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Narcisista violento? Superamento della credenza comune su Narcisismo e violenza nella coppia

Il Narcisismo gioca davvero un ruolo nelle violenze all’interno della coppia? 

 

Negli ultimi anni abbiamo visto proliferare sui media e new media servizi, articoli, racconti e quant’altro che descrivono vicende in cui un soggetto, spesso di sesso maschile, ha attuato un comportamento violento o aggressivo nei confronti del partner, definendolo Narcisista/Narcisista perverso/Narcisista malevolo et simila.

Si è diffusa quindi nel sentire comune l’associazione mentale Narcisista = Soggetto aggressivo e pericoloso in particolare nelle relazioni di coppia.

Orbene tale associazione è assolutamente troppo semplicistica, e soprattutto non adeguatamente supportata da dati scientifici, che invero delineano una realtà ben più complessa, dove sì, il Tratto Narcisistico può avere un ruolo, ma è davvero il responsabile di tali violenze?

Per meglio inquadrare il discorso, si ritiene doveroso fare alcune premesse precisando meglio il tema di cui si parla.

Disturbo narcisistico di personalità e tratti di personalità

Innanzitutto occorre diversificare la Patologia denominata Disturbo Narcisistico di Personalità, quindi diagnosticabile secondo il Diagnostic and statisticmanual of mental disorder – DSM 5 (American PsychiatricAssociation, 2013), dal Tratto Narcisistico di Personalità non per forza patologico. Cercando di semplificare la spiegazione, possiamo sostenere come, secondo la teoria dei Tratti (Allport, 1936, Eysenk, 1990, Cattell,1970, ed altri), e prescindendo in questa sede dai diversi approcci dei molti autori a riguardo, ogni essere umano possiede svariati tratti di personalità; questi tratti possono avere diversi livelli di forza e pervasività, e solo e soltanto quando essi assurgono ad avere forza, inflessibilità, disadattività e pervasività tale da soddisfare i criteri del suddetto DSM. è possibile parlare di Franca Psicopatologia; altrimenti essi sono parte dell’assetto di personalità del soggetto e contribuiscono all’unicità dell’individuo con le sue caratteristiche e idiosincrasie.

Orbene, adesso è il momento di delineare meglio cosa sia il Disturbo Narcisistico di Personalità, e quindi il tema fondante del Tratto Narcisistico.

Secondo i criteri diagnostici del DSM-5, per poter diagnosticare tale disturbo occorre che sia presente un pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che inizia nella prima età adulta ed è presente in vari contesti. Il DSM poi elenca vari elementi, tra cui: grandiosità dell’Io, fantasie di successo/fascino/bellezza, sentirsi speciale, richiesta di ammirazione, senso di diritto, mancanza di empatia, arroganza e presunzione, etc., fissando la presenza di almeno 5 di questi elementi per poter effettuare la diagnosi.

Se un soggetto quindi, ha una problematica di questo tipo, ma non soddisfa i criteri (brevemente) citati, allora il clinico non può esprimersi con Diagnosi di Disturbo di Personalità Narcisistico; tuttavia potremmo essere  comunque in presenza di un Tratto di Personalità che può comportare notevoli disagi al soggetto a seconda della sua gravità, pervasività e disadattamento.

Fatta questa premessa, possiamo ora comprendere meglio quanto nel sentire comune venga spesso attribuito il termine “Narcisista”, che gli addetti ai lavori intendono come Disturbo Narcisistico di Personalità, ad una pluralità di individui i quali, nella maggior parte dei casi, non soddisferebbero i criteri per una diagnosi di tale disturbo, bensì potrebbero avere un forte tratto Narcisistico senza che questi sia in concreto un Disturbo della Personalità.

Vien da sé che un soggetto con un elevato tratto Narcisistico di Personalità, e tanto più con un Disturbo Narcisistico, possa andare incontro a serie problematiche di relazione interpersonale, dovute a nostro parere, in principal modo alla grandiosità dell’Io, alla bassa empatia, ed alla necessità di essere ammirato. Più ha forza il Tratto, più questi elementi sono “importanti e pervasivi”, fino ad arrivare ad essere stabili e inflessibili in una franca patologia di Disturbo di Personalità.

Narcisismo e psicopatia

Ma la domanda iniziale al momento resta inevasa: i Narcisisti sono violenti con il partner?

Per provare a dare risposta a tale domanda è doveroso sottolineare quanto il tratto del Narcisismo sia fortemente correlato al tratto della Psicopatia. Ciò significa che, molto spesso, alla elevazione dell’uno si può riscontrare, a vari livelli, l’elevazione anche dell’altro tratto, con, in genere, uno dei due dominante, quindi di maggiore entità. Tanto è vera questa constatazione che anche nei Manuali come il DSM nel descrivere questi Disturbi di Personalità (Narcisistico e Antisociale) si rilevano molti elementi in comune tra le due patologie, ed in alcuni casi la diagnosi differenziale può essere molto difficile!

Veniamo adesso al focus del discorso.

Secondo uno Studio del 2021 (F. Delicato, 2021) preliminarmente presentato al Congresso annuale EUROCRIM2020 (European Society of Criminology, AnnualCongress, 10/11 September 2020) il tratto Narcisistico di Personalità non ha correlazione con gli agiti violenti verso il partner, bensì il responsabile di tali violenze appare unicamente il tratto della Psicopatia. Tali risultati concordano con la letteratura scientifica internazionale inerente la Psicopatia, tratto sempre più studiato ed approfondito sotto vari aspetti come ad esempio l’aspetto Neurobiologico (per una revisione, Anderson, N. E., & Kiehl, K. A. 2013). Dalle risultanze di alcuni studi, dal punto di vista neurobiologico emergono dati che suggeriscono una minore attività nelle aree cerebrali di elaborazione degli affetti rispetto a stimoli emotivi/salienti, in soggetti con alti livelli nel tratto della psicopatia, e gli stessi sembrano anche mostrare una maggiore attività nelle regioni cerebrali tipicamente associate alla elaborazione della ricompensa e controllo cognitivo in compiti che comportano elaborazione morale, processo decisionale e ricompensa (Seara Cardoso A.,&Viding E., 2014). Anche riguardo all’aspetto di correlazione tra Psicopatia e aggressività o violenza, vediamo come la letteratura scientifica internazionale, approfondendo solo il tratto della psicopatia a riguardo, rileva tale correlazione in varie tipologie di comportamento violento, come ad esempio nella violenza nella coppia (Robertson E.L., Walker T.M., &Paul J.F, 2020) oppure nella violenza giovanile (Kimonis, E. R., Skeem, J. L.,Cauffman, E., &Dmitrieva, J.,2011).

Tutto ciò implica quindi che il solo Narcisismo non spiega gli agiti violenti nella relazione di coppia, bensì è la presenza di alti livelli del tratto della Psicopatia ad essere correlata con tali violenze.

Per questo motivo se un soggetto ha un elevato tratto narcisistico, e soltanto quello, ovvero non presenta elevazioni circa il tratto della psicopatia, i dati ci dicono che la probabilità di un agito violento nella relazione di coppia non è molto elevata.

Al contrario se un soggetto ha un elevato tratto Psicopatico, che egli possa mostrare o meno anche una elevazione nel tratto Narcisistico, ebbene in ogni caso vi è correlazione, e quindi aumento di probabilità, con agiti violenti verso il partner.

A questo punto possiamo comprendere quanto il sentire comune, e soprattutto i media, possano essere facilmente confusi da tutto ciò, notando e mettendo in evidenza il più evidente e “scenico” tratto narcisistico nel racconto di un soggetto violento con il partner, invece del vero responsabile, ma ben più subdolo e complesso, tratto Psicopatico!

In sostanza, Il Narcisista Perverso/Malevolo (o altre definizioni) non esiste così come viene descritto (e non è una Diagnosi)! E soprattutto, per quanto riguarda gli agiti violenti non è il Narcisismo il problema.

La realtà è ben più complessa, dove, anche in ambito subclinico, quindi in assenza di franca patologia diagnosticabile, possiamo riscontrare soggetti con alti livelli nel tratto Psicopatico, i quali avranno ben più probabilità di acting out violenti nella coppia, e contemporaneamente possiamo riscontrare negli stessi sia alti livelli nel tratto narcisistico, sia livelli di media entità, che finanche livelli bassi (sebbene sia più probabile vista la correlazione positiva tra i due tratti, almeno un livello medio/medio alto del tratto Narcisistico). Sta di fatto che, per dare una risposta divulgativa e semplice alla domanda iniziale, ovvero se il Narcisista è violento nelle relazioni di coppia, ebbene essa non può che essere negativa.

Conclusioni

Semplificando, possiamo quindi sostenere che:

  • Il Narcisista (in assenza di livelli alti di psicopatia) NON ha più probabilità di acting out violenti nelle relazioni di coppia rispetto ad altri.
  • È il tratto Psicopatico ad avere un ruolo predittivo nella violenza nella coppia, a prescindere dalla presenza o assenza di alti livelli in altri tratti di personalità.
  • È quindi scientificamente sbagliata l’associazione tra Narcisista (perverso, malevolo, etc.) e Violenza nella coppia.

Per concludere, in tema di Violenza nella Coppia e Personalità dell’Autore, possiamo sostenere che il problema NON è il Narcisismo, bensì il tratto Psicopatico.

 

La teoria della mente (TOM) dopo trauma cranico encefalico

Lo Strange-stories-task è stato utilizzato per valutare le capacità di ragionare sugli stati mentali e per rilevare deficit della teoria della mente in individui con lesioni cerebrali dovute a trauma cranico.

 

“In quanto esseri umani, assumiamo che gli altri vogliano, pensino, credano e simili, e quindi deduciamo stati che non sono direttamente osservabili, utilizzando questi stati in anticipo per prevedere il comportamento degli altri, oltre che il nostro. Queste inferenze, che equivalgono a una teoria della mente, sono, a nostra conoscenza, universali negli adulti umani” (Premack e Woodruff, 1978).

Trama cranico e teoria della mente: cos’è la ToM

La Teoria della Mente (ToM) è la capacità di comprendere lo stato mentale di un individuo partendo dal comportamento manifestato (Mazza M. et al., 2002). La ToM permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003) e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). Dopo alcuni anni, si è passati all’applicazione della ToM in ambito clinico, avvalorando l’ipotesi di un coinvolgimento delle strutture frontali del cervello (Ozonoff S. et al., 1991), per cui un danno a queste regioni comporterebbe un’alterazione delle funzioni cognitive sociali, del comportamento, della personalità, dei ricordi e soprattutto della consapevolezza di sé (Alexander MP. et al., 1979).

I principali modelli teorici relativi alla ToM:

  • Theory Theory (TT) (Churchland, 1991; Carruthers e Smith, 1996): L’essere umano leggerebbe lo stato mentale dell’altro attraverso un processo molto simile a quello di una teoria scientifica, in base al quale l’individuo ricorrerebbe ad un ragionamento teorico basato tacitamente su leggi causali note;
  • Simulation Theory (ST) (Devies e Stone, 1995): secondo cui la ToM si svilupperebbe grazie ai processi simulativi basati sul “mettersi nei panni dell’altro” e, dunque, replicando e modellando su di sé l’esperienza (mentale) dell’altro.

Trauma cranico e teoria della mente: cambiamenti

Vari cambiamenti comportamentali sono la conseguenza di un Trauma Cranio Encefalico (TCE) grave ed assume sempre maggiore importanza lo studio di deficit della ToM nelle interazioni quotidiane nei pazienti traumatizzati. La ToM, in quanto manifestazione della cognizione, è situata nel contesto del mondo circostante (Wilson, 2002). Uno dei metodi utilizzati per indagare su come la conoscenza condivisa nel mondo potrebbe facilitare la ToM è lo Strange-stories-task (SST) di Happè (1994). Si presentano ai partecipanti brevi descrizioni o set di immagini di scenari sociali e si chiede ad essi di inferire gli stati mentali dei personaggi o di prevedere i loro comportamenti sulla base di questi stati mentali inferiti (Happè, 1994; Havet-Thommasin et al., 2006). Lo SST è stato utilizzato per valutare le capacità di ragionare sugli stati mentali attraverso l’interazione della conoscenza condivisa nel mondo e per rilevare deficit della ToM in individui con lesioni cerebrali traumatiche.

Un altro modo in cui gli esseri umani deducono gli stati mentali degli altri è attraverso la percezione dei vari segnali sociali. A tal proposito, il test “Reading the mind in the eyes” (Baron-Cohen et al., 2001) è un’attività ToM non verbale molto utilizzata dagli studiosi. Si è appreso molto sul comportamento dello sguardo attraverso l’attivazione delle interazioni diadiche (Duncan 1972; Clark e Krych, 2004), così come attraverso la manipolazione sperimentale dei segmenti dello sguardo (Baron-Cohen et al., 1995, Bayliss e Tipper, 2006). Ai pazienti viene somministrato un test con l’immagine di un viso con gli occhi orientati in avanti o spostati in una direzione e poi gli viene chiesto di fare inferenze sulle intenzioni o stati mentali dei personaggi. De Sonneville et al. (2002) presentavano l’immagine di quattro volti, con espressioni diverse, e si chiedeva ai partecipanti di determinare se un’emozione target fosse dimostrata o no in uno dei quattro foil. La capacità di inferire stati mentali da segnali sociali è stata comunemente studiata come mezzo per comprendere meglio l’impatto dei deficit sociali sul funzionamento della vita quotidiana (Spell e Frank, 2000; Baron-Cohen et al., 2001; Croker e McDonald, 2005; Tonks et al., 2007; Turkstra 2008; Zupan et al., 2009).

Oltre a questi metodi utilizzati per la comprensione dei deficit ToM in pazienti con lesioni cerebrali traumatiche o con disturbi di vario genere, è recente l’uso di metodi computazionali basati sulla simulazione come l’interazione sociale simulata (Blascovich et al., 2002) e la simulazione cognitiva (Scasselati 2002). Metodi dove “l’interazione sociale simulata implica la generazione di comportamenti sociali in agenti artificiali come personaggi virtuali, che sono spesso incorporati in ambienti virtuali immersivi o come robot umani” (Lindsey, Byon e Mutlu, 2013).

 

Come intolleranza all’incertezza e variabili sociali condizionano ansia e sintomi depressivi in donne con diagnosi di cancro ovarico

Hill e Hamm (2019) hanno esaminato come un elevato supporto sociale e bassi livelli di solitudine potessero attenuare la relazione tra intolleranza all’incertezza e sintomi ansiosi e depressivi in un campione di donne con tumore ovarico.

 

Intolleranza all’incertezza e salute mentale

Secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è possibile distinguere due categorie di tumore ovarico maligno: quello primitivo, che origina dall’ovaio stesso; e quello secondario, che invece giunge all’ovaio dopo essere apparso in altre parti dell’organismo. Tra le donne con cancro ovarico, i tassi di sopravvivenza sono relativamente bassi: secondo il National Cancer Institute quando il tumore è in fase avanzata le possibilità di sopravvivere sono del 47,4 % (Howlader et al., 2012). Questi dati, uniti al faticoso corso del trattamento, hanno un elevato impatto sul funzionamento psicologico e sul benessere delle donne: alcune di loro sperimentano sentimenti di perdita di controllo e isolamento a causa della mancanza di supporto sociale; inoltre la salute fisica compromessa può provocare ansia, depressione, perdita di speranza e preoccupazione per la morte, che determinano una scarsa qualità di vita (Roland et al., 2013).

Una variabile che sembra avere un ruolo importante nella salute mentale e nel benessere è l’intolleranza all’incertezza, definita come l’incapacità di tollerare l’idea che eventi negativi possano verificarsi e che non possano essere necessariamente previsti. Il tratto dell’intolleranza all’incertezza può essere suddiviso in una componente inibitoria, caratterizzata da una ridotta probabilità di intraprendere un’azione a causa dell’incertezza, e l’intolleranza all’incertezza prospettica, legata a preoccupazioni e timori per il futuro (Carleton, 2016).

Intolleranza all’incertezza in pazienti oncologici

L’intolleranza all’incertezza sembra essere un costrutto particolarmente rilevante per gli individui a cui è stato diagnosticato il cancro. Frequentemente, la progressione della malattia e la prognosi sono sconosciute ed essere in grado di tollerare l’incertezza in generale (Strout et al., 2018), e più nello specifico riguardo alla malattia, può essere fondamentale per il benessere degli individui; un’elevata intolleranza all’incertezza sembra infatti esacerbare i sintomi d’ansia e quelli depressivi (Carleton et al., 2012). Inoltre, è associata a varie forme di angoscia tra gli individui affetti da cancro: alcuni studi presenti in letteratura si sono occupati di studiare quali fossero gli effetti dell’intolleranza all’incertezza come tratto. Kurita e colleghi (2013), per esempio, hanno scoperto che l’intolleranza all’incertezza era associata a sintomi depressivi, stress e minore benessere emotivo; Taha e colleghi (2012) hanno invece trovato che fosse legata a sintomi depressivi e sensibilità all’ansia nelle donne con cancro al seno, mentre, negli uomini con tumore alla prostata, ha provocato angoscia e ansia generalizzata (Eisenberg et al., 2015). Sembrerebbe quindi che, poiché i protocolli di trattamento sono molto invasivi e i tassi di recidiva sono elevati, l’intolleranza all’incertezza può svolgere un ruolo significativo nell’esacerbare il disagio e ridurre il benessere psicologico.

Supporto sociale e solitudine in pazienti oncologici

Altri fattori che sembrano giocare un ruolo importante nelle donne affette da cancro ovarico sono il supporto sociale e la solitudine. Alcuni dati mostrano come talvolta il supporto sociale, concettualizzato come la disponibilità di altri per il supporto emotivo, informativo o tangibile sia legato a veri e propri cambiamenti fisiologici associati a una diminuzione della progressione del cancro e a un aumento della sopravvivenza (Lutgendorf et al., 2012). Inoltre il supporto sociale sembra ridurre i sintomi depressivi e l’ansia, in quanto può facilitare strategie di coping e aiutare le persone ad elaborare emotivamente una diagnosi (Helgeson, & Cohen, 1999). Per quanto riguarda la solitudine, invece, che si riferisce alla percezione di essere isolati e insoddisfatti a causa della discrepanza tra le relazioni sociali desiderate ed effettive (Hawkley & Cacioppo, 2010), non sono presenti studi su come sia legata al cancro ovarico nello specifico, ma una recente revisione sistematica ha mostrato come essa sia associata a una minore qualità di vita legata alla salute e a una salute mentale peggiore tra gli individui con altri tipi di cancro (Deckx et al., 2014). Alla luce di ciò sembrerebbe che le esperienze sociali positive e una diminuzione della solitudine possano ridurre i sintomi ansiosi e depressivi.

Intolleranza all’incertezza e tumore ovarico: uno studio

Dato che l’intolleranza all’incertezza è un fattore di vulnerabilità nello sviluppo di sintomi di salute mentale, Hill e Hamm, nel 2019, si sono occupati di esaminare la misura in cui un elevato supporto sociale e bassi livelli di solitudine potessero attenuare la relazione tra intolleranza all’incertezza e sintomi di salute mentale. Tra Ottobre 2017 e Marzo 2018, 131 donne con diagnosi di cancro ovarico, di età compresa tra i 25 e i 72 anni, hanno partecipato allo studio, completando in primo luogo la Depression Anxiety Stress Scales (DASS-21) (Henry & Crawford, 2005) per valutare l’ansia e la depressione; successivamente il Medical Outcomes Study Social Support Survey (MOS- SSS -Sherbourne & Stewart, 1991), per raccogliere informazioni sul supporto sociale; l’intolleranza all’incertezza è stava valutata tramite la IUS (Carleton et al., 2007), che valuta sia l’intolleranza all’incertezza inibitoria che quella prospettica. Infine alle donne è stata somministrata la UCLA Loneliness Scale (Russel, 1996), per misurare i sentimenti di solitudine. Contrariamente alle previsioni degli autori, le variabili sociali non hanno influenzato la reazione tra intolleranza all’incertezza e sintomi di salute mentale; una possibile spiegazione è che talvolta l’intolleranza all’incertezza, l’ansia e i sintomi depressivi sono cosi connessi tra di loro che il supporto sociale o una diminuzione della solitudine non bastano per alterare l’associazione (Hill & Hamm, 2019). L’intolleranza all’incertezza e le variabili sociali sembrano tuttavia essere associate ai sintomi depressivi e all’ansia; in particolare, la solitudine emerge come il più forte predittore di questi ultimi. Inoltre, sembrerebbe che l’intolleranza all’incertezza inibitoria sia più correlata ai sintomi di salute mentale rispetto a quella prospettica: è possibile che paralisi, impotenza e comportamenti di evitamento, caratteristici dell’intolleranza all’incertezza inibitoria la rendano disadattiva e particolarmente problematica per le donne con diagnosi di cancro ovarico (Hong & Lee, 2015).

In conclusione i risultati evidenziano che, essendo la solitudine il più forte predittore di sintomi di salute mentale, affrontare la solitudine e l’intolleranza all’incertezza, in particolare, può essere particolarmente importante per contribuire a diminuire l’ansia e i sintomi depressivi; alcuni trattamenti efficaci sono, ad esempio, le terapie cognitivo-comportamentali che mirano alle cognizioni sociali negative dato che la percezione delle minacce sociali è radicata nell’esperienza della solitudine (Hawkley & Cacioppo, 2010).

 

Il fenomeno dell’enactment nel setting psicoanalitico

L’enactment, per quanto abbia origine nella sfera psichica del paziente, non può essere definito un accadimento individuale, in quanto è nel vissuto diadico del setting che riesce a strutturarsi autenticamente (Ponsi, 2012).

 

La relazione terapeutica è un’esperienza trasformante, basata su dinamiche intersoggettive che si evolvono alla ricerca di un delicato equilibrio, tra punti di contatto, rotture e tentativi di riparazione. Ma è soprattutto un impianto collaborativo in divenire, i cui costruttori sono le personalità e gli agiti dei soggetti, e la materia prima è costituita dal materiale inconscio e conscio, verbale e non verbalizzato, che emerge dalla relazione.

È noto come la psicoanalisi ponga uno dei propri fondamenti terapeutici proprio nell’analisi del non detto, dei meccanismi di difesa inconsci, degli agiti e di tutti quegli elementi non interpretativi del colloquio clinico che molto possono rivelare sul vissuto personale del paziente e anche del terapeuta.

Il setting diviene così teatro di un disvelamento interiore reciproco, nel quale paziente e terapeuta si mostrano l’uno all’altro, in un messaggio implicito dal prezioso ruolo comunicativo. Al di là e in assenza delle parole, attraverso il contenuto del non detto.

È in questo universo interiore gradualmente slatentizzato che ha luogo il fenomeno dell’enactment, in cui alcuni vissuti transferali del paziente- inconsci e non verbalizzati- vanno a ripercuotersi nella sfera emotiva del terapeuta, favorendo l’emersione di contenuti emotivi altrettanto inconsci e non verbalizzati (Craparo, 2017; Bromberg, 2001).

Più di frequente si tratta di episodi che, a causa della loro eccessiva portata pulsionale si trovano segregati nell’inconscio, sotto forma di memorie subsimboliche. Una sorta di elementi beta (Bion, 1967), la cui natura non pensabile si sottrae ad ogni possibile categorizzazione, mentalizzazione, traslazione simbolica; sono esperienze deprivanti depositate nella mente come frammenti psichici non assimilati, che hanno creato un’interruzione nella naturale sintesi del Sé, restando all’esterno della consapevolezza.

Natura relazionale dell’enactment

Nel momento in cui un paziente accede alla relazione terapeutica con la sua sofferenza vitale, spinge il terapeuta a riattivare la medesima sofferenza per i condensati psichici dei Sé materni, paterni o di altri oggetti affettivi precedentemente interiorizzati, in una modalità traumatica, e dunque soverchiante, dissociativa, non simbolizzata. E l’attacco che il paziente opera nei confronti dei propri condensati psicologici, si ripercuote inevitabilmente, in una ovvia risonanza empatica, anche in quelli del terapeuta, che ne fronteggia, forse per la prima volta, una inattesa emersione dal subconscio (Crocetti e Pallaoro, 2007).

Il disvelamento del paziente contribuisce ad originare uno stimolo attivante per i contenuti inesplorati del terapeuta, che a sua volta li accoglie, in un tentativo di contenimento sano e bonificante.

Per questo l’enactment, per quanto abbia origine nella sfera psichica del paziente, non può essere definito un accadimento individuale, in quanto è nel vissuto diadico del setting che riesce a strutturarsi autenticamente (Ponsi, 2012). È il non detto del paziente che funge da stimolo elicitante per il non detto del terapeuta, e questo incontro inconsapevole tra non parole dà vita ad un’inattesa occasione di contatto.

La volontà relazionale del paziente viene percepita inconsciamente dal clinico, che a sua volta accetta questo invito inconsapevole, creando un canale comunicativo sorprendentemente generato attraverso il non detto. A dimostrazione di come il vissuto comunicativo non si attui né si esaurisca esclusivamente mediante l’utilizzo dello strumento verbale, ma come in certe occasioni, proprio un linguaggio fondato sulla non parola risulti foriero di un inestimabile quanto inatteso potere relazionale.

La psicoanalisi relazionale ha evidenziato l’aspetto comunicativo dell’enactment, affermando come sia proprio la sua natura intrinsecamente intersoggettiva a distinguerlo dagli altri fenomeni non verbali generabili all’interno del setting (Mitchell, 2000).

In primo luogo si cita la differenza con l’acting out, un atto comunicativo non verbale attraverso il quale una pulsione angosciante viene letteralmente “agita”, senza essere preceduta da alcuno spunto riflessivo (Ponsi, 2012). La funzione liquidatoria dell’acting out è generata interamente nella dimensione psichica del paziente, e la sua manifestazione eterodiretta non ne inficia la natura unidirezionale. Il terapeuta può soltanto prenderne atto, può descriverlo, può notarlo e provare ad interpretarlo: ma non può reperire in esso il contenuto relazionale riscontrabile nell’enactment.

Malgrado i punti di contatto, non sembra possibile neppure accostare l’enactment all’identificazione proiettiva, meccanismo inconscio in cui si assiste alla proiezione difensiva di una pulsione inaccettabile, seguita dall’inserimento della stessa nell’universo psichico di un altro, che ne riconosce la presenza in modalità inconsciamente egosintonica (Madeddu e Lingiardi, 2002).

Le differenze con l’enactment sono evidenti: in primo luogo nell’identificazione proiettiva la funzione comunicativa non è ugualmente rilevante; per quanto la stessa Klein (1921-1958) vi legga una primaria forma di empatia, e dunque di una valenza relazionale allo stato embrionale, l’intento dell’identificazione proiettiva è volto principalmente a liberarsi di una pulsione inaccettabile, attribuendone l’esistenza ad un altro che la accoglie in Sé, sentendosene psichicamente colonizzato; inoltre il materiale proiettato appartiene al proiettante ed è depositato nell’altro, alla stregua di un oggetto parziale, solo con finalità difensive e liberatorie (Ogden, 1991). Al contrario il contenuto mnestico elicitato dall’enactment è relativo ad un vissuto che appartiene alla sfera psichica individuale del terapeuta in via pregressa.

Non sembra opportuno accostare l’enactment neppure al controtransfert somatico, nel quale si riscontra una mera risposta somatica del terapeuta di fronte all’esposizione del materiale inconscio del paziente: si tratta perciò di una condotta reattiva, una risposta il cui contenuto è affidato all’espressività somatica anziché alla parola.

Immaginiamo che uno schizofrenico esponga al terapeuta esperienze allucinatorie persecutorie, provocando nello stesso una reazione di mal di stomaco, o di una forte fitta alla testa: in questo momento non si sta tuttavia sperimentando un enactment, perché non c’è relazionalità nella risposta del terapeuta, né elicitazione inconscia di materiale dissociato. Piuttosto il corpo prende il sopravvento sul processo di simbolizzazione e dà vita ad un vissuto sensoriale, una pulsione che trova nel soma una possibilità di espressione immediata, non riflettuta né rielaborata (Lombardi, 2016).

Craparo (2017) precisa come nel controtransfert somatico il terapeuta si concentri sulla reazione somatica provocatagli dal racconto del paziente, escludendo al contempo la possibilità di identificare lo stato emotivo che si accompagna a quella sensazione (2017). Potremmo definirla una reazione immediata, qui e ora, che il terapeuta realizza in risposta ad una dinamica relazionale scaturita nel setting; un’empatia somatizzata, una risonanza emotiva controtransferale le cui intensità ed immediatezza si esprimono meglio tramite il linguaggio corporale. Al contrario, nell’enactment la reazione somatica del terapeuta non è contingente e contestualizzata ad un racconto del paziente, ma costituisce la risposta inconscia di vissuti non verbalizzati che proprio le memorie dissociate emerse nel setting hanno contribuito ad elicitare.

La gestione terapeutica dell’enactment

Nel fenomeno dell’enactment le memorie coinvolte hanno natura dissociativa. Sono frammenti di esperienze traumatiche che, a ragione della loro intensa portata pulsionale, non hanno trovato collocazione adattiva nella memoria semantica, né sono state dotate di una connotazione verbale o simbolica (Bromberg, 2011); al contrario, restando segregate nella memoria implicita, si sono tramutate in schegge di un passato traumatico impronunciabile, che non può essere inserito nella memoria episodica, né ricordato in una sequenza logica, ma solo riattivato, riattualizzato nel presente, nelle modalità e nei contesti più inattesi. Il loro unico strumento di espressione è il canale somatico, che ne offre testimonianza a mezzo di una sintomatologia “corporale” in grado di schermarne la reale radice psichica.

“In virtù del suo reale e inconscio rapporto con le emozioni traumatiche, il paziente mette in atto, articolandolo con il corpo, ciò che è al di là del linguaggio e che non è assimilabile alla simbolizzazione” (Evans, 1996, pp. 159-160). L’enactment comunica ciò che il paziente non riesce ad articolare consapevolmente, servendosi di un linguaggio formato da ritmi, suoni, sintomi, sensazioni somatiche.

Il trauma e le memorie dissociate ad esso collegate vengono ricostruite per la prima volta nel setting terapeutico, attraverso una delicata operazione a due, un incontro tra vissuti emotivi – quello del paziente e quello del clinico – destinati a lasciare tracce trasformative reciproche.

Le memorie traumatiche si trovano al di fuori di una dimensione temporale proprio perché sono sfuggite ad una rielaborazione conscia, ad una consapevolezza dell’accadimento che, pur verificatosi nella realtà, non è ancora “avvenuto” nell’interiorità psichica del paziente.

In questo senso il setting può essere inteso come un luogo di legittimazione esplicita del trauma, in cui il paziente si sente finalmente autorizzato a soffrire e inizia a dar sfogo ad un dolore mai realmente “accaduto”, provocando inconsciamente il medesimo effetto nella psiche del terapeuta, che si lascia contagiare da questa sofferenza inespressa per legittimare a sua volta la propria.

Ma si tratta di un’operazione complessa, di cui proprio la natura dissociata delle memorie rende insidioso il completamento. Esiste il pericolo concreto che l’analista non riconosca adeguatamente la presenza di questo non simbolizzato interno al proprio Sé, assecondando la percezione dissociata che percepisce nella sfera psichica del paziente (Bromberg, 2011). Ciò impedirà la rielaborazione adattiva delle memorie traumatiche sfuggite alla sintesi, causandone la ripetizione ricorsiva e atemporale, in una sorta di dinamica paralizzante e preclusiva dell’evoluzione.

Questo atteggiamento di resistenza all’enactment potrebbe indurlo ad esibire atteggiamenti sadici –ad esempio attacchi inconsci verso gli oggetti interni cattivi del paziente- o masochistici- aggressione passiva della propria realtà interna- o ancora potrebbe suscitargli vissuti di panico legati alla sensazione di essere inondato da contenuti emotivi ingestibili (Grotstein, 2007). Si verificherà così il “collasso” delle capacità dell’analista di tollerare consapevolmente i propri vissuti emotivi e quelli del paziente, con il risultato che entrambi rimarranno prigionieri del rispettivo non detto, impedendo ogni sua possibile rielaborazione attiva e provocando l’impasse funzionale della terapia (Steiner, 2008).

Ove venga opportunamente gestito, l’enactment può invece rivelarsi un prezioso strumento di interpretazione terapeutica, in grado di fornire occasione di indagine reciproca, di conoscenza del Sé attraverso il Sé di un altro: è un’associazione generata da una dissociazione, un accordo collaborativo che, per attuarsi in tutta la sua produttività, dovrà essere in primo luogo riconosciuto, lasciato emergere e dunque riattualizzato, aggirando ogni possibile mezzo di difesa. In seguito dovrà essere reso accessibile alla coscienza per ricevere adeguate etichette verbali, così da portare un non Sé allo stato di Sé riflessivo e auto centrato (Bromberg, 2011). Tutto questo cercando di tollerare collusioni con la dissociazione del paziente, e di gestirle in modo da non creare regressioni involutive controtransferali in grado di invalidare il percorso terapeutico.

Il terapeuta non dovrà sottrarsi all’enactment in una funzione difensiva, né assecondarlo eccessivamente in modo da annullare ogni distanza che differenzi il proprio Sé da quello del paziente: ciò che dovrà assecondare sarà piuttosto il provvisorio stato di impasse creato dall’enactment, e servirsi di questa attesa in una funzione evolutiva, evitando di cedere a tentativi di interpretazione precoci e implicitamente difensivi. Questo consentirà di aggirare ogni resistenza di fuga al trauma, che riceverà finalmente una propria connotazione logica, verbale e temporale fino ad allora negatagli (Craparo, 2018).

La terapia è soprattutto la costruzione di un legame in cui l’apporto collaborativo tra terapeuta e paziente è costantemente richiesto. Il paziente deve sperimentare un nuovo Sé nel e attraverso il terapeuta, avvalendosi di quel materiale psichico che è già in suo possesso; se ne origina una sorta di creazione maieutica in cui nulla viene concesso dall’esterno, perché il mutamento evolutivo giunge dalla trasformazione di un’interiorità inespressa e inesplorata (Crocetti e Pallaoro, 2007).

Al contempo il terapeuta deve lasciarsi distruggere consapevolmente, nella certezza che l’intento distruttivo del setting, lo stesso che è in grado di destare i suoi condensati più profondi, isolati e mai rielaborati, è un istinto inevitabilmente collegato alla vita; un modo per scoprire non solo il Sé dell’altro, ma anche l’altro nel Sé, e fonderne gli aspetti in una integrazione inter ed intrapsichica di cui l’elemento relazionale costituisce il fondamentale presupposto.

Conclusioni

L’enactment è il bozzolo dissociativo in cui le memorie traumatiche di due soggetti si incontrano, nell’intento di svelarsi le une alle altre (Bromberg, 2011).

Questo prezioso fenomeno relazionale consente la rievocazione del “già fatto” in funzione del non ancora (Crocetti e Pallaoro, 2007). Consente di far accadere il passato, e trovare in esso l’ombra di quell’oggetto relazionale traumatico nel quale si rispecchia, inevitabilmente, anche l’origine della memoria dissociata (Bollas, 1987).

Craparo (2018) osserva come l’esperienza di due inconsci non simbolici che si incontrano sia un impatto psichico di grande rilevanza. Sono due negazioni che si annullano, generando una positività che tramuta la circolarità ricorsiva in linearità progressiva, in impulso alla comunicazione e alla parola che rappresenta la sintesi del Sé e l’autentico successo del compito terapeutico.

Per certi aspetti l’enactment è un’esperienza verbale mancata che, pur nella sua condizione di non parola, anela di venir pronunciata. Ma non essendo mai divenuta parola non può che esprimersi con l’agito corporeo, dunque non può che agire se stessa.

Sta alla funzionalità del setting terapeutico coglierne, pur in questo aspetto di non verbalità, il profondo intento comunicativo, e trarre dallo stesso le risorse in grado di renderla, da elemento dissociato, un’esperienza simbolizzata, pronunciabile e finalmente integrata nel Sé.

 

Breve trattato sulla stupidità umana (2021) di Ricardo Moreno Castillo – Recensione del libro

Il titolo Breve trattato sulla stupidità umana del testo di Castillo sembra anticipare, come in un trattato di altri tempi, una disquisizione filosofica sul tema della stupidità.

 

Fin dalle prime righe si ha l’impressione di essersi imbattuti in un testo antico e poco noto, ripescato da qualche neofita e riportato alle stampe.

L’autore invece è un uomo di scienza contemporaneo (laureato sia in matematica che in filosofia e docente universitario a Santiago), attivo sul versante dell’impegno politico.

Ciascun capitolo del libro descrive un aspetto della stupidità a partire da una citazione dotta: qual è la natura della stupidità umana, quali rapporti intrattiene con l’infelicità e la cattiveria, quali sono i meccanismi alla base che l’alimentano? Ma soprattutto cosa si può fare per scoraggiarla, almeno in noi stessi?

Ogni concetto è argomentato secondo una sequenza di considerazioni logiche. Dal punto di vista formale la lettura risulta interessante e avvincente; sul piano dei contenuti l’argomento stesso del libro pone questioni spigolose e controverse. Il rischio di incappare in considerazioni assolutiste e dal piglio vagamente censorio è a volte dietro l’angolo.

L’autore si destreggia in questa trattazione a volte schivando il giudizio assolutista, altre volte prestando il fianco alla postura sottilmente snob di chi insegna a chi non sa. L’autorevolezza dell’autore a tratti rischia, a mio avviso, di confondersi con una forma di blanda supponenza.

Il libro si apre con una disamina sull’antitesi fra sicurezza e dubbio, credenza falsa e verità relativa. Le prime appartengono a chi affetto da stupidità, le seconde a chi in modo lungimirante guarda al mondo in cui vive con concretezza e impegno.

Di che natura è il legame fra stupidità e memoria? Secondo l’autore la stupidità soffre di amnesia. Non ricordare errori commessi in passato sarebbe la condizione che impedisce una riflessione su ciò che si è fatto e su cosa si potrebbe fare di meglio. L’autore contesta quindi l’assioma secondo cui intelligenza e memoria sarebbero inversamente proporzionali: la conoscenza, e quindi lo studio (anche quello mnemonico), sarebbero le condizioni necessarie per approfondire la riflessione e nutrire il pensiero.

Stupidità e preoccupazione sono per l’autore indissolubilmente connesse: esistono due tipi di preoccupazione, una intelligente e una stolta. La prima riguarda questioni per le quali vale la pena di crucciarsi, la seconda invece tende a rendere complesse situazioni e questioni che non lo sono.

Ne segue, secondo l’autore, che intelligenza è non complicare le questioni, assegnando loro lo status di problemi. Confondere quindi semplicità con stupidità sarebbe improprio: la prima descrive la natura di una cosa, la seconda tende a complicarla.

Fra i vari procedimenti utili a complicarsi la vita, un posto di rilievo spetta all’invidia. Francisco de Quevedo scrive “L’invidia è così magra e pallida perché morde e non mangia”, ovvero citando l’autore “Un ladro agisce con più logica e sensatezza di un invidioso”.

L’invidia innesca infatti un meccanismo che porta alla svalorizzazione delle qualità altrui, oggetto di invidia: una persona professionalmente competente viene così tacciata di “elitarismo”, una persona colta o precisa di “pedanteria” e una persona di carisma di “eccessivo protagonismo”.

L’invidia si sforza di togliere pregio a chi possiede le qualità invidiate senza tuttavia aggiungere nessun lustro a chi indivia.

L’ottusità appartiene in misura variabile a ciascuno di noi, così come in ciascuno di noi è presente una quota di intelligenza. Ma cosa determina il prevalere dell’una sull’altra? Il rapporto variabile fra le due componenti è, secondo l’autore, legato all’ostinazione con cui si difendono posizioni confutate da fatti o da ragionamenti logici.

Spesso accade che l’ottusità porti a identificare le proprie idee come assolute e definitive, spingendo chi vi aderisce a trincerarsi dietro a “una roccaforte insensata di assurdità” e a tacciare di ignoranza chi muove critiche a quelle idee.

Infine il tema del rapporto fra stupidità e malvagità: il piacere di far soffrire gli altri, per quanto perverso, esiste, ma fino a che punto si può giustificare la malvagità adducendo che chi la agisce non comprende ciò che sta facendo?

L’autore analizza il fenomeno bullismo: chi lo agisce è consapevole del danno che provoca e di quanto disdicevole sia tale condotta. Tuttavia, pur di non rinunciare a un piacere meschino (la sofferenza altrui), è disposto a rendersi egli stesso meschino di fronte a un compagno più vulnerabile. Quella stessa stupidità trova un freno quando l’avversario è un compagno più forte: quindi la stupidità, secondo questo criterio, è relativa, o meglio agita solo finché apporta danno agli altri, ma frenata quando rischia di recare danno a sé.

Combattere la stupidità che affligge in qualche misura chiunque richiede impegno: non esistono ricette, Castillo fornisce tuttavia alcuni spunti.

Impiegare il tempo libero in occupazioni solitarie come gli scacchi, la filatelia e la lettura allena la concentrazione, ma soprattutto l’abitudine a non disturbare gli altri.

Confrontare le idee con la realtà è lo strumento cardine per verificare la correttezza e l’efficacia delle prime: un’idea che non funzioni nella pratica non può dirsi buona.

Leggere aiuta a interpretare la realtà con un maggiore distacco, quindi con obiettività. Leggere la storia a maggior ragione: molte stupidaggini nel corso della storia si ripetono e ciclicamente tornano in auge. Esserne coscienti aiuta a ridimensionarne il peso.

Per analoga ragione leggere di filosofia aiuta a relativizzare il nostro sapere: la maggior parte delle idee che abbiamo le abbiamo lette o ascoltate altrove e quindi fatte nostre. Riconoscere di non essere pensatori originali o depositari di una propria verità assoluta aiuta a guardare, con maggior distacco, quelle idee che rischiano di diventare ideologie.

Ambire a una maggiore obiettività e lucidità implica infine la disponibilità a riconoscere i propri limiti, non necessariamente solo grazie all’erudizione e allo studio, ma anche (e mi sento di aggiungere – soprattutto) grazie al buon senso.

 

L’arte della cura: possono musica e pittura ridurre la severità dei sintomi da dolore cronico, migliorando l’umore, la qualità di vita ed il benessere cognitivo in pazienti con Alzheimer? 

Lo studio di Pongan et al. (2017) ha valutato l’efficacia dell’intervento musicale sul dolore cronico in pazienti con Alzheimer allo stadio di disturbo cognitivo minore o di disturbo cognitivo maggiore lieve.

 

La malattia di Alzheimer colpisce principalmente gli adulti dai 65 anni in su. I pazienti con Alzheimer presentano spesso comorbidità multiple che possono indurre dolore cronico e, nella fase iniziale, il declino cognitivo è spesso accompagnato da disturbi dell’umore. I farmaci prescritti nella gestione del dolore cronico e dei disturbi dell’umore non sono privi di effetti collaterali: possono aumentare il rischio di confusione, di cadute, di declino cognitivo e possono indurre una dipendenza fisica e psicologica (Arnstein, 2010). Le terapie non farmacologiche possono essere un’interessante strategia di cura complementare per il dolore e i disturbi dell’umore in questi pazienti. Tra le terapie, l’intervento musicale è spesso adoperato sia in pazienti con Alzheimer e demenza sia in pazienti con dolore cronico. È stato dimostrato che le capacità di percepire la musica, le emozioni che ne derivano e di riconoscere brani familiari rimangono conservate anche nelle fasi avanzate dell’Alzheimer (Cuddy & Duffin, 2005). Di conseguenza, l’intervento musicale viene sovente utilizzato negli approcci terapeutici che mirano a migliorare il funzionamento cognitivo, così come l’umore, i disturbi comportamentali e la qualità della vita. Negli adulti anziani sani le attività musicali svolte regolarmente, come cantare o suonare strumenti, possono contribuire a un invecchiamento positivo aumentando il benessere emotivo e riducendo l’isolamento sociale (Hays & Minichiello, 2005).

Malattia di Alzheimer e interventi non farmacologici: uno studio

Lo studio di Pongan et al. (2017) ha valutato l’efficacia dell’intervento musicale sul dolore cronico in pazienti con Alzheimer allo stadio di disturbo cognitivo minore o di disturbo cognitivo maggiore lieve. Gli obiettivi comprendevano misurare l’efficacia dell’intervento musicale su ansia, depressione, qualità della vita, autostima e cognizione. Tra gli interventi è stato scelto quello basato sul canto: questa pratica, infatti, può promuovere l’aumento della produzione di endorfine, che giocano un ruolo significativo nell’inibire la percezione del dolore (Pomorska et al., 2014). Inoltre, il canto ha dimostrato benefici sulle funzioni cognitive in studi precedenti sull’Alzheimer, poiché richiede l’ausilio di processi come la memoria a breve termine, il controllo della pianificazione a lungo termine degli errori e impegna diverse aree della corteccia prefrontale (Simmons-Stern et al., 2010). Come intervento di controllo, è stato selezionato l’intervento di pittura di gruppo, in quanto è simile a quello musicale in diversi punti: entrambi sono piacevoli attività artistiche e di svago, possono essere eseguiti in un ambiente di gruppo e prevedono un progetto finale (concerto e mostra) alla fine delle sessioni.

Sono stati selezionati 54 soggetti ultra sessantenni con problemi cognitivi. I partecipanti sono successivamente stati divisi in due gruppi di 27 persone in base alle attività proposte: attività inerente al canto (SI) e attività inerente alla pittura (PI).

Per definire una baseline (T1), i pazienti sono stati sottoposti ad un’ampia valutazione che comprende: la diagnosi e la fase di Alzheimer, il livello di dolore cronico, i fattori demografici e lo stile di vita, le qualità artistiche e musicali, l’autostima e le qualità neuropsicologiche. I dati sono stati nuovamente raccolti dopo 12 (T2) e 16 settimane (T3). Per misurare il dolore cronico sono stati utilizzati tre test: la Numeric Rating Scale (NRS) (Turk et al., 1993), la Simple Visual Scale (SVS) (Nuevo, 2004) e la Brief Pain Inventory (BPI) (Cleeland & Ryan,1994).

Per misurare i livelli di ansia di stato e di tratto è stata utilizzata la State Trait Anxiety Inventory (STAI) (Spielberger et al., 1983).

Sono stati raccolti anche dati inerenti ai sintomi depressivi che possono esordire in relazione alla demenza, utilizzando la Geriatric Depression Scale (GDS) (Yesavage et al., 1982).

Per valutare la qualità di vita ed i livelli di autostima sono state utilizzate rispettivamente la EuroQol-5 dimensions (EQ-5D) (Rabin & Charro, 2001) e la Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg,1979).

Per valutare le funzioni neuropsicologiche è stata proposta una batteria di test composta da: Free and Cued Recall Test (FCRT) (Van der Linden et al., 2004) per valutare la memoria verbale episodica, Trail Making Test (TMT) (Reitan, 1979) per valutare la flessibilità mentale, Digit Symbol test and Digit Span (Wechsler,2008) per la memoria di lavoro, Stroop test (Stroop,1935) per valutare la velocità di immagazzinamento delle informazioni, Letter and Category Fluency tests (Godefroy et al., 2014) per valutare la scioltezza verbale e Frontal Assessment Battery (FAB) (Dubois et al., 2000) per valutare la presenza di sindrome disesecutiva.

Per quanto riguarda l’intervento di tipo musicale (SI), i partecipanti sono stati seguiti da un direttore di coro professionista e da uno psicologo. Come attività sono stati proposti esercizi per scaldare la voce e l’apprendimento ed esecuzione di quattro brani scelti fra le preferenze dei partecipanti.

Per quanto riguarda l’intervento di tipo artistico (PI), un insegnante di disegno ed uno psicologo hanno seguito i partecipanti in una serie di attività fra cui: visione di alcuni dipinti famosi, creazioni di quadri a seconda di temi accordati in gruppo ed esposizione delle opere realizzate.

Malattia di Alzheimer e interventi non farmacologici: i risultati

Dal sopra citato studio, è emerso che i pazienti assegnati ai gruppi di pittura e di canto hanno mostrato un miglioramento significativo nella sfera del dolore, dei disturbi dell’umore, della qualità della vita e dell’autostima. Nei pazienti affetti da Alzheimer con un disturbo neurocognitivo minore, maggiore o lieve si è registrato un miglioramento della cognizione e l’utilizzo della pittura, più del canto, ha avuto un impatto positivo sui sintomi ansiosi e depressivi.

I risultati ottenuti sono in linea con le precedenti ricerche che mostrano come sia possibile migliorare la qualità della vita e l’autostima utilizzando terapie non farmacologiche, facendo dunque leva sui sentimenti di coerenza o appartenenza che derivano dal sentirsi parte di un gruppo e sulla sensazione di sentirsi presi in carico. Dal confronto tra i test pre e post intervento si deduce un miglioramento dei processi di inibizione e un aumento della funzionalità della memoria di lavoro dopo le sessioni di musica e di pittura, ma non sembrano emergere cambiamenti significativi in merito alle prestazioni cognitive con pazienti affetti da Alzheimer in forma grave (Narme et al.,2012). I risultati del presente studio suggeriscono che gli interventi musicali dovrebbero essere più efficaci sulle funzioni cognitive quando si hanno pazienti con Alzheimer in fase iniziale. L’effetto specifico del canto sulla memoria episodica suggerisce come la memorizzazione dei testi insieme alla musica sono in grado di stimolare le reti neurali coinvolte nella memorizzazione verbale in modo maggiore rispetto agli interventi di pittura. In conclusione, i risultati mostrano come il canto e la pittura possono apportare dei miglioramenti che non sono previsti nel corso naturale dell’Alzheimer. È emerso, inoltre, come questi interventi siano facilmente accessibili e non richiedano che i pazienti abbiano delle particolari predisposizioni per trarne benefici.

 

SimSensei Kiosk: una overview

Gli utenti che hanno interagito con ELLIE, una delle due funzioni di SimSensei Kiosk, hanno avuto meno paura di sentirsi valutati rispetto all’avere a che fare con un avatar gestito da una persona reale.

 

Nel 2011, grazie ad un lavoro svolto dall’Institute for Creative Technologies nell’ambito del progetto DCAPS (Detenction and Computational Analysis of Psychological Signals), viene creata l’Intelligenza artificiale (I.A.) conosciuta con il nome di SimSensei Kiosk (DeVault, D., Rizzo, A., Morency, L. P., et al., 2014). Appartenente alla categoria dei Super Clinici (Luxton, D.D. 2014), questa Intelligenza artificiale aveva richiesto una formazione specifica in letteratura sull’importanza delle espressioni facciali e la bodily communication all’interno della comunicazione. Inoltre un approfondimento aggiuntivo era stato svolto sulla prosodia (Ekman, P., Rosenberg, E. L. 1997). Concepito come Virtual Human system (VH), SimSensei presenta due funzioni: la presenza di ELLIE, una terapista virtuale dalle fattezze umane, nonché di un sistema di percezione multimodale noto come “Multisense” (Lazzeri, M., 2021). Nel dettaglio, questo sistema (Devault et al., 2014; Scherer et al., 2013) consente l’acquisizione, il monitoraggio nonché la fusione di indicatori comportamentali, visivi e sonori (come la cattura dinamica, l’orientamento e la posizione della testa, l’intensità, la postura del corpo ed una varietà di parametri del linguaggio) presi in tempo reale durante l’intervista semi-strutturata con ELLIE, con il fine ultimo di individuare la presenza di indicatori di disagio psicologico come la depressione, il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) o l’ansia (DeVault et al., 2014). Le informazioni carpite da ELLIE fanno uso di sensori standard come una webcam, un microfono e Microsoft Kinect, la cui creazione è diventata possibile anche per l’apporto di Jerome Lanier. (Baltrusaitis et al., 2012; Morbini., F., 2014; Morency et al., 2008).

Nella pubblicazione Clinical interviewing by a virtual human agent with automatic behavior analysis (A. Rizzo et al., 2016) ci viene mostrato come gli utenti che hanno interagito con ELLIE hanno meno paura di sentirsi valutati e di conseguenza divulgare più informazioni personali rispetto a quando hanno a che fare con un avatar gestito da una persona reale (Lucas et al., 2014). Il presente studio suggerisce inoltre che i militari, a seguito del loro dispiegamento, avevano maggiori probabilità di sviluppare sintomi di PTSD. Nello studio in questione erano presenti due differenti campioni: il primo gruppo era composto da ventinove membri (di cui 2 donne) facenti parte della Guardia Nazionale del Colorado con un’età media di 41,46 anni. Nel secondo gruppo invece il campione era costituito da 132 soggetti divisi in membri attivi e veterani, tra cui erano presenti 16 donne. L’età media era di 44,12 anni. Se i partecipanti del primo gruppo erano stati stanziati per nove mesi in Afghanistan, i membri del secondo gruppo erano tuttavia appena tornati da una singola missione. Nel primo studio i militari tornati dal loro dispiegamento erano stati sottoposti prima al PDHA ufficiale (ovvero il Post-Deployment Health Assessment), successivamente alla sua versione anonima ed infine ad un colloquio con Ellie per circa 20 minuti. I partecipanti del secondo gruppo invece hanno solamente preso parte alla versione anonima del PDHA e all’intervista con la terapeuta virtuale.

Dai risultati dei due campioni emerge quanto segue: tutti i soldati avevano parlato liberamente e senza alcun timore dei propri sintomi con ELLIE piuttosto che attraverso l’utilizzo dei due test. Ciò dimostra, come già affermato precedentemente, che le interviste fatte con un VH riducono l’esitazione dell’intervistato a rivelare più notizie e la paura di ricevere giudizi negativi. Il contesto rassicurante fornito dalla I.A viene facilitato dalla presenza degli atteggiamenti, posture, nonchè dalle espressioni facciali antropomorfe tipiche di un essere umano, le quali permettono il manifestarsi di sentimenti di connessione sociali tra la persona intervistata e la macchina. (Epstein., J., Klinkenberg, W.D., Wiley., D., McKinley., L. 2001).

Nel 2017 SimSensei Kiosk è stata traslata in un dispositivo VR quale il VIVE HMD. La realtà virtuale si è da sempre dimostrata una tecnologia utile in svariati ambiti: dalla ricerca iniziale tale strumento ha acquisito sempre di più una notevole rilevanza sia in ambito clinico per il trattamento di una varietà di disturbi psicologici, sia in ambito sportivo, militare ed infine ospedaliero. (Gorrindo, T., Groves, J. 2009; Krijn, M., et al. 2004; Lazzeri, M., 2011; Lazzeri, M., 2021; Reger, G.M., et al. 2011; Riva, 2010).

 

La riabilitazione cognitiva nelle RSA: il modello Alteya

Nella RSA Villa Albani è stato attivato un progetto, il modello Alteya, con l’obiettivo di migliorare i sintomi cognitivi e comportamentali dei pazienti, migliorare la loro qualità di vita e ridurre lo stress del personale.

 

Le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA)

La presenza diffusa di pazienti con deficit cognitivi che presentano disturbi comportamentali, tra i ricoverati nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), impone, come stabilito dalla vigente normativa, la ricerca e l’applicazione di adeguati interventi per la riabilitazione cognitiva ed il contenimento dei comportamenti disfunzionali.

Le residenze sanitarie assistenziali (Banchero, 2013) sono comparse in Italia negli anni ’90, si tratta di strutture a carattere sanitario. Si distinguono dagli ospedali e dalle case di cura perché non si occupano di pazienti con patologie acute, ma ospitano, per un periodo di tempo determinato od indeterminato, persone non autosufficienti per deficit fisici, psichici e sensoriali, che non possono essere assistite a domicilio.

La vigente normativa nazionale (Ministero della Sanità, 1994) prevede che le RSA offrano ai loro ricoverati, oltre ad una sistemazione residenziale adeguata, tutti gli interventi medici, infermieristici e riabilitativi necessari. Inoltre stabilisce che l’assistenza sia individualizzata ed orientata al miglioramento dei livelli di autonomia, degli interessi personali  e delle inclinazioni dei pazienti.

È elevata, tra i ricoverati nelle RSA, la percentuale di pazienti che presentano un decadimento cognitivo (D’Amuri, 2021). Questo dato, e ciò che la normativa dispone, hanno generato il bisogno di creare progetti d’intervento specifici nell’ambito della riabilitazione cognitiva e della gestione dei disturbi del comportamento frequentemente associati alla disabilità intellettiva (Croce L. 2019, Hersch E.C. Falzgraf S.2007).

Il progetto della cooperativa sociale onlus Alteya in RSA

Un concetto fondamentale, su cui si fonda la riabilitazione cognitiva, è che l’inattività porta alla perdita della funzione; inoltre nell’attuazione della terapia riabilitativa non deve mai essere sottovalutato l’elemento motivazionale (Mazzucchi A. 1999; M.Bocardi 2014).

La RSA Villa Albani è una struttura pubblica, appartenente alla Asl Roma 6, i cui costi residenziali ed assistenziali sono a carico del Sistema Sanitario Nazionale ed i servizi residenziali ed assistenziali sono gestiti dalla cooperativa sociale onlus Alteya. In questa struttura, gran parte degli utenti ospitati presentano deficit cognitivi secondari a svariate patologie. Nella RSA è stato attivato un progetto, il modello Alteya, che ha l’obiettivo di migliorare i sintomi cognitivi e comportamentali dei pazienti, rendere migliore la loro qualità di vita e ridurre lo stress di tutto il personale addetto all’assistenza.

Nel progetto, rispetto agli interventi di riabilitazione cognitiva, sono previste, oltre alle attività quotidiane ed ai laboratori svolti all’interno della struttura, una serie di attività che i pazienti svolgono sul territorio. Attualmente gli utenti di Villa Albani partecipano al laboratorio di agricoltura biologica (Alteya Onlus, 2021) frequentano la piscina comunale, sono impegnati in un corso (Alteya Onlus, 2021), tenuto da una pizzeria locale, che permette loro di apprendere il ciclo di lavorazione della pizza, così da divenire autonomi nella sua preparazione. Tali attività, oltre a mantenere e potenziare le capacità residue dei singoli pazienti, risultano particolarmente motivanti, migliorano le interazioni sociali e l’autostima personale.

Tutti gli operatori coinvolti nelle attività socio-asistenziali, partecipano periodicamente agli incontri tecnico-formativi organizzati per fornire, sulla base delle evidenze scientifiche e delle linee guida, gli strumenti necessari per rispondere ai bisogni assistenziali degli utenti (Alteya 2021). Attualmente, rispetto alla gestione dei disturbi comportamentali (Castrucci L., 2021), viene applicato un protocollo ad indirizzo cognitivo comportamentale che prevede l’utilizzazione di rinforzi positivi erogati tramite la consegna di ticket, l’applicazione del time-out, quando il paziente non abbandona il comportamento disfunzionale, e l’utilizzo dei cartellini di ammonizione se nemmeno il time-out si rivela efficace.

La valutazione dell’intervento riabilitativo è effettuata con la somminastrazione di test, come ad esempio il Mini Mental State Examination, in grado di misurare i progressi dei pazienti (Ruggeri M. 2011) e sull’analisi dei report settimanali compilati dagli operatori.

 

Il cambiamento della funzione sessuale nelle donne che sono state trattate per il vaginismo durante la pandemia COVID-19

Il trattamento del vaginismo ha un elevato tasso di successo (Pacik, 2011) e identificare la gravità del disturbo aiuta il terapeuta a capire cosa la paziente sta sperimentando e cosa è in grado di fare.

 

Il vaginismo è attualmente definito dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM5- APA, 2013) come un sottoinsieme del Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione (DGP-P) all’interno del quale qualsiasi forma di penetrazione vaginale come tamponi, dita, dilatatori vaginali, esami ginecologici e rapporti sessuali sono spesso dolorosi o impossibili. Il vaginismo ha una componente psicologica che si manifesta con marcata paura o ansia che possono essere sperimentate prima, dopo o durante la penetrazione; tali emozioni sono diffuse tra le donne che hanno provato regolarmente dolore durante un rapporto e in molti casi possono portare a un marcato evitamento di situazioni sessuali o intime. Inoltre, è presente anche una componente fisica che si manifesta con marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale (Pacik, 2011). Le difficoltà nella penetrazione vaginale possono presentarsi in maniera generalizzata a tutte le esperienze di penetrazione oppure essere specifiche ad alcune situazioni.

Il tasso di prevalenza del vaginismo in un ambiente clinico è stimato tra il 5% e il 17% e si ritiene che sia una delle più prevalenti disfunzioni sessuali femminili (Spector & Carey, 1990). Diversi fattori psicologici sono stati associati al vaginismo, tra i quali esperienze sessuali traumatiche, abusi sessuali, una rigida educazione religiosa e/o educazione sessuale, paura e/o problemi di ansia (Lahaie et al., 2010), sebbene diversi dati mostrino che non è sempre associato a problemi psicologici e alcune pazienti hanno un’anamnesi negativa per questi fattori.

Il vaginismo, inoltre, spesso porta a problemi coniugali, depressione e sentimenti di isolamento (Hamilton e Meston, 2013).

Trattamento del vaginismo

Rispetto ad altri dolori sessuali come la vulvodinia e la vestibulodinia, il trattamento del vaginismo ha un elevato tasso di successo (Pacik, 2011) e identificare la gravità del disturbo aiuta il terapeuta a capire cosa la paziente sta sperimentando e cosa è in grado di fare.

Solitamente i trattamenti maggiormente utilizzati prevedono l’uso di dilatatori vaginali di dimensioni gradualmente crescenti, utilizzati per realizzare il rilassamento pelvico. La maggior parte delle donne, dopo la terapia, riporta un miglioramento complessivo nella funzione sessuale e di avere penetrazioni confortevoli (Pacik & Geletta, 2017).

Sessualità, vaginismo e pandemia

La pandemia di COVID-19 è stata la principale crisi sanitaria globale degli ultimi decenni e ha creato enormi cambiamenti sociali, economici e politici in tutto il mondo. Allontanamento sociale, cambiamenti improvvisi nella routine quotidiana, lunghi periodi chiusi in casa e alcune limitazioni delle attività sociali, hanno avuto un significativo impatto psicosociale sulle persone (Wang et al., 2020).

La funzione sessuale femminile è influenzata da molteplici fattori che condizionano lo stato emotivo e ormonale (Hamilton & Meston, 2013): lo stress, il cambiamento della routine quotidiana e la paura di ammalarsi hanno effetti negativi sulla funzione sessuale e provocano cambiamenti emotivi e cognitivi con conseguenti effetti anormali sull’eccitazione genitale e soggettiva (Schiavi et al., 2020).

Diversi studi hanno valutato il cambiamento della funzione sessuale femminile durante la pandemia di COVID-19 in donne sane in età riproduttiva (Yuksel & Osgor, 2020). In particolare, uno studio di Ugurlucan e colleghi del 2021, si è occupato di valutare il cambiamento della funzione sessuale e della frequenza dei rapporti sessuali nelle donne che sono state trattate per il vaginismo durante la pandemia COVID-19. Sono state quindi incluse 77 donne trattate con dilatatori tra il 2018-2019 e sono stati confrontati i dati ottenuti 3 mesi dopo la prima penetrazione confortevole con quelli durante la fase di picco della pandemia (aprile-maggio 2020). In particolare sono stati somministrati il Female Sexual Function Index (FSFI-Rosen et al., 2000) per valutare la funzione sessuale (in sei domini: desiderio, eccitazione, lubrificazione vaginale, orgasmo, soddisfazione e dolore); il Golombok-Rust Inventory of Sexual Satisfaction (GRISS- Rust & Golombok, 1986), per valutare la disfunzione sessuale nelle coppie eterosessuali; infine il Beck Depression Inventory (BDI-Beck et al., 1996) per valutare gli atteggiamenti caratteristici e i sintomi depressivi. La frequenza dei rapporti sessuali e il dolore sperimentato sono stati confrontati utilizzando una scala analogica visiva. L’interesse degli autori era dapprima confrontare i punteggi  FSFI, GRISS e BDI; successivamente valutare il cambiamento della frequenza e del dolore dei rapporti. I risultati mostrano che ci sono stati miglioramenti significativi nelle sottoscale del desiderio, dell’eccitazione, dell’orgasmo e del dolore FSFI. C’è stato inoltre un miglioramento significativo nel punteggio totale e nei domini infrequenza, non comunicazione, evitamento, non sensualità e vaginismo del GRISS. Tuttavia, i punteggi sono significativamente peggiorati nei domini dell’insoddisfazione e dell’anorgasmia. Anche i punteggi del BDI mostrano un significativo peggioramento mentre la frequenza dei rapporti sessuali non è cambiata significativamente e i punteggi del dolore sono diminuiti significativamente.

Sessualità, vaginismo e pandemia: conclusioni

Le donne trattate per il vaginismo hanno quindi mantenuto la loro funzione sessuale durante la pandemia e nessuna ha sviluppato un disturbo secondario da dolore genito-pelvico e della penetrazione. Sebbene la frequenza dei rapporti sessuali sia rimasta la stessa e la scala del dolore sia diminuita, la qualità del rapporto sessuale è risultata essere peggiore durante la pandemia, come evidenziato dalle sottoscale del GRISS di insoddisfazione e anorgasmia e dalle sottoscale FSFI di lubrificazione e soddisfazione. La paura di prendere la malattia dai partner durante i rapporti, il contatto intimo e l’aumento di stress e ansia durante la pandemia potrebbero pertanto aver avuto un effetto negativo sulla funzione sessuale. È noto che l’attività sessuale è associata alla salute mentale e psicologica (Sansone et al., 2021) e dunque alti livelli di stress cronico possono provocare una diminuzione del desiderio sessuale. Sarebbe importante, quindi, valutare l’effetto del supporto psicologico in queste donne per far fronte allo stress, all’ansia e alla depressione e migliorare conseguentemente la loro funzione sessuale (Ugurlucan et al., 2021).

 

Il concetto di morte per chi soffre di anoressia

L’anoressia porta la persona che ne soffre ad avere un rapporto emblematico con la morte stessa.

 

L’uomo solitamente dà alla morte un significato che va ben oltre il suo reale aspetto naturale. La morte può infatti essere pensata, ragionata, fantasticata, temuta ed anche idealizzata (Morin & Bellusci, 2021).

In alcune menti, come in quelle di chi soffre di anoressia, l’avvicinarsi sempre di più ad un futuro morente a causa del deperimento fisico, non viene percepito, e neanche compreso, come uno degli scenari futuri possibili. Questo ci pone di fronte ad una vera e propria contraddizione: chi soffre di anoressia, nonostante abbia in mente il concetto di morte e le diverse condizioni che possono portare ad essa, decide inconsapevolmente di andarle incontro in modo del tutto spontaneo e graduale (De Clerq & Birattari, 2013).

Caratteristiche dell’anoressia

Partendo da questo presupposto, al fine di affrontare tale questione, è fondamentale andare ad analizzare il termine anoressia, il cui significato etimologico è mancanza di appetito, di fame (Treccani, 2017).

Una fame non unicamente legata al cibo, ma anche al desiderio di vita.

Una persona che desidera vivere è una persona in grado di “diventare corpo”, di acquisire forma e sostanza, è qualcuno capace di dar forma ai propri desideri ed obiettivi, capace di evolvere e dunque di diventare altro rispetto a quello che è nel presente. Tale processo evolutivo è differente in quei soggetti in cui prevalgono dinamiche di violenza, trascuratezza o in cui prevale una ricerca ossessiva al perfezionismo (Ciccolini & Cosenza, 2015).

In questi ultimi la spinta nel voler “prendere corpo” non esiste, perché bloccata da quanto vissuto, così l’impossibilità di “prendere corpo” nel tempo si trasforma in un rifiuto di quest’ultimo.

Procedendo in questo modo, il concetto di crescita prende forma nel suo opposto: si può “prendere corpo” solo nel momento in cui lo si perde. Matura così l’idea di dover diventare più magri.

Ed è qui che tutto questo si trasforma nella possibilità di una nuova rinascita, nella possibilità di poter essere quello che si vorrebbe essere o quello che non si è riusciti ad essere. Questa aspirazione può così portare l’anoressica ad intraprendere tale “carriera suicida” (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Chi osserva dall’esterno un corpo anoressico può notare come questo incarni la morte, di cui prende così le sembianze: il volto scavato, il corpo quasi inesistente (De Clerq & Birattari, 2013).

Un’immagine corporea che però non assume lo stesso significato per chi soffre di tale disturbo che, invece, guardandosi allo specchio, non vede un corpo in fin di vita, ma un corpo vitale capace di esistere solo nel momento in cui ha raggiunto un peso specifico (Cosenza, 2008).

Il corpo anoressico, rappresenta così quello che non si è riusciti ad essere, un insieme di tentativi falliti, rappresenta l’incapacità di poter dare voce alla propria persona e dunque alla propria essenza, l’incapacità di esistere e stare al mondo ma, allo stesso tempo, è l’unica modalità attraverso cui la persona riesce a comunicare tutto questo. Si tratta quindi di una sofferenza radicata e profonda che l’individuo nasconde dietro una forte dinamica di controllo personale.

Il corpo riflette l’identità della persona ed è il palcoscenico su cui prendono forma tutti gli elementi psichici espressi dalla sua mente (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Attraverso la perdita di peso, la persona acquisisce una forte carica vitale, capace di darle l’illusione di avere tutto sotto controllo.

Anoressia e restrizione

Alcuni studi hanno dimostrato come nel comportamento di rifiuto del cibo, sia coinvolto il circuito dopaminergico di reward, ovvero un sistema di connessioni cerebrali capaci di promuovere comportamenti volti a favorire un buon adattamento dell’individuo all’ambiente, garantendone così la sopravvivenza. È stato osservato come le aree cerebrali che si attivano in chi soffre di anoressia, siano le stesse presenti in chi fa uso di droghe e dunque capaci di favorire lo sviluppo di una vera e propria dipendenza. Nel caso del sintomo anoressico, parliamo però di una “dipendenza da privazione” ed è proprio questa che rende le anoressiche capaci di resistere e quindi di non rispondere alle proprie esigenze corporee. L’organismo infatti, nelle prime fasi di privazione da cibo, si attiva, andando ad innalzare il livello di funzionamento del soggetto, rendendolo in questo modo pieno di energie ed iperattivo; il tutto con lo scopo di favorirne la sopravvivenza (Fakhour, 2021).

Tali risvolti fisici, accompagnati dai tratti psichici della persona, non fanno che intensificare il comportamento anoressico e dunque il disturbo stesso, intrappolando così l’individuo all’interno di un mortale circolo vizioso.

Davanti a questo scenario è però importante rivolgere il proprio sguardo anche ai modelli proposti dalla società in cui viviamo. Ogni giorno veniamo bombardati da immagini preconfezionate di corpi perfetti che ci spingono a voler raggiungere standard inesistenti, anche quando questi non sono altro che la rappresentazione di persone incapaci di prendersi cura di sé, di nutrirsi e sostenersi.

Tali modelli non fanno che creare un senso di inadeguatezza ed insoddisfazione per la propria immagine corporea, andando in questo modo ad incentivare sempre di più il sintomo anoressico, direzionando così l’individuo ad un rischio di mortalità sempre più alto (De Clerq & Birattari, 2013).

Chi soffre di anoressia non percepisce il pericolo di vita, ma nel momento stesso in cui si rende conto di aver raggiunto il limite, allora percepisce di aver raggiunto il giusto livello di magrezza, quella magrezza che ora gli permette di poter “prendere corpo” e di poter così affrontare il mondo, nonostante la sua condizione fisica reale sia molto lontana dall’immagine di un corpo sano ed energico (De Clerq & Birattari, 2013).

L’anoressia è dunque la manifestazione di un disagio interiore che viene ribaltato all’esterno, così facendo il soggetto identifica il proprio corpo come una scala attraverso cui valutarsi e darsi o levarsi valore, con cui affrontare le proprie paure e ciò che lo circonda. Una scala valoriale che, se portata all’estremo, può condurre alla morte stessa (Siegel & Brisman, Judith & Weinshel, Margot., 1995).

Partendo da questo presupposto, possiamo notare come il sintomo anoressico non sia quindi la manifestazione di un tentato suicidio da parte dell’individuo, ma risulti essere l’unico mezzo attraverso cui il soggetto riesce effettivamente ad esistere, a “prender corpo”. L’individuo dà così un significato alla propria identità basandosi sul livello di magrezza raggiunto e questo perché il disturbo si manifesta attraverso il corpo, ma allo stesso tempo ne è infettata anche la psiche, condizionando tutti quei costrutti con cui il soggetto crea le rappresentazioni che ha di sé. Così la battaglia che intraprende chi soffre di anoressia nei confronti del proprio corpo, rappresenta un fallimento dei processi di rappresentazione e simbolizzazione mentale. In questi casi, il corpo diventa il capro espiatorio da poter colpire in ogni momento (Ciccolini & Cosenza, 2015).

Il problema di fondo quindi non è il corpo, l’essere magri o grassi, ma è il significato ed il valore che l’individuo attribuisce alla propria identità.

Attraverso il lavoro clinico è dunque possibile accedere alle rappresentazioni mentali che il soggetto ha di sé e del suo “sentire”. Un sentire non costituito solo da affetti o pensieri ma da forti reazioni corporee, che spesso infastidiscono il soggetto e lo costringono a dar loro ascolto con rabbia e falsa comprensione.

Il lavoro clinico eseguito da un’equipe multidisciplinare integrata, permette di agire su tali rappresentazioni mentali andando a modificarle e aiuta la persona a divenire consapevole del pericolo mortale a cui sta andando incontro. Si può così scardinare la convinzione secondo cui si riesce a “vivere” solo raggiungendo un peso specifico, aiutando in questo modo l’individuo a divenire realmente corpo senza invece perderlo del tutto (Ciccolini & Cosenza, 2015).

 


Il tempo siamo noi (2015) di Marc Wittmann – Recensione

Il tempo siamo noi ci accompagna “passo passo” con studiata agilità presentandoci una visione moderna quanto complessa del senso del Tempo che ciascuno di noi possiede.

 

Il libro Il tempo siamo noi scritto da Marc Wittmann, esperto internazionale di psicologia del tempo che lavora all’Istituto di studi interdisciplinari di psicologia e igiene mentale di Friburgo in Germania, è semplicemente uno dei libri più completi ed aggiornati riguardo la tematica temporale nelle sue varie sfaccettature.

Con un linguaggio molto accessibile, ma che non rischia mai di semplificare in maniera riduzionistica i vari concetti citati, il testo rappresenta forse il libro che più sintetizza le molte conoscenze filosofiche, psicologiche e delle moderne neuroscienze che hanno a che fare con la dimensione temporale.

Spaziando dalla relazione psicologica che ognuno di noi possiede nei confronti del tempo, alle evidenze biologiche che determinano il concetto di tempo sul piano fisiologico, alle varie teorie che stanno alla base di come misuriamo il tempo che percepiamo, il libro ci accompagna “passo passo” con studiata agilità presentandoci una visione moderna quanto complessa del senso del Tempo che ciascuno di noi possiede.

Cercando sempre di offrire un messaggio non riduzionistico Marc Whittmann descrive delle prospettive originali quanto scientificamente solide che non rischiano mai di essere troppo frammentate tra di loro, malgrado il discutere della dimensione temporale sia notoriamente difficile da inquadrare senza generare una sorta di disorientamento concettuale.

L’autore riesce sempre con molta eleganza e abilità a parlare della dimensione del Tempo attraverso un filo rosso che collega ed intreccia argomenti specifici quali l’autocontrollo dello psicologo Walter Mischel (rappresentato dal suo noto esperimento sui marshmallow), la Prospettiva Temporale concettualizzata dallo psicologo Phil Zimbardo, le evidenze neurofisiologiche di quello che può essere definito il nostro “metronomo interno”, così come la dimensione esperienziale del senso del Tempo e le molteplici implicazioni sul nostro benessere e la nostra salute derivanti dall’“orologio interno” che definisce il ritmo di funzionamento della nostra fisiologia.

Personalmente ho trovato particolarmente interessanti le sezioni che trattano le moderne evidenze neurofisiologiche del senso del Tempo con l’enterocezione così come l’analisi di alcune emozioni specifiche come la noia o l’esperienza ottimale ma non c’è una parte del libro che non consiglierei di leggere con attenzione.

Anche le ricerche citate ed i concetti esposti relativi i Ritmi Circadiani e le loro numerose implicazioni psicofisiche derivanti la loro desincronizzazione dovuta all’attuale società caratterizzata da un cronico “social jet-lag”, sono particolarmente interessanti per comprendere in una nuova prospettiva dei comportamenti assolutamente diffusi all’interno della popolazione quanto spesso quasi patologici.

La profonda competenza dell’autore è evidente anche quando tratta i temi più squisitamente psicologici in particolare nel suo primo capitolo intitolato “Miopia temporale: il saper aspettare”.

Il tempo siamo noi è un libro che va letto più volte da quanti concetti sintetizza, ma soprattutto per quanti spunti e stimoli offre analizzando il fattore Tempo.

Consiglio vivamente questo libro per tutti coloro che sono interessati alla dimensione temporale (chi di noi non lo è?) ed in particolare ai colleghi curiosi di sapere come il fattore Tempo influenza le nostre vite, sia nei suoi aspetti più puramente psicologici esperienziali che in quelli biologico-fisiologici che determinano, entrambi, la nostra salute e la nostra qualità di vita.

 

“I nonni sono fatti per amare e aggiustare le cose”

Un numero crescente di bambini vive con i nonni, figure che spesso contribuiscono a tempo pieno alla loro educazione (Dare et al., 2019).

 

L’assistenza da parte dei nonni rappresenta una delle forme di cura e di crescita più rapida (Horner et al., 2007; McHugh e Valentine, 2011) e l’aumento di tale supporto dipende da differenti variabili che, nei casi più gravi, riguardano abusi o abbandono dei minori, utilizzo di sostanze, patologie mentali o incarcerazione dei genitori (Backhouse e Graham, 2013; Baldock, 2007; Dunne e Kettler, 2007; Hay et al., 2007). Un contatto stretto con i nonni comporta benefici legati ad una maggiore stabilità, ad una connessione con i membri della famiglia e ad una conseguente continuità nelle relazioni di attaccamento (Cuddeback, 2004; Dare et al., 2019). A lungo termine, si osserva una propensione maggiore alla partecipazione di attività istruttive e lavorative (Dare et al., 2019).

Punti di forza dei nonni

Gli unici a pubblicare una revisione completa sulla letteratura dei nonni furono Hayslip e Kaminski (2005), autori che analizzarono i costi e i benefici della crescita di un nipote, insieme all’eterogeneità dei nonni e al loro bisogno di sostegno sociale. Dopo aver rivisto la letteratura gerontologica dal 2004, Hayslip e colleghi (2019) indagarono nuove aree per dare un contributo al ruolo di queste persone che tutt’oggi crescono i nipoti. Nello specifico, vengono enfatizzati i punti di forza dei nonni, le diversità di questi ultimi, i contesti sociali-interpersonali e culturali, le abilità genitoriali, le relazioni familiari, il disagio psicologico provato in alcuni casi e gli interventi validati per fronteggiarlo. Hayslip e colleghi (2019) sottolinearono la natura e l’influenza positiva dell’educazione di queste figure che sono viste come modelli, supporti, insegnanti comunicativi e protettivi (Dolbin-MacNab e Keiley, 2009; Dolbin-MacNab et al., 2009). Un’altra caratteristica evidenziata dagli autori è la forza manifestata dalla resilienza (Hayslip e Smith, 2013; Zauszniewski, Musil e Au, 2013) e dall’insegnamento della ricerca di benefici (Castillo et al., 2013). Nello specifico, si è visto come la resilienza sia mediatrice della relazione tra stress e funzionamento psicosociale dei nonni, nonché fonte di riduzione dei fattori di rischio come l’isolamento sociale (Hayslip et al., 2013).

Le differenze tra i nonni

Una questione continua sulla comprensione del ruolo dei nonni riguarda la diversità tra di loro, sia in termini culturali che individuali (Hays, 2008; Hayslip e Patrick, 2006). A loro volta, le differenze possono essere correlate a fattori contestuali come la possibilità di avere una sicurezza economica: rispetto ad altri gruppi etnici, gli afroamericani hanno maggiori probabilità di mantenere i nipoti più a lungo, con un conseguente aumento del rischio di povertà (Baker e Silverstein, 2008). Essere nonni non sempre è un compito facile, in quanto risulta difficile per le persone che non hanno allevato figli per anni oppure che hanno riscontrato difficoltà nel farlo (Hayslip et al., 2019). Altre esperienze stressanti possono essere provate dai nonni in caso di povertà, minoranza etnica, problemi psicologici come ansia e depressione (Collins, 2011). Lo stress psicologico solitamente è associato alla necessità di ricoprire ruoli multipli simultaneamente (ad esempio, lavoratore, volontario, nonno), all’assistenza attuale necessaria e ricevuta (Baker e Silverstein, 2008), alla natura del rapporto tra nonno e nipote che muta e alla perdita delle relazioni sociali (Gerald, Landry-Meyer e Roe, 2006). Sono stati riconosciuti molti studi legati all’efficacia di gruppi di sostegno, corsi di potenziamento, programmi educativi e interventi di promozione della salute per poter aiutare queste figure preziose nella crescita dei loro nipoti e per migliorare il loro benessere psicologico e sociale (Collins, 2011; Brintnall-Peterson et al., 2009; Kelley, Whitley e Sipe, 2007; Kelley et al., 2013; Kicklighter et al., 2007). Ad esempio, KinNet è un progetto finanziato nel 2000 da parte dell’Adoption and Safe Families Act che istituisce una rete nazionale di gruppi di sostegno per i nonni, mentre l’Associazione Americana di Pensionati (Association of Retired Persons; AARP, 2003) ha un database composto da informazioni online su gruppi di sostegno utili per indirizzare le proprie esigenze emotive, legali e finanziarie (Hayslip et al., 2019). Data l’importanza di queste figure e il notevole per il contributo che viene dato, cercare di integrare le conoscenze sui nonni e sull’educazione dei nipoti è utile per aggiornare gli operatori e per cercare di dare un aiuto consistente.

Cosa ci spinge a viaggiare e in che modo scegliamo le nostre vacanze?

La teoria psicografica afferma che i viaggiatori si collocano su un continuum che va da psicocentrici, che preferiscono i luoghi familiari, ad allocentrici, che preferiscono i viaggi avventurosi e destinazioni nuove.

 

Cosa spinge una persona a preparare la valigia, chiudere la porta della propria abitazione – il nido sicuro- e programmare di andare altrove per un periodo, lungo o breve che sia?

Quale motivazione si cela dietro la decisione di intraprendere un viaggio, cambiare radicalmente la propria routine, dormire in letti diversi dal proprio, mangiare cibi a volte sconosciuti, parlare con persone nuove?

Perussia (1984) afferma che “turismo è voler essere altrove”.

L’uomo è considerato da sempre un viaggiatore, dapprima navigatore con sete di scoperta e conquista, ora esploratore di nuovi luoghi, usi e costumi. Ma non solo.

Le motivazioni di un viaggio

Le motivazioni che sono alla base della decisione di intraprendere un viaggio sono diverse: alcune legate al soddisfacimento dei bisogni più primordiali (vedasi la scala dei bisogni di Maslow del 1970), altre legate a fattori sociologici, antropologici ed economici.

Crompton (1979) grazie ai suoi studi sulle motivazioni ha individuato sette macroaree all’interno delle quali sono raccolte le principali motivazioni a viaggiare:

  • Evasione dal quotidiano
  • Esplorazione di se stessi
  • Relax
  • Prestigio (promozione sociale)
  • Regressione (liberazione simbolica dalle costrizioni sociali)
  • Impulso alle relazioni familiari
  • Miglioramento delle relazioni sociali.

Negli stessi anni Plog (1974) parla della sua teoria psicografica: in base alle aree di destinazione scelte, i viaggiatori sono su un continuum che va da psicocentrici (preferiscono i luoghi familiari) agli allocentrici (persone che preferiscono i viaggi avventurosi e destinazioni nuove).

Più recentemente Ryan e Glendon (1998) hanno individuato quattro aree di motivazione al turismo: Motivi intellettuali (scoperta, esplorazione, immaginazione); Motivi sociali (ricerca di nuove amicizie, essere stimati dal prossimo); Competenza (cambiare, evolvere); Evitamento degli stimoli (scappare dalla quotidianità).

Partendo da questa base teorica di riferimento è possibile ipotizzare di individuare la tipologia di viaggio/vacanze in base alla motivazione.

È sufficiente entrare in un’agenzia di viaggi o fare una ricerca online per rendersi conto di quanto sia vasta l’offerta turistica oggi.

Ognuno cerca la miglior soluzione per appagare i propri bisogni e desideri.

Le tipologie di viaggio

I cosiddetti viaggi “zaino in spalla” verso terre lontane ed insolite potrebbero essere i prediletti per chi vuole appagare il bisogno di scoperta ed esplorazione, questo sarà attratto da esperienze molto diverse dal suo quotidiano, da posti con usi e costumi diversi dai suoi. Sono viaggi costruiti ad arte dal viaggiatore, i fidati compagni di viaggio sono un diario personale e un’ottima guida turistica.

Due tipologie di viaggio affini a questo segmento sono i viaggi guidati o le crociere: questi appagano due bisogni simultaneamente: scoperta ma anche sicurezza. Si può esplorare il mondo con guide esperte ma allo stesso tempo sapere che si può tornare alla base in un luogo sicuro. Il bisogno di sicurezza descritto da Maslow (1968) è inteso come libertà da pericoli e minacce.

Chi è orientato alla ricerca del relax, inteso come cura del proprio corpo e alleviamento dello stress accumulato potrebbe optare per un soggiorno in località termali italiane ed estere. Il segmento delle terme e benessere ha conquistato un ruolo di prim’ordine nella richiesta turistica da almeno un ventennio.

Accanto e per certi versi simile, c’è il reparto dei viaggi che ha lo scopo di far accrescere il contatto con la natura. Questo tipo di viaggio soddisfa il bisogno del ritrovare se stessi, avere tempo di godere del silenzio di un viaggio immersi nel verde.

L’ormai famosa formula del villaggio “All inclusive”, riassumibile con la frase “vorrei partire, ma non voglio pensare a niente!” soddisfa senza dubbio un bisogno di staccare dalla routine senza esporsi alla fatica di dover vivere sensazioni di pericolo o di stress del nuovo, inoltre soddisfa il bisogno di appartenenza al gruppo, permettendo di conoscere nuove persone con gli stessi interessi. I punti di forza sono: la comodità della posizione del villaggio, una cucina conosciuta e “sicura” che garantisce il soddisfacimento del bisogno del nutrirsi di cibi conosciuti e “fidati”. Seguendo la distinzione di Crompton, i viaggiatori che preferiscono questo tipo di vacanza potrebbero sentire la necessità di appagare il bisogno di gioire delle relazioni familiari e di migliorare le relazioni sociali. Si può notare in questo caso il soddisfacimento del bisogno di amore e di appartenenza citato da Maslow.

Infine, la scelta verso un viaggio “instagrammabile” e con attenzione al lusso andrebbe ad appagare il bisogno di ricerca di prestigio e di promozione sociale individuato da Crompton, così come il bisogno di stima e autostima di Maslow.

Queste brevi ipotesi e riflessioni di marketing turistico potrebbero essere la base per ulteriori studi utili alla promozione turistica delle aziende che si occupano di turismo.

Il trauma cranico encefalico (TCE): dal trauma alla riabilitazione

Dopo un Trauma Cranio Encefalico di qualsiasi entità possono persistere vari deficit cognitivi e neuropsichiatrici.

 

Il Trauma Cranio Encefalico (TCE) “interrompe la normale funzione del cervello. Questa funzione può influire negativamente sulla qualità della vita di una persona con sintomi cognitivi, comportamentali, emotivi e fisici che limitano il funzionamento interpersonale, sociale e professionale” (M. Pervez et al., 2018).

Sequele Post-Traumatiche del Trauma Cranico Encefalico

Dopo un Trauma Cranio Encefalico di qualsiasi entità possono persistere vari deficit cognitivi e neuropsichiatrici. Questi possono essere di varia natura, ma generalmente sono classificati in due categorie (che non sono rigidamente distinte e separate): alterazioni delle funzioni cognitive ed alterazioni del comportamento e della personalità. I deficit cognitivi e comportamentali dopo un Trauma Cranio Encefalico hanno effetti disabilitanti molto preoccupanti perché, oltre ad impedire la riabilitazione del paziente, gli creano notevoli difficoltà in ambito familiare, sociale e lavorativo.

Diversi domini cognitivi sono prevedibilmente compromessi, comprese le funzioni esecutive frontali (problem solving, set shifting, controllo degli impulsi, autocontrollo), attenzione, memoria e apprendimento a breve termine, velocità di elaborazione delle informazioni e funzioni della parola e del linguaggio (Ewing-Cobbs L. et al., 2002; Weintraub S. et al., 1981).

La personalità di un paziente traumatizzato può subire notevoli cambiamenti con conseguente ansia, depressione, irritabilità, intolleranza all’ambiente circostante, frustrazione, improvvisi cambi d’umore e perdita d’interesse per ciò che lo circonda. Tutto ciò comporta uno stato d’isolamento sociale e l’impossibilità di rientrare nel proprio ambiente lavorativo. I sopravvissuti e la famiglia/caregiver descrivono spesso le alterazioni nella regolazione emotiva e comportamentale come “cambiamenti di personalità”.

Valutazione del Trauma Cranico Encefalico

I deficit che insorgono in seguito a Trauma Cranio Encefalico, quali difficoltà attentive, mnestiche, esecutive, di consapevolezza e di controllo comportamentale, hanno un effetto negativo nelle capacità relazionali, nel ritorno all’attività lavorativa e nella qualità di vita (Santopietro et al., 2015). È importante in questa fase che il paziente venga inserito all’interno di un progetto riabilitativo che coinvolga diversi professionisti che, lavorando in èquipe, accolgano le difficoltà della persona programmando un percorso riabilitativo personalizzato (Valorio P. et al., 2016). La riabilitazione cognitiva comprende una serie di terapie fisiche, occupazionali e logopediche, terapie individuali e di gruppo che mirano a valorizzare le abilità emotive, sociali e funzionali del soggetto traumatizzato.

Trattamento e riabilitazione del Trauma Cranico Encefalico

Attualmente, non esiste un trattamento valido per tutti nella pratica clinica quotidiana per i pazienti post Trauma Cranio Encefalico, data l’eterogeneità delle lesioni cerebrali.

Nella fase di riabilitazione post trauma il paziente ha bisogno di essere supportato psicologicamente per affrontare i cambiamenti inevitabili che derivano dalla sua nuova condizione. A seconda della gravità della lesione, il team medico fornisce al paziente una terapia per accompagnarlo nella fase di riabilitazione, che spesso comprende terapia occupazionale, clinica, neuropsicologica e fisica. L’autrice Ponsford J. (2012) sostiene che in questa fase lo psicologo deve predisporre un intervento che miri ad identificare le difficoltà o i punti di forza del paziente e su quella base fornire una terapia per aiutarlo a superare i deficit comportamentali e/o interpersonali sopraggiunti dopo il trauma, aiutandolo ad adattarsi alla sua nuova condizione e sostenendo non solo il paziente con Trauma Cranio Encefalico, ma l’intero nucleo familiare, in particolar modo il caregiver che lo assiste costantemente. Al caregiver viene richiesta l’organizzazione e la cura del paziente traumatizzato, viene informato sull’esito della valutazione e sul programma di riabilitazione da attuare. Le persone con lesioni cerebrali traggono vantaggio dal ricevere un feedback e consigli sulla natura delle loro difficoltà psicologiche. Una spiegazione dettagliata della natura delle difficoltà post trauma e una guida sulla probabile estensione del recupero, può aiutare il paziente traumatizzato ad acquisire una prospettiva più realistica. La consulenza psicologica può anche aiutare a valutare le opzioni di reimpiego e a tornare nell’attività sociale e nel tempo libero. La famiglia dovrebbe essere inclusa nel modo più completo possibile in tale consulenza. Spesso i familiari chiedono consigli sulla gestione cognitiva e/o comportamentale e può assumere il ruolo di co-terapeuta per rafforzare le strategie di trattamento a casa. Per quanto riguarda la psicoterapia individuale, alcuni pazienti, comprensibilmente, si sentono devastati dagli effetti della loro lesione cerebrale. Dove le persone soffrono di depressione marcata o ansia, terapia psicologica o trattamento psichiatrico possono aiutarli ad attraversare la difficile fase. Tuttavia, non sono solo le persone che sono gravemente angosciate che traggono beneficio dalla psicoterapia. Nella confusione del presente e dell’incertezza del futuro, i pazienti spesso si aggrappano al passato a seguito della loro lesione cerebrale. Alcuni tentano di andare avanti come prima, incapaci di accettare le modifiche che si sono verificate, e possono continuare a giudicare sé stessi in base agli standard pre-infortunio che non possono più incontrarsi. La psicoterapia può aiutare le persone a rivalutare la loro nuova situazione. Con il supporto e la guida, spesso i pazienti traumatizzati possono essere aiutati ad andare avanti per esplorare il loro nuovo sé e cercare una nuova direzione e scopo per le loro vite.

 

La riscoperta delle sostanze psicoattive: l’MDMA nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è una condizione comune e debilitante causata dall’esposizione ad un evento traumatico. Recentemente sono stati finanziati diversi studi sulla psicoterapia assistita dall’MDMA per il PTSD.

 

Per ottenere una diagnosi, oltre che l’esposizione al trauma, è prevista la presenza di sintomi intrusivi collegati all’evento come sogni, ricordi, flashback, alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico, marcate alterazioni dell’arousal come comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia ed evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico (DSM-5; APA, 2013).

Per quanto concerne la parte farmacologica, i farmaci di prima linea approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), la sertralina e la paroxetina. Tuttavia, si stima che il 40-60% dei pazienti non risponda a questi composti (Steenkamp et al., 2015). Mentre per quanto riguarda la psicoterapia, l’EMDR e la terapia cognitivo-comportamentale basata sull’esposizione e rielaborazione del trauma sono considerate i trattamenti gold standard per il PTSD (Watkins et al., 2018), ma alcuni soggetti si mostrano resistenti al trattamento (Gutner et al., 2016).

Con il tentativo di esplorare nuovi trattamenti efficaci, alcuni ricercatori negli anni passati si sono focalizzati sull’utilizzo di sostanze psicoattive sintetizzate, che a causa di limitazioni e controversie sono state però presto vietate.

Disturbo da stress post traumatico e MDMA: i primi utilizzi

Una delle sostanze psicoattive studiate è la 3,4-metilenediossimetanfetamina, più comunemente nota come MDMA, sintetizzata per la prima volta nel 1912 come precursore di un agente coagulante. Dopo la sua scoperta, la sostanza venne presto accantonata, per poi emergere nuovamente negli anni ’70, con i farmacisti alla ricerca di nuovi farmaci di tipo anfetaminico. Alexander Shulgin, un ricercatore farmaceutico che aveva l’approvazione del governo per sintetizzare nuovi composti, si interessò all’MDMA facendone esperienza nel 1977 (Benzenhöfer & Passie, 2010). Impressionato da essa, introdusse l’MDMA ai suoi contatti, che iniziarono ad utilizzarla con i loro clienti nelle sessioni di terapia. La popolarità dell’MDMA come droga ricreativa aumentò rapidamente dopo di allora, e di conseguenza l’uso e la produzione furono criminalizzati nel 1985 e il lavoro clinico e di ricerca si fermò bruscamente.

Un piccolo gruppo di terapeuti che avevano usato l’MDMA con i loro clienti prima della sua criminalizzazione continuò a credere nel potenziale terapeutico dell’MDMA, in particolare per le persone con disturbo da stress post traumatico (PTSD). Il modello che proponevano era incentrato sulla terapia in cui l’uso di MDMA avrebbe creato una “finestra di tolleranza” per i pazienti traumatizzati per lavorare attraverso le loro esperienze in un ambiente aperto e solidale (Mitchell et al., 2021)

L’MDMA induce il rilascio di serotonina legandosi principalmente ai trasportatori presinaptici di serotonina (Rudnick & Wall, 1992) e gli effetti che la sostanza ha dimostrato produrre sono: il miglioramento dell’estinzione della memoria della paura, la modulazione del riconsolidamento della memoria della paura (possibilmente attraverso un meccanismo dipendente dall’ossitocina) e il sostenimento di comportamenti sociali in modelli animali (Hake et al., 2019).

Sugli esseri umani, invece, l’MDMA sembra aumentare la risposta alla riattivazione dei ricordi autobiografici positivi, diminuisce la risposta ai ricordi autobiografici negativi, promuove l’autocompassione, aumenta la fiducia e l’empatia, facilita la condivisione di informazioni personali sensibili con gli altri (Bershad et al., 2016; Bershad et al., 2019).

Disturbo da stress post traumatico e MDMA: le evidenze

Recentemente, Rick Doblin e l’organizzazione da lui fondata per promuovere la riprogrammazione dell’MDMA (la Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies [MAPS]), ha finanziato una serie di studi sulla psicoterapia assistita dall’MDMA per il PTSD.

Un recente studio sostenuto dalla MAPS, sviluppato insieme alla US Food and Drug Administration (FDA), ha dimostrato che la psicoterapia assistita dalla MDMA si è dimostrata più efficace per i sintomi del PTSD rispetto alla stessa psicoterapia fornita con placebo.

In particolare, lo studio (Mitchell et al., 2021) è stato condotto per 18 settimane su un totale di 90 soggetti: 46 soggetti sottoposti a psicoterapia con somministrazione di MDMA e 44 soggetti sottoposti a psicoterapia e sostanza placebo.

I risultati hanno mostrato una riduzione della gravità del disturbo del 55,5% con la somministrazione dell’MDMA, ottenendo un risultato significativamente maggiore della sostanza placebo associata alla terapia (31,5% di riduzione). Alla fine dello studio, 14 dei 42 (33%) pazienti del gruppo MDMA e 2 dei 37 (5%) pazienti del gruppo placebo erano in fase remissione.

La sostanza sembra aver prodotto miglioramenti significativi rispetto al placebo anche nella gravità della depressione e nella disabilità sociale, producendo quindi nel complesso dei risultati impressionanti.

É importante sottolineare che gli effetti collaterali provocati dall’MDMA non sono stati classificati come gravi; tra questi vi erano tensione muscolare, riduzione dell’appetito, sudorazione eccessiva, sensazione di freddo e pupildilazione.

Tuttavia, questo studio non ha affrontato questioni di fondamentale importanza come la dipendenza e la neurotossicità negli esseri umani a seguito di una limitata somministrazione di dosaggi terapeutici di MDMA.

Futuri studi faranno luce sui possibili effetti collaterali dell’utilizzo di questa sostanza e dei possibili effetti benefici del suo utilizzo nell’ambito terapeutico.

 

Le Scuole di Psicoterapia e l’emergenza COVID

È con dispiacere ma anche con cruccio che siamo costretti a smentire Umberto Galimberti che, rispondendo il 4 dicembre a una lettera spedita da un padre di famiglia al quotidiano Repubblica, si preoccupa che le scuole di psicoterapia non prendano -a suo dire- posizione sul problema del contagio da COVID e del vaccino e non abbiano preso provvedimenti verso gli allievi che non vogliono vaccinarsi e forse assumono una posizione “novax”.

L’autore della lettera a Galimberti ha una figlia che frequenta una scuola di psicoterapia e si chiede come possa essere possibile che un allievo di queste scuole possa assumere una posizione “novax”. Domanda vaga che sembra attribuire una generica responsabilità alle scuole che abbiano allievi che non si vaccinino.

Nella sua risposta Galimberti formula un’accusa più precisa. Ammette di non sapere quale sia la posizione delle scuole di psicoterapia sul contagio da COVID-19 e sui vaccini, poi assume che non abbiano assunto una posizione chiara di opposizione a ogni idea novax dato che la figlia dell’autore della lettera non si vaccina e per questo decide che la lettera del padre dell’allieva non vaccinata sia un’accusa, anzi -parole dello stesso Galimberti- un J’accuse alle scuole e infine si lancia in una sua riflessione del rapporto tra etica e psicoterapia la cui conclusione è un salto logico: le scuole di psicoterapia non sono etiche, dato che da loro vi sono allievi che non si vaccinano, ovvero non si curano. Il ragionamento di Galimberti sembra essere: Come possono pretendere di fare psicoterapia -che è una cura- quegli allievi che non si vaccinano se loro per primi, non vaccinandosi, rischiano di nuocere agli altri? Domanda giusta, se rivolta agli allievi. Il problema è che a questo punto Galimberti imprime una svolta audace alla sua domanda e si chiede: dove si stanno formando allievi del genere? E la sua risposta è che si stanno formando in Scuole di Psicoterapia non etiche. E una volta giunto a questa conclusione Galimberti conclude di trovarsi di fronte a uno scandalo morale. Questo è il senso del termine “J’accuse”: una denuncia etica di un inaccettabile scandalo morale quale fu l’affare Dreyfus.

Galimberti - Repubblica 4 dicembre 2021Il ragionamento è così capzioso e fallace che è fin troppo facile rispondere. Come ammette lo stesso Galimberti, le Scuole di Psicoterapia condividono i codici deontologici dei medici e degli psicologi che raccomandano la cura anti-COVID, vaccino compreso. L’adesione alla lotta all’emergenza COVID è così chiara da non dover essere nemmeno provata. Che esistano allievi di queste Scuole che, malgrado l’adesione delle scuole a tutte le iniziative di promozione della vaccinazione, rifiutano il vaccino non dipende da tare etiche o da mancanze nella moralità e nella formazione delle Scuole. Le Scuole di Psicoterapia non nutrono sotterranee collusioni novax, sebbene il termine J’accuse usato da Galimberti le equipari alle collusioni con l’antisemitismo e il razzismo nutrite dalla società e dall’esercito francesi nell’ottocento.

Il ragionamento di Umberto Galimberti che, essendo la psicoterapia una cura non è possibile che esistano allievi di scuole di psicoterapia che rifiutino il vaccino e rischino di nuocere agli altri e che, se esistano, questo dimostrerebbe l’esistenza di mancanze etiche e formative nelle scuole è appunto un ragionamento e un teorema ma non è un fatto. La realtà dei fatti è molto più semplice. Le Scuole di Psicoterapia come organi didattici e clinici riconosciuti dallo Stato Italiano ne adottano tutte le direttive e normative, comprese quelle sul problema COVID, sollecitando e promuovendo, nei limiti della legalità, la vaccinazione e imponendo limitazioni a chi non si vaccina: dapprima il controllo mediante tampone a chi rifiuta questa linea e poi, con la nuova normativa del Super Green Pass, l’impedimento a chiunque di stare in un luogo chiuso senza o essere guarito dal COVID o essersi vaccinato. Inoltre, le scuole di psicoterapia sono frequentate da medici e psicologi che hanno l’obbligo a vaccinarsi. È compito dei rispettivi Ordini prendere provvedimenti per chi non si vaccina, tra cui la sospensione che a sua volta impedisce la frequentazione delle scuole.

Infine, la formazione nelle scuole sicuramente comporta la trasmissione agli allievi di strumenti concettuali ed etici affinché essi assumano una posizione responsabile in questo dramma della pandemia, ovvero si vaccinino. All’interno delle Scuole non vi è alcuna propaganda novax esplicita o implicita e nessuna approvazione per la scelta di non vaccinarsi. La discussione sociale sulla scelta di non vaccinarsi avviene nelle scuole come in ogni altro luogo e, come in ogni altro luogo, la sua conclusione è che la maggioranza si vaccina e disapprova la scelta di non vaccinarsi ma anche che rimane una percentuale di persone non convinte e probabilmente, prendiamone atto, non convincibili perfino all’interno di un percorso di formazione in psicoterapia. Così come esistono medici novax, ci sono allievi di psicoterapia novax.

Ritenere che le Scuole di Psicoterapia possano, per loro natura, assicurare l’intrinseca inesistenza tra i propri allievi di persone non convinte della bontà della scelta di vaccinarsi è un pensiero ingenuo. La piena adesione è un obiettivo pratico da ottenere ma non può essere ritenuto un dato di fatto da dare per scontato e che, se non c’è, segnala la presenza di chissà quali tare morali o educative nelle Scuole di Psicoterapia. Il problema è molto più semplice: il vaccino anti-COVID non è al momento, obbligatorio e quindi la società italiana, lo Stato Italiano e con essi le scuole di psicoterapia, organi -ricordiamolo- riconosciuti dallo Stato, usano lo strumento della persuasione e non della coercizione, ottenendo risultati abbastanza soddisfacenti. Il resto sono ragionamenti di Galimberti il cui fondamento purtroppo risiede solo in alcuni suoi dubbi personali, già dichiarati in molte altre occasioni, sulla trasparenza etica e sullo statuto morale delle Scuole di Psicoterapia soprattutto private. Dubbi fondati su suoi ragionamenti di natura filosofica, sociologica ed economica che -sebbene estremamente discutibili- possono anche essere in parte interessanti come stimolo culturale entro certi termini e in certe occasioni ma che, al tempo dell’emergenza COVID, diventano irrilevanti sotto ogni punto di vista.

Diet culture e restrizione cognitiva nei disturbi alimentari

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: che effetti potrebbe avere il diffondersi di tale cultura da un punto di vista cognitivo e fisico?

 

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: avere un fisico magro e muscoloso, riuscire a mantenere una dieta e delle regole alimentari ferree e praticare una rigida attività fisica viene generalmente visto come una dimostrazione di forza e determinazione e, di conseguenza, di valore personale.

Negli ultimi 50 anni, l’ideale di magrezza è andato via via rafforzandosi, come dimostrano alcuni studi che hanno analizzato i dati antropometrici delle modelle apparse sulle copertine di diverse riviste, sia indirizzate ad un pubblico maschile sia femminile: queste analisi hanno dimostrato, infatti, che sia l’indice di massa corporea (calcolato dividendo il peso per il quadrato dell’altezza) sia le circonferenze di vita e fianchi sono andate via via riducendosi dagli anni ’50 in poi.

Diet culture, disturbi alimentari e restrizione alimentare

Questo diffuso ideale di magrezza è uno dei motivi per cui vivere in una società occidentale, contraddistinta dalla diet culture, è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.

In queste patologie, l’attenzione verso il peso e le forme del corpo, alla quantità e alla qualità degli alimenti introdotti viene portata patologicamente all’estremo e diventa tanto importante nella quotidianità dell’individuo, da rappresentare un vero e proprio (se non l’unico) metro di valutazione di sé come persona.

Al fine proprio di controllare il peso e le forme del corpo, all’interno della psicopatologia dei disturbi alimentari, un aspetto diffuso e comune è la restrizione alimentare, che può assumere diverse sfaccettature:

  • controllo su quanto mangiare: restrizione alimentare quantitativa, caratterizzata dalla riduzione dell’introito energetico giornaliero, il quale risulta spesso inferiore rispetto al fabbisogno minimo;
  • controllo su cosa mangiare: restrizione alimentare qualitativa o cognitiva, contraddistinta dall’esclusione di alimenti e gruppi alimentari (frequentemente carboidrati e lipidi);
  • controllo su quando e talvolta dove mangiare: rigidità di orari e luoghi in cui consumare i propri pasti, che si traduce spesso nell’evitare di mangiare in compagnia e nel non consumare pasti cucinati da altre persone.

I potenziali rischi della restrizione quantitativa sono facilmente immaginabili e identificabili: essa può infatti portare a sottopeso, carenze di micro e macronutrienti, scompensi elettrolitici, problemi ossei quali osteopenia e osteoporosi, e amenorrea (scomparsa del ciclo mestruale).

Disturbi alimentare e restrizione cognitiva

Più insidiosa è la restrizione cognitiva, non solo perché ha effetti meno visibili, ma anche perché affonda le proprie radici in quella diet culture, cultura della dieta, tanto diffusa e radicata nella società da rendere difficile accorgersi della presenza di un problema reale.

Prediligere alcuni alimenti (considerati “buoni”, “magri”) rispetto ad altri e riuscire ad eliminarne totalmente alcuni (visti, di contro, come “cattivi” o “ingrassanti”), nonostante inizialmente possa essere visto come una prova di forza, alla lunga finisce per risultare più un obbligo morale che una scelta, e può creare grandi difficoltà nel funzionamento della persona e nella sua capacità di prendere parte alla vita sociale.

Non riuscendo a partecipare agli eventi in cui è presente un qualche “cibo proibito”, chi soffre di un disturbo alimentare finisce per isolarsi sempre di più, limitando ulteriormente gli ambiti in cui misurare il proprio valore come persona e rinforzando l’idea di doversi misurare solo in base al peso, alla dieta e al loro controllo.

In aggiunta a questo effetto relazionale, la restrizione cognitiva aumenta enormemente le preoccupazioni rispetto al peso, alle forme del corpo e al cibo stesso, andando inevitabilmente ad aumentare la sintomatologia del disturbo alimentare stesso.

Inoltre, escludere alcuni alimenti può portare all’aumento del craving, dell’intenso desiderio, di quegli stessi alimenti evitati e con esso della probabilità di avere episodi di abbuffata in cui questi cibi hanno un ruolo di protagonisti.

Affrontare la restrizione cognitiva è, pertanto, estremamente importante nel percorso di cura di un disturbo alimentare, qualunque forma esso assuma.

Disturbi alimentari e psicoterapia

Nella terapia cognitivo comportamentale (CBT) applicata ai disturbi alimentari, il fronteggiare gli “alimenti proibiti” è parte integrante del trattamento: la persona affetta dal disturbo alimentare, affiancata passo passo dal terapeuta, è spronata a compilare una tabella con tutti i cibi tabù, in ordine crescente di difficoltà e paura percepita, e ad affrontarli uno ad uno.

L’esposizione graduale e controllata, contestualmente al percorso della CBT, consente di affrontare le proprie paure, siano esse più focalizzate sul “pericolo” di un aumento di peso o di un episodio di abbuffata, e di riacquistare il controllo della propria alimentazione.

Anche quando le condizioni di salute fanno sì che il recupero del peso sia l’urgenza e la priorità, è importante che la restrizione cognitiva venga affrontata nel momento in cui la persona che combatte contro un disturbo alimentare si sente pronta a farlo: il semplice recupero del peso, infatti, non è sufficiente a far sì che la guarigione sia effettiva e non elimina il rischio che le caratteristiche del disturbo alimentare semplicemente mutino verso un versante ortoressico.

L’ortoressia è, infatti, una forma di disturbo alimentare e in cui la distinzione tra alimenti “buoni” e “cattivi” è più marcata e vi è una vera e propria ossessione per una dieta considerata sana e salutare, con le conseguenze di isolamento sociale e sofferenza individuale che questa rigidità ovviamente porta con sé.

Affrontando la restrizione cognitiva, la persona torna a poter nuovamente scegliere nell’intera gamma degli alimenti, senza più privarsi di alcuni di essi né provare ansia all’idea di trovarsi a doverli mangiare. Questo le permette di vivere con maggiore serenità tutti gli eventi sociali connessi al cibo e tornare a far parte del mondo che la circonda e, di conseguenza, rende possibile l’ampliamento di quei domini di valutazione di sé limitati in origine alla triade peso-corpo-cibo, superando così uno dei nuclei del disturbo alimentare.

 

Mindfulness e self-compassion: tra psico-educazione e clinica – Report dalla Conferenza Internazionale

La conferenza internazionale dal titolo Mindfulness e Self-compassion: tra psico-educazione e clinica ha avuto come tema principale le modalità di connessione tra la mindfulness e la self-compassion e il mondo della psicologia e psicoterapia. 

 

Il 27 e 28 novembre 2021 si è svolta, in modalità a distanza, la conferenza internazionale dal titolo Mindfulness e Self-compassion: tra psico-educazione e clinica organizzata da “Bioenergetica e Mindfulness” di Nicoletta Cinotti e “Interessere – mindfulness in azione” con il patrocinio del Consiglio Nazionale degli Ordini degli Psicologi.

Le pratiche di mindfulness da tempo ormai si sono affacciate sul panorama clinico offrendo molte esperienze in diversi contesti sociali e lavorativi mostrando effetti positivi sia dal punto di vista del benessere psico-fisico personale esperito dai singoli, sia sul versante scientifico, come dimostrano le numerose ricerche nate attorno all’argomento.

Con la situazione pandemica globale poi, moltissime persone si sono avvicinate alla mindfulness e alle pratiche meditative. 

La conferenza internazionale tenutasi in modalità online sabato 27 e domenica 28 novembre 2021 ha avuto come tema principale le modalità di connessione e lo stato dell’arte attuale tra la mindfulness e la self-compassion e il mondo della psicologia e psicoterapia.

Mindfulness e Self-compsassion tra psico-edcazione e clinica: i punti di forza della conferenza

La web-conference era dedicata e aperti a tutti, gli argomenti trattati e la modalità con cui questi sono stati affrontati tuttavia presupponevano conoscenze precedentemente acquisite circa le tematiche specifiche. Nota di merito per l’organizzazione di entrambe le giornate: svolte sulla piattaforma zoom, gestite egregiamente dai tecnici sia le sessioni plenarie, sia le pratiche in piccoli gruppi. Sono state infatti svolte due sessioni di pratica formale in seguito alle quali hanno avuto luogo condivisoni in piccoli gruppi. La platea virtuale era composta da circa 180 uditori, i gruppi di condivisone erano formati da una decina di persone, tale condizione ha permesso una dimensione interpersonale intima non inibente che ha consentito ad ogni partecipante l’esposizione delle sensazioni esperite. La lingua della conferenza era l’inglese, la traduzione simultanea e l’ottimo lavoro delle professioniste che se ne sono occupate ha offerto la possibilità di seguire gli interventi in italiano. Infine per i professionisti sanitari vi era la possibilità di acquisire crediti formativi, la registrazione di entrambe le giornate è stata resa disponibile il giorno successiva alla fine dei lavori. La piattaforma symposia congressi con un’interfaccia semplice e intuitiva permetteva l’accesso alla piattaforma virtuale, la consultazione rapida del programma e di tutti i documenti del convengo compresi contenuti aggiuntivi consigliati e suggeriti.

I protocolli Mindfulness

Il programma ha visto un intenso susseguirsi di interventi e sessioni di pratica per tutta la giornata di sabato e per l’intera mattina della domenica.

Durante la mattinata della prima giornata, mediata da Paola Mamone – cofondatrice di “Interessere Mindfulness in azione”, l’attenzione è stata rivolta alla pratica clinica dei protocolli mindfulness con particolare interesse alla genitorialità (italianizzato dal termine inglese parenting) e dei sistemi familiari in cui i genitori e i figli sono inseriti. Il tema è stato ben affrontato nell’alternarsi degli interventi di Nicoletta Cinotti e Susan Bogels, autrice del libro Mindful Parenting (2020) la quale ha parlato del Mindful Parenting in tempi difficili. Dal Regno Unito invece l’intervento successivo di Rebecca Crane ha spiegato la qualità delle competenze necessarie negli interventi basati sulla mindfulness attraverso l’osservazione di criteri stabiliti per l’assessment secondo il modello MBI-TAC (Mindfulness-based Teaching Assessment Criteria). Nella seconda parte Nicoletta Cinotti ha guidato una pratica formale di reparenting. Nota dolente in questo caso la qualità del suono attraverso la piattaforma telematica che ha quasi annullato il riverbero della campana tibetana (strumento fondamentale nelle pratiche di mindfulness). Finita la pratica, si è svolta la condivisone in piccoli gruppi guidata dai facilitatori, alla quale è seguita la condivisone generale in plenaria.

Self-compassion

Il pomeriggio della stessa giornata è stato completamente dedicato alla self-compassion (in italiano tradotto come compassione) pratica che condivide alcuni principi con la mindfulness ma che presenta caratteristiche proprie. L’introduzione del pomeriggio è stata affidata ad Alessandro Giannandrea che ha presentato un magnifico intervento sulla natura della coscienza e sul suo ruolo all’interno della pratica terapeutica e negli interventi di mindfulness. L’arduo compito di spiegare i complessi legami tra mindfulness, self-compassion e psicoterapia è stato affidato a Christopher Germer, ideatore, insieme a Kristin Neff, proprio del protocollo di Mindful Self-compassion. La relazione di Germer, presentata in maniera egregia, ha chiarito il legame tra mindfulness e lavoro psicoterapico riprendendo quello che già avevamo potuto leggere nel suo testo del 2018: Le psicoterapie orientate alla Mindfulness.

La conclusione della sessione plenaria affidata alla spagnola Maya Wrzesien ha presentato gli interventi ad oggi attuati in termini di compassione dal punto di vista clinico.

La pratica formale, affidata questa volta alla voce di Paola Mamone, ha permesso di sperimentare la gentilezza e la compassione verso di sé. La riflessione in piccoli gruppi e poi in sessione riunita è seguita subito dopo concludendo così la prima giornata.

La mindfulness tra scienza e clinica

Il secondo giorno di incontro, tenutosi solo nelle ore mattutine, ha visto l’alternarsi di due interventi molto belli ma tecnici, considerando la natura degli argomenti. Dopo la Mamone, che ha parlato del percorso affrontato negli anni per affermare a livello scientifico e nella sfera clinica la pratica della mindfulness, è intervenuto dai Paesi Bassi Robert Brandsma che ha esordito con una riflessione attenta e apprezzabile, seppur di poche parole, rispetto al vantaggio a livello ambientale delle modalità online. Il suo intervento si è focalizzato sulla difficoltà e allo stesso tempo sull’importanza della fase dell’inquiring all’interno delle sedute con i praticanti. Un leggero ritardo nei lavori iniziali non ha permesso il tempo previsto per il break. La tavola rotonda, in programma dopo la pausa, ha visto l’alternarsi a ritmi sostenuti (circa 7 minuti per ogni relatore) di diversi terapeuti che hanno mostrato i punti di contatto e l’utilizzo della mindfulness all’interno dei diversi approcci terapeutici: Acceptance and Commitment Therapy presentata da Andrea Bassanini; Schema therapy; Compassion Focused Therapy, ben esposta da Nicola Petrocchi; psicoterapia analitica e antropologia esistenziale; mindfulness interpersonale; Self-compassion. Nota particolare per Maria Beatrice Toro che ha presentato la prospettiva cognitivista arricchendo il suo intervento di forte emozione e di una bellissima metafora.

In conclusione si è lasciato spazio alle domande e ai ringraziamenti sentiti a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione delle giornate.

Complessivamente una conferenza ben organizzata dal punto di vista logistico, per la qualità e la modalità degli argomenti trattati e per le personalità di spicco che vi hanno presenziato. Tutti gli interventi hanno mostrato in modo consono e adeguato il modo in cui la pratica della mindfulness si può declinare all’interno dei diversi approcci terapeutici, arricchendo la clinica di un elemento importante quale quello dell’attenzione focalizzata e della presenza consapevole nel rapporto con il paziente e nell’alleanza con esso. Gli interventi hanno assunto il carattere scientifico che la Mindfulness ha dimostrato di avere grazie alle numerose ricerche, sopratutto internazionali, presenti ad oggi nel panorama scientifico.

La pratica di consapevolezza è stata presentata come elemento arricchente dell’approccio terapeutico, basato sul sentire del clinico che partecipa in prima persona all’ascolto e all’attenzione dell’esperienza condivisa del paziente e che con esso “risuona”. Bellissima l’immagine di Brandsma che paragona il terapeuta a una campana tibetana, questa risuona restituendo note ordinate e comprensibili all’orecchio solo quando vuota, cioè libera da ogni cosa che potrebbe risiedere al suo interno, allo stesso modo il terapeuta deve essere libero da pensieri non richiesti al fine di entrare in un approccio di ascolto e attenzione consapevole con il paziente.

 

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