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L’impatto della “cultura della principessa” sulla concezione soggettiva di amore e romanticismo

Lo studio di Koontz et al. (2017) ha esaminato come le giovani donne percepiscono le rappresentazioni dei media delle principesse e come la ‘cultura della principessa’ influenza la costruzione delle loro relazioni romantiche.

 

L’amore romantico è, storicamente, un amore femminilizzato. L’impatto della cultura della principessa nell’immaginario delle giovani donne sull’amore e sul romanticismo rimane sconosciuto, sennonché teorici e ricercatori esprimono la preoccupazione che le favole possano spingere le ragazze a cercare relazioni romantiche basate su beni mercificati e/o su un “principe azzurro” che si prenda cura di loro.

L’impatto dei media nella cultura della principessa

Le rappresentazioni dei media giocano un ruolo fondamentale, in quanto hanno un impatto distinto e misurabile sulla comprensione della realtà. Balraj e Gopal (2013) hanno rilevato che gli individui organizzano la conoscenza del mondo che li circonda ordinando e semplificando le informazioni ricevute tramite i media, creando determinate rappresentazioni della realtà aventi un’influenza significativa sulla cognizione sociale, la comprensione, l’anticipazione e il controllo emotivo. La letteratura popolare e i media offrono un focus esplicito sulla cultura della principessa, tuttavia l’interesse predominante della ricerca accademica sui messaggi che rispecchiano l’etica e il ritratto dell’amore ideale si ripercuote sui film di Walt Disney. Alcuni studi hanno trovato che i film Disney descrivono la felicità come raggiungibile trovando un compagno di vita, le relazioni come facilmente mantenute attraverso l’immagine di un “amore a prima vista”, e le differenze di potere che favoriscono gli uomini sulle donne. Sulla base della prevalenza di questi temi e delle aspettative riportate, le giovani donne possono essere influenzate notevolmente dalla cultura popolare, così che le rappresentazioni mediatiche idealizzate dell’amore potrebbero perpetuare complicazioni tra aspettative ed esperienze vissute. Mentre gli studi esistenti suggeriscono che le donne possono essere influenzate da questi stereotipi, ulteriori ricerche possono far luce sulle concezioni dell’amore al fine di determinare come le giovani donne mettono in relazione le definizioni di amore e romanticismo con la cultura della principessa, includendo e/o superando tali copioni specifici della Disney. Lo studio di Koontz et al. (2017) ha tentato di esaminare i modi in cui le giovani donne percepiscono le rappresentazioni dei media delle principesse e come questo influenza la costruzione delle loro relazioni romantiche.

Come la cultura della principessa influenza le relazione romantiche

Tramite campionamento teorico (Charmaz, 2006) gli autori hanno reclutato studentesse universitarie iscritte a facoltà umanistiche e scientifiche per raccogliere diverse prospettive del fenomeno. Per supportare ulteriormente le differenze presenti nel campione i ricercatori si sono focalizzati sulla diversità, sulle minoranze e problematiche legate all’identità di genere. Il corpo studentesco era composto prevalentemente da donne caucasiche (57%), con una percentuale del 10% di donne afro americane e del 21% di ispaniche. I dati sono stati raccolti tramite un’intervista semi-strutturata, proposta a studentesse già coinvolte in uno studio sulla definizione del concetto di cultura della principessa, in cui venivano poste delle domande riguardo a quale impatto avesse quel tipo di cultura sulla loro vita universitaria. Le domande erano incentrate su come le partecipanti definissero l’amore ed il romanticismo e come potessero essere collegati o confrontati. La prima domanda era sempre “Come definiresti la cultura della principessa?”, seguita da domande pertinenti alle definizioni date dalle partecipanti riguardo a come si fossero sentite influenzate da suddetta cultura durante la loro crescita, soprattutto rispetto alle loro relazioni interpersonali. Le risposte indicavano il livello di influenza della narrativa fiabesca rispetto alla loro definizione dell’amore e ciò che i media definissero tale. Nel rispondere, le partecipanti facevano riferimento ad esempi derivati da libri, film o serie tv per supportare le loro idee e collocarle in un contesto culturale più generico. Durante la prima parte di analisi i ricercatori hanno codificato i termini emersi durante i focus groups legati all’amore, romanticismo, femminilità e matrimonio (Berg, 2009). Successivamente è stata fatta una codifica “line-by- line” per identificare i temi principali inerenti all’amore ed al romanticismo (Charmaz, 2006). Infine i ricercatori hanno comparato i dati raccolti con quelli ottenuti nella letteratura precedente per renderli fondati (Charmaz, 2006; Glaser and Strauss, 1967).

La cultura della principessa tra razionalità e idealizzazione

Dalla ricerca è emerso che nonostante si parta da una logica di amore razionale, la quale implica una visione dell’amore sostenibile attraverso il tempo e il lavoro di entrambi i partner (Illouz, 1991), i modi in cui le partecipanti hanno interpretato le rappresentazioni mediatiche dell’amore e della cultura della principessa differivano. Nello specifico, le giovani donne alle prese con l’interpretazione della cultura della principessa, sembravano affrontare un conflitto tra amore ideale e amore razionale, che si andava risolvendo con l’avvicinamento alla cultura della principessa o, al contrario, prendendo le distanze da questa visione romantica. La maggior parte delle partecipanti non era d’accordo con le rappresentazioni dell’amore romantico proposte dai media, definendole superficiali e in grado di costruire aspettative irrealistiche e stravaganti. Si preferisce spiegare l’amore attraverso la cornice della vita quotidiana, allontanandosi dai finali ideali proposti dalle fiabe percepiti come al di fuori del regno dell’amore razionalizzato. Nessuna relazione può essere considerata perfetta, perciò la realtà è che le relazioni sentimentali richiedono un lavoro e un impegno quotidiano (Illouz, 1997). Questa prospettiva si discosta dai copioni sull’amore romantico a cui le donne sono state esposte durante la giovinezza e dai quali si sono distaccate grazie al buon senso derivato dalle esperienze vissute che non sostenevano queste rappresentazioni idealizzate. Il processo di allontanamento dagli stereotipi sull’amore romantico implica la costruzione di sé sostitutivi, pertanto si può interpretare l’ambientazione dell’intervista come un luogo in cui si fa un discorso sull’identità che aiuta a comprendere come le partecipanti non stiano solo definendo le relazioni romantiche ma si stiano costruendo anche come persone razionali (Opsal, 2011). Le storie di alcune donne suggeriscono una nostalgia positiva associata alla narrazione delle principesse, utilizzata probabilmente come strumento di evasione dagli eventi negativi. Ad esempio, il divorzio dei genitori se vissuto in modo traumatico e in un’età precoce, può portare ad una maggiore dipendenza dai modelli di amore romantico. Dallo studio è emersa la necessità di continuare a sfidare gli ideali dell’amore romantico proposti dai media attraverso l’istruzione e la socializzazione nel tentativo di ampliare la consapevolezza che l’amore può e deve essere sano.

 

Guarire dalla dipendenza affettiva: tra resistenze e autonomie personali

La dipendenza affettiva ha conseguenze devastanti sulla qualità di vita, conducendo al totale annullamento della persona che ne soffre.

 

Diventa fondamentale, infatti, guidare il paziente verso il cammino della guarigione, permettendogli di riconquistare la propria autonomia e recuperare il controllo sulla propria vita: per poter intraprendere questo percorso è necessario che il dipendente riesca a sviluppare la consapevolezza della propria vulnerabilità, per poi decidere di reagire iniziando ad impegnare le proprie energie nel soddisfacimento dei propri bisogni e valori, nonostante si tratti di una scelta molto difficile per il dipendente affettivo, convinto di dover dedicare del tempo solo alle altre persone per non permettere loro di abbandonarlo. Questo percorso è finalizzato a permettere al dipendente di recuperare la propria autonomia, aiutandolo a sentire di non aver bisogno di altre persone per esistere: man mano che il dipendente impara a soddisfare i propri bisogni aumenta anche la fiducia in se stesso, nonché la consapevolezza di doversi prendere cura di sé, per raggiungere la stessa felicità che appare utopistica in condizioni di dipendenza affettiva. Il dipendente viene guidato a conoscersi realmente ed accettarsi, riconquistando la propria libertà (Serra, 2000).

Uno dei primi passi in questo percorso, finalizzato alla guarigione dalla dipendenza affettiva, si manifesta proprio nell’accettare la solitudine, riconoscendola come un’occasione per riflettere su se stessi, conoscere le proprie risorse e offrirle consapevolmente alle persone importanti; si tratta però di un aspetto che spesso impaurisce il dipendente affettivo, conducendolo all’isolamento e a piccoli episodi di depressione che culminano nella “noia” che il dipendente percepisce nella sua vita quotidiana, ormai priva di qualsiasi tipo di interesse personale.

Ricentrarsi per guarire dalla dipendenza affettiva

Dopo aver accettato la solitudine, è necessario riuscire a ricentrarsi (attribuendo valore adeguato alle proprie idee, emozioni, obiettivi e sensazioni); ricentrarsi vuol dire anche utilizzare il proprio tempo e le proprie energie per fare qualcosa che risulti effettivamente soddisfacente a livello personale, vuol dire riuscire a proporre attività gradevoli, nonché riuscire a dire di no senza avere paura che questo rifiuto implichi necessariamente una perdita. Ricentrarsi, dunque, costringe il dipendente a porsi numerose domande che gli permettano di ascoltare se stesso, comprendere i propri interessi reali e coltivarli, senza continuare a sacrificarli per soddisfare quelli altrui. Se il processo di ricentramento funziona, il dipendente arriva anche ad affermarsi, ossia ad appropriarsi della propria vita, facendosi rispettare dagli altri per ciò che è realmente, senza continuare a sentirsi costretto a soddisfare i desideri degli altri, assicurandosi così la loro vicinanza: l’auto-affermazione permette al dipendente di capire che il proprio giudizio vale quanto quello altrui, gli permette di porre dei limiti e di far rispettare i propri spazi, per cui si tratta anche di un’occasione per capire quali persone siano disposte a continuare a stargli accanto quando esce dalla condizione di “schiavitù” insita nella dipendenza affettiva. L’aspetto cardine che potrebbe condurre a superare effettivamente la dipendenza affettiva è riuscire a sviluppare la propria autostima poiché essa permetterà al dipendente di elaborare delle scelte consapevoli, eliminando la tendenza ad accontentarsi pur di non rimanere da solo, poiché lo sviluppo dell’autostima permette di cambiare le priorità: comprendendo il proprio valore, il dipendente non avrà più bisogno di fondersi con un’altra persona, ma inizierà la ricerca di una relazione in cui entrambi i membri riescano ad esprimere a pieno se stessi. L’autostima è uno dei presupposti per il raggiungimento della felicità e, una volta sviluppata, permette al dipendente di capire di non aver bisogno dell’altro per essere felice, ma solo delle sue risorse interiori (Passerone, 2001).

Il processo di guarigione dalla dipendenza affettiva, dunque, implica un cambiamento del paziente che deve riuscire a gestire le emozioni tipiche che lo pervadono (senso di colpa, vergogna, paura dell’abbandono) per sostituirle con nuove risorse interiori (fiducia e conoscenza di sé, amor proprio). Generalmente il dipendente affettivo prova vergogna per i suoi comportamenti, arrivando a sentirsi anche profondamente in colpa, ritenendo di essere causa di qualsiasi problematica propria e del partner: il senso di colpa è fra le principali caratteristiche della dipendenza affettiva e convince il dipendente di aver bisogno di asservirsi sempre di più al partner per espiare le sue colpe (spesso inesistenti). Senso di colpa e vergogna, dunque, camminano di pari passo: la vergogna porta il soggetto a svalutarsi completamente, arrivando a provare disprezzo e rifiuto per se stesso, aspetti che tendono a far aumentare parallelamente anche il senso di colpa. Il dipendente segue il partner come un guru, che spesso inizia a pretendere sempre di più dal dipendente e a gratificarlo sempre meno, conducendolo a provare vergogna anche quando non dovrebbe (De Totrou, 2002). Quest’insieme di sensazioni negative conduce ad un’estrema paura dell’abbandono.

Sviluppare la fiducia in se stessi per superare la dipendenza affettiva

Uno dei primi passi per giungere a liberarsi dalla dipendenza affettiva è riuscire a sviluppare fiducia in se stessi e nelle proprie capacità; il dipendente tende ad accumulare delusioni per la sua totale dedizione al partner e, non trovando altri soggetti disposti a ricambiare le sue aspettative, decide di vivere una vita senza fiducia, né verso se stesso, né verso gli altri, né verso il mondo. La mancanza di fiducia però conduce alla svalutazione di sé: per riuscire a riconquistarla, il dipendente deve accingersi in un percorso complesso che lo conduca a sentirsi libero di modificare i suoi pareri, di dire di no, di poter sbagliare. Il dipendente affettivo, infatti, nonostante conosca perfettamente la persona oggetto della sua dipendenza, ha una scarsissima conoscenza di sé, per cui sarà ancora più difficile riuscire a riaffermarsi poiché spesso guardarsi dentro equivale ad intraprendere una conoscenza con una persona nuova, di cui non si sa nulla. Il dipendente, dunque, per non rivestire più questo ruolo deve conoscersi e accettarsi, amarsi e donarsi consapevolmente e adeguatamente, dedicarsi anche a se stesso (servendosi anche di un pizzico di egoismo funzionale) per riconoscersi come importante e non preoccuparsi eccessivamente del parere altrui.

La fiducia in se stessi permette anche lo sviluppo dell’autonomia, meta particolarmente lontana per il dipendente affettivo che deve riuscire a valorizzarsi, iniziando ad agire in prima persona senza continuare ad aspettare l’approvazione degli altri; l’autonomia implica la capacità di scegliere, valutando le proprie priorità e, conseguentemente permette al dipendente affettivo di “iniziare a vivere una vita di cui è il protagonista indiscusso”, scoprendo e coltivando le proprie passioni e i propri talenti, fino ad allora, nascosti. Per il dipendente affettivo, lo sviluppo dell’autonomia, implica anche il rinunciare ad una posizione fin troppo “comoda”: il dipendente, infatti, è abituato a non pensare, non prendere decisioni e non assumersi responsabilità, lasciandosi trasportare dalle scelte altrui, ma quando riuscirà a raggiungere un traguardo da solo, quando sarà davvero autonomo, proverà una soddisfazione tale da chiedersi cosa l’abbia spinto a rimanere nell’ombra delle altre persone fino a quel momento (Marchetti, 2004).

La difficoltà della separazione nella dipendenza affettiva

Il dipendente, inoltre, manifesta evidenti difficoltà nel riuscire a superare la separazione da persone importanti: la perdita infatti per il dipendente ha un significato particolare e sembra che quest’ultimo riesca ad accettare con più facilità il dolore del lutto vero e proprio, rispetto a quello della rottura di un legame, poiché in questo caso c’è il rischio di incontrare nuovamente il soggetto del proprio malessere, cadendo ancora una volta nel baratro della sofferenza e favorendo il rimuginare sui propri errori, spesso inesistenti; se il dipendente riesce a percorrere adeguatamente i vari passi per giungere all’auto-affermazione, riuscirà anche ad affrontare le perdite con più tranquillità, rendendosi conto di dover guardare al presente e ricostruirlo, piuttosto che continuare a rimanere bloccato in un passato che continua inevitabilmente ad arrecargli sofferenza, poiché contraddistinto da pensieri disfattisti tipici del dipendente affettivo (es. non avere altre scelte, sprecare le proprie opportunità): il dipendente, dunque, dovrebbe essere guidato a capire che ognuno è artefice del proprio destino, che sia sempre presente una scelta diversa da quella effettuata, che sia necessario porsi al primo posto ed imparare anche a dire “no”, quando risulta necessario per impedire alle altre persone di approfittare della propria disponibilità, spingendo anche allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, riconosciuta come la capacità di non lasciarsi sopraffare dalle proprie emozioni, riuscendo a gestirle e ad usarle in maniera funzionale (Rizzoli, 1996).

Il cammino verso la guarigione dalla dipendenza affettiva, dunque, risulta lungo e tortuoso, poiché spesso il dipendente deve riuscire a superare le sue resistenze (ricordiamo che una delle sue paure principali è proprio il cambiamento) e deve avere la pazienza di aspettare, senza pretendere utopisticamente di poter cambiare dall’oggi al domani.

 

Alimentazione e Covid-19: gli effetti del lockdown sull’alimentazione emotiva e sul binge eating

Diverse persone riferiscono di aver mangiato di più durante il lockdown e di aver avuto abitudini alimentari complessivamente più malsane.

 

Il lockdown e i suoi effetti

Il lockdown, imposto per contenere la rapida diffusione del Covid-19, ha previsto il blocco della maggior parte delle attività (es. scuole, università, palestre, ristoranti, uffici, attività commerciali) e l’isolamento sociale, impedendo le uscite al di fuori delle proprie abitazioni. L’incertezza per il futuro venutasi a creare, assieme alle limitazioni imposte durante la Fase 1 e la Fase 2 del lockdown, hanno provocato una serie di problemi psicologici. Su 18.000 risposte di un sondaggio sulla popolazione italiana, il 37% dei partecipanti ha manifestato sintomi di stress post-traumatico e circa il 20% ha riscontrato depressione, ansia o un elevato stress percepito (Rossi et al., 2020).

Le emozioni negative provate durante il periodo di chiusura hanno avuto impatto anche sul comportamento alimentare delle persone. Molte riferiscono di aver mangiato di più durante il lockdown e di aver avuto abitudini alimentari complessivamente più malsane, come il consumo di comfort food (alimento a cui si attribuisce un valore consolatorio, nostalgico e/o sentimentale), attribuendo questi cambiamenti nell’alimentazione ad una maggiore ansia esperita (Robinson et al., 2021; Scarmozzino & Visioli, 2020).

Il legame tra stress ed alimentazione

La letteratura ci mostra che lo stress e le emozioni negative come ansia e depressione predicono abitudini alimentari disfunzionali come il binge eating e l’alimentazione emotiva (Talbot et al., 2013; Rosenbaum & White, 2015). Per binge eating si intende l’ingestione di una grande quantità di cibo in un periodo di tempo limitato, associato ad una sensazione di perdita di controllo durante l’episodio (American Psychiatric Association, 2013). L’alimentazione emotiva, invece, è il mangiare non in risposta a stimoli di fame e sazietà, ma in risposta a stimoli emotivi come ansia, rabbia e paura (Van Strien et al., 1986).

La relazione tra alimentazione disfunzionale ed emozioni negative è mediata da due fattori in particolare: peso corporeo e livelli di alessitimia, ovvero la difficoltà nel percepire ed interpretare correttamente le proprie sensazioni emotive, distinguendole dalle sensazioni fisiche (Sifneos, 1973). Entrambe queste dimensioni possono quindi contribuire all’aumento di abitudini alimentari disfunzionali (Geliebter & Aversa, 2003). In particolare, l’alessitimia, riducendo la capacità di identificare gli stati emotivi e di distinguerli dai segnali interni di fame e sazietà, porta gli individui a regolare le proprie emozioni attraverso l’assunzione di cibo (Pink et al., 2019; Tan & Chow, 2014).

Effetti del lockdown sull’alimentazione

Uno studio di Cecchetto e colleghi (2021) ha indagato l’influenza dalle emozioni negative suscitate durante il lockdown (ansia, depressione e stress) e delle caratteristiche sociali che hanno caratterizzato la qualità della vita durante il lockdown (status socio-economico, isolamento sociale e qualità delle relazioni e della residenza domiciliare) sul comportamento alimentare degli italiani durante la Fase 1 e la Fase 2 del lockdown.

Per meglio inquadrare l’influenza di questi aspetti, lo studio ha incluso le caratteristiche personali degli individui come l’indice di massa corporea e il livello di alessitimia per capire come le caratteristiche personali interagiscono con emozioni e limitazioni del lockdown.

I risultati hanno dimostrato che le emozioni negative e la scarsa qualità della vita percepita durante la Fase 1 e la Fase 2 del lockdown hanno portato ad un consistente aumento di abitudini alimentari disfunzionali come l’alimentazione emotiva e il binge eating, rispetto alla prevalenza in Italia nella popolazione normale.

Nello specifico, livelli più alti di ansia e depressione e più bassi livelli di qualità della vita percepita hanno predetto maggiori livelli di alimentazione emotiva, mentre, maggiori livelli di stress hanno predetto maggiori episodi di abbuffate.

In questo studio, la qualità della vita di un individuo è stata valutata tramite un indice della quantità e della qualità dello spazio personale in casa, del reddito familiare e della qualità e quantità di relazioni. Quello che gli autori hanno riscontrato è che coloro che riferivano una qualità di vita inferiore sono stati più vulnerabili alle conseguenze negative dell’ansia, portandoli a maggiori rischi di sviluppare abitudini alimentari disfunzionali.

Oltre che su coloro con livelli di qualità di vita inferiori, il lockdown ha creato maggiori conseguenze in termini di alimentazione disfunzionale sugli individui con punteggi di indice di massa corporea e alessitimia più elevati. In particolare, soggetti con più alti livelli di alessitimia hanno mostrato un aumento di alimentazione emotiva, mentre punteggi di BMI più elevati erano associati sia a un aumento dell’alimentazione emotiva che al binge eating.

Un altro interessante risultato risiede nella differenza riscontrata tra la Fase 1 e la Fase 2: rispetto alla Fase 1, nella Fase 2 i punteggi dell’alimentazione emotiva sono diminuiti significativamente. Questa differenza dei punteggi potrebbe essere dovuta anche alla relazione tra alimentazione emotiva e la qualità delle relazioni percepita durante il periodo di chiusura. Gli individui che hanno riportato una qualità delle relazioni inferiore hanno presentato un’alimentazione emotiva più elevata durante la fase 1 rispetto alla fase 2; è probabile per cui che, durante la Fase 1, essendoci state maggiori restrizioni dal punto di vista sociale ed avendo percepito più negativamente le relazioni interpersonali, le emozioni negative come ansia, depressione e stress siano aumentate, influenzando quindi l’alimentazione emotiva.

Concludendo, i risultati suggeriscono che le emozioni negative sperimentate a causa del lockdown hanno aumentato i comportamenti alimentari disfunzionali, portando ad un aumento dell’alimentazione emotiva e del binge eating. Saranno necessari ulteriori studi per far luce sugli effetti a lungo termine del lockdown sul comportamento alimentare delle persone.

 

Argonauti e Xanax – Recensione dello spettacolo teatrale

Argonauti e Xanax nasce dal progetto svolto in due classi di liceo dove, partendo da immagini e situazioni riportate come fonti di ansia per i ragazzi, si è giunti alla composizione di una rappresentazione teatrale.

 

Lo spettacolo Argonauti e Xanax, scritto e diretto da Daniele Vagnozzi e portato in scena al Teatro Binario 7 dalla Compagnia Caterpillar dopo una preparazione svoltasi in residenza artistica al Filodrammatici, nasce da un progetto sociale che ha coinvolto due classi del Liceo Statale Carlo Porta di Monza in una successione di incontri con le psicologhe dell’Associazione “Jonas Monza Brianza”.

Il progetto, denominato Argonauti e Xanax – L’età dell’ansia, ha ricevuto il patrocinio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia insieme al sostegno di “Fondazione della Comunità di Monza e Brianza”, estendendosi anche all’informazione social attraverso interviste a psicologhe e psicologi sul tema dell’ansia, realizzate dal canale della Compagnia. Gli incontri a scuola hanno tracciato un percorso dalle immagini alle parole dell’emozione, iniziando dall’analisi di rappresentazioni visive – una ragazza da sola sommersa dai libri, uno stadio deserto, una classe vuota, un uomo con la maschera e molte altre – tra le quali ogni studente sceglieva quella maggiormente in grado di provocargli ansia, motivandone la ragione; in seguito è stato chiesto quali fossero le azioni con cui ciascuno di loro riusciva a gestire i propri stati di agitazione, e le risposte sono diventate una composizione drammaturgica, un testo registrato dalle voci degli attori di Argonauti e Xanax, ma costruito riportando integralmente le parole dei ragazzi.

A coronamento di questo viaggio compiuto dai giovani Argonauti alla scoperta della propria interiorità, lo spettacolo teatrale. Un gruppo di amici appena diplomati è uno spaccato di caratteri adolescenziali, insicurezze, sogni, desiderio di libertà. Marco è il letterato, l’aspirante scrittore giramondo, ma trattiene a stento una rabbiosa malinconia per essere ormai il personaggio che supera la persona, simbolo per gli amici di una forza estroversa che si riprende dopo ogni difficoltà raccontando storie e usandole per sostenersi, ingannarsi o intrattenere un uditorio inconsapevole della sua sofferenza. Il suo viaggio della vita è già deciso, sarà il Perù, l’inizio di una conquista umana che a vent’anni sa di liberazione dai vincoli aridi e costrittivi della piccola realtà che l’ha tenuto ingabbiato in tutti questi anni. Il viaggio della vita però, sarà un precipitoso ritorno a casa per chiudersi, in casa, stretto fra le maglie dolorose degli attacchi di panico, la paura degli altri, della luce, di un mondo troppo grande, aperto, indeterminato. Gli amici vogliono recuperarlo al legame di un tempo, lo cercano mostrando ciascuno il proprio modo di avvicinarsi, di intendere la sofferenza.

Non è semplice comprendere cosa stia accadendo a Marco, cogliere l’incomunicabilità di quel malessere capace di attanagliare proprio chi, servendosi delle parole, attirava lo sguardo affascinato delle persone. Ora Marco non vuole parlare, non vuole dire. È soltanto di Sara che lentamente si fida e accorcia la distanza, Sara che gli offre il suo Xanax come rimedio al male dell’ansia e ci aggiunge un carico di alcol a cui entrambi affidano la missione di stordirli, di farli rimanere sospesi tra l’oblio e la leggerezza. Non è una buona idea, questa idea da adolescenti disperati, e rischiare la vita porta se non altro la consapevolezza di dover tornare a soluzioni più ragionevoli. Ci sono gli amici, ci sono ancora gli amici della maturità, per ritrovarsi avendo sfatato il tabù del sentirsi deboli, ché anche in quel caso ci si può aiutare, anzi, soprattutto in quel caso.

Argonauti e Xanax è un testo che scorre agile, recitato da attori di talento e con una regia efficace, asciutta. Mette insieme elementi di una narrativa sull’adolescenza che racchiude la vitalità, l’impulsività e allo stesso tempo la natura contraddittoria di molti comportamenti che la caratterizzano. La ricerca di una frontiera più lontana, di un respiro più ampio che soffi verso la realizzazione delle proprie ambizioni non protegge dalle incognite dei conflitti emotivi, non offre tutele adeguate davanti alle possibili delusioni, al possibile fallimento. È in quegli interstizi che si insinua l’ansia col volto cangiante che l’accompagna, a minare le certezze e a rendere spaventose le speranze. Se ne può parlare però, si può fare parola di una compagna di viaggio che altrimenti diventa un mostro; parola e relazione, relazione con gli altri, con chi riesce a ispirare fiducia normalizzando ciò che altrimenti rimane sproporzionato e addirittura indicibile. Servono anche a questo le buone amicizie, serve anche a questo una scuola non giudicante, come quella che dà ai ragazzi la possibilità di svelare le proprie paure. E la psicologia, scienza giovane per eccellenza. Può servire anche lo Xanax? All’occorrenza sì, rigorosamente con acqua.

 

Le facce di Narciso

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, si presenta con numerosi “volti” figli del medesimo nucleo psicopatologico, che rendono l’idea di un sistema molto più complesso di quanto appare.

 

E più profondo ancora è il significato della storia di Narciso:
non riuscendo ad afferrar l’immagine soave,
tormentosa che scorgeva nella fonte, si tuffò e morì annegato.
Ma quella medesima immagine noi stessi la scorgiamo in ogni fiume e in ogni oceano.
È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita: e questa è la chiave di tutto. (Herman Melville, Moby Dick o la balena).

Quante volte abbiamo sentito dire: “Sei un Narcisista!” e quanto spesso l’abbiamo detto noi? Questo termine, al giorno d’oggi cosi inflazionato, talvolta utilizzato con un’accezione negativa come scusa o come spiegazione più o meno logica a comportamenti subiti o manifestati nei confronti di qualcuno, racchiude in sé il significato stereotipato di colui che prova un amore smisurato per la propria persona al punto da non riuscire a spostare l’attenzione da sé e rivolgerla altrove.

In una cultura come quella in cui viviamo, dove l’esibizionismo e il solenne riconoscimento dei propri meriti sono sempre più rinforzati dal contesto, non è facile identificare la linea di demarcazione fra un tratto narcisistico e un tentativo di conformismo culturale.

Innanzitutto prima di addentrarci nel concetto vero e proprio di disturbo narcisistico di personalità, è necessario premettere che tutti noi possediamo dei tratti narcisistici ed è grazie ad essi se siamo in grado di perseguire i nostri obiettivi, di gioire dei successi e riuscire ad avere un certo grado di stima di sé senza presunzione, trovando un buon equilibrio tra il bisogno di riconoscimento e la capacità di poterne fare a meno.

Inoltre è necessario sottolineare il fatto che non esiste una persona “Narcisista”, ma vi è una struttura di personalità narcisistica in un individuo che possiede una serie di altre strutture, solo che in certe situazioni questa appare maggiormente dominante.

Per quanto concerne l’essenza del disturbo, possiamo dire che i suoi connotati appaiono spesso mitizzati dal senso comune che tende ad etichettare il Narcisismo come una caratteristica appartenente ad un freddo manipolatore, incapace di amare, che sfrutta l’altro solo per il raggiungimento dei propri fini. Tutto ciò non è sbagliato, tuttavia, le caratteristiche del disturbo sono molto più ampie e non catalogabili in un’unica spiegazione.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, si presenta con numerosi “volti” figli del medesimo nucleo psicopatologico, che rendono l’idea di un sistema molto più complesso di quanto appare.

Sebbene il sistema nosografico descrittivo (DSM-5) ne risulti privo, nel tempo numerosi autori hanno cercato di definirne i vari sottotipi al fine di ottenere una classificazione in grado di esemplificare la pratica clinica.

Sono state rintracciate tre sottocategorie di narcisismo dai confini spesso labili:

  • Sottotipo Inconsapevole o Grandioso (OVERT): qui ci troviamo di fronte a persone indifferenti ai bisogni altrui che utilizzano l’altro in modo utilitaristico anche all’interno delle relazioni di natura affettiva, l’altro serve solo per riflettere se stessi e la propria grandiosità. Hanno bisogno di costante e continua ammirazione e gratificazione, sono privi di rimorsi di coscienza e appaiono spesso come persone carismatiche per le quali provare rispetto e adorazione.
  • Sottotipo vulnerabile o ipervigile (COVERT): all’apparenza un tipo sensibile, fragile ed insicuro, una persona ansiosa spesso in stato di allerta, teme il rifiuto degli altri al punto da essere ipersensibile al giudizio e alla critica. Si sente solo, incompreso e ingiustamente malvoluto, dilaniato da un profondo senso di colpa. Tuttavia, ciò che alberga dietro questa maschera di marcata remissività è un’immagine di sè grandiosa e ipertrofica che si alterna a stati depressivi e d’ansia.

Ciò che accomuna ambedue i casi è una profonda ferita nella vulnerabilità e nell’autostima, che rappresenta il carburante che alimenta il senso della competizione seppur in una situazione di inadeguatezza e la profonda fatica ad ammettere i propri fallimenti.

  • Sottotipo ad alto funzionamento: questa rappresenta l’ultima variante che utilizza il narcisismo come lo strumento principale per raggiungere il successo, concentrandosi sull’obiettivo e quindi sul risultato finale. Siamo di fronte a persone estremamente estroverse, energiche, convincenti ed estremamente abili negli scambi interpersonali, pur conservando un’immagine di sé ipertrofica e di estrema importanza.

In tutti e tre i casi la persona possiede una profonda preoccupazione rispetto all’immagine che gli altri hanno della propria persona.

Detto ciò è importante sottolineare che i vari sottotipi rappresentano un’esclusiva bussola di orientamento all’interno della pratica clinica, non avendo la rigida pretesa di essere degli schemi precostituiti del funzionamento individuale.

 

“Ma da chi ho appreso il perfezionsimo?” Un’ipotesi di trasmissione intergenerazionale dei tratti perfezionistici

Alcuni autori hanno ipotizzato che le radici del perfezionismo siano ancorate nell’età infantile (Cook & Kearney, 2014; Karayağız et al., 2020) ed evidenziano l’influenza delle figure genitoriali.

 

A tutti probabilmente sarà capitato di dire/pensare almeno una volta nella nostra vita “ Sono/è un perfezionista!”.

In psicologia, il perfezionista è colui che esige da sé stesso e dagli altri performance di altissima qualità e standard generalmente molto alti, spesso è ipercritico e costantemente in ansia nel tentativo di svolgere le proprie mansioni sempre nel migliore dei modi (Bastiani et al., 1995; Hamacheck., 1978).

Le dimensioni del perfezionismo

Una delle concettualizzazioni multidimensionali del perfezionismo più popolari e comunemente usate consiste in un modello tripartito che include sia dimensioni intrapersonali che interpersonali: perfezionismo orientato al sé (SOP; esigere la perfezione da sé), perfezionismo socialmente prescritto (SPP; percepire gli altri come esigenti la perfezione da sé) e perfezionismo orientato agli altri (OOP; esigere la perfezione dagli altri) (Hewitt e Flett, 1991).

Spesso, queste caratteristiche personologiche vengono associate allo sviluppo e al mantenimento di diversi disturbi psicologici, sia per quanto riguarda gli adulti che i bambini (Carmo et al., 2021).

Alcuni autori hanno ipotizzato che le radici di questo costrutto siano ancorate nell’età infantile (Cook & Kearney, 2014; Karayağız et al., 2020), e, modelli che tentano di spiegare lo sviluppo del perfezionismo, evidenziano l’influenza delle figure genitoriali, nello sviluppo di tratti di personalità. Proprio sulla base di queste teorie, è stata proposta un’ipotesi di trasmissione genitore-figlio dei tratti perfezionistici (Carmo et al., 2021).

Come si sviluppa il perfezionismo

Tra i modelli teorici più riconosciuti c’è il Modello delle Aspettative Sociali e il Modello di Apprendimento Sociale (Flett et al., 2002). Per il primo modello, i bambini che percepiscono aspettative molto alte sulle loro performance da parte dei genitori, e che vengono criticati quando queste aspettative non vengono soddisfatte, nel tentativo di compiacerli e ricevere amore sviluppano del perfezionismo, facendo proprie l’autovalutazione negativa e le aspettative stesse. Il secondo modello, invece, pone l’enfasi sull’imitazione, concettualizzando il perfezionismo come tratto che si sviluppa osservando, e per l’appunto imitando, i comportamenti perfezionistici dei genitori.

Nella trasmissione dei tratti perfezionisti da genitore a figlio, due fattori sembrano inoltre assumere grande valenza: il sesso dei genitori (Flett et al., 2002) e gli stili genitoriali da loro messi in atto (Walton et al., 2020).

Per quanto riguarda il sesso, esistono due ipotesi: l’ipotesi del caregiver dello stesso sesso ipotizza che i bambini tendano per l’appunto a far proprie le caratteristiche del genitore dello stesso sesso, mentre l’ipotesi del caregiver primario prevede che le madri siano maggiormente responsabili dello sviluppo del perfezionismo a causa del più lungo periodo di tempo che trascorrono con i loro figli.

Per quanto riguarda gli stili genitoriali, Baumrind (1966) teorizza uno stile autoritario, uno permissivo e uno autorevole. La genitorialità autoritaria prevede genitori tendenzialmente rigidi, che nutrono aspettative eccessivamente alte su come i loro figli dovrebbero essere, arrivando anche a modellare, controllare e valutare i comportamenti e gli atteggiamenti dei figli. Lo stile permissivo prevede genitori poco esigenti ed altamente accettanti nei confronti dei figli, tendono ad esserci poca o nessuna punizione o regole esplicite, rendendo i figli liberi da vincoli esterni. I genitori autorevoli, invece, sono capaci di stabilire delle regole e guidare i loro figli quando necessario, sono affettuosi e reattivi ai loro bisogni, raggiungendo quindi un equilibrio tra l’affetto e la definizione delle regole. Lo stile maggiormente associato allo sviluppo di tratti perfezionisti è quello autoritario (Walton et al., 2020; Domocus & Damian, 2018; Damian et al., 2013).

La trasmissione intergenerazionale del perfezionismo

Uno studio molto recente (Carmo et al., 2021), nel tentativo di studiare il meccanismo di trasmissione intergenerazionale del perfezionismo, ha analizzato l’influenza del perfezionismo dei genitori e degli stili genitoriali percepiti sui livelli di perfezionismo riportati dai figli, indagando inoltre se il sesso dei genitori influenzasse questo processo di trasmissione.

I risultati ottenuti dallo studio sembrano supportare, almeno in parte, il modello dell’apprendimento sociale, secondo cui i bambini possono imitare i comportamenti perfezionistici dei genitori. In particolare, le madri che mostrano alti livelli di perfezionismo per sé stesse (SOP – Self-oriented perfectionism) e che percepiscono gli altri come persone aventi alte aspettative e standard eccessivamente alti nei loro confronti (SPP – Social prescribed perfectionism), hanno maggiori probabilità di avere figlie altamente esigenti con loro stesse, che percepiscono gli altri come eccessivamente esigenti e con aspettative irragionevoli.

É stata inoltre osservata una significativa associazione moderata tra alto livello di perfezionismo per sé stessi (SOP – Self-oriented perfectionism) dei padri e SPP (SPP – Social prescribed perfectionism) dei figli, suggerendo che quando i padri stabiliscono standard eccessivamente elevati e irrealistici per sé stessi, i figli tendono a percepire che anche le altre figure significative hanno aspettative rigide ed eccessivamente elevate per sé stesse.

Per ciò che concerne la relazione tra stili genitoriali e tratti di perfezionismo nei figli, lo studio dimostra che uno stile genitoriale autoritario è legato ad entrambe le dimensioni del perfezionismo (SOP e SPP) nei bambini, indipendentemente dal sesso. Questo risultato è in linea con studi che evidenziano lo sviluppo di forte autocritica nei bambini con genitori autoritari e criticanti (Kawamura et al., 2002). La medesima associazione viene riportata per gli adolescenti (Damian et al., 2013) e per l’età adulta (Zikopoulou et al., 2021). Interessante è il fatto che, indipendentemente dal sesso del bambino, gli stili genitoriali materni di tipo autoritario mostrano una correlazione maggiore rispetto agli stili genitoriali autoritari paterni. Questi risultati sono coerenti con la letteratura, in cui la madre appare come la figura predominante, anche se la durezza sia della madre che del padre è associata al perfezionismo delle figlie. (Frost et al., 1991)

Nel complesso, i risultati dello studio suggeriscono che, per alcune dimensioni del perfezionismo, sembra esistere un meccanismo di trasmissione da madre a figlia e uno da padre a figlio, con delle implicazioni in riferimento allo stile genitoriale assunto. Nonostante ciò, bisogna sottolineare e ricordare che lo sviluppo del perfezionismo coinvolge molti altri fattori, tra cui l’ambiente socioculturale, le interazioni con i pari e con altre persone (ad esempio, gli insegnanti, gli allenatori), nonché i fattori inerenti al bambino (ad esempio, il temperamento).

 

Dal laboratorio al territorio – Il caso del trattamento dell’OMS per le famiglie di bambini con autismo

Il Caregiver Skills Training è stato sviluppato dall’OMS per rispondere al bisogno delle famiglie di bambini con autismo di accedere a un intervento gratuito, evidence-based e che necessiti di poche risorse.

 

‘Treatment gap’ per l’autismo – un problema generalizzato di accesso alle cure

In Europa, un bambino su 10 affetto da autismo non ha accesso a trattamenti basati su evidenze scientifiche. Esiste infatti un esteso problema di accesso alle cure – il cosiddetto treatment gap – non solo nei paesi a basso e medio reddito, in cui la maggior parte dei bambini non accede ai servizi (Reichow et al., 2013), ma anche in quelli ad alto reddito (Salomone et al., 2016; Smith et al., 2020). In Italia, una recente analisi dell’Istituto Superiore della Sanità riporta che il 50% dei servizi pubblici di Neuropsichiatria Infantile non offre alcun tipo di trattamento specifico per l’autismo (Borgi et al., 2019) e solamente un terzo dei genitori ha accesso a training specifici per apprendere abilità utili a sviluppare le competenze dei bambini (Salomone et al., 2016).

Dal laboratorio al territorio – Cosa ci dicono i risultati sperimentali sul mondo reale

Per risolvere il treatment gap, una soluzione è lo sviluppo di nuovi trattamenti che siano efficaci ma allo stesso tempo richiedano poche risorse e possano essere accessibili a tutti. Esistono ormai molte prove, derivate da ricerche sperimentali in setting universitari, che i genitori di bambini con autismo possano apprendere con percorsi di ‘caregiver training’ quelle competenze utili a favorire lo sviluppo dei loro bambini (Oono et al., 2013). Tuttavia, un problema fondamentale nello sviluppo di trattamenti psicologici è capire quanto i risultati della ricerca sperimentale, solitamente condotta da clinici esperti e specializzati in setting di laboratorio universitari altamente controllati, siano poi effettivamente replicabili in setting di comunità. In questi contesti le condizioni sono molto diverse: l’intervento è erogato da personale sanitario non necessariamente specializzato, la platea di pazienti è molto eterogenea perché non selezionata sulla base di specifici criteri di inclusione o esclusione ed è possibile solo un ridotto controllo sull’effettiva applicazione concreta del trattamento. In altre parole: quanto i risultati ottenuti in laboratorio riflettono quelli ottenuti nel mondo reale? Una recente metanalisi (uno studio che valuta i risultati di numerose ricerche sperimentali al fine di ottenere conclusioni più precise) ha dimostrato che quando gli stessi trattamenti psicologici per bambini con autismo che hanno ottenuto risultati ampiamente positivi in setting di laboratorio – cioè alta efficacia sperimentale, o efficacy – sono implementati sul territorio, questi ottengono risultati significativamente inferiori – cioè bassa efficacia sul campo, o effectiveness – (Nahmias et al., 2019; Reichow, 2012). L’efficacia di questi interventi quindi si riduce sostanzialmente quando sono implementati nel contesto reale.

Come si può spiegare questo dato? I risultati ottenuti in setting sterili e altamente controllati spesso non tengono in conto dell’effettiva fattibilità di erogazione dell’intervento (cioè, barriere e difficoltà per l’implementazione fedele del programma, barriere alla partecipazione dei partecipanti alle sessioni o alla ‘pratica a casa’) e l’accettabilità per chi lo eroga e chi lo riceve (cioè, la comprensibilità, rilevanza, o allineamento con i valori personali dei contenuti e metodologie proposte). Ciò può avere in ultimo un effetto negativo sull’efficacia sul campo dei trattamenti proposti. Si comprende quindi come, per poter davvero ‘chiudere’ il gap nell’accesso alle cure, sia necessario non solo sviluppare nuovi trattamenti, ma anche valutare la loro efficacia clinica in contesti di comunità.

Il Caregiver Skills Training – Lo studio pilota dell’OMS in Italia

Un esempio positivo in tal senso è un recente studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Georgia State University e Newcastle University, che ha valutato l’efficacia sul campo del Caregiver Skills Training (CST), un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbi del neurosviluppo, incluso l’autismo. Il CST è stato sviluppato dall’OMS per rispondere al bisogno delle famiglie di accedere a un intervento gratuito, evidence-based e che necessiti di poche risorse (Salomone et al., 2019). L’obiettivo principale del CST è la strutturazione di attività quotidiane in routine condivise tra bambino e caregiver al fine di fornire regolari esperienze di attenzione condivisa che lo aiutino a sviluppare nuove abilità, quali la comunicazione verbale e non-verbale, la condivisione di interessi e la regolazione dei comportamenti problema. Questo training, che consiste di 9 sessioni di gruppo e 3 visite domiciliari, fornisce ai caregiver le strategie necessarie per strutturare le attività del bambino, seguire la sua guida e usare l’affetto positivo per stabilire e mantenere routine sia di gioco che con le attività casalinghe quotidiane.

Per valutare se questo trattamento sia veramente efficace anche nei contesti in cui poi dovrebbe essere erogato alle famiglie, cioè il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), il CST è stato prima adattato al contesto italiano ed è poi stato testato in uno studio pilota diretto dalla dr.ssa Erica Salomone dell’Università di Milano-Bicocca, all’interno del field-testing a livello mondiale condotto dall’OMS. L’adattamento del CST, con lo scopo di mantenere un’alta accettabilità del trattamento, è stato condotto da un team di ricercatori e psicologi secondo le linee guida dell’OMS (Salomone et al., 2021a). Infine, l’adattamento italiano è stato valutato e affinato da un gruppo di operatori del settore (psicologi, terapeuti del linguaggio, neuropsichiatri infantili, terapeuti della psicomotricità ed educatori). Successivamente è stata testata l’implementazione del CST nei servizi di Neuropsichiatria Infantile del SSN in uno studio pilota randomizzato controllato (RCT) sull’efficacia dell’implementazione – che coniuga la validità empirica degli studi di laboratorio, con la variabilità e complessità dell’implementazione nel SSN – il primo di questo genere realizzato in un contesto di comunità in Italia.

Lo studio ha mostrato alti livelli di fattibilità di erogazione da parte di professionisti sanitari nel contesto pubblico ed eccellente accettabilità per i caregiver. Dal punto di vista dell’efficacia sul campo, lo studio ha indicato effetti favorevoli, a 3 mesi dalla conclusione dell’intervento, sulla qualità dell’interazione genitore-bambino, sulla comunicazione non verbale del bambino, sulle competenze genitoriali a supporto dell’interazione, nonché sull’autoefficacia e lo stress genitoriali (Salomone et al., 2021a; Salomone et al., 2021b).

Uno sguardo al futuro – Tra implementazione in comunità e pandemia

In conclusione, il CST sembra essere un programma efficace, fattibile e accettabile per caregiver di bambini affetti da disturbi del neurosviluppo, tra cui l’autismo. Lo studio pilota condotto in Italia non solo ha dimostrato la sua utilità e convenienza, grazie alla bassa quantità di risorse richieste, ma anche la sua grande adattabilità. In questa direzione, un ulteriore studio è in corso al fine di valutare l’efficacia, fattibilità ed accettabilità di implementazione tramite erogazione da remoto (cioé, videoconferenze per le sessioni di gruppo e analisi di videoregistrazioni dell’interazione caregiver-bambino per le visite a casa), in accordo alle restrizioni vigenti a causa della pandemia da Covid-19.

 

Lo stress da pandemia può influenzare il benessere di mamma e bambino, agendo a livello di DNA

Dai dati preliminari di ConfiNATI (progetto MOM-COPE) di Fondazione Mondino IRCCS di Pavia, le madri hanno un rischio più elevato di ansia e depressione post parto e gli effetti dello stress materno possono finire “sottopelle”, modificando il funzionamento del DNA del piccolo e alterandone lo sviluppo.

Comunicato Stampa

 

PAVIA, 30 luglio 2021 – Si intitola ConfiNATI (studio scientifico MOM-COPE), l’innovativo progetto di ricerca che Fondazione Mondino IRCCS, l’Istituto neurologico nazionale con sede a Pavia, ha avviato da aprile 2020 con l’obiettivo di indagare i potenziali rischi per la salute materno-infantile dovuti al contesto pandemico ed evidenziare i meccanismi psicobiologici (comportamentali ed epigenetici) che legano lo stress vissuto in gravidanza con il benessere di madri e bambini nei primi dodici mesi dopo il parto.

Il progetto, finanziato dal Ministero della Salute e con il contributo di Fondazione Roche per la Ricerca Indipendente, è coordinato dal dottor Livio Provenzi, psicologo, ricercatore e psicoterapeuta e coinvolge 50 collaboratori e dieci neonatologie nel Nord Italia, geolocalizzate in città fortemente colpite dalla pandemia, tra cui Milano, Brescia, Pavia, Piacenza e Lodi.

A più di un anno dall’inizio del monitoraggio, dai dati preliminari in un campione di più di 300 donne emerge che valori più elevati di stress legato alla pandemia si associano a un più alto rischio di sviluppare sintomatologia depressiva e ansiosa dopo il parto. In più, i maggiori livelli di ansia osservati in queste donne sembrano ridurre il senso di legame e vicinanza verso il proprio bambino e aumentano lo stress legato al ruolo genitoriale.

ConfiNATI: come lo stress influenza il neonato

Tuttavia, lo stress da pandemia non incide solo sul benessere materno, ma anche sul primo sviluppo dei piccoli: è stato riscontrato infatti, che gli effetti dello stress materno possono finire “sottopelle” e avere un legame indiretto sullo sviluppo fetale e sul benessere futuro del bambino. Nei bambini nati durante la pandemia, infatti, l’esposizione allo stress potrebbe aver influenzato lo sviluppo delle capacità di essere calmati, di prendere sonno, o di prestare attenzione all’ambiente circostante nei primi mesi di vita.

Si tratta di variazioni che non sembrano superare la soglia di preoccupazione per comportamenti problematici – chiarisce la dottoressa Serena Grumi, collaboratrice del dottor Provenzi nel progett ConfiNATI (studio scientifico MOM-COPE) – Tuttavia ci raccontano di come, ancora prima di nascere, l’ambiente in cui la madre porta avanti la gravidanza diventa parte integrante della storia di vita del bambino. Possiamo quindi identificare una traiettoria di rischio nascosta, che mina la salute materno-infantile a livello della popolazione generale ed è necessario che questi dati informino al più presto strategie di prevenzione e cura con interventi mirati che raggiungano le famiglie e il territorio.

La gravidanza è infatti un periodo di grande suscettibilità e sensibilità allo stress.

Le esperienze traumatiche o stressanti vissute dai genitori – spiega il dottor Provenzi, responsabile del Progetto – possono avere effetti indiretti sullo sviluppo fetale e sul benessere futuro del bambino. Questi effetti dipendono dal fatto che il nostro DNA non è completamente immutabile e stabile; anzi, il modo in cui funziona dipende in larga misura dalle esperienze di vita.

In altre parole, il nostro DNA sarebbe capace di imparare dall’ambiente in cui viviamo, modificando il modo in cui produce proteine e neurotrasmettitori fondamentali per il benessere psicofisico. Gli scienziati si riferiscono a questa capacità del DNA di apprendere dall’esperienza con il termine “epigenetica comportamentale”. Uno dei meccanismi epigenetici è la metilazione del DNA, un processo biologico per cui alcune porzioni dei geni inclusi nel DNA possono venire progressivamente spenti o silenziati, diminuendo la disponibilità di specifiche proteine o neurotrasmettitori.

ConfiNATI: i risultati dello studio

Il progetto ConfiNATI suggerisce che i neonati di donne che hanno vissuto più alti livelli di stress durante la gravidanza in rapporto alla pandemia mostrino maggiore tasso di metilazione in corrispondenza di un gene coinvolto nella regolazione della serotonina, un neurotrasmettitore molto importante per il benessere emozionale. Inoltre, dati in corso di pubblicazione suggeriscono che una elevata metilazione di questo gene si associ – tre mesi più tardi – a una minore capacità del bambino di esprimere tonalità affettive positive (sorrisi, risate) e una minore disponibilità del bambino a coinvolgersi in scambi sociali. In altre parole, come sottolinea il prof. Renato Borgatti, responsabile della Struttura Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Fondazione Mondino IRCCS:

È possibile che in un periodo come la gravidanza in cui madre e bambino sono intimamente connessi a livello biologico, lo stress materno possa passare attraverso la placenta, raggiungere il feto e programmare almeno in parte il benessere futuro del bambino attraverso meccanismi di tipo epigenetico.

Questi risultati ovviamente dovranno essere confermati da studi futuri, ma ci mostrano ancora una volta come madre e bambino siano intimamente connessi, ben prima della nascita. Inoltre, se è vero che i bambini nati durante la pandemia possono mostrare difficoltà di regolazione degli stati emotivi o di disponibilità all’interazione sociale, allora è importante avviare e rafforzare i programmi di monitoraggio e di supporto alla salute materno-infantile.

La pandemia che stiamo vivendo entra a fare parte della nostra storia e della nostra esperienza; e questa viene scritta con molto probabilità nel DNA di ciascuno di noi – prosegue il dottor Provenzi – Queste ricerche ci aiutano ad assumere una prospettiva diversa nella cura di madri e bambini: una prospettiva che parta dall’idea di un apprendimento continuo della nostra biologia.

A maggior ragione, sarà importante aiutare questi bambini a fare apprendimenti che li aiutino a riscrivere o ri-annotare il proprio genoma con nuove esperienze caratterizzate da cure sensibili e rispetto delle loro peculiari individualità.

 

Variazioni della concentrazione di testosterone e competitività in concomitanza delle fasi mestruali in atlete professioniste

Il testosterone, un ormone steroideo, solitamente viene associato al dominio sociale, alla competizione e alla motivazione sessuale negli animali e nell’uomo (Archer, 2006).

 

Tuttavia, alcuni studi mostrano che l’ormone spesso agisce anche sulla motivazione: la ricerca psicobiologica suggerisce che l’aumento dei livelli di testosterone modula il funzionamento delle strutture cerebrali coinvolte nella motivazione e nelle emozioni (Packard et al., 1997); l’ormone sembra infatti migliorare la motivazione ad impegnarsi in un comportamento senza priming di ricompensa e in modo inconscio (van Honk et al., 2005). Altri autori sostengono che il testosterone (T) alimenti la motivazione a raggiungere la superiorità quando si compete per diverse risorse, elicitando comportamenti per raggiungere e mantenere uno status più elevato (Stanton & Schultheiss, 2009). Il modello biosociale (Mazur, 1985) dello status postula infatti che il testosterone suscita comportamenti per affrontare i confronti di dominio sociale, aumenta e diminuisce i suoi livelli dopo la vittoria e la sconfitta e fornisce un feedback affettivo che influenza i successivi stili di coping.

Testosterone e motivazione

Dal momento che sembrerebbe avere un legame con la motivazione, c’è un crescente interesse nei ruoli androgeni ed eccitanti del testosterone nello sport e nell’esercizio fisico, in particolare per quanto riguarda i comportamenti competitivi tra le donne (Cook & Beaven, 2013). La letteratura mostra che i cambiamenti o le differenze nei livelli di testosterone delle donne sono positivamente correlati all’autoefficacia, all’attenzione pre-evento, alla motivazione all’azione, al legame di squadra e ai carichi di lavoro (Aarts & van Honk, 2009). Il testosterone sembrerebbe essere quindi reattivo alla competizione e aumentare con l’allenamento. A conferma di ciò, i risultati di uno studio riportano una correlazione positiva tra il testosterone salivare (sal-T) e la motivazione pre allenamento di alcuni atleti maschi professionisti (Crewther et al., 2016); alti livelli di sal-T sono stati trovati anche in donne professioniste (più del doppio rispetto a donne non professioniste) e l’aumento di testosterone è stato indotto dall’esercizio fisico, sostenendo così potenzialmente quei comportamenti necessari per mantenere le prestazioni a livello agonistico (Keizer et al.,1987).

Diversi studi hanno riscontrato che nelle donne la concentrazione di testosterone varia anche con le diverse fasi del ciclo mestruale; solitamente si verifica un aumento di testosterone fino al 40% a metà ciclo o in fase ovulatoria, seguito da una diminuzione durante la fase follicolare, prima fase del ciclo ovarico che termina con l’ovulazione, e luteale, fase che segue la maturazione dei follicoli e che decorre fra l’ovulazione e l’inizio del periodo mestruale successivo (Cook, 2018). Inoltre sembra che tra le donne atletiche il testosterone aumenti conseguentemente ad uno stressor fisico durante l’ovulazione (16%) rispetto alle altre fasi (6-8%) (Crewther, 2019).

Testosterone e competitività

Poiché fino ad oggi nessuna ricerca ha esaminato l’effetto della sal-T sulla competitività nelle atlete, Crewther e colleghi (2018) hanno condotto uno studio longitudinale con l’obiettivo di indagare il legame tra il livello di testosterone salivare e la competitività in atlete agoniste e non agoniste. In particolare, i test sono stati eseguiti durante le tre fasi mestruali (follicolare, ovulatoria e luteale) e hanno tracciato il profilo della variazione dei livelli di sal-T e due misure di competitività legate allo sport: desiderio di competere e motivazione nell’allenamento. Le ipotesi formulate dagli autori erano che il testosterone salivare e la competitività sarebbero risultati elevati in fase di ovulazione rispetto alle altre fasi, che i cambiamenti di sal-T sarebbero stati più marcati nelle atlete professioniste e infine che queste ultime avrebbero mostrato relazioni più forti tra sal-T e competitività. Trenta atlete di diversi sport sono state reclutate e suddivise in due gruppi: atlete concorrenti a livello nazionale (professioniste) e atlete competitive in club o ricreativi (non professioniste) (Pokrywka et al., 2005); entrambi i gruppi sono stati monitorati nelle tre distinte fasi del ciclo mestruale: il test si è verificato nei giorni 6-8 (fase follicolare), 13-15 (fase ovulatoria), e 20-22 (fase luteale), dall’inizio delle mestruazioni precedenti e, dopo un prelievo salivare, alle atlete sono state poste alcune domande sulla competitività.

Come ipotizzato, il testosterone salivare ha mostrato fluttuazioni significative in concomitanza delle fasi mestruali: un aumento dalla fase follicolare a quella ovulatoria, seguito da una diminuzione in fase luteale. Tali risultati sono coerenti con i dati inerenti al sal-T in donne sane in età riproduttiva (Roney & Simmons, 2013). In particolare i cambiamenti del testosterone sono risultati più pronunciati nelle atlete professioniste, le quali hanno mostrato anche un picco in fase ovulatoria sia del desiderio competitivo sia della motivazione all’allenamento (Crewther & Cook, 2018). Ci sono diversi dati in letteratura che forniscono come spiegazione il fatto che esercitare il potere in modo mascolino durante una prestazione sportiva aumenti i livelli di sal-T nelle donne, per cui un’elevata concentrazione di testosterone potrebbe anche essere il prodotto di comportamenti mascolini per raggiungere e mantenere il dominio fisico. Un’ulteriore spiegazione può essere la selezione naturale per cui gli individui che possiedono livelli elevati di testosterone di base spesso scelgono uno stile di vita attivo e prediligono gli sport che massimizzano il loro potenziale di adattamento.

Infine, una maggiore competitività intrasessuale in fase ovulatoria, determinerebbe anche cambiamenti in  diversi altri ambiti oltre allo sport, tra i quali le scelte economiche, i comportamenti per migliorare il proprio aspetto (Saad & Stenstrom, 2012) o la posizione sociale (Durante et al., 2014) e le preferenze per i volti maschili (Welling et al., 2007).

 

Psicologia del denaro: esistono soldi zen? Pensieri limitanti sul connubio denaro-spiritualità

È la psicologia del denaro ciò che determina la relazione con la ricchezza, la quale dipende in particolare dalle nostre credenze.

 

Adriano Tilgher, giornalista e pubblicista dei primi del ‘900, nel suo saggio Homo Faber, scrive: ‘‘È facile deridere l’imprenditore o l’uomo d’affari, che da mane a sera si consuma in un lavoro senza tregua, accumulando ricchezze che non ha tempo né voglia di godere; è facile accusarlo di mancare di spiritualità. Ma intanto egli genera vita a torrenti intorno a sé; ma intanto egli gusta a volte la gioia divina del creatore e sempre, o quasi, la calma fresca e profonda delle energie disciplinate. Dopodiché, padrone chi vuole di trovarlo meno spirituale dell’asceta della Tebaide, assalito la notte dagli incubi dei sensi insoddisfatti, snervato il giorno dalla noia di un’esistenza inerte e monotona, che passa la vita a intrecciare stuoie, che poi, dopo averne fatto un bel mucchio, deve bruciare, mancandogli in quel deserto di pietre e di scorpioni clienti a cui vuole venderle’’. In questo passo l’autore esprime il concetto della conflittualità tra ricchezza e spiritualità. L’autore infatti espone le divergenze che possono nascere tra coloro che vivono di denaro (l’imprenditore) e coloro che vivono di spiritualità (l’asceta), tracciando tra di essi una netta linea di demarcazione.

Quello che risulta difficile da comprendere è se, appunto, questi due ‘status’ appartengano o meno ai due poli opposti di uno stesso continuum, o se al contrario possono trovare un punto d’incontro.

Secondo il dizionario Treccani il termine spiritualità è etimologicamente legato ad una particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali: la spiritualità del soggetto lo porta a disinteressarsi dei problemi concreti. Così ad esempio parliamo di un uomo, artista o scrittore di grande spiritualità.

Il denaro è invece, nel senso comune, legato ad un valore economico rispetto a determinati beni ed ottenibile attraverso l’attività lavorativa che in tal senso risulta essere il mezzo attraverso il quale raggiungere il fine: il guadagno. Questa visione meccanicistica (di causa-effetto) del lavoro svolto come modalità d’azione utile per raggiungere solo quel determinato scopo, genera uno dei primi pensieri limitanti rispetto a tale questione. Infatti, se si cambiasse prospettiva e ci si approcciasse all’impiego non come mezzo diretto ad una meta, ma come un’attività svolta per sé stessa, ecco che forse l’opinione corrente muterebbe. Cos’ha di diverso un artista che vende i suoi dipinti da un uomo d’affari che gestisce i propri capitali in un’attività economica?

L’inghippo è spesso collegato al binomio materiale-immateriale. Ciò che è materiale è definito come superficiale e consumistico, al contrario ciò che è immateriale è legato ad un’accezione considerata divina.

In realtà, si potrebbe dire che ciò che fa di un uomo un essere spirituale, inteso come non egoista e privo dei sensi di colpa legati al guadagno, è l’intenzione che esercita sull’azione che svolge. Nel momento in cui i soldi vengono concepiti come un flusso, e non come dei pezzi di carta finalizzati al consumo e/o all’arricchimento, ecco che la prospettiva cambia. Il flusso implica un continuo ciclo in cui il denaro circola in maniera continua, un po’ come il nostro respiro fa fluire l’ossigeno all’interno del nostro corpo.

L’ecosistema che verte intorno ai soldi è molto più complesso di quanto crediamo, e se facessimo un’analisi più accurata forse capiremmo anche che coloro che guadagnano e non risparmiano non sono necessariamente individui che amano ostentare la loro ricchezza, ma sono persone che attraverso i loro investimenti producono nuovi circoli di denaro producendo spesso occasioni lavorative. Quindi potremmo vedere gli investimenti come una forma di altruismo.

Denaro e spiritualità possono intendersi nel momento in cui il denaro non viene demonizzato come oggetto ‘del male’ dell’uomo, ma come aria che circola, come circola la stessa energia divina o universale che l’ascetico avverte nel mondo.

Marx Weber spiega, in una importante sua opera, le ragioni del ‘razionalismo economico’ e, citando Lutero, scrive che ‘‘il lavoro professionale è un compito o meglio il compito assegnato da Dio’’ e, pertanto, una ‘‘espressione esterna dell’amore verso il prossimo’’. Poi, citando Baxter (AChristian Directory,1678) scrive sempre Weber ‘‘Ciò che la morale veramente condanna è l’adagiarsi nel possesso, il godimento della ricchezza con la sua conseguenza di ozio e di concupiscenza e, soprattutto, con la conseguenza di deviare dal faticoso cammino verso la vita santa’’.

È la psicologia del denaro ciò che determina la relazione con la ricchezza, la quale dipende in particolare dalle nostre credenze. A partire dal 1951, con il lavoro di George Katona nella sua opera L’analisi psicologica del comportamento economico, si trova il primo tentativo di unire psicologia ed economia quando, ancora un decennio prima, si leggeva tra le righe di uno dei più importanti manoscritti di Marx: ‘‘Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua repulsività, è annullata dal denaro (…). E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che mi unisce alla società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli, il vero cemento, la forza galvano-chimica della società?’’ (Karl Marx , Manoscritti economico-filosofici, 1844). Questa interpretazione del denaro è frutto di un’epoca in cui il guadagno sembrava essere l’unico generatore di senso, secondo quanto detto dall’autore, e quindi gli aspetti legati alla personalità e alla soggettività venivano spazzati via da questa forza egemone rappresentata dai soldi, che plasmavano in una dimensione prettamente quantitativa. Il denaro dunque è rappresentato come il metro di misura non solo della quantità, bensì anche del proprio modo di vivere e della propria essenza dinanzi agli altri.

Katona comincia invece ad affiancare la dimensione economica a quella prettamente psicologica, legata ad attività umane come il relazionarsi con gli altri, il pensiero e la capacità di elaborare idee. La comprensione dei processi economici muta nel momento in cui si focalizza l’attenzione sugli individui considerati in quanto tali e non come astrazioni, dimenticando o nascondendo le innumerevoli deviazioni e aberrazioni provocate dall’umana fragilità al solo scopo di poter fare raffronti utili e che si mantengano intatti (Katona,1951).

Quanto scritto sopra ha senso nel momento in cui l’attività economica è strettamente collegata al comportamento dell’uomo. E il comportamento è un fattore intrinsecamente collegato ad aspetti psichici dell’individuo. Si può dedurre come sia fondamentale lo studio della motivazione, delle credenze e delle aspettative dei singoli per facilitare la comprensione dei fenomeni economici.

Il ‘sentirsi ricchi’ è una percezione soggettiva, molto più spirituale di quanto si possa pensare. Non si può ridurre il guadagno ad una questione meramente oggettivistica e materialistica, altrimenti perché esisterebbero miliardari che in realtà sono spiritualmente poveri? Questa loro condizione rende conseguentemente anche il denaro che possiedono come privo di valore.

Il denaro può essere considerato zen perché può generare scambio, empatia e collaborazione.

In conclusione, se il proprio lavoro oltre ad essere una professione non è una passione e non porta quindi giovamento personale in termini ad esempio di autostima ed autorealizzazione, probabilmente i soldi che verranno guadagnati saranno ‘tristi’. In quest’ottica, come ben spiega Ken Honda nel suo libro ‘Happy Money’, il denaro non è un semplice numero o pezzo di carta, ma è un’energia che porta positività o negatività in base alle percezioni soggettive del suo possessore (Ken Honda, 2019).

 

L’organizzazione a network delle aree cerebrali nella malattia di Parkinson

Nella malattia di Parkinson è particolarmente comune il riscontro di una sindrome disesecutiva, caratterizzata da difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi, nella pianificazione a lungo termine, nella memorizzazione e nel richiamo di nuove informazioni.

 

Un’architettura ben definita

Oggetto di grande interesse e di ricerca negli ultimi dieci anni, il connettoma, descrive lo studio dei network cerebrali; utile infatti nel delineare un’attività continua e riverberante non tanto di un singolo neurone, quanto di più neuroni attivi contemporaneamente (Hebb, D. O., 1949).

La connettività pertanto, se da un lato evidenzia l’attività di più assemblee neuronali, al contempo ne esplica le rispettive caratteristiche: funzionali e strutturali. La prima è di tipo anatomico ed evidenzia come le aree cerebrali siano tra loro connesse tramite collegamenti fisici, rappresentati dai filamenti di materia bianca (Faingold, C, Blumenfeld, H., 2014). Si riferisce oltremodo alle variazioni morfologiche (cerebrali) conseguenti sia all’apprendimento sia al declino delle capacità già apprese di elaborazione motoria o cognitiva (Sale, A, Berardi, N., 2014).

Invece, sotto il profilo funzionale, viene messo in risalto il concetto di network, ossia l’insieme di collegamenti che prende vita tra distretti cerebrali distanti e anatomicamente non collegati tra loro, basandosi sulla presenza e compresenza di segnali chimici con carattere elettromagnetico; per lo più è associato allo studio delle capacità di riorganizzazione dell’attività cerebrale in seguito all’apprendimento o durante il processo di recupero di un danno, che avvengono senza modificazioni del substrato anatomico.

Entrambi i profili (strutturale/funzionale) nel loro insieme consentono di mettere in coerenza i neuroni del circuito che si trovano ad essere reclutati per la stessa funzione senza legami fisici.

La variazione dell’architettura e dell’organizzazione cerebrale correlate al processo di plasticità (Schurz, M., Radua, J., 2014) possono essere inoltre analizzate sia a livello spazio temporale sia a livello di complessità. Infatti, se nel primo caso la plasticità può durare microsecondi sino a modificazioni perenni, a livello spaziale invece le modificazioni possono interessare intere regioni cerebrali e le relative connessioni interregionali (Sporns, O., 2012).

I contributi degli studi di RM sia morfologici che funzionali hanno infatti consentito di rilevare ed evidenziare le variazioni della plasticità cerebrale a livello di grande scala nei processi di riorganizzazione funzionale a seguito di una lesione. Sulla base di quanto descritto sinora, la plasticità neuronale risulta sottesa ad un processo di neurogenesi in rapporto all’ambiente circostante (Cajal, S., 1913).

Quest’ultima sembra circoscritta nello specifico a due zone presenti nel cervello adulto, rispettivamente la zona subventricolare e il giro dentato dell’ippocampo, due zone generative che risulterebbero coinvolte nei meccanismi alla base della neurogenesi stessa.

Il concetto di nicchia neurogenetica e la psiconeuroendocrinoimmunologia

L’aspetto peculiare che emerge è dato dalla compresenza di una pluralità di fattori in interazione tra loro e che in sintonia promuovono un cablaggio di più aree capaci di produrre nuove cellule, dando vita a quella che viene definita nicchia neurogenetica (Kempermann, G., 2011).

Ma questa interazione risente sempre di un equilibrio omeostatico interno all’organismo oppure possono subentrare ulteriori fattori disfunzionali?

Nel 1993 infatti Heather Hameron ed Elisabeth Gould, utilizzando un nuovo metodo di indagine che combina 3H-timidina con immunoistochimica, che identifica un marker specifico per i neuroni (chiamato NSE Neuron Specific Enolase), confermarono non solo come la neurogenesi si collochi a livello ippocampale, ma anche come lo stress intacchi il processo neurogenetico stesso (Bottaccioli, F, Bottaccioli, A, G., 2020).

Nel loro insieme tali concetti offrono un panorama rispetto al quale l’equilibrio interno all’organismo non può essere riducibile ad un fattore causale, ma al contrario correlabile ad un’omeostasi interna che chiama in causa la visione psiconeuroendocrinoimmunologica.

Infatti i fattori interni alla nicchia neurogenetica sono di varia natura tra i quali: molecole del sistema immunitario come le citochine IL-1, IL-6, TNF-α prodotti da astrociti e dalla microglia, fattori di crescita e di plasticità come il BDNF prodotto dai neuroni maturi e il VEGF, i quali in maniera reciproca e simultanea formano una rete di segnalazione che rende tale nicchia una rete composta da molecole diffuse a tutto il cervello, riguardante numerose aree cerebrali (Ziv, Y, Ron, N., 2011).

Nel panorama scientifico, se si parla di neurogenesi post natale, è altresì possibile ipotizzare come quest’ultima non solo risenta della dimensione epigenetica, ma anche come la stessa vada incontro sia ad un rafforzamento che ad un deterioramento durante il corso della vita.

Il contributo della neurogenesi ippocampale

La dimensione epigenetica infatti consente di comprendere come un ambiente stimolante sia promotore di quei cambiamenti e riorganizzazioni che vedono l’organismo in costante mutamento, a differenza di quei fattori disfunzionali che ne possono intaccare lo sviluppo, soprattutto durante la vecchiaia.

Durante questa fase della vita la neurogenesi ippocampale comincia a indebolirsi, ma non in maniera drastica, in quanto il proprio background fisiologico ed esperienziale consente di capire se si è in grado di far fronte ai nuovi stimoli in maniera più o meno adattiva (Bergmann, O, Spalding, K, L., 2015).

Nello specifico, infatti, un cervello che invecchia in salute continua a produrre neuroni nell’ippocampo e nello striato, ossia in quelle aree cerebrali importanti e fondamentali per le attività cognitive e di memoria.

Nella malattia di Parkinson lo stesso striato risulta infatti centrale non solo per l’attività motoria (i cui sintomi sono connessi all’atrofia delle cellule di questi nuclei che producono dopamina), ma risulta pienamente coinvolto anche nei circuiti emozionali e cognitivi.

In questa malattia neurodegenerativa le funzioni cognitive rientrano in quella categoria che prende il nome di sintomi non motori, i quali sotto il profilo neuropatologico si discostano dalla visione esclusivamente dopaminergica, interessando e coinvolgendo ulteriori sistemi caratterizzati da neuroni colinergici del nucleo basale di Meynert, neuroni noradrenergici del locus coeruleus, quelli serotoninergici degli emisferi cerebrali e del sistema nervoso autonomo. Valorizzando così come l’interazione tra più sistemi e il rispettivo grado di equilibrio più o meno funzionale, possa apportare notevoli cambiamenti.

Inoltre le funzioni cognitive sembrerebbero essere compromesse a seguito della deposizione dei LB (corpi di Levy), i quali coinvolgono nella fase avanzata della malattia le aree corticali.

Tali alterazioni che accompagnano la malattia di Parkinson sono di entità generalmente lieve ma, in una percentuale variabile a seconda degli studi, possono evolvere in un quadro di demenza. È particolarmente comune il riscontro di una sindrome disesecutiva, caratterizzata da difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi, nella pianificazione a lungo termine, nella memorizzazione e nel richiamo di nuove informazioni.

La presenza di un significativo deterioramento cognitivo, non solo limita le opzioni e gli interventi terapeutici, ma si accompagna oltremodo all’insorgenza di allucinazioni, depressione grave e ad una nuova modalità psicosomatica di far fronte agli eventi cui l’organismo va incontro.

Nondimeno questi cambiamenti rispecchiano all’unisono una riorganizzazione dell’organismo, il quale sotto il profilo neuroendocrino può apportare notevoli modifiche, favorendo in maniera adattiva o meno una flessibilità al cambiamento o viceversa un deterioramento riscontrabile anche al dominio cognitivo stesso.

Tale dimensione (neuroendocrina), assieme a quella epigenetica, permette dunque di capire come spesso e volentieri i domini cognitivi risultino caratterizzati e inficiati da un proprio modo di stare al mondo e di farvi fronte, evidenziando così come un substrato fisiologico ed un background neurobiologico esperienziale possano rappresentare linee guida e chiavi di lettura acquisite nel tempo.

Stimoli ambientali sia esterni che interni (emozioni e stress) apportano cambiamenti nella produzione di ormoni surrenalici, tiroidei e gonadici tramite la produzione di ormoni ipofisari stimolati da fattori ipotalamici.

Come sottolineato già a partire dagli anni trenta da Geoffrey W. Harris (Harris, G, W., 1951) è proprio l’ipotalamo a dirigere la “danza”, un’affermazione che facilmente si correla a quanto riportato successivamente da Bruce Mc Ewen (MC Ewen, B, S., 1968), il quale ha affermato come il cervello non solo comanda la produzione di ormoni, ma al tempo stesso ne risulta essere il bersaglio.

Quanto riportato da entrambi gli autori, offre l’opportunità non solo di valorizzare l’unità psicosomatica e dunque la stretta unità Mente-Corpo, ma al contempo di comprendere il ruolo svolto dai feedback ormonali sul cervello (MC Ewen, B, S., 2015). Questi ultimi, infatti, regolando le funzioni ipotalamiche hanno un grandissimo impatto soprattutto sulle funzioni neurologiche, cognitive ed emozionali.

Il rimodellamento dell’architettura cerebrale si costituisce grazie al cablaggio più o meno adattivo di più sistemi (neurovegetativo, metabolico, immunitario e neuroendocrino), i quali risentono dell’impronta di meccanismi epigenetici nel corso della vita (Nasca, C, Zelli, D., 2015).

Assi e circuiti dello stress e implicazioni a livello cognitivo

Lo stress, come riportato da Hans Seyle, è l’essenza della vita, perché la sua attivazione coinvolge in contemporanea numerosi fattori esterni ed interni all’organismo stesso. Tuttavia, se i livelli fisiologici da un lato permettono di reagire e far fronte agli eventi quotidiani chiamando in causa opportune risorse energetiche, dall’altro non sempre le modalità dell’organismo risultano adattive e flessibili al cambiamento.

Il Corticotropin-Releasing Hormone (CRH) risulta infatti essere l’attivatore della catena neuroendocrina dello stress e il suo ruolo non è circoscritto ad un singolo distretto corporeo, in quanto diffusamente presente nel cervello, più nello specifico nell’amigdala, nella corteccia cingolata, nel locus coereleus e in altre aree cerebrali. Se nel breve periodo l’effetto del cortisolo è quello di mobilitare le risorse energetiche, a lungo termine invece, qualora i livelli fisiologici non rientrino nella norma, possono verificarsi effetti di natura patogena.

Sulla base di quanto accennato in precedenza, e in relazione a quanto appena introdotto, ciò vuol dire che a livello cerebrale si assiste ad una riorganizzazione inerente aree cruciali, con una possibile riduzione dei dendriti nell’ippocampo e nella corteccia mediale prefrontale.

Nello specifico si assiste ad una riorganizzazione cerebrale che è di tipo epigenetico e quindi potenzialmente reversibile, tramite il rilascio di glutammato, il quale non solo provoca effetti tossici sui neuroni ma al contempo il blocco della produzione di cellule nervose, inficiando così la neurogenesi ippocampale.

Inoltre, come riportato da Ron Kloet il ruolo del cortisolo è strettamente correlato a quello svolto dai rispettivi recettori, l’MR (mineralcorticoide) e l’GR (glucocorticoide). (De Kloet, E, R., 2005) (De Kloet, E, R, 2014). Sulla base delle ricerche condotte dall’autore è emerso come ambo i recettori siano presenti nel cervello, soprattutto nell’ippocampo e nell’ipotalamo. Ciò vuol dire che in una fase di persistente stress cronico il sistema limbico risente di un’alterazione del rapporto tra i recettori sopracitati, provocando una riduzione dei recettori MR, che porta ad un assetto disfunzionale dell’asse ipotalamo ipofisi surrene.

In relazione al piano cognitivo è stato inoltre dimostrato come la stimolazione del recettore MR causi una regolazione della produzione di cortisolo e al contempo un miglioramento della memoria, la quale risulta intaccata in fase di stress ripetitivo (Ferguson, D, Sapolsky, R., 2008).

Nondimeno nel 2013 (Groch, S, Wilhelm, I., 2013) un gruppo di ricercatori ha dimostrato come la somministrazione di fludrocortisone apporti miglioramenti relativi alla memoria verbale e alle funzioni esecutive. Nello specifico tali miglioramenti presentano una plausibilità biologica perché l’ippocampo e le aree prefrontali, cruciali per queste funzioni, hanno un’elevata espressione di MR. Inoltre un effetto positivo del fludrocortisone è stato riportato anche in rapporto alle cellule progenitrici dell’ippocampo, in quanto l’agonista dell’MR sarebbe protettivo e funzionale per la neurogenesi, la quale risulta bloccata dall’iperattivazione del recettore GR (Gesmundo, I, Villanova, T., 2016).

 

Quant’è bello lu primm’ammore… “Primi Amori. Uno, nessuno e centomila” (2021) di Umberta Telfener – Recensione

Primi Amori è un libro molto godibile e di facile lettura; prosegue l’indagine sulla fenomenologia delle relazioni affettive a cui l’autrice ha dedicato altri scritti rivolti ad un pubblico ampio.

 

Avviso ai lettori. Conosco personalmente da diversi anni l’autrice di questo volume. Non posso definirmi proprio un suo amico, ma, essendo entrambi didatti di scuole di formazione ad orientamento sistemico-relazionale, ho avuto modo di ascoltarla in tanti convegni e di incontrarla in occasioni informali. Ne apprezzo la competenza clinica ma anche la facilità al racconto, la disponibilità generosa verso colleghi e allievi, la carica vitale. Ho letto con grande interesse, su suo suggerimento, gli articoli in cui descrive le sue esperienze con sciamani, stregoni e altri guaritori avvenute negli anni in diversi continenti.

Quindi, posso risultare di parte e non sono neutrale. D’altro canto, l’obiettività assoluta è ormai da molti riconosciuta come un miraggio e, quale che sia il rapporto con l’autore, una recensione è sempre espressione di una soggettività.

Il libro è molto godibile e di facile lettura. Prosegue l’indagine sulla fenomenologia delle relazioni affettive a cui l’autrice ha dedicato altri scritti rivolti ad un pubblico ampio (Tra gli ultimi: “Gli amori briciola” e “Letti sfatti”). Non è scritto in “psicologhese” e le tante descrizioni delle esperienze personali, raccolte direttamente dalla Telfener o reperite in rete, costituiscono il punto di partenza da cui si dipana il ragionamento dell’autrice. Nato durante i mesi di isolamento che hanno accompagnato il primo anno di pandemia, occuparsi di amore è stato per la scrittrice un bel modo di allargare i propri confini. Il libro è strutturato in tre parti: la prima concerne le idee e i modelli, veicolati dalla letteratura e dai mezzi di comunicazione di massa, che ci organizzano attorno al tema del primo amore; la seconda contiene le tante testimonianze, tutte italiane, di persone che raccontano le proprie esperienze affettive e sessuali; la terza è dedicata allo svelamento della trama psicologica propria dell’esperienza dell’innamoramento.

I primi amori si declinano in tante modalità, non sono affatto un’esclusiva degli adolescenti. Anzi, come racconta una donna intervistata, esistono tanti primi amori per quante relazioni importanti si sono avute nella vita.

Particolarmente interessanti i capitoli dedicati all’innamoramento e su ciò che ci attrae dell’altro, le pagine dedicate alle differenze attuali tra donne e uomini, al ruolo della famiglia d’origine e delle idealizzazioni. Ogni volta che ci si innamora è sempre una “prima volta”.

Dopo la lettura del libro viene da chiedersi se il primo amore contiene un imprinting relazionale, ovvero un modello di rapporto che continueremo a impiegare tutta la vita. Oppure si cresce e si cambia? È possibile imparare dai propri errori in campo sentimentale? Certo che sì. Mi pare sia questa la risposta di Umberta, che comunque ci tiene a ricordarci come nei confronti dell’innamoramento siamo tutti dei dilettanti, quale che sia la nostra età, la nostra cultura, le nostre esperienze pregresse.

In ogni caso, quello che è certo è che per lei amore non ha nulla a che vedere con possesso. Anzi, questo costituisce uno dei nemici principali dell’amore. Leggendola, a tal proposito, mi è venuto in mente un aneddoto che raccontava Paolo Menghi. Presente in una chiesa durante la cerimonia della prima comunione di un gruppo di bambini, egli affermava che era facile indovinare chi fossero i parenti di ciascun bambino. Il sacerdote li aveva preparati molto bene e a turno salivano sull’altare per declamare un proprio pensiero o una personale preghiera. Ogni volta che un bambino parlava, c’era un gruppetto di persone che si commuoveva e poi si rimetteva a posto, magari nascondendo le lacrime con un fazzoletto, quando il bambino terminava. A quel punto, ascoltandone un altro, in un’altra navata iniziava lo stesso movimento tra un altro gruppo di persone. Menghi notava come in genere tutti si commuovessero ascoltando il proprio congiunto mentre tendevano a distrarsi ascoltando gli altri. Ma in realtà tutti i bambini erano splendidi, nel loro uguale impegno. Eppure nessuno riusciva a godere della grazia di tutti ma solo del proprio figlio o nipote. Maledetto possesso, quanta bellezza sprecata…

Imparare ad amare ciò che ci circonda, fino all’Universo intero, è dunque anche il messaggio con cui si chiude il libro. Ma serve disciplina e perseveranza per poter vivere un perenne primo amore, fatto di curiosità, apertura e fiducia.

Esiste una relazione fra teorie del complotto e tratti disfunzionali di personalità? Uno studio su giovani inglesi

Le teorie del complotto sono definite come narrazioni essenzialmente false in cui si ritiene che più agenti stiano lavorando insieme verso fini malevoli.

 

Douglas et al. (2019) notano che si tratta di tentativi di spiegare le cause ultime di eventi sociali e politici significativi mediante affermazioni di complotti segreti riguardanti due o più agenti potenti. Il numero copioso di persone che dà credibilità alle teorie del complotto ha attirato una grande quantità di ricerche.

Da uno studio recente è emerso che credere alle teorie del complotto è associato a una serie di caratteristiche dei disturbi di personalità e sintomi psicopatologici (Bowes et al., 2021).

Teorie del complotto, sospettosità e pensieri insoliti

È stato riportato che le teorie del complotto aiutano a dare un senso agli eventi che vengono considerati confusi, difficili da comprendere o mal spiegati dalle fonti di informazione tradizionali. Possono esistere, inoltre, tratti cognitivo-percettivi disadattivi che contribuiscono alla formazione o al mantenimento delle teorie del complotto (Van Elk, 2015).

Alcuni studi hanno esplorato il legame tra credenze alle teorie del complotto e tratti come la paranoia, l’ideazione magica e la credenza al paranormale, trovando associazioni positive tra la credenza alle teorie del complotto e la schizotipia (Darwin et al., 2011; Swami et al., 2016). In particolare, hanno suggerito che i tratti di sospettosità visti negli individui ad alto contenuto schizotipico possono portare a non credere alle fonti di informazione ufficiali o mainstream. Goreis e Voracek (2019) hanno notato che le teorie del complotto fanno appello a coloro che si sentono disconnessi dalla società, infelici della loro vita e che hanno una visione del mondo che include convinzioni, esperienze e pensieri insoliti.

Teorie del complotto e tratti di personalità

Lo studio di Furnham e Grover (2021) ha esplorato la relazione tra la credenza alle teorie del complotto e i disturbi di personalità. Allo studio hanno partecipato 450 individui britannici mediamente ventinovenni, di cui 240 uomini. Il grado di educazione riscontrato fra i partecipanti era: 31% diploma di scuola superiore, 36% diploma di laurea e 19% diploma post laurea. Inoltre il 73% dei partecipanti si è dichiarato per niente religioso ed il 4% molto religioso. I soggetti dello studio sono stati reclutati online, utilizzando la piattaforma “Prolific” e garantendo l’anonimato dei dati. La ricompensa stabilita per la partecipazione era di £1.50. Per verificare le ipotesi di partenza sono stati utilizzati quattro questionari self-report. Le informazioni riguardo alla personalità sono state raccolte utilizzando il “Coolidge Axis-II Inventory – Short Form” (SCATI) (Coolidge, 2001) ed il “Structured Assessment of Personality Abbreviated Scale” (SAPAS) (Moran et al., 2003). Il primo fa riferimento ad un approccio categoriale, ovvero legato ai criteri diagnostici proposti nel DSM, il secondo ha una natura dimensionale e meno strutturata. Per misurare le credenze legate alle teorie del complotto è stata usata la scala a 15 item “Belief in Conspiracy Theories” (BCTI) (Swami et al., 2010, 2011). In questa fase i partecipanti hanno valutato la validità delle cospirazioni in una scala a 9 punti in cui 1 equivaleva a “completamente falso” e 9 “completamente vero”. Il quarto test proposto è “Intelligence” (Grover, 2018), un questionario a 10 item per valutare il quoziente di intelligenza, basato anche sulle conoscenze culturali dei soggetti (es. “Qual è l’unità di misura dell’intensità del suono?”). Infine, per valutare il livello di autostima, è stato chiesto ai partecipanti di attribuire un punteggio da 0 a 100 in cui 0 indicava “Molto bassa” e 100 “Molto alta” (Furnham & Horne, 2021).

Le correlazioni positive emerse dallo studio di Furnham & Grover (2021) dimostrano che le teorie del complotto possono essere associate ad una vasta gamma di disturbi. Risultano di particolare rilevanza le relazioni fra tratti sadici e teorie del complotto e tratti autolesionisti e teorie del complotto. La prima può essere spiegata dal desiderio di spaventare e intimidire gli altri mentre la correlazione tra tratti autolesionisti e teorie del complotto potrebbe essere motivato dall’insieme di negatività, tristezza e preferenza per le persone che portano alla delusione, al fallimento o al maltrattamento associabili a questo tipo di tratti. I risultati hanno dimostrato che i cluster di ordine superiore sono i predittori più chiari delle teorie del complotto, soprattutto il cluster A il quale comprende il disturbo paranoide, schizoide e schizotipico di personalità. Le caratteristiche comuni di questi disturbi sono l’inibizione sociale, il ritiro sociale, la predominanza del pensiero distorto ed una mancata sincronia con il mondo circostante (Esterberg et al.,2010). Altre due variabili correlate alle teorie del complotto sono: il grado di istruzione e l’intelligenza (QI). Nello specifico sembrerebbe che le persone più istruite siano più scettiche, meno religiose e pertanto meno attratte dalle teorie del complotto (Goreis & Voracek, 2019). Pertanto, si pensa che l’istruzione e la formazione siano tra gli strumenti migliori per contrastare la diffusione delle credenze nelle teorie del complotto. La scala SAPAS (Moran et al., 2003) non ha fornito dati significativamente utili per la ricerca. Ciò suggerisce che brevi misure di screening dei disturbi di personalità non sono sufficientemente utili per esplorare la relazione tra disturbi di personalità o tratti patologici e teorie del complotto. Il presente studio presenta potenzialmente dei limiti quali la trasversalità, l’autosomministrazione dei test, l’impossibilità di dedurre il rapporto di causalità fra le variabili e sovrastime legate alle statistiche. Gli autori suggeriscono per le ricerche future sulle teorie del complotto di esplorare ulteriori variabili di personalità non precedentemente implicate nella ricerca (Furnham & Grover, 2021).

 

Bias Vs campagna di vaccinazione. Il ruolo del ragionamento: indecisi e determinati.

L’emergenza da Covid-19 e la conseguente campagna vaccinale ha fatto emergere diversi giudizi e valutazioni circa l’utilità del vaccino. In questo articolo si descrivono alcuni processi cognitivi sottesi alle diverse reazioni.

 

Il 27 dicembre 2020, abbiamo assistito al “Vaccine day”, giornata che ha sancito ufficialmente l’inizio della campagna vaccinale per contrastare la pandemia da Covid-19.

Per più di un anno la campagna vaccinale ci è stata presentata come l’unica risoluzione al panico generatosi in seguito alla diffusione del virus. Diverse sono state le reazioni psicologiche della popolazione, non obbligata dal Decreto del 12 marzo 2021 a vaccinarsi, e le valutazioni personali sono state connotate – a nostro avviso – da una allarmante miopia cognitiva.

Di conseguenza, alcuni cittadini si sono adoperati alla ricerca di un antidoto, altri si sono nascosti o sottratti, negandone l’efficacia o dissertandone sulla rete. Altri ancora ne hanno sostenuto l’efficacia, e si sono sentiti privilegiati di essere reclutati tra coloro che potevano o avrebbero dovuto sottoporvisi; altri, invece, hanno temuto di andare incontro a potenziali danni per la propria salute.

Queste reazioni, a nostro avviso, potrebbero essere connesse alla campagna europea di vaccinazione, contraddittoria e spesso enfatica, nonostante la sua finalità rassicurante.

Ci riferiamo ad esempio agli allarmismi e alle fake news circolate anche nella rete. Abbiamo visto sottoporsi a vaccinazione prima i vulnerabili e le fasce protette, e poi file di pensionati vaccinati e gli insegnanti in lista di attesa, quotidianamente esposti al rischio: un “pandem-onio”! Non ultimi i lotti fallati e le alterne valutazioni su alcune tipologie di vaccino. Si disegna dunque una psicologia emotiva contraddittoria che si muove da un lato tra paura, ansia, rabbia e dall’altro, ottimismo, entusiasmo, speranza.

Di fronte al vaccino diverse sono state le credenze attivatesi: ci riferiamo a delle modalità di ragionamento riguardanti la salute, il benessere personale e comune, e più in generale l’approccio alla vita, alla malattia e all’emergenza.

I bias relativi alla campagna vaccinale

Tversky & Kahneman (1974) hanno teorizzato l’esistenza di una serie di bias cognitivi che possono indurre in errori di ragionamento, ovvero distorsioni nelle valutazioni o nel processo decisionale. Si tratta di distorsioni cognitive inconsapevoli che a volte ci inducono a prendere decisioni irrazionali anche quando siamo convinti di aver valutato accuratamente una questione. Un bias è definito nello specifico come un errore di valutazione o mancanza di oggettività di giudizio di fronte ad una scelta, una situazione o una questione che prende origine da informazioni che si hanno in possesso e da cui si inferiscono giudizi, pregiudizi e ideologie.

Tuttavia, non è possibile rimuovere i bias dal funzionamento della nostra mente; è possibile analizzarli a posteriori in modo tale da verificare le diverse valutazioni sulla realtà e prevenire eventuali effetti distorsivi.

Per quasi tutto il Novecento, mentre si diffondevano gravi malattie infettive anche nei paesi industrializzati, le campagne di vaccinazione erano considerate una soluzione miracolosa. Oggi, in relazione all’opportunità offertaci dal piano di vaccinazione nazionale, osserviamo una diffusione di bias cognitivi che sembrano frenare la propensione alla vaccinazione.

Nel secolo scorso, grazie all’interazione tra il bias della disponibilità (Tversky & Kahneman, 1973), ovvero la tendenza che porta a formulare giudizi sulla base degli esempi e/o delle informazioni più disponibili che più facilmente e vividamente vengono alla mente, e il bias della riprova sociale (Cialdini  1984), tendenza a ritenere maggiormente validi i comportamenti o e le scelte che vengono effettuati da un elevato numero di persone), quasi nessuno sviluppava un atteggiamento critico nei confronti della vaccinazione su larga scala.

Dando uno sguardo al passato, come possiamo spiegarci che i vaccini – forse i rimedi più efficaci e sicuri che la scienza abbia mai scoperto e garantito – siano diventati così allarmanti al punto da indurre milioni di genitori nel mondo a non proteggere i propri figli da malattie molto gravi?

Analizzando il fenomeno, possiamo osservare come sia già accaduto che si diffidasse del vaccino; ad esempio nel febbraio del 1998 il medico inglese Andrew Wakefield avanzò l’ipotesi che la vaccinazione trivalente potesse causare l’insorgenza di autismo. L’annuncio ebbe una significativa risonanza mediatica e milioni di genitori entrarono in allarme. Sulla scia del bias della disponibilità, l’allarme divenne forte alimentando il dilemma: vaccinare o non vaccinare i propri figli? Spinti dal bias di omissione, molti genitori scelsero di non farlo, seguendo una linea di ragionamento omissiva: in caso di incertezza o di dubbio, meglio non agire piuttosto che ad agire.

Un altro bias senz’altro contribuì ad alimentare l’allarme. Spesso l’insorgenza dell’autismo corrispondeva temporalmente alla somministrazione della vaccinazione. Ciò portò molti genitori ad inferire un nesso di causalità fra vaccino e autismo: “se l’autismo si manifesta poco dopo la vaccinazione, allora il vaccino deve esserne stato la causa”.

Tuttavia, ad oggi sappiamo, che si tratta di due eventi separati ed indipendenti, ma l’illusione di causalità fece sembrare questo legame molto plausibile e probabile. In moltissimi genitori la paura si consolidò in una convinzione sempre più radicata, alimentando uno dei bias più potenti di cui spesso siamo vittime: il bias di conferma (Wason 1960). Si tratta della tendenza a cercare, a credere e a ricordare informazioni che confermano una nostra convinzione, e a rifiutare, non credere o dimenticare quelle che la possono smentire (Nickerson, 1998; Oswald, & Grosjean 2004) e dunque confermare una ipotesi tramite prove a favore invece che prendere in considerazione evidenze contrarie. A sommarsi intervenne l’effetto Dunning-Kruger, un bias cognitivo che porta a sovrastimare le proprie competenze in uno specifico ambito, anche se pur debolmente in nostro possesso.

Attualmente la società è spaccata tra indecisi e determinati. Per questo motivo può essere utile confrontarsi con diversi bias che possono condurre a valutazioni erronee circa l’efficacia della vaccinazione e dunque far luce sui bias degli “indecisi”.

Mai come in questo momento storico, la disponibilità di un vaccino efficace rappresenta un rimedio indispensabile: ecco il bias della disponibilità di nuovo in azione!

Tra gli errori di ragionamento, possiamo annoverare il bias di conferma. Ciascuno di noi è portato ad attribuire maggiore credibilità alle informazioni che confermano le proprie convinzioni e ad evitare informazioni che le contraddicano. Si tratta di una modalità di ragionamento che porta a far riferimento alle sole informazioni che alimentano i propri punti di vista preesistenti (“negazionisti – complottisti”). La conseguenza di questo errore comporta una conferma delle nostre decisioni o convinzioni, piuttosto che la loro messa in discussione: “Se hanno iniziato a dire che AstraZeneca ha esiti avversi è proprio vero quanto pensavo…”. Questa affermazione non è supportata da un punto di vista scientifico, piuttosto è una rappresentazione della realtà che conduce ad ignorare o sottostimare gli eventi che confuterebbero la propria posizione preesistete. Inoltre, questo errore, può essere alimentato anche dal “bias del pavone”, inteso come la tendenza a mostrare maggiormente i successi rispetto ai fallimenti o, d’altra parte, a ignorare questi ultimi.

Alla luce di quanto indicato precedentemente, appare interessante riflettere anche sul bias di omissione, errore che porta a fare scelte che comportano l’omissione anziché l’azione, anche quando vi è un’esposizione a rischi oggettivamente elevati per la salute, in questo caso il contagio. La paura o il timore di commettere una scelta potenzialmente errata o dannosa porterebbero, infatti, ad assumere una posizione passiva, tale da sperimentare un rimpianto minore qualora l’esito fosse la morte o il rischio per la propria salute. Di fronte al dubbio che la vaccinazione possa causare esiti avversi, si decide quindi di non vaccinarsi, sottoponendosi a rischi di gran lunga maggiori in termini di probabilità. In situazioni di una scelta valutata come “rischiosa”, chi deve decidere se vaccinarsi o meno si confronta con l’alternativa tra azione concreta e omissione, tendendo a scegliere l’omissione in assenza di informazioni per sé valutate come rassicuranti: “Non ho informazioni rassicuranti… se dovessi vaccinarmi non mi perdonerei o accetterei mai un’eventuale reazione avversa”. Tuttavia anche il non vaccinarsi è in realtà una scelta assai più rischiosa: corrisponde, infatti, alla scelta di non proteggersi dall’epidemia.

Si aggiungono il bias di ancoraggio o la trappola della relatività, ossia la tendenza a creare una propria realtà soggettiva, non corrispondente alle evidenze, sulla base di interpretazioni in possesso che portano ad un errore di valutazione o ad una non oggettività di giudizio. L’errore, pertanto, comporta un ancorarsi ad un valore che viene poi utilizzato arbitrariamente come termine di paragone per le valutazioni in atto, invece che basarsi sul valore assoluto (“Dopo la vaccinazione, pochi sono deceduti, ed altri hanno rischiato la trombosi”). Pertanto, non vengono valutati gli esiti positivi. Ciò si ricollega alle correlazioni illusorie (Hamilton e Guifford, 1976), ovvero all’attribuzione di relazioni tra variabili seppur non esistenti: “dopo il vaccino ho iniziato a sentirmi più stanco, più debole, più vulnerabile”. Anche queste affermazioni non si basano su statistiche dei dati, ma su una valutazione erronea che, se due eventi sono legati a livello temporale, allora possono essere connessi da un rapporto di causa-effetto. Tale modalità definita “Correlation is not causation” pone enfasi su come due eventi correlati temporalmente non sono necessariamente uno causa dell’altro e, dunque, che la correlazione non implica causalità. Il nostro cervello è sempre alla ricerca di spiegazioni per comprendere la realtà, pertanto, in una situazione avversa come la pandemia, sarebbe opportuno non effettuare una valutazione partendo da un caso singolo, ma affidarsi a ciò che la scienza ritiene attendibile.

Infine, si è avuto modo di riscontrare la presenza dell’euristica della disponibilità. Le persone tendono a sovrastimare le informazioni che sono loro maggiormente disponibili o che appartengono ad una cerchia di persone “vicine”.

In questo caso quindi, oltre all’impossibilità di verificare la veridicità delle informazioni, si tende a considerarle superiori a tutte quelle che possono mitigarne l’effetto. Il risultato è quello di estremizzare il dato, nonché di considerare il vaccino pericoloso e, quindi, di evitarlo. È sicuramente inevitabile non lasciarsi coinvolgere dalle persone vicine: il problema è lasciare all’emotività il controllo su decisioni importanti che possono decretare un rischio la propria salute.

In questi mesi, a seguito dell’attenzione da parte dei media di poche gravi reazioni avverse, abbiamo osservato come intere fasce di popolazione si siano rifiutate di sottoporsi alla vaccinazione con AstraZeneca, attivando anche un bias di informazione selettiva, sulla base del quale ogni elemento statisticamente irrilevante assume invece una notevole importanza a favore delle proprie credenze di diffidenza e paura circa gli effetti collaterali del vaccino.

Campagna vaccinale e decision making

Queste considerazioni conducono certamente alla maggiore comprensione di taluni fenomeni, ed evidenziano come i processi di valutazione e la presa di decisione siano influenzati da ingredienti emotivi.

È noto, infatti, come l’emozione guidi e influenzi i processi cognitivi, e dunque i giudizi, quando sono vissuti come fonte di informazioni rilevanti per il giudizio (Clore, 1992; Schwarz & Clore, 1988, 1996). Alcuni processi come l’Emotional Reasoning (Arntz et al, 1995; Mancini  e Gangemi, 2004) e l’Affect-as-Information, sono due  termini per descrivere un medesimo meccanismo psicologico in grado di mantenere nel tempo valutazioni e comportamenti disfunzionali, che espongono ad inferire una condizione di pericolo/timore a partire dal proprio stato emotivo negativo, validando erroneamente pensieri e credenze relativi alla presenza di pericoli o impedimenti, che a loro volta vanno ad amplificare l’emozione di partenza. Si tratta di processi attraverso i quali gli esseri umani tendono ad utilizzare il proprio stato affettivo, più che delle evidenze oggettive, come informazione saliente per esprimere valutazioni sul mondo, meccanismo che non è soltanto tipico di processi psicopatologici, ma che tutti viviamo nella quotidianità. Un esempio pertinente per questo articolo può essere: “Se mi sento preoccupato e in ansia, allora vuol dire che il vaccino ha qualcosa di pericoloso”.

Appare interessante riflettere sul ruolo del ragionamento emozionale come fenomeno che guida coloro che, nonostante le numerose evidenze empiriche riguardo i vantaggi della vaccinazione (alcuni studi escludono fenomeni avversi anche a lungo termine), continuano a non vaccinarsi sulla base di un vissuto emotivo di paura, che guida la loro valutazione e il conseguente comportamento, sino a generare credenze arbitrarie relative al vaccino, talvolta persino di tipo complottistico.

La paura, il ragionamento emozionale e l’affect-as-information sottolineano quanto sia diffusa la resistenza al cambiamento a causa del ruolo cruciale svolto da alcune credenze nella genesi e nel mantenimento della sofferenza psicologica.

Certamente, a mantenere questo tipo di funzionamento, intervengono fattori ambientali di ambivalenza e scarsa chiarezza da parte della campagna vaccinale.

Ma è importante tener presente che i bias rispetto al vaccino possono essere certamente influenzati dalla tendenza ad affidarsi a processi di ragionamento influenzati dalle emozioni, alle euristiche, ad orientarsi verso una teoria complottista/negazionista o della cospirazione, che inficia una narrazione corretta sulla vaccinazione.

Appare interessante riflettere anche sul confine fra la psicologia dei no-vax e i quadri di fobia in cui osserviamo il ragionamento emozionale e/o simil ossessivo e l’evitamento esperienziale, messi in atto allo scopo di azzerare qualsiasi tipo di rischio, accettando un rischio di malattia maggiore.

Infine, anche l’obiezione relativa alla costrizione e alla democrazia di poter scegliere di non farlo, reclamano sia un senso di non accettazione, che riscontriamo nei profili ansiosi, sia credenze di specialità e diritti straordinari, che contraddistinguono quadri di narcisismo covert.

Riteniamo che una comunicazione corretta sull’utilizzo dei vaccini possa avvalersi delle competenze dello psicologo, al fine di garantire una comunicazione scevra da allarmismi, che neutralizzi le credenze negative rispetto ad esiti indesiderati.

 

Victim blaming: l’oscuro fenomeno degli abusi sugli uomini

La colpevolizzazione della vittima, fenomeno noto come victim blaming, può essere immaginato come un’esperienza estremamente negativa, caratterizzata dalla tendenza a biasimare chi ha subito reati o ingiustizie, ritenendolo parzialmente o totalmente responsabile di quanto patito.

 

Tale fenomeno trova spesso terreno fertile quando si tratta di violenze sessuali: il timore di essere sopraffatti dai giudizi negativi altrui può impedire alle vittime di denunciare e cercare aiuto formale o informale (Meyer, 2016); alcune narrative rivelano il timore delle vittime di essere colpite rispetto alla propria reputazione, ad esempio credendo di essere state responsabili della violenza subita o di essere giudicate in un’ottica moralista (Pagliaro et al., 2021).

Assieme al fenomeno del victim blaming, un’altra tendenza negativa nei confronti delle vittime è quella dei miti sullo stupro, ovvero atteggiamenti e credenze che, nonostante siano false, vengono mantenute solidamente a livello sociale, e che hanno la funzione di negare e giustificare le aggressioni sessuali (Lonsway & Fitzgerald, 1994, p.134). Le conseguenze del tramandarsi di questi miti includono l’accettazione e normalizzazione dello stupro, la possibilità da parte dell’abusante impunito di perpetrarlo nuovamente e, soprattutto, un ridotto supporto alle vittime con rischi di vittimizzazione secondaria da parte della legge (Bohner et al., 2006). La vittimizzazione secondaria si origina proprio quando le istituzioni danno vita a incomprensioni, pregiudizi, stereotipi nei confronti della vittima, costringendola a rivivere in parte la sofferenza già provata al momento dell’abuso.

Abusi sessuali con vittime maschili

Se questi fenomeni sembrano essere fortemente presenti in tema di abusi sessuali sulle donne, sembrerebbero ancora più pregnanti nei confronti delle vittime maschili di stupro (Turchik & Edwards, 2012): il numero oscuro delle statistiche aumenta vertiginosamente, oltre ad una quasi assenza di dati sui diversi motori di ricerca.

All’interno di una cultura occidentale che identifica fortemente il genere maschile con l’idea di virilità, contemplare la possibilità che anche gli uomini possano essere stuprati diviene di difficile accettazione da parte dell’intera società. La letteratura scientifica presenta diversi studi sui rape myths rispetto agli abusi sulle donne (Payne et al., 1999; Burt, 1980), ma ve ne sono altrettanti nella sfera maschile, come ad esempio la falsa credenza che gli uomini non possano essere violentati, che debbano essere biasimati o che non riportino traumi a lungo termine (Struckman-Johnson & Struckman-Johnson, 1992), i quali affondano le proprie radici proprio nel tipo di cultura appena esposta. Anche in questo caso, la stigmatizzazione che viene associata alle vittime maschili di abusi sessuali non viene perpetrata solamente dalla cultura e dalla società, ma anche da parte della giustizia, spesso condizionata da preconcetti (Javaid, 2017).

Questo sostrato socio-culturale alimenta la scarsa apertura delle vittime maschili nella ricerca di supporto psicologico; scarse sono anche le denunce e dunque l’opportunità di accesso ad aiuti per il timore di non essere creduti o di essere incolpati o stigmatizzati (Hancock et al., 2021; Masho & Alvanzo, 2010).

Conseguenze del victim blaming nei casi di vittime maschili

La mancanza di accesso ad agenzie di supporto specificamente dedicate alle vittime di abuso determina un tentativo da parte delle stesse di ritrovare rimedi autonomi, con conseguenze spesso disastrose, come ad esempio l’abuso di alcol come tentativo di autocura per abbassare i livelli di ansia e sopportare la sofferenza (Rehan et al., 2017). La letteratura scientifica mostra inoltre che, se l’abuso sessuale avviene in età infantile, esso è associato ad una maggiore insorgenza di disturbi dell’umore, ansia, disturbo da stress post-traumatico, uso di sostanze, disturbi di personalità e disturbi alimentari (Afifi et al., 2017).

Diversi studi hanno sottolineato che anche la sintomatologia sarebbe influenzata da una sorta di adesione ad aspettative di ruolo e di genere: nel 1996 Rutz ha teorizzato l’esistenza di una “modalità maschile di essere depressi”, connotata appunto da un abuso smodato di alcol e tentativi di suicidio; altri studi hanno integrato tale modalità con un pattern comportamentale particolarmente improntato al rischio, alla rabbia ed all’aggressività, identificando una sorta di fenotipo maschile depressivo (Rice et al., 2021).

Alla luce di quanto emerso, e soprattutto di quanto ancora oggi resta oscuro alle statistiche, alla letteratura e all’intera collettività rispetto al tema dell’abuso sessuale sugli uomini, appare fondamentale convogliare tutti gli sforzi per aumentare la consapevolezza rispetto all’esistenza di tale realtà, assieme all’abbattimento degli stigmi di genere. L’identificazione di tali crimini, e soprattutto di chi li ha subiti, può aiutare nell’elaborazione, nel superamento e nel miglioramento della qualità della vita, data la sofferenza che tale problematica comporta in chi ne è vittima.

 

La seconda giovinezza della terapia di esposizione. Modello concettuale e modalità operative – Recensione

La seconda giovinezza della terapia di esposizione, oltre a fornire una descrizione dettagliata dei meccanismi neurali sottostanti l’estinzione, descrive la reinterpretazione cognitiva del processo di estinzione e le sue influenze sulla terapia. 

 

Uno dei grandi meriti di questo volume, come indicato dal professore Giampaolo Robert Perna nella prefazione, è la definizione chiara e operativa del meccanismo dell’apprendimento inibitorio e la spiegazione dei vari strumenti operativi da utilizzare nella pratica clinica.

Il volume La seconda giovinezza della terapia di esposizione prende in considerazione i cambiamenti nella concettualizzazione e nella consegna della terapia di esposizione che si sono registrati negli ultimi anni. Parte dalle origini e finisce con il descrivere il nuovo modello di funzionamento dell’esposizione, secondo il quale la terapia agirebbe mediante la creazione di nuove memorie inibitorie rispetto a quelle eccitatorie di paura.

Per il nuovo modello definito di “apprendimento inibitorio”: l’esposizione non comporterebbe una vera e propria cancellazione della memoria originaria di paura, come si riteneva in passato, ma determinerebbe, invece, la formazione di una nuova memoria che interferirebbe con quella eccitatoria e con la sua espressione, una “memoria antagonista e inibitoria”.

Il volume, oltre a fornire una descrizione dettagliata dei meccanismi neurali sottostanti l’estinzione, descrive questa reinterpretazione cognitiva del processo di estinzione e le sue influenze sullo sviluppo e potenziamento della terapia.

Le principali tecniche proposte sono così divise:

  • strategie per massimizzare la “formazione” dell’apprendimento inibitorio (etichettamento delle emozioni e violazione delle aspettative);
  • strategie per massimizzare il “consolidamento” dell’apprendimento inibitorio (distribuzione del carico espositivo, riposo e sonno);
  • strategie per massimizzare il “recupero” dell’apprendimento inibitorio (contesti multipli, spunti di recupero e umore positivo).

In sostanza, l’esposizione condotta con un approccio inibitorio è finalizzata prevalentemente a creare errori di predizione violando al massimo l’aspettativa del paziente.

Il testo prende in considerazione aspetti specifici che riguardano gli adolescenti, i bambini e la fase di assessment.

Sono riportati, inoltre, casi clinici con numerosi esempi di applicazione per una serie di disturbi.

Una sezione importante del libro è dedicata agli studi e alle ricerche sul tema.

Fino a qualche decennio fa, l’idea sulla memoria era focalizzata sui concetti di consolidamento e indelebilità dei ricordi emotivi; in altre parole la memoria, una volta formata e consolidata, veniva considerata indelebile nel cervello. Oggi, però, sappiamo che il recupero di un ricordo induce un processo di riconsolidamento, in quanto il ricordo recuperato viene reso nuovamente labile e sottoposto a un nuovo consolidamento. Proprio questa finestra di riconsolidamento offre l’opportunità di riorganizzare la memoria esistente in funzione di nuove informazioni, un aggiornamento dovuto a una mancata corrispondenza di aspettative e previsioni rispetto al ricordo originario.

Alcune strategie farmacologiche si stanno dimostrando utili nel potenziare l’apprendimento inibitorio (D-cicloserina cortisolo, la L-dopa, l’ossitocina, l’orexina, il blu di metilene, la yohimbina e la scopolamina) e, inoltre, il testo descrive anche specifiche procedure di stimolazione cerebrale applicata mediante dispositivi, recentemente sperimentate in combinazione alla terapia di esposizione: la stimolazione elettrica transcranica, la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione cerebrale profonda, la stimolazione del nervo vago.

Queste nuove strategie non si contrappongono a quelle classiche di abituazione, bensì possono rappresentare insieme ad esse modalità integrate per produrre l’estinzione di comportamenti disfunzionali.

La seconda giovinezza della terapia di esposizione è una lettura molto interessante per il clinico, offre spunti preziosi sulle diverse strategie e tecniche da applicare nei casi più difficili e resistenti al trattamento.

 

Immaginare gli effetti delle droghe per migliorare le proprie capacità di coping: mantenimento dell’abuso o possibile terapia per le dipendenze?

Un recente studio ha cercato di dimostrare l’applicazione sperimentale della Self Regulation Therapy per migliorare le capacità di coping.

 

Esiste un ampio consenso internazionale riguardo alla nocività e alla pericolosità delle droghe sugli effetti della salute pubblica (Bahorik et al., 2017; NIDA, 2020; Amigó, 2021). Cannabis, ecstasy e cocaina sono considerate sostanze suscettibili di abuso che creano dipendenza (Amigó, 2021). Allo stesso tempo, diversi autori analizzano i motivi che portano le persone ad utilizzare queste sostanze. Nello specifico, Boys e colleghi (2001) osservarono le varie funzioni dell’utilizzo delle droghe, tra cui effetti rilassanti (96,7%), restare svegli di notte per socializzare (95,9%), alleviare stati d’animo depressi (86,8%) e migliorare un’attività (88,5%).

La suggestione è definita come un “processo psichico che conduce l’individuo ad agire secondo suggerimenti esterni, provenienti da personalità più forti della sua o da situazioni ambientali particolarmente cariche di tensione emotiva, senza aver subito alcuna costrizione manifesta” (Hoepli, 2018).

La Self Regulation Therapy

La Self Regulation Therapy (SRT; Amigó, 1992) è la prima procedura psicologica che si basa sulla riproduzione degli effetti delle droghe attraverso la suggestione: sono stati riprodotti gli effetti di droghe diverse per ogni sessione (Amigó, 2021) e sostanze come cannabis, ecstasy, metilfenidato, anfetamine e cocaina sono state testate (Amigó, 2014; 2015; 2018). Nonostante tale terapia sia scarsamente dimostrata, a causa dei pochi studi pubblicati sulla riproduzione degli effetti delle droghe mediante suggestione, due studi (Amigó, 1994; 1997) indicano come la SRT possa essere utilizzata per incrementare gli stati d’animo positivi e ridurre quelli negativi. Tale terapia è stata utilizzata con successo per il trattamento di pazienti con stress, ansia e depressione (Amigó, 2021). Con l’SRT vengono applicati differenti esercizi di richiamo sensoriale con lo scopo di insegnare ai soggetti come produrre varie sensazioni fisiche, inizialmente provocate da stimoli reali, in modo volontario attraverso l’immaginazione (Amigó, 1992; 2021).

Uno studio sperimentale sulla Self Regulation Therapy

Amigó (2021) ha cercato di dimostrare l’applicazione sperimentale della SRT per migliorare le capacità di coping. Basandosi sull’utilità di tale intervento per sostenere la psicoterapia convenzionale, l’autore ha svolto l’esperimento su un campione composto da 15 partecipanti volontari (8 maschi e 7 femmine), con un’età compresa tra i 20 e i 34 anni. In questo studio sono state incluse persone che fanno un uso occasionale di droghe illegali e persone che hanno risposto sufficientemente alla suggestione generale e ai vari effetti (Amigó, 2021). Tra i vari strumenti utilizzati, la Substance Use Scale (EMCDDA; 2003) è una questionario di autovalutazione, utile a misurare la frequenza del consumo di sostanze come tabacco, alcol, cannabis, MDMA, sedativi, allucinogeni, anfetamine e cocaina, che segue l’Osservatorio Europeo per criteri relativi alle Droghe e alle Tossicodipendenze (OEDT). La Barber Suggestibility Scale (BSS; Barber e Carverley, 1963; Gonzàlez) è stata utilizzata per valutare il livello di suggestionabilità dei partecipanti: può essere somministrata individualmente, con o senza induzione ipnotica, e può essere valutata oggettivamente (OS) o soggettivamente (SS; Amigó, 2021). Il Coping Orientation to Problems Experienced (COPE; Carver, 1989; Crespo e Cruzado, 1997) è un inventario multidimensionale tipo Likert composto da 60 domande, utile a valutare i metodi di coping, in tempi distinti, attraverso 15 scale e con dei punteggi che variano da 1 (nessun effetto) a 4 (massimo effetto). Per questo studio, sono state incluse le sottoscale “pianificazione e fronteggiare attivamente” (6 domande), “reinterpretazione positiva” (3 domande), “crescita personale” (2 domande) e “disimpegno comportamentale” (3 domande). La Positive and Negative Affect Schedule (PANAS) è una scala composta da parole descriventi diverse emozioni e sentimenti e da due scale, ognuna composta da 10 domande, per indagare gli affetti positivi e negativi (Amigó, 2021). Le droghe maggiormente utilizzate dai partecipanti nell’ultimo anno erano l’alcol e la cannabis (da parte di tutti i soggetti), il tabacco (12 soggetti) e tranquillizzanti (11 soggetti), nell’ultimo mese invece le sostanze più utilizzate erano cannabis (n = 14), alcol (n = 14) e tabacco (n = 10). Utilizzando l’SRT, 14 soggetti hanno scelto di riprodurre gli effetti della cannabis attraverso la suggestione, due partecipanti hanno scelto di riprodurre gli effetti della cocaina e altri due gli effetti dell’ecstasy (Amigó, 2021).

I risultati suggeriscono come la SRT abbia un effetto significativo per le quattro strategie di coping analizzate e, nel tempo, per la pianificazione, il fronteggiare attivamente i problemi e la crescita personale dei soggetti. La SRT sembra aver migliorato anche le capacità emotive, incrementando le emozioni positive e diminuendo quelle negative. Considerando il possibile limite legato al fatto che la SRT potrebbe spingere i soggetti ad utilizzare le sostanze in modo controllato, si suggeriscono ulteriori studi per osservare se questa terapia può essere efficace per trattare le tossicodipendenze, portando così i soggetti a provare degli effetti “mentali” delle droghe senza craving e senza doversi procurare la sostanza (Amigó, 2021).

 

Scene da un matrimonio (2021) tra amore, odio e rimpianti – Recensione della serie TV

Il 20 settembre è uscita la rivisitazione del film di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio, con gli attori Oscar Isaac e Jessica Chastain per la regia Hagai Levi.

 

La trama di base osserva, come per il film originale, il rapporto di coppia. Amore, odio, rimpianti e crisi di mezz’età sono tutti elementi comuni sia per Mira e Jonathan che per i protagonisti della serie originale Marienne e Joahn.

L’essenza è il non riuscire a spiegare come mai certe coppie non si lasciano stare, ma la versione di Levi ci porta una novità importante. I ruoli dei personaggi sono invertiti.

Nella versione HBO di Scene da un Matrimonio, Mira, è una donna in carriera e guadagna più del marito, Jonathan, professore. È lui ad occuparsi prevalentemente della famiglia. In questa versione è Mira a decidere di divorziare, dopo aver confessato una relazione extraconiugale a Jonathan.

Nella serie originale, tale ruolo spetta al marito Johan, ed è la moglie Marianne a insistere affinché lui non la lasci, piuttosto che andarsene con la studentessa di cui si è invaghito (nella serie HBO, Mira ha invece una storia con un collega più giovane).

In effetti, il tradimento di Mira è una valvola di sfogo che arriva solo dopo il reale motivo di rottura. A scaraventare la coppia in crisi è l’interruzione volontaria della seconda gravidanza di Mira. La protagonista infatti rimane incinta, ma non vuole un secondo figlio. La difficoltà nel sacrificare la maternità con le proprie ambizioni professionali. Questo senso di colpa che permane nella donna e che è tutto radicato nella società contemporanea. Avviene quindi una rottura con il passato ma che non cambia molto nella situazione di coppia, ed è questo il punto di svolta. A parer mio, che sia lui o lei ad avere una relazione, una sofferenza, un’insoddisfazione, non cambia il risultato. La società evolve, i ruoli si scambiano, si mescolano, si aprono, ma il risultato non cambia.

Sapete perché? Perché una coppia è coppia ed oggi dovremmo osservarla eliminando gli stereotipi oramai divenuti obsoleti di uomo, donna. Una famiglia è una famiglia. L’amore tra due persone è amore tra due persone.

Scene da un matrimonio osserva quindi l’incastro tra due persone, e forse per questo è stato inserito il cambio di ruoli per parlare di questo, la loro intimità, la difficoltà a separarsi da qualcosa che è così famigliare, qualcosa che ormai fa parte di noi anche se ci è divenuto insopportabile e questo prescinde dai ruoli, ma è ancorato alla crescita dell’individuo, a quello che cambia, alle aspirazioni, alla coerenza, a il represso che abbiamo ignorato e che alla fine esce fuori e che non ha sesso né razza.

Ho pianto vedendo questa mini serie, perché quello che ti fa vedere è una verità molto semplice, che non ha troppe necessità di colorare nessuna situazione e che viviamo o abbiamo vissuto in molti.

Quando si inizia un percorso di vita insieme è bene tenere a mente queste 9 verità:

  • Imparare ad ascoltarsi
  • Non scordare il NOI
  • Non dare per scontato l’altro
  • Riconoscere che ci sono sempre due verità
  • Non dover per forza avere sempre ragione
  • Essere onesti con se stessi e con l’altro
  • Non pretendere di essere uguali
  • Non scordarsi l’intimità

Nel film originale Marianne dice:

Non ho mai pensato “cosa voglio”, ma solo cos’è che vuole lui che io voglia. Ma quello non era essere altruisti come io credevo prima, era soltanto vigliaccheria. E quello che è peggio, un’assoluta ignoranza di me stessa.

La nona verità è questa:

  • conosci te stesso

perché, solo quando sai perfettamente chi sei e cosa vuoi, puoi iniziare a camminare davvero con qualcun altro.

 

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