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Come il COVID ha influito sulla salute mentale delle partorienti: i risultati dello studio italiano SEG-COVID19

I ricercatori si sono chiesti: “Cosa implica, in termini psicologici, affrontare una gravidanza durante l’emergenza sanitaria da Covid-19”?

 

1179 donne di tutta Italia, partorienti durante il periodo corrispondente al primo lockdown nazionale, sono state coinvolte nell’importante studio italiano SEG-COVID19, volto ad indagare l’impatto dell’emergenza sanitaria sulla salute mentale delle gestanti.

Razionale ed obiettivi dello studio

La gravidanza, delicato e complesso periodo di grandi cambiamenti fisici ed emotivi, richiede per sua natura una serie di adattamenti e di mutamenti volti anche ad accompagnare il crearsi della relazione emotiva dei genitori verso il nascituro. La teoria dell’attaccamento prenatale definisce questa relazione unica tra genitori e feto “attaccamento prenatale” (Atashi et al., 2018; Brandon et al., 2009). Similmente, alcuni ricercatori hanno usato il termine “attaccamento materno-fetale” (MFA) per riferirsi all’attaccamento emotivo tra madre e feto, ritenuto un indicatore della loro salute e dell’efficienza della madre nel periodo postnatale (Alhusen, 2008). La forza del rapporto madre-feto ha infatti importanti implicazioni nel periodo postnatale, influenzando anche la qualità delle cure (Howland et al., 2020; McNamara et al., 2019). Risulta pertanto importante individuare quei fattori che possono influenzare o interrompere il naturale processo di attaccamento prenatale nella madre.

La compresenza di un agente altamente stressante, quale l’emergenza sanitaria generata dal coronavirus, ha di fatto indotto le donne in gravidanza a fronteggiare condizioni stressanti nuove e incisive, quali l’isolamento e la riduzione dei contatti fisici. Considerando che un numero sempre crescente di studi dimostra che lo sviluppo fisico e mentale, durante tutto il corso della vita, è strettamente correlato al contatto, i ricercatori si sono chiesti quale impatto questa condizione deprivante avrebbe avuto sulle gestanti, partendo dalla domanda: “Cosa implica, in termini psicologici, affrontare una gravidanza durante l’emergenza sanitaria da Covid-19”?

Del resto, la tematica relativa all’impatto della pandemia sulla salute mentale delle gestanti ha visto crescere intorno a sé molto interesse. Le ricerche realizzate hanno rilevato che i fattori maggiormente connessi all’aumento del disagio perinatale sono i seguenti: unicità della malattia, impatto globale inatteso, incertezze circa le ripercussioni fisiche (per le madri e per i nascituri), rischi di trasmissione, restrizione dei contatti sociali.

Nessuno studio è stato invece rivolto alla valutazione dell’eventuale influenza esercitata dall’esposizione allo stress da Covid-19 sull’attaccamento prenatale delle madri.

Lo studio SEG-COVID19 ha cercato di rispondere a questa esigenza.

La ricerca, avviata dall’AdV “Mammachemamme”, attiva in Calabria dal 2012, è stata realizzata in collaborazione con l’U.O. di Ostetricia e Ginecologia S. Cuore iGreco Ospedali Riuniti e con il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Journal of AffectiveDisorders” (2021).

Metodologia

Nella realizzazione dello studio sono state coinvolte 1179 partorienti, chiamate a completare due strumenti: un sondaggio anonimo online e un questionario di autovalutazione. Le misurazioni riguardavano alcune caratteristiche di tipo sociodemografico e ostetrico, il grado di distress psicologico (livelli di ansia e depressione presenti nelle partorienti), la qualità dell’attaccamento prenatale e la percezione di rischio connesso alla diffusione del virus.

Le partecipanti hanno ricevuto il link attraverso mail, social media e pubblicità presenti in diverse cliniche prenatali e neonatali del Nord, Centro e Sud Italia.

I criteri di inclusione erano: lo stato di gravidanza durante il primo lockdown italiano (avviato il 9 Marzo 2020), la maggiore età, capacità di lettura e di comprensione della lingua al fine della compilazione del questionario di autovalutazione. Tutte le partecipanti hanno ricevuto puntuali informazioni in merito allo scopo dello studio, prestando il proprio consenso alla partecipazione.

La raccolta dei dati ha avuto luogo da Marzo ad Aprile 2020, durante il lockdown.

Risultati, commentati dagli autori

La salute mentale delle partorienti è una delle attività centrali del nostro lavoro presso l’U.O. Ostetricia e Ginecologia Sacro Cuore – racconta Cecilia Gioia, Psicologa Perinatale e Psicoterapeuta presso iGreco Ospedali Riuniti, che è inoltre presidente di Mammachemamme, nonché ideatrice e coordinatrice dello studio. Insieme all’associazione di volontariato Mammachemamme e al Movimento Italiano Psicologia Perinatale (MIPPE), ci occupiamo di promuovere il benessere psicofisico della donna, svolgendo attività di prevenzione, sostegno e cura, che si attivano dal pre-concepimento sino al post-partum. L’idea di valutare le condizioni psicologiche delle gestanti del periodo pandemico è nata e si contestualizza appunto in questo scenario.

I risultati della nostra ricerca hanno evidenziato che l’ansia di stato correlata alla pandemia, nelle donne in gravidanza, può avere effetti negativi sul processo di attaccamento prenatale delle gestanti. Tuttavia, una percezione adeguata e funzionale del COVID-19 potrebbe migliorare l’attaccamento prenatale. Questi risultati sottolineano dunque l’importanza di monitorare il processo di attaccamento prenatale e la salute mentale della madre durante le pandemie, per salvaguardare salute mentale materna e infantile.

Francesco Craig, ricercatore di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria, sottolinea come i risultati della ricerca riescano ad ampliare la conoscenza degli effetti del distress sperimentato in gravidanza: in base ai dati emersi, infatti, l’ansia percepita dalle donne in stato di gravidanza durante la pandemia da COVID-19 è risultata capace di influenzare in modo negativo l’attaccamento prenatale delle future mamme.

Diviene quindi molto importante valutare quei fattori di disagio psicologico che possono influenzare il naturale processo di attaccamento – precisa Angela Costabile (Ordinario di Psicologia dello Sviluppo presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria). Le gestanti identificabili come a rischio necessiterebbero pertanto di essere seguite durante tutta la fase gestazionale e nel postpartum, attraverso un supporto appropriato, finalizzato a promuovere l’instaurarsi di un attaccamento prenatale positivo e ad ottenere una riduzione degli stati ansiosi.

In conclusione – afferma Gioia – possiamo asserire che i risultati ottenuti mettono in evidenza la sostanziale importanza di implementare programmi e attività volti alla prevenzione e al monitoraggio del distress psicologico, dato che quest’ultimo può influenzare la qualità dell’attaccamento prenatale delle donne, operando in modo da migliorare tanto l’assistenza clinica quanto le azioni di sensibilizzazione ed educazione sanitaria durante le prossime fasi di pandemia.

 

L’incertezza è zen
 (2021) di Carlo Tetsugen Serra – Recensione

Il testo L’incertezza è zen descrive l’impermanenza delle situazioni che si presentano nella quotidianità e può aiutare a comprendere l’incertezza che caratterizza l’esistenza.

 

Ai giorni nostri infatti l’incertezza permea l’esistenza con continui, repentini e imprevedibili cambiamenti. È un’epoca che richiede una grande “agilità”, la nostra: la capacità di adattarsi ai cambiamenti o, mal che vada, di rialzarsi subito per prepararsi a quelli successivi.

Tollerare l’incertezza è però tutt’altro che scontato nonostante si viva in un’epoca complessa e imprevedibile. Molto spesso così la mente cerca in automatico di creare scenari come se potesse predire il futuro: cerca certezze quando non possono esserci. Si illude in qualche modo di poter essere razionale, ma questo diviene controproducente oltre che inutile.

Sembra un paradosso il fatto che in un mondo tanto incerto sia così difficile, in generale, tollerare l’incertezza. Accettare il cambiamento, l’imprevedibilità e tutto ciò che non è sotto il nostro controllo sono i punti su cui si focalizza questo testo. Nel libro viene infatti spesso motivata l’importanza di imparare a tollerare l’incertezza, anche quando è più complesso, anche in una relazione affettiva.

Secondo l’autore la capacità di affinare la consapevolezza coincide con vivere il presente, ossia ogni momento, accogliendo ciò che questo tempo offre. Per fare questo è quindi indispensabile staccarsi dai pensieri sul futuro, che è inconoscibile, o dal passato, che ormai non esiste più. È infatti quando si vive pienamente il presente che ci si svincola dalla ricerca di controllo su ciò che potrebbe accadere e si accetta la realtà così com’è. Gli attimi vissuti sono infatti transitori e, come ogni cosa, governati dall’incertezza.

Secondo l’autore la meditazione diventa un aspetto importante per riuscire a immergersi nel presente, aumentando la propria consapevolezza. Porre l’attenzione su ciò che accade fa infatti distogliere automaticamente la mente da ciò che potrebbe o non potrebbe essere, ossia dall’incertezza. Il tempo in cui viviamo è limitato, non sappiamo quando terminerà, è così che il suggerimento è quello di prendere meno in considerazione ciò che non si può conoscere e considerare invece maggiormente ciò che si sta realmente vivendo: il qui e ora. Accettare l’incertezza significherebbe quindi essere più resilienti, ossia avere la capacità di affrontare le sfide senza patirle, bensì diventando più forti di prima.

 

Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS): il disagio psicologico nelle donne che ne soffrono

Al mondo circa il 10-20% delle donne in età fertile riceve una diagnosi di sindrome dell’ovaio policistico (Polycystic Ovary Syndrome – PCOS) (Asgharnia et al., 2011).

 

 Ma cosa comporta questa diagnosi?

La sindrome dell’ovaio policistico è il disturbo endocrino più comune nelle donne in età riproduttiva ed è associato a disturbi riproduttivi, endocrini, metabolici, cardiovascolari e psicologici (Yildiz et al., 2012; Orio et al., 2016).

Diagnosi e manifestazioni della sindrome dell’ovaio policistico

Per ottenere una diagnosi sono necessari almeno due dei seguenti criteri: (1) oligo- e/o anovulazione, ovvero un ciclo mestruale irregolare o assente (amenorrea); (2) segni di iperandrogenismo, ovvero maggiore produzione di ormoni maschili; (3) ovaie policistiche (The Rotterdam, 2004).

Tuttavia, la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo complesso ed eterogeneo che presenta diversi fenotipi, per cui, le manifestazioni cliniche possono essere varie: l’irregolarità del ciclo mestruale, come precedentemente menzionato, l’infertilità, l’irsutismo (peluria in zone tipicamente maschili), l’obesità, la perdita di capelli, l’acne, l’insulino-resistenza. Proprio a causa dell’insulino-resistenza, la sindrome dell’ovaio policistico può inoltre favorire l’insorgenza di altre patologie come disturbi cardiovascolari, l’arteriosclerosi e il diabete mellito. Ad oggi non esistono cure per la PCOS e i trattamenti utilizzati mirano più alla gestione dei sintomi riducendo il rischio di complicanze; per esempio l’iperandrogenismo viene trattato con i contraccettivi orali, la resistenza all’insulina e l’infertilità vengono trattate con la metformina (Yin et al., 2021).

Essendo la sindrome dell’ovaio policistico una malattia cronica che comporta cambiamenti sia fisici che metabolici, questa apporta una vulnerabilità in termini di problemi di salute mentale.

Sindrome dell’ovaio policistico e salute mentale

Nello specifico, la sindrome dell’ovaio policistico è associata a problemi quali ansia, depressione, sintomi somatici, insoddisfazione del corpo, disturbi alimentari e ridotta soddisfazione sessuale (Yin et al., 2021).

Potremmo quindi, tirando le somme, affermare che una diagnosi di sindrome dell’ovaio policistico influenza notevolmente il benessere psico-fisico delle donne che ne soffrono, apportando una diminuzione della qualità della vita, un’alterazione dell’identità femminile e disfunzioni sia nell’ambiente familiare che lavorativo (Battaglia et al. 2008).

Uno studio di Yin e colleghi (2021) ha riassunto tutti i dati ottenuti dalle ricerche passate sulla salute mentale delle donne con sindrome dell’ovaio policistico, mostrando punteggi per i disturbi mentali significativamente più gravi nelle donne con PCOS rispetto alle donne sane. I punteggi dei sintomi depressivi, ansiosi, di disagio emotivo, di disturbi alimentari e di somatizzazione si sono dimostrati significativamente più alti nelle donne con diagnosi di PCOS rispetto ai soggetti appartenenti al gruppo di controllo (nessuna diagnosi di PCOS), così come i punteggi per qualità di vita sono risultati significativamente più bassi e quelli per le disfunzioni sessuali significativamente più gravi.

Questi dati risultano essere in linea con altri studi che suggeriscono che le donne con sindrome dell’ovaio policistico mostrano un rischio fino a quattro volte maggiore di manifestare sintomi depressivi e un rischio fino a sei volte maggiore di sintomi ansiosi, rispetto alle donne senza PCOS (Berni, Morgan, Berni & Rees, 2018; Brutocao et al., 2018).

Dato il gran numero di donne che soffrono di questa patologia, saranno necessari ulteriori studi per indagare più approfonditamente i meccanismi che sottostanno all’associazione tra sindrome dell’ovaio policistico e salute mentale compromessa. Sulla base dei dati ottenuti, alcuni autori hanno avanzato alcune ipotesi per spiegare questo collegamento. Barry (2011) ha ipotizzato che il cambiamento biologico potrebbe essere la causa dei problemi di umore esperiti dalle donne con sindrome dell’ovaio policistico; il cambiamento che la PCOS apporta a livello estetico, come l’irsutismo, l’acne e la perdita di capelli, potrebbe intaccare fortemente l’autostima e la soddisfazione del corpo di una donna, portandola a sentirsi poco bella e/o sensuale, creando una sensazione di profonda tristezza e depressione (Scaruffi et al., 2019; Tzalazidis & Oinonen, 2020), generando di conseguenza un significativo calo della soddisfazione sessuale o della qualità di vita in generale (Wang & Ruan, 2007).

Non casualmente, infatti, l’eccessiva peluria corporea, la perdita dei capelli e l’infertilità nelle persone affette da sindrome dell’ovaio policistico sono predittori dell’ansia e correlano con il livello di depressione esperita (Chaudhari et al., 2018). Ad aumentare l’insoddisfazione corporea inoltre è l’obesità; il 70-74% dei pazienti con PCOS è risultato obeso negli ambulatori (Yildiz et al., 2007); è stato dimostrato che l’obesità fisica è correlata positivamente con i sintomi depressivi nei pazienti con PCOS (Hollinrake et al., 2007).

Inoltre, l’irregolarità mestruale e la preoccupazione per l’infertilità che una donna può sperimentare a seguito della diagnosi, può accrescere la pressione psicologica percepita, provocando un sentimento di incompletezza, perdita di femminilità e di senso di maternità che può sfociare in ansia e depressione a lungo termine (Yao et al., 2017).

Conclusioni

I dati riportati dagli studi condotti sull’argomento ci mostrano quanto preoccupante sia la questione della sindrome dell’ovaio policistico in relazione ai problemi di salute mentale. Questo ci spinge a riflettere su quanto sia necessario ai nostri giorni sviluppare interventi di assistenza psicologica per donne affette da questa sindrome.

Sebbene alcuni interventi come lo yoga, la terapia cognitivo-comportamentale o la somministrazione di metformina per ansia e depressione abbiano mostrato un’influenza positiva sulla qualità della vita nelle donne affette da sindrome dell’ovaio policistico, gli interventi rilevanti sono ancora limitati (Yin et al., 2021).

Considerando che questa sindrome non è ancora ben compresa, non solo dalle persone che non ne soffrono, ma anche da chi ne è affetto e dagli operatori sanitari stessi (Yin et al., 2021), sarebbe opportuno svolgere dei programmi di psicoeducazione sulla PCOS da parte dei medici o altri professionisti della salute.

 

Effetto Squid Game: fenomeno globale (e/o commerciale), rischio di emulazione e abituazione alla violenza in epoca pandemica

Squid Game non è solo una serie tv. È un fenomeno globale, rapidissimo, sorprendente, inquietante.

 

Si diffonde, ovunque, sfuggendo al parental control: gli spezzoni su YouTube non si contano più, le challenge sui social network più amati dai giovani sono virali e già iniziano episodi di emulazione anche nel nostro Paese. Naturalmente, non sono mancati la proposta commerciale di tute da travestimento per Halloween, l’aumento di vendite di Vans bianche, i primi Real Games (sembra ci sia l’assalto agli Emirati Arabi) e si trovano online anche le ricette dei dolcetti coreani utilizzati in uno dei giochi mortali proposti nella serie.

Chi aveva detto che “un, due, tre stella” fosse un gioco destinato a morire? O che si potesse morirne…

Forse non è un caso che questa serie Tv possa avere tanto successo in un’epoca in cui abbiamo sofferto di distanziamento sociale, eccesso tecnologico, timore di morte e attualmente di scontro sociale, condito da una vaga sensazione di controllo e complotto, ben lontani da solidarietà ed empatia che ci avevano accompagnati nei primi mesi del 2020, quando cantavamo e applaudivamo dai balconi.

Impauriti, stressati, deprivati per molto tempo dal calore umano che genera naturalmente ossitocina (l’ormone della calma e dell’amore), dopati di adrenalina e cortisolo (gli ormoni dello stress), non riusciamo facilmente a entrare nella dimensione mentale di profonda e saggia comprensione umana, di gentilezza reciproca, che ci farebbe tanto bene. Perché paura, stenti e frustrazione nutrono la rabbia. L’esperimento del “Buon Samaritano” di Darley e Bateson (1973) ci aveva dato la misura di quanto una sola variabile sperimentale, la fretta, potesse far crollare la tendenza all’aiuto e noi non siamo certo stati esposti alla sola fretta.

Non possiamo negare che “il gioco del Calamaro”, la cui atmosfera richiama lievemente quella dell’esperimento del carcere di Stanford (in versione horror), si possa anche reinterpretare quale rappresentazione atrocemente satirica di una società sudcoreana ipercompetitiva, strappata, le cui frange disperate soccombono sotto il peso dei debiti. In effetti, neppure “1984” di Orwel (1948) doveva essere una lettura tanto leggera, ma all’epoca della pubblicazione non c’era internet e difficilmente un bambino di 9 anni ne avrebbe retto la lettura (tanto meno lo avrebbe potuto fare senza che i genitori se ne accorgessero).

E senza dubbio posso confermare, occupandomi da vent’anni ormai di dipendenze comportamentali, che v’è una rappresentazione molto accurata degli shift emotivi drammatici e delle distorsioni cognitive tipiche di chi soffre di Disturbo da Gioco d’Azzardo in forma attiva.

Ma c’è qualcosa che sfugge a una visione frettolosa.

Anche nella serie degli Hunger Games si trattava di giochi mortali ma c’era costrizione (o autosacrificio) e nessuna possibilità di scelta e il premio era la vita. In Squid Game si sceglie di trasformare la vita in accessorio che permetta di ottenere denaro, oltre ogni valutazione morale, in una visione disperata in cui fiducia e umana comprensione sono annientati da calcolo freddo e asettico.

Ma davvero è così pericoloso? Come può la sola visione di una serie tv incitare all’emulazione?

Lo temono le associazioni di genitori che chiamano a firmare petizioni per eliminare la serie, i dirigenti scolastici, anche il ministro dell’Education National Blanquer in Francia richiama tutti noi adulti alla responsabilità… Ma, onestamente, sappiamo già che la serie non verrà eliminata: troppi vantaggi economici.

E allora apriamo lo sguardo sulle conseguenze dei contenuti violenti e sull’effetto abituazione alla violenza e diminuzione dell’empatia, ricordando che, se Squid Game, per la sua straordinaria forza evocativa di angoscia e violenza oltre il limite, ci scuote ancora, non sono da meno i videogiochi sparattutto con cui molti dei nostri ragazzi annebbiano le loro menti, i manga che leggono in silenzio, o le conversazioni al vetriolo tra leoni da tastiera cui siamo tutti esposti giornalmente, soprattutto in quest’epoca.

Scelgo due studi icona:

  • Bandura e il pupazzo Bobo (1961): un gruppo di bambini vede un adulto picchiare il pupazzo Bobo e, lasciati poi liberi nella stessa stanza dei giochi, fanno lo stesso. Gli altri bambini, esposti a un modello non violento, giocano pacificamente. E il risultato non cambia se si replica con adolescenti o adulti, indipendentemente dal temperamento (succede a tutti, almeno un po’). I contenuti violenti appena visti vengono automaticamente replicati.
  • Bushman e Anderson e Confortably Numb (2009): due gruppi di universitari giocano a un videogioco per 20 min (il primo con uno sparatutto, il secondo con un gioco neutro). Alla fine della sessione si attiva una traccia audio in cui pare che qualcuno venga picchiato fuori dalla porta dello studio sperimentale. Il primo gruppo quasi non se ne rende conto o interviene con un tempo 5 volte inferiore a quello del gruppo a gioco neutro. Il contenuto violento diminuisce reattività, empatia e disponibilità all’aiuto.

Ora, il primo è ben conosciuto e replicato, e deve farci riflettere su cosa sia il caso che noi e i nostri ragazzi e bambini vediamo sugli schermi e nella realtà.

Il secondo ci fa pensare a quanto tutti noi, esposti a contenuti e modelli violenti, tendiamo a spegnere la nostra capacità di indignazione di fronte alla violenza, di desiderio di proteggere e aiutare gli altri in difficoltà.

Sarà mica che Squid Game, glacialmente elaborato per auto-rigenerarsi di visualizzazioni in un periodo particolare com’è quello che stiamo vivendo, aumenti di fatto la nostra insensibilità (e quindi accondiscendenza) alla violenza e diminuisca la nostra capacità di desiderare ossitocina, calma, gentilezza e vivere compassione e solidarietà calorosa?

Possiamo fare un esperimento noi stessi: avete notato che nella visione del primo episodio siamo colpiti, disgustati, impauriti e tesi mentre nel secondo siamo già più comodi sul nostro divano? E se vi prendete il tempo di riguardare il primo episodio, sorpresa! Quasi completamente insensibili. Effetto abituazione alla violenza…

E per poter continuare l’esperimento fatto in casa, magari possiamo anche chiedere ai nostri congiunti, che non abbiano guardato con noi, se notino che qualcosa in noi, quasi impercettibilmente, è cambiato. Loro ci vedono da fuori; fidiamoci.

Forse non giocheremo a “un, due, tre, stella” picchiando chi si è mosso.. ma teniamo gli occhi aperti: anche solo una rispostaccia incide sulla qualità delle nostre relazioni e potremmo non rendercene conto, come i nostri ragazzi che giocano per ore ai videogiochi, leggono manga violenti o scorrono conversazioni al vetriolo. Ora è tempo di decisione, speriamo, più consapevole.

L’utilizzo dei Potenziali Evocati nel dolore e nei disturbi di sensibilità di difficile inquadramento diagnostico

I potenziali evocati (PE) costituiscono un esame diagnostico di rilievo nei casi di dolore neuropatico in cui gli altri accertamenti strumentali non siano dirimenti.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Le tipologie di dolore

La persistenza di dolore e alterazioni della sensibilità, quali formicolii, bruciori, sensazione di “punture di spillo” o caldo/freddo, rappresentano frequentemente una sfida diagnostica e si correlano a un peggioramento della qualità della vita, alterazioni del tono dell’umore e del sonno. I potenziali evocati rappresentano un esame diagnostico talora dirimente nell’inquadramento di determinate tipologie di dolore cronico e di disturbi della sensibilità, anche quando essi si presentano in particolari sedi o associati ad altri disturbi selettivi, come quelli della sfera uro-genitale.

Il dolore di tipo “nocicettivo” deriva dall’attivazione di terminazioni libere di fibre nervose (nocicettori), per danno dei tessuti profondi o superficiali; un esempio comune di dolore nocicettivo è quello conseguente a traumi con lesioni della cute, delle ossa o delle strutture muscolo-tendinee ed è frequentemente rilevabile con esami diagnostici di routine. In altri casi, il dolore può essere conseguenza di un’alterazione a carico del sistema nervoso, in particolare a livello del cosiddetto “sistema somatosensoriale”, che rappresenta l’insieme delle vie di trasmissione e dei centri di elaborazione della sensibilità e del dolore. In tali casi, il dolore viene definito “neuropatico” e, come i disturbi della sensibilità, può essere ricondotto a molteplici cause:

  • patologie del sistema nervoso centrale a livello di encefalo o midollo spinale (ictus, sclerosi multipla, infezioni, patologie autoimmuni o genetiche)
  • patologie dei nervi cranici (come la nevralgia trigeminale e le nevralgie post-traumatiche)
  • patologie dei nervi periferici (polineuropatie, come quelle secondarie a diabete mellito o insufficienza renale)
  • patologie delle radici nervose o dei plessi (come quelle post-traumatiche o secondarie a ernia del disco cervicale, dorsale o lombosacrale)
  • sindromi dolorose miste (neuropatiche e nocicettive; ad esempio, il dolore neoplastico con invasione dei tronchi nervosi o i quadri di artrosi con compressione di radici nervose o nervi).

Cosa sono i potenziali evocati

I potenziali evocati (PE) costituiscono un esame diagnostico di rilievo nei casi di dolore neuropatico in cui gli altri accertamenti strumentali non siano dirimenti. Gli accertamenti radiologici, infatti, consentono di evidenziare alterazioni o danni anatomici, mentre i potenziali evocati, così come l’elettromiografia, indagano eventuali alterazioni funzionali nella conduzione dell’impulso nervoso, indipendentemente dall’evidenza o meno di una lesione strutturale. A differenza dell’elettromiografia, che rappresenta l’indagine d’elezione per il sistema nervoso periferico (nervi periferici e radici nervose), i potenziali evocati consentono di studiare le vie nervose centrali a livello di encefalo e di midollo spinale, oltre a quelle periferiche in sedi difficilmente esplorabili (es. decorso intracranico di nervi, radici nervose in prossimità del midollo spinale). Tuttavia, i potenziali evocati rappresentando unicamente un’indagine funzionale, non forniscono indicazioni sulla causa e sul tipo di patologia sottostante (es. vascolare, neurodegenerativa, ecc). Per questo motivo, costituiscono un esame complementare, da integrare sempre con una valutazione clinica specialistica ed altri esami laboratoristici e strumentali.

Il termine potenziali evocati si riferisce ai segnali bioelettrici generati nel sistema nervoso in risposta a stimoli sensoriali in grado di generare un’attivazione elettrica (depolarizzazione) simultanea di raggruppamenti di neuroni e assoni deputati specificatamente alla loro trasmissione ed elaborazione. Ciò implica che, utilizzando un determinato tipo di stimolo, è possibile indagare l’integrità di un’intera via nervosa, come la via ottica per lo stimolo visivo, la via uditiva per lo stimolo acustico, la via somatosensoriale per lo stimolo sensitivo.

Ciò che caratterizza i potenziali evocati specifici per ciascun tipo di stimolo è la caratteristica di essere «tempo correlati» (time locked) con lo stimolo: ciò significa che l’attivazione della popolazione neuronale specifica per un tipo di stimolo (ad esempio, uno stimolo sensitivo o visivo) avviene sempre dopo un intervallo costante di tempo dallo stimolo stesso. Pertanto, la registrazione di un “ritardo” nella generazione della risposta elettrica (latenza, indicata in millisecondi) è indicativo di un possibile danno nella rispettiva via o centro nervoso. Poiché i potenziali evocati presentano una bassa ampiezza, è necessario, mediante un processo di elaborazione elettronica, effettuare una media dei segnali elettrici generati da una sequenza di stimoli identici (averaging). Questo processo consente di visualizzare graficamente il potenziale evocato come un’onda, con un inizio (latenza, intesa come tempo intercorso tra lo stimolo e la risposta) e un picco (ampiezza massima), distinguendolo da altre concomitanti attività bio-elettriche, come quelle normalmente presenti a livello cerebrale (elettroencefalografiche) o muscolare (elettromiografiche).

In questa sede, ci concentreremo sui potenziali evocati specifici per l’indagine dei disturbi sensitivi o dolorosi di difficile diagnosi: i potenziali evocati somato-sensoriali e i potenziali evocati laser.

I potenziali evocati somatosensoriali

I potenziali evocati somatosensoriali (PESS) rappresentano le risposte bioelettriche evocate dalla stimolazione a livello cutaneo di nervi periferici misti o sensitivi. I nervi più comunemente stimolati agli arti superiori sono il nervo mediano o ulnare (a livello del polso); agli arti inferiori, il nervo tibiale posteriore (alla caviglia). Elettrodi posti lungo la colonna vertebrale e sul capo permettono la registrazione di onde che riflettono la sequenziale attivazione, in risposta allo stimolo, di strutture nervose dalla periferia all’encefalo lungo la cosiddetta via lemniscale, specifica per la sensibilità tattile e vibratoria.

La stimolazione del nervo periferico induce in primis l’attivazione di fibre nervose di grosso calibro A-beta; lo stimolo nervoso decorre poi nel midollo spinale a livello delle colonne dorsali dello stesso lato; successivamente, nel tronco encefalico decorre lungo il fascio denominato lemnisco mediale, che si incrocia, per venire elaborato nell’encefalo a livello del talamo e nelle aree parietali controlaterali rispetto all’arto stimolato.

Le risposte generate, registrabili e visibili al monitor sotto forma di “onde”, vengono denominate con una lettera (N o P) relativa alla polarità dell’onda (negativa o positiva), seguita da un numero indicativo della latenza dallo stimolo (espresso in millisecondi). La morfologia delle risposte e le caratteristiche delle loro componenti variano in funzione della diversa localizzazione degli elettrodi registranti.

Nel caso dell’indagine a livello degli arti superiori, mediante stimolazione del nervomediano al polso, è possibile registrare le seguenti componenti:

  • l’onda N9, periferica, registrata con un elettrodo posto in un punto sopra la clavicola (punto di Erb), esprime il passaggio dello stimolo attraverso il plesso brachiale;
  • le onde N11 ed N13, registrate da un elettrodo superficiale posto in corrispondenza della V vertebra cervicale, rappresentano la conduzione dello stimolo nel midollo spinale (cordoni posteriori del midollo per N11,  neuroni delle corna posteriori del midollo per N13);
  • le onde P14, P18 , N 20, P27-N35, P22-N30 registrate tramite elettrodi posti a livello del capo dal lato opposto rispetto allo stimolo, rappresentano l’attivazione a livello cerebrale (rispettivamente lemnisco mediale, talamo, aree parietali, aree prefrontali).

Nella pratica clinica, i valori usualmente studiati sono le latenze e gli intervalli temporali (intertempi) tra le onde  N9, N13 ed N20: un aumento della latenza di N9 indica una patologia esclusivamente periferica, un aumento dell’intervallo N9-N13 suggerisce una patologia radicolo-midollare, mentre un incremento dell’intervallo tra N20 e N13 (tempo di conduzione centrale) depone per un disturbo a carico delle vie sensitive di encefalo o tronco encefalico.

Il valore dell’ampiezza delle varie componenti risente di una  grande variabilità, sia intra- che interindividuale; pertanto, viene considerato solo nel caso si rilevi una notevole asimmetria nello stesso soggetto.

I PESS da stimolazione del nervo tibiale posteriore degli arti inferiori mostrano parecchie analogie.

Nella pratica clinica, le componenti usualmente studiate sono:

  • l’onda N22, registrata da elettrodi posti a livello lombare, esprime l’attivazione dei neuroni del midollo (corna posteriori);
  • l’onda P38, registrata da elettrodi posti sul capo dal lato opposto rispetto alla stimolazione, esprime l’attivazione dei neuroni corticali delle aree sensitive.

Anche per la stimolazione all’arto inferiore, il principale parametro clinico è la latenza di ciascuna componente e l’intervallo temporale (intertempo) tra di esse: un ritardo nella latenza di N22 è indicativo di un disturbo del nervo periferico e/o della componente radicolo-midollare, mentre un ritardo dell’onda P38 e dell’intervallo N22-P38 suggerisce un disturbo del sistema nervoso centrale.

La lunghezza della via esplorata e la possibilità di stimolare e registrare da diverse sedi di quest’ultima, spiegano come i PESS risultino alterati in numerosi e differenti condizioni cliniche.

I potenziali evocati somatosensoriali sono utilizzati principalmente nell’ambito di:

  • patologie del sistema nervoso centrale a molteplice eziologia (vascolare, traumatica, infettiva, demielinizzante, genetica, metabolica)
  • patologie del midollo spinale cervicale, dorsale o lombare
  • patologia del sistema nervoso periferico: polineuropatie, plessopatie, radicolopatie.

Studio neurofisiologico del piano perineale e Potenziali Evocati Somatosensoriali Sacrali (Pess)

Nel caso di disturbi della sensibilità, dolore in sede urogenitale (come vulvodinia, vaginismo) e/o “dolore pelvico cronico”, associati o meno ad alterazioni della continenza sfinterica (ritenzione o incontinenza) sia urinaria che fecale, è possibile eseguire i Potenziali Evocati Somatosensoriali Sacrali nell’ambito dello studio neurofisiologico del piano perineale.

Questo tipo particolare di potenziali evocati studia la conduzione elettrica degli stimoli di tipo sensitivo proveniente dall’area genitale lungo il nervo pudendo e il midollo sacrale, sino al loro arrivo a livello della corteccia sensitiva. La stimolazione viene effettuata, nell’uomo, con elettrodi ad anello sul pene (stimolando il nervo dorsale del pene), mentre nella donna con elettrodo bipolare al clitoride; le risposte a livello cerebrale vengono registrate con elettrodi posti sul capo. Un ritardo nella conduzione dell’impulso lungo tale via si estrinseca in un allungamento della componente P1 o P40, indicativo per un danno neurologico a livello della via nervosa descritta.

In questo tipo di pazienti, lo studio dei potenziali evocati sacrali viene integrato frequentemente con l’elettromiografia (EMG) dei muscoli del piano perineale, che consente di discriminare la presenza di una lesione nervosa a livello periferico. L’EMG viene effettuata con un elettrodo ad ago a livello del muscolo sfintere esterno dell’ano, al fine di studiarne l’attività elettrica in condizioni basali (di riposo) e durante la contrazione volontaria ed evidenziare eventuali segni di sofferenza neurogena acuta o cronica. L’integrazione delle due metodiche (PESS ed EMG) permette di individuare precocemente un danno a livello dell’arco sensitivo-motorio tra nervo pudendo e radici nervose sacrali S2 S3 S4, sede di integrazione delle funzioni vescico sfinteriche, e risulta particolarmente utile quando la natura dei sintomi non è stata chiarita dalle preliminari indagini ginecologiche o urologiche.

Potenziali Evocati da Stimolo Laser

I potenziali evocati da stimolo laser (Laser Evocked Potentials, LEP) assumono un ruolo particolarmente importante poiché studiano specificatamente la funzionalità delle vie responsabili della trasmissione del dolore fisiologico, le vie termo-dolorifiche, differenziandosi così dai PESS, specifici per le vie della sensibilità tattile e vibratoria. I LEP, in particolare, esplorano le vie della sensibilità dolorifica, termica e tattile protopatica (stimoli tattili “grossolani”). La metodica di esecuzione si caratterizza per l’utilizzo di uno stimolo laser, applicabile a qualsiasi area di cute integra e in grado di attivare le terminazioni libere cutanee connesse con recettori (nocicettori) collegati alle fibre nervose di piccolo calibro (mieliniche A delta e amieliniche C). A partire da tali fibre, lo stimolo termo-dolorifico raggiunge i neuroni situati nel corno posteriore della sostanza grigia del midollo spinale, i cui assoni si incrociano, ascendendo nei cordoni antero-laterali del midollo spinale del lato opposto e nei tratti laterali del tronco encefalico, sino ad arrivare nell’encefalo a livello del talamo (fascio spino-talamico) e delle aree parietali.

Gli stimoli laser vengono somministrati in modo “random”, per ridurre il fenomeno dell’abitudine (con conseguente riduzione di ampiezza delle risposte), ad intervalli di tempo variabili ed effettuando piccoli spostamento di sede tra uno e l’altro. Nella pratica clinica quello che viene valutato sono le risposte corticali allo stimolo, registrate mediante elettrodi applicati sul capo. L’esame non è doloroso ma la sensazione evocata da uno stimolo laser può essere paragonata ad una lieve puntura di spillo.

Tale metodica permette una valutazione funzionale, specifica del sistema nocicettivo e fornisce insostituibili indicazioni, in particolare quando i restanti accertamenti risultano nella norma (come nella neuropatia a piccole fibre, una patologia neurologica periferica caratterizzata da un danno solo alle fibre termo-dolorifiche di piccolo calibro).

PESS e LEP non presentano specifiche controindicazioni, né necessitano di particolari precauzioni da seguire pre o post-esame. Il fastidio correlato all’esame è ampiamente soggettivo e può differire anche in base alla sede in cui viene effettuata la stimolazione. Non vi sono effetti collaterali rilevanti, ad eccezione del possibile arrossamento cutaneo nella sede di stimolazione laser; tale effetto non si verifica invece con i potenziali evocati somatosensoriali o sacrali. L’indicazione per tali indagini deve essere posta da un medico specialista e l’esame viene abitualmente eseguito nell’ambito di un laboratorio di neurofisiopatologia ospedaliero o ambulatoriale, da parte di medici e tecnici di neurofisiopatologia. Come già sottolineato, il referto dell’esame va sempre interpretato e integrato in base al quadro clinico del paziente e agli esami laboratoristici e radiologici effettuati.

 

Come il modello SCERTS offre nuovi orizzonti sull’autismo – Il Modello SCERTS: un approccio multicomprensivo per bambini con disturbo dell’autismo – Recensione

Il libro Il Modello SCERTS: un approccio multicomprensivo per bambini con disturbo dell’autismo è il primo di due volumi e si incentra sulla valutazione del bambino con sindrome dello spettro autistico.

 

 Modello SCERTS è approccio globale e multidisciplinare realizzato da Barry M. Prizant, Amy M. Wetherby, Emily B. Rubin, Amy C. Laurent e Patrick Rydell e adattato al contesto italiano da Anne-Marie Hufty, Davide Protasi, Maria Pia Scipioni collaboratori del centro “Sinapsy” di Roma.

Alle spalle della realizzazione di questo modello, lo SCERTS si sviluppa sulla base di alcune necessità che altri modelli valutativi e terapeutici/riabilitativi non soddisfano: la funzionalità del bambino nei suoi diversi contesti insieme a tutte le variabili insite nell’ambiente.

Proprio sulla base di queste lacune, i ricercatori hanno inquadrato all’interno del modello tre dimensioni evolutive primarie che riguardano lo sviluppo del bambino, ovvero la comunicazione sociale (SC), la regolazione emotiva (ER) e il supporto transazionale (TS). Da queste tre aree trae origine anche l’acronimo SCERTS.

Solitamente, negli altri approcci educativi e terapeutici, le abilità sociali vengono insegnate in format educativi altamente strutturati, ripetitivi come in un addestramento, soprattutto durante le prime fasi di “abilitazione-riabilitazione”. All’interno del modello SCERTS viene data la priorità alla comunicazione sociale, alla regolazione emotiva e al supporto transazionale dove vengono coinvolti educatori, genitori e clinici così da avere un impatto positivo sullo sviluppo del bambino e sulla sua qualità di vita. In altre parole, questo modello mira alla presa in carico del bambino nella sua globalità e in tutti i suoi contesti di vita (casa, scuola, centri ricreativi, terapia e comunità sociale).

Il libro è sviluppato in modo che il lettore o il professionista si costruisca l’immagine del modello SCERTS man mano che procede con la lettura dei capitoli. Il testo è molto chiaro e specifico nei concetti così da rendersi digeribile anche per chi volesse conoscerne gli aspetti del modello senza però essere un professionista in ambito di valutazione psicologica. La parte del libro dedicata alla definizione di valutazione e assessment potrebbe risultare un po’ dispersivo per chi già possiede diverse conoscenze ma, nonostante il dilungarsi su aspetti noti per alcuni, gli autori mettono in risalto alcune indicazioni e suggerimenti operativi che possono emergere nella pratica dell’assessment.

L’aspetto più innovativo è che questo modello si pone di fornire a tutti i caregiver degli strumenti e delle strategie adattabili ad ogni contesto, quindi svincolati da setting o specifiche situazioni e ambienti, infatti, come si sottolinea nel libro, questo modello è flessibile, non programmatico e non esclusivo.

La flessibilità è data dal creare le condizioni che permettono al bambino con autismo di avere delle relazioni sociali soddisfacenti e raggiungere il migliore successo possibile sulla base delle sue possibilità non vincolato a una sequenza rigida di obiettivi da raggiungere.

La caratteristica di non essere un modello programmatico e non esclusivo si riferisce all’assenza di un programma specifico di apprendimento e all’opportunità, dove necessario, di inglobare in sé tutte le possibili strategie e metodologie usate nel campo dell’autismo.

L’unico modo in cui questo modello potrebbe essere definito strutturato è sulle indicazioni che possiamo ritrovare nel terzo capitolo del libro dove si dà spazio a vere e proprie linee guida per eseguire l’assessment. Proprio in questo capitolo viene sottolineato questo aspetto “Per ogni area gli obiettivi sono organizzati in base a tre stadi comunicativi – stadio di partner sociale, linguistico e conversazionale – a loro volta suddivisi in sotto-obiettivi ognuno con criteri specifici. Questo capitolo descrive nel dettaglio le schede di osservazione (SAP-O) e i loro criteri di utilizzo. Le schede sono riportate nell’appendice A di questo volume, e suggeriamo di averle sottomano durante la lettura di questo capitolo”

Il modello di valutazione SCERTS utilizza un approccio più qualitativo anziché quantitativo e standardizzato. Questo modo di proporsi, quindi, sembrerebbe essere utile in una fase secondaria durante il percorso di valutazione, cioè quando sulla base di una diagnosi già effettuata è importante stabilire il funzionamento dell’individuo per individuarne punti di forza e debolezza che possano servire da base per l’avvio della presa in carico da parte di tutte quelle figure che si occupano di riabilitazione.

L’utilizzo di questo modello permette di approcciarsi a un percorso di presa in carico in maniera diversa e senza particolari restrizioni o percorsi prestabiliti. Inoltre, permette di sperimentare e individuare nuovi modi di aiutare un bambino con autismo a migliorare i suoi punti di debolezza e raggiungere il massimo delle sue potenzialità, obiettivo che a volte si perde nella strutturazione rigida di un percorso di sostegno e abilitazione verso un’aspettativa di autonomia molto spesso particolarmente desiderata dai caregiver.

Questo libro, nello specifico questo modello, potrebbe essere un sostegno utile a tutti quei professionisti che possiedono un bagaglio di conoscenze sui diversi modelli di valutazione e sostegno nell’ambito dell’autismo solitamente applicati ma che vorrebbero innovare il modo di utilizzare tutte queste nozioni per sentirsi meno vincolati a rigidi protocolli.

 

Che cosa porta le donne a fingere l’orgasmo? I predittori della finzione di un orgasmo

Uno studio di Harris e colleghi del 2019 aveva come obiettivo quello di studiare la probabilità e la frequenza di finzione dell’orgasmo tra le donne.

 

La funzione orgasmica femminile è stata studiata principalmente in relazione al disturbo orgasmico, definito come un ritardo o l’assenza nel raggiungimento dell’orgasmo, in una fase di eccitazione sessuale (APA, 2013), focalizzandosi in maniera molto ridotta sull’orgasmo non disfunzionale. Secondo Levin (2014), la risposta orgasmica può essere prodotta da diversi stimoli, classificati in due categorie: la prima è una varietà di stimoli fisici in diverse parti del corpo come l’area genitale o il seno; la seconda è l’immaginazione mentale e la fantasia. La risposta orgasmica può essere descritta attraverso indicatori fisiologici oggettivi e risposte psicologiche. Gli indicatori fisiologici includono le contrazioni vaginali, dello sfintere anale e dell’utero e il rilascio di prolattina. Meston e colleghi (2004) hanno descritto la risposta orgasmica mentale come una “sensazione di picco variabile e transitoria di piacere intenso, che crea uno stato alterato di coscienza, inducendo benessere fisico e mentale e appagamento”.

L’orgasmo porta quindi alla sazietà sessuale e a un meccanismo di feedback che regola l’eccitazione sessuale e il comportamento (Passie et al., 2005).

Essere “sessualmente normale” implica per molte donne dover raggiungere l’orgasmo quasi ogni volta che hanno un’interazione sessuale con un’altra persona e la ricerca ha dimostrato che le donne spesso fingono l’orgasmo per adattare il comportamento sessuale a un “codice di normalità”.

Fingere l’orgasmo implica un’esagerazione del piacere sessuale al punto che il partner crede che la donna abbia provato un orgasmo senza che ciò sia realmente accaduto; questo può comportare gemiti e vocalizzazioni esagerate, e/o contrazioni muscolari (Harris, Hornsey, Larsen e Barlow, 2019).

Cosa spinge le donne alla finzione dell’orgasmo

Diversi studi in letteratura si sono occupati di studiare le ragioni per le quali una donna è portata a fingere un orgasmo, focalizzandosi sui fattori associati alla probabilità che questo accada. Uno studio del 2013 di Ellsworth & Bailey, ha individuato nella facilità con la quale si raggiunge, un primo fattore che determina il numero di occasioni in cui una donna potrebbe considerare di fingere: solo il 33% delle donne eterosessuali riferisce di provare un orgasmo “sempre”, rispetto al 75 % degli uomini. Un’altra ragione spesso identificata dalle donne è il desiderio che il rapporto sessuale termini; le ragioni possono essere stanchezza, noia o non essere dell’umore giusto (Goodman et al., 2017). Infine alcuni risultati della letteratura suggeriscono che le donne, sapendo che l’orgasmo è apprezzato dal partner, sono propense a fingere di provarlo per evitare che l’uomo le tradisca: gli uomini che riferiscono che la loro partner ha orgasmi raramente sono più propensi a tradirla (Ellsworth & Bailey, 2013).

Altri studi si sono invece occupati di individuare il ruolo delle ideologie e delle visioni del mondo nella simulazione dell’orgasmo; sembra infatti che le donne che sono religiose e politicamente conservatrici siano propense a fingere l’orgasmo per conformarsi ad un copione sessuale atteso e rispettare le norme sociali (Muehlenhard & Shippee, 2010). Inoltre è possibile che un codice morale rigido sull’onestà predica una minore finzione da parte di alcune donne (Graham et al., 2009). Altri aspetti che influenzano come le donne pensano e agiscono durante il sesso, sono la visione di genere e il sessismo: le donne che hanno una visione di genere tradizionale considerano il loro piacere secondario a quello maschile, evitando quindi di richiedere al partner piacere sessuale (Harris et al., 2016). Le donne che invece approvano atteggiamenti più femministi, valorizzano il piacere sessuale reciproco, evitando di fingere i loro orgasmi (Lafrance et al., 2017).

Probabilità e frequenza della finzione dell’orgasmo tra le donne

Uno studio di Harris e colleghi del 2019 aveva come obiettivo quello di studiare la probabilità e la frequenza delle donne di fingere un orgasmo; nello specifico si sono occupati di verificare i predittori della finzione dell’orgasmo tra i quali alcuni fisici: il numero di partner sessuali e la capacità di raggiungere l’orgasmo; alcune preoccupazioni di infedeltà: l’infedeltà del partner e la competitività intrasessuale; infine alcuni predittori ideologici come la religiosità, l’ideologia politica, il sessismo e le credenze di genere sul sesso. 462 donne di età compresa tra 19 e 73 anni hanno preso parte allo studio. I risultati, come previsto, mostrano che il 67% delle donne ha finto un orgasmo con il partner attuale e il 77% ne ha finto uno nel corso della vita; tra queste l’orgasmo è stato simulato rispettivamente il 25% delle volte con il partner e il 32% delle volte totali che hanno avuto un rapporto sessuale. Inoltre, come mostrato da ricerche precedenti, le donne erano più propense a fingere un orgasmo se sospettavano che il partner le tradisse, se la facilità di raggiungimento dell’orgasmo era ridotta e se avevano un numero maggiore di partner sessuali. Fattori ideologici e convinzioni su genere, orgasmo e sesso non hanno invece predetto significativamente la finzione di un orgasmo, ad eccezione della credenza che gli uomini abbiano bisogno che la donna raggiunga l’orgasmo per raggiungere il proprio piacere sessuale. Le donne politicamente conservatrici e religiose, legate alla tradizione e alle norme sociali, non sembrano essere più propense a fingere i loro orgasmi per conformarsi a copioni sociali tradizionali. L’ideologia politica e la religiosità, sebbene possano essere indirettamente collegate alla sessualità, non risultano correlate con la disponibilità a fingere l’orgasmo; probabilmente il loro contenuto è troppo eterogeneo e le credenze e gli atteggiamenti di coloro che si definiscono religiose o politicamente conservatrici, sono molto differenti gli uni dagli altri (Harris et al., 2019). Sembra infatti che questi fattori siano rilevanti per altri comportamenti sessuali tra i quali l’infedeltà e la masturbazione, senza influire sulla finzione di un orgasmo (Ahrold et al., 2011).

 

Giornata Internazionale della Gentilezza: gli effetti positivi dell’essere gentili verso gli altri e noi stessi

Il 13 Novembre si celebra la Giornata Internazionale della Gentilezza – Scopriamo cos’è la gentilezza, perché è importante parlarne, quali sono i benefici che porta nelle nostre vite e come allenarla

 

La gentilezza nelle parole crea fiducia. La gentilezza nel pensare crea profondità. La gentilezza nel dare crea amore
 (Lao-Tzu)

 

La gentilezza è considerata una virtù e parte integrante dell’etica. In filosofia, la gentilezza è definita come una preoccupazione genuina e profonda per gli altri (Schopenhauer, 1840/2006). La gentilezza riflette dunque una particolare sensibilità per gli altri, oltre che per se stessi. In altre parole, essa è un atteggiamento premuroso nei confronti della vita, che crea significato e scopi. Implica anche una comprensione genuina della preziosità di ogni vita nella sua unicità. Essere gentili richiede consapevolezza delle emozioni e degli stati d’animo propri, degli altri e della relazione tra questi (Malti, 2020).

Gentilezza e benessere

Perché celebrare la Giornata Internazionale della Gentilezza? Perché è importante parlarne?

Innanzitutto, la gentilezza richiama l’altruismo e l’altruismo richiama la cooperazione. Sappiamo benissimo quanto la cooperazione tra i membri di una specie sia fondamentale per garantirne la sopravvivenza. Inoltre connetterci con gli altri attraverso atti gentili ci consente di soddisfare i nostri bisogni psicologici di base di relazione e appartenenza. La gentilezza ha dunque effetti positivi a livello sociale di cui siamo pienamente a conoscenza. E a livello individuale cosa accade?

Ricordiamoci l’ultima volta in cui abbiamo compiuto un atto gentile, probabilmente ci sentiremo subito bene, sentiremo un senso di soddisfazione, un “bagliore caldo” che accende i nostri sistemi di ricompensa del cervello. La gentilezza non solo fa bene, ma ci fa anche bene. Compiere atti di gentilezza può aumentare la soddisfazione per la vita, l’umore positivo e l’accettazione da parte dei pari. Può stimolare il rilascio di serotonina e ossitocina, riducendo così paura e ansia. Per gli adolescenti, essere gentili può aumentare l’autostima. La gentilezza ci rende felici.

Oltre ai vantaggi psicologici, la ricerca lega anche il comportamento di aiuto a una migliore salute fisica. In uno studio sono stati monitorati più di 7.000 adulti statunitensi, scoprendo che coloro che fanno volontariato sono più attenti alla prevenzione medica rispetto a chi non fa volontariato (Kim & Konrath, 2016). In un altro studio, gli anziani che hanno speso soldi per gli altri avevano una pressione sanguigna più bassa rispetto a quelli che hanno speso soldi per se stessi (Whillans, A. V., et al., 2016).

Lyubomirsky e i suoi colleghi hanno persino scoperto che le persone che hanno compiuto atti di gentilezza, ovvero qualsiasi azione che implichi aiutare, condividere o prendersi cura degli altri, hanno mostrato miglioramenti nell’espressione genica associati a un profilo immunitario più sano (Nelson Coffey et al.. 2017).

Consigli per allenare la gentilezza

In occasione della Giornata Internazionale della Gentilezza, riportiamo alcuni consigli per allenarsi ad essere gentili. Per la psicoterapeuta e autrice di The Kindness Cure, la dottoressa Tara Cousineau, la gentilezza è un momento di connessione umana. Poiché ogni interazione porta con sé una potenziale minaccia e una potenziale ricompensa, ci vuole coraggio nel connettersi all’altro. Ma come allenarci a diventare più gentili?

Ecco i tre consigli della Dott.ssa Cousineau (2018):

  • Inizia da te stesso


Le persone possono essere straordinariamente scortesi con se stesse quando parlano della loro vita, senza riuscire neanche a rendersene conto. Come dice la Dott.ssa Cousineau: “Se ascoltiamo con attenzione il nostro dialogo interno, molto probabilmente non diremmo le stesse parole a qualcuno che amiamo: ‘non sono abbastanza bravo, non sono abbastanza intelligente, non sono abbastanza’. Siamo impantanati nei rimpianti o nelle preoccupazioni“. La chiave per imparare a essere più gentili con noi stessi risiede nell’autocompassione che si basa su tre pilastri: auto-gentilezza (trattare te stesso con la gentilezza e la comprensione che mostreresti a qualcuno che ami), comune umanità (riconoscere che non sei solo nel tuo dolore e che la sofferenza è un’esperienza umana condivisa), e consapevolezza (mantenere le proprie esperienze negative così come sono, senza sopprimerle o identificarsi eccessivamente con esse).

  • Coltiva il tuo istinto di gentilezza


Alcune persone tendono ad essere più empatiche di altre. In generale, tuttavia, tutti nasciamo con un istinto di gentilezza (compassione). Il nostro sistema nervoso si è evoluto per avere una sensibilità molto sintonizzata nel prendersi cura degli altri. Darwin considerava l'”istinto di simpatia” come uno dei più forti istinti umani che ha aiutato la nostra specie a sopravvivere e prosperare (Pogosyan, 2019). È questo istinto che dobbiamo coltivare, secondo Cousineau, rafforzando il nostro muscolo della compassione. Un modo per coltivare la compassione e la gentilezza è attraverso la meditazione. Un esercizio consigliato dalla Dott.ssa Cousineau, ripreso dalla Dott.ssa Barbara Fredrickson, consiste nel chiudere gli occhi, pensare a qualcuno della nostra vita che amiamo e mandare a questa persona degli auspici di benessere, amore e sicurezza ripetendo in silenzio: “Possa tu sentirti al sicuro, possa tu sentirti felice, possa tu sentirti sano, possa tu vivere con facilità“. Dopo aver espresso questi sentimenti affettuosi, ripetiamo in silenzio le quattro frasi pensando questa volta di indirizzarle a qualcun altro. Non dobbiamo poi dimenticare di inserire anche noi stessi nel nostro circolo meditativo di compassione (“Possa io sentirmi al sicuro, possa io sentirmi felice…”). L’esercizio di meditazione può essere svolto più volte, espandendo gradualmente la cerchia di persone. Praticare questa meditazione regolarmente può aumentare l’auto-compassione e diminuire l’autocritica.

  • Trova il modo di essere gentile

Per coltivare la gentilezza come pratica, la Dott.ssa Cousineau ci invita a riflettere su una domanda chiave: come posso trovare il modo di portare gentilezza nella mia giornata, sia per me che per un’altra persona? Potremmo cercare qualcosa di generoso da dire sulle persone con cui stiamo interagendo. Potremmo trovare modi per essere utili agli altri. Potremmo ricaricare le nostre giornate con momenti di gratitudine e apprezzamento, cura e curiosità. Potremmo rivolgerci a noi stessi con la gentilezza che desideriamo ricevere dagli altri attraverso l’auto-compassione e la cura di sé. Ciò include diventare consapevoli quando ci sentiamo sopraffatti, sofferenti e quando i nostri sistemi di minaccia vengono innescati. Dopotutto, come osserva Tara Cousineau, lo stress è spesso ciò che ostacola la gentilezza. Alla fine della giornata, sarebbe utile concentrarsi sulle cose che sono andate bene e notare cosa succede. Forse sentiremo un sentimento positivo pervadere il nostro corpo e la nostra mente, concediamoci il piacere di lasciarci inebriare da tale sensazione.

 

Intelligenza emotiva

Goleman, nella sua opera Intelligenza emotiva mette in evidenza come il concetto classico di intelligenza legato alla mera didattica non è sufficiente per determinare il successo in campo affettivo, lavorativo e sociale del soggetto.

 

L’intelligenza emotiva (EQ) è la capacità di un individuo di dare un nome alle proprie e altrui emozioni al fine di raggiungere un determinato obiettivo personale; è la capacità di dare ascolto alle proprie sensazioni, selezionando quelle che rappresentano una miccia per dare il massimo e scartando quelle che ci fanno stare solo male, rallentando in maniera schiacciante il percorso verso il nostro obiettivo di vita.

Lo psicologo statunitense Goleman ha ritenuto che questa capacità possa essere incrementata dallo sviluppo di 5 importanti componenti che vediamo qui di seguito:

  • consapevolezza di sé: è importante avere una costante e continua attenzione riflessiva verso la propria esperienza emotiva, così da liberarsi quanto più facilmente delle emozioni negative che interferiscono con il raggiungimento dei nostri obiettivi, ostacolando il nostro percorso di vita.
  • gestione del sé, ovvero la gestione delle proprie emozioni in maniera adeguata, è la capacità di non farsi sopraffare dalle emozioni negative, al fine di essere in una vita fatta di equilibri e non di equilibrismi. La capacità di non eccedere e di mantenere il self-control è fondamentale ovunque, perché qualsiasi contesto è fatto di continui cambiamenti, persistenti difficoltà da affrontare, pertanto, avere una mentalità flessibile e propensa al cambiamento è una qualità imprescindibile dell’individuo.
  • empatia: consiste nella capacità di mettersi nei panni degli altri, così che sia possibile comprendere lo stato emotivo altrui e adattare il proprio, ciò permette di lavorare in gruppo in maniera serena e produttiva:
  • motivazione: rappresenta lo stimolo a fare sempre di più, questa può essere differente da soggetto a soggetto, per alcuni può essere intrinseca, per altri estrinseca, ovvero qualcuno lo fa per appagare un bisogno personale di autorealizzazione, qualcun altro per assecondare il desiderio di una persona cara (un genitore o un partner), qualcun altro ancora può avere una motivazione concreta data ad esempio dallo stipendio, quindi economica:
  • abilità sociali: parliamo delle life skills ovverosia la capacità di destreggiarsi nella confusione della società in cui viviamo, un esempio rilevante è dato dalla resilienza ovvero la capacità di resistere agli urti, di farli rimbalzare all’esterno come un boomerang, perciò, di non farsi scalfire dalle difficoltà che naturalmente si presentano nel nostro percorso di vita.

Goleman, nel 1996, nella sua opera Intelligenza emotiva (Goleman, 1996) mette, inoltre, in evidenza come il concetto classico di intelligenza legato alla mera didattica (saper leggere, scrivere e far di conto) non è sufficiente per determinare il successo in campo affettivo, lavorativo e sociale del soggetto. L’autore riprende il concetto d’intelligenza emotiva già descritta precedentemente da Gardner nelle due forme intrapersonale e interpersonale e distinguendo abilità personali, ovvero capacità di riconoscere le emozioni, e sociali, ovvero il modo in cui ci si interfaccia col mondo esterno.

Goleman, ha individuato tre macro-categorie di funzionamento meta-emotivo del soggetto che si contraddistinguono sulla base di come ognuno gestisce le proprie emozioni:

  • l’autoconsapevole: colui che è a piena conoscenza di sé e dei propri limiti, ciò gli permette di non farsi sopraffare da stati emotivi negativi e di vivere una vita piena;
  • il sopraffatto, viceversa viene schiacciato dalle proprie emozioni negative;
  • il rassegnato, conosce a pieno i propri sentimenti, ma li accetta passivamente, senza far nulla per far cambiare rotta, vive in uno stato di perenne impotenza e stallo in una condizione che non gli piace.

Banalmente potremmo dire che l’intelligenza non è fatta solo di cervello e quindi della componente razionale, ma anche di cuore, della componente emotiva. Pensiamoci, come sarebbe triste una vita senza sentimenti e fatta solo di cose prestabilite che vanno esattamente nel verso che vorremmo?

L’intelligenza emotiva è stimolata dalla creatività che De Bono definirebbe olistica (De Bono, 2011), ci permette di accrescere la nostra creatività, di dare spazio al nuovo, di non rimanere chiusi in quella bolla di sapone di cose che conosciamo già a menadito. Ci permette di accogliere il diverso, ciò che è diverso da noi. L’empatia ci permette di avvicinarci allo stato emotivo di chi ha una cultura diversa dalla nostra o un modo di pensare differente. La resilienza ci permette di non farci sopraffare dalle inevitabili problematicità che la vita ci pone, ma ci offre l’occasione di trarre insegnamenti dagli ostacoli che ci si presentano. Superare un momento di difficoltà rappresenta un momento di crescita personale, così che quando in futuro ci ritroveremo di fronte alla stessa situazione, non ci faremo più prendere dal panico, ma, memori di quanto accaduto in precedenza, sapremo cosa fare e cosa non fare. Manterremo la calma, la competenza della gestione del sé di cui parla Goleman, ovvero l’autocontrollo. Tecniche di rilassamento come la meditazione, lo yoga, o la pratica di consapevolezza della Mindfulness, possono aiutarci a migliorare la gestione delle nostre emozioni. La Mindfulness ci fornisce, ad esempio, l’occasione di prendere consapevolezza del nostro corpo, di essere presenti alla nostra vita momento per momento, concentrandoci su quello che ci sta accadendo.

 

L’impatto dell’epidemia di Covid-19 sull’immagine corporea e l’attività fisica

L’epidemia di Covid-19 ha generato cambiamenti significativi nella routine quotidiana e negli stili di vita delle persone, nell’accesso alle risorse, creando un notevole livello di stress e disagio.

Matteo Mercadante – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I comportamenti e le risposte psicologiche delle persone sono fondamentali per salvaguardare la loro salute emotiva e fisica durante questo periodo senza precedenti. Esse possono rispondere a tale stress impiegando una serie di strategie disadattive, come comportamenti volti ad incrementare le preoccupazioni in merito all’immagine corporea (ad esempio ruminazioni e controllo del corpo).

Rimanere a casa durante i lockdown, sebbene sia stata una misura sicura, ha generato anche delle conseguenze negative indesiderate: la permanenza prolungata a casa ha portato ad un incremento dei comportamenti sedentari, come trascorrere una quantità eccessiva di tempo stando seduti, sdraiati per attività quali ad esempio guardare la tv, giocare, utilizzare dispositivi mobili; riduzione dell’attività fisica regolare (quindi minor dispendio energetico); o impegnarsi in attività di evitamento che, di conseguenza, portano ad un aumento del rischio e al potenziale peggioramento delle condizioni di salute.

Covid-19 e immagine corporea

Inoltre, i periodi di lockdown e le relative restrizioni hanno contribuito a modificare la percezione del proprio corpo. L’immagine corporea è un costrutto multidimensionale che descrive il modo in cui una persona percepisce e valuta il proprio aspetto fisico. Secondo Slade (1994), l’immagine corporea è “l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e alle singole parti del nostro corpo.”

Slade aggiunge che l’immagine corporea ha una componente percettiva (ad esempio, come la persona visualizza la taglia e la forma del proprio corpo), una attitudinale (cosa pensa la persona del proprio corpo), una affettiva (sentimenti verso il proprio corpo) ed, infine, una comportamentale (alimentazione, attività fisica, ecc). Tali componenti sono utili per comprendere l’immagine che ognuno ha del proprio corpo. La prospettiva cognitivo-comportamentale fa una distinzione tra “body image evaluation” e “body image investiment”: la prima comprende la soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto, derivante da una congruenza o discrepanza tra percezione del proprio fisico e ideali estetici interiorizzati; per quanto riguarda l’investimento, si riferisce all’importanza psicologica (cognitiva e comportamentale) che gli individui danno al proprio aspetto fisico.

In uno studio di Bernat e co (2021) emerge che la pandemia ha contribuito al peggioramento della salute mentale nelle popolazioni di tutto il mondo, compreso lo sviluppo di un’immagine corporea negativa e all’emergere o all’aumento dei sintomi tipici dei disturbi alimentari. L’incremento dello stress e dell’ansia legati al Covid-19, che porta a un peggioramento dell’immagine corporea, può avere numerose cause, tra cui le seguenti:

  • modifiche alla routine quotidiana, compreso l’accesso limitato alle strutture ricreative e alle palestre, che possono aumentare le preoccupazioni per il proprio corpo;
  • aumento della copertura mediatica del cibo, del suo acquisto e delle potenziali carenze, che possono aumentare le elucubrazioni sul mangiare o promuovere l’accumulo e l’abbuffata;
  • cambiamenti nello svolgimento delle mansioni professionali, come lo smart working e contattare i colleghi attraverso videoconferenze, incrementando l’esposizione e la necessità di guardarsi e vedere il proprio aspetto e di apprendere nuove abilità legate all’autopresentazione;
  • aumento della sensazione di perdere il controllo sulla situazione attuale, che può innescare comportamenti volti a “riprendere il controllo attraverso il controllo del corpo”;
  • aumento del tempo trascorso sui social media, che può esacerbare le preoccupazioni per l’aspetto e il proprio corpo, incrementando condotte compensatorie come, ad esempio, dieta restrittiva e vomito;
  • contatto limitato con altre persone, che può essere associato alla legittimazione di alcuni sintomi del disturbo alimentare (ad esempio, evitamento del social eating e dell’esposizione corporea);
  • possibilità limitate di contatto diretto con la famiglia, gli amici e altre persone, che sono importanti fonti di supporto quotidiano e aiutano a regolare le emozioni attraverso meccanismi adattivi.

Covid-19 e attività fisica

L’attività fisica può essere definita come qualsiasi movimento corporeo prodotto dal muscolo scheletrico che si traduce in un dispendio energetico, e può includere l’esercizio, la camminata, il giardinaggio e le faccende domestiche. La ricerca mostra che l’attività fisica è positivamente associata a diversi risultati desiderabili, tra cui contentezza sociale, salute fisica e mentale. Inoltre è stata riportata una diminuzione della pratica di attività fisica durante il lockdown e un aumento di comportamenti sedentari (Stockwell e co, 2021).

Negli adulti e nei bambini in salute si può riscontrare una ridotta attività fisica durante il lockdown, nonostante varie organizzazioni governative e linee guida dei professionisti abbiano fornito indicazioni su come rimanere attivi durante la pandemia. Alcuni studi hanno dimostrato che le persone più attive nel pre-lockdown erano più propense a diminuire l’attività fisica durante la quarantena.

Un altro studio condotto su bambini in sovrappeso (Badesha e co, 2021) sottolinea le pochissime opportunità di impegnarsi in attività fisiche durante il lockdown e l’aggravarsi della situazione con la chiusura delle scuole: è stato rilevato un aumento del peso, dovuto alla perdita dell’influenza positiva che le scuole tendono ad avere sui principali fattori di rischio, come orari dei pasti definiti, attività fisica e orari del sonno. L’eccesso di peso acquisito dai bambini durante la pandemia potrebbe essere difficile da invertire, contribuendo al sovrappeso e all’obesità in età adulta.

Essendo stato dimostrato che la diminuita pratica di attività fisica produce effetti negativi come aumento dell’ansia e diminuzione dei livelli di energia, risulta necessario ricorrere alla promozione della stessa non solo per le persone che tendono a condurre una vita più sedentaria, ma anche per quelle con alti livelli di pratica al di fuori del lockdown.

Nel caso di lockdown futuri, è opportuno comprendere e monitorare tali cambiamenti emersi sia per salvaguardare la salute, sia per favorire lo sviluppo di interventi di sanità pubblica fino al ritorno a una “vita normale”.

 

Il panico quotidiano (2013) di Christian Frascella – Recensione

Il panico quotidiano è un romanzo ambientato a Torino che racconta di un uomo il cui equilibrio si incrina ed un disturbo da attacchi di panico travolge un’esistenza apparentemente tranquilla. 

 

In alcuni momenti ho dovuto smettere di leggere, fare una pausa, prendere fiato, spalancare la finestra e sentire l’aria fresca sulla faccia. A tratti la lucida e impietosa descrizione delle crisi mi ha trascinato con sé in un vortice angoscioso di malessere che diventava quasi qualcosa di concreto, qualcosa che si poteva toccare o sentire addosso… Questo è un romanzo, è narrativa, non è un libro scientifico o un saggio… Ma è un libro di cui è interessante parlare in questa sede perché completa con grande forza e impatto ciò che di teoria e di scienza viene detto altrove. Mi ha dato l’impressione di colorare un’illustrazione, di dare corpo e voce a sofferenze che forse a volte è difficile comprendere fino in fondo e che non tutti coloro che le provano sanno esprimere con tanta efficacia.

È un romanzo, si diceva, ed è gradevole la lettura, scorrevole, avvincente. Ma l’organizzazione del sistema psichiatrico di assistenza è riportato abbastanza fedelmente e, per chi conosce i luoghi dove è ambientato il romanzo, posso dire che rispecchia in gran parte la realtà. Ho trovato grottescamente esilarante la descrizione del Servizio per le dipendenze, la coda di utenti, la reciproca curiosità, gli sguardi bellicosi tra protagonisti di diverse avventure. Una volta (e non è il libro, è la realtà), in procinto di ricevere la visita di un dirigente, in ambulatorio ci siamo accorti che stavamo usando come portapenne un contenitore per materiale a rischio biologico!

Il protagonista non è un uomo perfetto, ma dopo aver fatto la sua conoscenza ho avuto la sensazione di tenere a lui e ho sperato per tutto il tempo che trovasse in qualche modo una soluzione per i suoi problemi.

Ho anche intensamente sperato che gli psichiatri del racconto ad un certo punto potessero trovare la frase perfetta, l’intuizione geniale, la chiave di volta, e con grande maestria operare il miracolo e sollevare il protagonista dal suo dolore tra gli applausi della folla.

Il Dr Pratesi (spoiler!!!) alla fine non ne esce tanto male! Riesce a conquistare, malgrado tutto, il rispetto del suo recalcitrante paziente e insieme costruiscono un sistema che è allo stesso tempo attribuzione di senso e tenace accettazione.

Quando è arrivata la fine del libro mi sono anche detta che vi era una lezione di realismo e umiltà: non c’è un paziente perfetto, e non c’è nemmeno un medico perfetto. Ognuno mette se stesso in gioco, fa del suo meglio e si arrovella con quello che ha. Detto questo, trovo particolarmente interessante la conclusione, dove mi è capitato di pensare che la soluzione non è risolvere un problema, ma in qualche modo accettarne la presenza, cogliere il significato dei segnali che i sintomi rappresentano, decodificarne il messaggio, per poter prender meglio la mira e scoprire dove indirizzare gli sforzi per una gloriosa modesta serenità (quotidiana!).

 

Catcalling: dinamiche di potere e scopi comunicativi

Lo studio di Del Greco (2020), ha indagato le motivazioni degli uomini, il livello di tolleranza e il ruolo del potere nel fenomeno del catcalling.

 

Il fenomeno del catcalling

La crescente consapevolezza riguardo le molestie di strada le ha rese oggetto di plurimi dibattiti pubblici e culturali. Le molestie di strada sono generalmente definite come il subire attenzioni sessuali indesiderate da parte di estranei in contesti pubblici. Il catcalling, in particolare, coinvolge gli uomini che usano comportamenti verbali e non verbali per commentare l’aspetto fisico di una donna in modo da oggettivizzarla. Tali comportamenti possono includere l’utilizzo di un linguaggio volgare, fischi, sguardi, gesti e avances sessuali (Farmer, Smock Jordan, 2017). Il catcalling genera significativi effetti negativi sulla vita delle vittime, tra i quali reazioni fisiche, emotive e sintomi psicologici. I sintomi fisici generalmente riportati includono tensione muscolare, problemi di respirazione, vertigini e nausea (Tran, 2015). Inoltre, le donne affermano di avere una rilevante paura legata a un possibile danno fisico come la violenza sessuale (MacMillan et al., 2000). L’interiorizzazione dei sentimenti di invasione, di umiliazione e la paura associata alle esperienze di molestie sono precursori di rabbia repressa, depressione e ansia (Chhun, 2011). L’insieme di questi esiti induce le donne a valutare i loro dintorni, cambiare i modelli di socializzazione, limitare le scelte di abbigliamento e persino evitare certi quartieri o percorsi (Kearl, 2009). Così, gli effetti delle molestie di strada si ripercuotono in ambito fisico e psicologico, portando con sé conseguenti cambiamenti comportamentali. Tali cambiamenti suggeriscono che alla base delle molestie di strada possono esserci questioni di potere. È importante indagare tuttavia l’intento comunicativo alla base del catcalling per comprendere appieno la gamma di ragioni per cui alcuni uomini possono partecipare a tale fenomeno. Per esempio, è possibile che alcuni uomini non agiscano guidati dalla detenzione di potere ma, piuttosto, siano annoiati o credano di esprimere un complimento nei confronti della vittima. L’attitudine degli uomini ad impegnarsi nelle molestie di strada può variare in accordo con i loro sentimenti verso le molestie sessuali.

Uno studio sulle motivazioni sottanti il catcalling

Lo studio di Del Greco (2020), ha indagato le motivazioni degli uomini, il livello di tolleranza e il ruolo del potere nel fenomeno del catcalling.

Il campione dello studio era composto da 348 studenti americani, di cui 143 uomini e 205 donne mediamente ventenni di diverse etnie. Sono state utilizzate due diverse raccolte di questionari, una esclusivamente per gli uomini e un’altra per le donne, ciascuna con item personalizzati per analizzare il fenomeno da due prospettive differenti. I partecipanti hanno compilato una sezione sui comportamenti di molestie di strada, una sui tentativi di controllo e presa di controllo, una riguardo al potere di genere ed una sezione per indagare i motivi comunicativi. La frequenza e desiderabilità delle molestie di strada è stata misurata utilizzando una lista composta da 28 possibili comportamenti di molestie di strada creata da Sullivan (2011). Per quanto riguarda la seconda variabile presa in considerazione, ovvero i tentativi di controllo e presa di controllo, è stata utilizzata una lista di 18 possibili risposte alle molestie di strada (ad esempio “sorridere”, “iniziare a parlare” “fare brutti gesti”). Agli uomini è stato chiesto di indicare quali comportamenti desiderassero come risposta al catcalling, alle donne è stato chiesto di pensare al ricordo più recente legato al catcalling ed indicare quali comportamenti pensavano che il loro molestatore volesse ottenere e quali abbiano effettivamente messo in atto. Per quanto riguarda le credenze sul potere è stato utilizzato un solo item derivato da una scala creata da Dunbar ed Abra (2010), ovvero la domanda “chi ritieni abbia più potere in una relazione?”. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare quale genere avesse più potere secondo loro, in una scala in cui 1 equivaleva “al genere opposto”, 2 equivaleva ad “uguale potere” e 3 indicava “il mio genere”. Per analizzare gli scopi di comunicazione è stata utilizzata la “Interpersonal communication motives scale” (Rubin et al.,1988). Questa scala valuta gli scopi comunicativi ed include 28 item suddivisi in sei categorie: piacere, affettività, inclusione, svago, relax e manipolazione. La tolleranza alle molestie sessuali è stata indagata utilizzando la “Mazer and Percival’s scale” (1989), composta da 19 affermazioni a cui ad ogni soggetto del campione maschile era chiesto di attribuire il suo grado di accordo da 1 (completamente in disaccordo) a 7 (completamente d’accordo). Infine, è stata misurata la desiderabilità sociale utilizzando una versione a 10 item della “Marlowe-Crowne Social Desirability Scale” (Crowne & Marlowe, 1960; Strahan & Gerbasi, 1972) per capire quanto potesse influire sulle risposte date dai partecipanti.

Dallo studio condotto da Del Greco (2020), è emerso che il 78% degli uomini intervistati ha avuto atteggiamenti molesti in strada e di questi l’87% lo ha fatto con l’intento di modificare in qualche modo il comportamento della vittima. In generale, la maggior parte degli uomini vorrebbe che le donne rispondessero alle molestie di strada in modo più positivo, ad esempio sorridendo o iniziando una conversazione. Sembrerebbe dunque che le molestie di strada siano spesso utilizzate dagli uomini come tentativo di controllo. In questo caso, se la donna ha la percezione di avere uguale potere, è più frequente che la stessa metta in atto un tentativo di contro controllo, mentre la frequenza diminuisce se la donna crede di avere un potere inferiore rispetto all’uomo. La ricerca suggerisce che gli uomini hanno più probabilità di avere una maggiore tolleranza alle molestie sessuali quando hanno forti convinzioni sui ruoli di genere tradizionali, hanno un alto grado di dominanza sociale, hanno un alto grado di mascolinità e atteggiamenti ostili verso le donne o di stampo sessista (Glick & Fiske, 1997). Anche il contesto sembra influenzare il fenomeno: è molto probabile che chi molesta in strada non attuerebbe lo stesso comportamento in un ambiente domestico o lavorativo per via delle dinamiche relazionali in corso (Dunbar, 2004). Per quanto riguarda gli scopi legati a questo fenomeno, la motivazione più frequente risulta essere il desiderio di affettività, seguita da piacere, inclusione, svago, relax e manipolazione. Inoltre chi compie catcalling non lo percepisce come esperienza negativa e non si aspetta reazioni negative. Dal punto di vista delle donne è emerso che le motivazioni che potrebbero trovarsi alla base delle molestie sono: piacere, controllo, svago, inclusione, relax e desiderio di affettività.

I dati raccolti dimostrano che le donne sono colpite gravemente dalle conseguenze di questi comportamenti (Fairchild & Rudman, 2008). Pertanto, una maggiore educazione in merito ai sentimenti e alle esperienze delle donne potrebbe ridurre significativamente la comunicazione disfunzionale, la confusione, la paura e la violenza.

 

ABC UPGRADE: il metodo base della terapia cognitiva, e cosa ci permette di scoprire la “tendenza di comportamento”

La tecnica dell’ABC è una delle più conosciute in psicoterapia cognitiva (Ellis 1957, Beck 1975, Fiore 2011).

 

È un esercizio, all’apparenza banale, ma con tantissime potenzialità. Ci consente infatti di “fare ordine” nei nostri pensieri, soprattutto quando il livello emotivo aumenta rendendo tutto più confuso.

In preda ad una crisi d’ansia, capita di essere letteralmente trascinati dalla propria mente e sballottati fra mille pensieri angoscianti: ci si rende conto di star fuggendo a gambe levate, solo dopo aver corso a perdifiato per chilometri.

L’effetto più importante che gli stati emotivi allarmanti hanno su di noi è quello di farci perdere il controllo, apparentemente, sulle nostre azioni.

Ci ritroviamo risucchiati in un vortice, nel quale non percepiamo di avere alcuna scelta consapevole: pensiero e azione sono completamente fusi (Harris 2012).

Mettere ordine nella nostra esperienza attraverso l’ABC

Ma è davvero così?

In realtà è possibile creare un ordine tra ciò che accade, come valutiamo ciò che viviamo, cosa sentiamo e come ci comportiamo: incredibile pensare di avere così tanta scelta!

La psicoterapia cognitiva, parte da un assunto che può sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma che in realtà fa molta differenza nella nostra esperienza della sofferenza.

Ci dice che non è tanto ciò che ci accade, ad essere importante nel farci soffrire, ma come lo interpretiamo, come ce lo raccontiamo.

Può sembrare l’uovo di Colombo, e invece no: è comune pensare che siano gli eventi gli unici responsabili del nostro malessere o benessere. In questi termini è una questione di fortuna o sfortuna, siamo in balìa degli eventi della vita. Ma un aspetto di questa spiegazione non torna: come mai di fronte ad uno stesso evento, magari anche traumatico, osserviamo reazioni diverse in persone diverse?

Quante volte ci capita di osservare ammirati persone che sono state vittime di ogni angheria, reagire con forza e risolutezza (e viceversa)?

Non è tanto ciò che accade quindi, ma il modo in cui ce lo raccontiamo sul momento, e come lo includiamo nella nostra storia personale.

Tramite l’ABC abbiamo la possibilità di fare ordine tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti, secondo questo schema (schema 1):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 1

Schema 1

Nella A descriviamo cosa ci ha colpiti, cosa è successo che, secondo noi, ci ha attivati, di qualsiasi cosa si tratti: un evento esterno, in cui sono comprese altre persone; un evento interno, come un pensiero, un ricordo o una sensazione. Qualsiasi cosa, insomma, che attrae la nostra attenzione e che provoca, in noi, una reazione.

Nella B annotiamo ciò che ci passa per la mente, in seguito all’evento che abbiamo descritto nella A. Descriviamo il nostro pensiero “a caldo”, rispetto ciò che è accaduto, come se potessimo osservarlo sullo schermo di un cinema. È importante che il pensiero sia immediato, temporalmente, e descritto in modo più pratico possibile, persino utilizzando il dialetto o le parolacce: meno è filtrato e meglio è.

Nella C, infine, vanno le emozioni provate come rabbia, tristezza, senso di colpa, paura, ansia, angoscia; ed il comportamento che ne è seguito.

Questo tipo di processo, la nostra mente lo fa continuamente, anche se non ce ne rendiamo conto: valutiamo ogni cosa che attira la nostra attenzione, anche se non tutti questi pensieri sono degni di nota. Un pensiero acquista un valore, o una “pesantezza”, in base all’emozione che suscita.

Prendiamo di nuovo lo schema precedente (Schema 2):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 2

Schema 2

Ogni emozione, come una ricetta culinaria, ha una sua composizione, una sua lista di ingredienti: ad esempio se mi rendo conto di aver subito un torto (A), che giudico ingiusto (B), provo rabbia (C-emozione), e avrò voglia di vendicarmi (C-comportamento).

Al contrario, se mi rendo conto di aver commesso un’azione verso qualcuno (A), che giudico ingiusta (B), proverò senso di colpa (C-emozione) e vorrò riparare (C-comportamento).

In questo modo, le emozioni scaturiscono dalle nostre valutazioni, dai nostri racconti degli eventi che viviamo.

Ma non solo, grande importanza ha anche come le inseriamo nella nostra immensa biblioteca cognitiva, dove negli anni abbiamo accatastato tomi su tomi, man mano che facevamo esperienze, davamo giudizi e provavamo emozioni.

Collocare nella storia di vita il vissuto rilevato con gli ABC

La nostra storia di vita, a sua volta, influenzerà il modo in cui, di volta in volta, valuteremo ciò che ci accade e proveremo determinate emozioni; ciò ci indurrà, poi, a certi giudizi (che possono diventare pre-giudizi), piuttosto che altri.

Esisterà, quindi, un modo di raccontarci e raccontare il mondo attorno a noi, che conosciamo e che come un filtro, utilizzeremo più spesso.

Il problema maggiore di tale filtro, è che tende ad essere rigido, a non modificarsi nel tempo o in base alle esperienze: soprattutto se l’evento che l’ha creato ha scatenato una reazione emotiva forte.

Se nella mia vita ho fatto esperienze di fallimento, e per questo mi sono raccontata come incapace, magari sostenuta da critiche di chi mi stava intorno, il filtro che si creerà mi suggerirà che sono un’incapace, che non vale la pena di provare esperienze nuove perché tanto fallirò e per me sarà gravissimo, perché non ho conosciuto nient’altro.

Provando a costruire uno schema (Schema 3):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 3

Schema 3

La storia di vita costituirà, quindi, una sorta di ago della bilancia verso i giudizi che daremo, rispetto agli eventi che ci accadranno.

Concentriamoci ora, per un attimo, sulla C.

Abbiamo detto che nella C, c’è una duplice informazione: le emozioni risultanti dal processo di valutazione tra pensiero ed evento, e il comportamento conseguente.

In realtà esiste un’altra informazione, importante da considerare: potremo chiamarla la “tendenza di comportamento”.

Rispetto al comportamento messo in atto, la tendenza di comportamento ci racconta una storia diversa, importante da considerare soprattutto quando siamo abituati, magari proprio a causa della storia di vita, ad esempio a trattenerci automaticamente dall’esprimere ciò che proviamo.

Abbiamo detto che ogni emozione ha degli ingredienti cognitivi, tuttavia la normale catena di eventi prevista per alcune emozioni, potrebbe essere “dirottata” dalle esperienze di vita che ci inducono verso comportamenti più “accettabili”, piuttosto che altri.

Se ci pensiamo bene, questo accade molto spesso ed ha un senso sociale: ognuno di noi ha sperimentato, ad esempio, una grande rabbia verso il proprio datore di lavoro per la quale avrebbe reagito in malo modo.

La valutazione della scarsa convenienza per il mantenimento del posto di lavoro, ad esempio, potrà frenarci dal mettere in atto un comportamento di rivalsa plateale (Schema 4).

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 4

Schema 4

Saremo tutti d’accordo, sul buon senso di tale “dirottamento”.

Ma cosa accadrebbe se invece di una valutazione attiva, improntata al buon senso, attivassimo una vera censura sistematica?

Guardiamo cosa potrebbe accadere, nello schema seguente:

La tendenza di comportamento diventa importante da valutare quando ci sono delle contraddizioni tra ciò che penso, ciò che percepisco e il mio comportamento. Da queste contraddizioni possono scaturire grandi forme di sofferenza: pensiamo alla censura sistematica della rabbia in una persona poco assertiva. La rabbia è un’emozione primaria molto potente che tende a reagire male all’accumulo sistematico: trova sempre una sua forma di espressione, magari sfruttando da una parte l’esperienza di vita, e dall’altra una comune reazione fisiologica come con l’ansia.

Spesso si osservano C di ansia, insieme a crisi di panico, in persone che hanno un ABC simile allo schema sopra descritto: l’ansia tende ad essere più socialmente accettata della rabbia, e nella storia familiare potrebbero esserci dei vissuti congruenti che avrebbero contribuito negli anni a raccontarsi come “soggetto ansioso”, sdoganando il vissuto ansioso rispetto a quello rabbioso.

Riprendiamo lo schema (Schema 5):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 5

Schema 5

La tendenza di comportamento ci dà la possibilità di riflettere sui giudizi censurati, e sulle motivazioni della censura. Abbiamo una finestra sulla “scatola nera” della nostra mente, e la possibilità di risolvere le contraddizioni che ci portano a soffrire.

Prendendo la persona dell’esempio, potremmo immaginare che sia abituata a raccontarsi come ansiosa, e che abbia una grossa ansia da prestazione conseguente. Questa persona potrebbe avere più dimestichezza con l’ansia che con la rabbia, dirottando le attivazioni fisiologiche più intense verso l’ansia e continuando così a perpetrare l’immagine di se stessa come soggetto ansioso, magari in accordo ad una storia familiare di ansia condivisa.

In questo caso, sdoganando e normalizzando gli effetti comportamentali della rabbia si ha la possibilità di arricchire la propria immagine di sé e delle proprie emozioni guadagnandosi il diritto nel provarle. Arricchire il bagaglio delle emozioni provate, consente anche di guadagnare flessibilità nel comportamento: ad esempio riconoscendo le mie reazioni come rabbiose e validando l’ingiustizia sottostante posso decidere di adottare un comportamento “di mezzo” tra la reazione violenta e la sottomissione plateale.

 

Nutrizionista e dietista – Come e quando fare l’invio ad uno psicoterapeuta

Ad oggi, le cause dei disturbi alimentari non sono ancora del tutto note. Ciò che la ricerca ha finora dimostrato è che tali problematiche derivano dalla combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio ambientali.

 

Tuttavia, nei disturbi alimentari, i fattori di rischio sono unicamente di tipo “potenziale” mentre non sono ancora stati ritrovati quelli “causali”. La differenza tra le due tipologie è che i primi (quelli “potenziali”) incrementano unicamente il rischio di sviluppare il disturbo. L’assenza dei secondi (“causali”) è invece un fattore protettivo in grado di diminuire il rischio di sviluppo di una determinata patologia o di un disturbo.

Tra i fattori potenziali di rischio dei disturbi alimentari ritroviamo, tra i tanti, le diete, specie negli adolescenti normopeso. Studi dimostrano infatti che le adolescenti donne di 15 anni che seguono diete corrono un rischio di 8 volte superiore rispetto ai controlli di manifestare un disturbo dell’alimentazione nell’anno seguente. Altri studi evidenziano come gli adolescenti a dieta rischiano 18 volte in più rispetto ai coetanei non a dieta, anche se si tratta di regimi dietetici solo lievemente ipocalorici.

In aggiunta, sempre secondo gli studi, le diete sono correlate all’aumento di alimentazione incontrollata. Tale relazione è ancora più valida per quei regimi dietetici basati sul digiuno intermittente. Le 6 o le 14 ore successive ad un periodo di digiuno sono infatti maggiormente a rischio di alimentazione incontrollata. Ciò deriva dal fatto che le diete (ed il digiuno) determinano una riduzione del triptofano, precursore della serotonina che altera i segnali di fame e di sazietà.

È dunque importante che i dietologi, i dietisti e i nutrizionisti conoscano i disturbi alimentari e siano sensibili e attenti a tali problematiche. È inoltre essenziale che le figure professionali che si occupano di alimentazione sappiano riconoscere gli eventuali campanelli di allarme affinché evidenzino i pazienti con difficoltà alimentari per inviarli (per i motivi discussi in precedenza) ad uno psicoterapeuta o ad una figura formata nella cura dei disturbi alimentari.

Ecco dunque di seguito alcune informazioni che ogni esperto di nutrizione dovrebbe raccogliere durante il primo incontro anamnestico per valutare un eventuale “passaggio di consegne”.

Informazioni per valutare la possibile presenza di disturbi alimentari

1. Sesso: particolare attenzione va posta alle donne. Sono infatti i soggetti di sesso femminile ad essere più frequentemente colpiti dai disturbi dell’alimentazione. La motivazione potrebbe risiedere nel fatto che le donne sono più socialmente spinte (rispetto agli uomini) alla magrezza e basano maggiormente il proprio valore sull’aspetto fisico, sono pertanto più portate ad intraprendere percorsi nutrizionali.

2. Età: studi dimostrano che il doppio picco di insorgenza dell’anoressia nervosa è di 14-15 e 18 anni; 17-18 è invece quello della bulimia nervosa. Le età più delicate sono dunque quelle dell’adolescenza e della prima età adulta. Età in cui frequentemente vengono iniziate diete (spesso “da autodidatta”) con lo scopo di perdere peso in seguito, tra le varie cause, ai cambiamenti corporei legati alla pubertà, alla tendenza a giudicarsi in base al proprio peso e alla volontà di avere controllo in almeno un ambito della propria vita.

3. Precedenti percorsi nutrizionali o diete “fai da te”: per tutti i motivi discussi in precedenza è bene indagare la presenza di precedenti percorsi (anche “autosomministrati”) volti a modificare il proprio peso corporeo. Inoltre, dati da non trascurare sono il peso ed il BMI “pre-dieta”. Così facendo si valuta se dietro alla necessità di perdita di peso risiedessero anche motivazioni legate ad esigenze mediche (es. BMI elevato) oppure vi fosse unicamente una spinta verso l’ideale di magrezza.

4. Recenti cambiamenti di peso: tra i vari aspetti è utile indagare la storia poderale e, in caso di soggetti di sesso femminile, il peso al menarca. Particolare attenzione va posta ai cambiamenti recenti di peso. È bene dunque chiedere se nell’ultimo periodo si sono verificate perdite di peso più o meno importanti (anche involontarie) e, in caso di risposta affermativa, il peso di partenza facendo attenzione se il soggetto si trovava all’esordio in una condizione di normopeso (BMI≥18.5). Infine, se allo stato attuale il soggetto è sottopeso è importante monitorare la presenza di eventuali sintomi da malnutrizione (Minnesota Study). La loro individuazione permette infatti di valutare la necessità di coinvolgere anche il medico di base con le competenze necessarie per il monitoraggio di tali aspetti.

Campanelli di allarme per disturbi alimentari nello stile alimentare

Dopo aver indagato tali aspetti, è necessario approfondire lo stile alimentare del paziente affrontando gli aspetti elencati di seguito.

5. Presenza di una dieta rigida: chi ha problematiche con l’alimentazione tende a seguire diete rigide ed estreme con l’obiettivo di controllare il proprio peso e le proprie forme corporee. Lo scopo è infatti quello di perdere peso o di evitare un suo aumento. La modalità è però la messa in atto di comportamenti disfunzionali quali la restrizione quali-quantitativa e l’alimentazione ritardata ovvero saltare i pasti riducendoli in frequenza (es. consumare un solo pasto al giorno).

6. Presenza di alimenti evitati: fin dall’esordio i soggetti che soffrono di un disturbo alimentare tendono a modificare la propria alimentazione. Ciò comporta che gli alimenti che un tempo piacevano e che venivano consumati senza preoccupazione vengono rifiutati. Tali cibi sono, di norma, quelli contenenti carboidrati, i dolci e gli alimenti trasformati e non composti da un unico ingrediente. La scelta ricade dunque su altri cibi che sono tendenzialmente quelli additati come “salutari”. Ciò che è utile cercare di indagare è la motivazione per la quale vengono esclusi, per gusto o per il sottostante timore che tali alimenti possano incidere sul peso o possano condurre ad un episodio di perdita di controllo?

7. Presenza di regole dietetiche: è buona norma cercare inoltre di individuare la presenza (o meno) di regole dietetiche che generalmente riguardano come, cosa, quando e quanto mangiare. Tra queste, possiamo ritrovare: spezzettare il cibo in piccoli bocconi, mangiare solo alimenti che contengono meno di un certo numero di calorie, non mangiare dopo un determinato orario e mangiare meno degli altri.

8. Presenza di perdite di controllo/alimentazione sregolata: ovvero l’assunzione di una quantità di cibo (più o meno abbondante) associata alla sensazione di perdita di controllo. Può essere inoltre presente un’alimentazione eccessiva, in particolare in momenti “extra-pasto”, ovvero il consumo di una grande quantità di cibo senza però la sensazione di perdita di controllo. È utile indagare tali comportamenti perché possono essere il “sintomo” di una restrizione precedente.

9. Esercizio fisico intenso: una grande parte di persone con disturbi dell’alimentazione pratica un esercizio fisico eccessivo che, per durata, frequenza ed intensità, è superiore rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida (150-300 minuti settimanali di attività fisica di moderata intensità). Tale esercizio viene spesso vissuto come essenziale ed obbligatorio, anche in condizioni “avverse” (es. pioggia, slogature…) e pertanto viene definito anche compulsivo. Durante il primo colloquio è utile indagare anche questo aspetto poiché può essere un indizio di un rapporto poco sereno con il cibo e il proprio corpo.

10. Motivo della visita: forse di primaria importanza è bene sempre chiedere il motivo della visita e gli obiettivi che si vogliono ottenere cercando di captare anche il “non-detto”. Al di là della richiesta, del BMI del soggetto, della sua età, del sesso e dalla necessità medica (reale o meno) di lavorare sul peso corporeo è bene indagare se sono presenti forti preoccupazioni legate al proprio peso e alle forme corporee. Tendenzialmente, chi soffre di disturbo dell’alimentazione ha un forte timore di aumentare di peso mentre ha una persistente tendenza alla magrezza e al voler raggiungere un peso (sempre più) basso.

Come procedere in caso di sospetto disturbo alimentare

Cosa dovrebbe dunque fare un esperto di nutrizione dopo aver indagato tutti questi aspetti? Dovrebbe valutare se può prendere in carico autonomamente il paziente o se è al contrario necessario chiedere il supporto di uno psicoterapeuta. Se infatti alcuni (e non necessariamente tutti) di questi punti dovessero essere presenti si ritiene necessario il supporto di una figura in grado di lavorare sugli aspetti emotivi e cognitivi.

Per farlo è buona norma coinvolgere il paziente nella decisione, spiegando le proprie motivazioni e aiutandolo a comprenderne il razionale. Se il paziente dovesse mostrarsi d’accordo, gli si forniscono i contatti dei colleghi in modo tale che sia lui stesso a chiamare lo psicoterapeuta prescelto. È inoltre molto importante che, sempre in accordo con il paziente, le due figure (dietista e psicoterapeuta) facciano un “passaggio di consegne” e si tengano in contatto per tutta la durata della terapia.

Qualora il paziente dovesse mostrarsi titubante o addirittura oppositivo rispetto all’invio ad uno psicoterapeuta, il dietista può valutare ugualmente la presa in carico con però la consapevolezza di dover porre estrema attenzione. Potrà successivamente provare a riproporre al proprio paziente il percorso psicoterapico quando i tempi saranno “maturi”.

Infatti, per una completa presa in carico e per una remissione completa del disturbo, gli studi dimostrano la forza dell’équipe multidisciplinare formata, nel caso di problematiche alimentari da dietista, psicoterapeuta e psichiatra. Si tratta di professionisti differenti che (co)operano per il benessere del paziente fornendo il proprio contributo in base alle proprie competenze. In questo modo è possibile trattare la psicopatologia a 360° lavorando sui fattori di mantenimento, sulla normalizzazione eventuale del peso, sulle abitudini alimentari (alimenti evitati e regole dietetiche) fornendo le strategie non unicamente per il breve termine ma anche per la prevenzione di eventuali ricadute. In questo modo il paziente è infatti posto al centro del trattamento e si lavora con e per lui come una grande squadra.

 


 

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione (2021) – Recesione

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione costituisce una disamina completa del costrutto di ansia, proponendone una definizione generale e un inquadramento diagnostico accurato, per poi delineare i principali trattamenti psicofarmacologici.

 

Nella premessa, viene introdotta l’essenziale distinzione tra ansia normale o funzionale e ansia patologica o disfunzionale, in base a vari parametri quali la situazione, l’intensità e la durata: uno stato d’ansia normale è uno stato affettivo-emozionale fisiologico di fronte ad un pericolo o ad un agente stressogeno, necessario all’organismo per sviluppare l’energia essenziale a fronteggiare la situazione; l’ansia patologica, invece, è una risposta caratterizzata da un’eccessiva intensità, una lunga durata, e dalla sua comparsa in corrispondenza di eventi ritenuti normalmente non pericolosi, che interferisce negativamente con la prestazione richiesta al soggetto in quella situazione specifica.

Dal latino “angere” (stringere), il termine ansia veicola con chiarezza la sensazione di oppressione e la percezione di tensione vissuta da chi soffre di disturbi legati al suo spettro (Castrucci, 2021).

Castrucci delinea le basi neurobiologiche dello stato ansioso, sottolineando come le diverse manifestazioni psicosomatiche dell’ansia si realizzino attraverso diversi circuiti neuronali. Le principali zone cerebrali coinvolte sono state identificate in alcune strutture sottocorticali, quali il talamo e l’amigdala.  L’amigdala è una struttura centrale per la modulazione degli stati ansiosi, in quanto possiede numerose connessioni con strutture corticali e limbiche coinvolte nella risposta neuroendrocrina allo stress (Castrucci, 2021).

Successivamente, un capitolo viene dedicato all’indagine dell’ansia in ambito medico, chirurgico ed odontoiatrico, soffermandosi sull’ipotesi, supportata da vari studi, che l’ansia possa intensificare la percezione del dolore. Risulta essenziale una gestione ottimale dell’ansia in ambito medico-chirurgico, in quanto i soggetti che sperimentano elevati livelli di ansia preoperatoria vivono un’esperienza di forte dolore nella fase post-operatoria tale da richiedere alte dosi di farmaci analgesici (Castrucci, 2021). Inoltre, l’ansia, come reazione di stress, induce un aumento dei livelli di cortisolo e adrenalina che comporta un’immunodepressione nel post-operatorio, aumentando il rischio di infezioni. A tal proposito, vengono proposte alcune tecniche di immaginazione guidata che favoriscono la diminuzione dell’ansia preoperatoria e conseguentemente il dolore post-operatorio. Castrucci (2021) evidenzia come l’ansia sia una problematica significativa anche negli ambulatori dentistici, in quanto colpisce il 10-20% degli adulti e fino al 43% di bambini e adolescenti (Gordon et al., 2013; Shim et al., 2015).

Segue una disamina dell’eziopatogenesi dei disturbi d’ansia, prendendo in esame la teoria genetica, la teoria psicobiologica e le principali teorie psicologiche che si rifanno al modello cognitivo (cognitivo- comportamentale, cognitivo-evoluzionista, cognitivo-costruttivista) e al modello psicodinamico.

A seguito, viene proposto un puntuale inquadramento diagnostico dei disturbi d’ansia, secondo il DSM-5, il manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, e in base all’ICD, la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati.

Castrucci (2021) sottolinea come circa un terzo della popolazione, (cioè il 27 % degli abitanti di età compresa tra i 18 ed i 65 anni), ha sofferto almeno una volta nella vita di un disturbo d’ansia, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Numerosi i fattori di rischio: questi disturbi colpiscono in maggior misura il sesso femminile, di giovane età, con una condizione socio-economica difficile e un livello istruttivo basso, single o divorziati. Si segnala come gli eventi con un carico stressogeno forte insieme ai maltrattamenti subiti in giovane età costituiscono a loro volta importanti fattori di rischio.

Il capitolo dedicato ai disturbi d’ansia nel DSM-5 è strutturato evolutivamente, con i disturbi in sequenza secondo l’età d’esordio (Black, D. W., & Grant, J. E., 2014).

Troviamo inizialmente il disturbo d’ansia di separazione, che segnala una reazione d’ansia eccessiva alla separazione dalla figura genitoriale di riferimento, e il mutismo selettivo, che indica una continua incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche, sebbene risulti possibile farlo in altre circostanze.

Segue la fobia specifica, che indica una reazione d’ansia marcata e un’istintiva reazione di fuga, di fronte a un oggetto o una situazione specifica (es. la paura del buio, nei bambini; la paura di volare, negli adulti), e la fobia sociale, anche definita disturbo d’ansia sociale, in quanto contraddistinta da una reazione ansiosa molto intensa che riguarda una singola o diverse circostanze sociali ben definite dove si può essere osservati dagli altri (es. parlare in pubblico). Interessante la distinzione proposta dal DSM 5, che definisce due tipologie di ansia sociale: se i sintomi si presentano solo quando un soggetto deve effettuare una performance pubblica, allora si parla di “disturbo d’ansia sociale correlato alle performance” (es. per musicisti, ballerini, atleti); nei casi in cui il disturbo si manifesti in modo indiscriminato anche in altre situazioni sociali, allora si impiega la denominazione di “disturbo d’ansia sociale”.

L’agorafobia (dal greco “agorà”, ossia “piazza”, e “phóbos”, cioè “paura”) segnala un forte timore di situazioni prive di una via di fuga, ovvero senza possibilità di uscita rapida e rifugio sicuro (es. viaggiare sui trasporti pubblici, stare in spazi aperti e/o chiusi, in mezzo alla folla).

Se il DSM-IV-R collegava la diagnosi di agorafobia al disturbo di panico, il DSM 5 propone di distinguere i due disturbi, per cui presenta il disturbo di panico e l’agorafobia.

Il disturbo di panico si riferisce alla presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, dove per attacco di panico intendiamo la comparsa improvvisa di una forte sensazione di paura e un disagio intenso, accompagnati da alcuni sintomi quali le palpitazioni, una forte sudorazione, tremori, senso di soffocamento e asfissia, paura di morire.

È bene precisare che gli attacchi di panico possono verificarsi nel contesto di qualsiasi disturbo d’ansia così come all’interno di altri disturbi mentali (es. depressivi); quando viene individuata la loro presenza, tale condizione dovrebbe essere rilevata come uno specificatore, per es. disturbo da stress post-traumatico con attacchi di panico (Black, D. W., & Grant, J. E., 2014).

Segue poi il disturbo d’ansia generalizzata, che segnala una condizione di preoccupazione persistente nei confronti di eventi e attività diverse, eccessiva nell’intensità, durata o frequenza rispetto alle reali probabilità o all’impatto dell’evento temuto.

Infine, sono presenti quattro categorie diagnostiche di disturbo d’ansia, quali il disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci, il disturbo d’ansia dovuto a un’altra condizione medica, e la categoria disturbo d’ansia con altra specificazione e disturbo d’ansia senza specificazione.

Ampio spazio è dedicato al trattamento dei disturbi d’ansia, attualmente fondato sulla farmacoterapia, sulla psicoterapia e sull’approccio combinato. Inoltre, vengono indicate una serie di strategie di prevenzione all’insorgere dell’ansia e dello stress: tecniche di rilassamento, come il training autogeno (TA) messo a punto, agli inizi del ‘900, dallo psichiatra tedesco Schultz, che consiste in una serie di esercizi di concentrazione che si focalizzano su diverse zone corporee, allo scopo di ottenere un generale stato di rilassamento sia a livello fisico che psichico; tecniche di riabilitazione respiratoria, come il metodo Buteyko volto a normalizzare la respirazione e mantenere un corretto quantitativo di CO2 polmonare (Castrucci, 2021).

Interessante l’algoritmo proposto da Murray BS. e Jitender S., algoritmo per il trattamento e la gestione dei disturbi d’ansia:

Gli aspetti multidisciplinari dell ansia patologica 2021 Recensione del libro Fig 1

Un’ansia di stato di lieve e moderata entità può essere, inoltre, trattata con la medicina complementare alternativa (CAM), che include alcune strategie non comunemente usate dalla medicina occidentale. L’agopuntura, l’omeopatia e la fitoterapia sono ritenuti i più efficaci, oltre che maggiormente usati, tipi di CAM.

 

The Mind Dispatch: il canale Telegram di State of Mind

State of Mind lancia un canale Telegram: “The Mind Dispatch” per ricevere aggiornamenti in tempo reale dalla nostra redazione.

 

È nato The Mind Dispatch, ovvero il nuovo canale Telegram di State of Mind. Un esperimento della redazione di State of Mind per portare l’immediatezza e la facilità d’uso delle notifiche da app ai nostri lettori. Gli iscritti riceveranno gli aggiornamenti su tutti gli articoli pubblicati nella giornata in modo selettivo e veloce: una notifica avviserà quando un nuovo articolo viene pubblicato e a portata di un solo clic si potrà accedere direttamente al contenuto.

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Quando l’empatia porta all’insight

In psicologia, l’insight è la capacità di riconoscere (insight psichico) e di accettare la propria malattia mentale (insight emotivo) (Thirioux et al., 2020).

 

La mancanza di insight, cioè l’essere inconsapevoli della propria condizione psicologica, si riscontra in modo frequente in condizioni psichiatriche (Thirioux et al., 2020) come schizofrenia (Medalia e Thysen, 2008), disturbi da uso di sostanze o comportamenti dipendenti (Goldstein et al., 2009; Moeller & Goldstein, 2014) e disturbo ossessivo-compulsivo (Foa et al., 1995). Tale inconsapevolezza si osserva anche in disturbi neurologici come trauma cranico (Prigatano et al., 2005), ictus (Jehkonen et al., 2006; Orfei et al., 2007) e morbo di Alzheimer (Antoine et al., 2004). I pazienti non sono in grado di etichettare i propri eventi mentali come anormali e non identificano le conseguenze della malattia, tantomeno acconsentono alle cure o ai trattamenti (David, 1990; Markova & Berrios, 1995; Amador et al., 1991; Bedford et al., 2012). L’insight può essere sviluppato grazie all’adozione di una prospettiva obiettiva sulle proprie esperienze soggettive (Thirioux et al., 2020; Lewis, 1934; David, 1990; Langdon & Ward, 2009), facendo affidamento su una combinazione tra l’autoriflessione intatta e la capacità cognitiva di cambiare prospettiva. Nello specifico, l’insight richiede l’empatia, definita come “la capacità cognitiva di adottare la prospettiva dell’altro che, se intatta, contribuisce alla capacità metacognitiva di riflettere sulla propria salute mentale dal punto di vista dell’altro” (Langdon & Ward, 2009).

Thirioux e colleghi (2020) hanno proposto un modello utile a spiegare questi meccanismi disfunzionali. Hanno postulato che l’associazione tra autoriflessione compromessa e capacità empatica ha un impatto negativo sull’insight. Hanno definito il processo dell’oggettivazione, derivante da processi eterocentrici empatici e cognitivi, come un punto di vista oggettivo su se stessi che permette di riconoscere il proprio disturbo, influendo così sull’insight psichico (Thirioux et al., 2020). Il processo della soggettivazione deriva, invece, da processi affettivi empatici, poiché sperimentare affettivamente il pensiero di un’altra persona su se stessi rafforza l’adesione del sistema emotivo, utile a valutare e a riconoscere il proprio disturbo (Thirioux et al., 2020).

Insight e teoria della mente

La teoria della mente (ToM) è la capacità di riconoscere il pensiero o le emozioni altrui al fine di prevedere un comportamento (Chakrabart & Baron-Cohen, 2013). Gli autori hanno applicato tale modello a diverse condizioni psichiatriche, tenendo in considerazione il limite della ToM in alcuni disturbi come la schizofrenia (Langdon & Ward, 2009). Per l’appunto, durante episodi acuti, i risultati ottenuti mostrano come ci sia un crollo totale delle capacità empatiche in pazienti affetti da schizofrenia, con un conseguente effetto deleterio sull’insight (Thirioux et al., 2020). I pazienti schizofrenici con sintomi negativi non sono in grado di empatizzare spontaneamente con altre persone in quanto ipofunzionanti, cioè deficitari nell’assunzione di prospettive visuo-spaziali eterocentriche, mentre i soggetti schizofrenici con sintomi positivi mostrano un processo di oggettivazione alterato, con un conseguente impatto negativo sull’insight (Thirioux et al., 2020). Per quanto riguarda il disturbo bipolare, i risultati mostrano come i pazienti in fase maniacale hanno un’empatia affettiva maggiore rispetto ai pazienti in fase depressiva (Shamay-Tsoory et al., 2009; Cusi et al., 2010; Bodnar & Rybakowski, 2017). È stato ipotizzato come questo effetto possa dipendere dalle eccessive reazioni affettive empatiche dovute ai disturbi legati all’inibizione delle emozioni e alla persistenza di emozioni positive (Gruber, 2011, Thirioux et al., 2020). Infine, i risultati mostrano come i soggetti con un disturbo ossessivo compulsivo (OCD) con basso insight abbiano un processo di oggettivazione intatto e un processo empatico affettivo alterato, mentre i soggetti OCD senza insight hanno grandi difficoltà a disimpegnarsi da se stessi a causa dell’ipofunzionalità, cioè dall’utilizzo di una prospettiva visuo-spaziale eterocentrica (Thirioux et al., 2020).

Insight ed empatia

Per Thirioux e colleghi (2020), l’empatia comporta processi affettivi incarnati mentre la ToM si basa su caratteristiche simulative. Di conseguenza, l’empatia non è solo una simulazione cognitiva dello stato mentale di un’altra persona (Thirioux et al., 2020). Secondo i teorici della simulazione quando un individuo simula un’altra persona usa e proietta mentalmente i propri schemi percettivi, emotivi e cognitivi su qualcun altro (Goldman, 1992; Gordon, 1996; Harris, 1995). Tale proiezione può portare a errori dovuti da parte di pregiudizi egocentrici (Hoffman et al., 2016), mentre quando si empatizza viene inibita la tendenza a proiettare i propri schemi su terze persone (Thirioux et al., 2020). Con l’applicazione del modello su diversi disturbi psicologici, gli autori ipotizzarono che l’effetto negativo tra compromissione della propria autoriflessione e capacità empatiche sull’insight sia uno stato transnosografico, cioè la sintomatologia è insufficiente a individuare una specifica patologia (Thirioux et al., 2020). Hanno previsto anche un limite legato alla modulazione di tale effetto negativo da parte delle differenze endofenotipiche dei soggetti in questione. La raffinazione di tale modello potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapie cognitivo comportamentali adatte ad ogni malattia psichiatrica in ciascuna fase clinica, cioè prima insorgenza, episodio acuto, stabilizzazione e remissione, per migliorare la qualità delle cure (Thirioux et al., 2020).

 

Binge eating e addiction: similitudini, differenze e implicazioni di trattamento

Il seguente articolo espone alcune teorie a favore del ritenere il binge eating una dipendenza, e teorie secondo le quali i due fenomeni sono da considerarsi separati e distinti, seppur con caratteristiche che li accomunano, per poi porre a confronto i trattamenti.

 

Una domanda sulla quale da molti anni gli studiosi si stanno interrogando è se il binge eating possa considerarsi una forma di dipendenza, allo stesso modo della dipendenza da alcol e da sostanze. Sono, infatti, sempre più diffuse terminologie come “dipendenza da cibo” e “mangiare in modo compulsivo”, e queste definizioni hanno portato allo sviluppo di molti programmi di trattamento basati su tali presupposti. È opportuno però chiedersi se effettivamente questa connessione possa considerarsi realistica, al fine di proporre e implementare trattamenti adeguati e efficaci.

Con il seguente articolo vorrei, dopo aver descritto i termini “binge eating” e “dipendenze”, esporre in primo luogo alcune teorie e opinioni a favore del ritenere il binge eating una dipendenza, per descrivere in seguito teorie secondo le quali i due fenomeni sono da considerarsi separati e distinti, seppur con caratteristiche che li accomunano. Vorrei poi porre a confronto un trattamento che fa riferimento alle prime teorie (“Modello dei 12 Passi”) con un percorso cognitivo comportamentale che parte da presupposti molto diversi (CBT-E).

Binge eating

Il termine binge era utilizzato in passato dalla maggior parte delle persone con un solo significato: bere in eccesso. Oggi, invece, il termine è utilizzato per indicare il mangiare in eccesso. Secondo gli studiosi, le abbuffate hanno due elementi in comune: la quantità di cibo assunta è percepita come eccessiva e in quel momento la persona ha la percezione di perdere il controllo. Per molte persone un’abbuffata è qualcosa di assolutamente innocuo, un cedimento o un eccesso alimentare, che avviene una volta ogni tanto e che non presenta conseguenze e ripercussioni a livello psicologico e fisico. Per altre, tuttavia, essa rappresenta una parziale o totale perdita di controllo sul cibo e può portare a gravi danni fisici e psicologici. Oltre alle caratteristiche descritte sopra, possiamo descriverne altre (Fairburn, 2013):

  • Sensazioni: il gusto e la consistenza del cibo possono risultare, inizialmente, piacevoli, ma si trasformano poi in sensazioni di disgusto verso se stessi per quanto si sta mangiando.
  • Velocità dell’assunzione di cibo: durante l’abbuffata le persone mangiano spesso molto in fretta e in modo meccanico, masticando a malapena.
  • Agitazione: le persone sono spinte ad abbuffare da un desiderio persistente e irresistibile (craving), al quale difficilmente riescono ad opporsi.
  • Sensazione di alterazione della coscienza: spesso le persone descrivono di essere come in trance durante un’abbuffata, di non pensare a nulla in quel momento, se non al cibo.
  • Segretezza: le abbuffate avvengono tendenzialmente in segreto, dal momento che le persone si vergognano molto di questo comportamento e tendono a nasconderlo, anche per anni.
  • Perdita di controllo: l’esperienza di non avere il controllo sul comportamento è uno degli elementi che caratterizza il disturbo e che lo differenzia da una normale alimentazione in eccesso.

Dipendenze

La presenza di un disturbo correlato a sostanze si caratterizza per un uso continuativo nonostante l’insorgenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che generano un elevato grado di difficoltà e una compromissione a livello psicosociale (Calamai, 2018). Un’altra importante caratteristica risiede nell’alterazione che il consumo provoca a livello neuronale e che si esprime nelle numerose ricadute e nell’intenso desiderio di assumere la sostanza.

A prescindere dal tipo di sostanza, le dipendenze patologiche presentano un insieme di comportamenti caratteristici elencati nei seguenti criteri (Marazziti et al., 2015):

  • Tolleranza: fenomeno per il quale è necessario incrementare l’uso della sostanza al fine di ottenere i medesimi effetti sull’organismo.
  • Astinenza: presenza di sintomi fisici o emotivi nel momento in cui il soggetto interrompe l’assunzione della sostanza.
  • Compromissione delle attività sociali, lavorative o ricreative: questo aspetto incide negativamente sul funzionamento e sull’umore della persona.
  • Ridotte capacità di controllo sull’uso della sostanza: la persona ne fa un uso eccessivo o la assume per periodi di tempo più lunghi del previsto (carattere compulsivo del comportamento); è inoltre presente il desiderio di smettere o ridurne l’uso, associato a tentativi che non riscuotono successo.
  • Craving: un intenso desiderio della sostanza che può manifestarsi in qualunque momento, ma è più probabile avvenga in presenza di stimoli associati alla stessa.
  • Utilizzo rischioso della sostanza: la persona ne fa uso in situazioni fisicamente rischiose (ad esempio: alla guida); il consumo non viene interrotto nonostante provochi ricorrenti problemi fisici o psicologici.

Binge eating come dipendenza: “food addiction”

My drug of choice is food. I use food for the same reasons an addict uses drugs: to comfort, to soothe, to ease stress – Oprah Winfrey

Secondo la teoria che vede il binge eating come una forma di dipendenza, esso è il risultato di un processo fisiologico sottostante analogo a quello responsabile dell’alcolismo (Dalle Grave, 2019). Secondo tale teoria, le persone che si abbuffano sono biologicamente vulnerabili e sensibili di fronte a certe tipologie di alimenti e, di conseguenza, ne diventano “dipendenti”. (Gearhardt, Davis, Kuschner & Brownell, 2011). Inoltre, l’osservazione delle immagini di risonanza magnetica delle persone con Binge Eating Disorder ha mostrato un’alterazione nel sistema della dopamina, simile a quanto si osserva nelle risonanze magnetiche delle persone con una dipendenza da sostanze (Hadad & Knackstedt, 2014).

I risultati neurobiologici hanno portato a proporre che nelle persone sane il sistema di ricompensa è autoregolato in modo tale da consentire un adeguato controllo inibitorio nei confronti del consumo di sostanze o del cibo in eccesso. Al contrario, nelle persone in cui questo sistema è disregolato, ci sarebbe la tendenza ad avere meno controllo sull’assunzione di sostanze o cibo per un deficit nel sistema della ricompensa (Dalle Grave, 2021). Da questi studi emerge dunque che le persone che presentano episodi di abbuffata non sono in grado di controllare l’assunzione del cibo (come le persone che abusano non sono in grado di controllare l’assunzione della sostanza) e da ciò ne consegue che il loro consumo aumenta progressivamente.

Possiamo dunque sicuramente trovare delle analogie tra il binge eating e le dipendenze classiche, come l’abuso di alcol e di sostanze, e molte persone si concentrano su queste somiglianze per sostenere la teoria del food addiction. I punti evidenziati da questa corrente di pensiero sono i seguenti:

  • Sensazione di perdere il controllo su tale comportamento
  • Pensieri e preoccupazioni fissi sull’alimentazione
  • Negare la problematicità del comportamento
  • Percepire la voglia irrefrenabile (craving) e il bisogno di mettere in atto il comportamento
  • Tentativi ripetuti di interrompere il comportamento, senza risultati
  • Utilizzare il comportamento per alleviare emozioni negative
  • Il soggetto persiste nel comportamento disfunzionale, nonostante le conseguenze negative.

Binge eating e addiction: le differenze

Le somiglianze che sono state esposte sopra sono, tuttavia, parziali, e il concentrarsi solo sulle somiglianze non consente di soffermarsi su alcune differenze, altrettanto importanti (Fairburn, 2013; Belloli, 2021):

Il binge eating non implica il consumo di una particolare tipologia di alimenti (Wilson, 2010). Qualora il binge fosse una dipendenza, i pazienti tenderebbero a scegliere alimenti specifici che, appunto, danno dipendenza (ad esempio, i dolci). L’elemento che caratterizza le abbuffate è, invece, la quantità di cibo, piuttosto che la qualità.

Le persone che si abbuffano cercano di evitare tale comportamento. Una delle caratteristiche principali di chi abbuffa (a accezione di chi soffre di Binge Eating Disorder) è il costante tentativo di ridurre la quantità di cibo ingerito, attraverso diete ferree, digiuno, metodi di compenso, onde evitare l’aumento ponderale (tentativi che in realtà mantengono la problematica alimentare). L’abbuffata è vissuta con sentimenti di sconforto, colpa e rabbia perché è il risultato del fallimento di questi tentativi estremi e rigidi di controllo sull’alimentazione. Nelle persone che abusano di sostanze accade l’opposto: non vi è alcuna motivazione intrinseca a evitare o interrompere l’utilizzo della sostanza. Uno degli obiettivi principali dei programmi di cura è dunque proprio quello di problematizzare il comportamento e di far giungere la persona alla consapevolezza di aver bisogno di aiuto.

Le persone che abbuffano presentano una psicopatologia specifica, data dall’Eccessiva Valutazione del peso e della forma del corpo e da tutti gli elementi che la formano e la mantengono (check del corpo, evitamenti, sensazione di essere grassi). Questa psicopatologia svolge un ruolo di primaria importanza nel mantenere il disturbo alimentare e gli episodi di abbuffata. Differentemente, chi utilizza sostanze non presenta una psicopatologia specifica comune.

La relazione tra abbuffate e abuso di sostanze non è specifica. Alcuni studiosi riportano che i tassi di abuso di alcol e sostanze sono sproporzionatamente alti tra i soggetti che abbuffano; in realtà, i risultati scientifici affermano che i tassi non sono più elevati di quelli riscontrati nei soggetti affetti da altri disturbi psichiatrici.

Alcuni studiosi, con l’obiettivo di chiarire il legame tra assunzione di cibo in eccesso e uso di sostanze, hanno condotto studi neurobiologici di confronto tra soggetti con obesità e soggetti normopeso, ma i risultati non appaiono significativi; infatti, non ci sono studi che ad oggi hanno dimostrato che esista una sensibilizzazione neurale al cibo.

Nel 2001 uno studio con la tomografia a emissione di positroni (PET), in un gruppo di soggetti con obesità, ha dimostrato la presenza di una riduzione dei recettori striatali D2R della dopamina, negativamente correlato con l’Indice di Massa Corporea (Wang et al., 2001): questo dato potrebbe indicare uno stato di deficit di ricompensa, la quale porterebbe a una maggiore assunzione di cibo in soggetti che presentano una condizione di obesità, per ottenere lo stesso livello di ricompensa percepito dai soggetti che sono normopeso. I dati dello studio non rilevano però se i cambiamenti nei ricettori possano essere una causa o una conseguenza dell’obesità e anche studi successivi hanno prodotto risultati non significativi (Ziaudden, Farooqi & Fletcher 2012).

Due modelli a confronto: il “Modello dei 12 Passi” e la CBT-E

Il trattamento che deriva dal modello teorico della dipendenza, basato sulla metodologia di intervento degli “Alcolisti Anonimi”, viene chiamato anche “Overeaters Anonymous” o “Modello dei 12 Passi” ed è un programma diviso in dodici fasi rivolto a tutte le persone che presentano comportamenti compulsivi verso il cibo (Elisabeth, 2010).

I principi sottostanti a tale trattamento sono in totale disaccordo con l’approccio terapeutico che invece si è dimostrato essere il più efficace nel trattare questa tipologia di disturbi, ovvero la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E). Possiamo così riassumere le principali differenze tra i due percorsi di cura:

  • Secondo l’Approccio degli “Overeaters Anonymous” non esiste una cura, essendo l’abbuffata vista come una malattia cronica e quindi destinata a peggiorare nel corso del tempo. Al contrario, il trattamento cognitivo comportamentale porta evidenze scientifiche secondo le quali la remissione completa del sintomo è possibile. Infatti, l’efficacia della CBT è stata supportata da revisioni sistematiche e meta-analisi (Hilbert et al., 2019), le quali hanno confermato che il trattamento determina la remissione degli episodi di abbuffata in circa il 50-55% dei pazienti e il miglioramento della psicopatologia del disturbo anche a lungo termine (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2020).
  • Il modello basato sulla teoria della dipendenza assume che l’astinenza immediata è fondamentale. I partecipanti al gruppo vengono invitati fin da subito a non assumere più cibi che possono portare a comportamenti compulsivi e ci sono regole molto rigide a riguardo (spesso le persone che non riescono in questo intento vengono invitate ad abbandonare il gruppo). L’approccio CBT-E si basa su presupposti completamente diversi; il percorso che porta a interrompere gli episodi di alimentazione incontrollata può richiedere diverso tempo, in base anche alle difficoltà soggettive. Si arriva a interrompere le abbuffate lavorando sui meccanismi di mantenimento del problema e quindi sulle regole dietetiche, sulla dieta ferrea, su eventi ed emozioni legate all’alimentazione. È un lavoro che viene portato avanti in modo collaborativo con il paziente, non si tratta dunque di un approccio coercitivo e direttivo (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2018).
  • Il “Modello dei 12 Passi” utilizza come strategia principale per il raggiungimento dell’astensione l’evitamento totale dei cibi che scatenano l’abbuffata. La CBT- E sostiene esattamente il contrario, ovvero che non esistono cibi vietati o tossici, e che sarà importante portare avanti un lavoro in direzione di una graduale reintroduzione di questi alimenti. Secondo le evidenze scientifiche, infatti, il tentativo estremo di privarsi e allontanarsi da un cibo porta a conseguenze opposte ed è uno dei fattori che possono portare all’abbuffata.
  • Infine, l’approccio che prende spunto dalle teorie che vedono il cibo come una dipendenza si basa sul pensiero dicotomico “tutto o nulla”, sostenendo che la persona o mantiene il controllo o lo perde totalmente e che i cibi o sono “sani” o sono “tossici”. La CBT-E, invece, si pone l’obiettivo fin da subito di discutere e mettere in discussione questo bias cognitivo, dal momento che risulta essere uno dei fattori che porta al perpetuarsi delle abbuffate. Se la persona impara a riconoscere un episodio di abbuffata come uno scivolone e non come un fallimento vero e proprio, riuscirà più facilmente ad affrontarlo, imparando da esso e non lasciandosi prendere dallo sconforto.

Conclusioni

Nonostante siano presenti delle somiglianze tra episodi di abbuffata e disturbo da uso di sostanze, ci sono differenze fondamentali tra le due condizioni che riguardano la psicopatologia, l’epidemiologia e i fattori di rischio (Dalle Grave, 2021). Ritengo, dunque, che intervenire sugli episodi di alimentazione incontrollata utilizzando un trattamento riconosciuto a livello di efficacia possa portare a una maggiore remissione del disturbo, soprattutto nel lungo termine, andando a lavorare anche sulla prevenzione delle ricadute e aiutando i pazienti a gestire in autonomia l’impulso ad abbuffare, fornendo loro una serie di strategie e procedure da portare avanti anche a trattamento concluso.

Penso che la maggior efficacia della CBT-E risieda anche nel fatto che va a lavorare su più fronti, affrontando da una parte le abitudini alimentari disregolate (reintroducendo l’alimentazione regolare), dall’altra lavorando sugli aspetti cognitivi che sono alla base del disturbo e che lo portano ad autoperpetuarsi (l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e tutti gli elementi che la costituiscono).

Il trattamento presso le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP-Milano Navigli)

Come già anticipato precedentemente la CBT-E, sviluppata dal Centre for Research on Eating Disorders at Oxford (CREDO) (Fairburn, 2008; Fairburn, Cooper & Shafran, 2003), è ritenuto ad oggi il trattamento per pazienti adolescenti e adulti con disturbi alimentari con più evidenze di efficacia ed è dunque raccomandato dalle linee guida NICE (2017). Originariamente il trattamento era stato progettato per i pazienti affetti da bulimia nervosa, ma successivamente è stato modificato per renderlo adatto a qualsiasi tipo di disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate. In generale, il trattamento comprende tre fasi distinte (Fairburn, 2003):

  • Fase 1: Creare una formulazione personalizzata della problematica alimentare, per favorire lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte della persona e aiutarla a distanziarsi dal suo problema; iniziare il lavoro di automonitoraggio quotidiano su pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali legati al cibo; introdurre l’alimentazione regolare, andando a diminuire gli episodi di abbuffata; educare la persona sul disturbo alimentare.
  • Fase 2: Affrontare le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e per il controllo dell’alimentazione; introdurre i cibi vietati nel regime alimentare regolare e, gradualmente, eliminare le forme di dieta; sviluppare le competenze per far fronte ad eventi ed emozioni che influiscono sull’alimentazione.
  • Fase 3: Acquisire strumenti e sviluppare risorse per ridurre al minimo il rischio di ricadute.

Il trattamento sopra descritto viene implementato presso le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP) a Milano. Di seguito troverete i contatti del Centro:

 

CONTATTI CIPda MILANO

  • Indirizzo: Ripa di Porta Ticinese 79, Milano
    Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10.
  • Telefono: 02 36725912
  • E-mail: [email protected]
  • Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19

 

 

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