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“I nonni sono fatti per amare e aggiustare le cose”

Un numero crescente di bambini vive con i nonni, figure che spesso contribuiscono a tempo pieno alla loro educazione (Dare et al., 2019).

 

L’assistenza da parte dei nonni rappresenta una delle forme di cura e di crescita più rapida (Horner et al., 2007; McHugh e Valentine, 2011) e l’aumento di tale supporto dipende da differenti variabili che, nei casi più gravi, riguardano abusi o abbandono dei minori, utilizzo di sostanze, patologie mentali o incarcerazione dei genitori (Backhouse e Graham, 2013; Baldock, 2007; Dunne e Kettler, 2007; Hay et al., 2007). Un contatto stretto con i nonni comporta benefici legati ad una maggiore stabilità, ad una connessione con i membri della famiglia e ad una conseguente continuità nelle relazioni di attaccamento (Cuddeback, 2004; Dare et al., 2019). A lungo termine, si osserva una propensione maggiore alla partecipazione di attività istruttive e lavorative (Dare et al., 2019).

Punti di forza dei nonni

Gli unici a pubblicare una revisione completa sulla letteratura dei nonni furono Hayslip e Kaminski (2005), autori che analizzarono i costi e i benefici della crescita di un nipote, insieme all’eterogeneità dei nonni e al loro bisogno di sostegno sociale. Dopo aver rivisto la letteratura gerontologica dal 2004, Hayslip e colleghi (2019) indagarono nuove aree per dare un contributo al ruolo di queste persone che tutt’oggi crescono i nipoti. Nello specifico, vengono enfatizzati i punti di forza dei nonni, le diversità di questi ultimi, i contesti sociali-interpersonali e culturali, le abilità genitoriali, le relazioni familiari, il disagio psicologico provato in alcuni casi e gli interventi validati per fronteggiarlo. Hayslip e colleghi (2019) sottolinearono la natura e l’influenza positiva dell’educazione di queste figure che sono viste come modelli, supporti, insegnanti comunicativi e protettivi (Dolbin-MacNab e Keiley, 2009; Dolbin-MacNab et al., 2009). Un’altra caratteristica evidenziata dagli autori è la forza manifestata dalla resilienza (Hayslip e Smith, 2013; Zauszniewski, Musil e Au, 2013) e dall’insegnamento della ricerca di benefici (Castillo et al., 2013). Nello specifico, si è visto come la resilienza sia mediatrice della relazione tra stress e funzionamento psicosociale dei nonni, nonché fonte di riduzione dei fattori di rischio come l’isolamento sociale (Hayslip et al., 2013).

Le differenze tra i nonni

Una questione continua sulla comprensione del ruolo dei nonni riguarda la diversità tra di loro, sia in termini culturali che individuali (Hays, 2008; Hayslip e Patrick, 2006). A loro volta, le differenze possono essere correlate a fattori contestuali come la possibilità di avere una sicurezza economica: rispetto ad altri gruppi etnici, gli afroamericani hanno maggiori probabilità di mantenere i nipoti più a lungo, con un conseguente aumento del rischio di povertà (Baker e Silverstein, 2008). Essere nonni non sempre è un compito facile, in quanto risulta difficile per le persone che non hanno allevato figli per anni oppure che hanno riscontrato difficoltà nel farlo (Hayslip et al., 2019). Altre esperienze stressanti possono essere provate dai nonni in caso di povertà, minoranza etnica, problemi psicologici come ansia e depressione (Collins, 2011). Lo stress psicologico solitamente è associato alla necessità di ricoprire ruoli multipli simultaneamente (ad esempio, lavoratore, volontario, nonno), all’assistenza attuale necessaria e ricevuta (Baker e Silverstein, 2008), alla natura del rapporto tra nonno e nipote che muta e alla perdita delle relazioni sociali (Gerald, Landry-Meyer e Roe, 2006). Sono stati riconosciuti molti studi legati all’efficacia di gruppi di sostegno, corsi di potenziamento, programmi educativi e interventi di promozione della salute per poter aiutare queste figure preziose nella crescita dei loro nipoti e per migliorare il loro benessere psicologico e sociale (Collins, 2011; Brintnall-Peterson et al., 2009; Kelley, Whitley e Sipe, 2007; Kelley et al., 2013; Kicklighter et al., 2007). Ad esempio, KinNet è un progetto finanziato nel 2000 da parte dell’Adoption and Safe Families Act che istituisce una rete nazionale di gruppi di sostegno per i nonni, mentre l’Associazione Americana di Pensionati (Association of Retired Persons; AARP, 2003) ha un database composto da informazioni online su gruppi di sostegno utili per indirizzare le proprie esigenze emotive, legali e finanziarie (Hayslip et al., 2019). Data l’importanza di queste figure e il notevole per il contributo che viene dato, cercare di integrare le conoscenze sui nonni e sull’educazione dei nipoti è utile per aggiornare gli operatori e per cercare di dare un aiuto consistente.

Cosa ci spinge a viaggiare e in che modo scegliamo le nostre vacanze?

La teoria psicografica afferma che i viaggiatori si collocano su un continuum che va da psicocentrici, che preferiscono i luoghi familiari, ad allocentrici, che preferiscono i viaggi avventurosi e destinazioni nuove.

 

Cosa spinge una persona a preparare la valigia, chiudere la porta della propria abitazione – il nido sicuro- e programmare di andare altrove per un periodo, lungo o breve che sia?

Quale motivazione si cela dietro la decisione di intraprendere un viaggio, cambiare radicalmente la propria routine, dormire in letti diversi dal proprio, mangiare cibi a volte sconosciuti, parlare con persone nuove?

Perussia (1984) afferma che “turismo è voler essere altrove”.

L’uomo è considerato da sempre un viaggiatore, dapprima navigatore con sete di scoperta e conquista, ora esploratore di nuovi luoghi, usi e costumi. Ma non solo.

Le motivazioni di un viaggio

Le motivazioni che sono alla base della decisione di intraprendere un viaggio sono diverse: alcune legate al soddisfacimento dei bisogni più primordiali (vedasi la scala dei bisogni di Maslow del 1970), altre legate a fattori sociologici, antropologici ed economici.

Crompton (1979) grazie ai suoi studi sulle motivazioni ha individuato sette macroaree all’interno delle quali sono raccolte le principali motivazioni a viaggiare:

  • Evasione dal quotidiano
  • Esplorazione di se stessi
  • Relax
  • Prestigio (promozione sociale)
  • Regressione (liberazione simbolica dalle costrizioni sociali)
  • Impulso alle relazioni familiari
  • Miglioramento delle relazioni sociali.

Negli stessi anni Plog (1974) parla della sua teoria psicografica: in base alle aree di destinazione scelte, i viaggiatori sono su un continuum che va da psicocentrici (preferiscono i luoghi familiari) agli allocentrici (persone che preferiscono i viaggi avventurosi e destinazioni nuove).

Più recentemente Ryan e Glendon (1998) hanno individuato quattro aree di motivazione al turismo: Motivi intellettuali (scoperta, esplorazione, immaginazione); Motivi sociali (ricerca di nuove amicizie, essere stimati dal prossimo); Competenza (cambiare, evolvere); Evitamento degli stimoli (scappare dalla quotidianità).

Partendo da questa base teorica di riferimento è possibile ipotizzare di individuare la tipologia di viaggio/vacanze in base alla motivazione.

È sufficiente entrare in un’agenzia di viaggi o fare una ricerca online per rendersi conto di quanto sia vasta l’offerta turistica oggi.

Ognuno cerca la miglior soluzione per appagare i propri bisogni e desideri.

Le tipologie di viaggio

I cosiddetti viaggi “zaino in spalla” verso terre lontane ed insolite potrebbero essere i prediletti per chi vuole appagare il bisogno di scoperta ed esplorazione, questo sarà attratto da esperienze molto diverse dal suo quotidiano, da posti con usi e costumi diversi dai suoi. Sono viaggi costruiti ad arte dal viaggiatore, i fidati compagni di viaggio sono un diario personale e un’ottima guida turistica.

Due tipologie di viaggio affini a questo segmento sono i viaggi guidati o le crociere: questi appagano due bisogni simultaneamente: scoperta ma anche sicurezza. Si può esplorare il mondo con guide esperte ma allo stesso tempo sapere che si può tornare alla base in un luogo sicuro. Il bisogno di sicurezza descritto da Maslow (1968) è inteso come libertà da pericoli e minacce.

Chi è orientato alla ricerca del relax, inteso come cura del proprio corpo e alleviamento dello stress accumulato potrebbe optare per un soggiorno in località termali italiane ed estere. Il segmento delle terme e benessere ha conquistato un ruolo di prim’ordine nella richiesta turistica da almeno un ventennio.

Accanto e per certi versi simile, c’è il reparto dei viaggi che ha lo scopo di far accrescere il contatto con la natura. Questo tipo di viaggio soddisfa il bisogno del ritrovare se stessi, avere tempo di godere del silenzio di un viaggio immersi nel verde.

L’ormai famosa formula del villaggio “All inclusive”, riassumibile con la frase “vorrei partire, ma non voglio pensare a niente!” soddisfa senza dubbio un bisogno di staccare dalla routine senza esporsi alla fatica di dover vivere sensazioni di pericolo o di stress del nuovo, inoltre soddisfa il bisogno di appartenenza al gruppo, permettendo di conoscere nuove persone con gli stessi interessi. I punti di forza sono: la comodità della posizione del villaggio, una cucina conosciuta e “sicura” che garantisce il soddisfacimento del bisogno del nutrirsi di cibi conosciuti e “fidati”. Seguendo la distinzione di Crompton, i viaggiatori che preferiscono questo tipo di vacanza potrebbero sentire la necessità di appagare il bisogno di gioire delle relazioni familiari e di migliorare le relazioni sociali. Si può notare in questo caso il soddisfacimento del bisogno di amore e di appartenenza citato da Maslow.

Infine, la scelta verso un viaggio “instagrammabile” e con attenzione al lusso andrebbe ad appagare il bisogno di ricerca di prestigio e di promozione sociale individuato da Crompton, così come il bisogno di stima e autostima di Maslow.

Queste brevi ipotesi e riflessioni di marketing turistico potrebbero essere la base per ulteriori studi utili alla promozione turistica delle aziende che si occupano di turismo.

Il trauma cranico encefalico (TCE): dal trauma alla riabilitazione

Dopo un Trauma Cranio Encefalico di qualsiasi entità possono persistere vari deficit cognitivi e neuropsichiatrici.

 

Il Trauma Cranio Encefalico (TCE) “interrompe la normale funzione del cervello. Questa funzione può influire negativamente sulla qualità della vita di una persona con sintomi cognitivi, comportamentali, emotivi e fisici che limitano il funzionamento interpersonale, sociale e professionale” (M. Pervez et al., 2018).

Sequele Post-Traumatiche del Trauma Cranico Encefalico

Dopo un Trauma Cranio Encefalico di qualsiasi entità possono persistere vari deficit cognitivi e neuropsichiatrici. Questi possono essere di varia natura, ma generalmente sono classificati in due categorie (che non sono rigidamente distinte e separate): alterazioni delle funzioni cognitive ed alterazioni del comportamento e della personalità. I deficit cognitivi e comportamentali dopo un Trauma Cranio Encefalico hanno effetti disabilitanti molto preoccupanti perché, oltre ad impedire la riabilitazione del paziente, gli creano notevoli difficoltà in ambito familiare, sociale e lavorativo.

Diversi domini cognitivi sono prevedibilmente compromessi, comprese le funzioni esecutive frontali (problem solving, set shifting, controllo degli impulsi, autocontrollo), attenzione, memoria e apprendimento a breve termine, velocità di elaborazione delle informazioni e funzioni della parola e del linguaggio (Ewing-Cobbs L. et al., 2002; Weintraub S. et al., 1981).

La personalità di un paziente traumatizzato può subire notevoli cambiamenti con conseguente ansia, depressione, irritabilità, intolleranza all’ambiente circostante, frustrazione, improvvisi cambi d’umore e perdita d’interesse per ciò che lo circonda. Tutto ciò comporta uno stato d’isolamento sociale e l’impossibilità di rientrare nel proprio ambiente lavorativo. I sopravvissuti e la famiglia/caregiver descrivono spesso le alterazioni nella regolazione emotiva e comportamentale come “cambiamenti di personalità”.

Valutazione del Trauma Cranico Encefalico

I deficit che insorgono in seguito a Trauma Cranio Encefalico, quali difficoltà attentive, mnestiche, esecutive, di consapevolezza e di controllo comportamentale, hanno un effetto negativo nelle capacità relazionali, nel ritorno all’attività lavorativa e nella qualità di vita (Santopietro et al., 2015). È importante in questa fase che il paziente venga inserito all’interno di un progetto riabilitativo che coinvolga diversi professionisti che, lavorando in èquipe, accolgano le difficoltà della persona programmando un percorso riabilitativo personalizzato (Valorio P. et al., 2016). La riabilitazione cognitiva comprende una serie di terapie fisiche, occupazionali e logopediche, terapie individuali e di gruppo che mirano a valorizzare le abilità emotive, sociali e funzionali del soggetto traumatizzato.

Trattamento e riabilitazione del Trauma Cranico Encefalico

Attualmente, non esiste un trattamento valido per tutti nella pratica clinica quotidiana per i pazienti post Trauma Cranio Encefalico, data l’eterogeneità delle lesioni cerebrali.

Nella fase di riabilitazione post trauma il paziente ha bisogno di essere supportato psicologicamente per affrontare i cambiamenti inevitabili che derivano dalla sua nuova condizione. A seconda della gravità della lesione, il team medico fornisce al paziente una terapia per accompagnarlo nella fase di riabilitazione, che spesso comprende terapia occupazionale, clinica, neuropsicologica e fisica. L’autrice Ponsford J. (2012) sostiene che in questa fase lo psicologo deve predisporre un intervento che miri ad identificare le difficoltà o i punti di forza del paziente e su quella base fornire una terapia per aiutarlo a superare i deficit comportamentali e/o interpersonali sopraggiunti dopo il trauma, aiutandolo ad adattarsi alla sua nuova condizione e sostenendo non solo il paziente con Trauma Cranio Encefalico, ma l’intero nucleo familiare, in particolar modo il caregiver che lo assiste costantemente. Al caregiver viene richiesta l’organizzazione e la cura del paziente traumatizzato, viene informato sull’esito della valutazione e sul programma di riabilitazione da attuare. Le persone con lesioni cerebrali traggono vantaggio dal ricevere un feedback e consigli sulla natura delle loro difficoltà psicologiche. Una spiegazione dettagliata della natura delle difficoltà post trauma e una guida sulla probabile estensione del recupero, può aiutare il paziente traumatizzato ad acquisire una prospettiva più realistica. La consulenza psicologica può anche aiutare a valutare le opzioni di reimpiego e a tornare nell’attività sociale e nel tempo libero. La famiglia dovrebbe essere inclusa nel modo più completo possibile in tale consulenza. Spesso i familiari chiedono consigli sulla gestione cognitiva e/o comportamentale e può assumere il ruolo di co-terapeuta per rafforzare le strategie di trattamento a casa. Per quanto riguarda la psicoterapia individuale, alcuni pazienti, comprensibilmente, si sentono devastati dagli effetti della loro lesione cerebrale. Dove le persone soffrono di depressione marcata o ansia, terapia psicologica o trattamento psichiatrico possono aiutarli ad attraversare la difficile fase. Tuttavia, non sono solo le persone che sono gravemente angosciate che traggono beneficio dalla psicoterapia. Nella confusione del presente e dell’incertezza del futuro, i pazienti spesso si aggrappano al passato a seguito della loro lesione cerebrale. Alcuni tentano di andare avanti come prima, incapaci di accettare le modifiche che si sono verificate, e possono continuare a giudicare sé stessi in base agli standard pre-infortunio che non possono più incontrarsi. La psicoterapia può aiutare le persone a rivalutare la loro nuova situazione. Con il supporto e la guida, spesso i pazienti traumatizzati possono essere aiutati ad andare avanti per esplorare il loro nuovo sé e cercare una nuova direzione e scopo per le loro vite.

 

La riscoperta delle sostanze psicoattive: l’MDMA nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è una condizione comune e debilitante causata dall’esposizione ad un evento traumatico. Recentemente sono stati finanziati diversi studi sulla psicoterapia assistita dall’MDMA per il PTSD.

 

Per ottenere una diagnosi, oltre che l’esposizione al trauma, è prevista la presenza di sintomi intrusivi collegati all’evento come sogni, ricordi, flashback, alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico, marcate alterazioni dell’arousal come comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia ed evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico (DSM-5; APA, 2013).

Per quanto concerne la parte farmacologica, i farmaci di prima linea approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), la sertralina e la paroxetina. Tuttavia, si stima che il 40-60% dei pazienti non risponda a questi composti (Steenkamp et al., 2015). Mentre per quanto riguarda la psicoterapia, l’EMDR e la terapia cognitivo-comportamentale basata sull’esposizione e rielaborazione del trauma sono considerate i trattamenti gold standard per il PTSD (Watkins et al., 2018), ma alcuni soggetti si mostrano resistenti al trattamento (Gutner et al., 2016).

Con il tentativo di esplorare nuovi trattamenti efficaci, alcuni ricercatori negli anni passati si sono focalizzati sull’utilizzo di sostanze psicoattive sintetizzate, che a causa di limitazioni e controversie sono state però presto vietate.

Disturbo da stress post traumatico e MDMA: i primi utilizzi

Una delle sostanze psicoattive studiate è la 3,4-metilenediossimetanfetamina, più comunemente nota come MDMA, sintetizzata per la prima volta nel 1912 come precursore di un agente coagulante. Dopo la sua scoperta, la sostanza venne presto accantonata, per poi emergere nuovamente negli anni ’70, con i farmacisti alla ricerca di nuovi farmaci di tipo anfetaminico. Alexander Shulgin, un ricercatore farmaceutico che aveva l’approvazione del governo per sintetizzare nuovi composti, si interessò all’MDMA facendone esperienza nel 1977 (Benzenhöfer & Passie, 2010). Impressionato da essa, introdusse l’MDMA ai suoi contatti, che iniziarono ad utilizzarla con i loro clienti nelle sessioni di terapia. La popolarità dell’MDMA come droga ricreativa aumentò rapidamente dopo di allora, e di conseguenza l’uso e la produzione furono criminalizzati nel 1985 e il lavoro clinico e di ricerca si fermò bruscamente.

Un piccolo gruppo di terapeuti che avevano usato l’MDMA con i loro clienti prima della sua criminalizzazione continuò a credere nel potenziale terapeutico dell’MDMA, in particolare per le persone con disturbo da stress post traumatico (PTSD). Il modello che proponevano era incentrato sulla terapia in cui l’uso di MDMA avrebbe creato una “finestra di tolleranza” per i pazienti traumatizzati per lavorare attraverso le loro esperienze in un ambiente aperto e solidale (Mitchell et al., 2021)

L’MDMA induce il rilascio di serotonina legandosi principalmente ai trasportatori presinaptici di serotonina (Rudnick & Wall, 1992) e gli effetti che la sostanza ha dimostrato produrre sono: il miglioramento dell’estinzione della memoria della paura, la modulazione del riconsolidamento della memoria della paura (possibilmente attraverso un meccanismo dipendente dall’ossitocina) e il sostenimento di comportamenti sociali in modelli animali (Hake et al., 2019).

Sugli esseri umani, invece, l’MDMA sembra aumentare la risposta alla riattivazione dei ricordi autobiografici positivi, diminuisce la risposta ai ricordi autobiografici negativi, promuove l’autocompassione, aumenta la fiducia e l’empatia, facilita la condivisione di informazioni personali sensibili con gli altri (Bershad et al., 2016; Bershad et al., 2019).

Disturbo da stress post traumatico e MDMA: le evidenze

Recentemente, Rick Doblin e l’organizzazione da lui fondata per promuovere la riprogrammazione dell’MDMA (la Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies [MAPS]), ha finanziato una serie di studi sulla psicoterapia assistita dall’MDMA per il PTSD.

Un recente studio sostenuto dalla MAPS, sviluppato insieme alla US Food and Drug Administration (FDA), ha dimostrato che la psicoterapia assistita dalla MDMA si è dimostrata più efficace per i sintomi del PTSD rispetto alla stessa psicoterapia fornita con placebo.

In particolare, lo studio (Mitchell et al., 2021) è stato condotto per 18 settimane su un totale di 90 soggetti: 46 soggetti sottoposti a psicoterapia con somministrazione di MDMA e 44 soggetti sottoposti a psicoterapia e sostanza placebo.

I risultati hanno mostrato una riduzione della gravità del disturbo del 55,5% con la somministrazione dell’MDMA, ottenendo un risultato significativamente maggiore della sostanza placebo associata alla terapia (31,5% di riduzione). Alla fine dello studio, 14 dei 42 (33%) pazienti del gruppo MDMA e 2 dei 37 (5%) pazienti del gruppo placebo erano in fase remissione.

La sostanza sembra aver prodotto miglioramenti significativi rispetto al placebo anche nella gravità della depressione e nella disabilità sociale, producendo quindi nel complesso dei risultati impressionanti.

É importante sottolineare che gli effetti collaterali provocati dall’MDMA non sono stati classificati come gravi; tra questi vi erano tensione muscolare, riduzione dell’appetito, sudorazione eccessiva, sensazione di freddo e pupildilazione.

Tuttavia, questo studio non ha affrontato questioni di fondamentale importanza come la dipendenza e la neurotossicità negli esseri umani a seguito di una limitata somministrazione di dosaggi terapeutici di MDMA.

Futuri studi faranno luce sui possibili effetti collaterali dell’utilizzo di questa sostanza e dei possibili effetti benefici del suo utilizzo nell’ambito terapeutico.

 

Le Scuole di Psicoterapia e l’emergenza COVID

È con dispiacere ma anche con cruccio che siamo costretti a smentire Umberto Galimberti che, rispondendo il 4 dicembre a una lettera spedita da un padre di famiglia al quotidiano Repubblica, si preoccupa che le scuole di psicoterapia non prendano -a suo dire- posizione sul problema del contagio da COVID e del vaccino e non abbiano preso provvedimenti verso gli allievi che non vogliono vaccinarsi e forse assumono una posizione “novax”.

L’autore della lettera a Galimberti ha una figlia che frequenta una scuola di psicoterapia e si chiede come possa essere possibile che un allievo di queste scuole possa assumere una posizione “novax”. Domanda vaga che sembra attribuire una generica responsabilità alle scuole che abbiano allievi che non si vaccinino.

Nella sua risposta Galimberti formula un’accusa più precisa. Ammette di non sapere quale sia la posizione delle scuole di psicoterapia sul contagio da COVID-19 e sui vaccini, poi assume che non abbiano assunto una posizione chiara di opposizione a ogni idea novax dato che la figlia dell’autore della lettera non si vaccina e per questo decide che la lettera del padre dell’allieva non vaccinata sia un’accusa, anzi -parole dello stesso Galimberti- un J’accuse alle scuole e infine si lancia in una sua riflessione del rapporto tra etica e psicoterapia la cui conclusione è un salto logico: le scuole di psicoterapia non sono etiche, dato che da loro vi sono allievi che non si vaccinano, ovvero non si curano. Il ragionamento di Galimberti sembra essere: Come possono pretendere di fare psicoterapia -che è una cura- quegli allievi che non si vaccinano se loro per primi, non vaccinandosi, rischiano di nuocere agli altri? Domanda giusta, se rivolta agli allievi. Il problema è che a questo punto Galimberti imprime una svolta audace alla sua domanda e si chiede: dove si stanno formando allievi del genere? E la sua risposta è che si stanno formando in Scuole di Psicoterapia non etiche. E una volta giunto a questa conclusione Galimberti conclude di trovarsi di fronte a uno scandalo morale. Questo è il senso del termine “J’accuse”: una denuncia etica di un inaccettabile scandalo morale quale fu l’affare Dreyfus.

Galimberti - Repubblica 4 dicembre 2021Il ragionamento è così capzioso e fallace che è fin troppo facile rispondere. Come ammette lo stesso Galimberti, le Scuole di Psicoterapia condividono i codici deontologici dei medici e degli psicologi che raccomandano la cura anti-COVID, vaccino compreso. L’adesione alla lotta all’emergenza COVID è così chiara da non dover essere nemmeno provata. Che esistano allievi di queste Scuole che, malgrado l’adesione delle scuole a tutte le iniziative di promozione della vaccinazione, rifiutano il vaccino non dipende da tare etiche o da mancanze nella moralità e nella formazione delle Scuole. Le Scuole di Psicoterapia non nutrono sotterranee collusioni novax, sebbene il termine J’accuse usato da Galimberti le equipari alle collusioni con l’antisemitismo e il razzismo nutrite dalla società e dall’esercito francesi nell’ottocento.

Il ragionamento di Umberto Galimberti che, essendo la psicoterapia una cura non è possibile che esistano allievi di scuole di psicoterapia che rifiutino il vaccino e rischino di nuocere agli altri e che, se esistano, questo dimostrerebbe l’esistenza di mancanze etiche e formative nelle scuole è appunto un ragionamento e un teorema ma non è un fatto. La realtà dei fatti è molto più semplice. Le Scuole di Psicoterapia come organi didattici e clinici riconosciuti dallo Stato Italiano ne adottano tutte le direttive e normative, comprese quelle sul problema COVID, sollecitando e promuovendo, nei limiti della legalità, la vaccinazione e imponendo limitazioni a chi non si vaccina: dapprima il controllo mediante tampone a chi rifiuta questa linea e poi, con la nuova normativa del Super Green Pass, l’impedimento a chiunque di stare in un luogo chiuso senza o essere guarito dal COVID o essersi vaccinato. Inoltre, le scuole di psicoterapia sono frequentate da medici e psicologi che hanno l’obbligo a vaccinarsi. È compito dei rispettivi Ordini prendere provvedimenti per chi non si vaccina, tra cui la sospensione che a sua volta impedisce la frequentazione delle scuole.

Infine, la formazione nelle scuole sicuramente comporta la trasmissione agli allievi di strumenti concettuali ed etici affinché essi assumano una posizione responsabile in questo dramma della pandemia, ovvero si vaccinino. All’interno delle Scuole non vi è alcuna propaganda novax esplicita o implicita e nessuna approvazione per la scelta di non vaccinarsi. La discussione sociale sulla scelta di non vaccinarsi avviene nelle scuole come in ogni altro luogo e, come in ogni altro luogo, la sua conclusione è che la maggioranza si vaccina e disapprova la scelta di non vaccinarsi ma anche che rimane una percentuale di persone non convinte e probabilmente, prendiamone atto, non convincibili perfino all’interno di un percorso di formazione in psicoterapia. Così come esistono medici novax, ci sono allievi di psicoterapia novax.

Ritenere che le Scuole di Psicoterapia possano, per loro natura, assicurare l’intrinseca inesistenza tra i propri allievi di persone non convinte della bontà della scelta di vaccinarsi è un pensiero ingenuo. La piena adesione è un obiettivo pratico da ottenere ma non può essere ritenuto un dato di fatto da dare per scontato e che, se non c’è, segnala la presenza di chissà quali tare morali o educative nelle Scuole di Psicoterapia. Il problema è molto più semplice: il vaccino anti-COVID non è al momento, obbligatorio e quindi la società italiana, lo Stato Italiano e con essi le scuole di psicoterapia, organi -ricordiamolo- riconosciuti dallo Stato, usano lo strumento della persuasione e non della coercizione, ottenendo risultati abbastanza soddisfacenti. Il resto sono ragionamenti di Galimberti il cui fondamento purtroppo risiede solo in alcuni suoi dubbi personali, già dichiarati in molte altre occasioni, sulla trasparenza etica e sullo statuto morale delle Scuole di Psicoterapia soprattutto private. Dubbi fondati su suoi ragionamenti di natura filosofica, sociologica ed economica che -sebbene estremamente discutibili- possono anche essere in parte interessanti come stimolo culturale entro certi termini e in certe occasioni ma che, al tempo dell’emergenza COVID, diventano irrilevanti sotto ogni punto di vista.

Diet culture e restrizione cognitiva nei disturbi alimentari

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: che effetti potrebbe avere il diffondersi di tale cultura da un punto di vista cognitivo e fisico?

 

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: avere un fisico magro e muscoloso, riuscire a mantenere una dieta e delle regole alimentari ferree e praticare una rigida attività fisica viene generalmente visto come una dimostrazione di forza e determinazione e, di conseguenza, di valore personale.

Negli ultimi 50 anni, l’ideale di magrezza è andato via via rafforzandosi, come dimostrano alcuni studi che hanno analizzato i dati antropometrici delle modelle apparse sulle copertine di diverse riviste, sia indirizzate ad un pubblico maschile sia femminile: queste analisi hanno dimostrato, infatti, che sia l’indice di massa corporea (calcolato dividendo il peso per il quadrato dell’altezza) sia le circonferenze di vita e fianchi sono andate via via riducendosi dagli anni ’50 in poi.

Diet culture, disturbi alimentari e restrizione alimentare

Questo diffuso ideale di magrezza è uno dei motivi per cui vivere in una società occidentale, contraddistinta dalla diet culture, è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.

In queste patologie, l’attenzione verso il peso e le forme del corpo, alla quantità e alla qualità degli alimenti introdotti viene portata patologicamente all’estremo e diventa tanto importante nella quotidianità dell’individuo, da rappresentare un vero e proprio (se non l’unico) metro di valutazione di sé come persona.

Al fine proprio di controllare il peso e le forme del corpo, all’interno della psicopatologia dei disturbi alimentari, un aspetto diffuso e comune è la restrizione alimentare, che può assumere diverse sfaccettature:

  • controllo su quanto mangiare: restrizione alimentare quantitativa, caratterizzata dalla riduzione dell’introito energetico giornaliero, il quale risulta spesso inferiore rispetto al fabbisogno minimo;
  • controllo su cosa mangiare: restrizione alimentare qualitativa o cognitiva, contraddistinta dall’esclusione di alimenti e gruppi alimentari (frequentemente carboidrati e lipidi);
  • controllo su quando e talvolta dove mangiare: rigidità di orari e luoghi in cui consumare i propri pasti, che si traduce spesso nell’evitare di mangiare in compagnia e nel non consumare pasti cucinati da altre persone.

I potenziali rischi della restrizione quantitativa sono facilmente immaginabili e identificabili: essa può infatti portare a sottopeso, carenze di micro e macronutrienti, scompensi elettrolitici, problemi ossei quali osteopenia e osteoporosi, e amenorrea (scomparsa del ciclo mestruale).

Disturbi alimentare e restrizione cognitiva

Più insidiosa è la restrizione cognitiva, non solo perché ha effetti meno visibili, ma anche perché affonda le proprie radici in quella diet culture, cultura della dieta, tanto diffusa e radicata nella società da rendere difficile accorgersi della presenza di un problema reale.

Prediligere alcuni alimenti (considerati “buoni”, “magri”) rispetto ad altri e riuscire ad eliminarne totalmente alcuni (visti, di contro, come “cattivi” o “ingrassanti”), nonostante inizialmente possa essere visto come una prova di forza, alla lunga finisce per risultare più un obbligo morale che una scelta, e può creare grandi difficoltà nel funzionamento della persona e nella sua capacità di prendere parte alla vita sociale.

Non riuscendo a partecipare agli eventi in cui è presente un qualche “cibo proibito”, chi soffre di un disturbo alimentare finisce per isolarsi sempre di più, limitando ulteriormente gli ambiti in cui misurare il proprio valore come persona e rinforzando l’idea di doversi misurare solo in base al peso, alla dieta e al loro controllo.

In aggiunta a questo effetto relazionale, la restrizione cognitiva aumenta enormemente le preoccupazioni rispetto al peso, alle forme del corpo e al cibo stesso, andando inevitabilmente ad aumentare la sintomatologia del disturbo alimentare stesso.

Inoltre, escludere alcuni alimenti può portare all’aumento del craving, dell’intenso desiderio, di quegli stessi alimenti evitati e con esso della probabilità di avere episodi di abbuffata in cui questi cibi hanno un ruolo di protagonisti.

Affrontare la restrizione cognitiva è, pertanto, estremamente importante nel percorso di cura di un disturbo alimentare, qualunque forma esso assuma.

Disturbi alimentari e psicoterapia

Nella terapia cognitivo comportamentale (CBT) applicata ai disturbi alimentari, il fronteggiare gli “alimenti proibiti” è parte integrante del trattamento: la persona affetta dal disturbo alimentare, affiancata passo passo dal terapeuta, è spronata a compilare una tabella con tutti i cibi tabù, in ordine crescente di difficoltà e paura percepita, e ad affrontarli uno ad uno.

L’esposizione graduale e controllata, contestualmente al percorso della CBT, consente di affrontare le proprie paure, siano esse più focalizzate sul “pericolo” di un aumento di peso o di un episodio di abbuffata, e di riacquistare il controllo della propria alimentazione.

Anche quando le condizioni di salute fanno sì che il recupero del peso sia l’urgenza e la priorità, è importante che la restrizione cognitiva venga affrontata nel momento in cui la persona che combatte contro un disturbo alimentare si sente pronta a farlo: il semplice recupero del peso, infatti, non è sufficiente a far sì che la guarigione sia effettiva e non elimina il rischio che le caratteristiche del disturbo alimentare semplicemente mutino verso un versante ortoressico.

L’ortoressia è, infatti, una forma di disturbo alimentare e in cui la distinzione tra alimenti “buoni” e “cattivi” è più marcata e vi è una vera e propria ossessione per una dieta considerata sana e salutare, con le conseguenze di isolamento sociale e sofferenza individuale che questa rigidità ovviamente porta con sé.

Affrontando la restrizione cognitiva, la persona torna a poter nuovamente scegliere nell’intera gamma degli alimenti, senza più privarsi di alcuni di essi né provare ansia all’idea di trovarsi a doverli mangiare. Questo le permette di vivere con maggiore serenità tutti gli eventi sociali connessi al cibo e tornare a far parte del mondo che la circonda e, di conseguenza, rende possibile l’ampliamento di quei domini di valutazione di sé limitati in origine alla triade peso-corpo-cibo, superando così uno dei nuclei del disturbo alimentare.

 

Mindfulness e self-compassion: tra psico-educazione e clinica – Report dalla Conferenza Internazionale

La conferenza internazionale dal titolo Mindfulness e Self-compassion: tra psico-educazione e clinica ha avuto come tema principale le modalità di connessione tra la mindfulness e la self-compassion e il mondo della psicologia e psicoterapia. 

 

Il 27 e 28 novembre 2021 si è svolta, in modalità a distanza, la conferenza internazionale dal titolo Mindfulness e Self-compassion: tra psico-educazione e clinica organizzata da “Bioenergetica e Mindfulness” di Nicoletta Cinotti e “Interessere – mindfulness in azione” con il patrocinio del Consiglio Nazionale degli Ordini degli Psicologi.

Le pratiche di mindfulness da tempo ormai si sono affacciate sul panorama clinico offrendo molte esperienze in diversi contesti sociali e lavorativi mostrando effetti positivi sia dal punto di vista del benessere psico-fisico personale esperito dai singoli, sia sul versante scientifico, come dimostrano le numerose ricerche nate attorno all’argomento.

Con la situazione pandemica globale poi, moltissime persone si sono avvicinate alla mindfulness e alle pratiche meditative. 

La conferenza internazionale tenutasi in modalità online sabato 27 e domenica 28 novembre 2021 ha avuto come tema principale le modalità di connessione e lo stato dell’arte attuale tra la mindfulness e la self-compassion e il mondo della psicologia e psicoterapia.

Mindfulness e Self-compsassion tra psico-edcazione e clinica: i punti di forza della conferenza

La web-conference era dedicata e aperti a tutti, gli argomenti trattati e la modalità con cui questi sono stati affrontati tuttavia presupponevano conoscenze precedentemente acquisite circa le tematiche specifiche. Nota di merito per l’organizzazione di entrambe le giornate: svolte sulla piattaforma zoom, gestite egregiamente dai tecnici sia le sessioni plenarie, sia le pratiche in piccoli gruppi. Sono state infatti svolte due sessioni di pratica formale in seguito alle quali hanno avuto luogo condivisoni in piccoli gruppi. La platea virtuale era composta da circa 180 uditori, i gruppi di condivisone erano formati da una decina di persone, tale condizione ha permesso una dimensione interpersonale intima non inibente che ha consentito ad ogni partecipante l’esposizione delle sensazioni esperite. La lingua della conferenza era l’inglese, la traduzione simultanea e l’ottimo lavoro delle professioniste che se ne sono occupate ha offerto la possibilità di seguire gli interventi in italiano. Infine per i professionisti sanitari vi era la possibilità di acquisire crediti formativi, la registrazione di entrambe le giornate è stata resa disponibile il giorno successiva alla fine dei lavori. La piattaforma symposia congressi con un’interfaccia semplice e intuitiva permetteva l’accesso alla piattaforma virtuale, la consultazione rapida del programma e di tutti i documenti del convengo compresi contenuti aggiuntivi consigliati e suggeriti.

I protocolli Mindfulness

Il programma ha visto un intenso susseguirsi di interventi e sessioni di pratica per tutta la giornata di sabato e per l’intera mattina della domenica.

Durante la mattinata della prima giornata, mediata da Paola Mamone – cofondatrice di “Interessere Mindfulness in azione”, l’attenzione è stata rivolta alla pratica clinica dei protocolli mindfulness con particolare interesse alla genitorialità (italianizzato dal termine inglese parenting) e dei sistemi familiari in cui i genitori e i figli sono inseriti. Il tema è stato ben affrontato nell’alternarsi degli interventi di Nicoletta Cinotti e Susan Bogels, autrice del libro Mindful Parenting (2020) la quale ha parlato del Mindful Parenting in tempi difficili. Dal Regno Unito invece l’intervento successivo di Rebecca Crane ha spiegato la qualità delle competenze necessarie negli interventi basati sulla mindfulness attraverso l’osservazione di criteri stabiliti per l’assessment secondo il modello MBI-TAC (Mindfulness-based Teaching Assessment Criteria). Nella seconda parte Nicoletta Cinotti ha guidato una pratica formale di reparenting. Nota dolente in questo caso la qualità del suono attraverso la piattaforma telematica che ha quasi annullato il riverbero della campana tibetana (strumento fondamentale nelle pratiche di mindfulness). Finita la pratica, si è svolta la condivisone in piccoli gruppi guidata dai facilitatori, alla quale è seguita la condivisone generale in plenaria.

Self-compassion

Il pomeriggio della stessa giornata è stato completamente dedicato alla self-compassion (in italiano tradotto come compassione) pratica che condivide alcuni principi con la mindfulness ma che presenta caratteristiche proprie. L’introduzione del pomeriggio è stata affidata ad Alessandro Giannandrea che ha presentato un magnifico intervento sulla natura della coscienza e sul suo ruolo all’interno della pratica terapeutica e negli interventi di mindfulness. L’arduo compito di spiegare i complessi legami tra mindfulness, self-compassion e psicoterapia è stato affidato a Christopher Germer, ideatore, insieme a Kristin Neff, proprio del protocollo di Mindful Self-compassion. La relazione di Germer, presentata in maniera egregia, ha chiarito il legame tra mindfulness e lavoro psicoterapico riprendendo quello che già avevamo potuto leggere nel suo testo del 2018: Le psicoterapie orientate alla Mindfulness.

La conclusione della sessione plenaria affidata alla spagnola Maya Wrzesien ha presentato gli interventi ad oggi attuati in termini di compassione dal punto di vista clinico.

La pratica formale, affidata questa volta alla voce di Paola Mamone, ha permesso di sperimentare la gentilezza e la compassione verso di sé. La riflessione in piccoli gruppi e poi in sessione riunita è seguita subito dopo concludendo così la prima giornata.

La mindfulness tra scienza e clinica

Il secondo giorno di incontro, tenutosi solo nelle ore mattutine, ha visto l’alternarsi di due interventi molto belli ma tecnici, considerando la natura degli argomenti. Dopo la Mamone, che ha parlato del percorso affrontato negli anni per affermare a livello scientifico e nella sfera clinica la pratica della mindfulness, è intervenuto dai Paesi Bassi Robert Brandsma che ha esordito con una riflessione attenta e apprezzabile, seppur di poche parole, rispetto al vantaggio a livello ambientale delle modalità online. Il suo intervento si è focalizzato sulla difficoltà e allo stesso tempo sull’importanza della fase dell’inquiring all’interno delle sedute con i praticanti. Un leggero ritardo nei lavori iniziali non ha permesso il tempo previsto per il break. La tavola rotonda, in programma dopo la pausa, ha visto l’alternarsi a ritmi sostenuti (circa 7 minuti per ogni relatore) di diversi terapeuti che hanno mostrato i punti di contatto e l’utilizzo della mindfulness all’interno dei diversi approcci terapeutici: Acceptance and Commitment Therapy presentata da Andrea Bassanini; Schema therapy; Compassion Focused Therapy, ben esposta da Nicola Petrocchi; psicoterapia analitica e antropologia esistenziale; mindfulness interpersonale; Self-compassion. Nota particolare per Maria Beatrice Toro che ha presentato la prospettiva cognitivista arricchendo il suo intervento di forte emozione e di una bellissima metafora.

In conclusione si è lasciato spazio alle domande e ai ringraziamenti sentiti a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione delle giornate.

Complessivamente una conferenza ben organizzata dal punto di vista logistico, per la qualità e la modalità degli argomenti trattati e per le personalità di spicco che vi hanno presenziato. Tutti gli interventi hanno mostrato in modo consono e adeguato il modo in cui la pratica della mindfulness si può declinare all’interno dei diversi approcci terapeutici, arricchendo la clinica di un elemento importante quale quello dell’attenzione focalizzata e della presenza consapevole nel rapporto con il paziente e nell’alleanza con esso. Gli interventi hanno assunto il carattere scientifico che la Mindfulness ha dimostrato di avere grazie alle numerose ricerche, sopratutto internazionali, presenti ad oggi nel panorama scientifico.

La pratica di consapevolezza è stata presentata come elemento arricchente dell’approccio terapeutico, basato sul sentire del clinico che partecipa in prima persona all’ascolto e all’attenzione dell’esperienza condivisa del paziente e che con esso “risuona”. Bellissima l’immagine di Brandsma che paragona il terapeuta a una campana tibetana, questa risuona restituendo note ordinate e comprensibili all’orecchio solo quando vuota, cioè libera da ogni cosa che potrebbe risiedere al suo interno, allo stesso modo il terapeuta deve essere libero da pensieri non richiesti al fine di entrare in un approccio di ascolto e attenzione consapevole con il paziente.

 

Come la qualità del sonno e l’autocontrollo influenzano la procrastinazione nei lavoratori

La procrastinazione è definita come un ritardo irrazionale che comprende una discrepanza tra l’intenzione e l’azione e si verifica quando le persone hanno intenzione di agire ma non agiscono, nonostante sappiano che ne soffriranno.

 

Alcuni studi in letteratura hanno dimostrato che la procrastinazione ha conseguenze dannose in termini di produttività, salute e benessere (Van Eerde, 2003; Steel, 2007). È noto, infatti, che non solo il ritardo, ma anche il senso di colpa e la vergogna per il comportamento irrazionale, possono avere un impatto sulla vita. Per tali ragioni la procrastinazione può anche portare a disturbi di salute, ansia e depressione (Sirois, 2016).

Sebbene sia stata ampiamente studiata in ambito accademico, la procrastinazione è stata studiata molto raramente in ambito lavorativo, anche se è risaputo che alcuni comportamenti di autoregolazione come il rispetto delle scadenze e il raggiungimento degli obiettivi, risultano particolarmente compromessi dalla procrastinazione (Van Eerde, 2003), ma sono invece importanti per la performance individuale. In aggiunta, sembrerebbe che non tutti gli individui siano coerenti nei loro comportamenti di procrastinazione, ma quest’ultima ha una grande variabilità quotidiana (Kühnel et al., 2017a).

Siccome la procrastinazione può essere vista anche come un comportamento di evitamento, dove il ritardo irrazionale serve a regolare l’umore negativo associato al completamento di un compito, in un ambiente lavorativo questo provoca una diminuzione del benessere e una minore performance (Marcus et al., 2016).

La prospettiva autoregolativa della procrastinazione sostiene che essa sia il risultato di una diminuzione delle risorse autoregolative (Klingsieck, 2013). È probabile, quindi, che i fattori che determinano la procrastinazione siano tutte quelle variabili quotidiane che provocano dei cambiamenti nelle risorse autoregolative. La qualità del sonno, per esempio, ha dimostrato di avere un impatto sul comportamento lavorativo autoregolativo: il lavoro è caratterizzato da un insieme di attività che richiedono autoregolazione e pianificazione per il completamento dei compiti (Claessens et al., 2010).

Procrastinazione e qualità del sonno

La qualità del sonno è stata quindi identificata come una variabile che influenza la procrastinazione in quanto diminuisce l’energia delle persone ad impegnarsi nel lavoro e a sostenere uno sforzo nel tempo: quando l’energia manca, la procrastinazione diventa molto più probabile. In generale, la qualità del sonno può influenzare le prestazioni, la salute e gli atteggiamenti sul lavoro (Litwiller et al., 2017). Molte delle questioni relative al comportamento lavorativo problematico sono legate all’autoregolazione, dove le risorse cognitive ed emotive sono necessarie per sostenere risultati desiderabili sul lavoro (Diestel et al., 2015). Un’alta qualità del sonno può quindi aumentare la disponibilità di risorse in modo che queste possano essere indirizzate alle attività lavorative che necessitano di autoregolazione, piuttosto che evitarle con la procrastinazione. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che una maggiore qualità del sonno riduce la procrastinazione del lavoro il giorno successivo (Kühnel et al., 2017a).

Inoltre, molti dati della letteratura hanno messo in luce che un’altra variabile che ha un impatto sull’autoregolazione è l’autocontrollo. Quest’ultimo è definito come “la capacità di annullare o cambiare le proprie risposte interiori, così come di interrompere le tendenze comportamentali indesiderate (come gli impulsi) e astenersi dall’agire su di esse” (Tangney et al., 2004  p. 274); può essere quindi visto come una capacità generale di autoregolarsi. Coerentemente con questa prospettiva, l’autocontrollo di tratto può essere inteso come la differenza individuale in questa capacità. Data la sua relazione con l’autoregolazione, l’autocontrollo di tratto dovrebbe giocare un importante ruolo moderatore nella relazione tra la qualità del sonno e la procrastinazione lavorativa quotidiana.

Procrastinazione e qualità del sonno: un studio

Van Eerde e Venus, nel 2018 hanno condotto uno studio che indagasse la relazione tra la qualità del sonno durante la notte e il suo effetto sulla procrastinazione al lavoro del giorno successivo. Le ipotesi iniziali erano quindi che nelle persone, la qualità del sonno notturno sarebbe stata correlata negativamente alla procrastinazione del lavoro il giorno successivo e, inoltre, che la relazione tra la qualità del sonno notturno e la procrastinazione del lavoro potesse essere moderata dall’autocontrollo di tratto; in particolare, che la relazione negativa risultasse più debole quando l’autocontrollo era elevato. 71 impiegati a tempo pieno che lavoravano in vari settori hanno partecipato allo studio, completando dapprima un questionario per valutare l’autocontrollo di tratto (Tangney et al., 2004). Successivamente, i dipendenti hanno ricevuto due questionari giornalieri per valutare la qualità del sonno (misurata tramite il Pittsburgh Sleep Quality Index (Buysse et al., 1989), e un test sulla procrastinazione (adattato da Tuckman, 1991) nel corso di 10 giorni lavorativi.

Come ipotizzato, i risultati hanno mostrato che la qualità del sonno era correlata negativamente alla procrastinazione del lavoro il giorno successivo. Inoltre, è emerso l’effetto moderatore dell’autocontrollo: non solo la relazione tra la qualità del sonno e la procrastinazione era più bassa per i dipendenti con alto autocontrollo, ma è risultata addirittura non significativa. Questo implica che la qualità del sonno è più importante per coloro che hanno un basso livello di autocontrollo: gli impiegati con un alto autocontrollo di tratto tendono ad essere “immuni”. Oltre ad un aumento di energia, aver dormito bene può dunque aiutare a superare gli impulsi. Il sonno è fondamentale per l’autoregolazione (Barnes, 2012) e la compromissione dell’autoregolazione è legata al sonno insufficiente (Wagner et al., 2012). Avere sane abitudini nella quantità di ore di sonno e alcuni interventi sull’insonnia hanno dimostrato di apportare grandi giovamenti per ridurre la procrastinazione lavorativa e aumentare l’autocontrollo (Barnes et al., 2017).

 

Fuori o senza bordi – Riflessioni e significati della serie “Strappare Lungo i Bordi”

Quante volte ci siamo chiesti se fosse davvero questo ciò che dovevamo aspettarci dalla vita, se abbiamo fatto tutto per ‘benino’, come se ci fosse una lista da seguire e delle spunte da mettere per ogni azione svolta. La serie Netflix Strappare lungo i bordi del fumettista romano Michele Rech in arte Zerocalcare, ci invita a riflettere su tutte quelle volte in cui siamo andati fuori dai bordi.

 

È tutto sotto controllo!

Cosa può andare storto se hai tutto sotto controllo?

Cosa potrebbe andare storto se non avessi tutto sotto controllo?

Nasciamo e cresciamo con stereotipi e pregiudizi che ci portiamo dietro nell’adolescenza e anche nell’età adulta per poi arrivare ad un punto in cui mettiamo tutto in discussione e ci chiediamo se sia davvero questo che ci dovevamo aspettare fino a questo punto dalla nostra vita e se abbiamo fatto tutto per ‘ benino’, se siamo stati bravi all’asilo, a scuola, a casa, in famiglia, a lavoro, con gli amici… come se ci fosse una lista da seguire e occorresse mettere una spunta per ogni azione svolta e, guai a non seguirla.

Strappare lungo i bordi: ritrovare se stessi nei personaggi

La serie Netflix Strappare lungo i bordi, del fumettista romano Michele Rech in arte Zerocalcare , ci costringe a calarci nei panni di Zero, ma anche in quelli di Sarah, Secco ed Alice.

Siamo stati tutti Zero e alcuni di noi lo sono ancora, insicuri, paranoici, indecisi, con poca consapevolezza di sé , con bassa autostima, con scarsa attenzione verso le emozioni degli altri, incapace di comprendere i discorsi astratti però impeccabile nell’aiuto pratico, come andare a comprare 800 panini se un amico ha fame.

Siamo Sarah, quando vediamo sempre un lato bello in tutto, quando ancora la speranza in noi non si spegne e ci obblighiamo a vedere il lato vero delle cose. In modo brutale e a volte con una ventata di ottimismo e realismo riportiamo gli amici con i piedi per terra e gli mostriamo che non sono poi così indispensabili per gli altri e che il mondo non è sorretto sulle nostre spalle. Quindi possiamo rilassarci.

Alcuni di noi hanno la leggerezza, la spensieratezza e anche la superficialità di Secco che vive di gelato, metaforicamente ma anche realisticamente, o sfugge alle difficoltà non pensandoci o non preoccupandosene mai.

E siamo spesso Alice, nascondiamo le nostre debolezze e preoccupazioni agli altri per non farli soffrire, non chiediamo mai aiuto a nessuno e sacrifichiamo la nostra felicità per non scomodare mai gli altri, ma perdiamo anche molte occasioni, forse perché abbiamo accanto degli Zero che non si accorgono di nulla e che vivono perennemente in una fase adolescenziale incapaci di dare sostegno emotivo. In alcuni casi, si perde anche la vita perché combattiamo battaglie interiori più grandi di noi e preferiamo perderle da soli che affrontarle chiedendo aiuto alle figure di riferimento.

Insomma, siamo noi, è come sedersi e guardare una serie tv sulla nostra vita e chi nega che si sia rivisto in almeno uno dei personaggi, mente.

Strappare lungo i bordi: e se prendessimo altre direzioni?

L’autore ci vuole comunicare come la società ci impone certe strade obbligate un po’ come se dovessimo ritagliare la nostra vita esattamente lungo i bordi e guai ad uscire dal tracciato.

E se invece ci perdessimo e ce ne fregassimo dei dogmi e della società, e volessimo seguire un’altra strada e dunque un’altra linea non tratteggiata?

Il senso che dovremmo cogliere è che, se anche così fosse, nessuno ha il diritto di considerarci “diversi” o “sbagliati” , semplicemente abbiamo fatto scelte che per noi in quel momento erano più adeguate e maggiormente sentite e per le quali il corpo ci ha mandato segnali e vibrazioni positive.

Alice poteva essere aiutata ma solo se si fosse fatta aiutare.

È giusto andare fuori dai bordi o meglio non avere nessun bordo tratteggiato ma decidere strada facendo le proprie azioni e vivere di conseguenza, senza rimpianti, più consapevoli di noi stessi.

Filosofi, psicologi e armadilli: cos’è la coscienza

Essere un po’ Zero ci porta a fare molta introspezione, che si nota nella serie durante i flashback e gli aneddoti ma anche con il confronto puntuale e puntiglioso con la sua coscienza morale, l’armadillo.

E notare bene che tutti siamo provvisti di una coscienza, dipende solo da come viene utilizzata e il tipo di calibratura gli diamo nel corso della nostra vita con l’educazione ricevuta ma anche grazie alle nostre risorse cognitive. Non è così scontata la coscienza, a questo riguardo vediamo che cos’è e come funziona e perché quella di Zero era così fastidiosamente sincera. La coscienza può essere definita come la valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come criterio supremo della moralità.

La coscienza di Zero parlava molto, questo perché il protagonista si interrogava molto e metteva sempre tutto in discussione, per insicurezza o estrema precisione?

La coscienza è stata studiata da molti autori, soprattutto da filosofi. Renè Descartes introdusse il concetto di dualismo mente-corpo, ossia l’idea che mentre la mente e il corpo sono separati, interagiscono.

Lo studio dell’esperienza cosciente fu uno dei primi argomenti studiati dai primi psicologi.

Gli strutturalisti hanno usato un processo noto come introspezione per analizzare e riportare sensazioni, pensieri ed esperienze coscienti. Lo psicologo americano William James paragonò la coscienza a un flusso: ininterrotta e continua, nonostante i continui cambiamenti. Mentre l’attenzione di gran parte della ricerca in psicologia passò a comportamenti puramente osservabili durante la prima metà del ventesimo secolo, la ricerca sulla coscienza umana è cresciuta enormemente dagli anni ’50.

La recente ricerca sulla coscienza si è concentrata sulla comprensione delle neuroscienze dietro le nostre esperienze coscienti. Gli scienziati hanno persino utilizzato la tecnologia di scansione del cervello per cercare specifici neuroni che potrebbero essere collegati a diversi eventi consci (Lewis, 2014)

I ricercatori moderni hanno proposto due principali teorie della coscienza:

  • La teoria dell’informazione integrata: tenta di guardare alla coscienza imparando di più sui processi fisici che sono alla base delle nostre esperienze coscienti. La teoria tenta di creare una misura dell’informazione integrata che forma coscienza. La qualità della coscienza di un organismo è rappresentata dal livello di integrazione. Questa teoria tende a focalizzarsi sul fatto che qualcosa sia consapevole e in che misura sia consapevole.
  • La teoria dello spazio di lavoro globale: suggerisce che abbiamo una banca di memoria da cui il cervello attinge le informazioni per formare l’esperienza della consapevolezza cosciente. Mentre la teoria dell’informazione integrata si concentra maggiormente sull’identificazione della consapevolezza di un organismo, la teoria dello spazio di lavoro globale offre un approccio molto più ampio alla comprensione di come funziona la coscienza.

Mentre la coscienza ha incuriosito filosofi e scienziati per migliaia di anni, abbiamo chiaramente una lunga strada da percorrere nella nostra comprensione del concetto. I ricercatori continuano a esplorare le diverse basi della coscienza, comprese le influenze fisiche, sociali, culturali e psicologiche che contribuiscono alla nostra consapevolezza cosciente (Horgan, 2015).

Attenzione! Segue Spoiler

Ognuno ha l’armadillo che si merita

L’armadillo accompagna Zero sempre e gli concede un po’ di tregua apparente solo durante la cerimonia funebre di Alice. I protagonisti affrontano il viaggio da Roma a Biella, rivivendo la loro infanzia, e vedendo scorrere la loro vita fanno il punto della situazione e si rendono conto che nonostante fossero sicuri di seguire i bordi, erano fermi, o stavano proseguendo lentamente e questo li ha portati a fare confronti con la vita degli altri, ad esempio con la ragazzina topo Valentina.

Ognuno ha l’armadillo che si merita.

Non c’è niente di sbagliato nell’andare piano e nel fare esperienze diverse dagli altri.

Non bisogna mai sentirsi sbagliati, né confrontare le nostre vite con quelle degli altri perché non possiamo sapere cosa ognuno di loro vive realmente: da fuori le vite degli altri possono sembrare perfette e gettarci nello sconforto.

È giusto fare introspezione e un bilancio della propria vita ma solo per porre nuovi e stimolanti obiettivi e poi verificarli a distanza di tempo ma senza spuntare una lista.

Possiamo sbagliare e uscire dai bordi, strappare fuori o non tracciarli proprio, perché la vita è nostra e nessuno ce la preconfeziona – per fortuna! – e se le cose vanno male, nel frattempo che torni il sereno, “S’annamo a pijà er gelato!”

 

Strappare lungo i bordi – Guarda il trailer della serie:

Perché ci piace guardare gli altri giocare: il caso degli esports – Psicologia Digitale

Milioni di persone sono appassionate di esports e seguono campionati e tornei sia dal vivo che in streaming. Quali sono le motivazioni di un fenomeno tanto diffuso?

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 25) Perché ci piace guardare gli altri giocare: il caso degli esports

 

Cosa sono gli esports

 Gli esports (anche e-sport, eSport, dall’inglese electronic sport) sono competizioni di videogiochi di livello amatoriale, semiprofessionistico e professionistico. Quello degli esports è un fenomeno sempre più popolare e diffuso: secondo i dati del Global Esports & Live Streaming Market Report 2021 (Newzoo, 2021) il pubblico globale dei giochi in live-streaming supererà i 700 milioni nel 2021. Campionati e tornei, sia online che dal vivo, come qualunque altro evento sportivo hanno arbitri, commentatori specializzati, leghe professionali, sponsorizzazioni e diritti mediatici per la trasmissione dell’evento sulle piattaforme (ad esempio su Amazon o Twitch). Secondo la classificazione di Funke e collaboratori (2018) possiamo suddividere gli esports in: giochi di combattimento, sopratutto in prima persona (FPS, first person shooter), giochi di strategia in tempo reale (RTS, real-time strategy), videogiochi sportivi (SVG, sport videogames) e giochi di strategia in cui ci sono sfide a squadre (MOBA, multiplayer online battle arena). Tra i più conosciuti abbiamo la League of Legends’ World Championship, la Fortnite World Cup o la FIFA eChampions League; ma ce ne sono molti altri.

Perché guardiamo lo sport

Per capire come mai ci piace guardare gli esports dobbiamo prima comprendere come mai ci piace guardare eventi sportivi in generale.

Questo interrogativo è stato esplorato in diversi studi da cui emergono delle motivazioni centrali (Pizzo et al, 2018): apprezziamo i momenti di condivisione con gli amici, lo spettacolo in sé ma anche l’imprevedibilità del risultato e la possibilità che ci siano eventi inattesi come ribaltamenti dei pronostici. Tutte cose che rendono guardare lo sport un’esperienza divertente. Inoltre, l’aspetto competitivo e guardare una gara tra professionisti rende la visione più emozionante.

Un altro fattore importante è la conoscenza: infatti molti dichiarano di apprezzare la visione di un evento sportivo soprattutto quando si tratta di uno sport di cui capiscono le logiche e la complessità, così che riescono a capire in ogni momento cosa sta succedendo.

Perché guardiamo gli esports

Ai fattori indicati sopra se ne aggiungono altri tipici degli esports. Qian e collaboratori (2019) ne hanno individuati alcuni e messo a punto uno strumento, la Motivation Scale of Esports Spectatorship (MSES) che identifica ciò che motiva le persone a guardare gli esports.

Secondo gli autori gli esports hanno specifiche caratteristiche che rispondono a motivazioni specifiche. Per esempio, un motivo importante è che guardare esports online è un modo per migliorare le proprie prestazioni ed abilità. Il desiderio di migliorare ed imparare nuovi trucchi/modalità di gioco motiva quella gran parte di spettatori che sono anche giocatori che desiderano migliorare le proprie competenze.

D’altro canto seguire gli esports ha anche una caratteristica unica, non presente quando si tratta di sport tradizionali: la visione in prima persona. Infatti, quasi sempre gli spettatori possono guardare il gioco dalla stessa prospettiva di chi gioca. Questa immersione porta ad un coinvolgimento molto più forte ed immersivo che genera una cosiddetta sensazione vicaria, ovvero la sensazione di essere al posto di un altro vivendo così le stesse situazioni ed emozioni. La natura unica dell’esperienza visiva degli esports attraverso una visione in prima persona porta gli spettatori a godersi l’esperienza e immergersi come se stessero effettivamente giocando (Qian et al., 2019).

Come per lo sport tradizionale, guardare una partita è un aggregatore sociale e rafforza i legami amicali, anche se la socializzazione ha delle caratteristiche peculiari negli esports. Se da un lato la forte componente di senso di appartenenza a una comunità è presente in entrambi, l’opportunità di socializzare anche con utenti che non si conosce è un fattore molto importante. Attraverso alcune funzioni come la chat si può interagire tra spettatori e con gli streamer tramite testo/immagini potendo così ampliare la propria cerchia sociale a persone con interessi simili, su Twitch come su altre piattaforme.

Da un lato questa visione ribalta l’immagine dei consumatori di esports come socialmente isolati, dall’altro ciò implica che viene rinforzato il comportamento di alcuni utenti che si isolano nel mondo offline ma socializzano negli ambienti online (Seo & Jung, 2016).

Le basi teoriche

Il lavoro di Deci e Ryan (2000) è stato utilizzato per spiegare cosa motivi gli spettatori a guardare gli esports. Secondo la loro teoria dell’autodeterminazione ciò che ci motiva e ci orienta all’azione deve soddisfare tre bisogni fondamentali: autonomia, competenza, relazione. Il bisogno di autonomia indica l’agire secondo il proprio volere ed interesse, secondo i propri valori e su base volontaria; quello di competenza indica il bisogno di sentirsi capace ed in grado di padroneggiare dei compiti anche complessi; infine, il bisogno di relazione riguarda la sfera sociale ed il sentirsi parte di un gruppo e di una comunità e di avere relazioni interpersonali.
Le motivazioni degli spettatori online di esports possono essere identificate ed esaminate anche all’interno della teoria degli usi e gratificazioni (Katz et al, 1973). Questa teoria è uno dei paradigmi più utilizzati per comprendere il consumo e l’impatto delle nuove tecnologie; in una prospettiva più ampia, secondo questa teoria, l’uso dei media in generale non è passivo ma appunto motivato dal soddisfacimento di bisogni di natura psicologica e sociale. In questo senso gli utenti volutamente ed attivamente utilizzano i media, ed in questo caso gli esports, per sentirsi parte di qualcosa e stare con altri. Questo perché i contesti virtuali offrono esperienze interattive e partecipative e sono fonte di interazione sociale. Si può interagire in tempo reale con streamer, commentatori ed altri spettatori attraverso le chat e vivere le azioni di gioco in prima persona: questo cambia la prospettiva di consumo rendendo gli esports una pratica unica co-costruita tra più parti simultaneamente (Seo & Jung, 2016).

Guardare lo sport vs guardare l’esport

In generale, essere spettatori di un evento sportivo ci piace per diversi motivi. È divertente ed emozionante, soprattutto quando l’esperienza è condivisa con amici, ma anche perché non sai mai come va a finire. In maniera più implicita, ci piace perché soddisfa dei bisogni come quelli di autonomia, competenza, relazione già visti in precedenza (Deci & Ryan, 2000). Attraverso la lente della teoria degli usi e gratificazione invece possiamo leggere l’importanza degli utenti come attivi nei contesti virtuali dove ci sono esperienze interattive e partecipative. Guardare altri giocare non equivale a contrapporre un’attività passiva vs attiva (guardare vs giocare). Si tratta più che altro di un’interazione tra spettatore e ambiente inteso come l’insieme degli altri (altri spettatori, commentatori, giocatori), senza contare che la linea di demarcazione tra giocatore e spettatore non è così netta: una gran parte di chi guarda gli esports è a sua volta un giocatore quantomeno di livello amatoriale (Seo & Jung, 2016).

Se guardiamo e ci appassioniamo agli sport tradizionali per l’intrattenimento ed il senso di comunità, non si può dire esattamente lo stesso per gli esports. In questo senso, alcune motivazioni si sovrappongono mentre altre sono tipiche dei contesti virtuali.

Per esempio, sport tradizionali ed esport condividono l’attrattività per la visione di una competizione, la spettacolarità di vedere professionisti fronteggiarsi in discipline che comprendiamo e che amiamo.

Non si può dire lo stesso per quanto riguarda l’area delle competenze. Vedere lo sport tradizionale ci porta ad apprezzare non solo l’abilità nella specifica disciplina ma anche altre qualità come atletismo, attrattiva fisica dei giocatori ed in generale l’estetica in sé degli atleti. Queste dimensioni non sono rilevanti negli esports dove invece vengono enfatizzate destrezza, coordinazione, conoscenza strategica e tattica, o una combinazione di tutte (Seo, 2015).

In definitiva, gli spettatori degli esports hanno motivazioni simili a quelle che troviamo tra gli spettatori di sport tradizionali, sebbene con alcune specificità (Seo & Jung, 2016).

 

Preoccupazione ed umorismo: prendere la vita con leggerezza è davvero utile ad incrementare il benessere?

Diversi studi hanno dimostrato che le persone con un maggiore senso dell’umorismo presentano meno ansia e stress rispetto alle persone con un minore senso dell’umorismo (Kuiper, 2012).

 

L’umorismo è un costrutto multidimensionale che combina svariati aspetti, come abitudini comportamentali, abilità e competenze, un tratto di personalità e una strategia di coping (Ruch, 2008). Recentemente è stato sviluppato un modello che descrive le differenze individuali nell’uso dell’umorismo concentrandosi su una lista di otto stili, ovvero i Comic Style Markers (CSM) (CSM; Ruch, Heintz, et al., 2018)

Gli otto stili comici possono essere classificati come stili di umorismo “leggeri” o “oscuri”. Gli stili “leggeri”, che riguardano l’affetto benigno e sociale sono: (1) il divertimento, volto a diffondere il buon umore e la buona compagnia; (2) l’umorismo, che suscita la simpatia scoprendo le discrepanze nelle esperienze quotidiane; (3) il nonsense, basato sul giocare con le incongruenze e le bizzarrie senza uno scopo specifico; e (4) l’arguzia, indicata come la capacità di creare collegamenti intelligenti tra idee e pensieri. Gli stili “oscuri”, basati sulla derisione e il ridicolo, sono: (1) l’ironia, che riflette un contrasto o un’incongruenza tra le aspettative per una situazione e ciò che è la realtà, contenendo l’opposto di ciò che si intende; (2) la satira, diretta a criticare e correggere le carenze, la cattiva condotta e gli errori morali con l’intenzione di migliorare il mondo; (3) il sarcasmo, fondato sull’essere critici verso gli altri e trasmettere disprezzo; e (4) il cinismo, volto a svalutare i valori comunemente riconosciuti (Ruch, Heintz, et al., 2018).

La preoccupazione (worry) rappresenta la componente cognitiva dell’ansia ed è descritta come un tipo di catena intrusiva, ripetitiva e incontrollabile di pensieri e immagini negative. Gli stili di umorismo “leggeri”, in quanto favorevoli alle emozioni positive, potrebbero essere per lo più correlati a un maggior benessere e a una migliore predisposizione ad affrontare gli eventi stressanti, al contrario, gli stili “oscuri”, che rappresentano la tendenza ad esibire un atteggiamento negativo e distruttivo, potrebbero influenzare negativamente il benessere.

Umorismo, preoccupazione e benessere

Lo studio di Dionigi et al. (2021) ha indagato la relazione tra gli otto stili comici, la preoccupazione e il benessere. Nella ricerca sono stati coinvolti 254 partecipanti italiani (131 uomini e 123 donne) di età compresa fra i 18 ed i 67 anni. I soggetti sono stati reclutati online, inviando il link di Google Moduli ad una mailing list. Il campione era costituito per la maggior parte da persone con un diploma di scuola superiore (47.2%) o laureati (30.3%). Per raccogliere gli stili di comicità è stata proposta la versione italiana del Comic Style Markers (CSM; Ruch, Heintz, et al., 2018; Dionigi et al.,2021), un questionario autosomministrabile composto da 48 items che indaga otto stili di comicità: divertente, comico, ironico, nonsense, arguto, satirico, sarcastico e cinico. Ad ogni stile di comicità corrispondono 6 items che vengono valutati su una scala in cui 1 significa “fortemente in disaccordo” e 7 “fortemente d’accordo”. Per accertare i livelli di worry dei partecipanti è stato utilizzato il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990; Morani et al. 1999), un questionario composto da 16 items che valutano la generalizzazione, l’eccessività e l’incontrollabilità dei livelli patologici del worry. Ogni item viene valutato su una scala a 5 punti in cui 1 corrisponde a “per niente tipico” e 5 “molto tipico” . Per valutare il benessere emotivo i partecipanti hanno dovuto compilare la World Health Organization-5 Well-Being Index (WHO-5; WHO, 1998), uno strumento che valuta la frequenza di determinati sentimenti nelle ultime due settimane, in base al punteggio attribuito a ciascuno dei 5 items. La frequenza viene valutata su una scala a 6 punti in cui 0 indica “mai presente” e 5 “sempre presente”.

Dal presente studio è emerso che gli otto stili comici presi in esame si riferiscono in modo differente alla preoccupazione e al benessere psicologico. Nello specifico, il divertimento e l’umorismo risultano essere correlati positivamente all’estroversione e negativamente al nevroticismo (Dionigi et al., 2021; Ruch, Heintz, et al., 2018). Gli individui con bassi livelli di stabilità emotiva hanno più probabilità di sperimentare stati emotivi negativi con pensieri intrusivi e ricorrenti (Muris et al., 2005). Inoltre, un basso livello di estroversione viene associato al disturbo d’ansia generalizzato (Gomez & Francis, 2003) mentre il cinismo risulta avere una correlazione positiva con la preoccupazione. Chi è più incline ad assumere un atteggiamento critico nei confronti del mondo risulta essere anche più preoccupato per i potenziali pericoli per sé (Mathews, 1990) e ad avere relazioni qualitativamente più basse (Ruch, Wagner e Heintz, 2018). In conclusione, sia l’umorismo che il divertimento risultano essere molto efficaci al fine di diffondere il buon umore e alleviare le avversità, migliorando così il benessere personale (Ruch, Wagner e Heintz, 2018).

 

Alto Potenziale Cognitivo e Doppie Eccezionalità (2021) di Ermelinda Maulucci – Recensione

Come spiegato nel volume Alto Potenziale Cognitivo e Doppie Eccezionalità l’intensità e la sensibilità dei bambini plusdotati possono essere meglio compresi secondo la teoria delle “overexcitabilities”

 

Ermelinda Maulucci è una autorevole voce nel panorama legale e psicologico nazionale ed europeo che supporta il riconoscimento dei bambini e ragazzi plusdotati. In questo libro l’autrice si occupa di doppia eccezionalità che tuttavia non è eccezionale riscontrare tra bambini e ragazzi. L’autrice invita il lettore ad approfondire la complessità della plusdotazione cognitiva e il contesto in cui si sviluppa, spesso confuso con caratteristiche o profili riconducibili ai disturbi dell’attenzione, DSA e alla sfera dell’autismo. Nel nostro paese l’Alto Potenziale Cognitivo secondo le Linee Guida viene valutato su una base psicometrica, tuttavia la plusdotazione è caratterizzata da un funzionamento globale diverso dalla generalità delle altre persone, in particolare per un possibile sviluppo asincrono e specifici tratti emotivi e sociali. I bambini plusdotati come sottolinea Michael Piechowski (in Silverman, 1998) presentano un’organizzazione cognitiva complessa, un alto livello di sensibilità, una vivida immaginazione e sensazioni amplificate determinando una percezione del mondo differente: penetrante, coinvolgente, assorbente, complessa.

Il testo esamina i principali strumenti psicometrici di valutazione del QI e sottolinea l’importanza di considerare il contesto nel quale si svolgono.

L’intensità e la sensibilità dei bambini plusdotati possono essere meglio compresi secondo la teoria delle “overexcitabilities” secondo la quale vi sono cinque tipi di iper-eccitabilità: Intellettiva, Immaginativa, Emotiva, Psicomotoria, Sensoriale e possono essere confuse con alcune caratteristiche proprie di alcuni disturbi.

Come per tutti i bambini, il ruolo dei genitori e della famiglia è fondamentale per favorire lo sviluppo di una personalità armonica con le loro caratteristiche.

Gli insegnanti involontariamente possono contribuire a rendere la vita scolastica meno soddisfacente, ostacolando per esempio soluzioni originali. Per questo motivo in molti Stati è prevista una didattica differenziata, la Gifted Education. Il mancato riconoscimento di questi bambini può determinare la credenza di essere sbagliati, quindi diversi e manifestare iperadattamento, sottorendimento, calo dell’autostima, ansia e depressione.

Per tale ragione l’intelligenza elevata deve avere un ruolo nel processo diagnostico e in particolare identificare i bambini con doppia eccezionalità è molto complesso. Diversi studi evidenziano che un bambino gifted può presentare un disturbo e/o una neurodiversità come un bambino normodotato.

Il testo propone importanti considerazioni e suggerisce strumenti utili da tenere in evidenza in un processo diagnostico riguardante DSA, Sindrome di Asperger e ADHD.

L’intento della Maulucci, sulla base della letteratura internazionale, sembra sia quello di offrire un contributo a favore dei doni di bambini e ragazzi ad alto potenziale cognitivo che meritano di essere espressi al meglio. L’autrice quindi offre un’occasione di riflessione attenta per insegnanti e genitori e questo libro non può mancare nella libreria dei professionisti impegnati nella pratica clinica in età evolutiva per una corretta valutazione globale.

 

Immagine di sé e sessualità in pazienti oncologici

Sebbene la vita dei pazienti oncologici muti in seguito alla diagnosi o ai trattamenti, non molto spazio viene dato a come le relazioni col partner e la sessualità possano modificarsi in relazione ai cambiamenti dell’immagine di sé.

 

Gli effetti positivi per i trattamenti locali dimostrati dalla chemioterapia hanno ampliato il suo utilizzo (Nygren, 2001) ma, nonostante i suoi benefici, questo intervento può comportare degli effetti collaterali: tra i più comuni nausea, vomito, affaticamento e alopecia (Kayl & Meyers, 2006).

Pazienti oncologici e alopecia

Poiché i capelli spesso possono rappresentare un simbolo di bellezza o maturità, la loro perdita rappresenta un evento significativo tale da intervenire sulla percezione di crescita personale, attrattività o morte (Helms, O’Hea & Corso, 2008). Sebbene gli uomini tendano a vedere la perdita di capelli come una conseguenza logica del loro trattamento, le donne tendono a correlarla maggiormente a esiti infausti della malattia: quest’ultime sono maggiormente predisposte all’uso di parrucche, anche per evitare lo stigma sociale di malato e per non perdere la propria identità. L’alopecia è inoltre correlata al modo di vedere il trattamento: se questo sarà considerato benefico, la perdita di capelli sarà accettata come il “prezzo da pagare” al fine di guarire; se la chemioterapia viene vista invece come un trattamento distruttivo, l’alopecia sarà percepita come una sofferenza e come una perdita di sé che influenzerà la qualità di vita del paziente (Rosman, 2004).

Affrontare la realtà sociale in seguito alla perdita di capelli risulta essere più difficile: i pazienti tendono ad intraprendere meno attività quotidiane e rapporti sociali, influenzando in tal modo la qualità di vita e l’autostima (Kim et al., 2012). La forte angoscia che accompagna questa conseguenza del trattamento, sembra però essere mitigata nel momento in cui i pazienti vengono informati dai sanitari, affrontando meglio questo evento rispetto a quelli che non lo sono (Rosman, 2004; Frith, Harcourt & Fussell, 2007). Si è notato come i pazienti ai quali erano mostrate preventivamente immagini di calvizie e parrucche, avessero un’angoscia da alopecia significativamente più bassa rispetto a coloro che non le avevano viste (McGarvey et al., 2010); inoltre la comunicazione sanitaria focalizzata sui sintomi quotidiani dei trattamenti e il sostegno sociale possono contenere l’impatto di tale conseguenza sulla qualità di vita (Rosman, 2004).

In quanto simbolo visivo del trattamento, l’alopecia può causare sentimenti di imbarazzo, rabbia, perdita di forza fisica o di vitalità e aumentare il rischio di depressione maggiore o disturbo d’ansia; può inoltre comportare una confusione dell’identità di genere in un contesto sociale: la perdita dei capelli può influenzare, fino a perderla, l’identità delle ragazze a causa della confusione degli altri sul loro genere; i ragazzi tendono invece a raffigurare l’alopecia come un’esperienza che permette loro di esplorare l’identità e sfidare le norme interiorizzate sul proprio aspetto sociale (Dua et al., 2017).

Pazienti oncologici e immagine corporea

Un altro tipo di intervento che si può effettuare in seguito a diagnosi tumorale è rappresentato dalla chirurgia: questa si è visto provochi un’alterazione della percezione dell’immagine corporea, in particolare nei soggetti più giovani, che sperimenterebbero maggiore ansia qualora questo intervento dovesse rivelarsi deturpante (Dropkin, 1999).

Il cancro al seno è il più frequente tipo di neoplasia diagnosticabile nelle donne: il seno rappresenta un simbolo di femminilità e maternità e, dal momento in cui la paziente dovesse subire un intervento chirurgico (nodulectomia o mastectomia), si potrebbero verificare conseguenze negative in ambito di funzionamento psicosociale, particolarmente nel senso di fiducia, umore, stima, sessualità, autocompiacimento e qualità di vita (Helms et al., 2008). Inoltre operazioni invasive sul corpo potrebbero comportare preoccupazioni per aumento o perdita di peso e sul probabile rifiuto del partner, con conseguenti problemi sessuali e maggiori difficoltà a comprendere i propri sentimenti (Fobair et al., 2006).

I vari trattamenti sono infatti associati a diverse aree della qualità di vita: alterazioni fisiche del corpo, oltre all’alopecia e al cambiamento di peso, anche relativamente a terapie ormonali che modificano le caratteristiche sessuali secondarie, possono comportare problemi all’immagine di sé. Il rischio di infertilità, la disfunzione erettile e la riduzione della libido potrebbero aumentare infatti il rischio di isolamento fisico ed emotivo nei confronti del partner. Nonostante la scarsità di ricerche in quest’ambito, anche numerosi fattori concomitanti possono comportare tali difficoltà: oppioidi prescritti per alleviare il dolore o antidepressivi per trattare ansia e depressione possono portare ad una diffusione dei problemi sessuali che può toccare anche il 90% dei pazienti oncologici (Hodern, 2008).

Particolarmente per le donne, può essere difficile accettare il proprio corpo in seguito ai trattamenti oncologici, anche a causa delle cicatrici, del cambiamento di colore della propria pelle o dei drenaggi. Inoltre, possono non riuscire ad impegnarsi in attività sessuali a causa della secchezza vaginale che può provocare dolore durante i rapporti. Anche la perdita di massa muscolare, in seguito al fermo dovuto dalla somministrazione dei trattamenti, può creare disagio a causa della fatica maggiore che si riscontra nell’atto sessuale e, allo stesso modo, l’incontinenza urinaria o intestinale possono provocare disagio per paura di un incidente (Hughes, 2009).

L’abbandono dell’attività sessuale può, per alcuni, essere anche un segno di “lasciarsi andare” o di una preparazione alla morte: il supporto del partner però può condurre ad una maggiore accettazione dei cambiamenti dati dai trattamenti (Rice, 2000), a testimonianza di come il sostegno sociale sia fondamentale per limitare il distress che la malattia oncologica comporta (Zebrack et al., 2015).

 

Effetto spotlight: una vita sotto i riflettori

L’effetto spotlight è stato definito come una convinzione legata al sovrastimare la quantità di attenzione, ricevuta da parte di terzi, rispetto al proprio aspetto fisico o al proprio comportamento (Myers e Twenge, 2017).

 

Tale tendenza a sovrastimare le proprie caratteristiche, nella convinzione che le altre persone le notino con particolare attenzione, fu definita inizialmente da Brown e Stopa nel 2007.

Sono presenti numerosi studi su questo effetto e sull’abbigliamento: Gilovich e colleghi (2000) fecero indossare dei vestiti a dei soggetti che giudicavano tali indumenti come “imbarazzanti”. I soggetti della ricerca credevano che almeno il 50% delle persone presenti avesse notato il cambio d’abbigliamento, in realtà solo il 23% se ne accorse (Gilovich et al., 2000). Lawson (2010) svolse una ricerca con degli studenti universitari, facendo indossare loro una felpa con un logo sopra, per osservare che solo il 10% dei compagni di classe ricordava il logo originale, mentre la maggior parte di loro non si rese nemmeno conto del cambio di felpa (Gomez, 2021). Tale effetto si collega ad alcuni fenomeni come l’illusione della trasparenza (fenomeno secondo la quale mostriamo le nostre emozioni agli altri in modo più chiaro di quanto realmente appaia), il realismo ingenuo (Ross e Ward, 1996) e il pregiudizio di sé come obiettivo sociale (cioè il pensare che determinati eventi accadano in quanto diretti verso il soggetto interessato). Nello specifico, il realismo ingenuo si basa sul presupposto che proprio il punto di vista sia corretto nell’osservazione del mondo e che quello degli altri, se differente, sia soggetto ad errori o disinformazione.

Nel DSM 5 (APA, 2013), l’ansia viene definita come l’anticipazione di una minaccia futura, uno stato orientato a qualcosa che la persona non percepisce come immediato. A livello fisiologico, l’ansia è correlata ad un’attivazione che porta ad un’elevata vigilanza, a tensione muscolare e all’attuazione di condotte preventive per affrontare la situazione vissuta come pericolosa (Psicologo Roma Eur, n.s.). La classificazione del DSM 5 è fatta secondo elementi comuni e include disturbi come l’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia generalizzata e, per i bambini, il mutismo selettivo e l’ansia da separazione (APA, 2013).

Effetto spotlight e ansia sociale

L’effetto spotlight viene riscontrato frequentemente in soggetti affetti da ansia sociale, in quanto temono una valutazione negativa da parte degli osservatori. Diversi ricercatori (Clark e Wells, 1995, in Brown e Stopa, 2007) hanno evidenziato come la sensazione di essere osservati rinchiude il soggetto all’interno di un circolo vizioso ansioso, dove lo spostamento dell’attenzione su di sé porta ad attuare dei meccanismi per dedurre quali siano i pensieri delle persone presenti e “giudicanti”.

Secondo il Merriam-Webster Online Dictionary (n.d.), l’ansia è descritta come nervosismo o disagio per un male imminente o previsto; il termine ansioso è definito per l’appunto come un’estrema inquietudine mentale o la paura di qualcosa in determinate contingenze (Gomez, 2021).

Effetto spotlight e ansia: studi a riguardo

Diversi studi analizzano la relazione tra l’effetto spotlight e un aumento dei livelli d’ansia. Ad esempio, Moon e colleghi (2020) hanno eseguito otto studi differenti su un campione composto da attori. Tali compiti si focalizzavano sulla quantità di attenzione ricevuta da parte degli spettatori durante uno spettacolo. I risultati hanno evidenziato come gli attori tendessero a sovrastimare l’attenzione del pubblico, in particolar modo quando avevano commesso un errore, mentre molti spettatori nemmeno si erano accorti degli errori commessi.

Nel 2021 Gomez ha svolto un esperimento per indagare i livelli d’ansia e dell’effetto spotlight su un campione composto da 30 studenti. Nello specifico, l’ipotesi di ricerca sostiene che un soggetto crede di ricevere attenzioni negative e giudizi da parte dei suoi compagni in base al suo aspetto fisico, con un conseguente aumento di tale effetto (Gomez, 2021). I soggetti hanno compilato un questionario contenente due sessioni: la prima sessione include strumenti come la Depression Anxiety Stress Scale-21 (DASS-21; Lovibond e Lovibond, 1995) e questionari per valutare l’ansia e l’effetto spotlight, mentre la seconda sessione contiene una parte demografica per raccogliere i dati rispetto a genere, etnia, classe frequentata e affiliazioni religiose (Gomez, 2021). I risultati di questo studio sostengono l’ipotesi alternativa in quanto è presente un aumento dei livelli di ansia quando si pensa di ricevere un giudizio o un’attenzione negativa da parte dei coetanei (Gomez, 2021). Tale esperimento suggerisce come il livello d’ansia possa aumentare a causa dell’effetto spotlight sperimentato da parte dei soggetti (Gomez, 2021).

 

“Noi siamo uno. Terapia integrata per la prevenzione del trauma” – Salute psicofisica individuale e collettiva dopo la pandemia. Quali strade per far fronte all’incertezza? – Report del webinar

Dal 12 al 14 Novembre 2021 si è tenuto l’evento “Noi siamo uno. Terapia integrata per la prevenzione del trauma” per costruire una riflessione condivisa con professionisti della salute di diversa provenienza e impostazione teorica, sul tema dello stress e del trauma.

 

Con il patrocinio del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, EMDR e Società Italiana di psico-neuro-endocrino-immunologia, l’esperienza della pandemia è occasione per la Dott.ssa Marta Zighetti, psicoterapeuta e terapeuta supervisore EMDR, e per l’associazione “Essere Esseri Umani”, per costruire una riflessione condivisa con professionisti della salute di diversa provenienza e impostazione teorica, sul tema dello stress e del trauma.

All’insegna di questi tre giorni di ascolto e partecipazione, 12, 13 e 14 Novembre, sembra esserci su tutto, prima di tutto, l’idea di integrazione: professionisti con competenze diverse, mente e corpo, individuale e collettivo, parola e immagine, persona e ambiente.

I 16 interventi sono stati condotti da esperti di psicologia, psicoterapia, neurofisiologia, filosofia, psiconeuroendocrinoimmunologia, teoria polivagale, EMDR, yoga, mindfulness, ma il livello significativamente articolato e complesso del convegno ha permesso di fare riferimento anche a temi di grande attualità come il rapporto fra salute e inquinamento e il problema della violenza sulle donne. Le parole chiave sono: ascolto, partecipazione, contatto, relazione, trasformazione.

Stress e trauma in pandemia

Uno dei primi interventi ad aprire, quello del Dott. Giovanni Tagliavini, psichiatra e psicoterapeuta, presidente di AISTED, offre una riflessione relativa alle differenze fra il concetto di trauma e quello di stress, specificando che per la maggior parte delle persone l’epidemia ha avuto a che fare più con dei vissuti da stress che con esperienze traumatiche. Se il trauma è un’esperienza di rottura, allo stress è possibile far fronte grazie alla resilienza.  “Per trauma in psicopatologia si intende un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile, inevitabile, di fronte alla quale un individuo è impotente” (Hermann, 1992 b; Krystal, 1988, van der Kolk, 1996). Lo stress è invece una risposta psicofisica a compiti diversi, di natura emotiva, cognitiva o sociale che la persona vive come eccessivi. Se l’esperienza è stata traumatica per quei congiunti che hanno perso i loro cari, in una condizione di solitudine in ospedale, è stata invece più o meno significativamente fonte di stress per chi ha dovuto affrontare la quarantena, le restrizioni, la perdita temporanea del lavoro e delle possibilità di relazione.

Parlare di trauma apre alla possibilità per il Dott. Tagliavini di fare riferimento alla questione della violenza sessuale sulle donne, con riferimento nello specifico al concetto di “Finestra di tolleranza”. La nostra finestra di tolleranza è una risposta percettiva agli stimoli dell’ambiente e si situa in uno spazio che si muove fra una condizione di iper-arousal (situazioni percepite come attivanti) e ipo-arousal (situazioni percepite come inibenti). Nel corso di una violenza sessuale o di un tentativo di violenza sessuale è possibile che una donna vada incontro ad uno shock tale da provocarle una reazione inibente, di immobilizzazione, di difesa dalle emozioni, piuttosto che una reazione di attacco-fuga, con tutte le riflessioni che in ambito giuridico e penale ne conseguono.

Il vissuto di impotenza degli operatori sanitari

L’intervento successivo  è a cura del Prof. Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine delle Professioni infermieristiche OPI di Varese. Il suo è un racconto molto intimo, personale. In qualità di infermiere racconta gli ultimi istanti di vita di molti pazienti Covid. La frustrazione, il dolore, l’impotenza generata dall’alto numero di morti, sono state accolte e contenute dall’affetto e dal sostegno dei colleghi e dei cari, ma anche dalla stessa esperienza di contatto con il paziente prima della morte, da quei momenti di profondità forse difficili da dire e da rappresentare. Il senso di vuoto e di freddezza che caratterizzavano i percorsi in auto, dall’ospedale a casa e da casa all’ospedale, facevano da contraltare angosciante, in tempi di zona rossa, ai ritmi duri e difficili dei turni, durante i quali però avvertiva la bellezza della vicinanza con gli altri. Il Prof. Filippini si chiede e ci chiede come partecipanti: “Quando il tempo è dolore? Quando è bellezza?” E ancora: “Quando è Kairos? Tempo giusto, opportuno, propizio e conveniente, che determina la buona occasione per l’incontro con l’altro”.

Processi infiammatori e sistemi infiammati

L’intervento del Dott. Bottaccioli, psicologo clinico neurocognitivo e Presidente Onorario SIPNEI, partendo dal presupposto che i sistemi psichici e biologici si influenzano reciprocamente, si concentra sul costrutto di “sistema infiammato”. Un corpo infiammato va incontro ad un’alterazione sistemica dell’organismo. Le cause possono essere: stress, alimentazione, obesità, sedentarietà, malattie infiammatorie, inquinamento, farmaci, condizione sociale, psicologica e relazionale. Alcuni studi evidenziano la correlazione fra disturbi dell’umore, ansia, schizofrenia, e alterazione del microbiota intestinale quando comporta uno stato infiammatorio dell’intestino. Con l’espressione “le parole della psiche diventano molecole e infiammano cervello e immunità” vengono illustrati i risultati delle ricerche che evidenziano la pericolosità dell’isolamento sociale, i possibili effetti della solitudine sulla prognosi, in seguito alla diagnosi di cancro. Se il rimuginio, e “la mente vagabonda” favoriscono un’alterazione dell’Ippocampo, l’isolamento sociale attiva in modo costante il sistema immunitario con conseguenze che hanno probabilmente lasciato il segno negli ultimi due anni, nello specifico su quei pazienti che hanno dovuto affrontare la malattia in reparti Covid o in altri reparti in condizione di solitudine. La riflessione sui “sistemi infiammati” invita a un’analisi circa l’incidenza dell’inquinamento sulla prognosi di pazienti affetti da Covid 19. Sulla base di quanto riportato dal relatore, il numero elevato di morti a causa del virus nella Pianura Padana si può spiegare anche osservando la relazione fra inquinamento e “processi infiammatori”. Le particelle sottili, le polveri fini, un’aria quindi ricca di PM, danneggiando gli alveoli polmonari, attiva i macrofagi in senso infiammatorio. Il sistema immunitario di chi è costantemente a contatto con un’aria inquinata può essere quindi epigeneticamente segnato in senso infiammatorio e contribuire allo sviluppo di una forma grave da Covid 19.

Covid-19: un j’accuse al pre-pandemia

In ambito psicosociale, il direttore del CENSIS, Dott. Massimiliano Valeri, sottolinea gli aspetti di continuità fra il periodo della pandemia e la condizione precedente, affermando che la diffusione del Covid, ha consentito un “J’accuse” rispetto ad uno stato di cose preesistente. L’epidemia viene interpretata come un acceleratore di tratti e caratteristiche che connotavano la nostra società già in precedenza. Se è vero che i reparti di terapia intensiva si sono trovati fortemente in difficoltà, è anche vero che fra le nazioni dell’Ocse, l’Italia era stata l’unica ad aver ridotto in modo così importante la spesa pubblica in ambito sanitario. Durante la pandemia il 9% dei ragazzi è stato escluso dalla didattica a distanza, ma già precedentemente si registrava un grave livello di abbandono in ambito scolastico. Lo stesso filo di continuità si riscontra rispetto al numero delle nascite e al problema dell’occupazione femminile. Ne deriva che il problema è di natura identitaria e che la nostra società è passata da una comunità in cui vinceva il modello dell’ascensore sociale, alla società dell’incertezza, del rancore diffuso. Se il mondo materiale e quello psicologico si influenzano reciprocamente, quali ricadute sul piano psicologico e sociale per i giovani? Com’è possibile aiutarli affinché costruiscano la speranza e la fiducia nei loro mezzi e nelle loro possibilità?

EMDR e pandemia

Tornando all’area psicoterapeutica, la Dott.ssa Isabel Fernandez, presidente associazione EMDR Italia e EMDR Europa, descrive la rilevanza dei trattamenti EMDR negli ospedali e nei servizi sanitari, presso carceri e varie associazioni durante l’ultimo anno. Le persone sono andate incontro a problemi legati a incredulità e negazione, senso di vulnerabilità, isolamento, minaccia, sopraffazione, eccessiva rapidità, affidamento, adattamento, connessione. È stato importante raggiungere gli operatori sanitari nei luoghi di lavoro in cui si trovavano, senza che questi stessi si trovassero nella condizione di dover richiedere un aiuto o un intervento. L’obiettivo dell’associazione è stato quello di focalizzare il trattamento su incontri di gruppo che riducevano il dispendio di energia e di tempo. Gli operatori sanitari hanno dovuto affrontare con maggiore frequenza problematiche legate a:

  • Timore della stigmatizzazione per il ruolo svolto
  • Stress causato dai dispositivi di protezione
  • Timore di contagiare gli altri
  • Elevato numero di morti

Nel resto della popolazione sono emersi principalmente problemi legati a stati depressivi, evitamento, confusione, disturbo da stress post traumatico, perdite, lutti professionali e relazionali, aggressività e rabbia verso le istituzioni e all’interno del contesto familiare.

Hatha Yoga

Infine, Paolo Proietti, Maestro esperto CSEN/CONI, ha introdotto il primo fra gli ultimi interventi, che sono stati di natura prevalentemente esperienziale. Ha evidenziato l’utilità di questa pratica, l’Hatha Yoga, in condizioni di stress, ma anche in funzione del mantenimento e del raggiungimento della salute. L’Hatha Yoga è una tecnica che prevede la recitazione di mantra, visualizzazioni, concentrazione e meditazione. Non tralasciando gli aspetti teorici della disciplina, ha posto in evidenza alcune correlazioni fra EMDR e Hatha Yoga, la teoria di Hillman e Hatha Yoga, oltre ai risultati di alcuni studi in ambito neurofisiologico. La parte finale del webinar, concentrata maggiormente sul piano fisico dell’esperienza, ha permesso di elaborare con maggiore fluidità il livello di complessità suggerito dai tanti interventi e la rilevanza delle domande suscitate.

 

Il burnout lavorativo: effetti psicologici e trattamento

Il burnout è una sindrome tipica delle professioni coinvolte nelle relazioni di aiuto; è una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale di progressivo allontanamento da una fonte di malessere.

 

Lavorare in determinati ambiti infatti non è sempre facile, le componenti stressanti, ovvero gli “stressors” con cui ci si confronta, possono portare ad un logoramento professionale, emotivo, psichico, provocando delle alterazioni sull’efficacia lavorativa e sul rapporto con l’utenza.

Si rende nota la presenza del burnout negli anni ’70, quando i rapporti familiari e sociali cambiano andando verso una dimensione più privata, mettendo in secondo piano in gruppo informale e delegando le funzioni di sostegno esclusivamente alle istituzioni pubbliche.

Maslach e Jackson definiscono il burnout come un costrutto caratterizzato tipicamente da tre dimensioni:

  • Esaurimento emotivo: sensazione di essere svuotati, logorati, inariditi;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento distaccato, cinico, ostile, freddo dell’operatore nei rapporti con l’utenza;
  • Ridotta realizzazione personale: percezione della propria inadeguatezza nel lavoro.

Oltre allo stress, le cause che possono provocare tale stato alterato vanno ricercate anche nella prospettiva di importanza che viene data all’attività lavorativa; infatti, spesso vi è una vera e propria etica della consacrazione delle helping professions, secondo cui la persona che vi si dedica raggiungerebbe il senso della propria vita. Il lavoro è il centro del proprio mondo, se fallisce si è falliti in tutto e soprattutto nel proprio progetto personale. Si tratta di molteplici professioni, dall’insegnante allo psicologo, sino all’infermiere; tipico di queste professioni d’aiuto infatti è contribuire alle modifiche di un’altra persona e alla relazione in cui sono coinvolte attraverso tecniche specialistiche e attraverso la propria preparazione e professionalità. Per Rogers si tratta di una relazione in cui uno dei due ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturazione nei processi di adattamento e di risoluzione dei problemi che da sola non è in grado di affrontare.

L’operatore della professione d’aiuto è una persona che deve porre continuamente se stesso come catalizzatore dei processi di crescita dell’altro, per cui c’è il rischio di una prolungata situazione di stress lavorativo; le conseguenze sono, dunque, una ridotta produttività, deterioramento delle relazioni con utenza e colleghi, alterazione dell’equilibrio emotivo. Ci sono, però, alcune “tecniche” che l’operatore può mettere in atto per contrastare l’insorgenza del burnout:

  • Personalizzare l’aiuto, per cui ogni caso è a sé;
  • Lasciare libera espressione delle sensazioni del cliente;
  • Impegnarsi autenticamente ma evitando il coinvolgimento emotivo;
  • Astenersi dal giudizio;
  • Mantenere il segreto professionale;

Le condizioni interne di personalità del lavoratore si intersecano con quelle dell’ambiente in cui lavora, per cui fattori predisponenti sono l’essere soggetti sensibili, eccessivamente empatici, idealisti. Gli ambienti maggiormente “a rischio” sono: pronto soccorso, terapia intensiva, oncologia, patologie croniche, dipendenze, disturbi psichiatrici…dipende molto dunque dal tipo di mansione, durata, contesto.

Maslach ha creato uno strumento apposito per indagare sull’eventuale insorgenza di burnout, il MBI, Maslach Bornout Inventory, che si basa appunto sui tre aspetti del bornout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo, ridotta realizzazione).

Le professioni più colpite dal burnout

La riabilitazione del ritardo mentale è uno dei settori colpiti da burnout; maggiore gravità del paziente corrisponde ad una maggiore probabilità di insorgenza di burnout. Infatti, i soggetti che non riescono a raggiungere certi obiettivi, che non inviano feedback, che non gratificano l’operatore, risultano essere molto stressanti. Fonti di stress risultano essere anche i rapporti con le famiglie e gli altri operatori professionali.

Anche se non è esattamente una professione d’aiuto, anche il caregiver può essere soggetto a burnout. Sono coloro i quali assistono persone malate, generalmente familiari. Da alcuni studi emerge una differenza tra uomini e donne, le quali risultano essere più stressate, e tra laureati e non, i primi infatti sembrano più consapevoli della gravità della situazione. Molto spesso il caregiver si porta dietro l’investimento emotivo, ansia, dolori e problemi fisici, perdita di controllo. Sembra inoltre esserci un atteggiamento diverso, dipendente dal tipo di patologia di cui ci si occupa: infatti i caregiver di pazienti neurologici sono molto stressati, di meno lo è chi si occupa di pazienti oncologici, probabilmente per la consapevolezza della durata della malattia. Progetti di informazione e rieducazione possono aiutare il caregiver a capire ed affrontare il cambiamento del congiunto e ridurre lo stress.

Gli operatori sanitari più a rischio sono coloro i quali si occupano di oncologia, AIDS e pazienti sieropositivi. Il reparto di oncologia soprattutto mette a dura prova gli operatori, in quanto provoca delle idee di morte riferite anche a sé ed ai propri familiari. Inoltre contribuiscono caratteristiche di personalità, impossibilità di ritirarsi dalla relazione, mancanza di preparazione per una cura globale del paziente, identificazione con il paziente. Spesso esaurimento emotivo e depersonalizzazione sono più alti nei casi di pazienti oncologici adulti piuttosto che nei bambini. Infatti in questi ultimi casi si può avere un decorso più lento e maggiore speranza di ripresa.

Anche gli insegnanti possono subire il burnout, nella difficoltà a rapportarsi agli alunni, nell’insensibilità verso i loro problemi, nella percezione di inefficacia del loro insegnamento; gli insegnanti di sostegno hanno maggiore probabilità di per via delle più ore di lavoro, stress, grado di disturbo dell’allievo.

Per fronteggiare il problema è necessario “prendersi cura di chi si prende cura”. È importante che si avvii una buona prevenzione, in modo tale da evitare che chi si prenda cura di qualcuno abbia bisogno a sua volta di aiuto.

I livelli di intervento sono:

  • Cognitivo: maggiore conoscenza degli elementi di rischio che caratterizzano la malattia e dei fattori di rischio nel relazionarsi con essa;
  • Emotivo: consapevolezza delle proprie emozioni, motivazioni, vissuti…
  • Organizzativo: supporto tra colleghi e professionisti del settore

Durante la formazione alle professioni va riaffermata la formazione non solo tecnico-professionale, ma anche quella personale, in quanto persona. In alcune professioni, come ad esempio la psicoterapia, è già previsto. Sarebbe importante ed utile estendere anche ad altre professioni questo indirizzo.

Il trattamento del burnout

Sul piano della prevenzione, Cherniss ha elencato le seguenti strategie da adottare prima che la sindrome si manifesti in maniera conclamata.

  • In primo luogo, bisogna conoscere le dinamiche implicite della sindrome, analizzare gli obiettivi e le aspettative personali, accertare la proporzionalità tra richieste e risorse e creare meccanismi difensivi alternativi che sostituiscano il “ritiro” tipico del burnout.
  • È necessario intervenire in ambito lavorativo: una modifica delle strutture di ruolo, di potere e normative dovrà procedere ogni altro tipo di intervento.
  • Come dice l’autore sopra, bisogna prevenire: non si deve sottovalutare il valore delle azioni antecedenti l’insorgere della sindrome.

È altrettanto importante sottolineare il “valore della consapevolezza”, intesa come presa di coscienza dei propri progressi, e il fallimento delle strategie tese al solo potenziamento delle risorse individuali.

Sulla base di questi principi l’intervento si articolerà in:

1. Organizzare mirati aggiornamenti di sviluppo professionale: gli operatori possono essere incoraggiati a ridurre il livello di stress lavorativo attraverso un’accurata pianificazione dello sviluppo professionale, mirato a promuovere tra gli operatori obiettivi più realistici o nuovi obiettivi, che possono fornire fonti alternative di gratificazione. Si può, quindi, intervenire aiutando gli operatori a utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back, fornendo frequente possibilità di supervisione e di formazione per incrementare l’efficienza del ruolo; insegnare al team a difendersi mediante strategie quali il corretto utilizzo del tempo; orientare preventivamente i nuovi arrivati sulle difficoltà del lavoro; effettuare dei check-up organizzativi periodici o utilizzare un servizio di consulenza centrata sui temi del lavoro e dello stress; incoraggiare la formazione di gruppi di sostegno.

2. Un cambio delle mansioni e delle strutture di ruolo: migliorando la struttura di ruolo si accresce la realizzazione personale e professionale degli operatori, riducendo così lo stress. È fondamentale che i ruoli e le strutture siano flessibili, in funzione delle diverse soggettività e delle diverse motivazioni lavorative. Le trasformazioni strutturali si possono articolare in questo modo, limitando il numero degli utenti; distribuendo tra tutti i membri del team i compiti più difficili e meno gratificanti; pianificando le attività, in modo da alternare quelle gratificanti e quelle non gratificanti; permettendo agli operatori di prendersi “periodi di riposo” quando è necessario; utilizzando personale ausiliario per fornire al team ordinario possibilità di riposo; incoraggiando gli operatori a prendersi frequenti vacanze, anche con un breve preavviso se necessario; limitando il numero di ore di lavoro; non demonizzare il lavoro part-time; dare ad ogni operatore la possibilità di fare proposte nuove; costruire dei percorsi di carriera trasparenti.

3. Pianificazione della gestione: nell’organizzazione la qualità della leadership è molto importante in quanto esige una certa capacità di risoluzione dei problemi e di individuazione delle priorità. Si raccomanda di creare programmi specifici di supervisione e di sviluppo del management; creare per i dirigenti dei sistemi regolari di feed-back sulle prestazioni dei loro subordinati; controllare i livelli di conflitto e di tensione ed intervenire se diventano eccessivi.

4. Problem solving: anche nel caso in cui il lavoro è ben pianificato e strutturato c’è sempre il rischio che sorgano dei conflitti sul piano interpersonale e organizzativo. Per questo motivo è opportuno intervenire creando meccanismi di gruppo per la soluzione di problemi e dei conflitti organizzativi; programmare dei percorsi formativi che orientino alla risoluzione del conflitto; accentuare l’autonomia del personale e contemporaneamente curare la partecipazione alle decisioni. Migliorare la chiarezza degli obiettivi e dei modelli di management: si può intervenire per sostenere il burnout rendendo chiari e compatibili gli obiettivi, sviluppando un adeguato modello gestionale, investendo in formazione.

Le azioni per prevenire il burnout sono numerose, ma non essendoci una terapia specifica è indispensabile intervenire sul gruppo, oltre che sull’individuo. Nelle helping profession, il malessere dell’operatore si ripercuote sull’utente, che ha già delle difficoltà che si trovano a essere vittime inconsapevoli dell’organizzazione alla quale chiedono invece sostegno.

 

Esiste il rapporto sessuale? (2021) di Massimo Recalcati – Recensione

L’esperienza di limite che Recalcati sottolinea nel suo nuovo libro Esiste il rapporto sessuale?, parte dall’impatto del corpo con l’azione del linguaggio, che rivela come di fondo non esista un’“essenza del sesso” data a priori come dato della natura.

 

Recalcati, nel suo ultimo scritto, racconta il tema della sessualità umana, anche attraverso la presentazione di parecchi esempi clinici, in quanto incastro complesso non solo di soggetti ma anche di fantasmi, dimensione peraltro fondante di ogni incontro che veda emergere la vita erotica, in quanto labirintica e intimamente ingovernabile.

Uno degli aspetti centrali proposti da Recalcati, risulta una sessualità che sfugge ad uno “schematismo istintuale”, ad una naturalizzazione, le quali vengono rappresentate pienamente dall’accoppiamento nel mondo animale, portatore di un ordine prestabilito e di una legge naturale. La realtà del godimento, che vada oltre la superficie è sempre ricca di “scarti”, “eccessi”, “spinte”, che disturbano la vita “universalmente regolata dei piccioni” come afferma Recalcati, citando un passo di Woody Allen. I piccioni sono saldi nel moto istintuale che li dirige, dove una sorta di pilota automatico li dirige verso il loro unico e indissolubile partner. “Ma noi non siamo piccioni”, scrive Allen, perché la fedeltà è dettata dall’istinto e non dal desiderio”. Una sessualità abortita, espressione spesso utilizzata da Yalom (1980), dove l’aspetto del controllo risulta predominante, dove prevale l’identificazione coatta in un ruolo, preserva apparentemente la sicurezza e il proprio senso di sé, rispetto ad un’alterità dell’altro che non può essere dominata e che in quanto tale, contiene un abisso angosciante, ma soprattutto rispetto al contatto con “la propria alterità”, con il proprio “straniero” come scrive Recalcati. Lacan scrive che il corpo umano è “il luogo dell’altro” e che in quanto tale non può essere soltanto il risultato dell’anatomia, ma anche del linguaggio, del taglio simbolico e del carattere singolare della sessuazione. Pertanto tutto il processo di integrazione psicosomatica del reale nel simbolico, porta ad una dimensione di perdita, di vuoto, di “sacrificio simbolico” come afferma Recalcati. La vita non coincide con se stessa, il nostro mondo interno non corrisponde all’esterno, ma a detta di Winnicott (1971), si forma uno “spazio psichico”, ci muoviamo attraverso stati della mente. Sempre a detta di Winnicott, la creazione di spazio psichico, quale sano equilibrio tra le forze del vero sé della persona e il mondo reale, consente di coltivare un senso di continuità nell’esperienza e quindi di sperimentare un’ampia gamma di stati emotivi e mentali in relazione a se stessi e all’altro. L’esperienza di limite che Recalcati sottolinea, parte dall’impatto del corpo con l’azione del linguaggio, che rivela come di fondo non esista un’“essenza del sesso” data a priori come dato della natura. Il linguaggio pertanto compie un’azione paradossale, limitando il godimento, ma al tempo stesso, lo accende, lo stacca dall’istinto, lo perverte. Da una posizione autocentrata, prevalentemente autoerotica, in cui il giro della pulsione si chiude su se stesso, che rappresenta il tempo dell’infanzia, nel tempo della pubertà l’autoerotismo non scompare, ma porta con sé la possibilità inedita di incontrare il corpo sessuale dell’”Altro”.  “Altro” che viene indicato da Recalcati con la lettera maiuscola, proprio per prendere contatto con il nostro Altro interno, “sconosciuto”. La maturazione della vita sessuale, afferma Recalcati, non coincide con la separazione dalla sessualità infantile, periodo in cui la dimensione autoerotica pregenitale consente la formazione dei fantasmi inconsci del soggetto (di oggetti parziali, citando la Klein), necessari alla strutturazione del desiderio sessuale, ma con una rinuncia ad essere un oggetto che colmi la mancanza dell’Altro. In altre parole, si tratta di un percorso di lutto simbolico, in cui il soggetto accetta di non esaurire il mondo dei loro genitori e di altri significativi durante il percorso di vita, né di essere ciò che dia senso a quel mondo. Comporta il lasciare andare il mito che ci sia qualcuno di grande che ci protegga, a cui delegare la responsabilità sulla nostra vita, che ci salvi: un salvatore ultimo, a detta di Yalom. Si tratta di un passaggio importantissimo da un punto di vista esistenziale, in cui il soggetto accoglie la propria “perdita d’essere”, il proprio “esisto soltanto se”. A tal proposito, Recalcati scrive: “Il soggetto si separa dall’altro, tanto quanto l’altro si separa dal soggetto”. Una mancata separazione, può arrivare ad imporre in maniera coatta condizioni soggettive per accedere al godimento. È il caso di una paziente di Recalcati, che aveva vissuto con una coppia di genitori troppo occupati con il loro lavoro per dedicarsi alle sue cure. Motivo per cui, passava la maggior parte del tempo sola, travolta da un’intensissima angoscia e, durante le giornate, scopre il piacere di strofinarsi i genitali sul divano di casa. Recalcati scrive: “Il piacere autoerotico compensa la frustrazione alla sua domanda d’amore”. Durante il suo sviluppo, per non sottoporsi al rischio di “innamorarsi” e quindi di trovarsi in una condizione di vulnerabilità rispetto alla perdita intollerabile per lei, stacca la sessualità dal rapporto. Questa diventa la sola modalità per accedere al godimento sessuale, che ripete nei rapporti sessuali con uomini che non deve amare. Tenta quindi di annullare l’angoscia della mancanza e della dipendenza dal partner, attraverso una sorta di coazione solitaria a godere.

Focalizzandosi sul titolo del testo, Recalcati riprende uno dei più celebri aforismi di Lacan: “Il rapporto sessuale non esiste”. Quello che Lacan intende dire, scrive Recalcati, è che non esista alcuna possibilità di rapportare i due godimenti in gioco in ogni rapporto sessuale. Nel mentre stesso del rapporto, ciascuno dei due amanti è costretto a sperimentare l’impossibilità di uscire da sé stesso. Alla base vi è un’eterogeneità tra la pulsione che determina il godimento sessuale e il desiderio che sostiene la domanda d’amore. Il desiderio si nutre del segno del desiderio dell’altro e in questo rivela la sua natura dialettica, mentre la pulsione si caratterizza per un movimento chiuso su sé stesso. Il movimento pulsionale, in questo senso rimane sempre autoerotico, quindi la relazione tra i corpi sarà sempre mediata da un “non rapporto fondamentale”, dall’impossibilità della condivisione senza scarti dell’Uno con l’Altro, del “particolare”. Recalcati, continuando sulla scia di Lacan, afferma che se il corpo sessuale per un verso sia autoerotico, per un altro verso risulta sempre esposto al rapporto dal momento che la sua stessa esistenza si dissolve nel rapporto. Ogni vita deriva necessariamente dal rapporto, ed è la relazione nella sua autenticità che permette di “dare vita a qualcosa” in se stessi e nell’altro. Il desiderio quindi è carico di quell’ingovernabile di cui accennato all’inizio, proprio perché se da un lato risulta inaggirabile, ovvero non si può non essere in un rapporto, dall’altro contiene un’altra impossibilità, ovvero quella di fare esistere il rapporto. L’altro è sempre impenetrabile, sgusciante, intrattabile. Nel mito biblico, per il desiderio non c’è mai la possibilità di ricostituire un intero che non è mai esistito. All’origine, non c’è l’uno indiviso, ma una differenza. Il desiderio erotico, pertanto, non mira a ricomporre la scissione tra i due, ma è causato da un oggetto perduto che viene rintracciato nell’altro. La voce, i seni, le mani, tutta una serie di oggetti piccoli che incarnano la costola di Adamo, sono espressioni di un’alterità che non si lascia riassorbire nell’uno. L’oggetto quindi resta perduto per sempre, non c’è nessuna riappropriazione, dislocato nel corpo dell’altro e quindi per entrare in rapporto con esso, il soggetto è tenuto a spendersi con l’Altro. C’è quindi sempre la mediazione della soggettività dell’altro, quello che secondo Winnicott (1971), permette la formazione di aree intermedie di esperienza. Spendersi con l’altro, incontrare l’altro, implica entrare in uno spazio dove l’ego arretra, e in questo senso Recalcati accenna all’importanza dell’abbandonarsi al buio, lasciare che il corpo erotico si apra ad un godimento non più circoscritto alla visione, che può diventare vigilanza scopica. Buio inteso quindi come abbandono del controllo e di modalità rigide e ripetitive di stare con se stessi e con l’altro. Buio che consente al corpo di accogliere una gioia affermativa, quale segnale di una convergenza tra amore e godimento sessuale. La dimensione dell’ingovernabile del godimento trova la sua massima espressione nel femminile, da non associare soltanto al sesso anatomico. Questo godimento, secondo Recalcati, sottratto alla centralità del fallo, si diffonde il tutto il corpo, essendo pertanto plurale, decentrato, nomadico. Il femminile si dispone quindi come apertura per l’heteros, accoglienza, riconoscimento dell’alterità dell’altro. Il miracolo dell’amore è rendere quel corpo unico e insostituibile, come se fosse un nome, interrompendo quindi una feticizzazione seriale, un incastro con una serie anonima di corpi. Recalcati scrive: “Il corpo può diventare davvero un nome quando, osservando i suoi movimenti più comuni (camminare, sorridere, vestirsi), esso si mantiene fuori dal comune. È la prossimità del nome al senza tempo del Nuovo che non cessa di ripetersi nello stesso”.

Recalcati conclude con un aspetto, a mio avviso, fondante del “fare l’amore”. Il “fare l’amore” ci porta fuori dal recinto delimitato del nostro corpo, non nel senso di “fonderci con l’altro” e con il suo “particolare assoluto”, ma come esperienza del proprio corpo che non è del tutto proprio. In questo caso, vi è una perdita dei confini interna che attiene proprio al dare voce a più parti di sé. La perdita dei confini attiene quindi ad un atto di disarmo, la deposizione delle armi dell’ego, una separazione dal proprio io che genera gioia, ampliamento di sé e sconfinamento. In questo senso l’erotismo non è solo un’esperienza di appropriazione, ma soprattutto di svuotamento, di decentramento attraverso l’Altro che va accolto principalmente in se stessi. In questo senso, Recalcati lo enfatizza in maniera poetica attraverso l’espressione del “fare per disfare”, ad un fare che si lascia fare, non assoggettato dall’assillo consueto del “dover fare”.

 

“Tradisco sì, ma solo per timore di rimanere da solo!” La paura di essere single come mediatrice nella relazione tra attaccamento ansioso e tradimento

L’infedeltà, intesa come una violazione delle norme di relazione che regolano l’esclusività, rappresenta uno degli aspetti più dolorosi all’interno delle relazioni romantiche.

 

Infatti è associata ad una serie di outcome negativi come l’aumento del rischio di problemi di salute sia mentali (ad es. ansia, depressione) che fisici (ad es. malattie sessualmente trasmissibili), diminuzione dell’autostima, fiducia danneggiata nel partner, violenza domestica, rottura e divorzio (Fincham & May, 2017).

Infedeltà e attaccamento

La ricerca precedente ha dimostrato che alcuni fattori di personalità influenzano il coinvolgimento nel tradimento: persone con alto livello di estroversione, nevroticismo, narcisismo e psicopatia riportano livelli più elevati di infedeltà (Altgelt et al., 2018; Jones & Weiser, 2014), mentre un’elevata gradevolezza e coscienziosità sono state associate a livelli più bassi di infedeltà (Barta & Kiene, 2005).

Un ulteriore fattore che sembra avere una grande influenza nei comportamenti di infedeltà è il tipo di attaccamento. Il sistema comportamentale dell’attaccamento deriva dalle esperienze con gli altri significativi (caregiver), che modellano poi le modalità con cui gli individui si rapportano con gli altri nelle relazioni successive (Bowlby, 1982). I tipi di attaccamento che Bowlby ha teorizzato sono: lo stile di attaccamento sicuro, lo stile di attaccamento insicuro evitante, lo stile insicuro ansioso ambivalente e lo stile disorganizzato.

L’attaccamento ansioso, in particolare, predice in modo affidabile il coinvolgimento in atti di infedeltà (Pereira et al., 2014; Russell et al., 2013). Tuttavia, i meccanismi alla base di questa relazione tra ansia di attaccamento e infedeltà rimangono inesplorati.

L’attaccamento ansioso è caratterizzato dalla preoccupazione per la disponibilità e la reattività della figura di attaccamento, un’ipersensibilità all’abbandono e una forte preoccupazione per la vicinanza (Shaver & Mikulincer, 2002). Nelle relazioni sentimentali, gli individui con un attaccamento ansioso presentano una paura cronica per la non disponibilità e la non reattività dei partner nei loro confronti, e temono costantemente di poter essere rifiutati o abbandonati dal partner stesso. La ricerca ha dimostrato che le persone con attaccamento ansioso riferiscono di avere più relazioni (Russell et al., 2013), ottengono punteggi più alti nelle misure di infedeltà emotiva e fisica (Pereira et al., 2014) e si impegnano in atti di infedeltà online più frequentemente (Ferron et al., 2017; McDaniel et al., 2017).

La relazione esistente tra attaccamento ansioso e tradimento è interessante perché rappresenta in un certo senso un paradosso: dato che l’attaccamento ansioso è caratterizzato da un’elevata preoccupazione per l’abbandono, che porta gli individui a cercare costantemente la vicinanza ai loro partner e ad aggrapparsi a loro (Brennan & Shaver, 1995), perché le persone che temono così tanto che i loro partner possano lasciarli si impegnano in più atti di infedeltà, che inevitabilmente mettono a rischio la relazione?

Infedeltà e paura di essere single

Una variabile che potrebbe avere un ruolo significativo è la paura di essere single. La paura di essere single è definita come l’ansia, il disagio o la preoccupazione relativa all’incapacità di raggiungere o mantenere una relazione romantica, finire da soli e sentirsi inadeguati (Spielmann et al., 2013). Questa paura può essere molto diffusa: le norme sociali comunicano ancora in modo pervasivo che gli individui che hanno un partner sono più felici, più adattati e hanno una vita più significativa rispetto alle persone che sono single (DePaulo e Morris, 2005).

Anche se la paura di essere single è stata maggiormente studiata tra le persone single, anche gli individui nelle relazioni romantiche possono segnalare questo stato di ansia in relazione all’angoscia di essere single in futuro (George et al., 2020; Spielmann et al., 2016).

La ricerca ha dimostrato che un attaccamento ansioso predice in modo affidabile livelli più elevati di paura di essere single (George et al., 2020; Spielmann et al., 2016; Spielmann et al., 2020). Questo non sorprende dato che un modello di sé negativo, spesso sviluppato da chi possiede un attaccamento ansioso, che prevede la considerazione di sé come persone indegne di amore e sostegno e la paura dell’abbandono, può aumentare la paura di rimanere single.

Inoltre, persone con attaccamento ansioso e persone con paura di rimanere single hanno dimostrato di essere ipersensibili ai segnali di rifiuto (Spielmann et al., 2013), credendo quindi con più facilità che i loro partner stiano per lasciarli quando questi segnali di rifiuto vengono colti. Questa percezione di rifiuto potrebbe aumentare la propensione all’infedeltà perché gli individui, quando percepiscono una minaccia alla loro relazione, potrebbero cercare “rifugio” in partner alternativi (Birnbaum et al., 2019).

Quindi, in altre parole, quando si percepisce la possibile minaccia di essere lasciati, la profonda preoccupazione di rimanere senza una relazione/partner fa sì che venga attuato un “piano di riserva” cercando altri partner alternativi nel caso in cui il partner attuale se ne vada, rendendo più probabili i comportamenti di infedeltà.

Motivazioni sottostanti l’infedeltà

A sostegno di queste ipotesi, alcuni studi hanno dimostrato che tra le motivazioni alla base dei tradimenti commessi vi erano: l’insicurezza su quanto fosse stabile e affidabile la loro relazione attuale, la mancanza di attenzione da parte del partner attuale o il tentativo di testare se erano attraenti per altri (Feldman & Cauffman, 1999; Barta & Kiene, 2005 ).

Per cogliere il meccanismo attraverso il quale l’attaccamento ansioso è collegato all’infedeltà, uno studio (Sakman et al., 2021) ha tentato di analizzare il ruolo della paura di essere single come variabile mediatrice nella relazione tra attaccamento ansioso e comportamenti di infedeltà.

I risultati ci mostrano che, anche in questo studio, un attaccamento ansioso prevedeva la probabilità di impegnarsi in comportamenti di infedeltà e che, inoltre, la relazione tra attaccamento ansioso e tradimento è mediata dalla paura di rimanere single.

Le persone con attaccamento ansioso hanno riportato livelli più elevati di paura di essere single, che a loro volta prevedevano probabilità più elevate di impegnarsi in atti di infedeltà, supportando quindi l’ipotesi secondo cui l’infedeltà può essere un comportamento messo in atto da individui cronicamente preoccupati di essere abbandonati, al fine di ridurre al minimo il rischio futuro di essere single.

Questi risultati, oltre ad aver fatto luce su un meccanismo ancora poco conosciuto, possono inoltre essere utili per i professionisti della consulenza di coppia, dato che l’infedeltà è tra le principali motivazioni per cui queste si recano in terapia. Gli individui con attaccamento ansioso possono essere identificati come un gruppo di intervento target, in cui vengono offerte strategie per gestire l’eccessiva preoccupazione di essere lasciati senza un partner. Inoltre, l’innesco di sicurezza per aumentare l’attaccamento sicuro all’interno della relazione attuale potrebbe essere utilizzato come potenziale strategia di buffering per questi individui a rischio.

 

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