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Giochi di carte collezionabili: l’importanza della competizione e della ricreazione

I giochi di carte collezionabili (GCC) sono una delle forme ludiche più popolari al giorno d’oggi.

 

Cosa sono i giochi di carte collezionabili

Giochi come Pokémon, Magic, Yu-Gi-Oh e the Gathering hanno un seguito enorme e forti sottoculture che li supportano. Questi giochi sono significativamente sottovalutati, insieme alla cultura dei giocatori, rispetto ai giochi da tavolo e i giochi di ruolo, supportati e analizzati da parte di numerose ricerche (Daynasti & Linuwih, 2021).

Yu-Gi-Oh è un gioco di carte collezionabili creato dalla società di giochi giapponese Konami nel 1999. Il gioco è stato localizzato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2002. Il gioco fa parte di un franchise multimediale più ampio, composto da più programmi televisivi, manga, film e altri giocattoli. Nel gioco di carte, ogni giocatore costruisce il proprio mazzo, ognuno con effetti e abilità differenti nel gioco. Ogni giocatore ha un totale di ottomila punti vita e l’obiettivo del gioco è esaurire quelli del proprio avversario. I giocatori lo fanno attaccando il loro avversario con delle ‘carte mostro’, che hanno valori di attacco diversi e i giocatori hanno accesso a carte incantesimo e carte trappola che consentono di utilizzare altre abilità utili nel gioco. Le abilità possono variare, ad esempio si può cercare una carta specifica nel proprio mazzo, costringendo così il proprio avversario a scartarne una (Daynasti & Linuwih, 2021). Gli effetti o le abilità di tutte le carte possono essere attivati ​​in tempi diversi, e talvolta anche durante il turno dell’avversario a seconda della carta. Il punto più importante è che i giocatori hanno accesso a innumerevoli abilità tra le migliaia di carte disponibili e che tali abilità possono essere applicabili praticamente in qualsiasi momento durante il gioco, ovviamente a seconda di ciò che è scritto sul testo della carta (Daynasti & Linuwih, 2021).

Cosa porta le persone a giocare ai giochi di carte collezionabili

Ma perché le persone giocano? Morteson, Sixsmith e Kaufman (2017) hanno osservato come il più grande vantaggio che le persone traggono dai giochi non digitali è l’interazione sociale che avviene tra i partecipanti. Hanno notato anche che ‘giocare per scappare dalla vita quotidiana’ è stata citata meno frequentemente rispetto al ‘divertimento’ e alla ‘stimolazione mentale’. Questo suggerisce che gli intervistati hanno giocato per i benefici positivi, piuttosto che come mezzo di evitamento (Morteson et al., 2017). Ciò era particolarmente vero per i giovani adulti nello studio, e potrebbe rivelarsi interessante per comprendere i giocatori di Yu-Gi-Oh.

Fattori esclusivi dei giochi di carte collezionabili che Billicent ha evidenziato sono il trading, l’investimento e l’espressione personale, aspetti del gioco che si intrecciano tra loro (Daynasti & Linuwih, 2021). Le interviste ai giocatori menzionano tutte il trading come un aspetto importante della comunità di gioco ed esprimono soddisfazione nel possedere e nel fare trading di carte preziose. In alcuni casi, le persone vendono carte invece di scambiarle semplicemente con altre. Billicent ha confrontato l’aspetto di investimento dei giochi di carte collezionabili con il ‘giocare in borsa per divertimento’ (Gee, 2014). Ito (2005) ha toccato anche il tema del commercio e della vendita di carte, notando che forma un’intera sottocultura all’interno delle comunità di giochi di carte collezionabili. Ha notato anche che la cultura commerciale esiste tra i bambini giocatori, anche se le carte considerate preziose tendenzialmente differiscono in modo notevole dalla comunità degli adulti (Daynasti & Linuwih, 2021). L’espressione personale è un altro aspetto unico dei giochi di carte collezionabili che Billicent osserva, derivante in parte dal fatto che i giocatori devono costruire i propri mazzi con le proprie collezioni di carte. Alcuni degli intervistati hanno espresso un senso di attaccamento personale ai loro mazzi e un senso di identificazione con loro e si è osservato come i giocatori tendano a identificarsi con lo stile di gioco o con le strategie coinvolte nei loro mazzi, più che con le immagini raffigurate sulle carte (Daynasti & Linuwih, 2021).

Adinolf e Turkay (2011) hanno indagato maggiormente le motivazioni che spingono le persone a giocare, hanno riportato quindi come sia la raccolta delle carte, sia le interazioni sociali, contribuiscano al mantenimento di un’attività ludica, evidenziando così l’importanza del gioco nell’apprendimento: la natura sociale dei giochi di carte collezionabili costituisce una via per l’insegnamento e per lo sviluppo di particolari abilità sociali. La necessità di insegnare ai nuovi giocatori le meccaniche di gioco è un modo in cui cooperare insieme, mentre altri aspetti come il trading possono aiutare i giocatori a sviluppare abilità di persuasione e negoziazione (Daynasti & Linuwih, 2021). Alcuni giochi di carte collezionabili possono anche aiutare a sviluppare abilità come la gestione delle risorse.

I giochi di carte collezionabili e i valori culturali nei giocatori: lo studio di Nagi e collaboratori

La raccolta dei dati per questo studio (Nagi, 2021) consiste nell’osservazione dei partecipanti, poiché questo metodo permette di adottare uno sguardo coinvolgente riguardo ai modelli e ai valori culturali. Un approccio etnografico è il modo migliore per scoprire la costruzione sociale del significato all’interno di una sottocultura, in particolare nell’ambito della teoria dei frame di Goffman, una lente per la comprensione delle costruzioni sociali integrate da metodi etnografici (Goffman, 1974). La teoria di Goffman (1974) suggerisce come le persone cercano di costruire differenti cornici attorno agli eventi, con lo scopo di dare un significato alle azioni (Nagi, 2021). Ogni persona opera così con più cornici in un dato momento, ma le azioni sono coerenti grazie alla cosiddetta struttura primaria (1974, 26). Mentre l’atto di inquadratura è importante per capire come viene creato il significato, l’atto di digitare è altrettanto importante, soprattutto nell’analisi del gioco. La digitazione differisce dall’inquadratura in quanto è la trasformazione del quadro primario (Goffman, 1974). Le prime osservazioni sono state svolte durante l’incontro settimanale dei giocatori di Yu-Gi-Oh all’interno di un negozio di giochi locale. Normalmente, il gruppo era composto da quattro o sei giocatori, tutti uomini tra i venti e i venticinque anni (Daynasti & Linuwih, 2021). Osservando le etichette applicate dai giocatori durante il gioco, il seguire le regole, il controllo sul proprio stile di gioco e sul mazzo altrui grazie alla familiarità con il proprio e la nostalgia per i mazzi GOAT, Nagi ha evidenziato come le strutture principali di Yu-Gi-Oh sono la competizione e la ricreazione. Il quadro della ricreazione riconosce Yu-Gi-Oh come una forma di intrattenimento. All’interno di questo quadro i giocatori sono riuniti con la pretesa condivisa di divertirsi giocando a Yu-Gi-Oh. Il secondo quadro è quello della concorrenza, dove i giocatori sono riuniti con l’obiettivo di vincere (Daynasti & Linuwih, 2021).

Queste strutture occasionalmente si oppongono l’una all’altra, ma attraverso il keying e altri insiemi di aspettative i giocatori riescono a bilanciare queste strutture e a conciliare questa dicotomia. Parallelamente, nella società i valori, i comportamenti e le aspettative della comunità lavorano in gran parte a sostegno di una o entrambe queste cornici e, a volte, lavorano per raggiungere un equilibrio tra queste ultime, come fanno i giocatori stessi (Daynasti & Linuwih, 2021).

 

Il tempo vola quando ci si diverte: come la motivazione influisce sulla percezione del tempo

Gable e Poole hanno ipotizzato che siano proprio gli stati ad alto tasso di motivazione a farci sentire come se il tempo stesse passando più rapidamente e hanno testato questa ipotesi in una serie di tre esperimenti.

 

È accaduto a tutti. Quando ci troviamo a una interminabile riunione di lavoro o quando siamo in fila alla cassa o seduti alla fermata ad aspettare l’arrivo dell’autobus o della metro, l’attesa appare infinita ed è come se il tempo rallentasse o addirittura si fermasse. Al contrario, nelle occasioni piacevoli e avvincenti in cui ci divertiamo, ad esempio se stiamo guardando la nostra serie TV preferita o trascorrendo una serata con gli amici, sembra che il tempo voli e acceleri.

È evidente che, anche se i secondi scorrono sull’orologio a un ritmo regolare, la nostra personale esperienza  e cognizione della ‘quarta dimensione’ è tutt’altro che uniforme (Association for Psychological Science, 2012).

La percezione del tempo è soggettiva

Numerosi studi hanno osservato che l’esperienza del tempo è soggettiva e gran parte delle ricerche fino ad oggi condotte hanno attribuito tale fenomeno agli effetti degli stati affettivi positivi e negativi (Droit-Volet & Gil, 2009).

Rispetto agli stati negativi, quelli positivi fanno sì che il tempo passato appaia come trascorso più velocemente, producendo una valutazione del tempo che viene percepito come più ‘corto’. Ciò avviene presumibilmente perché la valenza affettiva altera i processi di elaborazione temporale (Gable & Poole, 2012).

Ma quali meccanismi fanno in modo che durante gli eventi piacevoli il tempo sembri procedere più velocemente? I moderni modelli incentrati sulla dimensione della motivazione possono favorire una migliore comprensione dell’interazione affettività-cognizione.

Lo studio di Gable e Poole sull’approccio motivazionale e la percezione del tempo

Uno studio, condotto dagli psicologi Philip Gable e Bryan Poole dell’Università dell’Alabama, ha provato a spiegarlo, approfondendo le ragioni per le quali il tempo sembra accelerare quando ci si diverte e dall’altro ‘si allunga’ nei momenti noiosi e/o negativi (Gable & Poole, 2012). La principale scoperta del loro lavoro consiste nell’aver individuato che è vero che ‘il tempo vola’ quando ci si diverte, ma con una specifica: il divertimento deve essere goal-motivated, ossia orientato e finalizzato al perseguimento di precisi obiettivi. Come indicato dagli autori (Gable & Poole, 2012), infatti, la motivazione influisce sulla personale esperienza del tempo e, in particolare, può determinare la percezione di riduzione del tempo durante le situazioni piacevoli.

In primo luogo è importante precisare che non tutti gli stati positivi sono uguali, ma variano in intensità motivazionale. Alcuni, ad esempio i sentimenti di serenità o appagamento, presentano una bassa intensità motivazionale: dal momento che si attivano dopo che un obiettivo è stato raggiunto (postgoal affects) o in assenza di un obiettivo da raggiungere (goal-irrelevant affects), non spingono il soggetto a perseguire o ottenere qualcosa. Altri stati positivi, invece, ad esempio il desiderio o l’eccitazione, hanno una elevata intensità motivazionale: si attivano in caso di ricerca di un obiettivo (pregoal affects), come l’acquisizione di risorse biologicamente necessarie (acqua e cibo), la riproduzione o l’interazione sociale, e, di conseguenza, spingono ad andare avanti e conquistare (Gable & Poole, 2012).

Gable e Poole hanno ipotizzato che siano proprio gli stati ad alto tasso di motivazione a farci sentire come se il tempo stesse passando più rapidamente e hanno testato questa ipotesi in una serie di tre esperimenti.

Esperimento 1

Nella training phase i partecipanti sono stati addestrati a distinguere tra immagini mostrate per un periodo di tempo ‘breve’ (400 ms) o ‘lungo’ (1600 ms). Successivamente, nella testing phase, sono state loro mostrate immagini neutre (forme geometriche), positive a basso tasso di motivazione (fiori) o positive ad elevata intensità motivazionale (deliziosi dessert) e, per ogni immagine, è stato loro richiesto di indicare se l’immagine era stata visualizzata per un breve o lungo periodo di tempo.

L’Esperimento 1 ha dimostrato che i partecipanti hanno percepito che il tempo passasse più velocemente negli stati ad alto tasso di motivazione (dessert) rispetto a quelli neutrali (forme geometriche) e a quelli a bassa intensità motivazionale (fiori). A conferma dell’importanza della variazione dei livelli motivazionali, è stato, inoltre, appurato che i partecipanti che avevano mangiato di recente, abbassando, quindi, la loro motivazione verso il cibo, hanno giudicato le immagini dei dessert come se fossero state visualizzate per periodi di tempo più lunghi rispetto ai loro coetanei più affamati.

Esperimento 2

Ai partecipanti sono state mostrate immagini a elevata intensità motivazionale (deliziosi dessert). A metà di loro è stato detto che, terminata la visione delle immagini, avrebbe potuto consumare i dolci, mentre alla restante metà non sono state date ulteriori istruzioni.

L’Esperimento 2 ha evidenziato che i partecipanti hanno percepito che il tempo passasse più velocemente quando osservavano le immagini dei dessert con l’aspettativa di poterli consumare in seguito. In questo modo è stato possibile confermare che la motivazione influenza direttamente la personale percezione del tempo, suggerendo che il nostro desiderio di avvicinarci a qualcosa fa davvero volare il tempo.

Esperimento 3

Ai partecipanti sono state presentate delle immagini positive ad alto tasso di motivazione e delle immagini negative, che evocavano sentimenti altamente spiacevoli, ed è stato loro chiesto di giudicare se ciascuna delle immagini venisse proiettata per un breve o lungo periodo di tempo. I partecipanti hanno indicato che, a parer loro, le immagini positive a elevato livello motivazionale sono state mostrate per periodi di tempo più brevi rispetto alle immagini negative.

L’Esperimento 3 ha rivelato che gli stati affettivi positivi a elevato livello motivazionale ‘accorciano’ la percezione del tempo rispetto agli stati affettivi negativi.

Il tempo vola quando ci si diverte

In conclusione, sulla base di quanto illustrato precedentemente, la spiegazione al mistero celato nella famosa espressione ‘il tempo vola quando ci si diverte’ sembrerebbe risiedere nel costrutto della motivazione, la quale è in grado di influire sulla soggettiva percezione del tempo: durante le occasioni gradevoli goal-motivated, il cervello umano tende ad avvertire che il tempo passi più velocemente del solito. Ciò accade presumibilmente in quanto, durante le fasi di perseguimento degli obiettivi stabiliti, gli stati affettivi a elevato livello motivazionale causano un restringimento dei processi mnestici e attentivi con conseguente allontanamento ed esclusione di pensieri irrilevanti che, qualora presenti, potrebbero causare distrazione e abbandono del compito. In altre parole, un elevato tasso di motivazione migliora le prestazioni cognitive, favorendo la concentrazione e l’impegno nel compito e scoraggiando eventuali distruttori; in questo modo il tempo viene avvertito come più rapido.

In aggiunta a ciò, è importante segnalare che altre ricerche (Sackett et al., 2010) hanno messo in evidenza che la percezione dell’accorciamento del tempo fa sì che gli stimoli siano valutati come più appetibili. Futuri studi continueranno ad approfondire questi concetti che si configurano come molto interessanti non solo perché consentono una migliore comprensione dell’interazione affettività-cognizione, ma anche perché trovano concreta applicazione nelle performances quotidiane di ognuno di noi.

 

È stata la mano di Dio, il cinema come terapia all’abbandono – Recensione

Dopo aver attinto con generosità alla sua biografia, tanto che anche il palazzo dove ha trascorso l’infanzia è esattamente lo stesso, Paolo Sorrentino, con il suo ultimo lavoro È stata la mano di Dio, ci propone un viaggio disincantato e scarno intorno al tema dell’abbandono.

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Rimasto orfano a sedici anni, dopo un incidente nella casa di montagna dove i genitori rimasero avvelenati da una fuga di monossido di carbonio, il regista affida allo sguardo del suo protagonista (Fabio Schisa) la responsabilità di raccontare un dolore insuperabile, attraverso silenzi malinconici e rumori evocativi. Non c’è però autocommiserazione. Anzi, nelle diverse personalità dei tre fratelli vengono messe in luce tutte le possibili sfaccettature che può assumere una perdita: la sorella si nasconde in bagno, il fratello non vuole rinunciare alla giovinezza, Fabio decide di sentirsene responsabile. Così, nel tentativo di rispondere con coraggio alla chiamata nell’età adulta, scappa a Roma per realizzare il sogno del cinema.

Sembra fuggire dal dolore, da una città che lo ha salvato e tradito allo stesso tempo, da un fallimento insuperabile, ma si propone comunque di dire qualcosa, di non tacere su quanto ha visto, perché guardare è l’unica cosa che sa fare. Ragazzo di poche parole, casalingo e affezionatissimo alla famiglia, decide di esprimersi attraverso le trame del cinema. Proprio come Sorrentino: in una intervista a Giovanni Minoli lo disse chiaramente di essere pigro e solitario, legato alla famiglia nonostante il successo e l’Oscar vinto con La grande bellezza.

Sebbene l’autobiografia rappresenti soltanto uno spunto per montare l’intreccio, la pellicola segna con nitidezza i due tempi nell’esistenza del giovane protagonista: quello della spensieratezza in famiglia, fatta di lunghi pranzi goduriosi e le partite del Napoli viste sul balcone, e quello della maturità dopo la perdita, quando la solitudine prende il sopravvento e i ricordi sembrano tormentare gli animi già provati. Anche visivamente si percepisce il divario tra la pienezza della vita vissuta insieme, il massimo della gioia, e lo smarrimento causato dalla perdita, il massimo del dolore.

È stata la mano di Dio è un film profondamente italiano: un omaggio a Napoli, alle origini, alle storie intime e private che possono fare la differenza. «Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città». Un atto di fede verso la vita che deve continuare, nonostante i lutti e le perdite; ma anche una sorta di ringraziamento al ‘divino’: Maradona che arriva al Napoli, i suoi che gli permettono di non partire per vederlo, il caso o la provvidenza che lo salvano dalla morte. La storia è quindi quella di un miracolato che sente il desiderio impellente di incanalare il flusso dei sentimenti verso una forma di comunicazione che gli sia congeniale, non troppo personale e sicuramente creativa. La sua famiglia si è disintegrata: vuole a tutti i costi ricostruirsi una vita immaginaria, uguale a quella di prima.

Sorrentino, dopo vent’anni dal primo film, mette la sua carne a cuocere: si sente pronto a raccontare qualcosa di sé in maniera esplicita, attraverso uno stile che conferma il suo lento procedere nelle trame dei desideri umani. Nella storia racconta tutto quello che fa di un’adolescenza il salto verso l’età adulta: le delusioni negli affetti quando la famiglia affronta una crisi, il senso di abbandono, la malinconia per un tempo che corre veloce, la fascinazione di figure irraggiungibili come la zia bellissima e fragilissima, la scoperta ingenua del sesso con la baronessa del piano di sopra, il desiderio dell’avventura. Al centro, il manifesto di una dichiarazione d’amore ai genitori perduti, accusati apparentemente di aver provocato la sua solitudine, ma in realtà i veri artefici di una dote che pian piano è esplosa.

È stata la mano di Dio segna la maturità di un regista all’apice della sua carriera: un testamento nel quale raccontare le origini di un talento nemmeno tanto cercato, più una via di fuga da una realtà scadente che un sogno coltivato a lungo. Figlio di un banchiere e di una casalinga, con il walkman sempre addosso, confessa di aver visto pochissimi film; ma non per questo si sente meno attratto da un mondo a cui deve la sua rinascita da orfano. Di fronte a un lutto insuperabile decide di non stare fermo: un pigro, iperattivo della mente, affida alla fantasia il compito di tirarlo fuori dalla realtà, deludente e insopportabile, per trascinarlo nelle visioni oniriche di Federico Fellini, di cui Sorrentino è l’erede naturale. E seguendo le orme di Capuano, il maestro degli inizi, riuscirà poi nell’intento di non disunirsi: fare cinema diventa la terapia, il luogo dell’espressione intima, il mezzo con cui guarire la malinconia.

Quindi forse l’unica scelta che abbiamo è decidere che cosa fare quando qualcuno di caro muore. Morire con lui, vivere una vita mutilata. Oppure forgiare, sul dolore e sui ricordi, nuovi adattamenti. Col lutto prendiamo coscienza del dolore, lo sentiamo, sopravviviamo a esso. Col lutto abbandoniamo i defunti e li introiettiamo, col lutto accettiamo i cambiamenti difficili che la perdita deve apportare – e così cominciamo a porre fine al lutto.

 

Il ruolo dell’ansia per la morte: le differenti traiettorie del Disturbo Ossessivo-Compulsivo

L’ansia per la morte è un costrutto transdiagnostico che ha mostrato differenti correlazioni con determinate patologie mentali e con il numero di diagnosi che un individuo può avere nel corso della propria vita.

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una condizione psicologica che colpisce circa l’1-3% della popolazione (Ruscio et al., 2010), che si presenta spesso, circa per il 92% degli individui che ne soffrono (De Mathis et al., 2013), in comorbidità con altri disturbi quali ad esempio il disturbo depressivo maggiore, il disturbo d’ansia generalizzato, l’ansia da separazione, il disturbo d’ansia sociale e le fobie specifiche (Miguel et al., 2008).

L’ordine temporale con cui i disturbi in comorbidità si presentano rispetto alla diagnosi di DOC, è ancora poco conosciuto. Comprendere questo punto sarebbe di fondamentale importanza poiché potrebbe avere un valore prognostico.

La letteratura ci mostra che le diagnosi ottenute precedentemente predicono la gravità del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e il rischio di sviluppare ulteriori disturbi. Ad esempio, il 17%-27% degli adulti con DOC ha precedentemente ottenuto una diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione (Separation Anxiety Disorder) (De Mathis et al., 2013; Mroczkowski et al., 2011) e quelli con una precedente diagnosi di Ansia da Separazione mostrano un esordio più precoce e una maggiore gravità del DOC.

L’ansia per la morte

L’ansia per la morte è un costrutto transdiagnostico che ha mostrato differenti correlazioni con determinate patologie mentali (Iverach et al., 2014) e con il numero di diagnosi che un individuo può avere nel corso della propria vita (Menzies & Dar-Nimrod, 2017; Menzies et al., 2019).

Questo costrutto ha dimostrato di avere un ruolo anche nello sviluppo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e correlazioni con la gravità del disturbo (Menzies e Dar-Nimrod, 2017), motivo per cui si potrebbe pensare che l’ansia per la morte potrebbe avere un ruolo nella traiettoria che segue il DOC. Menzies, Menzies e Iverach (2015) hanno sottolineato che le paure per la morte sembrano essere alla base di molti dei sottotipi comuni del disturbo: all’interno del sottotipo della contaminazione, molti individui attribuiscono il loro comportamento di lavaggio compulsivo alla paura di contrarre malattie mortali come risultato del contatto con i germi (Menzies & De Silva, 2003). Il sottotipo di DOC con controllo potrebbe implicare il controllo compulsivo di prese di corrente, dei fornelli e delle serrature di porte e finestre per la paura di elettrocuzione, incendi domestici e invasioni, ovvero eventi che hanno il potenziale diretto di provocare la morte (Vaccaro et al., 2010).

Uno studio di Menzies e colleghi (2020) ha tentato di studiare la traiettoria che segue il Disturbo Ossessivo Compulsivo. In particolare gli autori hanno indagato il ruolo dell’ansia per la morte in questa traiettoria di sviluppo, concentrandosi sui livelli di ansia per la morte nel predire il numero di disturbi sperimentati prima di una diagnosi di DOC. Dato il ruolo transdiagnostico dell’ansia da morte nella salute mentale, è stato ipotizzato che gli individui con maggiore paura della morte avrebbero avuto più disturbi prima di sviluppare DOC e che gli individui con bassa ansia di morte sarebbero stati più propensi a sperimentare DOC come primo disturbo.

I risultati hanno confermato le ipotesi, dimostrando che esiste un’associazione tra l’ansia per la morte e la storia diagnostica di un individuo prima del DOC.

L’ansia per la morte e la comorbidità con altri disturbi

Nello specifico, gli individui con livelli più elevati di ansia per la morte avevano più probabilità di aver sperimentato una serie di disturbi legati all’ansia prima di ottenere una diagnosi per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, coerentemente con l’ipotesi che prevede che l’ansia per la morte può essere un importante costrutto transdiagnostico che influenza lo sviluppo di varie condizioni di salute mentale (Iverach et al., 2014). I livelli di ansia per la morte, inoltre, predicevano significativamente il numero di diagnosi ricevute prima dell’insorgenza del DOC. In particolare, gli individui con più gravi paure della morte hanno sperimentato, in media, più del doppio del numero di diagnosi prima del disturbo ossessivo compulsivo, rispetto a quelli con bassa ansia di morte.

Gli individui con una maggiore ansia per la morte sembrano per cui attraversare ciclicamente un maggior numero di disturbi, e questo può potenzialmente indicare che il DOC è solo una delle tante manifestazioni di questa paura esistenziale sottostante.

In sostegno della ricerca precedente (De Mathis et al., 2013), Il Disturbo d’Ansia da Separazione ha preceduto la diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo per quasi la metà degli individui nel campione analizzato. Anche Fobie specifiche, GAD, disturbo d’ansia da malattia e disturbo di panico sono stati frequentemente sperimentati prima dello sviluppo del DOC. Quindi, nonostante l’esclusione del DOC dalla categoria ‘disturbi d’ansia’ del DSM-5, i risultati dimostrano la frequente co-occorrenza di disturbi legati all’ansia, tra cui non solo i disturbi ossessivo-compulsivi e correlati, ma disturbi legati ai sintomi somatici.

In conclusione, lo studio dimostra una serie di traiettorie che portano allo sviluppo del DOC. Per gli individui che dimostrano paure della morte più elevate, il DOC si dimostra una manifestazione delle paure sottostanti della mortalità, che sono apparse in precedenza sotto forma di altri disturbi legati all’ansia incentrati sulla malattia o sul danno. Viene per cui sottolineata l’importanza di comprendere il ruolo dell’ansia per la morte nella psicopatologia e l’imperativo di considerare questo costrutto transdiagnostico per un efficace intervento clinico.

Il trattamento dell’ansia per la morte

Se la paura per la morte è il nucleo sottostante che guida la manifestazione dell’ansia clinica, allora, il trattamento mirato a migliorare tali preoccupazioni può rivelarsi un prezioso rimedio transdiagnostico. Inoltre, gli interventi che mirano a mitigare l’ansia per la morte possono aiutare a prevenire lo sviluppo di ulteriori malattie mentali nel corso della vita.

Per quanto riguarda il trattamento dell’ansia per la morte, una recente meta-analisi ha sottolineato l’efficacia degli interventi CBT con un focus sulla sulla terapia di esposizione (Menzies et al., 2018). Quindi, i trattamenti attuali possono trarre beneficio dall’implementazione di strategie CBT (per esempio esposizione graduata alle specifiche situazioni temute dell’individuo relative alla morte) al fine di migliorare l’ansia per la morte di un individuo.

 

La comunicazione assertiva

I principi necessari per sviluppare l’assertività sono l’immagine positiva di sé, la libertà espressiva, il contatto con gli altri, la gestione di richieste, di feedback e del conflitto.

 

Nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, il terapeuta si trova spesso di fronte a clienti che necessitano di un ‘rafforzamento’ delle proprie abilità comunicative, in particolare la richiesta è quella di riuscire a farsi ascoltare, e nel riuscire a far comprendere adeguatamente le proprie emozioni, i propri stati d’animo e bisogni. È in quest’ottica che lo psicoterapeuta orienta la sua attività terapeutica nell’addestrare alle competenze assertive, facendo leva su sei principi che consentono di sviluppare l’assertività del cliente: immagine positiva di sé, libertà espressiva, contatto con gli altri, gestione delle richieste, gestione del feedback e gestione nel conflitto.

Analizzando i principi in ordine di sequenza, incrementare l’autostima rende la persona più sicura delle proprie posizioni perché consente di sentire i propri bisogni e diritti validi. Procedendo, la libertà espressiva e il contatto con gli altri sono state concettualizzate da Thomas Gordon nel 1991. Con l’utilizzo dei cosiddetti ‘messaggi di responsabilità’ (metodo per consentire la libera espressione) il soggetto viene aiutato dal terapeuta ad esprimersi utilizzando la prima persona singolare, un verbo che esprima assunzione di responsabilità (ad esempio, voglio, desidero, apprezzo, sento, gradisco) e un contenuto chiaro, breve e diretto.

Questa tipologia di comunicazione dà due vantaggi: il primo è l’esplicitazione di un messaggio sincero e quindi autentico, il secondo è l’attribuzione di responsabilità che porta il cliente a non attribuirla all’esterno. Il principio del contatto con gli altri viene usato per accrescere la capacità di ascolto del soggetto, infatti viene guidato con simulate e role playing a prestare ascolto attivo dell’altro nel senso di prestare completa attenzione, ascoltare in maniera aperta e non giudicante, con un assetto verbale e non verbale che incoraggi l’altra persona a esprimersi liberamente, per poi riformulare il contenuto del messaggio che è stato espresso. Un altro punto fondamentale utile all’accrescimento dell’assertività è saper gestire le richieste: quest’abilità è implementata dal clinico addestrando il paziente a mettere a fuoco l’obiettivo che vuole ottenere con la comunicazione, tradurre la richiesta in un messaggio verbale semplice e diretto, assumersi la responsabilità della richiesta.

Queste abilità vanno di pari passo con quelle che consentono di opporsi a richieste che non si vogliono corrispondere; perciò, il cliente verrà guidato a guardare l’altro e parlare in maniera ferma, dire all’altro che non si vuole fare quanto richiesto e dare una motivazione ma senza giustificarsi. Le ultime due abilità che completano il bagaglio di una buona competenza assertiva sono la gestione del feedback e del conflitto. La prima consiste nel dare un feedback all’altro su un suo comportamento o atteggiamento ritenuto sia positivo sia negativo, fatto che consente all’altro di capire meglio i valori, desideri e bisogni del soggetto che dà il feedback. La gestione del conflitto, infine, ruota attorno all’insegnamento della negoziazione, processo costituito dal problem solving e dal brainstorming, i quali, partendo da obiettivi condivisi da entrambi gli interlocutori, portano a soluzioni condivise, evitando di fatto il conflitto.

 

Quali sono gli effetti psicologici dei trattamenti per l’infertilità? L’impatto della fecondazione in vitro sulla qualità di vita

La consulenza psicologica è fondamentale nei casi di infertilità, dove le coppie, spesso, ricorrono alla fecondazione in vitro (FIV), che si compone di trattamenti impegnativi.

 

La gravidanza e il parto costituiscono fasi di vita importanti per alcune donne in molti paesi sviluppati e in via di sviluppo (Direkvand-Moghadam et al., 2016). L’infertilità, definita come il mancato concepimento dopo un anno di rapporti sessuali regolari non protetti (Sezgin et al., 2016), spesso causa notevole disagio sociale ed è accompagnata da numerosi problemi psicologici e sociali come depressione, ansia, isolamento e disfunzioni sessuali (Baghiani Moghadam et al., 2011). Può essere vista come una crisi di vita importante e ha un impatto sulla qualità della vita degli individui che la sperimentano (Namdar et al., 2017).

L’impatto dell’infertilità sulla qualità di vita

Alcuni studi in letteratura, a tal proposito, si sono occupati di validare uno strumento per valutare l’impatto dei problemi di fertilità su diverse dimensioni della vita (FertiQOL; Dural,et al., 2016). Molte donne infertili hanno infatti spesso relazioni coniugali problematiche, sentimenti di impotenza e senso di colpa e una qualità di vita ridotta. Anche gli uomini hanno diverse ripercussioni psicologiche e sociali, inoltre possono sperimentare minore soddisfazione nei rapporti sessuali, causata probabilmente dalla pressione psicologica del concepimento o dalla tempistica forzata del rapporto sessuale intorno al ciclo ovulatorio della donna (Monga et al., 2004). Diversi dati dimostrano tuttavia che le donne risultano essere più colpite dalle conseguenze dell’infertilità.

I trattamenti per l’infertilità

La consulenza psicologica è fondamentale quindi per le coppie che non riescono ad avere figli le quali, spesso, ricorrono alla fecondazione in vitro (FIV) che si compone di trattamenti impegnativi. La stimolazione ovarica controllata (COS), ad esempio, è una parte essenziale della FIV che prevede due o tre settimane di trattamenti combinati a prelievi di sangue ed ecografie transvaginali per ottenere ovociti che saranno successivamente fecondati in laboratorio e trasferiti nell’utero della donna. Il successo della FIV è variabile e dipende da molti fattori, solitamente è stimato intorno al 30% una volta che il ciclo di trattamenti è iniziato (Toftager et al., 2017); l’incertezza di un risultato soddisfacente costituisce quindi un altro motivo di stress: una buona salute mentale a inizio trattamento sembra essere fondamentale per poter affrontare un possibile fallimento di una gravidanza.

Molte coppie che non sono seguite o supportate sufficientemente, spesso rinunciano ai trattamenti proposti ancora prima di cominciare (Crawford et al., 2017). Diversi studi in letteratura hanno confrontato le donne infertili, trovando dei livelli molto elevati di stress rispetto al resto della popolazione. Inoltre sembra che l’età e la durata dell’infertilità aumentino i livelli di ansia nelle coppie che cercano una gravidanza; tuttavia non vi sono ancora risultati chiari che mostrano disturbi psichiatrici o psicopatologia generale più elevata in tali coppie (Chiaffarino et al., 2011).

Il vissuto emotivo legato ai trattamenti per l’infertilità

Dal momento che l’impatto dei trattamenti per l’infertilità, in particolare il COS, rispetto all’impatto generale dell’infertilità non è stato ancora studiato approfonditamente, Massarotti e colleghi, nel 2019, hanno condotto uno studio per valutare i livelli di ansia e depressione nelle donne, correlati all’infertilità e ai trattamenti per quest’ultima, mettendo in luce quali fossero i predittori di livelli di disagio elevati. 89 donne sono state incluse nello studio e sono stati sottoposti loro due questionari, sia prima dell’inizio del loro primo ciclo di trattamento, sia alla fine della stimolazione ovarica per la fecondazione in vitro (FIV). I questionari erano la Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), che misura l’ansia e la depressione, usata soprattutto nei campioni che non mostrano i classici segnali fisici della depressione clinica (Bjelland et al., 2002), e la Fertility Quality of Life (FertiQoL; Boivin et al., 2011), uno strumento specifico utilizzato per pazienti infertili, che valuta la qualità di vita in due domini: la vita generale e durante i trattamenti. Entrambi i  questionari vengono utilizzati per valutare in dettaglio gli indicatori di peggioramento della qualità della vita e i disturbi dell’umore specificamente correlati all’infertilità. I risultati ottenuti mostrano che le donne infertili sperimentano angoscia generale causata da diversi fattori, alcuni dei quali sono individuali, altri invece dipendono dalla relazione con il partner, la famiglia e la società. Questo è spiegato dal fatto che spesso il desiderio insoddisfatto di una gravidanza può portare ad avere la sensazione di non soddisfare le aspettative della società e aumenta di conseguenza il livello di stress.

I livelli d’ansia durante il trattamento per l’infertilità

Nel campione di donne incluso nello studio, la maggior parte del quale ha sperimentato infertilità di media-lunga durata, i livelli di ansia sono aumentati durante le prime visite alla clinica di infertilità, probabilmente a causa del lungo periodo passato a cercare una gravidanza o dall’ansia e dalla paura di un trattamento sconosciuto. L’ansia sembra però diminuire significativamente durante il trattamento e successivamente ad un confronto con un medico dell’infertilità che aiuta le donne a prendere decisioni consapevoli (Gameiro et al., 2015). Sebbene la procedura sia molto impegnativa, sembra che le donne si sentano meglio quando fanno attivamente qualcosa per ottenere un risultato desiderato da tempo; inoltre poter confrontarsi con altre donne infertili le fa sentire meno sole nei loro problemi. In aggiunta, suddividendo le donne in tre gruppi in base alla causa principale dell’infertilità (infertilità maschile, infertilità femminile, o sia maschile che femminile), i risultati mostrano livelli significativamente più alti di ansia e disagio generale nei pazienti in trattamento a causa di infertilità femminile. In conclusione questi dati forniscono ai medici che si occupano di infertilità alcune indicazioni per un supporto psicologico più mirato, centrato sul paziente. Tale supporto sembrerebbe essere fondamentale soprattutto nei momenti più difficili (cioè i primi accessi in un centro di fertilità) o nei sottogruppi più vulnerabili (cioè le donne con una causa di infertilità esclusivamente femminile; Massarotti et al., 2019).

 

Pensaci ancora (2021) di Adam Grant – Recensione del libro

Pensaci ancora è un saggio di Adam Grant, tradotto in italiano da Giuseppe Maugeri ed edito nel 2021 da Egea.

 

Adam Grant è un giovane professore della Wharton School dell’Università della Pennsylvania, esperto di psicologia del lavoro. Ha collaborato con un gran numero di aziende, è stato un brillante pubblicitario, oltre che un eccellente sportivo, campione di tuffi ai giochi olimpici giovanili.

Lo scopo di questo saggio è quello di provocare una rivoluzione nel modo di pensare del lettore. Si tratta di una guida alla scoperta della possibilità di nuove capacità cognitive che permettono di ripensare e disimparare. La capacità di modificare le proprie opinioni è, secondo l’autore, una forma di intelligenza che consente di raggiungere ottimi risultati in ambito lavorativo e di vivere saggiamente.

Pensaci ancora è un libro composto da tre parti, la prima parte è dedicata alla trattazione della necessità di imparare a ripensare. Secondo Grant i geni creativi, non posseggono soltanto una particolare carica, ma la capacità di essere disposti continuamente a ripensare le proprie posizioni. Inoltre, in ambito lavorativo chi è ai vertici ed è capace, non solo di ammettere di non conoscere determinate cose, ma è anche disposto a cercare nuove soluzioni attraverso l’ascolto degli altri e ottiene i risultati migliori nella guida del team.

La seconda parte è dedicata all’alfabetizzazione argomentativa cioè a quel metodo interdisciplinare che permette di ripensare l’apprendimento.

Nell’ultima parte Grant illustra come esista una resistenza da parte della scuola, del mondo del lavoro e della politica ad incoraggiare la cultura del ripensamento.

Pensaci ancora è una riflessione su come, in un mondo in rapido cambiamento, diviene fondamentale non solo imparare, ma anche mettere in discussione ciò che si è imparato e modificare le proprie idee e convinzioni.

Grant con il suo libro dimostra come sia possibile abbandonare determinati punti di vista ed essere contenti di avere torto e lo fa attraverso prove concrete, come ad esempio il suo personale successo nel persuadere i tifosi degli Yankees a parteggiare per i Red Sox. Quello che Adam Grant, con questo saggio, intende insegnare è argomentare come se si avesse ragione, ma ascoltare come se si avesse torto perché questo consente di continuare ad imparare per tutta la vita.

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il primo episodio è dedicato al Ritiro

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Nate in piena pandemia, le precedenti stagioni di “Caffè cognitivo”, create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast, hanno sin da subito riscosso un ampio consenso da parte del pubblico, sia esperto che meno esperto.

Dato il successo ottenuto, il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la prima puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli parleranno del Ritiro, ovvero la preferenza per il restare da soli piuttosto che con gli altri. Da dove nasce il ritiro? Perché alcune persone evitano i rapporti sociali? Scopritelo nel primo episodio.

Dove ascoltare il primo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il primo episodio su:

 

La dipendenza dalle cattive notizie, doomscrolling e doomsurfing

Nei periodi di crisi e di incertezza cerchiamo informazioni che ci aiutino a comprendere ciò che succede, anche quando queste informazioni ci rendono ansiosi, tristi, preoccupati, si tratta del doomscrolling o doomsurfing.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 26) La dipendenza dalle cattive notizie, doomscrolling e doomsurfing

 

La pandemia da Covid-19, soprattutto a partire dai primi mesi dello scorso anno, ha coinciso con un’impennata dell’utilizzo di Internet e dei device digitali che ci sono serviti per lavorare, studiare, continuare con le nostre attività, rimanere in contatto con amici e familiari, essere informati.

Mai come in questo caso le incertezze sono state tante e abbiamo dovuto affrontare una situazione del tutto inedita con informazioni nuove e a volte contrastanti ogni giorno.

Le notizie negative hanno dominato l’agenda di giornali e canali di comunicazione governativi. A partire dall’appuntamento fisso quotidiano delle 18 con l’aggiornamento da parte delle autorità, siamo stati inondati da informazioni su ospedali al collasso, città chiuse, drastiche misure preventive, statistiche su casi, ricoveri e decessi, e, fino a non molti mesi fa, previsioni discontinue sul vaccino, tema tuttora accompagnato da non poche incertezze su tempistiche ed efficacia.

Il significato di doomscrolling o doomsurfing

Con doomscrolling e doomsurfing ci si riferisce alla tendenza marcata a ricercare notizie negative online con conseguenze sulla nostra salute mentale.

Si tratta di un fenomeno di cui si è cominciato a parlare da poco in relazione alla pandemia da Covid-19: per la prima volta nella storia durante eventi di portata globale abbiamo avuto la possibilità di usare così tanto nuove tecnologie, in alcuni casi inedite fino ad allora, e quindi di avere accesso in ogni momento ad un numero potenzialmente infinito di informazioni.

La parola deriva dallo ‘scrollare’ – ovvero da ‘scroll’ in inglese-  il movimento che facciamo quando siamo sui social (o comunque online) e facciamo scorrere il feed con le ultime notizie. ‘Surf online’ è un altro termine, un po’ meno utilizzato e un po’ meno recente, per indicare un generico navigare su internet. Aggiungere ‘doom’ (sorte avversa, destino tragico) serve poi a dare proprio una connotazione negativa a questo far scorrere sotto le nostre dita una sfilza di notizie avverse. È quello che abbiamo fatto in maniera massiccia soprattutto durante il primo lockdown, quello più duro per tutti e con maggiori incertezze (Ytre-Arne & Hallvard, 2021).

Controllare il numero di casi e di morti dovute al Covid19, cercare le ultime informazioni su nuovi sintomi e su come può diffondersi è qualcosa che va bene fare, ma quando parliamo di doomsurfing e doomscrolling ci riferiamo a farlo molto spesso ed in maniera insistente. Ciò porta ad intense emozioni di ansia, incertezza, preoccupazione, paura, angoscia, che a loro volta portano a difficoltà nel dormire, diminuzione dell’appetito e scarso interesse per attività che di solito piace fare (Anand et al., 2021).

Essere immersi in notizie negative

Secondo Anand et al. (2021) ci sono dei bias cognitivi che spingono molte persone a persistere nel doomscrolling. Farlo ci serve a dare un senso all’esperienza che stiamo vivendo ed a quello che sta succedendo nel mondo, ci aiuta a fare ordine in una situazione incerta e a riempire il vuoto informativo. L’aspettativa è di ampliare le prospettive, arrivare ad un maggiore senso di controllo (più ne so, più ne capisco, più posso controllare) e quindi ridurre i sentimenti negativi.

In realtà così facendo si ottiene l’effetto opposto: si finisce in una spirale di notizie negative ed incerte che porta ad un’ulteriore esacerbazione di paura e preoccupazione, in un circolo vizioso in cui gli individui sembrano rimanere intrappolati.

Se è vero che il doomscrolling indica il ricercare e leggere continuamente notizie negative, dall’altro non tutte le informazioni per noi hanno lo stesso peso e riserviamo loro la stessa attenzione. L’aspettativa di arrivare a informazioni positive o nuove prospettive sulla pandemia e quindi ridurre ansia, paura, preoccupazione, viene guidata da alcuni bias.

Infatti tendiamo a sottostimare rischi ed eventi negativi (bias di ottimismo) e nella nostra ricerca di informazioni assegniamo un peso maggiore alle prove che supportano la nostra ipotesi e, viceversa, diamo un peso minore alle prove che disconfermano la nostra prospettiva (bias di conferma) ed infine continuiamo le nostre ricerche per accumulare più info che supportano e sono coerenti con le informazioni che abbiamo visto per prime (bias di ancoraggio) (Anand et al.,2021; Park et al., 2020).

Si instaura un circolo vizioso, un loop in cui siamo motivati alla ricerca di informazioni nell’aspettativa che siano positive. Troviamo invece informazioni negative e persistiamo nella nostra ricerca, sviluppiamo sintomi emotivi negativi, ci sentiamo ansiosi, apprensivi e ciò aumenta il nostro livello di incertezza, il che ci spinge a navigare e ricercare ancora più informazioni.

Doomscrolling, una strategia di sopravvivenza

Siamo istintivamente portati a prestare attenzione a qualsiasi situazione potenzialmente pericolosa, soprattutto in periodi di incertezza, quando la ricerca di informazioni mira anche ad aumentare il nostro senso di controllo. Ne va della nostra sopravvivenza. Ma in un mare di informazioni abbiamo anche la preoccupazione di perderci qualcosa di importante. Così continuiamo a cercare.

Nella speranza di trovare informazioni che ci facciano sentire meglio e più in controllo, siamo anche più vulnerabili alle informazioni imprecise e incomplete che invece di aumentare il nostro senso di controllo vanno a validare paura, ansia, incertezza e ci spingono verso un costante bisogno di saperne di più e di fare doomsurfing o doomscrolling (Anand et al., 2021).

Il doomscrolling è quindi una strategia che mettiamo in atto in un contesto di crisi, di incertezza, di paura e di minaccia che è disadattiva nella misura in cui diventa eccessiva e porta ad intense emozioni di stress.
Ci vuole uno sforzo per fermarsi e prendersi una pausa, riuscire a monitorare l’impatto emotivo, separare le informazioni utili da quelle irrilevanti. L’aspetto fondamentale è riuscire a discernere dove sia il limite per noi tra l’essere informati, anche quando le informazioni sono negative, e quanto questo ci destabilizza e ci fa stare male.

 

Bambini che non vogliono mangiare o mangiano troppo. Consigli pratici per genitori e figli (2021) di Irene Chatoor – Recensione

Bambini che non vogliono mangiare o mangiano troppo è una guida pratica per genitori che ha l’obiettivo di fornire metodi per la prevenzione e la gestione di problematiche alimentari nell’età evolutiva

 

L’autrice Irene Chatoor è pediatra e neuropsichiatra infantile, docente di psichiatria e pediatria presso la George Washington School of Medicine e vicedirettrice del Dipartimento di psichiatria all’ospedale pediatrico di Washington DC. Nel 2012, pubblica il libro When Your Child Won’t Eat or Eats Too Much. A Parent’s Guide for the Prevention and Treatment of Feeding Problems in Young Children, che racchiude storie ed evidenze scientifiche raccolte nel corso del suo lavoro clinico e di ricerca con bambini che presentano difficoltà di natura alimentare. Nel 2021, Caterina Lombardo e Loredana Lucarelli curano la traduzione italiana per Erickson.

L’edizione italiana si preoccupa anche di adattare alcuni passaggi al sistema culturale del nostro Paese: come l’utilizzo del termine ‘cibo’ (ovvero l’unione di vari alimenti cucinati) per indicare l’avversione a uno specifico alimento che di rado viene presentato in forma pura; oppure gli orari dei pasti e le routine, in quanto nel testo originale viene dato particolare accento alla necessità di permettere al bambino di partecipare ai pasti con il resto della famiglia, aspetto meno marcato nella versione italiana, che si rivolge a un gruppo culturale in cui i pasti assumono un valore socialmente considerevole.

Il volume acquista valore divulgativo in quanto l’alimentazione e il rapporto con il cibo rivestono un ruolo centrale nella vita di ogni individuo. In particolare, per il genitore la nutrizione risulta essenziale nell’accudimento del bambino ed è molto importante nella relazione con il proprio figlio, sia come fonte di piacere e rassicurazione, sia come intensa preoccupazione laddove emergano delle difficoltà.

Nel suo insieme, il testo si configura come un manuale che vuole guidare i genitori a comprendere e gestire eventuali problematiche legate all’alimentazione dei propri figli. Tale aspetto viene esplorato nella sua complessità, spaziando dall’atto puramente comportamentale di rimanere a tavola per tutta la durata del pasto, alle competenze grosso e finomotorie necessarie al bambino per alimentarsi in autonomia, a manifestazioni comportamentali di natura clinica come l’anoressia infantile o le avversioni sensoriali persistenti. Dunque, lo scopo è quello di rispondere a potenziali bisogni dei genitori, sia che questi riguardino la prevenzione di comportamenti-problema di natura alimentare, sia che si tratti della gestione di difficoltà già in atto. L’autrice raggiunge l’obiettivo grazie all’utilizzo di un linguaggio chiaro e accessibile, massimizza la comprensione fornendo spiegazioni, laddove i tecnicismi si rendono necessari, e casi clinici, esemplificativi della realtà clinica osservata nel corso della sua carriera.

È proprio questo un primo punto di forza del volume, poiché inserire una breve panoramica sulla storia di vita e sul trattamento di un paziente assolve una duplice funzione: da una parte normalizza l’esperienza del genitore che si trova a dover gestire difficoltà legate all’alimentazione del figlio, descrivendo esperienze altrui in cui si può riconoscere; dall’altra conferisce al manuale un approccio evidence-based, ottenuto anche grazie alla descrizione di studi clinici i cui risultati avvalorano l’efficacia delle strategie suggerite nel libro.

Vengono fornite indicazioni pratiche e immediate al genitore che si trova a fronteggiare difficoltà alimentari del figlio; per esempio, il metodo del ‘time-out’ è utile per incrementare l’autonomia del bambino nell’alimentarsi e per promuovere competenze trasversali come l’autoregolazione emotiva. Per consolidare i punti cruciali delle strategie l’autrice aggiunge delle sezioni riassuntive.

Si passa a una vera e propria educazione all’alimentazione. Innanzitutto, il genitore riceve una breve spiegazione di quali siano le tappe fondamentali dello sviluppo delle autonomie nei pasti, differenziando le tempistiche anche in base a variabili intervenienti di natura culturale. Viene descritto il forte valore sociale ed educativo che possiede il momento del pasto e la necessità di condividere le eventuali strategie educative che si deciderà di adottare con tutti gli adulti di riferimento del bambino.

Viene dato spazio alla distinzione tra la fame fisiologica e la fame di natura emotiva, che spesso viene incentivata dall’utilizzo del cibo come ricompensa e può essere un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari in adolescenza. Perciò, viene spiegato al genitore come aiutare il bambino a riconoscere la sensazione di sazietà, per esempio abbandonando l’imposizione di ‘finire ciò che si ha nel piatto’, che invece ostacola la capacità di riconoscere quando si è mangiato a sufficienza. In aggiunta, viene discusso il valore che si tende a dare ai cibi dolci, i quali spesso diventano ricompensa per l’avvenuta consumazione di alimenti più sani e meno graditi, come le verdure. L’autrice suggerisce di non presentare il dolce come un rinforzo per un comportamento corretto o come elemento di consolazione, ma di cercare di attribuire ai cibi dolci lo stesso valore degli altri alimenti, per esempio proponendo al bambino di scegliere se mangiare prima il dolce o il pasto principale.

Inoltre, vengono esplorati gli aspetti più clinici legati all’insorgenza di disturbi alimentari e vengono date al genitore piccole strategie per diminuire le possibilità che si acutizzino nel tempo. Per esempio, si sottolinea come forzare un bambino a mangiare cibi che detesta possa traumatizzarlo in modo tale da suscitare sensazioni di nausea e vomito ogni volta che vi si troverà a contatto, persino a distanza di anni. Non vengono esplorati solo aspetti puramente diagnostici, ma anche problematiche comuni alla popolazione generale come la selettività alimentare, la quale può essere episodica e transitoria. Per ciascuno di questi disturbi o difficoltà vengono fornite delle strategie specifiche in base alla fascia d’età in cui possono manifestarsi.

Bambini che non vogliono mangiare o mangiano troppo risulta quindi essere un manuale ben strutturato, pratico e utile, contenente nozioni e strategie facilmente fruibili da neo-genitori e genitori alle prese con le difficoltà alimentari dei figli.

 

 

Il presente articolo è scritto in collaborazione con Cliniche Italiane di Psicoterapia Età Evolutiva (CIPee)

 

“E tu chi sei?”: La personalità nei pazienti con amnesia anterograda

L’amnesia anterograda consiste in un deficit nell’abilità di formare nuovi ricordi (memoria dichiarativa) a seguito di lesione cerebrale. Come questi deficit di memoria possono influenzare il modo in cui gli individui vedono chi “sono”? La relazione tra amnesia anterograda e senso di Sé risulta ancora poco indagata

Personalità e memoria

I filosofi e gli psicologi sono stati a lungo interessati al concetto di “sé” e a come questo viene rappresentato dall’individuo. Il sé è un costrutto sfaccettato che può essere misurato nei modi più vari. Giacché non esiste un approccio standard, si è resa una risorsa importante la misurazione dei tratti di personalità (Turner & Onorato, 1999). I tratti di personalità sono definiti come modelli relativamente duraturi di pensieri, sentimenti e comportamenti. Tuttavia, ciò non implica che ogni tratto sia stagnante o immutabile. Al contrario, la ricerca ha suggerito che, sebbene i tratti dimostrino una forte stabilità a breve termine, essi possono subire cambiamenti significativi in periodi di tempo più lunghi a causa dell’influenza delle principali esperienze di vita (Roberts et al., 2006).

Il ruolo della memoria è stato oggetto di considerazione negli studi di come gli individui creano rappresentazioni di sé attraverso le valutazioni di personalità (Conway, 2005; Klein & Lax, 2010). Gli individui con danni acquisiti ai lobi temporali mediali hanno spesso profondi deficit di memoria, in particolare in relazione all’apprendimento di fatti ed eventi avvenuti dopo il danno cerebrale. Si tratta, in questo caso, di amnesia anterograda. Ma la questione di come questi deficit di memoria possano influenzare il modo in cui questi individui vedono chi “sono” è stata indagata solo parzialmente. Non è chiaro se i pazienti con amnesia siano in grado di formare una percezione stabile, accurata e aggiornata della loro personalità senza la capacità di incorporare nuove conoscenze dichiarative sulle esperienze di vita e sugli eventi, compresi i dettagli sul loro comportamento nel contesto delle nuove circostanze di vita.

Tratti personologici e amnesia anterograda

Dato che la personalità è abbastanza stabile, ma è anche influenzata dai grandi eventi di vita, sorge spontaneo domandarsi se i pazienti con amnesia sarebbero capaci di aggiornare le loro autovalutazioni della personalità in risposta a questo tipo di cambiamenti significativi. Garland et al. (2021) hanno tentato di rispondere al quesito in uno studio avente come soggetti alcuni pazienti con grave amnesia anterograda.

In questo studio sono stati coinvolti 7 soggetti (6 uomini ed 1 donna) appartenenti al registro dei pazienti neurologici presenti in Iowa, con diagnosi di grave amnesia anterograda. Il requisito principale per il reclutamento era che i pazienti avessero documentata una lesione cerebrale del lobo temporale mediale (MTL), dimostrata da un’analisi fatta tramite tecniche di neuroimaging (MRI o tomografia computerizzata), e che avessero una grave amnesia anterograda (definita da un punteggio differenziale di minimo 25 punti fra la loro Wechsler Adult Intelligence Scale [WAIS- III] (Wechsler, 1997a) e la loro General Memory Index (GMI; Wechsler Memory Scale, Third Edition [WMS-III]; Wechsler, 1997b).

Tutti e sette i pazienti avevano un grave deficit nell’abilità di formare nuovi ricordi (memoria dichiarativa) dopo l’insorgenza della lesione cerebrale, nonostante avessero conservato gran parte delle loro capacità cognitive complessive ed il funzionamento intellettuale.

I soggetti studiati erano nella fase cronica di riabilitazione, in quanto la loro lesione cerebrale risaliva dai 4 ai 28 anni antecedenti allo studio. Tutti i pazienti avevano subito cambiamenti significativi nel loro stile di vita, nella loro capacità di funzionare autonomamente e di prendersi cura di loro stessi. Per indagare la personalità del campione è stato utilizzato il Big Five Inventory (BFI) (John et al., 2008; John & Srivastava, 1999; Soto & John, 2009).

Il BFI è stato riproposto in 4 momenti diversi: 1 giorno dopo, 2 settimane dopo, 2 mesi dopo ed 1 anno dopo. I ricercatori hanno studiato la personalità del campione anche dalla prospettiva dei caregiver a cui è stato chiesto di compilare il Big Five Inventory (BFI) (John et al., 2008; John & Srivastava, 1999; Soto & John, 2009), facendo riferimento ai loro pazienti. Le loro misurazioni sono state ottenute in una fase preliminare e dopo 2 mesi. Ad 1 anno dalla prima misurazione, gli operatori hanno usato gli stessi questionari per valutare come ricordavano i pazienti durante l’anno prima della lesione cerebrale. Per le valutazioni di base e dopo 2 mesi, sono state fornite le seguenti istruzioni: “Rispondere a tutte le domande riferendo il modo in cui il paziente agisce, si comporta, e si sente attualmente, non rispetto a come erano prima della lesione cerebrale”. Al contrario, al follow-up di 1 anno, agli operatori sanitari è stato chiesto di “descrivere il paziente per come se lo ricorda durante l’anno prima della lesione cerebrale”. La stabilità della personalità è stata valutata confrontando i diversi punteggi ottenuti nei 4 Big Five Inventory (BFI) proposti (John et al., 2008; John & Srivastava, 1999; Soto & John, 2009). Questo stesso processo è stato utilizzato per esaminare la stabilità delle valutazioni degli operatori sanitari nel tempo.

Stabilità della personalità nell’amnesia anterograda

Confrontando le valutazioni della personalità auto-riferite dai pazienti amnesici e quelle riferite dai caregiver nel corso di un anno è emerso un livello relativamente alto di stabilità su ciascuno dei tratti individuali di personalità. Per i due momenti temporali in cui i caregiver hanno fornito valutazioni simultanee, si è riscontrata una stabilità altrettanto elevata, suggerendo che i pazienti non hanno mostrato alcun cambiamento importante nella personalità. Nel complesso questi dati indicano che la memoria dichiarativa potrebbe non essere necessaria per mantenere un senso stabile del sé. Tuttavia, il mantenimento di un senso di sé accurato e aggiornato può dipendere dalla capacità di integrare nuove esperienze di vita nella propria memoria. I pazienti in questo studio hanno sperimentato cambiamenti di vita estremi a seguito della loro lesione cerebrale che hanno apportato cambiamenti nel loro comportamento. Infatti, senza la capacità di ricordare gli eventi di vita accaduti dopo la lesione e le loro risposte comportamentali a cambiamenti così drastici, questi soggetti non sono stati in grado di fornire rappresentazioni accurate e aggiornate di se stessi, evidenziando così l’interconnessione tra la memoria dichiarativa e l’accurata percezione di sé. Questi pazienti avevano un accesso molto limitato alla memoria episodica, di conseguenza si può affermare che le valutazioni della personalità possono essere in gran parte fatte attraverso la propria memoria semantica. La ricerca futura potrebbe provare a comprendere come i ricordi episodici e semantici contribuiscano in modo indipendente e influenzino le valutazioni della personalità.

 

Podcast di Psicologia: come e quale scegliere? – Le proposte di State of Mind

Nel mondo dei podcast sta diventando sempre più ampia la scelta degli argomenti da ascoltare: dalla cucina allo sport, dalla storia alla scienza, vi è l’imbarazzo della scelta. E se qualcuno volesse ascoltare un Podcast di Psicologia? Quale scegliere?

 

Podcast di Psicologia: come scegliere il podcast da ascoltare?

Sebbene l’ampia offerta sembri facilitare la scelta dei podcast da ascoltare, tante volte un così vasto repertorio non fa altro che aumentare la nostra indecisione.

Ciò è vero anche per i Podcast di Psicologia, che ad oggi sono numerosi e risultano in continuo aumento.

Come scegliere il Podcast di Psicologia? Ecco alcune dritte:

  • Argomento – Innanzitutto scegli l’argomento di tuo interesse. Che tu sia un appassionato di psicologia o un esperto psicologo, inizia ascoltando le serie o i singoli episodi dei Podcast di Psicologia che trattano i temi che più ti appassionano. L’ascolto interessato aumenterà la tua attenzione, e potrai così scoprire ulteriori argomenti e curiosità, trattati magari in altri podcast.
  • Finalità – Sei un appassionato o un professionista? Cerchi qualcosa che possa darti delle dritte su come affrontare un particolare momento della tua vita? Dei Podcast di Psicologia Positiva o di autoaiuto potrebbero fare per te. Ti piace semplicemente conoscere quante più cose possibili di psicologia? Oppure sei un professionista che ama aggiornarsi sulle novità della disciplina di cui è esperto? In questo caso i Podcast di Psicologia più indicati sono quelli che affrontano diversi temi della materia, magari dedicando un episodio ad ogni tema, partendo dalla più accreditata e aggiornata letteratura. Quindi arriviamo al prossimo punto:
  • Autorevolezza delle informazioni – Scegli quale Podcast di Psicologia ascoltare, anche informandoti su chi lo conduce.  È importante che un Podcast di Psicologia sia tenuto da professionisti, ricercatori ed esperti che parlano di Psicologia facendo riferimento a delle fonti autorevoli, attendibili e aggiornate, anche quando la riflessione si estende ad altri ambiti quali attualità, cultura, cronaca ecc.

Podcast di Psicologia: ascolta i podcast di State of Mind

Alla luce di quanto esposto ti proponiamo dei suggerimenti d’ascolto, a partire dai podcast realizzati dal gruppo Studi Cognitivi. In particolare segnaliamo le nostre serie di maggior successo.

Caffè Cognitivo: un podcast per una conoscenza a tuttotondo della Psicologia

Dalle webseries ai podcast: nate in piena pandemia, le prime stagioni di “Caffè cognitivo” sono state diffuse dapprima come webseries e successivamente sono diventate un Podcast di Psicologia, che ha sin da subito riscosso un ampio consenso da parte del pubblico, sia esperto che meno esperto.

Chi lo conduce: I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono i protagonisti dei diversi episodi. Guidano l’ascoltatore tra gli argomenti più interessanti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. Ogni incontro prende avvio da una conversazione tra due o più esperti in materia.

Gli argomenti trattati: gli episodi di Caffè Cognitivo sono numerosi e spaziano tra diversi argomenti che interessano gli esperti e i meno esperti: dalla manipolazione alla noia; dalla tendenza a giudicare gli altri, agli effetti del lockdown; dalla rabbia alla psicologia del viaggiare.

La nuova stagione dedicata ai tratti di personalità: dato il successo ottenuto, il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Dove ascoltarlo: puoi ascoltare Caffè Cognitivo su:

Il rimuginio: un podcast per chi pensa troppo

Un podcast per chi pensa (e si preoccupa) troppo: rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, ma spesso il rimuginio diventa un cardine portante della sofferenza psicologica.

Dal libro al podcast:  l’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato gli autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato a psicologi e psicoterapeuti: molte persone hanno chiesto una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Il podcast “Il rimuginio” nasce per rispondere a questa richiesta e per dare anche qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

Chi lo conduce: il podcast è condotto dal Dott. Gabriele Caselli, autore del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” insieme a G. M. Ruggiero e S. Sassaroli. Direttore della scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale ‘Psicoterapia e Scienze Cognitive’ di Genova.

Dove ascoltarlo: puoi ascoltare Il Rimuginio su:

Gli altri podcast di Psicologia di State of Mind:

Altri interessanti contenuti di State of Mind sono disponibili su:

Il disturbo da stress post traumatico correlato al parto (CB-PTSD) è un problema di salute globale. Ancora poco conosciuto, quanto ne sanno i paesi europei?

Lo studio indaga politiche, servizi e offerta formativa per le donne che hanno vissuto un’esperienza di parto traumatico. Da una recente review, infatti, è emerso che il 4% delle donne nella popolazione generale sviluppa un disordine da stress post traumatico legato al parto

 

Introduzione

La salute mentale perinatale fa riferimento al periodo di tempo che va dalla gravidanza a un anno dopo il parto. I cambiamenti fisiologici ed emotivi della gravidanza, del parto e della cura di un neonato rendono il periodo perinatale un momento di grande vulnerabilità per madri e padri.

Un elemento chiave alla base del disagio psicologico della donna in questo delicato periodo è rappresentato da un’esperienza di parto traumatico.

Le donne che vivono l’esperienza del parto come traumatica possono sviluppare la sindrome da stress post traumatico correlato al parto (childbirth- related post-traumatic stress disorders, CB-PTSD).

Da una recente review e meta-analisi è emerso che il 4% delle donne nella popolazione generale sviluppa un disordine da stress post traumatico legato al parto (CB-PTSD) e fino al 19% delle donne con fattori di rischio per disagio psicologico (storia precedente di malattia mentale, disturbo da stress post-traumatico, parto prematuro, aborto neonatale).

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo del CB-PTSD c’è la mancanza o la scarsa relazione con gli operatori sanitari. Le donne sperimentano abbandono, paura, insicurezza, impotenza.

Tuttavia c’è molta difficoltà nel riconoscere questa sindrome, o meglio, ancora poca consuetudine a rilevarla da parte degli operatori della nascita.

Emerge la necessità di formare gli operatori sanitari su questa problematica per individuarla e contenerla, formulare politiche di prevenzione, cura e trattamento del CB-PTSD.

Parto traumatico – Lo studio

L’obiettivo dello studio di Gill Thomson, Magali Quillet, Suzannah Stuijfzand e Antje Horsch, dal titolo COST After birth Consortium. Policy, service, and training provision for women following a traumatic birth: an international knowledge mapping exercise e pubblicato su BMC Health Services Research (Thomson, Quillet, Stuijfzand, Antje Horsch, 2021) è quello di indagare le politiche, i servizi e l’offerta formativa per le donne a seguito di un parto traumatico nei diversi paesi europei.

Lo studio è stato inserito nell’ambito della COST Action ‘Salute mentale perinatale e trauma correlato alla nascita: massimizzare le migliori pratiche e i risultati ottimali’. La Cost Action CA18211 è un network finanziato dall’UE, di oltre 160 ricercatori e medici specializzati in salute perinatale, provenienti da 33 paesi europei. Il progetto è stato lanciato nell’ottobre 2019, con lo scopo di produrre, consolidare e diffondere evidenze per prevenire, ridurre e risolvere i traumi psicologici legati alla nascita.

Sono stati coinvolti 20 rappresentanti della COST Action ed è stato disegnato il progetto di studio. Si è deciso di iniziare con l’analisi delle politiche e dei servizi a disposizione dell’utenza attualmente esistenti (dati epidemiologici, studio di politiche nazionali, linee guida in uso, buone pratiche) e con l’indagine riguardo alla formazione degli operatori sanitari del percorso nascita.

I dati sono stati raccolti nel periodo di tempo che va da marzo 2020 a febbraio 2021.

Parto traumatico – Risultati

Dei 23 paesi europei che originariamente avevano accettato di partecipare, 18 hanno completato lo studio e questi sono: Belgio, Cipro, Inghilterra, Francia, Germania, Grecia, Norvegia, Islanda, Paesi Bassi, Irlanda del Nord, Polonia, Portogallo, Irlanda, Scozia, Serbia, Spagna, Svizzera e Turchia.

Solo un paese, i Paesi Bassi, ha politiche nazionali e linee guida riguardanti lo screening, il trattamento e la prevenzione di un’esperienza traumatica di nascita CB-PTSD.

Quasi tutti i paesi, ad eccezione di Cipro e della Turchia, offrono una sorta di assistenza al CB-PTSD; 6 paesi (33%) sono in grado di fornire formalmente il servizio; il 78% lo fa in modo informale. L’89% riferisce di poter indirizzare l’utenza a servizi specialistici per la salute mentale perinatale.

I servizi, quando istituzionalizzati, sono pubblici ed erogati negli ospedali; tendono ad essere offerti dalle ostetriche, anche se ci sono percorsi indubbiamente multidisciplinari. In sette paesi (39%) la conoscenza di queste tematiche fa parte della formazione di base degli operatori della nascita, tuttavia si tratta di una formazione superficiale. Non sono previsti corsi di aggiornamento obbligatori.

Conclusioni

Dallo studio dei 18 paesi in esame è emerso che sostanzialmente mancano linee guida nazionali sulla prevenzione, cura e trattamento dell’esperienza di parto traumatico; non sono garantiti servizi uniformi, in grado di prendere in cura la puerpera e, allo stesso tempo, non è presente una formazione adeguata dei professionisti.

Tuttavia, la salute mentale perinatale rappresenta un problema di salute pubblica a causa dell’impatto che ha, a breve e lungo termine, su donne, neonati e famiglie.

Infatti il riconoscimento e la presa in carico di un disagio o di un disturbo psicopatologico nella madre o nel padre sono importanti sia per il singolo, sia per gli effetti che ha sullo sviluppo del bambino e sul nucleo familiare.

Ulteriori studi sono necessari per identificare percorsi standardizzati e basati sulla medicina dell’evidenza, questo studio rappresenta un tentativo di identificare le lacune e gli ambiti di miglioramento a livello europeo.

 

Il terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica (2021) di Muran e Eubanks – Recensione

Il volume Il terapeuta sotto pressione offre una guida per negoziare le complesse richieste emotive a cui il terapeuta deve rispondere nella propria pratica clinica.

 

Che cosa è l’alleanza terapeutica? ‘Dirigere l’attenzione in modo condiviso verso una meta del processo di cura che il paziente tenta di raggiungere e il terapeuta trova ragionevole’.

Gli attori in campo sono due: il paziente e il terapeuta. La qualità della relazione interpersonale che si stabilisce fra loro è la condizione imprescindibile affinché il progetto terapeutico possa compiersi e portare ai risultati auspicati.

Senza tale condizione, l’efficacia di qualsiasi psicoterapia – terapia che usa come unico strumento la parola – è inimmaginabile.

L’intento – peraltro riuscito – di questo testo ampio e complesso è individuare, nell’ambito delle ricerche della psicologia della performance, indicazioni utili per gestire le fasi del trattamento in cui l’alleanza terapeutica si incrina.

Gli autori propongono strumenti concettuali e pratici efficaci nella gestione e regolazione delle esperienze emotive in condizione di stress nel corso della pratica clinica.

Al fine di supportare i terapeuti nel produrre performance efficaci e promuovere un miglior stato di benessere del paziente, anche in condizioni avverse o complesse, gli autori forniscono ampi riferimenti teorici e concreti strumenti operativi.

Quali sono i fattori che favoriscono e agevolano lo stabilirsi di una buona alleanza terapeutica, quali sono le condizioni che consentono il suo preservarsi e mantenersi solida nelle varie fasi del trattamento?

Quali sono le strategie che il terapeuta può attuare per preservare questa condizione e per uscire dalle impasse quando essa si incrina?

Alla base del testo vi è l’idea che, per garantire una buona alleanza terapeutica, il terapeuta debba sapere gestire momenti di stress emozionale e fornire risposte terapeutiche adeguate anche quando manca collaborazione e sintonia con il paziente. Continuare a operare efficacemente sotto stress senza perdere lucidità, obbiettività e capacità di intervento è rilevante soprattutto nei frangenti in cui emozioni di rabbia, aggressività o noia invadono il setting terapeutico.

Il libro offre una guida per negoziare le complesse richieste emotive a cui il terapeuta deve rispondere nella propria pratica clinica: la scienza della performance fornisce indicazioni al terapeuta per agire con pertinenza anche in frangenti di stress e turbamento emotivo.

Determinare il significato di stress e di performance sotto stress è operazione complessa: molteplici sono i fattori coinvolti. Occorre allineare la richiesta percepita con l’abilità percepita di riuscire a gestirla e da ultimo con l’importanza percepita di riuscire a gestirla.

La situazione percepita come stressante non è prodotta solo dallo scarto fra richiesta e abilità, ma anche dal desiderio e dall’ambizione di soddisfare la richiesta di base.

Per mantenere un buon livello di performance in condizioni di stress occorre considerare l’azione di più fattori:

  • La capacità decisionale individuale, dove intuizione e abilità di analisi del contesto si fondono nel produrre il risultato ottimale. Gli schemi cognitivi formati sulla base delle esperienze pregresse si integrano con le competenze analitiche: il processo di simulazione mentale crea ipotesi plausibili sulla possibile risoluzione del problema nel contesto attuale.
  • Il ricorso al pensiero controfattuale, ovvero il pensiero definito contrario ai fatti: il ragionamento in condizioni di stress si àncora spesso a euristiche e bias. Si tratta di scorciatoie cognitive che forniscono coordinate di orientamento quando il processo decisionale deve avvenire in condizioni di urgenza e/o incertezza. Fra queste euristiche le più frequenti sono quelle legate ai principi di rappresentatività, disponibilità e ancoraggio.
  • L’uso di bias impliciti, intesi come caratteristiche inconsce di giudizio: l’attribuzione di significato e di qualità, all’oggetto o soggetto dell’osservazione, è automatica ovvero avviene anche sulla base di stereotipi. Orientarsi nella realtà richiede schemi cognitivi che ne rendano immediata e intuitiva l’interpretazione. Tali automatismi seppur vantaggiosi in termini di semplificazione e selezione delle informazioni, possono tuttavia produrre interpretazioni del reale poco attendibili o basate su falsi presupposti.
  • L’impiego dell’euristica affettiva: esiste la tendenza a farsi influenzare, nel processo valutativo, da ciò che piace e da ciò che non piace. Spesso giudizi e decisioni sono implicitamente guidati dal gradimento personale.
  • La risposta allo stress varia soggettivamente, ma tendenzialmente si osserva che quando il distress supera l’eustress si presentano con maggiore frequenza cali di attenzione e distrazione. Questi fattori possono inficiare significativamente la performance.  Inoltre lo stress influisce negativamente su valutazione e giudizio condizionando la corretta valutazione di minacce, controllabilità e prevedibilità. Sotto stress le valutazioni tendono a essere più pessimistiche e come tali anticipano con più probabilità esiti negativi. Viceversa valutazioni più ottimistiche, se comunque aderenti al piano di realtà, oltre a ridurre lo stress promettono performance migliori.
  • L’attenzione al self focus ovvero una forma di autocoscienza associata all’iper riflessività. Nello specifico nella pratica clinica esso è salvaguardato anche grazie al confronto con colleghi e supervisori.
  • La capacità di regolazione emotiva, intesa da James Gross, autore di Handbook of Emotion Regulation come ‘l’insieme dei processi mediante cui gli individui influenzano quali emozioni provare, quando provarle e quando vivere ed esprimere tali emozioni’. Tale processo di regolazione avviene grazie a strategie specifiche: la selezione o la modifica delle situazioni che elicitano emozioni indesiderate; il dispiegamento attentivo con distrazione o distacco da aspetti critici della situazione; la ristrutturazione cognitiva per riformulare l’interpretazione di una situazione; infine la modulazione o la soppressione della risposta emotiva automatica.
  • La resilienza infine, intesa come adattamento positivo alle vicissitudini avverse, rappresenta un ultimo ma non meno rilevante fattore di controllo sullo stress. Le strategie a cui individui resilienti fanno ricorso sono la regolazione emotiva, l’atteggiamento ottimistico e l’emozionalità positiva per contrastare la negatività. L’idea alla base è che gli eventi non siano traumatici, se non nella misura in cui sono percepiti come tali: l’adeguata rivalutazione cognitiva di un evento avverso sostiene la fiducia di poterlo gestire e superare.

La capacità del terapeuta di funzionare in modo adeguato sotto stress si rende necessaria soprattutto quando l’alleanza terapeutica è a rischio o minacciata da una fase di impasse della terapia. La rottura dell’alleanza terapeutica rappresenta un momento di scissione improvvisa e drammatica fra paziente e psicoterapeuta. In questo frangente possono esservi diversi tipi di rotture:

Nelle ‘rotture di ritiro’ avviene un allontanamento da sé stessi o dall’altro nel tentativo di proteggersi nell’isolamento o come esito di un’eccessiva accondiscendenza. Risposte laconiche, comunicazione astratta, narrazione evitante fatta di discorsi troppo lunghi, accondiscendenza verso il terapeuta e ricorso eccessivo all’autocritica e alla rassegnazione sono indici di rotture di ritiro.

Il terapeuta può adottare comportamenti eccessivamente protettivi o accomodanti nei confronti del paziente, senza sostenerlo a sufficienza nel tentativo di uscire dall’impasse in cui si trova. L’atteggiamento eccessivamente rassicurante del terapeuta ostacola nel paziente il riconoscimento e l’espressione dei propri bisogni, anche a scapito della propria agency.

Al contrario altre forme di rottura sono legate a un vero e proprio scontro con l’interlocutore: istanze aggressive e di controllo prendono il sopravvento su quelle di unione e comunione. Lamentele e dubbi del paziente sul terapeuta e sulle sue competenze, tentativi di metterlo sotto pressione o controllo ne sono esempi.

Se si verifica una rottura dell’alleanza terapeutica cosa può fare il terapeuta per ripristinarla? A quali strategie può quindi ricorrere?

La regolazione emotiva rappresenta il primo strumento a sua disposizione in quanto consente di ripristinare i processi di riconoscimento e di soggettivazione reciproci. Entrambi avvengono grazie alla metacomunicazione: si tratta di esprimere a parole l’esperienza personale vissuta nel qui e ora.

Ciò avviene su due livelli: a livello di contenuto (ciò che effettivamente viene detto) e a livello di processo (il modo in cui viene detto). La metacomunicazione, ovvero la comunicazione sul processo comunicativo, consiste quindi nel tentativo di uscire fuori dall’interazione paziente terapeuta per osservarla e trattarla come l’argomento dell’indagine collaborativa.

Concretamente la metacomunicazione è possibile grazie ad alcuni criteri:

  • L’invito a collaborare: nel corso di una rottura dell’alleanza terapeutica il paziente sperimenta sentimenti di isolamento e solitudine: il terapeuta è un’altra persona incapace di entrare in contatto profondo con i suoi bisogni e di accoglierli. Per far sì che il paziente torni a percepire il terapeuta come un alleato, occorre che questi legittimi la soggettività delle percezioni tanto del paziente quanto delle proprie: non esiste una prospettiva assoluta, quanto l’integrazione possibile di diverse prospettive.
  • Stimolare la consapevolezza esperienziale del qui e ora della seduta: evitare speculazioni astratte contiene la tendenza a fughe difensive dai temi caldi per il paziente. Proporre ipotesi anziché interpretazioni lascia al paziente la possibilità di cogliere collegamenti fra la propria esperienza emotiva nella relazione terapeutica e le altre relazioni significative vissute nel mondo esterno.
  • Assunzione di responsabilità: per il terapeuta riconoscere il ruolo che egli stesso ha avuto nel verificarsi della rottura significa accogliere il paziente in uno spazio valutativo dove egli ha una titolarità, tanto quanto il terapeuta stesso.
  • Monitoraggio delle reattività emotive: il terapeuta monitora come il paziente reagisce emotivamente a quanto viene detto in seduta. Questo consente di modulare gli interventi interpretativi in modo che non risultino né intrusivi né distanzianti.
  • Evitare di enfatizzare eccessivamente ciò che è già esplicito: essere sempre assertivi rischia di diventare fastidioso. Occorre mantenere il totale rispetto della riservatezza e lasciare lo spazio anche al silenzio e all’autoriflessione. Anche nel contesto terapeutico occorre tenere a mente il naturale oscillare delle relazioni fra momenti di avvicinamento e intimità da quelli di maggiore distanza e riservatezza. Il rispetto di questo confine, mai stabile e sempre fluido, garantisce al paziente la tutela necessaria per vivere il setting come uno spazio sicuro e protetto.

Vi sono emozioni specifiche con le quali frequentemente il terapeuta si deve confrontare nel corso della terapia. La sua capacità di regolarle, gestirle e restituirle prive di giudizi al paziente salvaguarda la qualità della relazione e scongiura possibili rotture dell’alleanza.

Le emozioni negative del paziente a cui il terapeuta è chiamato a rispondere sono:

  • Ansia e panico: sono stati emotivi a forte connotazione negative che in maniera quasi automatica innescano reazioni difensive evitanti di ricerca di sicurezza.
  • Rabbia e odio: si tratta di reazioni emotive intense in risposta a situazioni percepite come violente e di attacco o di prevaricazione. Esiste uno scarto importante fra provare ed esprimere la propria rabbia. Di fronte ad attacchi o invadenze dei pazienti il terapeuta deve monitorare la propria reazione rabbiosa: uno degli obbiettivi della terapia è mostrare al paziente che il terapeuta sopravvive alla rabbia del paziente, che riesce a contenerla.
  • Tristezza e disperazione: difronte a queste reazioni emotive di profonda sofferenza il terapeuta è chiamato a manifestare sostegno empatico e accudimento, spesso stimolando la speranza e contenendo la disperazione.

Nel delicato e complesso processo di gestione di queste emozioni emergenti il terapeuta è invitato ad adottare alcune strategie volte a tutelare la qualità del suo lavoro, ma soprattutto il proseguo della terapia in un’ottica di vantaggio e beneficio per il paziente.

A tal fine gli autori suggeriscono una serie di semplici ma efficaci accortezze:

  • mantenere un atteggiamento umile, di osservazione e ascolto;
  • coltivare la compassione e sforzarsi nel mantenere posizioni di comprensione scevre da giudizio;
  • tenere desta in sé la curiosità per giungere a una comprensione autentica e profonda del mondo interno del paziente;
  • essere pazienti anche di fronte a momenti di noia e stallo;
  • infine sostenere il paziente con la positività e la fiducia nelle possibilità di cambiamento che il futuro può riservare.

Gli strumenti operativi suggeriti attraverso cui esercitare e mantenere queste posture terapeutiche sono:

  • gli esercizi di mindfulness prima delle sedute;
  • il diario delle emozioni dopo le sedute;
  • la lettura critica dei dati raccolti volta a cogliere dati fra loro contrastanti e gli effetti iatrogeni di possibili bias cognitivi;
  • role playing che simulano la pratica sotto pressione, al fine di monitorare reattività e modulazione delle proprie emozioni;
  • la condivisione delle competenze con colleghi che facciano da interfaccia nella valutazione delle ipotesi.

Il testo nella sua complessità rappresenta un contributo autenticamente significativo sia per chi voglia impegnarsi nel migliorare la propria pratica clinica sia per chi abbia esigenza di strutturarla in maniera ancora più solida ed efficace, soprattutto quando chiamato a operare sotto stress.

Gli spunti che il testo fornisce sono ricchi, ampi e ben documentati: è una lettura che non solo informa, ma che promuove, in chi lo voglia intraprendere, un processo di costante miglioramento della propria pratica clinica. A beneficio proprio, ma soprattutto del paziente.

 

Oltre la paura: senso di colpa e vergogna durante il COVID-19

Come già ampiamente riportato, la diffusione del COVID-19 ha comportato delle conseguenze dannose per la salute mentale delle persone (Greenberg et al., 2020).

 

Oltre alla paura costante di essere infettati, vergogna e senso di colpa sembrano avere un ruolo principale nello scenario pandemico. Queste emozioni possono essere particolarmente problematiche poiché, se non vengono adeguatamente riconosciute e gestite, sono correlate a gravi sintomi psicologici tra cui PTSD, depressione, ideazione suicidaria, abuso di sostanze e, più un generale, una scarsa qualità di vita (Tracy et al., 2007; Cândea & Szentagotai-Tătar, 2018).

COVID-19 e senso di colpa

La colpa implica un’autocritica per una specifica azione e preoccupazione per il danno che si può causare agli altri (Tangney & Dearing; 2003). In alcuni casi, il senso di colpa può essere considerato un’emozione adattiva e costruttiva, poiché spinge le persone ad azioni pro-attive, come ad esempio chiedere scusa, apportando benefici alle relazioni interpersonali.

Tuttavia, quando il senso di colpa diventa slegato da contesti specifici, può essere disfunzionale, creando un esagerato senso di responsabilità per eventi che si verificano fuori dal nostro controllo (Cherry et al., 2017).

Una condizione prolungata di incertezza e di allerta costante legata al COVID-19, combinata alla paura di infettare gli altri, può dare luogo ad un senso di colpa disadattivo.

Anche quando si seguono attentamente le misure di sicurezza necessarie, possono essere presenti pensieri legati alla possibilità di essere un portatore di COVID-19, e di conseguenza, considerarsi un rischio per i membri della famiglia. Questa esperienza emotiva potrebbe essere amplificata per le famiglie, amici o colleghi di coloro che hanno contratto il virus o che nel peggiore dei casi, ne sono morte.

In molti casi, il tracciamento del contagio viene a perdersi facilmente, perciò chiunque potrebbe essere potenzialmente un vettore di contagio asintomatico, senza esserne a conoscenza. Proprio in questi casi, i pensieri ricorsivi legati a una reale, o presunta, responsabilità personale di infezione possono rivelarsi davvero molto opprimenti (Cavalera, 2020).

Chiunque sia stato in contatto con persone che sono state infettate o sono morte a causa del COVID-19 è esposto ad una situazione costante di incertezza, che può suscitare sensi di colpa disfunzionali e sentimenti di responsabilità inappropriati o esagerati (Cândea & Szentagotai-Tătar, 2018).

Il senso di colpa può rivelarsi un problema anche per le stesse persone che hanno contratto il virus (Ransing et al., 2020). La prassi nei casi di positività implica severe misure di controllo del contagio, per cui, anche un’infezione lieve, richiede spesso una quarantena forzata che impone un allontanamento sociale e un improvviso cambiamento delle abitudini domestiche (non solo per la persona contagiata, ma per chiunque sia stato a contatto con essa). In questa situazione possono sorgere sentimenti di colpa per aver rovinato la propria vita e quella degli altri membri della famiglia, che possono essere dirompenti quando l’infezione presenta complicazioni cliniche che richiedono l’ospedalizzazione (Brooks et al., 2020). In questi casi, la paura di morire (per sé o per gli altri), unita alla condizione di solitudine, può portare a sentimenti di colpa quali “non ho prestato abbastanza attenzione” oppure “ho fatto un gravissimo errore”.

Un ulteriore fattore che aggrava il senso di colpa può essere l’utilizzo di social media, poiché questi possono portare ad un sovraccarico di disinformazione che può amplificare i sentimenti di iper-responsabilità personale (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2020).

Il senso di colpa può emergere anche tra gli operatori sanitari visto che in alcuni paesi le risorse per le cure intensive sono limitate, per cui i medici ospedalieri possono essere costretti a scegliere quale vita salvare, rendendo necessarie decisioni difficili su chi trattare per primo (Greenberg et al., 2020). Queste esperienze possono essere emotivamente travolgenti, il senso di colpa può essere suscitato dal rimpianto o dal rimorso legato alle decisioni prese in condizioni critiche.

COVID-19 e vergogna

L’emozione della vergogna induce esperienze tossiche di inutilità, inferiorità e incompetenza e porta ad un desiderio di fuga e/o ritiro sociale (Tracy et al., 2007); esperita con ricorsività, la vergogna può esacerbare un’auto-attribuzione globale negativa che spesso si associa a effetti negativi sul benessere mentale, come ad esempio un cattivo adattamento psicologico, difficoltà interpersonali e un cattivo funzionamento generale della vita (Cavalera et al., 2018).

Le precedenti pandemie (HIV, epatite B, Ebola) ci hanno dimostrato che le risposte sociali, in queste situazioni, hanno il potenziale di esacerbare lo stigma e sensazioni di vergogna (Logie & Turan, 2020). Anche La pandemia di COVID-19, a causa dei numerosi fattori di stress, può essere angosciante e causare le medesime risposte. Le risposte di vergogna legate al COVID-19, possono generare aspetti traumatici basati sulla percezione di non avere valore per gli altri, o peggio, di essere pericolosi per loro (Dorahy et al., 2017). In alcune situazioni, per evitare di essere rifiutati dagli altri e di provare emozioni di vergogna, le persone possono addirittura nascondere agli altri la loro positività e/o informazioni sul loro effettivo rischio di contagio (Taylor, 2001), creando la possibilità di una successiva diffusione del virus.

La vergogna di chi ha contratto il COVID-19 può derivare da pensieri di inferiorità e debolezza, che innescano un’autocritica verso sé stessi, portando le persone a percepirsi come difettose e impotenti. Nelle persone infette, ma anche in quelle che non sono più infette, si può sviluppare del sentimento di vergogna legato al rifiuto sociale (Brooks et al., 2020). Infatti, le esperienze narrative vissute dai pazienti con COVID-19 hanno evidenziato pensieri intrusivi vergognosi e la paura di essere stigmatizzati dalle persone care (Sahoo et al., 2020).

Conclusioni

In conclusione, da un punto di vista sociale, durante la pandemia le persone possono incorrere in stigmatizzazioni e, di conseguenza, in strategie di mitigazione dello stigma.

A causa delle implicazioni psicologiche della pandemia è ormai fondamentale sviluppare programmi di trattamento specifici, sia per gli operatori sanitari che per la popolazione generale (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2020). Necessario è, inoltre, affrontare l’emozione di vergogna e di colpa disfunzionale che sembrano assumere un ruolo importante per la salute mentale durante la pandemia. Terapie utili in questi casi potrebbero essere la terapia focalizzata sulla compassione (Gilbert, 2014), EMDR nel caso in cui emergano sintomi traumatici o si sovrappongano traumi precedenti (Shapiro, 2017) e trattamenti individuali specifici (Dearing & Tangney, 2011).

Amenorrea nei Disturbi Alimentari: cause e trattamento

L’amenorrea è spesso il primo segnale che qualcosa, all’interno del comportamento della persona, stia minando la salute dell’organismo.

Ciclo mestruale e amenorrea

In una donna in età fertile, il ciclo mestruale può essere considerato regolare quando ha una durata che varia tra i 25 ai 36 giorni: infatti, moltissimi fattori possono influenzarne la durata e interferire con la sua regolarità, siano essi interpersonali o dovuti a fattori esterni.

Tuttavia, quando per sei mesi consecutivi le mestruazioni vengono a mancare, si può parlare di amenorrea.

Qualora al compimento dei sedici anni la donna non abbia mai avuto il menarca, si parla di amenorrea primaria, mentre si indica come secondaria un’amenorrea che insorga in una donna dai cicli per lo più regolari.

L’interruzione dei cicli mestruali (o il mancato inizio di questi) è sempre un campanello d’allarme per la salute della donna, in quanto può essere specchio di un malessere sia fisico sia psicologico, e pertanto porta spesso alla richiesta di aiuto verso figure professionali in grado di identificarne le cause.

Una volta escluse le possibili disfunzioni organiche (tra le più comuni ritroviamo disordini dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, sindrome dell’ovaio policistico, sindrome di Cushing o tireopatie), si può parlare di amenorrea funzionale ipotalamica.

Quest’ultima è una forma di amenorrea non dovuta a cause organiche, ma associata piuttosto a stati di forte stress psico-fisico, alla perdita di peso e/o all’eccessivo esercizio fisico.

Disturbi Alimentari e Amenorrea

Questi tre aspetti (stress, perdita di peso ed esercizio fisico eccessivo) sono facilmente riscontrabili in donne affette da un disturbo dell’alimentazione ed è infatti molto frequente che l’amenorrea sia proprio il primo segnale che qualcosa, all’interno del comportamento della persona, stia minando la salute dell’organismo.

I disturbi alimentari sono patologie complesse, caratterizzate da un rapporto alterato e disfunzionale con il cibo e da una preoccupazione eccessiva per il peso e per la forma del corpo, che porta all’instaurarsi di comportamenti atti a modificarli o controllarli.

Tra questi comportamenti, vediamo prevalentemente:

  • Restrizione alimentare quantitativa, caratterizzata dalla riduzione dell’introito energetico giornaliero;
  • Restrizione alimentare qualitativa, contraddistinta dall’esclusione di alimenti e gruppi alimentari (frequentemente carboidrati e lipidi);
  • Esercizio fisico eccessivo, praticato anche in condizioni fisiche precarie

Questi sono proprio, uniti alla perdita di peso che spesso ne consegue e agli alti livelli di stress psico-fisico, i fattori eziologici dell’amenorrea funzionale ipotalamica.

Nonostante l’amenorrea sia una condizione reversibile, le conseguenze a lungo termine qualora non venisse trattata, sono molteplici e interessano diversi aspetti della salute della donna:

  • alternata funzionalità vascolare e prematuro rischio di insorgenza di malattie cardio-vascolari;
  • ridotta densità ossea e prematuro sviluppo di osteopenia e osteoporosi;
  • disturbi della fertilità.

Per tutte queste ragioni, è importante che le donne che soffrono di questa condizione ricevano il giusto trattamento per tempo, così da prevenire l’insorgenza o l’aggravamento di una o più delle complicanze citate.

Linee guida per il trattamento dell’amenorrea

Le nuove linee guida (da Nuove linee guida per diagnosticare e trattare l’amenorrea funzionale ipotalamica: l’importanza dell’intervento nutrizionale e cognitivo comportamentale – Dr. Riccardo Dalle Grave) per il trattamento dell’amenorrea funzionale ipotalamica indicano:

  • Una corretta diagnosi della patologia, che avverrà ‘per esclusione’ di tutte le condizioni organiche che potrebbero averla causata;
  • Correzione dello squilibrio energetico e dei deficit nutrizionali per migliorare la funzione dell’asse ipotalamo-pituitario-ovarico, attraverso l’introduzione di una dieta adeguata dal punto di visto energetico e nutrizionale;
  • Qualora il peso corrispondesse ad un Indice di Massa Corporea IMC < 18.5 oppure si sia verificato un importante calo di peso in breve tempo, è inoltre indicato l’aumento di peso;
  • Riduzione dei livelli di attività fisica;
  • È consigliabile un supporto psicologico, come la terapia cognitivo comportamentale (CBT).

Infine, qualora l’intervento atto alla normalizzazione dell’introito energetico, la sospensione dell’attività fisica e il supporto psicologico non abbiano ottenuto risultati nel normalizzare il ciclo mestruale, e solo nelle donne il cui indice di massa corporea IMC sia compatibile con uno stato di normopeso (IMC > 18,5), può essere prescritto un contraccettivo orale.

Appare quindi chiaro che il miglior intervento possibile per correggere l’assenza di ciclo mestruale sia multidisciplinare, e richieda la cooperazione di diverse figure professionali che possano intervenire su tutte le sfaccettature che caratterizzano questa condizione, soprattutto in presenza di un disturbo alimentare.

La Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E – enanched) è una forma ‘specifica’ di CBT sviluppata dal Centre for Research on Eating Disorders at Oxford (CREDO) per affrontare la psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione.

Il protocollo, oltre agli aspetti più propriamente psicoterapici del Disturbo Alimentare, è caratterizzato anche da una grande attenzione a quelli nutrizionali, attraverso l’introduzione di menù specifici per il recupero del peso (correggere la restrizione quantitativa) e la graduale reintroduzione dei cosiddetti ‘alimenti vietati’ (correggere la restrizione qualitativa).

Per questa ragione, la CBT-E può essere considerata un valido strumento non solo per l’intervento sulla psicopatologia del disturbo alimentare, ma anche sull’amenorrea che spesso ne consegue e che è, nella maggior parte dei casi, non solo una richiesta d’aiuto da parte dell’organismo, ma anche un forte fattore motivazionale per l’inizio di un percorso di guarigione.

 


Il ruolo di internet e dei social media nell’esplorazione della sessualità tra gli adolescenti

Alcuni studi hanno indagato il potenziale ruolo dell’esplorazione sessuale online tra gli adolescenti come momento di costruzione ed espressione dell’identità.

 

I compiti evolutivi degli adolescenti

Durante l’adolescenza, lo sviluppo e la formazione di una propria identità, è fortemente legato allo sviluppo della sessualità e all’interesse per i legami sentimentali. Secondo un rapporto del 2015 del Pew Research Center, quasi il 24% degli adolescenti naviga su internet quasi costantemente e il 92% degli adolescenti accede a internet quotidianamente; di conseguenza, gran parte dell’esplorazione in campo sentimentale per gli adolescenti si è spostata online, dove i giovani si rivolgono al Web per la costruzione di relazioni romantiche e l’esperienza sessuale. Diversi studi suggeriscono che gli adolescenti usano l’ambiente online per esplorare questioni importanti in tale ambito (Subrahmanyam et al., 2009). Tra i compiti evolutivi che devono affrontare i giovani, vi è quello di costruire una sessualità sana: il tasso di attività sessuale, infatti, aumenta con l’età; tra i ragazzi dai 15 ai 17 anni negli Stati Uniti, il 36% dei maschi e il 39% delle femmine hanno avuto un rapporto sessuale (Mosher et al., 2005). Un altro importante compito evolutivo per gli adolescenti è quello di sviluppare un’identità, che include un’identità di genere, sessuale, morale, politica e religiosa (Kroger, 1995). Un’identità stabile consiste nella definizione di sé, così come dei ruoli e delle relazioni che si assumono, i valori personali o le credenze morali (Huffaker & Calvert, 2005). Inoltre l’adolescenza è un periodo di maggiore assunzione di rischi (Sales & Irwin, 2009). Le stime affermano che circa il 54% dei profili degli adolescenti su alcuni social network, mostrano un coinvolgimento in comportamenti rischiosi tra cui il sesso non protetto o l’alcol (Moreno et al., 2009); molti adolescenti ritengono l’assunzione di rischi un aspetto importante per la propria identità.

L’uso della tecnologia tra gli adolescenti

L’aumento spropositato del possesso di oggetti tecnologici personali tra i giovani, unito alla fase di sviluppo dell’esplorazione sessuale e dell’identità hanno, con il tempo, modificato i modi in cui i più giovani costruiscono le relazioni e si sottopongono all’esplorazione sessuale. Le app di incontri e i siti costituiscono degli spazi in cui iniziare relazioni sessuali, scoprire la pornografia, sperimentare il gioco sessuale e conoscere persone per un appuntamento (Dolcini et al., 2015). Alcuni studi hanno indagato il potenziale ruolo dell’esplorazione sessuale online tra gli adolescenti come momento di costruzione ed espressione dell’identità; è noto, infatti, che le piattaforme dei social media costituiscono per i giovani un’opportunità per connettersi e costruire una propria identità online (Subrahmanyam, 2009; Valkenburg & Peter, 2011). Tuttavia esistono ancora pochi studi sui nuovi metodi online usati dai giovani per l’esplorazione sessuale e sull’uso di siti d’incontro tra i ragazzi di età inferiore ai 18 anni (Allison et al., 2012).

Il dating online tra gli adolescenti

Sembra opportuno, quindi, approfondire il livello di fiducia e di coinvolgimento che i giovani ripongono nel dating e nel flirt online, in particolare nel contesto della salute pubblica, al fine di individuare delle opportunità per alcuni interventi preventivi. Nel 2019 Lykens e colleghi hanno condotto uno studio al fine di esplorare i comportamenti e le opinioni degli adolescenti durante l’esplorazione sessuale online, la costruzione di relazioni e gli appuntamenti online, per poter fornire ulteriori informazioni sul comportamento dei giovani e mettere in atto delle possibili modalità di intervento. I ricercatori hanno condotto uno studio esplorativo chiamato TECHsex nel quale sono stati analizzati, tramite un approccio misto di metodi, diversi dati raccolti da gennaio a dicembre 2016 per capire le esperienze e i desideri dei giovani mentre navigano, le loro relazioni sessuali attraverso i social media, le chat e gli appuntamenti online. Tali dati sono stati raccolti mediante un sondaggio di tipo quantitativo su 1500 giovani (di età compresa dai 13 ai 24 anni), e dodici focus group qualitativi ai quali hanno preso parte 66 giovani.

I risultati mostrano che gli spazi online spesso sono considerati delle vie primarie per iniziare relazioni romantiche e promuovere le identità sessuali attraverso il flirt e gli appuntamenti online. Sebbene i siti d’incontro siano frequentati da ragazzi maggiorenni e alcuni siano vietati ai minori, molti giovani di età inferiore ai 18 anni li utilizzano per fare amicizia e intraprendere relazioni: il 70% degli adolescenti iscritti ad un sito per dating ha incontrato qualcuno di persona dopo un primo approccio online. Dai focus group è emerso inoltre che i ragazzi imparano ad avere rapporti sessuali attraverso la pornografia, i siti di incontri o tramite i flirt sui social media. Questi ultimi sono considerati un canale privilegiato per esplorare un potenziale partner o intraprendere una relazione romantica. La paura della violenza o del catfishing, che talvolta incombe sui giovani, spinge alcuni di loro a utilizzare i social media più conosciuti come opzione più sicura per gli incontri, probabilmente a causa della maggiore familiarità e visibilità di tali piattaforme. Per molti adolescenti, invece, gli incontri online sono un’opportunità per connettersi con i coetanei, in particolare per i ragazzi LGBT e per coloro che vivono fuori città.

Conclusioni

In conclusione i risultati ottenuti dimostrano la complicata relazione che i giovani hanno con l’esplorazione sessuale online e lo sviluppo delle relazioni. Le pratiche online possono fornire molti benefici ma anche alcuni rischi che bisogna tenere in considerazione per utilizzare più strategicamente le piattaforme e creare programmi incentrati sui giovani per migliorare gli esiti della salute sessuale dei giovani (Lykens et al., 2019).

 

L’ascolto psicoanalitico in emergenza (2021) di Anna Maria Nicolò – Recensione del libro

L’ascolto psicoanalitico in emergenza descrive l’attività di assistenza psicologica telefonica progettata e realizzata dalla S.P.I., mostrandone anche i risultati.

 

Sin dai primi mesi di pandemia l’intera comunità degli psicologi, con la generosità che le è propria ma anche in modo inevitabilmente poco coordinato, ha proposto iniziative a sostegno della popolazione. Mentre gli psichiatri si sono rivolti prevalentemente alla ricerca, producendo anche risultati interessanti, molte istituzioni sia pubbliche che private della nostra categoria hanno offerto consulenze psicologiche spesso gratuite e in modalità online.

Non sorprende dunque che anche la comunità psicoanalitica si sia posta la questione e abbia attivato delle iniziative, di cui il volume mostra i risultati.

È curato da Anna Maria Nicolò, attualmente past president della S.P.I., con un passato da terapeuta familiare, essendo stata una dei fondatori dell’Istituto di Terapia Familiare di via Reno, insieme a Carmine Saccu, Paolo Menghi e Maurizio Andolfi, successivamente si è occupata molto e ha scritto di terapia di coppia ad orientamento psicoanalitico.

Il libro descrive l’attività di assistenza psicologica telefonica progettato e realizzato dalla S.P.I., mostrandone anche i risultati. Il servizio è partito il 20 marzo 2020, l’attività è durata 3 mesi ed ha coinvolto circa 400 psicoanalisti di vari centri operanti in diverse regioni. Ciascuno di essi ha offerto un intervento gratuito consistente in un servizio volontario di ascolto, limitato al massimo di 4 colloqui telefonici, della durata compresa tra 20 e 50 minuti. Vi sono state circa 1350 richieste d’aiuto, 2/3 da parte di donne e un terzo da parte di uomini, per circa 3500 colloqui telefonici complessivi.

Riconosciuta la volontà positiva degli psicoanalisti di fornire il proprio contributo sociale in un momento di grave crisi collettiva, l’esperienza ripropone due interrogativi molto interessanti. Il primo, dibattuto da tempo, fa riferimento alla possibilità di flessibilità adattiva della psicoanalisi. In altri termini, quanto essa sia ancora efficace se posta al di fuori del suo specifico setting clinico, rigoroso ma a volte anche rigido. In una situazione di grave emergenza complessiva, eliminato il contatto fisico diretto, tolto il lettino, riducendo il numero complessivo di sedute ad appena quattro, ma conservando il setting interno, l’attitudine all’ascolto e la lettura in termini di transfert e controtransfert, è ancora psicoanalisi quella svolta dai colleghi in quest’occasione?

L’altra questione è se, quanto e in che maniera sia diverso l’ascolto laddove sia condotto da parte di uno specialista con una formazione molto ricca e specifica. Insomma, quanto sia possibile, pur nell’arco di massimo 4 incontri, non vis-a-vis ma telefonici, far emergere qualcosa che sia non solo sostegno, ma anche “interpretazione”. A questi quesiti, oltre a fornire ovviamente altri dati e spunti di riflessione, danno una risposta le pagine dei 15 contributi che costituiscono il corpo del libro, firmati da ben 27 psicoanalisti. Ovviamente, ciascun lettore, in base innanzitutto alla propria concezione di psicoanalisi, potrà valutare l’efficacia ed apprezzare lo sforzo di dare una risposta non ortodossa al disagio altrui, ma anche personale, in una situazione eccezionale assolutamente non prevedibile. Tra i tanti capitoli, segnalo l’interessante confronto, nell’introduzione scritta da Marianne Leuzinger-Bohleber, tra la visione psichiatrica del disturbo da stress post traumatico e la teorizzazione psicoanalitica a proposito della traumatizzazione. Inoltre, le iniziative descritte nel libro hanno coinvolto anche gli operatori sanitari in prima linea nella lotta al Covid, che si sono autonomamente rivolti ai contatti telefonici della S.P.I. Particolarmente coinvolgente la relazione telefonica descritta da Stefano lussana con un medico, da lui definito dottor “Viaggio”, facendo riferimento al condiviso viaggio nel mondo delle emozioni che hanno realizzato il medico in prima linea e lo psicoanalista.

Questa emergenza ha sicuramente colpito tutti, ovviamente in modo e intensità diversa. I rapporti sociali sono cambiati, soprattutto nel periodo del primo lockdown in cui è stata effettuata la ricerca, e ancora non sappiamo per quanto tempo saranno necessarie modifiche al nostro comportamento quotidiano. Il confronto con un nemico invisibile ma molto potente, il virus, e le conseguenti strategie di prevenzione hanno avuto un impatto notevole sul mondo psichico di ciascuno di noi. Nessuno è stato esente dall’impatto della pandemia: l’isolamento sociale ha avuto specifiche conseguenze per i bambini e per il mondo scolastico; gli anziani sono stati particolarmente a rischio; gli ammalati di altre patologie hanno visto un decadimento della qualità delle loro cure mediche; le problematiche di disagio economico si sono acuite in diverse situazioni. Anche la questione dell’efficacia dei vaccini, con le conseguenti polemiche, ha un riverbero psicologico notevole, che merita di essere studiato ma che per motivi di spazio non può essere trattato qui. Nel libro curato da Nicolò ci sono spunti che fanno riferimento ad alcune di queste situazioni, all’ascolto nelle varie fasi della vita e a come una relazione d’aiuto fondata su un ascolto partecipe possa svolgere una funzione di grande utilità.

Parlando della pandemia, il mio vertice osservativo è particolare ed emotivamente non neutro essendo, come attività istituzionale, responsabile dell’U.O.S.D. di Psicologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, di cui fa parte anche l’ospedale Cotugno di Napoli, meritoriamente balzato alle cronache nazionali ed internazionali proprio per l’impegno dei suoi operatori. Insieme al Sacco di Milano e allo Spallanzani di Roma è uno dei 3 poli ospedalieri italiani dedicati esclusivamente alle malattie infettive ed è da quasi due anni impegnato nella cura dei pazienti affetti da Covid.

Dalla mia visuale di psicologo ospedaliero, è ovvio che il carico emotivo più pesante lo abbiano vissuto i pazienti, soprattutto quelli costretti al ricovero, e i loro familiari. Tra le tante specificità del Covid quella sicuramente più potente dal punto di vista psicologico, unendo il timore per la propria salute con quella dei propri cari, è che, in tantissime situazioni, si sono ammalate diverse persone della stessa famiglia. Noi psicologi diciamo che ogni malattia importante è sempre una malattia “familiare”: sia perché investe i parenti che vivono a loro volta una condizione spesso di forte stress, sia perché essi sono sempre la risorsa più importante. Quindi, proviamo a prenderci cura di tutto il sistema familiare. Ma, in questo caso, si sono ammalati davvero interi nuclei familiari. Quello che i ricoverati ci hanno riferito è che la separazione familiare, più che l’isolamento in sé, già traumatico con l’impossibilità di avere contatti se non con operatori bardati in tute protettive, è stata l’evenienza più difficile da accettare. La fonte di maggior disagio è stata proprio l’impotenza per non poter far nulla in un momento di difficoltà delle persone che ami, il desiderio di voler partecipare dando sostegno, mentre invece si è costretti ad essere tutti separati. Tutto ciò sapendo che a casa, o finanche nello stesso ospedale, ci fossero genitori o coniuge ammalati e non poter essere d’aiuto.

Inoltre, non si può mai trascurare il fatto che sono morte nel nostro paese oltre 137.000 persone. Ciò significa che sono centinaia di migliaia le persone che stanno vivendo in questi mesi un lutto: mogli, mariti, figli, fratelli e sorelle, genitori. La questione è innanzitutto etica e culturale. Etica perché è un dovere della collettività essere vicino a queste persone. Il secondo aspetto è invece culturale: smettere di eliminare finanche il pensiero della morte dalla nostra società. Occorre dare risalto a questo tema, per quanto doloroso e difficile. La morte non si sconfigge cercando di ignorarne l’esistenza. Occorre incentivare progetti che favoriscano il sostegno psicologico per i familiari di vittime del Covid o altra patologia per supportarli nell’elaborazione del lutto. Infine, l’ultima area molto importante riguarda l’assistenza agli operatori sanitari, sottoposti ad una situazione tuttora in corso con un carico emotivo straordinario.

Confesso che negli scorsi mesi ho provato anche un po’ di fastidio quando psicologhe/gi da casa si proponevano per consulenze di sostegno agli operatori ospedalieri in prima fila nella lotta al Covid. Ciò per due motivi. Il primo, più banale, è legato al fatto che difficilmente chi sta nelle “retrovie” può comprendere cosa si prova “in trincea”. Utilizzo non a caso un linguaggio bellico, ma i miei colleghi ospedalieri mi hanno raccontato più volte la drammaticità della propria situazione, a partire dalle prime settimane di febbraio-marzo dello scorso anno, in cui dovevano confrontarsi con una malattia nuova, inizialmente sconosciuta, che portava al decesso a volte in poche ore. L’altro motivo è più strutturale. Intendiamoci, io penso sia utile offrire assistenza psicologica ai lavoratori che sviluppano, ad esempio, forti quote d’ansia legate proprio al contesto professionale e ai rischi ad esso connessi. Ma sono tra quelli che reputano assai più utile occuparsi del benessere psicologico degli operatori sanitari “a monte” e non dopo che il disagio si sia manifestato. Come in medicina, anche in psicologia è importante la prevenzione e non solo la cura delle malattie. Ma è chiaro che ciò significa fare interventi sistemici, mettere mano all’organizzazione del lavoro, che deve tener conto della componente psicologica.

 

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