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Coppie in mediazione (2019) di F. Canevelli e M. Lucardi – Recensione del libro

L’approccio di Canevelli e Lucardi in Coppie in mediazione ha come obiettivo quello di offrire una visione differente della crisi di coppia, considerandola un’opportunità di crescita.

 

Il numero delle separazioni negli ultimi quarant’anni è drammaticamente aumentato. I dati Istat mostrano che in Italia, rispetto al 2008, i divorzi sono cresciuti del 15,8 %. I conflitti che derivano dalla disgregazione familiare non sono esclusivamente individuali, ma riflettono profonde divisioni della società e tale groviglio di questioni pubbliche e private può rendere ancora più difficile, alla coppie che divorziano, gestire i reciproci sentimenti negativi rimanendo tuttavia genitori uniti.

Il focus di Canevelli e Lucardi in Coppie in mediazione è posto sui legami di coppia, sui conflitti e sulle gravi ripercussioni sui figli e gli altri familiari coinvolti nelle loro difficoltà. Nella prima parte del manuale gli autori forniscono una meticolosa analisi psicologica del passaggio dall’innamoramento alla rottura del rapporto di coppia, indagando i motivi alla base della decisione, ricercando “i fatti che hanno scavato un solco incolmabile tra i due partner”. Quelli che Canevelli e Lucardi definiscono “fattori esplicativi della crisi di coppia” sono assimilabili a significativi aspetti dei vissuti personali che non trovano più corrispondenza in un progetto condiviso. In altre parole, la fase di separazione o allontanamento è caratterizzata da percezioni soggettive di incompatibilità sperimentati da uno dei membri della coppia e che emergono più o meno all’improvviso. Allo stesso tempo, spiegano gli autori, i sentimenti di insoddisfazione nel rapporto, i rancori e le delusioni accumulate nel tempo, non giustificano né spiegano la decisione di porre fine al rapporto. Come per qualunque decisione, infatti, possono manifestarsi idee di separazione nel rapporto e tuttavia non concretizzarsi mai, oppure comparire all’improvviso in seguito a eventi critici e addirittura rientrare.

Se durante la fase d’innamoramento l’altro diviene lo specchio del sé desiderabile o, per meglio dire, della rappresentazione migliore di sé, è proprio durante la possibilità della crisi che questa fase dovrebbe sopraggiungere, poiché una percentuale funzionale della dimensione dell’innamoramento sopravvive alle fasi successive del rapporto di coppia, quelle negoziali, che segnano la costruzione di quel “noi” meno idealizzato. “Non crediamo si possa veramente amare senza avere sperimentato la delusione legata all’emergere della totalità dell’altro e di sé in relazione all’altro nella sua interezza”.

L’approccio di Canevelli e Lucardi ha come obiettivo quello di offrire una visione differente della crisi di coppia, considerandola un’opportunità di crescita, per dare significato al rapporto, guardando al conflitto come evoluzione e possibilità di negoziare piuttosto che come la fine. Risultano molto utili le indicazioni e gli interventi per gestire i conflitti che si presentano durante il percorso della coppia, finalizzati a ridurre il più possibile i traumi dei componenti della famiglia, soprattutto per i figli. La disgregazione della famiglia potrà essere sì dolorosa, ma non distruttiva. E questo vale in particolare per quei figli che vengono “triangolati” dai due genitori nei loro dissidi. É piuttosto frequente, infatti, che i genitori separandi, nelle loro “guerre”, non tengano conto dei bisogni (specifici e diversi per ogni età evolutiva) dei propri figli, i quali si ritrovano a subire il trauma della separazione, e per giunta in balìa delle loro ostilità. In questo passaggio, affermano gli autori, è fondamentale limitare i danni della separazione considerandola non come mero evento negativo e conclusivo di una relazione, ma come momento di riorganizzazione dell’assetto familiare. La mediazione familiare, quale intervento di prevenzione delle difficoltà, è il tema dominante della seconda parte del libro: essa si configura come valido strumento di fronte alla necessità di ristabilire una comunicazione funzionale ed equilibrata nella coppia, trasformando il rapporto coniugale in rapporto genitoriale a beneficio dei figli. Sempre e comunque.

 

Linee di supporto telefonico: una fonte di informazioni sulla salute mentale durante la pandemia di COVID-19

La pandemia da COVID-19 ha aggravato i fattori di rischio che sono generalmente associati ad una scarsa salute mentale, quali ad esempio la disoccupazione, la paura esperita, l’insicurezza finanziaria.

 

I fattori protettivi come l’occupazione, la connessione sociale, l’accesso ai servizi sanitari ed il possedere una routine quotidiana, invece, sono stati drasticamente limitati. La situazione che la popolazione mondiale si è trovata a vivere durante la pandemia ha portato ad un peggioramento significativo e senza precedenti della salute mentale della popolazione (OECD, 2021).

Per sopperire a questa situazione di crisi causata dal COVID-19, la maggior parte dei Paesi ha messo a disposizione dei cittadini delle linee di supporto telefonico e alcuni hanno aumentato/apportato finanziamenti per la salute mentale (OECD, 2021).

Supporto telefonico durante la pandemia di Covid-19

Le linee di supporto telefonico svolgono un ruolo significativo nel supporto per la salute mentale e, in alcuni casi, è anche l’unica forma di terapia ricevuta. Grazie all’immediatezza dell’aiuto, all’anonimato, al basso costo e alla facilità di accesso per le comunità remote, la consulenza telefonica ha assunto una grande popolarità (Leach & Christensen, 2006). Ad oggi esistono diverse linee di supporto che sono specializzate in questioni specifiche come il suicidio, il supporto per i minori o la violenza contro le donne, che dimostrano di avere un’efficacia in termini di prevenzione e supporto (De Leo et al., 2002)

Durante la pandemia di COVID-19, le linee di supporto telefonico assumono ancora più importanza dato che i contatti diretti comportano rischi di infezione e possono persino essere impossibili a causa delle restrizioni (Batchelor et al., 2021; Zalsman et al., 2021; Turkington et al., 2020; Brülhart & Lalive, 2020).

Utilizzare i dati provenienti dalle linee di supporto telefonico per monitorare la salute mentale degli individui può avere diversi vantaggi. In primo luogo, le chiamate effettuate possono essere considerate una vera e propria manifestazione di disagio psicologico, dato che i chiamanti sostengono il costo mentale e di tempo del mettersi in contatto senza essere stati invitati a farlo. Pertanto, le chiamate al servizio di assistenza assomigliano ai dati clinici offrendo una misura della salute mentale che non è influenzata dalla progettazione e dall’inquadratura dello studio dei ricercatori. In secondo luogo, le informazioni sulle chiamate di assistenza sono registrate digitalmente con frequenza giornaliera e coprono un’ampia gamma di argomenti di conversazione.

Un recente studio (Brülhart et al., 2021) ha utilizzato i dati provenienti da 23 linee di supporto telefonico in 14 paesi europei, Stati Uniti, Cina, Hong Kong, Israele e Libano, come fonti di informazioni riguardo i problemi di salute mentale e il disagio generale della popolazione, analizzando la crescita e la composizione delle chiamate al servizio di assistenza, nonché i loro determinanti legati alla pandemia.

Il dataset analizzato dallo studio in questione comprende un totale di 8 milioni di chiamate individuali effettuate tra il 2019 e l’inizio del 2021, che ha permesso di analizzare gli effetti della diffusione dei contagi e delle misure di restrizione sulle chiamate ricevute dalle linee di supporto.

Supporto telefonico durante la pandemia: argomenti delle telefonate

Gli argomenti discussi nelle chiamate ricevute dalle diverse linee di supporto sono stati categorizzati formando categorie comuni: solitudine (isolamento sociale, sensazione di essere in trappola), paura (paura generale, disturbo d’ansia, paura di infezione), suicidalità (ideazione suicidaria, pensieri o piani suicidari, tentativi di suicidio, suicidalità di altri), dipendenza (droghe, alcol, altre dipendenze), violenza (violenza fisica e abusi, molestie sessuali, stupro), salute (malattia, malattia di lunga durata, disabilità), sostentamento (situazione lavorativa, disoccupazione, problemi finanziari, alloggio) e relazioni (vita familiare, genitorialità, matrimonio e relazioni intime, separazione).

I risultati dimostrano che la maggior parte delle chiamate pre-COVID-19 sono state effettuate a causa di problemi di relazione (37%), solitudine (20%) o varie paure e ansie (13%). Durante la pandemia le chiamate sono aumentate fino a raggiungere un picco sei settimane dopo lo scoppio della pandemia, che supera il pre-livello di pandemia del 35%, e gli argomenti trattati sembrano aver subito delle modifiche. Le categorie di chiamate la cui quota è aumentata significativamente sono la categoria ‘paura’ (che include per lo più paura per l’infezione) e ‘solitudine’, aumentate soprattutto durante la prima ondata della pandemia. A seguito, durante le ondate successive, l’argomento ‘salute fisica’ si è aggiunto ai precedenti diventando anch’esso centrale.

La quota di tutti gli altri argomenti di conversazione sembra invece essere diminuita durante la prima ondata della pandemia. Un risultato degno di nota risiede nell’aumento di 0,9 punti percentuali della quota di chiamate legate alla violenza effettuate maggiormente da donne under 30, nonostante potrebbe essere stato più difficile date le restrizioni esistenti effettuare chiamate di assistenza in situazioni di violenza domestica.

Dati particolari vengono mostrati anche per quanto riguarda il fenomeno del suicidio. In alcuni Paesi, durante i primi mesi della pandemia, il numero di chiamate alla linea di assistenza per il suicidio sembrano essere diminuite. Un’interpretazione di questo risultato è che la pandemia stessa possa aver attenuato le ansie suicide, forse spostando l’attenzione delle persone verso il disagio degli altri o verso la propria paura della pandemia.

Conclusioni

In generale, analizzando i dati ottenuti per tutta la durata della pandemia fino ad ora, a seconda dei tassi di infezione, le chiamate relative al suicidio sono aumentate quando le politiche di contenimento sono diventate più rigorose e sono diminuite in concomitanza con le misure di sostegno al reddito.

Nel complesso, i risultati ottenuti dallo studio suggeriscono che l’aumento osservato delle chiamate di assistenza durante la pandemia di COVID-19 è stato guidato in larga misura dai timori del virus stesso e dalla solitudine. L’aumento delle chiamate risulta essere influenzato dall’andamento dei contagi e dalla severità delle misure restrittive nei paesi presi in considerazione.

Nonostante quindi misure più rigorose fossero associate ad un maggior numero di chiamate alle linee di supporto, è stato visto che un sostegno al reddito da parte del governo ha avuto l’effetto opposto. Ciò implica che i pagamenti compensativi ai lavoratori e alle imprese colpiti economicamente dalla pandemia, progettati per preservare la domanda e la capacità produttiva, non solo riducono le difficoltà economiche ma apportano una serie di benefici dal punto della salute mentale. Infatti, un sostegno al reddito più generoso riduce il numero di chiamate per la paura, per la solitudine, per salute fisica e per l’ansia da sostentamento.

In conclusione, le linee di assistenza telefonica offrono dei dati longitudinali molto utili che possono essere combinati agli approcci empirici esistenti basati su sondaggi, dati amministrativi e clinici (come statistiche sui suicidi e ricoveri nei centri di cura) e dati di ricerca su Internet per meglio comprendere la reale situazione di disagio esperito dalla popolazione.

 

Le polarità semantiche familiari nella terapia sistemico relazionale

La terapia sistemico-relazionale nasce dallo spostamento del focus dall’individuo all’individuo contestuale, ovvero inserito in un contesto familiare, sociale e culturale ben preciso.

 

La famiglia, riprendendo la teoria ecologica di Bronfenbrenner, è il primo nucleo dove inizia a svilupparsi la personalità dell’individuo, dalla diade madre-bambino studiata da Bowlby e Mary Ainsworth, fino a concepire la triangolazione, la teoria dell’intersoggettività primaria di Stern per cui il bambino già dai nove mesi riesce a concepire la conversazione oltre la diade, a rappresentarsi sino ad almeno due figure.

I principi della terapia sistemico-relazionale

Bateson della scuola di Palo-Alto, introduce i concetti di schismogenesi complementare e simmetrica; la schismogenesi complementare racchiude quella gamma di comportamenti adottati da alcuni gruppi indigeni osservati da Bateson, nei quali si possono sviluppare dei comportamenti opposti (ad esempio un indigeno è prepotente e testardo mentre l’altro è tranquillo e remissivo) che vanno mano a mano a diventare sempre più estremi, l’uno in un polo e l’altro in quello opposto (il rabbioso diventa sempre più rabbioso, il timido sempre più timido), invece la schismogenesi simmetrica include quei comportamenti speculari (all’interno di un gruppo il tratto emotivo tende a essere simile, non c’è opposizione tra un timido e un prepotente ma condivisione tra due soggetti tranquilli o due rabbiosi) nella semantica polare (posizione mediana, classico nei soggetti ossessivo-compulsivi).

Infine la Dott.ssa Ugazio introduce la teoria delle polarità semantiche familiari, ovvero quei frame conversazionali entro cui un individuo si ritrova all’interno di una famiglia; in una famiglia può esserci la polarità della rabbia, per cui i soggetti della famiglia si oppongono sulla base dei loro tratti caratteriali tra rabbiosi e remissivi, o ancora può dominare la polarità della timidezza, per cui invece i soggetti si differenziano specularmente tra chi è timido e chi è molto sicuro di sé (questa teoria parte dal presupposto che in ogni nucleo famigliare vi siano identità con tratti caratteriali opposti).

I disturbi psicologici nella terapia sistemico-relazionale

Le semantiche principali che vanno a caratterizzare quattro disturbi specifici sono le seguenti: semantica della bontà (che vede come poli opposti buono-cattivo), semantica della libertà (come poli opposti contempla libero-prigioniero), semantica della potenza (poli opposti: forte/debole) e dell’appartenenza (poli: dentro/fuori). La semantica della bontà è alla base del disturbo ossessivo-compulsivo, quella della libertà caratterizza i disturbi dello spettro fobico, la semantica della potenza struttura i disturbi alimentari e l’appartenenza è il substrato del disturbo depressivo (sentirsi al di fuori di un gruppo, sentirsi solo e quindi depresso).

Analizzando ciascuna famiglia, si è potuto osservare che ci sono sempre dei “positioning” differenti e molto spesso opposti tra loro all’interno di determinate semantiche che dominano la conversazione. Questo può verificarsi nel nucleo famigliare stretto (prima generazione) oppure può capitare che in alcuni casi i poli opposti di una semantica si trovino solamente andando ad analizzare le generazioni precedenti (seconda, terza generazione ecc.), tracciando il genogramma familiare.

Il lavoro terapeutico consiste nel rendere consapevole il cliente del suo positioning familiare all’interno della semantica conversazionale così da attivare la possibilità di cambiare alcuni atteggiamenti determinati sostanzialmente in maniera inconscia dalla situazione semantica particolare in cui il soggetto si trova, che gli preclude di vivere la sua storia narrativa in quella semantica. Secondo il paradigma delle polarità semantiche familiari la sintomatologia di uno o più membri della famiglia è quasi sempre un comportamento adattivo che il soggetto sviluppa in relazione al tipo di famiglia in cui vive, perciò ogni paziente è in qualche modo da considerarsi molto intelligente nel costruire meccanismi di difesa, che servono a farlo sopravvivere in quello specifico sistema familiare nel quale cresce e si sviluppa. Questi meccanismi, una volta contestualizzati alla luce dei costrutti sopra elencati e trattati con modalità terapeutiche sistemico-relazionali (tra le quali spicca come fondamentale il lavoro in equipe, come spiega Rodolfo de Bernart in un’intervista), vengono resi più flessibili, meno rigidi, per consentire una progressiva riduzione della sintomatologia.

 

Un convitato di pietra al pranzo di Natale

Le prove che le famiglie ricomposte devono affrontare prima di trovare un equilibrio soddisfacente sono innumerevoli, e la strada non è mai né breve né diritta e richiede, di norma, il ricorso a molte risorse, interne ed esterne alla famiglia.

 

Dalla cucina Roberto poteva guardare il figlio Mattia che, seduto sul divano in salotto e con lo sguardo perso nel vuoto, aveva ripreso a mangiarsi le unghie. ‘Onicofagia’, aveva sentenziato lo psicologo, ‘è spesso sintomo di ansia’. Roberto aveva pensato che non c’era bisogno dello psicologo da cui Marcella, la madre di Mattia, aveva voluto trascinarli a tutti i costi: lo sapeva anche lui che c’entrava l’ansia, e per la precisione sapeva anche perché Mattia, che solo un mese prima aveva fatto i 15 anni, aveva ripreso quella abitudine: era tutta colpa del Natale, che si avvicinava a passi da gigante…e lui non sapeva cosa consigliare al figlio…questa era la verità.

Dopo la separazione da Marcella, una rottura che Roberto aveva subito con rabbia e dolore, Mattia aveva voluto restare con lui, mentre la sorella più piccola, Eva, era andata con la mamma. Un capolavoro di fallimento, pensava Roberto: nel giro di qualche mese i brandelli di quella che era una famiglia erano sparsi di qua e di là nella città. Il tutto era successo due anni prima. Eva e Mattia ne avevano molto sofferto ma in qualche modo Eva sembrava aver superato la crisi, mentre invece Mattia, Roberto lo vedeva, ancora adesso ci stava male, e la situazione era peggiorata da qualche mese, da quando cioè Marcella era andata a convivere con Dario, costringendo anche Eva a quella convivenza. Roberto era convinto che la storia tra Marcella e Dario fosse all’origine della loro crisi, anche se non poteva provarlo, e questa novità lo amareggiava molto, anche se faceva di tutto per controllarsi e non far trapelare il suo stato d’animo con i figli…ma a volte proprio non ci riusciva e qualche parola rabbiosa gli scappava, pentendosene subito dopo. Del resto Mattia si rendeva conto del malessere del padre ed erano numerosi i fine settimana nei quali si rifiutava di andare a casa della madre, e Roberto era convinto che lo faceva per stare con lui, per fargli compagnia. Roberto sapeva che era una situazione sbagliata, lo aveva detto anche lo psicologo ma, nel proprio intimo, era contento quando Mattia decideva di stare con lui. E poi il lockdown per il Covid era stato un gradito pretesto per rinsaldare il legame tra lui e il figlio: erano stati mesi in cui erano sempre insieme, senza mai sfiorare l’argomento ‘mamma’, la quale mamma telefonava anche due volte al giorno per parlare con Mattia, che però le rispondeva con mugugni e monosillabi.

Eva invece aveva reagito meglio alla separazione dei genitori, probabilmente perché, così piccola, aveva ora 7 anni, era molto legata alla mamma. O magari perché Dario aveva una figlia della stessa età di Eva, che stava con la propria mamma e passava fine settimana alterni con il padre. Marcella e Dario avevano fatto in modo da far coincidere i fine settimana delle due bambine.

E tra poco sarà Natale, e toccava a Marcella tenere entrambi i figli, e anche la figlia di Dario. Proprio ieri Mattia gli aveva detto che non avrebbe voluto andare ma poi ‘la mamma si è messa a piangere al telefono…e io ho detto che va bene, sarei andato…Tanto tu, papà, andrai dalla zia, no? Ci siamo andati anche l’anno scorso…’, e mentre glielo diceva lo guardava di sottecchi. ‘Vai, vai, sarete contenti tutti insieme…’. A queste parole Mattia si era zittito ed era andato in camera sua. E adesso lui lo vedeva mangiarsi le unghie e, con qualche scusa, rifiutarsi di uscire con gli amici. La sensazione di stare sbagliando qualcosa cominciava a farsi strada in Roberto…

Le prove che le famiglie ricomposte devono affrontare prima di trovare un equilibrio soddisfacente sono innumerevoli, e la strada non è mai né breve né diritta e richiede, di norma, il ricorso a molte risorse, interne ed esterne alla famiglia.

Le caratteristiche delle famiglie ricomposte

Intanto è necessario ricordare che per ogni famiglia ri-composta, ne esiste almeno una de-composta: le cosiddette famiglie ricomposte sono infatti costituite sia da elementi che non provengono da precedenti nuclei familiari (es. i bambini nati in questa nuova famiglia, oppure partner che non avevano una precedente unione, oppure nuclei che erano monoparentali da lungo tempo), che da ‘frammenti’ di precedenti famiglie che si sono, per le ragioni più varie (separazioni e/o divorzi; morte di un partner), de-composte. Le famiglie ricomposte hanno dunque una storia di perdita e spesso, nell’immaginario di chi quella perdita non ha ancora elaborato, né tantomeno accettato la nuova realtà (che significa accettare il fallimento del precedente progetto), e in special modo nelle rappresentazioni fantastiche dei bambini, tutti i frammenti della vecchia famiglia si riuniscono, in uno scenario di straziante nostalgia, provocando un conflitto emotivo con l’attuale realtà e sollecitando speranze, rimpianti e sofferenza. Tutti questi sentimenti ed emozioni si acuiscono naturalmente in prossimità di quelle feste che tradizionalmente vedono riunirsi le famiglie in un clima di calda affettuosità. Il genitore ed il nuovo partner possono allora assistere ad un repentino cambio di umore dei bambini e non sanno darsene ragione.

Non tutti i ‘frammenti’ dei vecchi nuclei si ricompongono in nuove famiglie e rimangono quindi ‘frammenti’ orfani di famiglia, sia nella loro stessa rappresentazione (specialmente in quella del partner che ha subito la separazione e la perdita del progetto iniziale), che in quella dei ‘frammenti’ che invece si sono ricomposti in una nuova famiglia. Nel pensiero di questi ultimi, specie nei bambini o adolescenti, resta una zona dolorante che ha come oggetto proprio quel frammento che non si è ricomposto e verso il quale sviluppano sovente un importante senso di colpa, con conseguente atteggiamento protettivo, che può arrivare fino al rifiuto della nuova famiglia ri-composta.

Occorrono tempo (anni), pazienza e maturità educativa prima che il penoso alternarsi di emozioni e sentimenti attorno alle vecchie e alle nuove famiglie possa risolversi in modo equilibrato.

È sufficiente riflettere sul fatto che il bambino che cresce in una famiglia tradizionale deve con-frontarsi (cioè trarre conclusioni dalla esperienza maturata nel rapporto o dalla sua osservazione) con al massimo una decina di rapporti diadici, e che lo stesso bambino, inserito in una famiglia ricomposta, dovrà con-frontarsi con il triplo, se non il quadruplo, di rapporti diadici, per capire con quanta complessità devono fare i conti le famiglie ricomposte. E naturalmente la stessa cosa vale per gli adulti, i quali però hanno (si spera) più strumenti e più risorse per comprendere e governare tale complessità.

La complessità nelle famiglie ricomposte

Ed è infatti la complessità l’altra cifra della famiglia ricomposta.

E, a proposito di complessità e rapporti diadici, qual è il ruolo che devono ricoprire i nuovi partners dei genitori? È chiaro che, indipendentemente dalla loro volontà, ricopriranno una funzione educativa con il loro semplice atteggiamento, con il loro semplice esserci, e saranno a volte combattuti dal desiderio di non restare neutrali ma di inserirsi a gamba tesa dentro il rapporto tra i bambini/adolescenti e il loro genitore biologico: ho sempre vivamente sconsigliato tale genere di atteggiamento, che inevitabilmente genera rimproveri e rimostranze da parte del genitore biologico e rabbiose gelosie nell’altro genitore biologico, che vede minacciato il proprio ruolo di ‘vero’ genitore. E allora, come ci si deve comportare? Non c’è una risposta univoca e molto dipende dall’età del minore e dai rapporti che esistono tra i genitori biologici. Se i rapporti sono buoni, se non ci sono manipolazioni e/o strumentalizzazioni, allora forse porsi nei confronti dei figli del proprio partner come un adulto attento e che, rispettosamente e affettuosamente, risponde all’eventuale chiamata del minore, potrebbe essere l’atteggiamento più adeguato. Insomma, bisogna a tutti i costi evitare di essere patrigni e matrigne: un ruolo da sempre ingrato, senza tenere conto che di norma i figli del partner non riconoscono alcuna autorità al/alla nuovo/a compagno/a del genitore.

Ma le cose possono essere ancora più complicate: immaginiamo che nella famiglia ricomposta convivano, in modo più o meno stabile, i figli biologici di entrambi i partners, e che abbiano storie e stili educativi diversi, magari uno più permissivo e l’altro invece improntato ad una maggiore autorevolezza: due stili apparentemente antitetici che faranno molta fatica a trovare una sintesi soddisfacente e non esplosiva.

E poi ancora: non è affatto raro che nella famiglia ricomposta in cui ci sono figli di precedenti legami, nascano figli biologici dei nuovi partners. Questi ‘ultimi arrivati’ godranno di un privilegio che gli altri figli non potranno avere mai più: vivranno stabilmente insieme alla mamma e al papà sotto lo stesso tetto: la differenza esperienziale con gli altri figli è emotivamente abissale e quasi inevitabilmente ne scaturiranno gelosie, regressioni, fughe e rivendicazioni. Non dimenticherò mai il caso del piccolo Pietro, un bambino di 6 anni che mi era stato segnalato dai servizi sociali, su sollecitazione della scuola, per comportamenti aggressivi verso compagni e insegnanti: Pietro viveva con la madre, con il nuovo compagno di lei e con il loro figlio Luca, un vivace bambinetto di 4 anni. Il padre biologico di Pietro non pareva molto interessato alla sorte del figlio, anche se regolarmente andava a prenderlo per i fine-settimana assegnati a lui (in realtà affidandolo alla propria madre, nonna di Pietro, per poi sparire fino alla domenica sera). In uno dei colloqui di assessment, in cui cercavo di capire come Pietro si percepisse nelle dinamiche familiari, riferendomi a lui e a Luca avevo detto: ‘….dato che tu e Luca siete i figli veri della mamma…’. Lui per un attimo mi aveva guardato e poi aveva detto: ‘Sì, io sono il vero figlio, e lui è il figlio vero’, calcando molto il tono sull’ultimo ‘vero’.

Anche se non ho intenzione di compilare un catalogo delle difficoltà che deve affrontare la famiglia ricomposta, non posso fare a meno di ricordarne alcune che più frequentemente mi capita di incontrare nella pratica clinica:

La gelosia nelle famiglie ricomposte

La gelosia verso il vecchio partner del/della compagno/a, che può essere ‘arricchita’ dalla gelosia verso i figli biologici del/della compagno/a. Si tratta di un sentimento che nasce dalla paura della perdita e da quella di non essere amato/a a sufficienza. Spesso come forma di autoterapia si pretende di avere un figlio biologico insieme al nuovo compagno/a.

Il timore del genitore biologico di essere soppiantato nel ruolo di padre/madre, dal nuovo/a compagno/a dell’altro genitore. Da questo timore, più o meno motivato, nascono spesso estenuanti battaglie giudiziarie che durano anni e anni.

Molta attenzione bisogna porre al sentimento di lealtà che il bambino e l’adolescente nutrono verso il genitore che percepiscono come più debole, di norma quello che ha ‘subito’ la separazione e il fallimento del primitivo progetto familiare. Questa lealtà va riconosciuta e legittimata e, nello stesso tempo, va incoraggiato il genitore ‘debole’ (il Roberto della storia iniziale di questo articolo) a iniziare un percorso di elaborazione della perdita.

Conclusioni

Naturalmente ci sono situazioni in cui le cose non sono così difficili, per esempio nel caso in cui il nucleo originario era perennemente permeato di tensione e violenza, psicologica e fisica: nella famiglia ricomposta anche i minori potranno trovare rassicurazione e dare senso positivo ai legami familiari in tempi piuttosto brevi.

Anche le famiglie ricomposte dopo una vedovanza o dopo una lunga storia di mono-genitorialità rappresentano di norma una occasione importante per ritrovare figure di riferimento affettuose ed equilibrate.

In ogni caso, se si affrontano con maturità e consapevolezza le crisi e le difficoltà, nel giro di tre-quattro anni, le famiglie ricomposte troveranno il loro modo soddisfacente di stare insieme e di relazionarsi serenamente anche con quei ‘frammenti’ che un tempo facevano parte di un’altra famiglia.

In definitiva le famiglie ricomposte diventeranno funzionali quando avranno elaborato la perdita; quando il nuovo partner non pretenderà di fare il genitore, ma anzi valorizzerà le funzioni educative dei genitori biologici; quando si accetterà che a far parte della narrazione familiare ci siano anche le storie precedenti alla nuova unione e, per finire, quando queste storie precedenti non saranno motivo di conflitto tra i nuovi partner.

Per tornare al pranzo di Natale, ricordiamoci che attorno alla tavola, quel giorno, non ci saranno solo i presenti: nel loro immaginario ci saranno anche gli assenti, quelli che sono seduti ad un’altra tavola ricomposta, e quelli che cercano di sfuggire ad uno straziante senso di solitudine. Parlare e raccontare di loro, con rispetto e sensibilità, mentre si sta facendo festa, è un modo per affrontare positivamente la crisi del Natale (e di Capodanno, di Pasqua, etc.).

 

I danni dell’alcol sugli altri: l’importanza di un intervento sui figli di genitori che abusano di alcol

Il consumo di alcol è uno dei principali fattori di rischio per le malattie croniche a livello globale (Rehm et al., 2009) e, nei paesi ad alto reddito, rappresenta circa il 27% delle morti premature tra i giovani (Toumbourou et al., 2007).

 

La valutazione dei fattori di rischio per il consumo di alcol dei giovani e i danni correlati è quindi importante. Nel tempo l’abuso di alcol può provocare una serie di gravi sintomi fisici e psicologici oltre a danni nella sfera sociale: in molti soggetti si riscontrano cambiamenti cognitivi, neurofisiologici e scarso funzionamento del dominio attenzione/esecuzione (APA, 2013).

I danni dell’alcol agli altri

Negli ultimi anni è cresciuto in letteratura l’interesse scientifico e politico per i ‘danni dell’alcol agli altri’ (Greenfield at al., 2009), che valuta i possibili danni ai bambini derivanti dal consumo di alcol da parte dei genitori. Numerosi studi hanno esaminato sia gli effetti dell’esposizione prenatale all’alcol, sia i possibili effetti sui bambini che vivono con genitori con gravi e duraturi problemi di alcol (Johnson & Leff, 1999). Alcune precedenti revisioni si sono occupate di studiare le associazioni tra il comportamento alcolico dei genitori e quello conseguente dei figli (Ryan et al., 2010); Queste risultano spesso statisticamente significative. L’abuso di alcol da parte dei genitori può portare a molte altre conseguenze negative per i figli come problemi cognitivi, emotivi, comportamentali e problemi di salute mentale in età adulta (Bountress & Chassin, 2015). A causa dell’incapacità di fornire un ambiente sicuro per i loro figli e di rispondere adeguatamente ai loro bisogni fisici ed emotivi, i bambini nelle famiglie in cui l’uso di alcol domina la vita familiare sono particolarmente vulnerabili e spesso si verificano altre avversità come la povertà, la mancanza di istruzione e i problemi di salute mentale, che possono complicare ulteriormente la vita dei bambini (Raitasalo et al., 2019).

Diversi studi in letteratura hanno dimostrato che nei contesti di trattamento per l’abuso di alcol, i bisogni dei figli sono raramente considerati; in molti paesi non ci sono abbastanza servizi che si occupano dei bambini e i professionisti che seguono i genitori dipendenti non sono formati per lavorare anche con i figli. Un ulteriore problema riguarda il fatto che i bambini sono di rado incontrati di persona (Cleaver, 2007) se non da alcune figure come infermieri, assistenti sociali, medici generici, insegnanti e operatori sanitari. Alcuni dati dimostrano, tuttavia, l’importanza di un intervento precoce per fornire supporto e monitorare il benessere dei bambini al fine di evitare l’aggravarsi dei problemi (Barnard & Bain, 2015). È importante quindi capire come la gravità dell’abuso d’alcol genitoriale sia legata a problemi nei figli.

Effetti dell’abuso di alcol da parte dei genitori

Uno studio del 2019, di Raitasalo e colleghi, si è occupato di verificare se la gravità dell’abuso di alcol da parte dei genitori fosse correlata ad un maggior rischio di sviluppare sia disturbi mentali e comportamentali nei figli, che ulteriori danni nei genitori stessi come difficoltà finanziarie, basso livello di istruzione e problemi di salute mentale. Lo studio ha utilizzato dati provenienti da registri nazionali di assistenza sanitaria e sociale (Haukka, 2004; Sund, 2012). Il campione era costituito da 57.377 bambini, 57.074 madri e 56.714 padri; bambini e genitori sono stati seguiti dalla nascita del bambino (1997) fino alla fine del 2012. La gravità del problema di alcol dei genitori è stata classificata in due categorie: aventi un problema di alcol meno grave se avevano solo una diagnosi primaria o secondaria ICD-10 (WHO, 2004) relativa a ubriachezza acuta o uso dannoso alcol; aventi un grave problema di alcol con una diagnosi primaria o secondaria ICD-10 di dipendenza da alcol. Inoltre i genitori sono stati classificati come affetti da disturbi psichiatrici se avevano una diagnosi ICD-10 di schizofrenia, disturbi schizotipici e deliranti, disturbi dell’umore, disturbi nevrotici, legati allo stress e somatoformi e disturbi della personalità. Infine come indicatori dello status socio-demografico dei genitori, gli autori hanno preso in considerazione l’istruzione post-secondaria, la povertà di lunga data (definita come coloro che hanno ricevuto assistenza sociale per più di 3 mesi all’anno per almeno 3 anni) e gli anni di convivenza con un bambino. Per quanto riguarda i bambini sono stati inclusi quelli aventi disturbi dell’umore, disturbi nevrotici, legati allo stress e somatoformi, disturbi dello sviluppo psicologico e disturbi comportamentali ed emotivi. I risultati mostrano che l’abuso di alcol sia del padre che della madre è correlato a disturbi mentali e comportamentali nei bambini, indipendentemente dalla gravità del problema, da altri disturbi, dal livello d’istruzione, dalle difficoltà finanziarie o dalla sistemazione abitativa. Solitamente l’abuso di alcol della madre ha un effetto più dannoso di quello del padre, soprattutto durante la gravidanza: i bambini esposti all’uso materno di alcol in gravidanza hanno maggiori problemi nello sviluppo cognitivo, psicosociale e alla salute mentale. Le donne con disturbo da uso di sostanze hanno inoltre più probabilità degli uomini di sviluppare disturbi psichiatrici come depressione, ansia, disturbi alimentari e minore autostima, di avere una storia di vittimizzazione o di aver subito violenza (Alexander, 1996).

In conclusione gli interventi per genitori e figli diminuiscono il rischio di diagnosi di disturbi mentali o comportamentali nei bambini: gli interventi psicosociali rivolti alle madri producono esiti positivi anche sui bambini; in aggiunta alcuni interventi basati sulla scuola, comunità e famiglia, che includono una formazione sulle abilità dei bambini e dei genitori, hanno un effetto positivo sulle abilità di coping, sul comportamento sociale, sull’autostima e sul funzionamento della famiglia. Interventi tempestivi e ben realizzati possono quindi aiutare a trovare delle linee d’azione in cui le autorità, gli operatori sanitari e i genitori prendano insieme le migliori decisioni sulla vita del bambino (Raitasalo et al., 2019).

 

Dave Grossman e la “killologia”

Dave Allen Grossman è il padre della killologia, ovvero lo studio delle reazioni di persone sane in circostanze di uccisione (come polizia e militari in combattimento) e sui fattori che consentono e limitano l’uccisione in queste situazioni

 

Dave Allen Grossman tedesco di origine, ma americano nel cuore, ad oggi è considerato dai più un guru nel campo della psicologia della forza letale. Tenente Colonnello dei Ranger dell’esercito americano, dove ha prestato servizio per anni fino al suo pensionamento, partendo dalla sua esperienza sul campo sia come militare in prima linea che come formatore, ha fondato il ‘Killology Research Group’ in cui, riportando la definizione dell’autore stesso, si occupa di quanto segue:

Lo studio accademico dell’atto distruttivo, così come la sessuologia è lo studio accademico dell’atto procreativo. In particolare, la killologia si concentra sulle reazioni di persone sane in circostanze di uccisione (come polizia e militari in combattimento) e sui fattori che consentono e limitano l’uccisione in queste situazioni (Grossman, 2016).

Grossman scrittore di diversi libri e seminarista, nel tempo sviluppa un pensiero decisamente interessante, da approfondire, che porta a conclusioni con importanti risvolti pratici.

L’avversione a uccidere secondo Dave Grossman

In ‘On Killing’, forse il suo libro più famoso, affronta il delicato tema dell’avversione a uccidere insita in ogni essere umano. Attraverso una meticolosa analisi che parte da dati raccolti nella Seconda Guerra Mondiale, fino ad arrivare alla Guerra del Vietnam, l’autore dimostra come in condizioni reali, solo una piccola percentuale dei militari realmente spari contro i nemici e come, solo attraverso un adeguato addestramento, questo limite possa essere superato (Grossman, 1996).

‘On Combat’, il prosieguo del primo libro, è invece rivolto all’analisi psicologica e fisiologica dei meccanismi che avvengono durante momenti di stress intenso. L’alterazione del sistema simpatico e parasimpatico viene messa in relazione allo sviluppo di importanti distorsioni cognitive che comportano modifiche nella percezione del tempo, visione a tunnel, alterazioni della percezione uditiva ed altri meccanismi di difesa con importanti implicazioni sulla performance dei militari. La loro conoscenza, unita a tecniche di rilassamento quali la ‘respirazione tattica’ e ad un’adeguata formazione, sia in simulazione che sul campo, permette di vincere almeno in parte questi ostacoli imposti dalla nostra fisiologia.

Inevitabile è la trattazione del Disturbo da Stress Post Traumatico, che viene descritto a partire dagli aspetti nosografici presenti sul Manuale dei Disturbi Mentali fino ad una sua trattazione in chiave maggiormente riflessiva.

Quella che forse rimane come pietra miliare è la classificazione che Grossman propone delle persone: le pecore che guardano ai loro affari, il lupo che si nutre delle pecore e il cane pastore (sheepdog) che protegge il gregge.

Il comportamento violento tra i giovani secondo Dave Grossman

Nell’ultima parte del libro traspare l’autore nella sua veste di formatore prendendo in analisi come l’uso di videogiochi violenti e, più in generale, dei media, unito ad altri fattori concomitanti, possa incidere in maniera importante sul comportamento dei giovani talvolta con risvolti davvero imprevedibili come il fenomeno delle stragi nelle scuole diffuso negli Stati Uniti (Grossman, Christensen, De Becker, 2004).

Un vero e proprio specchio dell’anima degli studi di Grossman, in cui assume particolare rilievo l’addestramento, viene senza dubbi dal celebre film d’azione ‘American Sniper’ (2014), in cui un tiratore scelto dei Navy Seal, durante la guerra in Iraq, riesce ad uccidere un numero spropositato di nemici: non a caso era proprio lui che da bambino passava intere giornate in compagnia del babbo andando a caccia. Ad oggi è programmato per uccidere?

Molto probabile! Resta il fatto che la regia è di Clint Eastwood, un tempo attore in quello che fu uno dei film cult degli anni ’80, ‘Gunny’ (1986), in cui un veterano sergente dei marine era intento ad occuparsi della preparazione di un gruppo di reclute destinate ad andare in missione.

È inevitabile che la regia venga influenzata da attori e trame del passato, trovando nella rappresentazione attuale un prodotto di indiscussa originalità.

Personalmente, mi sono interessato a Grossman leggendo ‘On Combat’ e studiando alcuni suoi video come verifica della sua liceità: l’epilogo è quello di un militare che ha fatto della propria esperienza tesoro, diventando col tempo formatore lui stesso, e che, attraverso la riflessione critica, affronta il delicato tema della violenza nella società.

 

Sex Robots: attrazione o repulsione? Uno studio sugli “Otaku”

Otaku è un termine controverso, che fa riferimento ad individui ossessionati dalla cultura giapponese, in particolare da manga, anime/animazione e videogiochi.

 

Sex Robots

Per molti anni i robot sono stati coinvolti nella produzione di automobili, prodotti chimici e altri beni industriali. La visione di una proliferazione di tecnologie robotiche è stata accolta con reazioni contrastanti (Gnambs & Appel, 2019); i robot simil-umani sono stati causa di scetticismo ed emozioni negative tra i potenziali utenti, in particolare nei confronti di quelli di tipo sessuale. Un sex robot può essere descritto come una bambola meccanica di aspetto e dimensioni simili a quelle umane che è in grado di eseguire rapporti sessuali per mezzo di genitali artificiali dotati di motore. Prototipi avanzati sono in grado di effettuare comunicazioni verbali, simulare diverse personalità ed esprimere divertimento, al fine di aumentarne il realismo antropomorfo. Alcuni studiosi si sono espressi a favore di restrizioni sull’ulteriore sviluppo dei sex robots, temendo un possibile rinforzo dell’oggettivazione, degli stereotipi di genere e delle forme non empatiche di incontro sessuale che si potrebbero accompagnare alla loro ascesa (Sullins, 2012).

Chi sono gli Otaku

Quello degli Otaku è un fenomeno subculturale iniziato in Giappone e che negli ultimi anni ha trovato ampia diffusione in Occidente. Otaku è un termine controverso, originario di un fenomeno culturale nato in Giappone, che fa riferimento ad individui ossessionati dalla cultura giapponese, in particolare dai manga (fumetti giapponesi), anime/animazione (film o serie con trame e personaggi del mondo dei manga) e videogiochi. In casi estremi, la loro passione tende ad isolarli dal mondo esterno assorbendoli, ad esempio, nella collezione di merchandising quale modellini, poster, waifu o costumi da cosplay (travestimenti per la riproduzione fedele di personaggi di film, fumetti, videogiochi) (Appel et al., 2019). Mentre nella cultura giapponese il termine Otaku può avere una connotazione negativa, in America questo termine indica semplicemente una forte passione e coinvolgimento per i manga ed/o anime (Urban Dictionary: Otaku, 2005).

Gli Otaku preferiscono trascorrere gran parte del tempo a casa, sono descritti come timidi, poco abili nei contatti sociali e, a differenza dei Geek (termine originariamente offensivo, che identifica un individuo ossessivamente interessato ed informato su un particolare argomento o esperto in un ambito; Peeples et al., 2018), sono principalmente interessati all’animazione, ai fumetti e ai giochi di origine asiatica (Kam, 2013).

Questi media coinvolgono prevalentemente manga e anime, tra cui robot umanoidi con sentimenti e comportamenti umani (Kinsella, 1998). I fan si divertono a guardarli, leggerli o giocarci e spendono una notevole quantità di denaro per il relativo merchandising (Niu et al., 2012). I risultati di diversi studi suggeriscono che alcuni fan (principalmente il gruppo di Weeaboo) sviluppano una stretta affinità pseudo-romantica con uno o più di questi personaggi fittizi, indicati come waifu (moglie) o husbando (marito) (Zeng, 2018). Weeaboo è un termine slang utilizzato per identificare individui con un’ossessione morbosa nei confronti del Giappone o della cultura giapponese che li porta al distacco o rifiuto delle loro origini. Tendenzialmente tendono a fare affidamento sugli stereotipi trovati nei manga, anime o videogiochi, avendo di conseguenza una percezione distorta dell’effettiva realtà giapponese. (Urban Dictionary: Weeaboo, 2017). Waifu (wifu) da wife (moglie), viene utilizzato per indicare il personaggio dei manga/anime da cui ci si sente attratti romanticamente e/o sessualmente. Il merchandising legato alle waifu comprende cuscini lunghi con stampe di personaggi dei manga, poster ed animazioni olografiche (Appel et al., 2019).

Okatu e sex robots

A causa delle loro caratteristiche, Appel et al. (2019) hanno preso in considerazione gli Otaku per identificare le differenze individuali che possono essere associate al fascino verso i sex robots (Fig.1).

Otaku uno studio su attrazione e repulsione verso i sex robots Fig 1

Fig.1: Sex robot simil-umani

I partecipanti sono stati reclutati tramite annuncio su MTurk (Amazon Mechanical Turk), limitando le risposte ai membri della comunità digitale presenti negli Stati Uniti. Il campione definitivo era composto da 261 partecipanti, mediamente trentacinquenni.

In un momento preliminare i ricercatori hanno preso in considerazione di presentare un sex robot (Ellix), un robot-infermiere ed un organismo geneticamente modificato (androide).

Il robot-infermiere è stato selezionato come termine di paragone al sex robot in quanto anch’esso ha un ruolo sociale che include il contatto fisico, anche se non sessuale, mentre l’organismo geneticamente modificato (androide) è stato incluso per rendere visivamente evidente la relazione fra uomo e macchina.

I ricercatori hanno previsto tre condizioni, una target e due di controllo, di cui ad ogni partecipante è stata assegnata una sola. La condizione target consisteva nel presentare Ellix come robot adibito a dare piacere sessuale.

Nella prima condizione di controllo Ellix è stata descritta come robot impiegato nell’assistenza, mentre nella seconda condizione di controllo veniva descritta come un elemento geneticamente modificato.

Sono state raccolte quattro dimensioni legate alle caratteristiche degli Otaku: (1) la propensione verso anime, manga o videogiochi, (2) il livello di interesse per la cultura giapponese, (3) la preferenza delle attività svolgibili in casa (al chiuso) e (4) il livello di timidezza.

Inizialmente è stato misurato il livello d’inquietudine provocato dalla lettura delle descrizioni proposte e secondariamente i partecipanti hanno attribuito un punteggio alla tecnologia presentata che andava da -3 a +3.

Statisticamente sono state indagate tre relazioni: (a) focus dimensionale sulle differenze individuali e risposte ai sex robots, (b) rapporto fra differenze individuali e robot umanoidi con diverse mansioni, (c) associazione fra differenze individuali e risposta alle tecnologie ibride.

Ad oggi si pensa che i sex robot siano prossimi ad occupare una quota sostanziale e multimiliardaria nel settore tecnologico del sesso, sebbene molti degli attuali prototipi non siano probabilmente abbastanza sofisticati per essere commercializzati in massa (Kleeman, 2017). Il gruppo subculturale degli Otaku è stato scelto come punto di partenza non per esaminare le interazioni uomo-robot reali ma per indagare le risposte dei potenziali futuri utenti in merito alle innovazioni robotiche presentate nell’esperimento.

Dallo studio è emerso che i sex robots vengono percepiti come più inquietanti rispetto ai robot-infermieri e, per questo, i partecipanti erano meno inclini ad acquistarli. A tal proposito, la timidezza è risultata essere un predittore rilevante per le intenzioni di acquisto dei sex robots da parte degli uomini. Per quanto concerne la differenza di genere, le donne si sono dimostrate più riservate rispetto agli uomini e le loro valutazioni complessive sono state particolarmente negative nei confronti dei robot sessuali rispetto a quelli infermieristici.

I risultati hanno confermato che avere una propensione per anime, manga, giochi e attività al chiuso può portare ad una relazione significativamente positiva con il fascino per tutte e tre le tecnologie esaminate, evidenziando come entrare in mondi immaginari possa portare ad una maggiore accettazione delle tecnologie in generale (cfr. Mara & Appel, 2015; Appel et al., 2016).

Un numero crescente di giovani sembra preferire mondi immaginari a quelli reali, amici virtuali a quelli fisici e, come indicato dalla presente ricerca, robot sessuali a partner umani, pertanto le ricerche future dovranno tenere in considerazione le origini e i meccanismi alla base di queste tendenze.

 

I veri bisogni personali al tempo del Covid, la scoperta del Sé come regolatore dell’ansia

Sono gli adulti che hanno trovato un equilibrio tra ansia e paure ad essere in grado di aiutare bambini e adolescenti ad esprimere e gestire le emozioni suscitate dalla pandemia.

 

Il modello globale della società contemporanea è stato notevolmente messo in crisi dalla pandemia Covid, non solo per il ridimensionamento della sua aspirazione all’allargamento dei confini fisici ma anche per la frustrazione dei bisogni intrinseci, afferenti alla sfera del soggetto in rapporto con se stesso. Come Maslow ci ricorda, (in Motivation and Personality del 1954) i bisogni sono il propulsore della persona e in base al loro ordine gerarchico influenzano più o meno ampiamente i suoi vari aspetti: da quelli esclusivamente fisiologici fino ad arrivare alla psiche. Con la nuova situazione emergenziale che siamo stati tutti costretti a vivere, dalla famosa piramide con cui Maslow li ha classificati, i veri bisogni emergenti non sono stati quelli di base (mangiare, bere, dormire), bensì i bisogni sociali e di realizzazione del Sé. In particolare, gli adolescenti e i bambini sono stati travolti dall’emergenza sanitaria e menomati nelle loro più ordinarie ed esistenziali aspirazioni: la socialità, l’educazione, il movimento fisico, il gioco, le attività ricreative, ma anche la motivazione a fare, la paura. Quali ricadute emotive ci possono essere sui ragazzi? Com’è possibile attuare un supporto adeguato alla loro età e alle loro esigenze per affrontare le conseguenze delle ripercussioni della pandemia?

Pandemia e bisogni in età evolutiva

La risposta a queste domande non è un fare, non una strategia, un modello di comportamenti da applicare, ma la riscoperta che l’origine del senso di sicurezza nel bambino è in una relazione.

È in essa, esprimendosi in una riflessione apparentemente assai elementare, l’unica possibilità di accorgersi primariamente dei loro bisogni.

Chi deve accorgersi dei loro bisogni primari? Quegli adulti che, avendo trovato un personale equilibrio tra ansia e paure, possano aiutare i minori ad esprimere le loro emozioni e affrontare rispettive paura e ansia. Si tratta qui di bisogni altrettanto primari, anche se non sono come il mangiare e il bere.

Non è affatto scontato che questi adulti siano i genitori, ma questi possono essere messi in grado attraverso un sostegno alla genitorialità, ad ampio spettro, di acquisire la consapevolezza dei loro limiti e dei loro punti di forza. Per i più piccoli, in particolare, è fondamentale la possibilità di immedesimazione con le potenzialità riparatrici dell’adulto: da questi essi possono imparare, non tanto dei comportamenti, quanto lo sguardo con cui essi si muovono nella realtà. I bambini imparano per osmosi, respirano l’essere dei genitori più che assimilare i loro precetti, seppure saggi e legittimi, funzionali, in molte situazioni. Infatti, i piccoli sono più spaventati dalla paura dell’adulto che dalla paura che nasce direttamente dal pericolo.

L’esperienza mostra con evidenza quanto sia fondamentale restare su un piano di realtà: i genitori non sono invincibili, non sono super-eroi, ma persone che mostrano come si possa stare umanamente di fronte ai pericoli, anche quelli invisibili dei virus. Come si evince, in programma non c’è un fare, delle regole da applicare e far applicare, ma la consapevolezza di una relazione, di essere in relazione con i propri figli. Da questa consapevolezza nasce pure un fare, ma secondariamente.

Come ci ricorda Kohut (e la sua Psicologia del Sé), il punto centrale dell’educazione (che è quel tipo peculiare di relazione che intercorre tra genitori e figli) è porre il focus sulle relazioni esterne come condizione per l’autostima e la coesione del Sé.

Possiamo capire di più di questa relazione se ne consideriamo l’elemento centrale: il Sé, fulcro della teorizzazione di Kohut. Si tratta di un concetto che si riferisce ad un aspetto molto reale e concreto della personalità – di un adulto e di un bambino –  perché la vita psicologica fin dal suo inizio è una relazione tra il Sé e l’oggetto-Sé. Quest’ultimo è, nel tema che stiamo trattando, il genitore, ed ha una funzione di supporto narcisistico allo sviluppo dell’identità del bambino.

Ci viene in soccorso la psicoanalisi per mostrare un dato di realtà: i genitori (o il caregiver in generale) concorrono sia al mantenimento degli investimenti del Sé, sia all’esperienza nei figli di sentire i genitori stessi come parte del proprio Sé. Kohut chiama internalizzazione trasmutante quel processo naturale attraverso cui il bambino assimila a poco a poco le funzioni psicologiche, che gli sono fornite inizialmente dall’oggetto esterno.

Prima di un evento terrorizzante, come può essere lo stravolgimento dello stile di vita causato dalla pandemia, vi è pertanto la personalità; l’evento terrorizzante non infierisce su un terreno incolto, ma su un campo con una sua precisa destinazione a coltura, coltivata dalla relazione genitoriale: una personalità che, nel rapporto con i genitori, ha potuto prendere una direzione piuttosto che un’altra.

Lo sviluppo equilibrato e funzionale si appoggia su un ambiente responsivo nei confronti dei bisogni del bambino, ma questi bisogni sono innanzitutto di legame e di appoggio.

Dopo Freud, sia esso investito di libido o di affetti, che sia interno oppure esterno, è incontestabile che l’oggetto (in psicoanalisi si intende la persona, qui il genitore) svolga una funzione essenziale nel processo di maturazione e sviluppo del bambino, attraverso cui passa quel nutrimento emozionale, primario bisogno.

Emozioni e pandemia

Sono proprio le emozioni il tema dominante in questa pandemia. Le emozioni possono essere contenute se il genitore fa l’esperienza di essere il contenitore adeguato al bambino. Come il terapeuta nella psicoterapia non deve sostituire la posizione narcisistica del paziente con un amore oggettuale (cioè frustrare l’espressione del Sé del paziente perché la scelta oggettuale sembrerebbe più matura), così il genitore può calmare il bambino non innanzitutto insegnandogli/imponendogli dei comportamenti esteriori di fronte a una difficoltà, ma facendo emergere, conoscendo le risorse del bambino, i suoi aspetti personali (per alcuni bambini può essere la curiosità di conoscere, per altri la rassicurazione di un abbraccio, per altri ancora la conoscenza logica di un fatto, ecc ecc, a seconda delle caratteristiche evolutive specifiche di ciascun bambino, nel momento preciso del suo sviluppo) così da convogliare queste caratteristiche verso una integrazione di quelle che sono strutture psicologiche primitive del bambino. L’integrazione cioè nasce dall’equilibrio delle diverse funzioni fisiologiche: la paura può non essere esclusivamente guidata dall’auriga dell’emotività, ma accompagnata alle altre funzioni della mente, facendo leva sulle caratteristiche del bambino. Appare ovvio che si tratti di un lavoro/strategia eminentemente personale, ad hoc per ciascuna relazione bambino/adulto. Nella vita ordinaria, non stravolta da eventi drammatici, è attraverso un rapporto che si stabilisce il Sé del bambino, nella misura in cui i caregiver rispondono empaticamante a certe sue potenzialità. Le risposte empatiche dell’ambiente sono quindi determinanti al fine di un funzionale ed equilibrato sviluppo psicologico del bambino. La ragione sta nel fatto che il genitore possiede un’organizzazione psicologica matura che può supportare l’organizzazione psichica del bambino, ancora incompleta e immatura. Per questo è importante innanzitutto come l’adulto affronta l’evento drammatico per sé, perché il come passa per osmosi al figlio.

La configurazione psicologica primaria del bambino, infatti, è costituita dal suo bisogno di un oggetto-Sé, per dirla con Kohut; non il desiderio del cibo, primariamente, ma il bisogno che la persona che si prende cura di lui gli fornisca il cibo, ossia il bisogno di essere nutrito in maniera empaticamente modulata.

Nei casi in cui si lasci insoddisfatto questo bisogno è l’intera configurazione psicologica del bambino, la sua unitarietà, che viene esperita come disintegrata.

Ovviamente, non si richiede ai genitori che sappiano rispondere in maniera empatica sempre e perfettamente, oppure che mostrino una ammirazione irrealistica per i propri figli.

Nello sviluppo ordinario o straordinario (come nel caso di pericoli dall’esterno) il Sé sano nasce dalla capacità dell’adulto di avere una risonanza speculare adeguata almeno per la maggior parte del tempo: infatti, come ci ricorda sempre Kohut, ciò che non è funzionale non è il fallimento occasionale dell’adulto, ma la sua incapacità cronica di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino. La risposta alla domanda iniziale, almeno nelle sue determinazione generali, sta dunque nella considerazione che il primo compito di un genitore non sia il  progetto educativo del bambino, ma una tentata consapevolezza di sé, come polo autonomo di giudizio e relazione.

Il vero ed essenziale bisogno è dunque crescere in un rapporto empatico e comprensivo (cum prehendere: tenere insieme, contenere elementi eterogenei) dove il bambino si senta accolto e contenuto nell’interezza della sua persona, premessa indispensabile per la realizzazione di un nuovo adulto.

 

La comprensione del testo: dalla teoria alla pratica (2021) di J. Oakhill, K. Cain K. e C. Elbro – Recensione

La comprensione del testo: dalla ricerca alla pratica (Oakhill, Cain, Elbro, 2021) è l’edizione italiana, a cura di Maria Giulia Cataldo, di un contributo di tre autorità internazionali nel campo della ricerca sulla lettura e la comprensione del testo.

 

La capacità di leggere un testo scritto è una delle abilità fondamentali che il sistema educativo ci trasmette nel corso del periodo di istruzione obbligatoria, e che viene insegnato in maniera sistematica fin dal primo anno della scuola primaria.

La sua importanza non può essere sopravvalutata. Immaginare un mondo dove fosse assente la possibilità di comunicare tramite scrittura e lettura è talmente difficile da sembrare assurdo. Semplicemente: parte della vita civile si regge sulla produzione, trasmissione e ricezione di testi scritti. Un individuo incapace di leggere e comprendere le semplici istruzioni di un cartello stradale o le indicazioni del medico, o un qualsiasi altro messaggio veicolato da un testo scritto sarebbe tagliato fuori dalla vita in società, incapace di adeguarsi alle sue norme e incapace di assorbirle, se non per tramite di altri.

Allontanandoci da questi estremi – il primo impossibile e il secondo, purtroppo, in parte reale in fasce molto svantaggiate della popolazione – possiamo poi considerare che la maggior parte della conoscenza ad oggi posseduta dall’uomo è veicolata da testi scritti, e che questa forma di trasmissione pervade la vita di una persona dall’infanzia alla tomba, definendone in varia misura anche il destino. Si pensi ad esempio all’importanza della lettura per il successo scolastico e per quello accademico, e come, in genere, questi si correlino al successo nella vita e al benessere (cfr. Smith, Firman, 2019).

C’è comunque una distinzione da fare e che ad un primo sguardo può sembrare superflua, ed quella tra lettura e comprensione di un testo scritto. Questa distinzione è fondamentale perché permette di cogliere tutti quei casi nei quali ad una piena capacità di decifrare con esattezza lo scritto non corrisponde la piena comprensione del contenuto veicolato dal testo, soprattutto se esso presenta sensi impliciti.

Ed è proprio per informare il lettore sulla ricerca riguardante la comprensione del testo e la sua applicazione all’insegnamento scolastico (ma non solo), che questo manualetto è stato scritto.

La comprensione del testo: dalla ricerca alla pratica (Oakhill, Cain, Elbro, 2021) è l’edizione italiana, a cura di Maria Giulia Cataldo, di un contributo recente (Oakhill, Cain, Elbro, 2015) di tre autorità internazionali nel campo della ricerca sulla lettura e la comprensione del testo.

Gli autori fanno riferimento alla letteratura più pertinente per mostrare, da una parte, che la comprensione durante la lettura è un processo complesso e articolato in diverse componenti (produzione di inferenze, vocabolario e background di conoscenze, sintassi ed elementi di coesione testuale, struttura testuale, monitoraggio della comprensione) e dall’altra che questa complessità non esclude in alcun modo la possibilità di accompagnare l’alunno nel miglioramento di ognuna di esse, utilizzando anche solo il tempo disponibile in classe.

Questo bel manuale di circa duecentodieci pagine presenta nove brevi capitoli di agevole lettura, preceduti da una prefazione, a cura di Barbara Carretto (Università di Padova), e una nota del traduttore. I capitoli sono organizzati in una struttura fissa che comprende: gli obiettivi che il capitolo si prefigge di raggiungere, il contenuto teorico e le evidenze empiriche ad esso relative, attività che coinvolgono il lettore nell’applicazione di quanto sta leggendo, un riepilogo, un glossario dei termini utilizzati e le risposte consigliate per le attività svolte.

Nel primo capitolo vengono introdotti alcuni contenuti che accompagneranno il lettore per tutto il manuale: la relazione tra decodifica di un testo e la sua comprensione; la distinzione tra lettori che hanno difficoltà in uno o nell’altro processo; il modello della ‘Simple View of Reading’; e infine l’assunto, che la ricerca supporta con abbondanti evidenze empiriche, che il lettore si rappresenti nella mente il testo sotto forma di un ‘modello mentale’, costruito a partire dalle informazioni che vi estrapola.

Nel secondo capitolo viene approfondita la nozione di modello mentale, vengono descritte le abilità e i processi a livello di decodifica e comprensione linguistica responsabili della comprensione di un testo scritto, vengono brevemente considerate le interazioni presenti tra essi, e viene posto in rilievo il ruolo della memoria.

Il terzo capitolo nella prima parte fornisce i riferimenti per tracciare una distinzione tra buoni e ‘cattivi’ lettori, articolata attorno all’importanza della comprensione del testo e dei processi ad essa relativi. La seconda parte del terzo capitolo è poi dedicata alle ragioni per le quali è importante identificare le due categorie di lettori e indica i modi per farlo, sia all’interno del gruppo classe che al di fuori di esso.

I capitoli dal quarto all’ottavo sono dedicati alla teoria e all’intervento sulle componenti della comprensione, e presentano ognuno uno schema fisso: la presentazione del costrutto oggetto di discussione, la modalità per la valutazione dell’abilità relativa, brevi informazioni sulle linee evolutive del suo sviluppo, chi potrebbe avere difficoltà e perché e, infine, indicazioni per migliorarne l’utilizzo.

Il quarto capitolo è dedicato all’inferenza, il processo di produzione di senso a partire dal testo. Viene presentata una distinzione interna alla categoria di inferenza tra inferenze necessarie ed inferenze elaborative, e sono fornite indicazioni su come valutare la capacità del bambino di produrle e su come migliorarla.

Nel quinto capitolo il focus è posto sul lessico. Viene presentata l’interazione tra conoscenza lessicale e comprensione di un testo e vengono forniti i parametri per la valutazione del vocabolario; sono infine fornite indicazioni per il suo sviluppo e il suo insegnamento.

La sintassi, e più in generale la struttura della frase, sono trattati nel sesto capitolo. L’attenzione è posta sulla coesione testuale e sugli elementi grammaticali che la costruiscono (ad esempio le anafore e i connettivi): in che modo facilitano la comprensione, come valutarne la conoscenza nell’alunno, come identificare difficoltà in questo ambito e come trasmetterne la conoscenza relativa e insegnarne l’uso.

Nel settimo capitolo vengono fornite le medesime indicazioni riguardo alla struttura del testo, basandosi primariamente sulla distinzione tra testo narrativo e testo informativo. Molto interessante secondo me anche per il lettore profano adulto e colto, la rassegna sulle diverse strutture del testo informativo (problema-soluzione, causa-effetto, descrizione, contrasto e confronto, sequenza) e le loro controparti grafiche miranti all’organizzazione delle informazioni estrapolabili da esso.

Il capitolo ottavo verte sul monitoraggio della comprensione, la sua importanza e i vincoli a cui è sottoposta; sono indicate alcune semplici strategie di riparazione (fix-up) della comprensione e sono suggerite modalità per migliorarla attraverso l’insegnamento.

Il nono capitolo, infine, fa sintesi e presenta alcune interazioni tra le componenti della comprensione trattate fino a quel momento, riportando il tutto allo scopo di creare un modello mentale del testo e mettendo questo compito in relazione agli scopi che il lettore si prefigge quando si accosta alla lettura, anche fosse solo per ricavarne piacere personale. Gli scopi infatti orientano i processi e le abilità di elaborazione e di conseguenza il modello mentale che verrà costruito.

Chiudono il libro un indice dei nomi e la bibliografia.

Il libro è dedicato ai professionisti dell’insegnamento scolastico, ai pedagogisti, e tutti coloro che a vario titolo sono impegnati nella formazione primaria. Il logopedista potrà cogliervi indicazioni per il potenziamento delle abilità di lettura nei bambini a sviluppo tipico. Il ricercatore in psicologia troverà una bibliografia aggiornata e un quadro globale di taglio applicativo sul problema della difficoltà di comprensione nella lettura, anche eventualmente per ipotizzare interventi brevi e focalizzati. Chi invece lo leggesse per migliorare le proprie capacità di lettura troverà un manuale chiaro e immediatamente fruibile, in grado di fornirgli maggiore consapevolezza e controllo sul processo globale di comprensione di quanto legge, permettendogli di fruire al meglio dei testi narrativi o informativi con i quali viene a contatto.

 

Sistema Limbico e amigdala

All’interno delle regioni cerebrali che costituiscono il sistema limbico, una funzione di vitale importanza è rivestita dall’amigdala.

 

Il nostro cervello è suddiviso anatomicamente in tre parti diverse – prosencefalo (o cervello anteriore), mesencefalo (o cervello medio) e romboencefalo (o cervello posteriore) – che originano a partire dalle prime settimane dello sviluppo cerebrale, più precisamente intorno al ventottesimo giorno dopo il concepimento. Il proencefalo a sua volta si suddivide in telencefalo, che comprende gli emisferi cerebrali, e diencefalo, che comprende principalmente il talamo e, alla base del cervello, l’ipotalamo.

Gli emisferi cerebrali sono due: quello destro, intuitivo, creativo ed immaginativo, deputato all’interpretazione emotiva e alla sintesi delle informazioni, e quello sinistro, logico, pratico e analitico, deputato all’analisi delle informazioni e specializzato nei processi linguistici. I suddetti emisferi, coperti dalla corteccia cerebrale, contengono due strutture fondamentali, cioè i gangli della base, un raggruppamento di nuclei sottocorticali coinvolti nel controllo del movimento che operano in sintonia con il sistema cortico spinale, e il sistema limbico.

Il sistema limbico

Il sistema limbico è una struttura primitiva, che scambia informazioni con diverse aree cerebrali e che per lungo tempo è stata oggetto di studio della psicobiologia e della psicologia fisiologica: il neuroanatomista Papez, nel 1937, ipotizzò per primo l’esistenza di un circuito di aree neurali interconnesse tra di loro, in cui collocò la radice biologica e fisiologica delle emozioni; tale circuito, detto “Circuito di Papez”, comprenderebbe le vie del cervello che congiungono la corteccia cingolata, l’ippocampo, il talamo e l’ipotalamo. Il sistema limbico così come lo conosciamo oggi venne concettualizzato dal fisiologo MacLean qualche anno dopo, nel 1949: MacLean vi incluse altre strutture e coniò come terminologia identificativa sistema limbico. Il sistema limbico consiste in un complesso di strutture cerebrali, che comprende strutture corticali (il giro del cingolo, il giro ippocampale e la parte ventro-mediale della corteccia temporale) e strutture sottocorticali (i nuclei talamici anteriori, la corteccia limbica, l’amidgala, l’ippocampo, il talamo, l’ipotalamo, il fornice – un fascio di fibre nervose interconnesse tra di loro -, il bulbo olfattivo, il setto e parte dei gangli della base).

Esso si configura dal punto di vista funzionale come un sistema omeostatico, pulsionale, vegetativo ed affettivo, che assolve a funzioni paragonabili ad aree sensoriali primarie ed associative: è implicato nell’integrazione dell’olfatto, nei processi di apprendimento e memorizzazione, nella presa di decisione, nell’elaborazione delle emozioni e delle risposte vegetative che le accompagnano, organizza le risposte comportamentali indispensabili per la sopravvivenza dell’individuo e influenza percezioni, comportamenti e attività cognitive sulla base dello stato emotivo ed affettivo. Sicuramente, all’interno delle regioni cerebrali che costituiscono il sistema limbico, una funzione di vitale importanza è rivestita dall’amigdala, una struttura a forma di mandorla localizzata nel lobo temporale, vicino al ventricolo laterale, composta da tre nuclei (basale, centrale e laterale), che memorizza ed elabora l’esperienza emotiva e i processi decisionali.

Sistema limbico e amigdala

L’amigdala è la sede dei ricordi emotivi, il centro di controllo del comportamento inconscio e istintivo e di identificazione del pericolo, valuta l’intensità emotiva delle situazioni e conserva sensazioni correlate a ricordi, traumi infantili, momenti di sofferenza vissuti, angosce e fobie. Grazie alla connessione con il lobo frontale, gestisce le nostre emozioni, modula sensibilità affettive ed interpreta situazioni sociali complesse nel contesto di scelte che inducono diverse emozioni; grazie alla connessione con l’ipotalamo, impregna di colore emotivo i processi basilari associandoli a risposte fisiologiche e vegetative. L’amigdala è la prima struttura cerebrale che si attiva quando insorge un’emozione complessa come la paura e ci aiuta a riconoscere le potenziali minacce alla sopravvivenza fisica e psicologica: quando intercetta uno stimolo potenzialmente pericoloso, attiva il ramo simpatico del sistema nervoso autonomo che, tramite l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, provoca a sua volta la secrezione di catecolamine e di cortisolo, rispondenti alla situazione d’allarme. Si aziona di fronte a stimoli ambientali e a stimoli interni come pensieri e preoccupazioni ed interpretando eventi stressanti fa emergere disturbi psicologici come ansia, stress e attacchi di panico correlati a stimoli che fungono da innesco emotivo. Pare che l’amigdala degli uomini abbia dimensioni morfologiche maggiori rispetto a quella delle donne, cosa che spiega il fatto che negli uomini si riscontri una maggiore predisposizione all’aggressività.

 

Trattamenti per il Disturbo dell’Orgasmo Femminile: una revisione

Il Disturbo dell’Orgasmo Femminile è definito come l’assenza, ritardo, infrequenza o marcata diminuzione dell’intensità dell’orgasmo in almeno il 75% delle esperienze sessuali.

 

L’orgasmo, definito come ‘il rilascio improvviso e involontario della tensione sessuale’ (Nagoski, 2015), è una componente fondamentale della soddisfazione sessuale sia per gli uomini che per le donne (Laan & Rellini, 2011). Per molte donne però, l’assenza o la difficoltà nel raggiungere un orgasmo è un evento molto comune: a livello nazionale, la difficoltà nel raggiungere un orgasmo colpisce circa il 16/28% delle donne negli Stati Uniti, Europa, Centro e Sud America e Cina continentale e fino al 46% in altri paesi asiatici (Laan et al., 2013; Zhang et al., 2017)

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) (APA, 2013) il Disturbo dell’Orgasmo Femminile (Female Orgasmic Disorder – FOD) è definito come l’assenza, ritardo, infrequenza o marcata diminuzione dell’intensità dell’orgasmo in almeno il 75% delle esperienze sessuali, che persiste per almeno 6 mesi provocando angoscia. In base al momento di insorgenza e al contesto in cui il disturbo si manifesta può essere classificato in: permanente (se la donna non ha mai raggiunto un orgasmo) o acquisito (se è stato raggiunto in passato ma al momento sperimenta difficoltà), generalizzato (in ogni contesto) o situazionale (esclusivamente in determinate situazioni).

Esso, in qualunque forma, può comportare difficoltà legate a molteplici aspetti della condizione: alcune donne riferiscono sentimenti di inadeguatezza, possono sentirsi come se ci fosse qualcosa di ‘sbagliato’ in loro, possono percepire delusione nei loro partner, possono sentirsi come se si stessero ‘perdendo’ una preziosa esperienza di vita (Rowland et al., 2018).

Fattori legati al Disturbo dell’Orgasmo Femminile

I fattori che possono influenzare lo sviluppo del Disturbo dell’Orgasmo Femminile sono sia di natura fisiologica e neurologica che psicosociale. Ad esempio, fattori fisiourologici e medici possono includere la disfunzione dei muscoli del pavimento pelvico, cambiamenti ormonali (menopausa o contraccettivi ormonali), alcune tipologie di farmaci e/o malattie croniche. La maggior parte dei casi però sembra essere principalmente causata da fattori psicosociali. Tra questi vi sono fattori legati al contesto sociale, che possono riguardare proibizioni culturali, divieti religiosi o atteggiamenti negativi verso il piacere piacere sessuale femminile, mancanza di informazioni sulla sessualità, atteggiamenti sul sesso. Fattori emotivi e psicologici che includono depressione, ansia, bassa autostima, vergogna o imbarazzo legati al sesso, problemi di immagine corporea, inibizione sessuale e esperienze sessuali passate traumatiche. Infine, i fattori di relazione intima che possono contribuire includono la soddisfazione generale del rapporto, i problemi con il desiderio per uno o entrambi i partner, disfunzioni sessuali del partner, mancanza di abilità o interesse del partner nel sesso, scarsa comunicazione e repertorio sessuale limitato (Marchand, 2021).

Trattamenti per il Disturbo dell’Orgasmo Femminile

Una recente revisione (Marchand, 2021) si è focalizzata sui trattamenti utilizzati per il Disturbo dell’Orgasmo Femminile individuando quelli con maggiore efficacia. I trattamenti presi in considerazione nello studio sono di seguito elencati.

Psicoterapia

Psicoterapia è un termine ampio che indica il trattamento di preoccupazioni psicologiche ed emotive attraverso il parlare e trovare strategie per affrontare i problemi in collaborazione con un terapeuta professionista. Può essere eseguita in forma individuale, di coppia o di gruppo e può includere una varietà di interventi e approcci teorici.

Masturbazione diretta

Ad oggi, le attuali raccomandazioni di best practice prevedono l’inclusione di questa componente nel trattamento di prima linea del Disturbo dell’Orgasmo Femminile (Laan et al., 2013). La masturbazione diretta è una tecnica cognitivo-comportamentale basata sulla consapevolezza che comporta l’esposizione graduale alla stimolazione genitale, avvalendosi di strumenti psicologici per migliorare l’attenzione ai segnali sessuali, includendo anche la stimolazione con vibratori. Questa tecnica punta a ridurre l’ansia e lo spectatoring, concettualmente intesa come una forma di fissazione cognitiva sulle percezioni di sé negative durante l’attività sessuale, identificando e sfidando atteggiamenti e credenze non utili sul sesso, e implementando strumenti per aumentare l’eccitazione, come la fantasia o materiali erotici (Laan & Rellini, 2011; Laan et al., 2013)

Desensibilizzazione sistematica

La Desensibilizzazione sistematica è una terapia basata sull’esposizione ad un evento/elemento ansiogeno specifico: la persona crea una gerarchia di esperienze temute per poi esporsi gradualmente dalla meno alla più ansiogena, fino a quando il soggetto sperimenta poca o nessuna ansia in merito alle situazioni precedentemente temute (Lazarus, 1963). Può essere in vivo o immaginario ed è stato testato per ridurre l’ansia e promuovere il piacere e l’orgasmo in situazioni sessuali.

Focus sensoriale

Il Focus Sensoriale è una tecnica comportamentale basata sulla consapevolezza con il fine di ridurre l’ansia e aumentare l’attenzione alle sensazioni fisiche durante attività di coppia (Weiner & Avery-Clark, 2014). Prevede lo scambio di carezze sul corpo dei partner in un contesto non impegnativo, dapprima escludendo il contatto con i genitali o il seno e in seguito incorporando quelle aree man mano che gli individui acquisiscono comfort e capacità di prestare attenzione alle sensazioni corporee.

Educazione sessuale

Gli individui sono invitati a visualizzare del materiale educativo che può comprendere diapositive, foto e/o video di masturbazione e attività sessuale.

Biblioterapia

La biblioterapia è una tipologia di trattamento che prevede l’utilizzo di un libro che ha lo scopo di guidare una persona attraverso il trattamento a casa.

Tecnica di allineamento coitale (Coital Alignment Technique – CAT)

La CAT è una posizione per il rapporto eterosessuale che posiziona i partner in modo che il bacino dell’uomo stimoli il clitoride della donna durante la spinta. Questo può essere uno strumento utile per le coppie da usare per aumentare la stimolazione clitoridea e il piacere femminile durante il rapporto, ma questa tecnica non è stata stata testata specificamente su donne con FOD.

Conclusioni

La revisione mostra un supporto più consistente per la masturbazione diretta, per il focus sensoriale e per la psicoterapia. L’educazione sessuale è una componente standard di questi approcci e può fornire valore terapeutico di per sé. L’inclusione dei partner nel trattamento può essere utile in alcuni casi, soprattutto quando la difficoltà orgasmica si verifica principalmente con un partner specifico, nonostante sia stato dimostrato che i benefici del trattamento individuale si generalizzano alle situazioni di coppia (Kuriansky et al., 1982). La desensibilizzazione sistematica, il CAT training e la biblioterapia non hanno dimostrato prove di efficacia come modalità primaria di trattamento.

Rimangono tuttavia quesiti irrisolti: perché i trattamenti esistenti non sono efficaci per alcune donne? O ancora, perché non ci sono state innovazioni significative nel trattamento del disturbo dagli anni ’80? Future ricerche potrebbero far luce su meccanismi attualmente poco chiari, come le motivazioni alla base della poca efficacia dei trattamenti su alcune tipologie del disturbo, comprendendone meglio l’eziologia, o su come adattare il trattamento dell’anorgasmia alle popolazioni multiculturali e comunitarie, che possono avere storie sessuali più più complesse.

 

L’adolescenza ed il ruolo della scuola nella dispersione scolastica

La prevenzione della dispersione scolastica è volta a rendere consapevole lo studente delle proprie condotte ed ad avere un maggiore controllo delle proprie emozioni e del sé in generale.

 

Premessa

L’articolo è scritto per mettere in luce la gravità e la complessità del problema della dispersione scolastica, all’interno di precisi contesti sociali. Per tale problema risulta indispensabile l’attuazione di metodologie di intervento rivolte agli studenti, volte ad attenuare il rischio di abbandono scolastico. Molte di queste metodologie fanno parte di una prevenzione aspecifica del disadattamento che riguarda ‘tutti quegli interventi che scaturiscono da progetti mirati allo sviluppo di fattori protettivi e al contenimento di fattori generali di disagio personale e sociale, i quali possono ostacolare il percorso di adattamento del ragazzo’, che comprende tutte quelle attività ed i servizi rivolti a prevenire ed alleviare condizioni di deprivazione affettiva, sociale ed anche culturale; allo stesso tempo l’intervento di prevenzione prevede un’azione formativa rivolta ai docenti per poter interagire attivamente con gli adolescenti, attivando in loro alti livelli di partecipazione e di motivazione.

Dal punto di vista etimologico, il termine formazione deriva dal latino formatione, da formare, che, secondo il vocabolario Zingarelli, indica l’atto o l’effetto del formare o del formarsi professionalmente, ovvero si riferisce alla maturazione delle facoltà psichiche ed intellettuali dovute all’esperienza e allo studio.

Negli ultimi anni è stata riconosciuta l’importanza dell’esperienza formativa, intesa come un luogo deputato alla conoscenza-trasformazione delle singole individualità, ma altrettanto centrato sul rapporto tra le varie personalità che interagiscono fra loro e le attività condivise.

Secondo Gordon, la formazione è un sistema educativo volto ad aiutare un individuo ad educare se stesso.

Dispersione scolastica e ambiente scolastico

L’istituzione scolastica costituisce un ambito importante di socializzazione secondaria, all’interno del quale vengono costruite condotte e identità interattive, in cui si apprendono e perfezionano competenze sociali, in cui si svolgono una grande quantità di apprendimenti di natura sociale. Inoltre, in quanto istituzione pubblica, la scuola è fortemente coinvolta nei processi collettivi di costruzione di spiegazioni e di legittimazione di quei fenomeni (sviluppo, apprendimento, successo e insuccesso scolastico, gestione della diversità) sui quali la scuola stessa è chiamata ad agire quotidianamente.

Gli insegnanti, nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali, non possono che ricorrere a quelle stesse rappresentazioni che essi contribuiscono a generare, a sistematizzare e a perpetuare (Carugati e Selleri, 1996). Secondo l’autore Rutter producono risultati migliori, in termini di riuscita scolastica, quelle scuole in cui è incoraggiata la partecipazione attiva degli allievi, in cui viene messo in pratica l’ascolto reciproco fra insegnanti ed alunni. Nel presente articolo, lo spazio dedicato alla formazione, mira allo spostamento della centralità dei contenuti e delle metodologie didattiche, sino alla qualità della relazione, alla intenzionalità, ai processi di comunicazione e interazione, alla capacità dell’insegnante di facilitare gli alunni nella soluzione dei loro problemi e di essere congruente nella ricerca di una soluzione ai suoi stessi problemi.

In primo piano, la prevenzione della dispersione scolastica è volta a rendere consapevole lo studente delle proprie condotte ed ad avere un maggiore controllo delle proprie emozioni e del sé in generale.

Uno degli obiettivi generali da porsi, è quello di favorire una relazione produttiva tra gli insegnanti e gli studenti, al fine di attivare, in questi ultimi, maggiori livelli di motivazione e partecipazione alla vita scolastica.

Prevenzione scolastica: promuovere relazioni positive

Gli effetti di una buona relazione fra un adolescente e un adulto, si rispecchiano soprattutto se si tengono a mente e si mettono in pratica i seguenti punti sotto elencati:

  • promuovere l’accettazione dell’autorità dell’adulto;
  • stimolare l’espressione delle proprie emozioni e la comunicazione verbale e non verbale;
  • favorire la partecipazione all’attività di gruppo;
  • prevenire il fenomeno dell’abbandono scolastico;
  • incrementare la stima di sé e la fiducia nelle proprie potenzialità e nelle proprie competenze.

Per poter raggiungere i suddetti obiettivi, è preferibile il lavoro in équipe, per poter adottare le strategie metodologiche adeguate, caso per caso.

Un intervento preventivo del fenomeno di dispersione scolastica dovrebbe dunque prevedere degli incontri con gli insegnanti, quali:

  • seminari contestualizzati;
  • incontri di psicoeducazione;
  • lavori in sottogruppi per implementare un buon dialogo fra le parti;
  • incontri per la rielaborazione delle emozioni derivanti dal fenomeno dispersione scolastica (frustrazione, conflitto etc..);

Nel corso dei progetti preventivi del fenomeno di dispersione scolastica è bene dedicare spazio ad alcune aree tematiche, tra cui:

  • l’area dell’istruzione, in cui evocare aspetti relativi alla competenza professionale e alla didattica;
  • l’area relazionale, in cui evidenziare le abilità sociali e comunicative dell’insegnante, tanto nei confronti dei singoli allievi, quanto in rapporto alla conduzione del gruppo classe;
  • l’area della personalità, in cui soffermarsi sulle caratteristiche della persona, sui tratti idiosincratici.

Destinatari fondamentali, nei progetti di prevenzione della dispersione scolastica, sono gli studenti, per i quali si potrebbero strutturare vari incontri, quali:

  • discussioni di gruppo;
  • psicoeducazione e attività laboratoriali in sottogruppi;
  • giochi analogici;
  • somministrazione di un questionario (ex ante e post) di valutazione sulle aspettative e bisogni dei ragazzi che indaghi anche la relazione tra adolescenti e insegnanti.

Una variabile importante da analizzare, nel corso di tali interventi, è la dimensione relazionale, ossia l’area in cui si evidenziano le abilità sociali e comunicative dell’alunno, tanto nei confronti del gruppo classe, quanto in rapporto al gruppo docente, in relazione alle aspettative dell’alunno.

Anche la dimensione dell’istruzione risulta centrale, in quanto permette di analizzare come i ragazzi percepiscono le lezioni effettuate dagli insegnanti (chiarezza espositiva, interesse delle lezioni, coinvolgimento degli alunni durante la lezione).

Prevenzione della dispersione scolastica: progettare le fasi dell’intervento

L’articolazione di un intervento di prevenzione della dispersione scolastica dovrebbe prevedere più fasi.

In una prima fase sarebbe utile, ad esempio, organizzare un incontro per gli insegnanti e un incontro per gli alunni.

Gli incontri con gli insegnanti potrebbero essere dedicati all’analisi e all’accoglienza della domanda, mentre quelli con gli allievi all’analisi e all’accoglienza della domanda ed alla somministrazione di un questionario semi strutturato per indagare aspettative e bisogni dei ragazzi.

Utile potrebbe rivelarsi una fase di supervisione del fenomeno di dispersione scolastica, formata da incontri in cui vi sia la partecipazione congiunta di un’équipe di specialisti, quali psicologi specializzati e di coordinatori scolastici, per potere meglio collaborare ed indagare aspettative e bisogni di ciascuno studente.

I risultati attesi, a distanza di alcuni mesi, degli interventi preventivi così strutturati, riguardano innanzitutto gli studenti: tramite determinati progetti ci si attende un incremento della frequentazione scolastica, derivante dall’attivazione di livelli motivazionali come fattori stimolo per una maggiore partecipazione alla vita scolastica.

Da parte degli insegnanti invece ci si attende una maggiore presa di coscienza del ruolo istituzionale e della funzione socio educativa.

 

Il progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e disturbo dello spettro autistico: una teoria integrata

Punti chiave del progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e autismo riguardano massima autonomia possibile, sostegno alla famiglia, valutazione degli aspetti psicopatologici e tecniche basate su una teoria psicoeducativa con base scientifica (Keller, 2016).

 

Introduzione

Questo articolo propone un’ipotesi per strutturare un progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e/o disturbo dello spettro dell’autismo. I seguenti paragrafi ne prenderanno in esame i punti fondamentali, proponendo un’ottica integrata, ovvero l’utilizzo di diverse teorie che insieme possano essere utili nell’ambito riabilitativo. L’obiettivo di questo articolo è promuovere la ricerca clinica riguardo la riabilitazione per l’età adulta, migliorare il trattamento promuovendo la comunicazione tra psicologi, terapisti ed educatori, promuovere l’utilizzo di tecniche su base scientifica. Infine, l’obiettivo centrale è la riaffermazione dell’individuo al centro del progetto, l’importanza della relazione e del linguaggio, il rispetto del paziente e la condivisione completa degli obiettivi.

Riformulazione del progetto nell’ottica dell’autodeterminazione

Nella stesura di un progetto riabilitativo per l’età adulta, si ritiene necessario considerare come costrutto di cornice generale quello dell’autodeterminazione. Cottini (2016), riassume la definizione del termine in quattro componenti fondamentali. L’autonomia, ovvero la capacità di scegliere in base ai propri interessi, in modo indipendente. L’autoregolazione tramite il monitoraggio delle attività, autogestione generale, il conseguimento degli obiettivi, il problem-solving e l’acquisizione di maggiore controllo della propria vita. L’empowerment psicologico che si concretizza assumendo un locus of control interno e maggiore autoefficacia, aumentando di conseguenza la fiducia in se stessi. La quarta componente è l’autorealizzazione, che dipende molto dalla consapevolezza dell’individuo dei propri punti di forza, dei limiti, influenzata dal proprio ambiente e dalle valutazioni che gli altri fanno dell’individuo. L’autodeterminazione dovrebbe rientrare anche nel parent-training dei genitori con figli adulti, per incentivarli alla fiducia e la scoperta delle capacità decisionali dei figli. Inoltre il maggiore livello di autodeterminazione è spesso collegato ad un aumento nella qualità della vita dell’individuo con disabilità. Alcuni prerequisiti su cui lavorare, in particolare nello spettro dell’autismo, sono l’attenzione, la memoria, le funzioni esecutive complesse, il linguaggio, le capacità prassiche e l’orientamento spaziotemporale (Keller, 2016).

Il progetto individualizzato: la persona al centro

Nell’ambito della cura Geldard e Geldard (2002) propongono di tenere in considerazione l’approccio centrato sulla persona di Carl Rogers, secondo cui la relazione è più importante del problema e la persona più importante della soluzione. Secondo il modello di Rogers, le tre caratteristiche primarie per aiutare gli altri sono la congruenza, l’empatia e l’attenzione positiva incondizionata. Gli autori del testo propongono delle tecniche applicate al counseling che possono essere utilizzate anche in un progetto riabilitativo, in modo particolare le caratteristiche fondamentali, ovvero la fiducia, il rispetto dell’altro, l’empatia, l’accettazione, la sicurezza, la sincerità e l’expertise del paziente, che è l’unico a poter suggerire la migliore soluzione per se stesso.

Inoltre, ogni progetto individualizzato dovrebbe essere fondato sull’ascolto attivo e l’autenticità del terapista (Geldard & Geldard, 2008), disposto a creare un rapporto esistenziale e di mentoring con la persona che sta entrando nell’età adulta.

Punti chiave del progetto riguardano l’obiettivo della massima autonomia possibile, prevedibilità e comunicazione aumentativa alternativa in caso dello spettro dell’autismo, sostegno alla famiglia, valutazione degli aspetti psicopatologici e utilizzo di tecniche basate su una teoria psicoeducativa con base scientifica (Keller, 2016).

La diagnosi con l’ICF

La classificazione internazionale del Funzionamento, della disabilità e della salute, nota come ICF (WHO, 2001), ha lo scopo di fornire un linguaggio standard e unificato come riferimento per la descrizione della salute e degli stati correlati ad essa. I domini della salute riguardano le funzioni e strutture corporee, l’attività e partecipazione, e un’analisi dei contesti ambientali. Il termine “funzionamento” indica nel manuale la comprensione di questi domini, in cui la disabilità è intesa come termine per le menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della partecipazione alla vita pubblica. Complementare all’ICD e al DSM-5 (APA, 2013), gli scopi dell’ICF sono quelli di fornire una base scientifica, un linguaggio comune, un possibile confronto fra dati raccolti in paesi diversi, un sistema di codifica unico, che può essere utilizzato per qualsiasi individuo, non solo chi possiede delle specifiche diagnosi, sia in ambito clinico, statistico, di ricerca o educativo. Il manuale si fonda anche su scopi di politica sociale, ritenendo di non classificare le persone, ma di descrivere le situazioni di ciascuna, in una serie di domini della salute e degli stati ad essa correlati. L’analisi dei fattori ambientali in cui vive una persona sono fondamentali nel manuale, poichè la disabilità viene intesa come la conseguenza di una relazione tra le condizioni di salute e i fattori personali, con i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. L’ICF, combina il modello medico, secondo cui la disabilità è un problema della persona causato da una malattia, con il modello sociale, il quale vede la questione come un problema creato dalla società. Sarebbe quindi responsabilità collettiva nel suo complesso, l’implementazione di modifiche ambientali necessarie alla partecipazione delle persone con disabilità nella vita sociale.

Conoscere l’ICF è importante, inoltre, per la gravità di ogni singolo problema, la necessità di un facilitatore, la valutazione dei miglioramenti, e la sistematizzazione del progetto riabilitativo. Utilizzare un manuale completo permette di prendere in considerazione in modo ordinato tutti gli aspetti del funzionamento di una persona, osservando quali funzioni necessitino di supporto, e considerando questi aspetti per gli obiettivi riabilitativi del progetto.

Il linguaggio e il colloquio nella disabilità

La prosodia è un aspetto di cornice fondamentale durante tutta la terapia. In particolare un tono di voce calmo è utile alla sintonizzazione con il paziente, oltre che favorire l’attivazione del nervo vago, il quale costituisce un freno per i sistemi cerebrali primitivi (Porges, 2011; Dana, 2018).

Nella formulazione della frase, soprattutto nei casi difficili di credenze patogene invasive, può essere utile consultare il metodo proposto per la schizofrenia dalla terapia metacognitiva interpersonale (Salvatore et al., 2017).

Anche il testo proposto da Geldard & Geldard (2005) fornisce alcune importanti indicazioni su come effettuare il colloquio in maniera efficace. Il metodo principale è quello del parafrasare, ovvero riassumere il discorso validando l’individuo, ad esempio sostenendo che quanto messo in atto è molto positivo. Utilizzare sempre parole che aprono alla riflessione (“ho avuto l’impressione che”; “l’idea che”; ecc…), cercando di non essere intrusivi, di non interrogare l’altro, di non creare disuguaglianze elevate, cercando di non usare il “perché”. Il terapista inoltre non dovrebbe seguire esclusivamente il proprio piacere ed i propri obiettivi, ma seguire le necessità del soggetto, l’agenda degli argomenti primari portati dal paziente. Riflettere sulla possibilità di scegliere tra una domanda chiusa (o con scelta multipla) ed una domanda aperta, a seconda della situazione e della persona che si ha di fronte, è un altro aspetto importante. Si può usare la “domanda del guru”, facendo immaginare al soggetto di essere un “guru molto saggio”, che potrebbe dare consigli a qualcuno nella sua stessa situazione, e pensare a cosa direbbe.

Si possono utilizzare anche domande “miracolose”, ovvero chiedendo come diventerebbe la vita ideale nel caso in cui le cose cambiassero improvvisamente.

Ci sono anche le domande sull’obiettivo, chiedendo ad esempio come sarebbe la propria vita senza la rabbia. Può essere utile fare domande utilizzando una scala da 1 a 10 (“quanto sei felice oggi da 1 a 10?”), riflettere sull’essenza del discorso, affermare sempre i punti di forza dell’individuo alla fine dell’incontro, non lasciandolo in preda a riflessioni, sentimenti o contenuti non rielaborati. La preparazione del paziente alla fine del progetto è un altro aspetto fondamentale, poiché nelle disabilità è probabile che si instauri una certa dipendenza del soggetto agli incontri.

È importante rispettare ed accettare l’altro nella sua totalità, non essere giudicanti. Si possono fare in alcuni casi delle confrontazioni rispettose, soprattutto quando il soggetto evita di accorgersi di aspetti autodistruttivi o pericolosi per se stesso e gli altri.

Normalizzare le emozioni, le difficoltà e validare l’altro restano sempre punti fermi in ogni dialogo. Si cerca di esprimere un diverso punto di vista tollerabile alla comprensione altrui, magari utilizzando una scheda che confronta le credenze autodistruttive con le possibili alternative.

Altri aspetti importanti del colloquio riguardano il riconoscimento costante di un futuro positivo e ottimista, la focalizzazione sul “qui ed ora” per evitare pensieri negativi e ansiogeni, l’esplorazione di diverse scelte possibili favorendo l’autonomia, le soluzioni creative, e superando i possibili blocchi suddividendo l’obiettivo in piccoli steps (Geldard, & Geldard, 2005).

Altre considerazioni sono inserite dagli autori in un altro testo (Geldard & Geldard, 2008), in particolare si suggerisce di essere proattivi, gestire con attenzione le self-disclousure, essere creativi, avere un’ottica psicoeducativa, usare il significato simbolico, utilizzare il role-reversal nelle esercitazioni pratiche e la trasformazione delle credenze negative in positive con tabelle presentate dagli autori. Si potrebbero anche disegnare dei cerchi concentrici con all’interno le persone importanti, gli amici, il proprio spazio personale e gli altri conoscenti, per aumentare la consapevolezza del soggetto.

Per il corretto andamento della terapia, e per favorire l’alleanza terapeutica, è importante fare attenzione al linguaggio, soprattutto per quanto riguarda il disturbo dello spettro autistico. Un adulto può aver raggiunto una consapevolezza maggiore rispetto al significato di alcuni modi di dire o di parole astratte, ma è importante porre attenzione. De Clerq (2006) sintetizza gli aspetti peculiari. Innanzitutto vi possono essere difficoltà con le parole che vanno di moda e che quindi posseggono un significato dovuto dal contesto. Le persone con autismo fanno fatica a comprendere gli aspetti impliciti della comunicazione ed i significati nascosti di una frase, possono avere difficoltà nel discriminare tra concetti simili (ad esempio confondere una parte con l’intero, un oggetto ed i loro complementi funzionali o equivalenti funzionali), ovvero confondere una ruota con una macchina, un rasoio con la barba. Può esservi un’eccessiva generalizzazione della parola (ad esempio “sedia” per ogni oggetto su cui ci si può sedere), bisogna spiegare lentamente i significati delle parole utilizzate in contesti sociali o sentimentali, fare attenzione alle parole poiché verranno intese in modo estremamente preciso e concreto. Le parole ambigue sono fonte di difficoltà, ad esempio usando “probabilmente”, “forse”, “credo”, “può darsi”, “tra un po’”, si rischia di indurre stati ansiogeni. Il terapista dovrebbe essere coordinato e non confondere linguaggio e azioni differenti. Durante l’insegnamento del vestirsi, sarebbe utile non giocare al cellulare o fare un’attività differente, altrimenti il soggetto assocerà le parole all’azione sbagliata che sta osservando nel terapista, quindi è importante pronunciare la frase di vestirsi mentre il ragazzo sta effettivamente compiendo l’azione. Di qui si collega anche l’ecolalia, poiché se successivamente ad un’azione, la persona con autismo ascolterà delle specifiche parole, ogni volta che l’azione si ripresenterà vi sarà un’associazione con quella parola. Altre caratteristiche sono il linguaggio letterale e la polisemia, e quindi una necessità di tempo maggiore per l’elaborazione e la comprensione del linguaggio. L’autrice ricorda che il linguaggio madre nell’autismo è sempre quello visivo. Inoltre i soggetti con autismo possiedono un’elaborazione monocanale, utilizzando un canale sensoriale per volta. Se per esempio il paziente deve concentrarsi sull’espressione facciale che ha durante una conversazione, può non essere in grado di controllare anche il tono della voce o l’ordine delle parole. Frasi come la seguente sono da evitare: “ti va giocare, no?”. È necessario essere diretti, con domande semplici. Una persona con autismo non è in grado di comprendere il senso di un racconto, ma può identificarsi molto con un certo personaggio. Possono esservi difficoltà nella comunicazione sociale, nella pragmatica della comunicazione, nella pianificazione e nell’organizzazione.

Monitoraggio della relazione

L’Analisi transazionale, fondata da Eric Berne, si occupa di diagnosticare quale stato dell’Io della persona ha provocato uno stimolo transazionale e quale ha reagito nell’altra. Uno stato dell’Io è un sistema coerente di sentimenti, sensazioni, pensieri e comportamenti (Berne, 1964; 1972).

Lo stato dell’Io Genitore (G) si caratterizza da modi di essere provenienti da ciò che è stato introiettato dai propri genitori e dall’educazione ricevuta, avendo una forte influenza parentale sul comportamento. Lo stato dell’Io Adulto (A) giudica oggettivamente una situazione in base all’esperienza, e cerca di prendere la decisione migliore in base anche alle probabilità. Lo stato dell’Io Bambino (B), si comporta come il soggetto faceva da bambino/a, risolvendo un problema con i metodi sperimentati nel “lí e allora”. Quest’ultima è una parte preziosa della personalità, ricca di creatività e fiducia.

Nella riabilitazione si può fare riferimento al diagramma strutturale semplificato di primo ordine dell’analisi transazionale, ed utilizzarlo non a scopo tecnico per la pratica riabilitativa, ma piuttosto può essere presente nella mente dello psicologo/terapista, per calibrare costantemente la relazione nella giusta direzione. L’analisi transazionale permette un ragionamento sulla relazione, riguardante lo stimolo transazionale del paziente, e la risposta del terapista, sia dal punto di vista strutturale che psicologico. La collusione con il paziente, in questa modalità, è intuitiva e facilmente osservabile dal professionista, che può scegliere quale stato dell’Io possa essere il migliore per la relazione. Si presentano alcuni esempi. Il terapista e il paziente potrebbero avere una relazione esclusivamente Adulto-Adulto (A-A), una relazione tra “collaboratori”, come chiamata da Berne (1970), la stessa che avviene tra il meccanico ed il suo aiutante, ovvero una relazione materialistica dove si parla esclusivamente di materiali di lavoro, motori o carrozzerie. La relazione Bambino-Genitore, rappresenta “l’ammirazione”, in cui il paziente ammira il terapista fidandosi di questi, seguendolo in ogni cosa che fa, abolendo il ragionamento critico. Se il terapista non stimola anche l’adulto del paziente, quest’ultimo eseguirà tutti gli ordini senza ragionare, sino anche ad innamorarsi. Una variante rappresenta il terapista che scende nello stato dell’Io Bambino, dando vita a birichinate tra bambini.

Nella relazione di “affetto”, il Bambino di una persona sollecita il Genitore dell’altra. Può capitare che il terapista assuma un atteggiamento di preoccupazione verso lo stato di salute dell’altro, avendo in carica uno stato dell’Io Bambino, assumendo una faccia da funerale per la disabilità del paziente, quando invece dovrebbe incentivare il ragionamento e ad esempio usare l’umorismo.

La transazione “dell’amicizia” non prevede la presenza dello stato dell’Io Genitore nella relazione. Gli amici non si criticano a vicenda, al massimo si danno consigli razionali oggettivi, si accettano a vicenda, chiaramente la relazione tra terapista e paziente è differente. Questi sono alcuni esempi, e naturalmente bisognerebbe fare attenzione a non entrare eccessivamente in una transazione di intimità, ricordandosi che si riveste un ruolo professionale.

Una relazione psicologica professionale deve essere probabilmente quanto più elastica possibile. Necessiterebbe di un certo grado di costante consapevolezza e monitoraggio. Lo stato dell’Io Adulto è fondamentale per riportare il soggetto sul qui ed ora, ragionare sul problem-solving e su tutto ciò che concerne l’autodeterminazione. Allo stesso tempo vi è necessità di assumere un ruolo genitoriale, in grado di accettare e consolare. La relazione terapeutica necessita anche del genitore normativo, ovvero di colui in grado di dare delle norme e delle regole, soprattutto nei casi di emergenza e comportamenti a rischio. Si consiglia di tenere sotto monitoraggio questo stato dell’Io, e di ridurlo se necessario, per non minare la relazione e risultare un genitore severo e negativo. I pazienti con disabilità intellettiva potrebbero aver avuto diverse figure genitoriali normative, le quali hanno dettato costantemente regole e imposizioni nella loro vita, il terapista deve fornire alcune regole, ma non dovrebbe essere l’ennesimo genitore. Lo stato dell’Io Bambino permette di avere fiducia verso l’altro, di non intervenire costantemente nel comandare le azioni del paziente, ma di dargli spazio e possibilità per provare da solo. Il terapista non dovrebbe inseguire costantemente i risultati terapeutici a scapito della relazione e dei tempi di apprendimento della persona, non dovrebbe correre narcisisticamente verso il traguardo, bensí dare la possibilità di raggiungerlo favorendo l’autonomia del paziente.

 

Personalità: stabilità e cambiamento

Nel linguaggio comune, una persona autorevole spesso viene definita come una persona con ‘molta personalità‘, mentre una che stimiamo viene etichettata come avente una ‘bella personalità‘.

 

La definizione di personalità indica delle qualità psicologiche che formano delle strutture coerenti e stabili nel tempo, cioè persistenti, che caratterizzano il singolo e che lo determinano come quella specifica persona e non come un’altra (Psicocultura, n.s.). Ci sono diverse espressioni, come il sentire, il pensare e il comportarsi, che definiscono il soggetto nel tempo a livello mentale o sociale (Psicocultura, n.s.).

Etimologicamente parlando, personalità deriva dalla parola greca ‘pròsopon’, cioè ‘persona’, facendo riferimento alle maschere utilizzate dai greci nelle opere teatrali. Nel 1994, Cloninger affermò che la personalità si forma dall’insieme degli aspetti ereditari e biologici, cioè da parte del temperamento, e degli aspetti socioculturali che permettono all’individuo di apprendere, cioè da parte del carattere. (Psicocultura, n.s.). Nel DSM 5, i disturbi di personalità vengono definiti come modelli di esperienza abituali che, in termini comportamentali, percettivi e relazionali, si discostano dal contesto sociale: sono schemi disfunzionali che contribuiscono alla sofferenza del soggetto (APA, 2013). Hopwood e Bleidorn (2018) cercarono di osservare la stabilità e i cambiamenti dei tratti di personalità. La stabilità è stata osservata come una caratteristica della personalità e dei disturbi correlati ed è molto difficile dare una definizione univoca, in quanto sono stati stimati differenti fattori relativi a come la personalità è stata studiata e concettualizzata nel corso degli anni.

Aspetti stabili e dinamici della personalità

Alcune ricerche recenti suggeriscono come ci siano degli aspetti della personalità sia stabili che dinamici (Hopwood e Bleidorn, 2018). Nello specifico, la stabilità differenziale riflette il grado in cui l’ordinamento relativo degli individui si mantiene nel tempo (Anusic e Schimmack, 2016), cioè indica il grado con cui le persone sperimentano un cambiamento maggiore o minore rispetto ad un altro soggetto (Hopwood e Bleidorn, 2018). Il cambiamento assoluto, invece, riflette il grado con cui una caratteristica della personalità diminuisce o aumenta mediamente tra i soggetti della popolazione (Hopwood e Bleidorn, 2018). Altri fattori stimati come importanti nel determinare la stabilità di una personalità, sono i costrutti di indagine osservati attraverso l’approccio dimensionale o categoriale: Zanarini e colleghi (2010) riscontrarono un miglioramento in pazienti con disturbo borderline di personalità nel Mclean Study of Adult Development (MSAD). Nello specifico, il 93% dei pazienti aveva avuto una remissione della sintomatologia nell’arco di dieci anni (Zanarini et al., 2010; Hopwood e Bleidorn, 2018). Nonostante la ricerca di base (Roberts et al., 2006), che suggerisce come la stabilità della personalità sia assoluta a brevi intervalli e con un periodo di cambiamento più lungo, tali risultati (Zanarini et al., 2010) danno speranza alle persone con diagnosi di personalità. Un altro fattore di rilevante importanza riguarda i criteri di inclusione ed esclusione del campione: sono stati osservati dei sintomi su un campione all’interno del contesto ospedaliero, composto da partecipanti che soddisfacevano i criteri diagnostici legati a condizioni di stress acuto. Dato questo disegno di ricerca, alcuni dei cambiamenti osservati possono essere una funzione della regressione alla media, degli impatti degli interventi stessi e di altri fattori associati al campionamento: ne consegue che le stime di stabilità assoluta potrebbero risultare più alte all’interno di studi naturalistici, cioè in studi coerenti con i risultati della ricerca di base sulla personalità (Widiger, 2005; Hopwood e Bleidorn, 2018, p. 7).

Valutazione della personalità

La fase di valutazione è un fattore importante, in quanto tiene in considerazione la distribuzione delle variabili, il tipo di metodo utilizzato e la scala temporale su cui viene svolta una ricerca. Ci sono differenti quesiti di interesse: in primo luogo, la personalità può essere concettualizzata in modo categorico, cioè in modo tale che le persone siano classificate come aventi o meno un disturbo di personalità. Markon e colleghi (2011) scoprirono che le variabili continue dell’approccio dimensionale sono più affidabili e valide rispetto a quelle categoriali, ne consegue quindi che la stabilità sia più elevata quando i disturbi vengono diagnosticati grazie ad un conteggio continuo e non grazie a dei criteri fissi (Samuel et al., 2011). Secondariamente, anche se i questionari sono il metodo più comune per valutare la personalità nelle ricerche di base, le interviste diagnostiche sono maggiormente popolari negli studi clinici e rilevano delle stime di stabilità meno elevate rispetto ai questionari stessi: Samuel e i suoi colleghi (2011) scoprirono come, nell’arco di due anni, la stabilità differenziale era r = .69 per una misura rilevata dal questionario e di r = .60 per quella rilevata dall’intervista, mentre il valore assoluto della variazione della personalità era d = .21 per il questionario e d = .30 per l’intervista (Hopwood e Bleidorn, 2018). Infine, le stime di stabilità tendono ad essere più alte se i partecipanti vengono campionati a intervalli più brevi, in quanto la personalità cambia nel corso di molti anni e non nel corso di pochi giorni (Fraley e Roberts, 2005; Kandler et al., 2010; Wright e Simms, 2016). Per l’appunto, attualmente le scale temporali diverse hanno portato ad una concettualizzazione delle variabili della personalità come dimensioni su cui le persone variano (Wright e Simms, 2016; Hopwood et al., 2015).

Lo sviluppo della personalità

Un altro fattore rilevante è lo sviluppo della personalità, che non è uguale per tutti i soggetti: le ricerche longitudinali suggeriscono come la differenza nella stabilità incrementi durante la vita adulta (Roberts e Del Vecchio, 2000; Briley e Tucker-Drob, 2014). Per questo motivo, è importante evitare campioni composti da un range di età ampio per non confondere la stabilità della personalità con i processi di sviluppo (Hopwood e Bleidorn, 2018). Il motivo per cui i disturbi di personalità vengono diagnosticati durante l’età adulta riguarda il fatto che la giovane età può essere indice di instabilità o immaturità nel tratto di personalità sottostante (Hopwood e Bleidorn, 2018). L’ultimo fattore, che riguarda l’influenza del cambiamento e della stabilità nella personalità di un soggetto, indica dei fattori comuni tra gli individui che seguono una traiettoria in qualche modo simile: la ricerca genetica e comportamentale suggerisce un ruolo chiave sia dell’ereditarietà che dell’ambiente (Reichborn-Kiennerud et al., 2015, Briley e Tucker-Drob, 2014; Bleidorn et al., 2009; Hopwood et al., 2011).

Gli umani, probabilmente, sono predisposti a rimanere stabili e a cambiare in certi momenti della vita grazie a dei fattori genetici, mentre le persone selezionano ambienti che influenzano il modo in cui la loro personalità si manifesta nel corso del tempo (Hopwood e Bleidorn, 2018). Non solo specifici tipi di fattori ambientali hanno un impatto sul cambiamento della personalità, bensì la ricerca suggerisce che le persone possano cambiare la loro personalità attraverso la volontà e la pratica (Hudson e Fraley, 2015): l’esempio specifico è la psicoterapia in sé, che può avere un ampio impatto nella riduzione dei tratti (Roberts et al., 2017) e nei sintomi disfunzionali della personalità (Cristea et al., 2017). Tali riflessioni evidenziano delle lacune in letteratura che portano i due autori (Hopwood e Bleidorn, 2018) a suggerire di valutare diversi tipi di stabilità in studi longitudinali, che tengano conto dei fattori sopradescritti (Hopwood e Bleidorn, 2018).

 

Bioetica per perplessi. Una guida ragionata (2016) di Corbellini e Lalli – Recensione del libro

Il volume Bioetica per perplessi fa riflettere su come il progresso scientifico possa offrire nuove opportunità ma anche far sorgere importanti questioni etiche.

 

L’obiettivo che le moderne società si pongono è quello di assicurare il benessere dei propri cittadini. Perché questo avvenga sono importanti i progressi che si fanno nell’ambito della medicina e delle scienze in generale. Il reperimento del benessere passa attraverso il miglioramento della qualità della vita. Rendere la vita di qualità superiore significa dare un senso diverso ad essa e soprattutto cercare di diminuire tutte quelle situazioni che elicitano dolore e disagio.

In questa processualità quali sono i limiti che la scienza deve porsi nell’utilizzare le tecniche per controllare i processi biologici che sono alla base di molte patologie, le modalità di accostarsi al fine vita, l’eventuale sperimentazione di nuovi farmaci, la considerazione dell’inizio della vita e l’eventuale natura dell’embrione umano come depositario della vita? In aggiunta, i progressi delle scienze mediche hanno aperto nuove possibilità terapeutiche nell’ambito dei trapianti, della medicina genetica e della medicina rigenerativa, ponendo non pochi problemi etici relativi al loro utilizzo. D’altra parte, questo nuovo modo di intendere i progressi scientifici pone anche dei problemi di etica della comunicazione scientifica, ovvero essa deve attenersi a criteri di veridicità, ancorati ad una epistemologia autentica, che mettano in rilievo sia le potenzialità, ma anche i limiti della scienza.

Tutte queste tematiche divengono il paradigma fondante della bioetica, una scienza che si occupa di etica della vita. In altre parole, una scienza che riflette sugli aspetti etici della medicina, delle scienze biologiche e delle neuroscienze, in modo tale che i progressi scientifici di cui le nostre società sono portatrici non divengano degli strumenti che invece di elicitare il benessere dei propri fruitori, ne condizionino la loro libertà, creando situazioni di disagio. Di queste argomentazioni si occupa il libro dei professori Corbellino e Lalli, affrontando in maniera analitica le tematiche menzionate.

 

Nag Factor: le strategie del bambino-consumatore

Il concetto di Nag Factor o “Pester Power”, definito in italiano “Fattore Assillo” è uno dei temi più importanti del campo pubblicitario.

 

Descritto come l’abilità del bambino di tormentare i suoi genitori (McDermott, 2006 e Goldstein, 1999), il Nag Factor si esplicita durante l’infanzia e la prima adolescenza per ottenere uno specifico bene di consumo, reclamizzato nello spot televisivo o sotto la spinta e la pressione del gruppo dei pari. Il bambino più piccolo avanza richieste, arrivando a fare capricci o scenate, invece, quello più grande ha più probabilità di scegliere, chiedere e convincere all’acquisto del prodotto agendo con frasi del tipo “Tutti i miei amici lo hanno” o “Non mi vuoi bene, vuoi che sia diverso dagli altri” (Di Pardo, 2016).

Può essere di due tipologie differenti (Kalogerakis, 2017):

  • Assillo persistente: comportamento caratterizzato da richieste ripetitive da parte del bambino, il quale aumenta il volume e il tono della voce e diminuisce la pausa tra una richiesta e l’altra, fino alla resa dei genitori.
  • Assillo d’importanza: comportamento subdolo e ingannevole, in cui le informazioni sono apprese dai media. Il bambino, di solito più grandicello, argomenta le richieste facendo riferimento alla presunta importanza personale del possedere quel determinato prodotto.

Come rispondono i genitori al Nag Factor?

Gli psicologi Lawlor e Prothero, in una loro recente ricerca dal titolo “Pester power, a battle of wills between children and their parents”, indagano le principali reazioni che i genitori attuano in seguito alle richieste di acquisto dei propri figli.

Un articolo redatto da Raffaella Giordano nel 2016, e pubblicato su State of Mind le distingue in dissenso, procrastinazione e negoziazione.

Dissenso

In seguito alle richieste avanzate, la risposta che i bambini ricevono maggiormente è quella del rifiuto. Molteplici sono i modi di dire di no e i bambini sanno quali negazioni potranno mutarsi in un sì attuando strategie di assillo.

  • Il rifiuto deciso. Definito come ‘No categorico’, non consente né discussioni né possibili negoziazioni; le tipiche risposte riportate dai genitori sono “in nessun modo!” o “puoi scordartelo!”.
  • Il dissenso ambiguo. Il genitore nega al bambino l’acquisto di un prodotto ma allo stesso tempo gli propone modalità con cui ottenerlo, utilizzando ad esempio la propria paghetta o i soldi ricevuti in regalo.
  • Il rifiuto debole. In questo caso il genitore rifiuta l’acquisto in maniera non del tutto convincente; il bambino ne approfitta attuando strategie di assillo che potrebbero compromettere la volontà dei genitori.

Procrastinazione

I genitori rinviano l’acquisto di un prodotto ad un momento futuro nella speranza che il bambino si dimentichi. Un classico esempio di risposta di procrastinazione potrebbe essere ‘aspetta, per il tuo compleanno te lo compreremo!’.

I bambini, come suggerisce la ricerca, comprendono la strategia dei genitori e pertanto inizieranno a ricordare costantemente la promessa di acquisto.

Negoziazione

In questo caso il genitore chiede al bambino di svolgere un’attività o un compito in cambio del prodotto tanto desiderato. Tuttavia, vi è il rischio che il bambino incorri in una controtattica, comprendendo di poter utilizzare tutta una serie di comportamenti graditi ai genitori pur di farli cedere e comprare il bene di consumo.

Il Nag Factor è un fenomeno da temere?

Dipende!

Finché il genitore è consapevole di questa dinamica, il Nag factor non è un fenomeno da temere poiché, con la sua maturità, il genitore indirizza e orienta lo sviluppo del bambino come consumatore. Il ruolo dei genitori è quello di riconoscere e comprendere i comportamenti del figlio, impegnandosi ad aiutarlo nel suo percorso di crescita.

Tuttavia, il Nag Factor può essere considerato una minaccia perché incrina il rapporto genitori-figli, creando tensione nella relazione ed esasperazione nel genitore, che acquista l’articolo richiesto pur non volendo cedervi, perdendo in tal modo capacità di potere e autorevolezza (McDermott, 2006).

Il piccolo, infatti, recepisce dalla pubblicità che determinati prodotti sono per lui e non accetta che l’adulto gli neghi tale possesso, considerandolo “cattivo” se ciò dovesse avvenire. Il genitore sarà costretto ad attuare delle contro-mosse convincendo i figli a rispettare la loro scelta educativa (Anna Oliverio Ferraris, 2005).

 

Attualità e prospettive dell’attaccamento. Dalla teoria alla pratica clinica (2021) – Recensione

Attualità e prospettive dell’attaccamento è un viaggio narrato a più voci, che si sviluppa lungo traiettorie diverse e complementari.

 

L’interessante e attuale lavoro a cura di Giorgio Rezzonico e Saverio Ruberti raccoglie riflessioni, aggiornamenti, spunti e ricerche che raccontano le evoluzioni attuali e le prospettive future della teoria dell’attaccamento, in un viaggio che, partendo dalle illuminanti intuizioni di Bowlby, conduce il lettore attraverso apporti, influenze e progressi determinatisi nel tempo, fino ad oggi.

Il viaggio è narrato a più voci, e si sviluppa lungo traiettorie diverse e complementari.

Reda offre un contributo che connette Teoria dell’attaccamento e sistemi complessi. Psicopatologia, senso di sé e funzionamento affettivo e sociale vengono, in quest’ottica, ricondotti all’assenza di consapevolezza emotiva e a meccanismi di disregolazione tipicamente appresi già in età evolutiva. Il terapeuta è tratteggiato come una guida “perturbativa”: una base sicura, che consente al paziente di esplorare, e al contempo lo accompagna a sperimentare le emozioni fino a quel momento evitate e disconosciute, al fine di attribuire loro un personale significato e riappropriarsene.

Ruberti narra l’influenza della teoria dell’attaccamento sulla psicologia cognitiva italiana, ripercorrendo le tappe storicamente significative e delineando l’importanza rappresentata dall’apertura del cognitivismo rispetto al ruolo delle emozioni, dell’intersoggettività e della stessa relazione terapeutica.

Lambruschi illustra un interessante modello a tre assi per la concettualizzazione clinica, che integra, appunto, gli assunti della teoria dell’attaccamento alle organizzazioni di significato personale. Il modello, al quale lavora il gruppo di ricerca TAM della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, viene spiegato nel funzionamento ed esemplificato attraverso la descrizione di un caso clinico.

In successione, i contributi di Farina, Tagliavini e Boldrini si focalizzano in particolare sull’attaccamento disorganizzato, approfondendone le evoluzioni storiche, le applicazioni cliniche nell’ambito della psicopatologia dell’età adulta e della psicotraumatologia, nonché i possibili scenari futuri.

Maggiormente focalizzato sul versante clinico l’apporto di Rezzonico e Pellegrini, che, attraverso la narrazione di un caso clinico (che, peraltro, risulta molto interessante), esemplificano l’utilizzo della teoria dell’attaccamento nell’ambito della psicoterapia di matrice costruttivista e cognitivo-evoluzionista.

Ardito, Mensi e Adenzato presentano i risultati di uno studio longitudinale condotto in Romania (il BEIP, Bucharest Early Intervention Project). La ricerca, finalizzata ad indagare gli effetti dell’istituzionalizzazione e dell’affido sulle traiettorie evolutive dei bambini, si poneva l’obiettivo di comprendere in quale misura lo strumento dell’affido sia una alternativa migliore all’istituzionalizzazione. I ricercatori hanno esaminato le differenze tra i bambini istituzionalizzati o affidati, rispetto a quelli cresciuti nella famiglia di origine, sia rispetto allo stile di attaccamento che in merito al linguaggio, allo sviluppo intellettivo, alle abilità sociali e alla loro risposta allo stress.

A conclusione del testo, lo scritto di Gambarana pone in confronto le diverse concettualizzazioni dell’attaccamento proposte da Giovanni Liotti e Vittorio Guidano, sulle quali condivide stimolanti riflessioni.

Il testo risulta ricco di spunti e di dati, lasciando trasparire il lavoro considerevole compiuto dagli autori. Appare inoltre una lettura importante per intuire le traiettorie future e soprattutto per comprendere quanto la teoria dell’attaccamento, nel suo essere fonte di cambiamento socioculturale rispetto alla visione dell’essere umano e della società, abbia contribuito in modo sostanziale sia alle evoluzioni della Psicologia clinica che all’umanizzazione delle strutture socioeducative e assistenziali.

 

La co-ruminazione come variabile che media la relazione tra utilizzo dei social network e sintomi internalizzanti negli adolescenti

Data la centralità dell’uso dei social media nella vita degli adolescenti, è fondamentale esaminare i potenziali meccanismi di rischio interpersonali che possono essere alla base del legame tra l’uso dei social media e i sintomi internalizzanti.

 

Adolescenti e social network

Ad oggi, il 95% degli adolescenti possiede o ha almeno accesso ad uno smartphone e il 97% di loro riferisce di utilizzare i social media (Anderson & Jiang, 2018). Non è per cui sorprendente che l’utilizzo dei social media sia ormai divenuto un’attività di routine nella vita quotidiana degli adolescenti, cambiando la modalità con cui essi comunicano, permettendo una connettività quasi costante attraverso il loro utilizzo (Lenhart, 2015).

Molti studi si sono focalizzati sullo scarso benessere psicologico che accompagna un utilizzo frequente dei social media nei giovani adulti, mostrando che l’utilizzo dei social media è associato a sintomi internalizzanti quali ansia e depressione (Vannucci et al., 2017). Risulta essere plausibile che l’uso dei social media svolga un ruolo critico anche durante la prima adolescenza, quando gli adolescenti sono alle prese con l’esplorazione dell’identità, l’autonomia e i cambiamenti nelle relazioni tra pari (Gerwin et al., 2018).

Adolescenti e co-ruminazione

La ricerca ci mostra che le relazioni tra pari giocano un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo sociale ed emotivo durante il periodo adolescenziale (Rose & Rudolph, 2006) e che l’impegno ripetuto in co-ruminazione, ovvero la discussione riguardo i propri problemi personali con i coetanei (Spendelow et al., 2017), può avere sia effetti positivi che negativi sul benessere esperito dagli adolescenti (Rose & Rudolph, 2006). Ad esempio, la co-ruminazione può rappresentare una risposta adattiva al disagio psicologico apportando una maggiore intimità con gli amici, può promuovere la vicinanza emotiva e il sostegno sociale (Rose et al., 2007). Nonostante ciò, l’impegno frequente in un comportamento negativo e co-ruminativo può esacerbare il disagio e portare a sintomi internalizzanti (Spendelow et al., 2017).

Inoltre, un maggiore utilizzo dei social network può influenzare la frequenza del comportamento co-ruminativo tra adolescenti (Murdock et al., 2015). Essi, nel tentativo di far fronte a sentimenti negativi o fattori di stress, potrebbero utilizzare i social network con lo scopo di mantenere la connettività sociale e il sostegno, nonostante questi si rivelino non sempre utili nel fornire tipi di legami sociali e meccanismi di coping funzionali per proteggersi dallo sviluppo di problemi internalizzanti (Bickham et al., 2015).

Data la centralità dell’uso dei social media nella vita degli adolescenti, risulta fondamentale esaminare i potenziali meccanismi di rischio interpersonali che possono essere alla base del legame tra l’uso dei social media e i sintomi internalizzanti. Uno studio molto recente (Ohannessian et al., 2021) ha affrontato importanti lacune nella letteratura esaminando le associazioni longitudinali tra l’uso dei social media e i sintomi internalizzanti in un campione di adolescenti. Data la salienza delle relazioni interpersonali durante questo vulnerabile periodo di sviluppo, lo studio ha anche esplorato il potenziale ruolo di mediazione della co-ruminazione.

Adolescenti, social media e sintomi internalizzanti

I risultati hanno dimostrato che l’utilizzo quotidiano dei social network non ha predetto un aumento di sintomi internalizzanti come depressione e ansia, al contrario dei risultati ottenuti in letteratura per i giovani adulti (Vannucci et al., 2017), rendendo plausibile quindi l’ipotesi che la fase di sviluppo possa giocare un ruolo in questa discordanza di risultati. Infatti, alcuni autori suggeriscono che la relazione tra l’uso dei social media e il benessere psicologico è moderata dall’età (Hardy e Castonguay, 2018).

Nonostante l’uso dei social media non fosse direttamente correlato ai sintomi internalizzanti, si è visto che l’uso dei social prevedeva un maggiore impegno nella co-ruminazione, che a sua volta prevedeva un aumento dei sintomi internalizzanti. Nello specifico, quindi, la co-ruminazione sembra mostrarsi come una variabile che media la relazione tra l’uso dei social media e i sintomi dell’ansia. Data la facile accessibilità ai social da parte degli adolescenti, è probabile quindi che un uso più frequente dei social media possa fornire un maggior numero di opportunità per impegnarsi nella co-ruminazione con i coetanei. In relazione quindi ai risultati che mostrano la co-ruminazione come un comportamento collegato ad una serie di risultati psicosociali positivi, come una maggiore vicinanza e sostegno dell’amicizia percepita (Felton et al., 2019), potrebbe essere che la co-ruminazione non verbale guidata dai social media possa invece minimizzare le opportunità per gli adolescenti di sperimentare questi benefici interpersonali.

Infine, non sono state riscontrate differenze di genere all’interno del campione utilizzato, suggerendo che impegnarsi nella co-ruminazione può essere dannoso per la salute psicologica degli adolescenti, indipendentemente dal sesso. Questo risultato è particolarmente sorprendente poiché in contrasto con i risultati in letteratura che sembrano indicare differenze di genere sia per quanto concerne la co-ruminazione che per i sintomi internalizzanti (Felton et al., 2019; Rose, 2002). Diverse ricerche hanno infatti mostrato che le ragazze adolescenti tendono a impegnarsi più frequentemente nella co-ruminazione all’interno di diadi di amicizia dello stesso sesso, e successivamente riportano un maggiore disagio psicologico (Schwartz-Mette & Rose, 2012).

In conclusione, lo studio qui presentato ha identificato un importante meccanismo interpersonale che può aiutare a spiegare il legame tra l’uso dei social media e i problemi internalizzanti durante un periodo delicato e vulnerabile dello sviluppo come l’adolescenza. I programmi di prevenzione e di intervento progettati per diminuire gli effetti negativi che l’uso dei social media può avere sull’adattamento psicologico degli adolescenti dovrebbero mirare alla co-ruminazione come comportamento modificabile e includere l’addestramento all’uso di strategie di coping più positive e adattive. Inoltre, tali programmi dovrebbero insegnare agli adolescenti a riconoscere gli effetti potenzialmente negativi dell’uso frequente dei social media e della co-ruminazione con i coetanei.

 

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