e il suo scopo è diretto alla risoluzione di determinati compiti, come il richiamare delle risposte, svolgere dei test o leggere delle istruzioni (Savin & Fomin, 2013). Nello specifico, è la valutazione umana delle proprie conoscenze, sia per quanto riguarda le strategie cognitive e sia per la conoscenza di condizioni riguardanti i processi di apprendimento (Serra & Metcalfe, 2009).

I primi studi sull’illusione del sapere sono stati condotti da Glenberg, Wilkinson ed Epstein (1982), che mostrarono come la convinzione di comprendere sia maggiormente evidente, quando, in realtà, la comprensione non è stata raggiunta da parte di una persona. È un fenomeno che può verificarsi durante l’apprendimento di un testo, quando le persone esprimono convinzioni errate sull’acquisizione delle informazioni (Dunlosky, Rawson e Middleton, 2005; Glenberg, Wilkinson ed Epstein, 1982), o mentre si studiano coppie di parole, poiché le persone spesso tendono a sopravvalutare la probabilità che le ricorderanno in seguito (Eakin, 2005). Tipicamente, questa illusione appare nei giudizi espressi immediatamente dopo il processo di apprendimento, in quanto le informazioni assimilate sono ancora immagazzinate nella memoria di lavoro (Nelson & Dunlosky, 1991).

L’illusione di sapere è vista come un’eccessiva fiducia soggettiva nella correttezza dell’apprendimento e della comprensione delle informazioni oggettivamente errate (Commander & Stanwyck, 1997; Dunlosky, Rawson e Middleton, 2005; Epstein, Glenberg e Bradley, 1984; Glenberg & Epstein, 1985; Glenberg & Epstein, 1987; Glenberg, Wilkinson, & Epstein, 1982; Kroll e Ford, 1992; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021), nella correttezza delle prestazioni del compito (Begg et al., 1996; Fazio & Marsh, 2008; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021) o come un’eccessiva sicurezza nella capacità di ricordare informazioni che non possono essere ricordate (Castel, McCabe, & Roediger, 2007; Eakin, 2005; Koriat & Bjork, 2005; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). L’eccessiva sicurezza può verificarsi quando le valutazioni di confidenza dei giudizi metacognitivi sono superiori ai livelli di prestazioni effettivi (Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). Molti lavori dimostrano che un ruolo significativo è svolto da diverse euristiche (Koriat, 1997; Serra & Metcalfe, 2009) che facilitano o impediscono l’attuazione di giudizi durante il monitoraggio metacognitivo nell’apprendimento.

Nello specifico, nel 1997 Koriat identificò le tre classi di segnali dipendenti dalla complessità, dal contenuto semantico e dalle condizioni di elaborazione delle informazioni apprese: il segnale intrinseco, estrinseco e mnemonico. Questi ultimi non sempre hanno un impatto positivo sui giudizi metacognitivi, in quanto possono essere ignorati (Dunlosky & Nelson, 1992; Koriat, 1997) o fraintesi (Benjamin, Bjork e Schwartz, 1998; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). Alcuni scienziati studiano l’affidabilità del monitoraggio metacognitivo nel processo di lettura dei testi (Glenberg, Wilkinson ed Epstein, 1982), mentre altri ne studiano il ruolo nel processo verbale (Eakin, 2005; Parkinson, 2009) e nell’apprendimento delle dichiarazioni (Kolers & Palef, 1976; Nelson & Narens, 1980; Smith & Clark, 1993). Il livello del compito e la complessità influenzano in modo significativo i giudizi di monitoraggio metacognitivo dell’accuratezza dell’apprendimento (Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021).

Il monitoraggio metacognitivo e l’apprendimento

Lo scopo del lavoro di Avhustiuk e colleghi (2021) è quello di analizzare l’illusione del sapere nel monitoraggio metacognitivo dell’attività di apprendimento degli studenti universitari (n = 262). L’analisi si focalizza sugli effetti delle diverse tipologie di informazioni proposte e di quelle personali, cognitive, metacognitive e delle caratteristiche psicologiche individuali dei partecipanti.

Lo studio è stato condotto in due fasi: la prima è una fase diagnostica dove i partecipanti hanno svolto un questionario utile ad accertare le caratteristiche psicologiche degli studenti, legate all’affidabilità del monitoraggio metacognitivo (Pasichnyk, Kalamazh e Avhustiuk, 2017), mentre la seconda è una fase sperimentale misurata in laboratorio. I partecipanti hanno dovuto imparare 6 testi, 18 affermazioni e 18 coppie di parole in ucraino. Sono stati osservati i giudizi metacognitivi prospettici sull’apprendimento della fiducia (JOL) e i giudizi prospettici sul numero di risposte corrette (aJOL), nonché giudizi metacognitivi retrospettivi simili di entrambi i tipi (RCJ e aRCJ). Con una corretta procedura di calibrazione, sono stati definiti gli indicatori medi dell’illusione di sapere (eccessiva sicurezza) e gli indicatori medi dell’illusione di non sapere (sotto confidenza) (Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). I risultati della fase diagnostica hanno mostrato una predominanza della motivazione all’apprendimento per acquisire conoscenze (48,7%) e per lo sviluppo delle competenze (39,2%), livelli medi (49%) e alti (29,5%) di autostima generale, autoefficacia (livello medio – 44,3%, livello alto – 32,6%) e consapevolezza metacognitiva (livello medio – 43,5%, livello alto – 35,5%), così come livelli medi di conoscenza metacognitiva (62,8%) e attività metacognitiva (58,7%). I dati della ricerca hanno anche mostrato una grande quantità di studenti con livelli medi di riflessività (56,7%), nonostante la maggior parte di essi abbia mostrato una bassa riflessione (30,9%).

In generale, i risultati dello studio hanno messo in luce che il 59,4% dei partecipanti ha commesso degli errori nei JOL e che la maggior parte di loro (31,3%) ha mostrato un’eccessiva sicurezza nel compito e nella correttezza prestazionale. Inoltre, il 50% degli studenti ha commesso errori di monitoraggio metacognitivo nel corso di aJOL, mentre il 35,9% degli studenti era troppo sicuro della correttezza delle prestazioni dei compiti. I risultati medi dell’illusione di sapere erano leggermente diversi nei JOL (MJOL = .27, SD = .61) e in aJOL (MaJOL = .25, SD = .69) (p ≤ .05). Il numero di studenti che hanno mostrato l’illusione di sapere non era significativamente diverso. Tali risultati possono indicare che l’eccessiva sicurezza prima delle prestazioni del compito non è necessariamente dipendente dal tipo di compito svolto. Tuttavia, negli RCJ c’è stata una diminuzione (6,3%) dell’eccessiva fiducia degli studenti nell’accuratezza del compito e negli aRCJ il calo ha raggiunto l’11,7%. Il valore medio della sopravvalutazione è rimasto invariato.

Conclusioni

La ricerca ha dimostrato che l’illusione di conoscere può verificarsi in tutti i tipi di giudizi metacognitivi, ma è più evidente nei giudizi prospettici e dipende dal tipo di informazione, dalla sua lunghezza, dallo stile e dal tipo di compito. Esistono correlazioni empiricamente stabilite tra le caratteristiche personali, cognitive e metacognitive selezionate.

Non si osservano differenze di genere ed età nella manifestazione dell’illusione di sapere, sebbene si osservi che le donne tendono ad un’eccessiva sicurezza. I risultati hanno anche mostrato che l’illusione di sapere è più tipica per gli studenti più giovani, specialmente per quelli con meno livelli di risultati accademici.

 

I Pazienti gravi e difficili: l’uso della NET, della co-terapia e della terapia integrata

In presenza di pazienti gravi, con l’ausilio dell’oggetto analitico e di un eventuale oggetto transizionale, il terapeuta può essere il perturbatore strategicamente orientato

 

Introduzione

Nella pratica terapeutica ci potrebbe capitare di avere in cura un paziente considerato grave e difficilmente gestibile. Secondo alcuni specialisti, ad esempio, con il disturbo borderline non c’è molto da fare e i “border” vengono definiti incurabili. Con questa visione delle cose finiremmo presto per andare in burnout e buttare tutti i nostri anni di studio nel cestino. Un approccio diverso dovrebbe prevedere di mettersi accanto al paziente e provare a “camminare” per un breve tratto insieme a lui. Questo ci permetterebbe di capire le diverse modalità di approccio che ogni persona può avere in terapia, le diverse lacune emotive che ci potrebbero essere e che possono inficiare il percorso di cura. Oltre ciò, aiuta saper “inquadrare” il paziente come essere capace e depositario di risorse che gli permettono di compiere azioni e di progredire nella vita, nonostante le difficoltà che incontra nel suo percorso.

Se gli altri lo considerano ingestibile e non migliorabile, noi abbiamo il dovere morale e professionale di accoglierlo e validare ogni suo vissuto. Tutto ciò per permettergli di costruirsi giorno dopo giorno.

Il Protocollo NET

Nei casi considerati più gravi possiamo avvalerci del protocollo NET; la Narrative Exposure Therapy (NET) è un trattamento breve e focalizzato sulla cura delle sindromi inerenti il trauma, in particolare, quelli articolati e di difficile gestione (Schauer, Neuner & Elbert, 2014). Il principio basilare del suddetto protocollo, è la teoria della rappresentazione duplice (Brewin et al., 1996; Moss, 2016); essa muove i suoi passi dall’ipotesi che la narrazione che una persona fa a se stessa circa il proprio vissuto influenzi le modalità attraverso le quali percepisce le esperienze quotidiane e il benessere soggettivo. Il paziente costruisce, con l’aiuto del terapeuta, un percorso della sua vita, un simbolo, fatto di una corda, fiori e pietre, che mette in ordine cronologico gli eventi della sua esistenza – positivi, negativi (anche traumatici) della persona. Costruita la linea della vita, il paziente inizia la sua narrazione fino a che non incontra gli eventi negativi ovvero le pietre; essi vengono affrontati tramite l’esposizione immaginativa, spazio in cui il terapeuta prova a chiedere un resoconto dettagliato circa il vissuto emotivo e cognitivo, nonché riguardo le risposte fisiologiche vissute dal paziente  durante l’evento traumatico.

Il paziente è incoraggiato a esporre la sua esperienza emotiva mentre elabora il racconto, senza sganciarsi dal presente, collegando ciò che ha provato a fatti episodici. In questo modo, si facilita la rielaborazione e l’integrazione armonica di tutto il vissuto personale. Tutto ciò avviene dopo aver rimodulato la portata degli eventi di vita a valenza altamente negativa. Un ulteriore punto da considerare nel protocollo in questione è “l’essere nel presente”. Il paziente ci arriva ricordandosi che le emozioni e le risposte fisiche che occorrono in risposta ai ricordi, in questo caso di natura traumatica, sono espressamente collegate a specifici fattori come un posto particolare o un luogo specifico. Altresì, esse sono rimodulate e riprocessate all’interno del percorso di vita del paziente difficile, così da unirle ad un significato specifico e non lasciarle vagare come schegge impazzite. Possiamo prendere in prestito una parola dalla neuropsicologia: Anosognosìa. Essa indica la non consapevolezza della propria situazione da parte del paziente in ambito cognitivo. Invece, tramite il lavoro della NET e “L’essere nel presente” è possibile ovviare a questa condizione, ma per quanto riguarda la parte emotiva (alessitimia) e la narrativa di vita.

Queste operazioni possono essere facilitate dalla capacità del nostro sistema “corpo” di entrare in relazione con l’altro, in questo caso il terapeuta. Louis Cozolino, nel suo libro Il Cervello sociale: neuroscienze delle relazioni umane, si domanda quale impatto hanno su di noi le relazioni umane. In terapia l’importanza attribuibile alle relazioni aumenta; lo specialista, tramite una rivisitazione della “Reverìe materna”, può accogliere i vissuti emotivi del paziente e rimandarglieli validati e rimodulati, specialmente nelle fasi in cui la persona non ha le risorse mentali per effettuare un contenimento e/o abbassamento dell’arousal emotivo. In tutto il processo terapeutico il paziente è il vero protagonista della storia ri-vissuta tramite, ad esempio, le tecniche di immaginazione guidata. Dovrebbe essere presente il principio trasversale della “Talking Cure” che permette ai due dialoganti di intessere una trama proficua lungo tutto il percorso.

Il suddetto principio diventa prezioso soprattutto nella fase di stabilizzazione del paziente difficile, prima di addentrarsi nella disamina del vissuto altamente negativo o gravemente psicopatologico. La linearità di pensiero diventa un obiettivo per il paziente tramite l’esame di realtà e l’analisi fattuale. Con questa modalità si cerca di evitare l’eccesso di stimoli proveniente da una situazione gravemente compromessa e/o disregolata. Il terapeuta può insegnare al paziente a focalizzarsi sulla storia e sugli elementi più oggettivi così da aiutarlo a lavorare sulle parti che può “controllare” maggiormente. Il terapeuta e il suo paziente si addentrano nella narrazione della storia di vita di quest’ultimo.

Sebbene ci siano alcuni elementi della relazione paziente-terapeuta che potrebbero riproporre la relazione genitore-figlio e sono, eventualmente, paragonabili ad essa, l’analogia può essere utilizzata impropriamente per giustificare una folie à deux in cui il paziente vuole disperatamente che il terapeuta diventi il genitore buono che compensa il genitore cattivo del passato.

Il terapeuta potrebbe cadere in errore colludendo con questo desiderio, tentando di diventare una figura idealizzata che dovrebbe risarcire il paziente per i traumi passati.

Cosa può fare il terapeuta in casi altamente disfunzionali?

È importante sottolineare che, soprattutto nel lavoro con pazienti problematici, si potrebbe parlare della “creazione” di un nuovo oggetto nello spazio terapeutico; possiamo prendere spunto dalla teoria psicoanalitica secondo la quale l’analista e il paziente concorrono a creare l’oggetto analitico. Quest’ultimo potrebbe essere funzionale all’accoglimento e contenimento di eventuali scompensi e disregolazioni di pazienti altamente problematici e/o traumatici; esso potrebbe dare coerenza di significato al sistema terapeutico in atto, nonostante la disfunzionalità della psicopatologia. Gli oggetti sopra menzionati potrebbero avere per il paziente una funzione validante del sé, in una fase della terapia nella quale il soggetto ha meno risorse disponibili.

In presenza di un paziente grave, con l’ausilio dell’oggetto analitico e di un eventuale oggetto transizionale, il terapeuta può essere il perturbatore strategicamente orientato per il suddetto. L’oggetto transizionale non è solo l’orsacchiotto e la sua utilità non è confinata al solo periodo dell’infanzia. Il compito di accettazione della realtà non è mai completato, nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna e il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza. Il bisogno di un oggetto specifico o di un modello di comportamento può ricomparire in un’età successiva, ad esempio quando si vive una minaccia di privazione (Balestrieri, 2019). È doveroso ricordare che lo spazio di cura che viene portato avanti è privo di schemi di giudizio e dove il concetto di colpa non è contemplato. L’oggetto transizionale, soprattutto nella fase di stabilizzazione critica del paziente difficile e/o grave (es. DBP), potrebbe ovviare alle croniche sensazioni di vuoto e incompletezza che accompagnano la persona. Questa fase sarebbe di ausilio alla fase successiva di rimodulazione dei vissuti disfunzionali nonché alla ristrutturazione degli eventi di vita da cui il paziente è stato travolto.

Per quanto concerne il disturbo bipolare, il paziente elabora in maniera concreta la sua esperienza personale. L’intervento su una modalità poco flessibile e concreta comporta: ricostruire le caratteristiche elementari della sequenzializzazione di una trama, cioè ricostruire gli aspetti basici di cronologia, casualità e tematicità e anche la ricostruzione della distinzione tra interno/esterno. Dopo di che, il lavoro diventa uguale per tutti; si cerca di ampliare la trama narrativa. Una volta che si ricostruisce l’aspetto nucleare di base, si comincia il lavoro di ampliamento e articolazione.

È importante aiutare il soggetto a centralizzare gli aspetti positivi del suo vissuto per aumentare l’agency positiva, dopo aver pensato alla corretta stabilizzazione e “messa in sicurezza” del paziente nelle prime fasi della psicoterapia tramite l’inserimento nella comfort zone terapeutica.

Nei pazienti con dissociazione traumatica si rileva una particolare frammentazione nei ricordi ed una scarsa integrazione negli schemi generali del paziente. Essi si palesano per le loro sensazioni e affetti intensi, spesso poveri dal punto di vista verbale (Van der Kolk et al. 2001). L’integrazione di questi ricordi diventa il core della terapia.

In aggiunta, dovrebbe essere prevista l’acquisizione di livelli sempre più funzionali di tolleranza degli aspetti emotivi che possono emergere con le loro sensazioni corporee.

In terapia, soprattutto il paziente difficile è portato a “sezionare” lui stesso le emozioni alla base di tutti i giorni. Sarebbe utile pensare ad un addestramento per Il paziente tramite la “visual imagery” emotiva, così da depotenziare in maniera funzionale l’arousal delle emozioni che rivestono un ruolo centrale nel vissuto difficile e/o traumatico della persona. Il contenitore sicuro della terapia può diventare a tutti gli effetti un modulatore dei riverberi emotivi che potrebbero palesarsi con la gestione di un paziente grave. È importante non superare la soglia critica oltre la quale il paziente potrebbe disregolarsi e rendere vani i progressi compiuti in terapia.
Dopo aver concluso la fase di stabilizzazione con e per il paziente si può procedere alla parte integrativa.
Per integrazione si fa riferimento all’importanza del lavoro, nel corso della terapia, sugli eventuali processi mentali dissociati. Un’attività di contatto con il proprio corpo e l’ambiente circostante potrebbe essere il grounding.

Il grounding mira a far sentire il paziente in diretto contatto con il suo corpo. È un esercizio che può aiutare a farlo sentire più presente a se stesso nelle azioni quotidiane. Attraverso questa tecnica si cerca la riduzione dei sintomi dissociativi contrastando il frequente effetto numbing (ottundimento emotivo) particolarmente presente nei Disturbi Dissociativi: a questo fine è importante, anche in seduta, un ambiente adeguato e funzionale. Oltre ciò, il terapeuta può far dedicare il paziente alle tecniche di stimolazione sensoriale e corporea autoprodotta (musiche, odori forti, esercizi corporei di stretching etc.). La persona deve essere parte attiva nel processo terapeutico. Lo specialista riporta in asse il paziente in caso ci fosse uno “sbandamento” da parte sua.

Durante la terapia, la cura personale e funzionale costituiscono uno degli obiettivi principali nella gestione di un paziente difficile. Prendersi cura di sé aiuta a riconoscere di poter avere dei confini rispetto agli altri e di essere in grado, con l’aiuto del terapeuta, di dare forma e direzione al proprio quotidiano. Nei pazienti gravi, con spunti dissociativi o fenomeni conclamati, mantenere un saldo ancoraggio a una semplice routine quotidiana e a degli schemi che possano aiutarli a “funzionare” meglio può indicare una via di uscita. Ad esempio, si può sottolineare la fondamentale importanza di avere una rete sociale come supporto o di iniziare un percorso di istruzione che possa dare al paziente un background più solido.

Soprattutto con pazienti affetti da Disturbi Dissociativi gravi o PTSD complesso, la prima sfida riguarda la loro sicurezza e i possibili comportamenti anticonservativi. In questi casi, una sorta di contratto di sicurezza deve essere concordato in modo chiaro e diretto. Il terapeuta dovrebbe aiutare il paziente a esplicitare l’attivazione del suo sistema cooperativo tramite il quale diventa possibile la messa a punto dell’alleanza terapeutica in cui, in maniera esplicita, possono condividere un obiettivo comune. È importante rimanere all’interno dei confini terapeutici così da evitare attivazioni emotive disfunzionali da parte del paziente. Uno strumento utile potrebbe essere l’auto-osservazione o auto-monitoraggio tramite diari giornalieri. Il tutto deve essere supportato dal terapeuta in maniera accurata; quest’ultimo può riformulare e rimandare ciò che si evince dagli homeworks dati al paziente. Non è da tralasciare la validazione delle emozioni sia positive che negative che la persona porta con sé nello spazio sicuro della terapia.

Così facendo è possibile iniziare a dare una continuità narrativa agli eventi/emozioni affrontati dal paziente; tramite queste manovre la persona riesce ad abbassare il “rumore” dei sintomi?

Il terapeuta può riformulare in termini generativi quello che il paziente porta così che quest’ultimo possa sentirsi sempre in grado di migliorare ed essere performante tramite le sue risorse.

Se ci trovassimo a gestire un paziente borderline o bipolare, per riuscire a fornire un confine sicuro tra la fantasia-impulso e l’azione e contenere i desideri del paziente, ad esempio in caso di eventuali acting out verbali e/o fisici, inizialmente, basteremmo come “pellicola” di protezione? Come possiamo aiutarlo ad integrare emozioni e vissuti discordanti, ammesso che ne abbia veramente coscienza?

La Co-terapia e la terapia integrata a confronto

In quest’ultima parte vorrei focalizzarmi sull’uso della co-terapia messo a confronto con la terapia integrata in caso prendessimo in carico un paziente difficile.

Pongo due domande che serviranno come spunto per trattare il nodo centrale sulla co-terapia: “L’ordine mentale, di solito, tende a ricomporsi quando siamo da soli? Potrebbe essere vero che l’assenza di socialità, in determinati momenti della nostra vita, si intende, ci può aiutare a ricordare chi siamo veramente?”.

In casi di pazienti gravi e difficili, la citazione su riportata potrebbe non avere molto senso; il motivo si ritrova nella possibile facile frammentazione e disorganizzazione mentale. Una possibilità di cura potrebbe essere quella di adottare un setting terapeutico peculiare, quello integrato o direttamente in co-terapia.

Per quanto riguarda il primo, si tratta di un setting unico in cui lo stesso specialista può “erogare” sia la terapia farmacologica sia la psicoterapia. Invece, nella co-terapia esistono due setting totalmente diversi che hanno l’obbligo di dialogo costante. Potrebbe capitare la situazione in cui uno specialista è il farmacologo e l’altro lo psicoterapeuta.

Tramite l’ipotesi che il trattamento a SMI (setting multipli integrati) è di elezione nei pazienti con DBP o, comunque considerati gravi, passiamo in rassegna vantaggi e limiti della psicoterapia nei setting multipli integrati.

La Co-terapia appare un valido strumento di cura ma, nella pratica clinica, è faticoso a livello tecnico. Ci troviamo di fronte a due relazioni terapeutiche contemporanee, due setting differenti gestiti da due professionisti diversi; tutto ciò aumenta la complessità della terapia e può mettere a rischio la buona riuscita della terapia, fondamentale in casi di grave psicopatologia.

Questo tipo di attività parallela potrebbe portare ad una eccessiva frammentazione del vissuto del paziente problematico, ad esempio borderline o psicotico. Questi ultimi hanno bisogno di linearità nel percorso di terapia cercando di evitare eventuali “scontri” relazionali tra i terapeuti.

In casi di trauma o estrema disregolazione si potrebbe pensare ad una terapia integrata, la quale prevede la presenza di un solo specialista che effettua la psicoterapia e che cura la parte psicofarmacologica.

I due specialisti devono essere collaborativi tra di loro per tutto il percorso di cura del paziente, questo punto nodale, oltre a costituire la base della co-terapia, potrebbe dare più problemi nel quadro complessivo di gestione del paziente. Le comunicazioni fra terapeuti devono essere costanti e orientate alla assoluta autenticità e fiducia reciproca. Gabbard e Kay nel 2011 hanno usato un’espressione alquanto particolare per indicare la peculiarità tecnica e relazionale della comunicazione fra terapeuti: Tempo non fatturabile. Una delle discriminanti su cui focalizzarsi potrebbe essere l’impegno professionale dei due specialisti, volto alla corretta stabilizzazione del paziente prima e poi al buon andamento del viaggio terapeutico. Per questo motivo è bene programmare periodici “rendez-vous” tra gli specialisti, con annessi brain-storming focalizzati sul medesimo paziente; essi dovrebbero essere svolti senza fretta e faccia a faccia. Altresì, si può impostare un programma di supervisione che possa mantenere le parti in equilibrio; il grado di collaborazione è demandato ad una terza parte esterna ai setting terapeutici. Il ritmo degli incontri dovrebbe rispondere all’esigenza reciproca di sostegno, di affrontare i problemi che insorgono nella relazione con il paziente o tra co-terapeuti.

Con i pazienti difficili e provenienti da storie di attaccamento disorganizzato, i curanti potrebbero esacerbare dei conflitti, spesso inevitabili, provocati dalle conseguenze disfunzionali del suddetto attaccamento. Nonostante le costanti difficoltà che si possono incontrare sarebbe importante riconoscere celermente gli eventuali aspetti di conflittualità tra gli specialisti, che a volte potrebbero assumere connotati caleidoscopici. L’importanza della riconciliazione tra i terapeuti pone al paziente un’importante chance per sviluppare il suo personale assetto della Teoria della Mente. Così è portato a sperimentare, nel rapporto diretto con e fra i suoi terapeuti, la capacità di negoziare l’alterità di un diverso punto di vista, nonché sviluppare la tolleranza per l’inevitabile divergenza di opinioni, essenziale in una relazione interpersonale di qualunque genere.

L’ausilio della co-terapia sarebbe difficile da gestire anche nei casi di pazienti gravi provenienti da storie di attaccamento disorganizzato. Una prima spiegazione potrebbe essere l’insostenibilità, per alcuni pazienti, di gestire l’elevato grado di autenticità nella comunicazione che le co-terapie ben strutturate e ben condotte rapidamente richiedono e mettono in evidenza. La seconda ipotesi sosterrebbe l’idea che esistono soggetti gravi con importanti deficit cognitivi e metacognitivi; essi non sarebbero in grado di gerarchizzare le figure di riferimento e, per questo motivo, non riuscirebbero a tollerare la contemporanea presenza di due terapeuti.

La co-terapia o Trattamento a setting multipli integrati, nonostante sia ipotizzabile come intervento di elezione nel caso del DBP o comunque dei pazienti gravi (es. psicosi), può presentare delle criticità. È bene ribadire alcuni concetti inerenti la teoria dell’attaccamento.

Questi pazienti sembrano mostrare una compromissione più meno grave delle capacità di sviluppare relazioni di attaccamento molteplici e differenziate, ognuna di queste rivolta ad una specifica figura di attaccamento.

Dopo aver sviluppato molteplici legami di attaccamento, direzionati verso i vari membri della famiglia o esterni ad essa, i primati e l’uomo li ordinano in una gerarchia di importanza relativa, come quella che caratterizza l’assetto globale dei rapporti di ciascun individuo con chi può prendersi cura di lui.

La dimensione mentale dell’attaccamento, anziché essere gerarchica e monotropa (rivolta preferenzialmente, ma non esclusivamente, a una figura di attaccamento, detta primaria proprio perché ne esistono di secondarie), in questi pazienti tende a divenire monolitica (rivolta ad una sola persona con modalità rigide ed esclusive). Si può così definire un’ipotetica patologia dell’attaccamento che possiamo chiamare Deficit di gerarchizzazione e di monotropismo.

Oltre ciò, i pazienti suddetti hanno ulteriori caratteristiche da non sottovalutare nella scelta della terapia più appropriata. Ci può essere la perdita della capacità di considerare autonoma la mente di potenziali nuove figure di attaccamento; figure diverse da quella che non solo è, allora, primaria, ma diviene l’unica con cui poter interloquire.

Si potrebbe palesare un grave deficit della TdM; ad ogni interlocutore si attribuiranno intenzioni, pensieri e sentimenti della figura di attaccamento percepita e considerata come “unica”. Da questo potrebbe derivare un deficit della capacità di intrattenere punti di vista multipli su un evento specifico; infine ci potrebbe essere il conseguente rischio di sviluppare convinzioni deliranti particolarmente resistenti alla critica da parte di nuove figure che tentino di offrire cura, ad esempio i due co-terapeuti con i setting diversi. Si potrebbe evidenziare il rischio di sperimentare una forte e insopportabile dissonanza cognitiva nella relazione con due terapeuti che stiano cercando di instaurare la talking cure; il paziente potrebbe valutare impossibile il proseguimento di relazioni simultanee con entrambi.

Nel caso del DOC grave ci potrebbe essere la continua attivazione del sistema agonistico con i due specialisti; alla base ci potrebbe essere la convinzione altamente disfunzionale del paziente secondo la quale: Per valere veramente è necessario dominare sull’altro. Queste sfide agonistiche avrebbero come vulnus le capacità intellettuali. Resistere alle svalutazioni intellettuali del paziente ha lo scopo di non farlo sentire “mostruoso e distruttivo”; ciò potrebbe operare sottosoglia e più nello specifico ad un livello inconscio. C’è il rischio che il soggetto, protagonista nella terapia, possa operare un continuo confronto svalutativo ai danni dei terapeuti anche in modalità alternata. Tutto ciò apparirebbe come un tentativo di valutare la solidità della cooperazione paritetica degli specialisti; altresì, quanto detto sarebbe inconciliabile con la convinzione disfunzionale e, verosimilmente, patogena secondo la quale “valere vuol dire prevalere sull’altro”. Nel corso del trattamento il paziente può “lanciare” ripetuti test ai danni dei terapeuti per creare conflitti inter-terapeutici. L’esito controproducente sarebbe quello di riconoscere come top-down e bottom-up gli specialisti a livello relazionale.

Nel mondo del DOC difficile e/o grave, il principio base della pari cooperazione tra i due setting sembra inconcepibile al paziente tanto da diventare minacciosa; la minaccia sussiste in virtù della credenza nucleare patogena secondo la quale: se non si domina sull’altro non si vale.

I pazienti con storie di attaccamento disorganizzato potrebbero rispondere all’attivazione del sistema di attaccamento in seduta con una disregolazione o, quanto meno, un’escalation agonistica nei confronti del terapeuta o dei terapeuti. Può emergere in diverse situazioni, sia positive che negative.

Conclusioni

Per poter modulare e validare al meglio tutte le situazioni e gli esempi riportati, ritengo che il miglior approccio terapeutico per i pazienti gravi/difficili possa essere la terapia integrata.

Un solo specialista, con un solo setting, ha la capacità di sintonizzarsi in maniera più efficace con il paziente. In caso di scompenso ha tutte le risorse e le informazioni necessarie per agire prontamente a beneficio del paziente. Nel doppio setting, invece, ci sarebbe un rischio maggiore di frammentazione del lavoro e un’esposizione più elevata per il paziente ad eventuali episodi di dissociazione e derealizzazione eccessiva. Questo lo porterebbe ad esperire un vissuto eccessivamente negativo e, probabilmente, scarsamente tollerabile. Ecco perché la terapia integrata può essere più indicata per casi di pazienti Borderline, DOC grave, Disturbo Bipolare grave e per tutte quelle situazioni altamente difficili da gestire.

Si rende necessaria una continua supervisione da parte di un collega esperto che possa indicarci dove effettuare correzioni e dove migliorare; oltre questo si auspicano le classiche intervisioni tra colleghi che sono un buon metodo per implementare il nostro bagaglio di conoscenze.

Come recita il titolo del libro di Fabio Geda: L’esatta sequenza dei gesti, la terapia è un perfetto incastro tra due pianeti che si incontrano. Saper riparare gli strappi e gli eventuali intoppi fa parte di questa esatta sequenza dei gesti che può rimanere, in buona parte, nel mondo della prossemica e del non verbale. Paziente e terapeuta dialogano su più livelli grazie alla messa in pratica dello scaffolding emotivo da parte di quest’ultimo.

 

Opera senza autore – Recensione del film

Il film Opera senza autore è ispirato dal libro Ein Maleraus Deutschland. Gerard Richter Das Drama einer Familie.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Il personaggio del protagonista Kurt Barnert è basato sulla vita del pittore Gerard Richter. La narrazione si snoda lungo tre periodi storici.

La Germania nazista di fine anni trenta, periodo in cui un giovanissimo Kurt è “innamorato” della zia Elisabeth, uno spirito libero, stigmatizzata come schizofrenica la poveretta verrà prima sterilizzata e poi uccisa nelle camere a gas per mano del professor Seeband.

Nel dopoguerra lo stesso professore diventerà, a sua insaputa, il suocero di Barnert e non esiterà a praticare un aborto alla figlia per preservare i suoi geni dalla “contaminazione” prodotta da un artista di ceto sociale inferiore.

L’ultimo periodo è relativo al passaggio di Kurt e sua moglie nella Germania Ovest poco prima della costruzione del muro di Berlino. Qui, finalmente, il pittore, dopo aver svolto la sua attività sotto il regime della Germania Est, anche con successo, ma sempre rispondendo ai canoni di un’arte al servizio del popolo, riuscirà finalmente ad esprimere liberamente la sua creatività.

I tratti che caratterizzano la sua opera suscitano fraintendimenti espressi dalla stampa alla sua prima esposizione: “attingendo a fototessere delle macchinette, istantanee rubate dagli album di famiglia, crea opere che per ragioni inspiegabili sostengono una forza reale… non ha nulla da dire, nulla da raccontare, si distacca da ogni tradizione e per la prima volta nella storia dell’arte crea un’opera senza autore”. In realtà, come già gli aveva detto il suo maestro d’arte, il professor van Verten, “i tuoi occhi hanno visto più di tutti noi”.

Il film Opera senza autore ha un grande fascino, elementi narrativi e figurativi s’intrecciano per tre ore suscitando suggestioni e risonanze che tengono lo spettatore attaccato allo schermo. Nello sviluppo della storia sono presenti temi che potremmo definire archetipici.

Lo slancio vitale della zia Elisabeth contrapposto alla selezione naturale praticata con le camere a gas dai nazisti.

L’orrore e la distruzione della guerra verso la creazione e la bellezza artistica.

La mancanza di struttura morale del professor Seeband, algido, opportunista e incapace di empatia, e la riconoscenza gratuita del maggiore russo al quale il ginecologo fa nascere, dopo un parto a rischio, il primogenito.

La libertà creativa ed espressiva dell’artista contro la coercizione dell’arte realista del regime sovietico.

L’eros e la sensualità della relazione di Ellie e Kurt verso la fatuità dell’amore del professore e di sua moglie.

La verità dei sentimenti in contrasto con i camuffamenti e gli inganni di chi cerca di nascondere verità scomode.

La bellezza di una creatività che irrompe in modo estemporaneo contro il grigiore e il clima plumbeo degli apparati burocratici che limitano e ingabbiano.

Percorsi d’individuazione che consentono di esprimere ciò che si è, contrapposti a traiettorie ideologiche tracciate secondo criteri autoritativi.

I tredici minuti di applausi con cui è stato accolto alla Mostra del Cinema di Venezia e la candidatura a due premi Oscar sono del tutto meritati.

 

OPERA SENZA AUTORE – Guarda il trailer del film:

 

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