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Preoccupazione ed umorismo: prendere la vita con leggerezza è davvero utile ad incrementare il benessere?

Diversi studi hanno dimostrato che le persone con un maggiore senso dell’umorismo presentano meno ansia e stress rispetto alle persone con un minore senso dell’umorismo (Kuiper, 2012).

 

L’umorismo è un costrutto multidimensionale che combina svariati aspetti, come abitudini comportamentali, abilità e competenze, un tratto di personalità e una strategia di coping (Ruch, 2008). Recentemente è stato sviluppato un modello che descrive le differenze individuali nell’uso dell’umorismo concentrandosi su una lista di otto stili, ovvero i Comic Style Markers (CSM) (CSM; Ruch, Heintz, et al., 2018)

Gli otto stili comici possono essere classificati come stili di umorismo “leggeri” o “oscuri”. Gli stili “leggeri”, che riguardano l’affetto benigno e sociale sono: (1) il divertimento, volto a diffondere il buon umore e la buona compagnia; (2) l’umorismo, che suscita la simpatia scoprendo le discrepanze nelle esperienze quotidiane; (3) il nonsense, basato sul giocare con le incongruenze e le bizzarrie senza uno scopo specifico; e (4) l’arguzia, indicata come la capacità di creare collegamenti intelligenti tra idee e pensieri. Gli stili “oscuri”, basati sulla derisione e il ridicolo, sono: (1) l’ironia, che riflette un contrasto o un’incongruenza tra le aspettative per una situazione e ciò che è la realtà, contenendo l’opposto di ciò che si intende; (2) la satira, diretta a criticare e correggere le carenze, la cattiva condotta e gli errori morali con l’intenzione di migliorare il mondo; (3) il sarcasmo, fondato sull’essere critici verso gli altri e trasmettere disprezzo; e (4) il cinismo, volto a svalutare i valori comunemente riconosciuti (Ruch, Heintz, et al., 2018).

La preoccupazione (worry) rappresenta la componente cognitiva dell’ansia ed è descritta come un tipo di catena intrusiva, ripetitiva e incontrollabile di pensieri e immagini negative. Gli stili di umorismo “leggeri”, in quanto favorevoli alle emozioni positive, potrebbero essere per lo più correlati a un maggior benessere e a una migliore predisposizione ad affrontare gli eventi stressanti, al contrario, gli stili “oscuri”, che rappresentano la tendenza ad esibire un atteggiamento negativo e distruttivo, potrebbero influenzare negativamente il benessere.

Umorismo, preoccupazione e benessere

Lo studio di Dionigi et al. (2021) ha indagato la relazione tra gli otto stili comici, la preoccupazione e il benessere. Nella ricerca sono stati coinvolti 254 partecipanti italiani (131 uomini e 123 donne) di età compresa fra i 18 ed i 67 anni. I soggetti sono stati reclutati online, inviando il link di Google Moduli ad una mailing list. Il campione era costituito per la maggior parte da persone con un diploma di scuola superiore (47.2%) o laureati (30.3%). Per raccogliere gli stili di comicità è stata proposta la versione italiana del Comic Style Markers (CSM; Ruch, Heintz, et al., 2018; Dionigi et al.,2021), un questionario autosomministrabile composto da 48 items che indaga otto stili di comicità: divertente, comico, ironico, nonsense, arguto, satirico, sarcastico e cinico. Ad ogni stile di comicità corrispondono 6 items che vengono valutati su una scala in cui 1 significa “fortemente in disaccordo” e 7 “fortemente d’accordo”. Per accertare i livelli di worry dei partecipanti è stato utilizzato il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990; Morani et al. 1999), un questionario composto da 16 items che valutano la generalizzazione, l’eccessività e l’incontrollabilità dei livelli patologici del worry. Ogni item viene valutato su una scala a 5 punti in cui 1 corrisponde a “per niente tipico” e 5 “molto tipico” . Per valutare il benessere emotivo i partecipanti hanno dovuto compilare la World Health Organization-5 Well-Being Index (WHO-5; WHO, 1998), uno strumento che valuta la frequenza di determinati sentimenti nelle ultime due settimane, in base al punteggio attribuito a ciascuno dei 5 items. La frequenza viene valutata su una scala a 6 punti in cui 0 indica “mai presente” e 5 “sempre presente”.

Dal presente studio è emerso che gli otto stili comici presi in esame si riferiscono in modo differente alla preoccupazione e al benessere psicologico. Nello specifico, il divertimento e l’umorismo risultano essere correlati positivamente all’estroversione e negativamente al nevroticismo (Dionigi et al., 2021; Ruch, Heintz, et al., 2018). Gli individui con bassi livelli di stabilità emotiva hanno più probabilità di sperimentare stati emotivi negativi con pensieri intrusivi e ricorrenti (Muris et al., 2005). Inoltre, un basso livello di estroversione viene associato al disturbo d’ansia generalizzato (Gomez & Francis, 2003) mentre il cinismo risulta avere una correlazione positiva con la preoccupazione. Chi è più incline ad assumere un atteggiamento critico nei confronti del mondo risulta essere anche più preoccupato per i potenziali pericoli per sé (Mathews, 1990) e ad avere relazioni qualitativamente più basse (Ruch, Wagner e Heintz, 2018). In conclusione, sia l’umorismo che il divertimento risultano essere molto efficaci al fine di diffondere il buon umore e alleviare le avversità, migliorando così il benessere personale (Ruch, Wagner e Heintz, 2018).

 

Alto Potenziale Cognitivo e Doppie Eccezionalità (2021) di Ermelinda Maulucci – Recensione

Come spiegato nel volume Alto Potenziale Cognitivo e Doppie Eccezionalità l’intensità e la sensibilità dei bambini plusdotati possono essere meglio compresi secondo la teoria delle “overexcitabilities”

 

Ermelinda Maulucci è una autorevole voce nel panorama legale e psicologico nazionale ed europeo che supporta il riconoscimento dei bambini e ragazzi plusdotati. In questo libro l’autrice si occupa di doppia eccezionalità che tuttavia non è eccezionale riscontrare tra bambini e ragazzi. L’autrice invita il lettore ad approfondire la complessità della plusdotazione cognitiva e il contesto in cui si sviluppa, spesso confuso con caratteristiche o profili riconducibili ai disturbi dell’attenzione, DSA e alla sfera dell’autismo. Nel nostro paese l’Alto Potenziale Cognitivo secondo le Linee Guida viene valutato su una base psicometrica, tuttavia la plusdotazione è caratterizzata da un funzionamento globale diverso dalla generalità delle altre persone, in particolare per un possibile sviluppo asincrono e specifici tratti emotivi e sociali. I bambini plusdotati come sottolinea Michael Piechowski (in Silverman, 1998) presentano un’organizzazione cognitiva complessa, un alto livello di sensibilità, una vivida immaginazione e sensazioni amplificate determinando una percezione del mondo differente: penetrante, coinvolgente, assorbente, complessa.

Il testo esamina i principali strumenti psicometrici di valutazione del QI e sottolinea l’importanza di considerare il contesto nel quale si svolgono.

L’intensità e la sensibilità dei bambini plusdotati possono essere meglio compresi secondo la teoria delle “overexcitabilities” secondo la quale vi sono cinque tipi di iper-eccitabilità: Intellettiva, Immaginativa, Emotiva, Psicomotoria, Sensoriale e possono essere confuse con alcune caratteristiche proprie di alcuni disturbi.

Come per tutti i bambini, il ruolo dei genitori e della famiglia è fondamentale per favorire lo sviluppo di una personalità armonica con le loro caratteristiche.

Gli insegnanti involontariamente possono contribuire a rendere la vita scolastica meno soddisfacente, ostacolando per esempio soluzioni originali. Per questo motivo in molti Stati è prevista una didattica differenziata, la Gifted Education. Il mancato riconoscimento di questi bambini può determinare la credenza di essere sbagliati, quindi diversi e manifestare iperadattamento, sottorendimento, calo dell’autostima, ansia e depressione.

Per tale ragione l’intelligenza elevata deve avere un ruolo nel processo diagnostico e in particolare identificare i bambini con doppia eccezionalità è molto complesso. Diversi studi evidenziano che un bambino gifted può presentare un disturbo e/o una neurodiversità come un bambino normodotato.

Il testo propone importanti considerazioni e suggerisce strumenti utili da tenere in evidenza in un processo diagnostico riguardante DSA, Sindrome di Asperger e ADHD.

L’intento della Maulucci, sulla base della letteratura internazionale, sembra sia quello di offrire un contributo a favore dei doni di bambini e ragazzi ad alto potenziale cognitivo che meritano di essere espressi al meglio. L’autrice quindi offre un’occasione di riflessione attenta per insegnanti e genitori e questo libro non può mancare nella libreria dei professionisti impegnati nella pratica clinica in età evolutiva per una corretta valutazione globale.

 

Immagine di sé e sessualità in pazienti oncologici

Sebbene la vita dei pazienti oncologici muti in seguito alla diagnosi o ai trattamenti, non molto spazio viene dato a come le relazioni col partner e la sessualità possano modificarsi in relazione ai cambiamenti dell’immagine di sé.

 

Gli effetti positivi per i trattamenti locali dimostrati dalla chemioterapia hanno ampliato il suo utilizzo (Nygren, 2001) ma, nonostante i suoi benefici, questo intervento può comportare degli effetti collaterali: tra i più comuni nausea, vomito, affaticamento e alopecia (Kayl & Meyers, 2006).

Pazienti oncologici e alopecia

Poiché i capelli spesso possono rappresentare un simbolo di bellezza o maturità, la loro perdita rappresenta un evento significativo tale da intervenire sulla percezione di crescita personale, attrattività o morte (Helms, O’Hea & Corso, 2008). Sebbene gli uomini tendano a vedere la perdita di capelli come una conseguenza logica del loro trattamento, le donne tendono a correlarla maggiormente a esiti infausti della malattia: quest’ultime sono maggiormente predisposte all’uso di parrucche, anche per evitare lo stigma sociale di malato e per non perdere la propria identità. L’alopecia è inoltre correlata al modo di vedere il trattamento: se questo sarà considerato benefico, la perdita di capelli sarà accettata come il “prezzo da pagare” al fine di guarire; se la chemioterapia viene vista invece come un trattamento distruttivo, l’alopecia sarà percepita come una sofferenza e come una perdita di sé che influenzerà la qualità di vita del paziente (Rosman, 2004).

Affrontare la realtà sociale in seguito alla perdita di capelli risulta essere più difficile: i pazienti tendono ad intraprendere meno attività quotidiane e rapporti sociali, influenzando in tal modo la qualità di vita e l’autostima (Kim et al., 2012). La forte angoscia che accompagna questa conseguenza del trattamento, sembra però essere mitigata nel momento in cui i pazienti vengono informati dai sanitari, affrontando meglio questo evento rispetto a quelli che non lo sono (Rosman, 2004; Frith, Harcourt & Fussell, 2007). Si è notato come i pazienti ai quali erano mostrate preventivamente immagini di calvizie e parrucche, avessero un’angoscia da alopecia significativamente più bassa rispetto a coloro che non le avevano viste (McGarvey et al., 2010); inoltre la comunicazione sanitaria focalizzata sui sintomi quotidiani dei trattamenti e il sostegno sociale possono contenere l’impatto di tale conseguenza sulla qualità di vita (Rosman, 2004).

In quanto simbolo visivo del trattamento, l’alopecia può causare sentimenti di imbarazzo, rabbia, perdita di forza fisica o di vitalità e aumentare il rischio di depressione maggiore o disturbo d’ansia; può inoltre comportare una confusione dell’identità di genere in un contesto sociale: la perdita dei capelli può influenzare, fino a perderla, l’identità delle ragazze a causa della confusione degli altri sul loro genere; i ragazzi tendono invece a raffigurare l’alopecia come un’esperienza che permette loro di esplorare l’identità e sfidare le norme interiorizzate sul proprio aspetto sociale (Dua et al., 2017).

Pazienti oncologici e immagine corporea

Un altro tipo di intervento che si può effettuare in seguito a diagnosi tumorale è rappresentato dalla chirurgia: questa si è visto provochi un’alterazione della percezione dell’immagine corporea, in particolare nei soggetti più giovani, che sperimenterebbero maggiore ansia qualora questo intervento dovesse rivelarsi deturpante (Dropkin, 1999).

Il cancro al seno è il più frequente tipo di neoplasia diagnosticabile nelle donne: il seno rappresenta un simbolo di femminilità e maternità e, dal momento in cui la paziente dovesse subire un intervento chirurgico (nodulectomia o mastectomia), si potrebbero verificare conseguenze negative in ambito di funzionamento psicosociale, particolarmente nel senso di fiducia, umore, stima, sessualità, autocompiacimento e qualità di vita (Helms et al., 2008). Inoltre operazioni invasive sul corpo potrebbero comportare preoccupazioni per aumento o perdita di peso e sul probabile rifiuto del partner, con conseguenti problemi sessuali e maggiori difficoltà a comprendere i propri sentimenti (Fobair et al., 2006).

I vari trattamenti sono infatti associati a diverse aree della qualità di vita: alterazioni fisiche del corpo, oltre all’alopecia e al cambiamento di peso, anche relativamente a terapie ormonali che modificano le caratteristiche sessuali secondarie, possono comportare problemi all’immagine di sé. Il rischio di infertilità, la disfunzione erettile e la riduzione della libido potrebbero aumentare infatti il rischio di isolamento fisico ed emotivo nei confronti del partner. Nonostante la scarsità di ricerche in quest’ambito, anche numerosi fattori concomitanti possono comportare tali difficoltà: oppioidi prescritti per alleviare il dolore o antidepressivi per trattare ansia e depressione possono portare ad una diffusione dei problemi sessuali che può toccare anche il 90% dei pazienti oncologici (Hodern, 2008).

Particolarmente per le donne, può essere difficile accettare il proprio corpo in seguito ai trattamenti oncologici, anche a causa delle cicatrici, del cambiamento di colore della propria pelle o dei drenaggi. Inoltre, possono non riuscire ad impegnarsi in attività sessuali a causa della secchezza vaginale che può provocare dolore durante i rapporti. Anche la perdita di massa muscolare, in seguito al fermo dovuto dalla somministrazione dei trattamenti, può creare disagio a causa della fatica maggiore che si riscontra nell’atto sessuale e, allo stesso modo, l’incontinenza urinaria o intestinale possono provocare disagio per paura di un incidente (Hughes, 2009).

L’abbandono dell’attività sessuale può, per alcuni, essere anche un segno di “lasciarsi andare” o di una preparazione alla morte: il supporto del partner però può condurre ad una maggiore accettazione dei cambiamenti dati dai trattamenti (Rice, 2000), a testimonianza di come il sostegno sociale sia fondamentale per limitare il distress che la malattia oncologica comporta (Zebrack et al., 2015).

 

Effetto spotlight: una vita sotto i riflettori

L’effetto spotlight è stato definito come una convinzione legata al sovrastimare la quantità di attenzione, ricevuta da parte di terzi, rispetto al proprio aspetto fisico o al proprio comportamento (Myers e Twenge, 2017).

 

Tale tendenza a sovrastimare le proprie caratteristiche, nella convinzione che le altre persone le notino con particolare attenzione, fu definita inizialmente da Brown e Stopa nel 2007.

Sono presenti numerosi studi su questo effetto e sull’abbigliamento: Gilovich e colleghi (2000) fecero indossare dei vestiti a dei soggetti che giudicavano tali indumenti come “imbarazzanti”. I soggetti della ricerca credevano che almeno il 50% delle persone presenti avesse notato il cambio d’abbigliamento, in realtà solo il 23% se ne accorse (Gilovich et al., 2000). Lawson (2010) svolse una ricerca con degli studenti universitari, facendo indossare loro una felpa con un logo sopra, per osservare che solo il 10% dei compagni di classe ricordava il logo originale, mentre la maggior parte di loro non si rese nemmeno conto del cambio di felpa (Gomez, 2021). Tale effetto si collega ad alcuni fenomeni come l’illusione della trasparenza (fenomeno secondo la quale mostriamo le nostre emozioni agli altri in modo più chiaro di quanto realmente appaia), il realismo ingenuo (Ross e Ward, 1996) e il pregiudizio di sé come obiettivo sociale (cioè il pensare che determinati eventi accadano in quanto diretti verso il soggetto interessato). Nello specifico, il realismo ingenuo si basa sul presupposto che proprio il punto di vista sia corretto nell’osservazione del mondo e che quello degli altri, se differente, sia soggetto ad errori o disinformazione.

Nel DSM 5 (APA, 2013), l’ansia viene definita come l’anticipazione di una minaccia futura, uno stato orientato a qualcosa che la persona non percepisce come immediato. A livello fisiologico, l’ansia è correlata ad un’attivazione che porta ad un’elevata vigilanza, a tensione muscolare e all’attuazione di condotte preventive per affrontare la situazione vissuta come pericolosa (Psicologo Roma Eur, n.s.). La classificazione del DSM 5 è fatta secondo elementi comuni e include disturbi come l’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia generalizzata e, per i bambini, il mutismo selettivo e l’ansia da separazione (APA, 2013).

Effetto spotlight e ansia sociale

L’effetto spotlight viene riscontrato frequentemente in soggetti affetti da ansia sociale, in quanto temono una valutazione negativa da parte degli osservatori. Diversi ricercatori (Clark e Wells, 1995, in Brown e Stopa, 2007) hanno evidenziato come la sensazione di essere osservati rinchiude il soggetto all’interno di un circolo vizioso ansioso, dove lo spostamento dell’attenzione su di sé porta ad attuare dei meccanismi per dedurre quali siano i pensieri delle persone presenti e “giudicanti”.

Secondo il Merriam-Webster Online Dictionary (n.d.), l’ansia è descritta come nervosismo o disagio per un male imminente o previsto; il termine ansioso è definito per l’appunto come un’estrema inquietudine mentale o la paura di qualcosa in determinate contingenze (Gomez, 2021).

Effetto spotlight e ansia: studi a riguardo

Diversi studi analizzano la relazione tra l’effetto spotlight e un aumento dei livelli d’ansia. Ad esempio, Moon e colleghi (2020) hanno eseguito otto studi differenti su un campione composto da attori. Tali compiti si focalizzavano sulla quantità di attenzione ricevuta da parte degli spettatori durante uno spettacolo. I risultati hanno evidenziato come gli attori tendessero a sovrastimare l’attenzione del pubblico, in particolar modo quando avevano commesso un errore, mentre molti spettatori nemmeno si erano accorti degli errori commessi.

Nel 2021 Gomez ha svolto un esperimento per indagare i livelli d’ansia e dell’effetto spotlight su un campione composto da 30 studenti. Nello specifico, l’ipotesi di ricerca sostiene che un soggetto crede di ricevere attenzioni negative e giudizi da parte dei suoi compagni in base al suo aspetto fisico, con un conseguente aumento di tale effetto (Gomez, 2021). I soggetti hanno compilato un questionario contenente due sessioni: la prima sessione include strumenti come la Depression Anxiety Stress Scale-21 (DASS-21; Lovibond e Lovibond, 1995) e questionari per valutare l’ansia e l’effetto spotlight, mentre la seconda sessione contiene una parte demografica per raccogliere i dati rispetto a genere, etnia, classe frequentata e affiliazioni religiose (Gomez, 2021). I risultati di questo studio sostengono l’ipotesi alternativa in quanto è presente un aumento dei livelli di ansia quando si pensa di ricevere un giudizio o un’attenzione negativa da parte dei coetanei (Gomez, 2021). Tale esperimento suggerisce come il livello d’ansia possa aumentare a causa dell’effetto spotlight sperimentato da parte dei soggetti (Gomez, 2021).

 

“Noi siamo uno. Terapia integrata per la prevenzione del trauma” – Salute psicofisica individuale e collettiva dopo la pandemia. Quali strade per far fronte all’incertezza? – Report del webinar

Dal 12 al 14 Novembre 2021 si è tenuto l’evento “Noi siamo uno. Terapia integrata per la prevenzione del trauma” per costruire una riflessione condivisa con professionisti della salute di diversa provenienza e impostazione teorica, sul tema dello stress e del trauma.

 

Con il patrocinio del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, EMDR e Società Italiana di psico-neuro-endocrino-immunologia, l’esperienza della pandemia è occasione per la Dott.ssa Marta Zighetti, psicoterapeuta e terapeuta supervisore EMDR, e per l’associazione “Essere Esseri Umani”, per costruire una riflessione condivisa con professionisti della salute di diversa provenienza e impostazione teorica, sul tema dello stress e del trauma.

All’insegna di questi tre giorni di ascolto e partecipazione, 12, 13 e 14 Novembre, sembra esserci su tutto, prima di tutto, l’idea di integrazione: professionisti con competenze diverse, mente e corpo, individuale e collettivo, parola e immagine, persona e ambiente.

I 16 interventi sono stati condotti da esperti di psicologia, psicoterapia, neurofisiologia, filosofia, psiconeuroendocrinoimmunologia, teoria polivagale, EMDR, yoga, mindfulness, ma il livello significativamente articolato e complesso del convegno ha permesso di fare riferimento anche a temi di grande attualità come il rapporto fra salute e inquinamento e il problema della violenza sulle donne. Le parole chiave sono: ascolto, partecipazione, contatto, relazione, trasformazione.

Stress e trauma in pandemia

Uno dei primi interventi ad aprire, quello del Dott. Giovanni Tagliavini, psichiatra e psicoterapeuta, presidente di AISTED, offre una riflessione relativa alle differenze fra il concetto di trauma e quello di stress, specificando che per la maggior parte delle persone l’epidemia ha avuto a che fare più con dei vissuti da stress che con esperienze traumatiche. Se il trauma è un’esperienza di rottura, allo stress è possibile far fronte grazie alla resilienza.  “Per trauma in psicopatologia si intende un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile, inevitabile, di fronte alla quale un individuo è impotente” (Hermann, 1992 b; Krystal, 1988, van der Kolk, 1996). Lo stress è invece una risposta psicofisica a compiti diversi, di natura emotiva, cognitiva o sociale che la persona vive come eccessivi. Se l’esperienza è stata traumatica per quei congiunti che hanno perso i loro cari, in una condizione di solitudine in ospedale, è stata invece più o meno significativamente fonte di stress per chi ha dovuto affrontare la quarantena, le restrizioni, la perdita temporanea del lavoro e delle possibilità di relazione.

Parlare di trauma apre alla possibilità per il Dott. Tagliavini di fare riferimento alla questione della violenza sessuale sulle donne, con riferimento nello specifico al concetto di “Finestra di tolleranza”. La nostra finestra di tolleranza è una risposta percettiva agli stimoli dell’ambiente e si situa in uno spazio che si muove fra una condizione di iper-arousal (situazioni percepite come attivanti) e ipo-arousal (situazioni percepite come inibenti). Nel corso di una violenza sessuale o di un tentativo di violenza sessuale è possibile che una donna vada incontro ad uno shock tale da provocarle una reazione inibente, di immobilizzazione, di difesa dalle emozioni, piuttosto che una reazione di attacco-fuga, con tutte le riflessioni che in ambito giuridico e penale ne conseguono.

Il vissuto di impotenza degli operatori sanitari

L’intervento successivo  è a cura del Prof. Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine delle Professioni infermieristiche OPI di Varese. Il suo è un racconto molto intimo, personale. In qualità di infermiere racconta gli ultimi istanti di vita di molti pazienti Covid. La frustrazione, il dolore, l’impotenza generata dall’alto numero di morti, sono state accolte e contenute dall’affetto e dal sostegno dei colleghi e dei cari, ma anche dalla stessa esperienza di contatto con il paziente prima della morte, da quei momenti di profondità forse difficili da dire e da rappresentare. Il senso di vuoto e di freddezza che caratterizzavano i percorsi in auto, dall’ospedale a casa e da casa all’ospedale, facevano da contraltare angosciante, in tempi di zona rossa, ai ritmi duri e difficili dei turni, durante i quali però avvertiva la bellezza della vicinanza con gli altri. Il Prof. Filippini si chiede e ci chiede come partecipanti: “Quando il tempo è dolore? Quando è bellezza?” E ancora: “Quando è Kairos? Tempo giusto, opportuno, propizio e conveniente, che determina la buona occasione per l’incontro con l’altro”.

Processi infiammatori e sistemi infiammati

L’intervento del Dott. Bottaccioli, psicologo clinico neurocognitivo e Presidente Onorario SIPNEI, partendo dal presupposto che i sistemi psichici e biologici si influenzano reciprocamente, si concentra sul costrutto di “sistema infiammato”. Un corpo infiammato va incontro ad un’alterazione sistemica dell’organismo. Le cause possono essere: stress, alimentazione, obesità, sedentarietà, malattie infiammatorie, inquinamento, farmaci, condizione sociale, psicologica e relazionale. Alcuni studi evidenziano la correlazione fra disturbi dell’umore, ansia, schizofrenia, e alterazione del microbiota intestinale quando comporta uno stato infiammatorio dell’intestino. Con l’espressione “le parole della psiche diventano molecole e infiammano cervello e immunità” vengono illustrati i risultati delle ricerche che evidenziano la pericolosità dell’isolamento sociale, i possibili effetti della solitudine sulla prognosi, in seguito alla diagnosi di cancro. Se il rimuginio, e “la mente vagabonda” favoriscono un’alterazione dell’Ippocampo, l’isolamento sociale attiva in modo costante il sistema immunitario con conseguenze che hanno probabilmente lasciato il segno negli ultimi due anni, nello specifico su quei pazienti che hanno dovuto affrontare la malattia in reparti Covid o in altri reparti in condizione di solitudine. La riflessione sui “sistemi infiammati” invita a un’analisi circa l’incidenza dell’inquinamento sulla prognosi di pazienti affetti da Covid 19. Sulla base di quanto riportato dal relatore, il numero elevato di morti a causa del virus nella Pianura Padana si può spiegare anche osservando la relazione fra inquinamento e “processi infiammatori”. Le particelle sottili, le polveri fini, un’aria quindi ricca di PM, danneggiando gli alveoli polmonari, attiva i macrofagi in senso infiammatorio. Il sistema immunitario di chi è costantemente a contatto con un’aria inquinata può essere quindi epigeneticamente segnato in senso infiammatorio e contribuire allo sviluppo di una forma grave da Covid 19.

Covid-19: un j’accuse al pre-pandemia

In ambito psicosociale, il direttore del CENSIS, Dott. Massimiliano Valeri, sottolinea gli aspetti di continuità fra il periodo della pandemia e la condizione precedente, affermando che la diffusione del Covid, ha consentito un “J’accuse” rispetto ad uno stato di cose preesistente. L’epidemia viene interpretata come un acceleratore di tratti e caratteristiche che connotavano la nostra società già in precedenza. Se è vero che i reparti di terapia intensiva si sono trovati fortemente in difficoltà, è anche vero che fra le nazioni dell’Ocse, l’Italia era stata l’unica ad aver ridotto in modo così importante la spesa pubblica in ambito sanitario. Durante la pandemia il 9% dei ragazzi è stato escluso dalla didattica a distanza, ma già precedentemente si registrava un grave livello di abbandono in ambito scolastico. Lo stesso filo di continuità si riscontra rispetto al numero delle nascite e al problema dell’occupazione femminile. Ne deriva che il problema è di natura identitaria e che la nostra società è passata da una comunità in cui vinceva il modello dell’ascensore sociale, alla società dell’incertezza, del rancore diffuso. Se il mondo materiale e quello psicologico si influenzano reciprocamente, quali ricadute sul piano psicologico e sociale per i giovani? Com’è possibile aiutarli affinché costruiscano la speranza e la fiducia nei loro mezzi e nelle loro possibilità?

EMDR e pandemia

Tornando all’area psicoterapeutica, la Dott.ssa Isabel Fernandez, presidente associazione EMDR Italia e EMDR Europa, descrive la rilevanza dei trattamenti EMDR negli ospedali e nei servizi sanitari, presso carceri e varie associazioni durante l’ultimo anno. Le persone sono andate incontro a problemi legati a incredulità e negazione, senso di vulnerabilità, isolamento, minaccia, sopraffazione, eccessiva rapidità, affidamento, adattamento, connessione. È stato importante raggiungere gli operatori sanitari nei luoghi di lavoro in cui si trovavano, senza che questi stessi si trovassero nella condizione di dover richiedere un aiuto o un intervento. L’obiettivo dell’associazione è stato quello di focalizzare il trattamento su incontri di gruppo che riducevano il dispendio di energia e di tempo. Gli operatori sanitari hanno dovuto affrontare con maggiore frequenza problematiche legate a:

  • Timore della stigmatizzazione per il ruolo svolto
  • Stress causato dai dispositivi di protezione
  • Timore di contagiare gli altri
  • Elevato numero di morti

Nel resto della popolazione sono emersi principalmente problemi legati a stati depressivi, evitamento, confusione, disturbo da stress post traumatico, perdite, lutti professionali e relazionali, aggressività e rabbia verso le istituzioni e all’interno del contesto familiare.

Hatha Yoga

Infine, Paolo Proietti, Maestro esperto CSEN/CONI, ha introdotto il primo fra gli ultimi interventi, che sono stati di natura prevalentemente esperienziale. Ha evidenziato l’utilità di questa pratica, l’Hatha Yoga, in condizioni di stress, ma anche in funzione del mantenimento e del raggiungimento della salute. L’Hatha Yoga è una tecnica che prevede la recitazione di mantra, visualizzazioni, concentrazione e meditazione. Non tralasciando gli aspetti teorici della disciplina, ha posto in evidenza alcune correlazioni fra EMDR e Hatha Yoga, la teoria di Hillman e Hatha Yoga, oltre ai risultati di alcuni studi in ambito neurofisiologico. La parte finale del webinar, concentrata maggiormente sul piano fisico dell’esperienza, ha permesso di elaborare con maggiore fluidità il livello di complessità suggerito dai tanti interventi e la rilevanza delle domande suscitate.

 

Il burnout lavorativo: effetti psicologici e trattamento

Il burnout è una sindrome tipica delle professioni coinvolte nelle relazioni di aiuto; è una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale di progressivo allontanamento da una fonte di malessere.

 

Lavorare in determinati ambiti infatti non è sempre facile, le componenti stressanti, ovvero gli “stressors” con cui ci si confronta, possono portare ad un logoramento professionale, emotivo, psichico, provocando delle alterazioni sull’efficacia lavorativa e sul rapporto con l’utenza.

Si rende nota la presenza del burnout negli anni ’70, quando i rapporti familiari e sociali cambiano andando verso una dimensione più privata, mettendo in secondo piano in gruppo informale e delegando le funzioni di sostegno esclusivamente alle istituzioni pubbliche.

Maslach e Jackson definiscono il burnout come un costrutto caratterizzato tipicamente da tre dimensioni:

  • Esaurimento emotivo: sensazione di essere svuotati, logorati, inariditi;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento distaccato, cinico, ostile, freddo dell’operatore nei rapporti con l’utenza;
  • Ridotta realizzazione personale: percezione della propria inadeguatezza nel lavoro.

Oltre allo stress, le cause che possono provocare tale stato alterato vanno ricercate anche nella prospettiva di importanza che viene data all’attività lavorativa; infatti, spesso vi è una vera e propria etica della consacrazione delle helping professions, secondo cui la persona che vi si dedica raggiungerebbe il senso della propria vita. Il lavoro è il centro del proprio mondo, se fallisce si è falliti in tutto e soprattutto nel proprio progetto personale. Si tratta di molteplici professioni, dall’insegnante allo psicologo, sino all’infermiere; tipico di queste professioni d’aiuto infatti è contribuire alle modifiche di un’altra persona e alla relazione in cui sono coinvolte attraverso tecniche specialistiche e attraverso la propria preparazione e professionalità. Per Rogers si tratta di una relazione in cui uno dei due ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturazione nei processi di adattamento e di risoluzione dei problemi che da sola non è in grado di affrontare.

L’operatore della professione d’aiuto è una persona che deve porre continuamente se stesso come catalizzatore dei processi di crescita dell’altro, per cui c’è il rischio di una prolungata situazione di stress lavorativo; le conseguenze sono, dunque, una ridotta produttività, deterioramento delle relazioni con utenza e colleghi, alterazione dell’equilibrio emotivo. Ci sono, però, alcune “tecniche” che l’operatore può mettere in atto per contrastare l’insorgenza del burnout:

  • Personalizzare l’aiuto, per cui ogni caso è a sé;
  • Lasciare libera espressione delle sensazioni del cliente;
  • Impegnarsi autenticamente ma evitando il coinvolgimento emotivo;
  • Astenersi dal giudizio;
  • Mantenere il segreto professionale;

Le condizioni interne di personalità del lavoratore si intersecano con quelle dell’ambiente in cui lavora, per cui fattori predisponenti sono l’essere soggetti sensibili, eccessivamente empatici, idealisti. Gli ambienti maggiormente “a rischio” sono: pronto soccorso, terapia intensiva, oncologia, patologie croniche, dipendenze, disturbi psichiatrici…dipende molto dunque dal tipo di mansione, durata, contesto.

Maslach ha creato uno strumento apposito per indagare sull’eventuale insorgenza di burnout, il MBI, Maslach Bornout Inventory, che si basa appunto sui tre aspetti del bornout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo, ridotta realizzazione).

Le professioni più colpite dal burnout

La riabilitazione del ritardo mentale è uno dei settori colpiti da burnout; maggiore gravità del paziente corrisponde ad una maggiore probabilità di insorgenza di burnout. Infatti, i soggetti che non riescono a raggiungere certi obiettivi, che non inviano feedback, che non gratificano l’operatore, risultano essere molto stressanti. Fonti di stress risultano essere anche i rapporti con le famiglie e gli altri operatori professionali.

Anche se non è esattamente una professione d’aiuto, anche il caregiver può essere soggetto a burnout. Sono coloro i quali assistono persone malate, generalmente familiari. Da alcuni studi emerge una differenza tra uomini e donne, le quali risultano essere più stressate, e tra laureati e non, i primi infatti sembrano più consapevoli della gravità della situazione. Molto spesso il caregiver si porta dietro l’investimento emotivo, ansia, dolori e problemi fisici, perdita di controllo. Sembra inoltre esserci un atteggiamento diverso, dipendente dal tipo di patologia di cui ci si occupa: infatti i caregiver di pazienti neurologici sono molto stressati, di meno lo è chi si occupa di pazienti oncologici, probabilmente per la consapevolezza della durata della malattia. Progetti di informazione e rieducazione possono aiutare il caregiver a capire ed affrontare il cambiamento del congiunto e ridurre lo stress.

Gli operatori sanitari più a rischio sono coloro i quali si occupano di oncologia, AIDS e pazienti sieropositivi. Il reparto di oncologia soprattutto mette a dura prova gli operatori, in quanto provoca delle idee di morte riferite anche a sé ed ai propri familiari. Inoltre contribuiscono caratteristiche di personalità, impossibilità di ritirarsi dalla relazione, mancanza di preparazione per una cura globale del paziente, identificazione con il paziente. Spesso esaurimento emotivo e depersonalizzazione sono più alti nei casi di pazienti oncologici adulti piuttosto che nei bambini. Infatti in questi ultimi casi si può avere un decorso più lento e maggiore speranza di ripresa.

Anche gli insegnanti possono subire il burnout, nella difficoltà a rapportarsi agli alunni, nell’insensibilità verso i loro problemi, nella percezione di inefficacia del loro insegnamento; gli insegnanti di sostegno hanno maggiore probabilità di per via delle più ore di lavoro, stress, grado di disturbo dell’allievo.

Per fronteggiare il problema è necessario “prendersi cura di chi si prende cura”. È importante che si avvii una buona prevenzione, in modo tale da evitare che chi si prenda cura di qualcuno abbia bisogno a sua volta di aiuto.

I livelli di intervento sono:

  • Cognitivo: maggiore conoscenza degli elementi di rischio che caratterizzano la malattia e dei fattori di rischio nel relazionarsi con essa;
  • Emotivo: consapevolezza delle proprie emozioni, motivazioni, vissuti…
  • Organizzativo: supporto tra colleghi e professionisti del settore

Durante la formazione alle professioni va riaffermata la formazione non solo tecnico-professionale, ma anche quella personale, in quanto persona. In alcune professioni, come ad esempio la psicoterapia, è già previsto. Sarebbe importante ed utile estendere anche ad altre professioni questo indirizzo.

Il trattamento del burnout

Sul piano della prevenzione, Cherniss ha elencato le seguenti strategie da adottare prima che la sindrome si manifesti in maniera conclamata.

  • In primo luogo, bisogna conoscere le dinamiche implicite della sindrome, analizzare gli obiettivi e le aspettative personali, accertare la proporzionalità tra richieste e risorse e creare meccanismi difensivi alternativi che sostituiscano il “ritiro” tipico del burnout.
  • È necessario intervenire in ambito lavorativo: una modifica delle strutture di ruolo, di potere e normative dovrà procedere ogni altro tipo di intervento.
  • Come dice l’autore sopra, bisogna prevenire: non si deve sottovalutare il valore delle azioni antecedenti l’insorgere della sindrome.

È altrettanto importante sottolineare il “valore della consapevolezza”, intesa come presa di coscienza dei propri progressi, e il fallimento delle strategie tese al solo potenziamento delle risorse individuali.

Sulla base di questi principi l’intervento si articolerà in:

1. Organizzare mirati aggiornamenti di sviluppo professionale: gli operatori possono essere incoraggiati a ridurre il livello di stress lavorativo attraverso un’accurata pianificazione dello sviluppo professionale, mirato a promuovere tra gli operatori obiettivi più realistici o nuovi obiettivi, che possono fornire fonti alternative di gratificazione. Si può, quindi, intervenire aiutando gli operatori a utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back, fornendo frequente possibilità di supervisione e di formazione per incrementare l’efficienza del ruolo; insegnare al team a difendersi mediante strategie quali il corretto utilizzo del tempo; orientare preventivamente i nuovi arrivati sulle difficoltà del lavoro; effettuare dei check-up organizzativi periodici o utilizzare un servizio di consulenza centrata sui temi del lavoro e dello stress; incoraggiare la formazione di gruppi di sostegno.

2. Un cambio delle mansioni e delle strutture di ruolo: migliorando la struttura di ruolo si accresce la realizzazione personale e professionale degli operatori, riducendo così lo stress. È fondamentale che i ruoli e le strutture siano flessibili, in funzione delle diverse soggettività e delle diverse motivazioni lavorative. Le trasformazioni strutturali si possono articolare in questo modo, limitando il numero degli utenti; distribuendo tra tutti i membri del team i compiti più difficili e meno gratificanti; pianificando le attività, in modo da alternare quelle gratificanti e quelle non gratificanti; permettendo agli operatori di prendersi “periodi di riposo” quando è necessario; utilizzando personale ausiliario per fornire al team ordinario possibilità di riposo; incoraggiando gli operatori a prendersi frequenti vacanze, anche con un breve preavviso se necessario; limitando il numero di ore di lavoro; non demonizzare il lavoro part-time; dare ad ogni operatore la possibilità di fare proposte nuove; costruire dei percorsi di carriera trasparenti.

3. Pianificazione della gestione: nell’organizzazione la qualità della leadership è molto importante in quanto esige una certa capacità di risoluzione dei problemi e di individuazione delle priorità. Si raccomanda di creare programmi specifici di supervisione e di sviluppo del management; creare per i dirigenti dei sistemi regolari di feed-back sulle prestazioni dei loro subordinati; controllare i livelli di conflitto e di tensione ed intervenire se diventano eccessivi.

4. Problem solving: anche nel caso in cui il lavoro è ben pianificato e strutturato c’è sempre il rischio che sorgano dei conflitti sul piano interpersonale e organizzativo. Per questo motivo è opportuno intervenire creando meccanismi di gruppo per la soluzione di problemi e dei conflitti organizzativi; programmare dei percorsi formativi che orientino alla risoluzione del conflitto; accentuare l’autonomia del personale e contemporaneamente curare la partecipazione alle decisioni. Migliorare la chiarezza degli obiettivi e dei modelli di management: si può intervenire per sostenere il burnout rendendo chiari e compatibili gli obiettivi, sviluppando un adeguato modello gestionale, investendo in formazione.

Le azioni per prevenire il burnout sono numerose, ma non essendoci una terapia specifica è indispensabile intervenire sul gruppo, oltre che sull’individuo. Nelle helping profession, il malessere dell’operatore si ripercuote sull’utente, che ha già delle difficoltà che si trovano a essere vittime inconsapevoli dell’organizzazione alla quale chiedono invece sostegno.

 

Esiste il rapporto sessuale? (2021) di Massimo Recalcati – Recensione

L’esperienza di limite che Recalcati sottolinea nel suo nuovo libro Esiste il rapporto sessuale?, parte dall’impatto del corpo con l’azione del linguaggio, che rivela come di fondo non esista un’“essenza del sesso” data a priori come dato della natura.

 

Recalcati, nel suo ultimo scritto, racconta il tema della sessualità umana, anche attraverso la presentazione di parecchi esempi clinici, in quanto incastro complesso non solo di soggetti ma anche di fantasmi, dimensione peraltro fondante di ogni incontro che veda emergere la vita erotica, in quanto labirintica e intimamente ingovernabile.

Uno degli aspetti centrali proposti da Recalcati, risulta una sessualità che sfugge ad uno “schematismo istintuale”, ad una naturalizzazione, le quali vengono rappresentate pienamente dall’accoppiamento nel mondo animale, portatore di un ordine prestabilito e di una legge naturale. La realtà del godimento, che vada oltre la superficie è sempre ricca di “scarti”, “eccessi”, “spinte”, che disturbano la vita “universalmente regolata dei piccioni” come afferma Recalcati, citando un passo di Woody Allen. I piccioni sono saldi nel moto istintuale che li dirige, dove una sorta di pilota automatico li dirige verso il loro unico e indissolubile partner. “Ma noi non siamo piccioni”, scrive Allen, perché la fedeltà è dettata dall’istinto e non dal desiderio”. Una sessualità abortita, espressione spesso utilizzata da Yalom (1980), dove l’aspetto del controllo risulta predominante, dove prevale l’identificazione coatta in un ruolo, preserva apparentemente la sicurezza e il proprio senso di sé, rispetto ad un’alterità dell’altro che non può essere dominata e che in quanto tale, contiene un abisso angosciante, ma soprattutto rispetto al contatto con “la propria alterità”, con il proprio “straniero” come scrive Recalcati. Lacan scrive che il corpo umano è “il luogo dell’altro” e che in quanto tale non può essere soltanto il risultato dell’anatomia, ma anche del linguaggio, del taglio simbolico e del carattere singolare della sessuazione. Pertanto tutto il processo di integrazione psicosomatica del reale nel simbolico, porta ad una dimensione di perdita, di vuoto, di “sacrificio simbolico” come afferma Recalcati. La vita non coincide con se stessa, il nostro mondo interno non corrisponde all’esterno, ma a detta di Winnicott (1971), si forma uno “spazio psichico”, ci muoviamo attraverso stati della mente. Sempre a detta di Winnicott, la creazione di spazio psichico, quale sano equilibrio tra le forze del vero sé della persona e il mondo reale, consente di coltivare un senso di continuità nell’esperienza e quindi di sperimentare un’ampia gamma di stati emotivi e mentali in relazione a se stessi e all’altro. L’esperienza di limite che Recalcati sottolinea, parte dall’impatto del corpo con l’azione del linguaggio, che rivela come di fondo non esista un’“essenza del sesso” data a priori come dato della natura. Il linguaggio pertanto compie un’azione paradossale, limitando il godimento, ma al tempo stesso, lo accende, lo stacca dall’istinto, lo perverte. Da una posizione autocentrata, prevalentemente autoerotica, in cui il giro della pulsione si chiude su se stesso, che rappresenta il tempo dell’infanzia, nel tempo della pubertà l’autoerotismo non scompare, ma porta con sé la possibilità inedita di incontrare il corpo sessuale dell’”Altro”.  “Altro” che viene indicato da Recalcati con la lettera maiuscola, proprio per prendere contatto con il nostro Altro interno, “sconosciuto”. La maturazione della vita sessuale, afferma Recalcati, non coincide con la separazione dalla sessualità infantile, periodo in cui la dimensione autoerotica pregenitale consente la formazione dei fantasmi inconsci del soggetto (di oggetti parziali, citando la Klein), necessari alla strutturazione del desiderio sessuale, ma con una rinuncia ad essere un oggetto che colmi la mancanza dell’Altro. In altre parole, si tratta di un percorso di lutto simbolico, in cui il soggetto accetta di non esaurire il mondo dei loro genitori e di altri significativi durante il percorso di vita, né di essere ciò che dia senso a quel mondo. Comporta il lasciare andare il mito che ci sia qualcuno di grande che ci protegga, a cui delegare la responsabilità sulla nostra vita, che ci salvi: un salvatore ultimo, a detta di Yalom. Si tratta di un passaggio importantissimo da un punto di vista esistenziale, in cui il soggetto accoglie la propria “perdita d’essere”, il proprio “esisto soltanto se”. A tal proposito, Recalcati scrive: “Il soggetto si separa dall’altro, tanto quanto l’altro si separa dal soggetto”. Una mancata separazione, può arrivare ad imporre in maniera coatta condizioni soggettive per accedere al godimento. È il caso di una paziente di Recalcati, che aveva vissuto con una coppia di genitori troppo occupati con il loro lavoro per dedicarsi alle sue cure. Motivo per cui, passava la maggior parte del tempo sola, travolta da un’intensissima angoscia e, durante le giornate, scopre il piacere di strofinarsi i genitali sul divano di casa. Recalcati scrive: “Il piacere autoerotico compensa la frustrazione alla sua domanda d’amore”. Durante il suo sviluppo, per non sottoporsi al rischio di “innamorarsi” e quindi di trovarsi in una condizione di vulnerabilità rispetto alla perdita intollerabile per lei, stacca la sessualità dal rapporto. Questa diventa la sola modalità per accedere al godimento sessuale, che ripete nei rapporti sessuali con uomini che non deve amare. Tenta quindi di annullare l’angoscia della mancanza e della dipendenza dal partner, attraverso una sorta di coazione solitaria a godere.

Focalizzandosi sul titolo del testo, Recalcati riprende uno dei più celebri aforismi di Lacan: “Il rapporto sessuale non esiste”. Quello che Lacan intende dire, scrive Recalcati, è che non esista alcuna possibilità di rapportare i due godimenti in gioco in ogni rapporto sessuale. Nel mentre stesso del rapporto, ciascuno dei due amanti è costretto a sperimentare l’impossibilità di uscire da sé stesso. Alla base vi è un’eterogeneità tra la pulsione che determina il godimento sessuale e il desiderio che sostiene la domanda d’amore. Il desiderio si nutre del segno del desiderio dell’altro e in questo rivela la sua natura dialettica, mentre la pulsione si caratterizza per un movimento chiuso su sé stesso. Il movimento pulsionale, in questo senso rimane sempre autoerotico, quindi la relazione tra i corpi sarà sempre mediata da un “non rapporto fondamentale”, dall’impossibilità della condivisione senza scarti dell’Uno con l’Altro, del “particolare”. Recalcati, continuando sulla scia di Lacan, afferma che se il corpo sessuale per un verso sia autoerotico, per un altro verso risulta sempre esposto al rapporto dal momento che la sua stessa esistenza si dissolve nel rapporto. Ogni vita deriva necessariamente dal rapporto, ed è la relazione nella sua autenticità che permette di “dare vita a qualcosa” in se stessi e nell’altro. Il desiderio quindi è carico di quell’ingovernabile di cui accennato all’inizio, proprio perché se da un lato risulta inaggirabile, ovvero non si può non essere in un rapporto, dall’altro contiene un’altra impossibilità, ovvero quella di fare esistere il rapporto. L’altro è sempre impenetrabile, sgusciante, intrattabile. Nel mito biblico, per il desiderio non c’è mai la possibilità di ricostituire un intero che non è mai esistito. All’origine, non c’è l’uno indiviso, ma una differenza. Il desiderio erotico, pertanto, non mira a ricomporre la scissione tra i due, ma è causato da un oggetto perduto che viene rintracciato nell’altro. La voce, i seni, le mani, tutta una serie di oggetti piccoli che incarnano la costola di Adamo, sono espressioni di un’alterità che non si lascia riassorbire nell’uno. L’oggetto quindi resta perduto per sempre, non c’è nessuna riappropriazione, dislocato nel corpo dell’altro e quindi per entrare in rapporto con esso, il soggetto è tenuto a spendersi con l’Altro. C’è quindi sempre la mediazione della soggettività dell’altro, quello che secondo Winnicott (1971), permette la formazione di aree intermedie di esperienza. Spendersi con l’altro, incontrare l’altro, implica entrare in uno spazio dove l’ego arretra, e in questo senso Recalcati accenna all’importanza dell’abbandonarsi al buio, lasciare che il corpo erotico si apra ad un godimento non più circoscritto alla visione, che può diventare vigilanza scopica. Buio inteso quindi come abbandono del controllo e di modalità rigide e ripetitive di stare con se stessi e con l’altro. Buio che consente al corpo di accogliere una gioia affermativa, quale segnale di una convergenza tra amore e godimento sessuale. La dimensione dell’ingovernabile del godimento trova la sua massima espressione nel femminile, da non associare soltanto al sesso anatomico. Questo godimento, secondo Recalcati, sottratto alla centralità del fallo, si diffonde il tutto il corpo, essendo pertanto plurale, decentrato, nomadico. Il femminile si dispone quindi come apertura per l’heteros, accoglienza, riconoscimento dell’alterità dell’altro. Il miracolo dell’amore è rendere quel corpo unico e insostituibile, come se fosse un nome, interrompendo quindi una feticizzazione seriale, un incastro con una serie anonima di corpi. Recalcati scrive: “Il corpo può diventare davvero un nome quando, osservando i suoi movimenti più comuni (camminare, sorridere, vestirsi), esso si mantiene fuori dal comune. È la prossimità del nome al senza tempo del Nuovo che non cessa di ripetersi nello stesso”.

Recalcati conclude con un aspetto, a mio avviso, fondante del “fare l’amore”. Il “fare l’amore” ci porta fuori dal recinto delimitato del nostro corpo, non nel senso di “fonderci con l’altro” e con il suo “particolare assoluto”, ma come esperienza del proprio corpo che non è del tutto proprio. In questo caso, vi è una perdita dei confini interna che attiene proprio al dare voce a più parti di sé. La perdita dei confini attiene quindi ad un atto di disarmo, la deposizione delle armi dell’ego, una separazione dal proprio io che genera gioia, ampliamento di sé e sconfinamento. In questo senso l’erotismo non è solo un’esperienza di appropriazione, ma soprattutto di svuotamento, di decentramento attraverso l’Altro che va accolto principalmente in se stessi. In questo senso, Recalcati lo enfatizza in maniera poetica attraverso l’espressione del “fare per disfare”, ad un fare che si lascia fare, non assoggettato dall’assillo consueto del “dover fare”.

 

“Tradisco sì, ma solo per timore di rimanere da solo!” La paura di essere single come mediatrice nella relazione tra attaccamento ansioso e tradimento

L’infedeltà, intesa come una violazione delle norme di relazione che regolano l’esclusività, rappresenta uno degli aspetti più dolorosi all’interno delle relazioni romantiche.

 

Infatti è associata ad una serie di outcome negativi come l’aumento del rischio di problemi di salute sia mentali (ad es. ansia, depressione) che fisici (ad es. malattie sessualmente trasmissibili), diminuzione dell’autostima, fiducia danneggiata nel partner, violenza domestica, rottura e divorzio (Fincham & May, 2017).

Infedeltà e attaccamento

La ricerca precedente ha dimostrato che alcuni fattori di personalità influenzano il coinvolgimento nel tradimento: persone con alto livello di estroversione, nevroticismo, narcisismo e psicopatia riportano livelli più elevati di infedeltà (Altgelt et al., 2018; Jones & Weiser, 2014), mentre un’elevata gradevolezza e coscienziosità sono state associate a livelli più bassi di infedeltà (Barta & Kiene, 2005).

Un ulteriore fattore che sembra avere una grande influenza nei comportamenti di infedeltà è il tipo di attaccamento. Il sistema comportamentale dell’attaccamento deriva dalle esperienze con gli altri significativi (caregiver), che modellano poi le modalità con cui gli individui si rapportano con gli altri nelle relazioni successive (Bowlby, 1982). I tipi di attaccamento che Bowlby ha teorizzato sono: lo stile di attaccamento sicuro, lo stile di attaccamento insicuro evitante, lo stile insicuro ansioso ambivalente e lo stile disorganizzato.

L’attaccamento ansioso, in particolare, predice in modo affidabile il coinvolgimento in atti di infedeltà (Pereira et al., 2014; Russell et al., 2013). Tuttavia, i meccanismi alla base di questa relazione tra ansia di attaccamento e infedeltà rimangono inesplorati.

L’attaccamento ansioso è caratterizzato dalla preoccupazione per la disponibilità e la reattività della figura di attaccamento, un’ipersensibilità all’abbandono e una forte preoccupazione per la vicinanza (Shaver & Mikulincer, 2002). Nelle relazioni sentimentali, gli individui con un attaccamento ansioso presentano una paura cronica per la non disponibilità e la non reattività dei partner nei loro confronti, e temono costantemente di poter essere rifiutati o abbandonati dal partner stesso. La ricerca ha dimostrato che le persone con attaccamento ansioso riferiscono di avere più relazioni (Russell et al., 2013), ottengono punteggi più alti nelle misure di infedeltà emotiva e fisica (Pereira et al., 2014) e si impegnano in atti di infedeltà online più frequentemente (Ferron et al., 2017; McDaniel et al., 2017).

La relazione esistente tra attaccamento ansioso e tradimento è interessante perché rappresenta in un certo senso un paradosso: dato che l’attaccamento ansioso è caratterizzato da un’elevata preoccupazione per l’abbandono, che porta gli individui a cercare costantemente la vicinanza ai loro partner e ad aggrapparsi a loro (Brennan & Shaver, 1995), perché le persone che temono così tanto che i loro partner possano lasciarli si impegnano in più atti di infedeltà, che inevitabilmente mettono a rischio la relazione?

Infedeltà e paura di essere single

Una variabile che potrebbe avere un ruolo significativo è la paura di essere single. La paura di essere single è definita come l’ansia, il disagio o la preoccupazione relativa all’incapacità di raggiungere o mantenere una relazione romantica, finire da soli e sentirsi inadeguati (Spielmann et al., 2013). Questa paura può essere molto diffusa: le norme sociali comunicano ancora in modo pervasivo che gli individui che hanno un partner sono più felici, più adattati e hanno una vita più significativa rispetto alle persone che sono single (DePaulo e Morris, 2005).

Anche se la paura di essere single è stata maggiormente studiata tra le persone single, anche gli individui nelle relazioni romantiche possono segnalare questo stato di ansia in relazione all’angoscia di essere single in futuro (George et al., 2020; Spielmann et al., 2016).

La ricerca ha dimostrato che un attaccamento ansioso predice in modo affidabile livelli più elevati di paura di essere single (George et al., 2020; Spielmann et al., 2016; Spielmann et al., 2020). Questo non sorprende dato che un modello di sé negativo, spesso sviluppato da chi possiede un attaccamento ansioso, che prevede la considerazione di sé come persone indegne di amore e sostegno e la paura dell’abbandono, può aumentare la paura di rimanere single.

Inoltre, persone con attaccamento ansioso e persone con paura di rimanere single hanno dimostrato di essere ipersensibili ai segnali di rifiuto (Spielmann et al., 2013), credendo quindi con più facilità che i loro partner stiano per lasciarli quando questi segnali di rifiuto vengono colti. Questa percezione di rifiuto potrebbe aumentare la propensione all’infedeltà perché gli individui, quando percepiscono una minaccia alla loro relazione, potrebbero cercare “rifugio” in partner alternativi (Birnbaum et al., 2019).

Quindi, in altre parole, quando si percepisce la possibile minaccia di essere lasciati, la profonda preoccupazione di rimanere senza una relazione/partner fa sì che venga attuato un “piano di riserva” cercando altri partner alternativi nel caso in cui il partner attuale se ne vada, rendendo più probabili i comportamenti di infedeltà.

Motivazioni sottostanti l’infedeltà

A sostegno di queste ipotesi, alcuni studi hanno dimostrato che tra le motivazioni alla base dei tradimenti commessi vi erano: l’insicurezza su quanto fosse stabile e affidabile la loro relazione attuale, la mancanza di attenzione da parte del partner attuale o il tentativo di testare se erano attraenti per altri (Feldman & Cauffman, 1999; Barta & Kiene, 2005 ).

Per cogliere il meccanismo attraverso il quale l’attaccamento ansioso è collegato all’infedeltà, uno studio (Sakman et al., 2021) ha tentato di analizzare il ruolo della paura di essere single come variabile mediatrice nella relazione tra attaccamento ansioso e comportamenti di infedeltà.

I risultati ci mostrano che, anche in questo studio, un attaccamento ansioso prevedeva la probabilità di impegnarsi in comportamenti di infedeltà e che, inoltre, la relazione tra attaccamento ansioso e tradimento è mediata dalla paura di rimanere single.

Le persone con attaccamento ansioso hanno riportato livelli più elevati di paura di essere single, che a loro volta prevedevano probabilità più elevate di impegnarsi in atti di infedeltà, supportando quindi l’ipotesi secondo cui l’infedeltà può essere un comportamento messo in atto da individui cronicamente preoccupati di essere abbandonati, al fine di ridurre al minimo il rischio futuro di essere single.

Questi risultati, oltre ad aver fatto luce su un meccanismo ancora poco conosciuto, possono inoltre essere utili per i professionisti della consulenza di coppia, dato che l’infedeltà è tra le principali motivazioni per cui queste si recano in terapia. Gli individui con attaccamento ansioso possono essere identificati come un gruppo di intervento target, in cui vengono offerte strategie per gestire l’eccessiva preoccupazione di essere lasciati senza un partner. Inoltre, l’innesco di sicurezza per aumentare l’attaccamento sicuro all’interno della relazione attuale potrebbe essere utilizzato come potenziale strategia di buffering per questi individui a rischio.

 

Il DOC ai giorni nostri visto dagli occhi di un ragazzo di 28 anni. Il caso di A.

Nel 2017 A. approda presso lo studio di uno psichiatra per iniziare un percorso di terapia integrata e si configura la prima diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo.

 

Corre l’anno 2021 e nella nostra società molti stereotipi fanno, ancora, fatica a scomparire.

Sicuramente uno di questi è che tutte le persone che hanno e/o avrebbero bisogno di supporto dallo psicoterapeuta e/o dallo psichiatra siano “strani” o “non normali”.

Soprattutto chi ha bisogno di aiuto psichiatrico è considerato strano, alienabile dalla quotidianità sociale anche se i manicomi sono stati chiusi secondo la L.180 del 1978 (legge Basaglia).

Sarebbe così difficile spiegare la differenza, ad esempio, tra disturbo bipolare e pericolosità sociale?

Far capire che il mondo che sto per raccontarvi è un mondo a sé, pieno di risorse e capace di raggiungere i suoi traguardi, anche se con grande fatica?

Molte persone, nel corso della loro vita, hanno sfumate e transitorie manifestazioni ossessive o sintomi subclinici.

Non è infrequente che si torni dentro casa per scacciare il dubbio di non aver spento tutte le luci o aver chiuso male la porta di casa; si potrebbe avere anche la spiacevole sensazione che le cose non siano come dovrebbero essere.

Le suddette potrebbero stimolarci anche alcuni pensieri blasfemi o moralmente disdicevoli.

Nella maggior parte dei casi si tratta di fenomeni transitori, occasionali e di breve durata.

Nonostante ciò, esistono situazioni in cui questi sintomi possono diventare invalidanti, al punto da configurare una specifica diagnosi, quella di DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo).

Vorrei presentare il caso di A., ragazzo di 28 anni che, nonostante i mille progetti in testa, si rimproverava di non essere riuscito a dare alla propria vita quella svolta che aveva sognato e che avrebbe dovuto ricompensarlo delle critiche e frustrazioni avvertite sin da bambino.

Spesso aveva avuto l’impressione di non essere apprezzato dai propri genitori, di sbagliare in continuazione e di suscitare critiche e accuse da parte del prossimo.

Oltre a ciò, si rimproverava di non apprezzare consapevolmente e pienamente la propria famiglia, la sicurezza economica che gli garantiva e il percorso di studi che si era scelto e che stava perseguendo.

Nel 2014 subisce un cambiamento radicale nella sua vita: in seguito ad una operazione chirurgica di routine, inizia a provare uno strano disagio che somigliava molto alla sensazione di essere contaminato e sporco nel proprio corpo.

Inizia un regime alimentare restrittivo poiché non avrebbe potuto continuare a praticare il suo amato sport per qualche tempo; in poche settimane è andato incontro ad un forte ed evidente dimagrimento, notato da tutte le persone con cui si relazionava.

In quel periodo A. frequentava l’università, aveva una fidanzata e sembrava intrattenere buone relazioni sociali con i suoi compagni di corso.

Dopo questo viraggio verso il versante restrittivo c’è stato uno shift verso il polo della iperfagia e delle abbuffate, con condotte di compenso; cerca una volta di vomitare ma senza successo.

Successivamente, terminato il periodo di convalescenza, inizia ad allenarsi, in maniera ossessiva, per contenere il forte ed eccessivo introito calorico che assumeva ogni giorno, a volte anche due volte al dì.

Inizia a sentire il peso di tutto ciò e, nonostante tutto, resiste fino al 2016.

Al termine del suo percorso di laurea magistrale, decide di cercare un aiuto specialistico.

Non sopportava più le pressanti preoccupazioni ed angosce, non considerava giusto essere tormentato da tutti questi problemi e nuove ossessioni.

Si sentiva solo stanco ed oltretutto, dal 2014, aveva vissuto solo cose brutte.

Nel 2017 approda presso lo studio di uno psichiatra per iniziare un percorso di terapia integrata e si configura la prima diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo.

Si può facilmente immaginare come possa essere stato per un ragazzo così giovane subire questa diagnosi.

In un mondo così iperstimolante e ipercompetitivo, per un assetto di personalità di tipo ossessivo compulsivo è molto difficile stare al passo con le richieste provenienti dall’esterno.

A., di solito, si trova a combattere con compulsioni cognitive per cercare di scacciare le ossessioni che si presentano, puntualmente, nei momenti meno opportuni.

“A blurred mind” è il titolo del testo di una canzone; in questo caso diventa molto appropriato per descrivere lo stato mentale di A. dopo una giornata spesa, in buona parte, tra ossessioni, rimuginazioni e intrusioni.

Una mente nebulosa, stanca e priva di forze.

Spesso ripeteva: ho il cervello stanco!

Quello che normalmente confonde è che le compulsioni non sono comportamentali e, quindi, visibili ma rimangono nella sfera cognitiva e mentale, cioè ignota ai più.

Probabilmente una o due persone, veramente intime nella sua vita, hanno saputo di questo mondo.

Nessun altro è entrato così in profondità nella testa di A, non gli è stato permesso.

Stando alla società in cui viviamo, oggi, lui ha paura, oggettivamente, di essere giudicato.

Il timore del giudizio lo accompagna da quando era piccolo; probabilmente è scaturito dall’ambiente famigliare e dalle sue prime relazioni sociali.

Nonostante ciò, riesce a mascherare abbastanza bene queste sue peculiarità facendole passare per stranezze e, quindi, conformandosi un po’ agli standard comuni.

A fine giornata si sente davvero molto stanco e, spesso, non ce la fa ad uscire la sera; si chiude in camera senza luce accesa.

I sintomi manifestati da A. potrei paragonarli, forse in maniera un po’ azzardata, agli shutdown che si ritrovano nel Disturbo dello Spettro Autistico; è tale il sovraccarico sensoriale che, proprio come un computer sotto stress, ha bisogno di spegnersi e riavviarsi per poter funzionare al meglio nella vita di tutti i giorni.

Il Covid-19, poi, non lo ha di certo aiutato ad alleggerire il carico delle compulsioni.

Da quelle prettamente cognitive siamo passati anche a quelle comportamentali; ha iniziato ad effettuare delle procedure di disinfezione dei vestiti e delle borse, appena varcata la soglia di casa.

Tutta la procedura coinvolge i familiari cui chiedeva, continuamente, rassicurazioni sulle operazioni effettuate o sull’effettiva pericolosità di introdurre vestiti “contaminati” dentro casa.

Le ruminazioni mentali di A. erano di due tipi: ricordare costantemente le cose da fare durante la giornata con l’inconveniente di avere la sensazione della dilatazione del tempo e perdita dei confini della giornata.

Oltre a ciò, ricordava più e più volte eventi potenzialmente dannosi per la sua incolumità; ad esempio passare accanto ad una mascherina usata che si trovava per strada lo metteva in uno stato di allerta massima.

Nelle giornate di picco massimo poteva arrivare anche ad elaborare anche 80 domande da rivolgere alle persone a lui più intime.

Vertevano sulla paura di contaminazione, la sensazione di sporco e la forte ipocondria che aveva sviluppato nel corso degli anni.

Durante questa pandemia ha sviluppato una maggiore percezione ad un’eventuale responsabilità di contagio auto o etero-diretto e verso comportamenti protettivi, utili a neutralizzare un possibile rischio di contaminazione e la possibile colpa per comportamenti irresponsabili.

Ad aggravare ulteriormente la situazione ha contribuito, anche, l’aumento del washing durante la giornata, costringendo A. ad usare molte volte il bagno.

Lo psichiatra, curante dal 2017, oltre a continuare con la consueta terapia integrata modificandola al bisogno, inizia un percorso di psicoeducazione per migliorare il suo adattamento quotidiano.

La parola d’ordine diventa “esercizio” e, tramite l’esposizione e la prevenzione della risposta, nonché attraverso la dilazione della stessa, A. migliora la sua capacità di coping e resilienza.

È stato necessario intraprendere anche il parent training per aiutare i familiari ad accogliere e gestire in un modo più funzionale per tutti le peculiarità di A.

Con il passare del tempo questo ragazzo ha trovato il modo di contenere questo suo modo di essere, di rapportarsi con il mondo e di vedere le cose attraverso lenti più spesse, a volte un po’ troppo appannate per assimilare tutti gli stimoli che gli arrivano addosso come un’onda violenta in pieno inverno.

La “bestia”, come la chiama lui, a volte è più sopita del solito, altre volte cambia schema e prende alla sprovvista tutti costringendo a cambiare abitudini e routine.

La certezza assoluta, ricercata spasmodicamente in questo tipo di disturbo, non può esserci perché occorre sempre prendere in considerazione la percentuale di rischio e imprevedibilità insita in ogni azione della nostra vita.

Tutto ciò A. lo ha imparato sulla sua pelle, con fatica, sudore e respiri mancati in piena notte quando gli veniva a mancare la terra sotto i piedi.

Oggi A. è come se si trovasse nel grado 8 di difficoltà per gli alpinisti; ad ogni nuovo capitolo della sua vita ripete dentro di sé: “ottavo superiore…..ottavo superiore” per ricordarsi quanto è importante un allenamento e una pratica costante per gestire gli aspetti più particolari della sua vita.

 

Il gioco d’azzardo patologico: un’eziopatogenesi psicodinamica

Nell’ottica freudiana il ricorso al gioco d’azzardo non costituisce soltanto un mezzo di difesa contro impulsi sessuali edipici, ma anche uno strumento di autopunizione.

 

Nel tentativo di identificare una possibile eziopatogenesi del disturbo da gioco d’azzardo compulsivo, la prospettiva psicodinamica pone l’attenzione sull’analisi del vissuto retrospettivo individuale, inteso come il condensato delle esperienze psicologiche maturate sin dalle prime fasi della vita e dei loro contenuti caratterizzanti. Proprio la natura più o meno appagante di questi vissuti potrebbe aver provocato la maturazione di una dimensione egoica ben coesa e strutturata, o alternativamente di un autentico vuoto affettivo, un “buco nell’Io” di cui la dipendenza rappresenta il tentativo riparatore.

Stein (1989) riconduce l’eziopatologia del gambling ad uno stato di fissazione evolutiva, una sorta di ritardo nello sviluppo cognitivo che costringe il pensiero ad una stasi nello stadio delle operazioni concrete. Si tratta del periodo evolutivo che Piaget chiama del pensiero pre operatorio – collocato tra i 6 i 12 anni circa – nel quale le azioni non vengono valutate tanto sulla base della loro potenzialità o consequenzialità lesiva, ma soltanto in base ad una valutazione superficiale, limitata alla piacevolezza dell’attività e alla mancanza di impedimenti alla sua esecuzione.

In questo senso il gioco diventa l’espressione di un desiderio di diletto da scaricare in modalità immediata, nella credenza ottimistica e illusoria che ogni partita sarà quella buona e che nessuna perdita, per quanto considerevole, risulterà dannosa. I giocatori sviluppano così una serie di dispercezioni ipervalutanti circa il Sé, credendosi imbattibili, abili, potenti, capaci persino di influenzare la sorte. Sarà solo con l’accesso ad un pensiero di natura formale-astratta che si potrà maturare maggior consapevolezza circa la natura rischiosa e incontrollabile del gioco, limitando al contempo l’illusione ottimistica tipica dell’egocentrismo piagetiano infantile (Stein, 1989).

Per chiarire l’origine della condotta di dipendenza in generale, e di gambling nello specifico, la psicodinamica si occupa di analizzarne l’aspetto di ambivalenza, da cui trapela una matrice indubbiamente nevrotica. Dunque il gioco d’azzardo è paragonabile ad un sintomo che concilia in sé aspetti conflittuali, posti a metà tra pulsionalità e censura, il cui esercizio costituisce una modalità di espressione abreativa dell’angoscia.

Il piacere sotteso all’esercizio del gioco non è mai puro, non è mai autentico: si mostra piuttosto l’interfaccia di un’esperienza sofferente che, non riuscendo ad assumere una natura verbalizzata, viene comunicata attraverso un agito compulsivo in cui la condotta di dipendenza costituisce uno strumento di sollievo, per quanto apparente. Secondo la prospettiva psicodinamica, la sua funzione è in realtà quella di mantenere nell’inconscio un vissuto rimosso e di impedirne la temuta emersione a mezzo di sofferti e dispendiosi controinvestimenti egoici, attuati proprio attraverso il rinnovarsi compulsivo della condotta di gioco.

Il gioco d’azzardo tra piacere sessuale e pulsione masochistica

Se il gioco d’azzardo è un sintomo di natura nevrotica, ciò significa che al di là dello stesso si pone la volontà inconscia di celare una pulsione che, per quanto gratificante, viene percepita come minacciosa, e per questo ostacolata dall’Io. Il sintomo, come nel più classico processo di rimozione nevrotica, viene a costituire il compromesso funzionale tra censura e scarica di una pulsione proibita.

Proprio sulla natura di questa “proibizione pulsionale” si sono avvicendate numerose ipotesi.

Greenson (1947) vi legge una forte carica sessuale sperimentata verso gli oggetti genitoriali, e per questo vissuta con senso di colpa, una paura pregenitale gestita attraverso il sintomo. La natura sessuale del gioco d’azzardo è evidenziata ulteriormente dalle sue componenti strutturali, che risultano sovrapponibili a quelle dell’eccitazione di un evento orgasmico, ove si riscontra egualmente la presenza di una tensione endogena crescente che, dopo aver raggiunto un acme esponenziale, tende a diminuire fino al perseguimento della quiete finale.

Nell’ottica freudiana il ricorso al gambling non costituisce soltanto un mezzo di difesa contro impulsi sessuali edipici, ma anche uno strumento di autopunizione per il desiderio di distruggere il padre e sostituirsi al suo potere.

È nella monografia Dostoevskji e il parricidio (Freud, 1928) che la coazione al gioco d’azzardo viene definita come una forma di autopunizione, nel quale la ricerca della perdita si spiega con una necessità di sconfitta e umiliazione, percepita sulla scia di desideri conflittuali edipici.

Il romanzo evidenzia come, nella storia evolutiva di molti giocatori patologici, sia possibile riscontrare la figura di un padre severo e autoritario, del quale si desidera prendere il posto non soltanto per risultare l’unico oggetto d’amore della madre, ma anche per debellarne l’autorità dispotica: in particolare, il senso di potere riscontrabile nella possibilità di sfidare la sorte e controllare le uscite di denaro, consente l’opportunità di identificazione emulativa con un paterno che decide e dispone, e del quale, per questo, si desidera la distruzione. In risposta a tale pulsione, ovviamente censurata dal Super Io, il soggetto avverte una necessità di autopunizione che può essere pienamente evacuata nel gioco d’azzardo e nelle perdite ad esso collegate.

“Egli sapeva che l’essenziale era il gioco in sé e per sé, le jeu pour le jeu. Egli non trovava pace fino a quando non aveva perduto tutto, il gioco era per lui un modo di punirsi. Quando la perdita dei propri averi metteva a tacere il senso di colpa edipico, la situazione nevrotica compulsiva trova un temporaneo appagamento prima di presentarsi di nuovo, manifestando lo stesso incontrollabile impulso di venir evacuata. E il ciclo ricomincia (Freud, 1928).

In questo caso l’impulso da evacuare in modalità difensiva è quello volto alla distruzione del padre, la cui presenza viene sostituita, a livello inconscio, da un desiderio di distruzione del Sé. È in tal modo che anche la punizione, il dolore, la colpa e l’umiliazione vengono accolti con positività. Il desiderio inconscio di perdere, e dunque di punirsi, di umiliarsi, di venire ripetutamente sconfitto, è l’unico strumento con il quale è possibile evitare l’insorgere di un’angoscia persecutoria di matrice superegoica (Freud, 1924).

Il masochismo gioca così una componente catartica, ponendo la sconfitta come un dovere inviolabile. Imbucci (1997) parla di divieto interiore di vincere, al fine di non entrare in competizione con la figura paterna interiorizzata e quindi con l’Ideale dell’Io. È per questo che l’umiliazione della sconfitta rappresenta un elemento di stimolo beneficiante per il giocatore, che in essa trova appagamento a quella sorta di aggressività interiore che proprio attraverso il suicidio vicario della perdita può essere scaricata al di fuori di Sé.

È un incoercibile desiderio inconscio di risultare perdente a manipolare la mente del giocatore, che non si ferma di fronte a nessuna possibilità di sconfitta; anzi, è proprio nello stato di incertezza in cui lo pone ogni giocata, ogni tiro, ogni scommessa, che egli trova un pungolo di sopravvivenza; è nell’aleatorietà, nel rischio di poter perdere che avverte lo stesso rischio di perdere se stesso, quell’eterna battaglia tra la vita e la morte che in una tensione dialettica distruttiva lo mantiene in vita.

L’incertezza del gioco, benefica e dolorosa, si identifica nella fonte di un piacere quasi vitale, per il giocatore: “una persona normale fa di tutto per evitare l’incertezza penosa, mentre è proprio quell’incertezza che cerca il giocatore d’azzardo, godendo dell’attesa del risultato, e della tensione che ad esso si accompagna, in una sorta di limbo conflittuale in cui la vittoria rappresenta una conferma del Sé arcaico, mentre una sconfitta incarna la punizione per aver desiderato la morte o la distruzione del padre fungendo da alibi catartica per l’inconscio” (Bergler, 1957, p. 176).

Al contempo l’urgenza dell’agito, intesa come l’incapacità di attendere o procrastinare la gratificazione, corrisponde a una situazione di non pensiero, un funzionamento scandito dal processo primario. La Mac Dougall parla di atti-sintomo che, impedendo la rielaborazione affettiva, si sostituiscono al lavoro psichico, e nel loro compiersi compulsivo rappresentano la fuga da una situazione ansiogena tramite un ripudio delle rappresentazioni disturbanti e una rapida evacuazione degli affetti connessi (1982).

L’invidia verso gli oggetti buoni

L’impulso di distruzione sotteso al gambling potrebbe risultare il correlato di una fase schizoparanoide in cui l’avidità per gli oggetti buoni posseduti dal genitore viene percepita in una modalità così distruttiva, e al contempo precoce, che può essere evacuata solo attraverso meccanismi di difesa arcaici come la proiezione difensiva. E viene dunque scaricata all’esterno, per preservare l’oggetto buono da possibili attacchi sadici aggressivi (Klein, 1928).

La volontà di privare l’oggetto genitoriale dei propri beni fin tanto da distruggerlo viene in seguito compensata da un vissuto riparativo, garantito dal sopraggiungere della fase depressiva, grazie alla quale l’invidia verso i beni materni si mostra stemperata da un impulso di accudimento e protezione (Klein, 1952). Nel caso del gioco d’azzardo entrambi gli aspetti risultano simbolizzati: da una parte la corsa compulsiva alla scommessa rappresenta la volontà di impossessarsi dei beni materni, sotto la spinta impetuosa di un’invidia distruttiva; dall’altra, il desiderio di continuare le scommesse, malgrado le perdite, rappresenta l’impulso riparativo esercitato tramite l’autopunizione depressiva, e per certi aspetti masochistica, che trae piacere catartico anche dalla propria devastazione.

Sotto un ulteriore punto di vista il gioco d’azzardo potrebbe essere interpretato come il tentativo di controllare una figura genitoriale imprevedibile, da cui sente di dipendere disfunzionalmente, in una regressione arcaica non verbalizzata. È proprio la natura incontrollabile di questa figura genitoriale e delle sue reazioni affettive a spingerlo ad una necessità di controllo della stessa, in un continuo alternarsi tra atteggiamenti controfobici e contro dipendenti; ciò al fine di mantenere con essa un legame affettivo pur premurandosi di controllarne le contraddizioni e le incoerenze.

Il gioco compulsivo, in questo caso, potrebbe rappresentare il condensato simbolico di volontà di controllo di una sorte, i cui tratti di mutevolezza e imprevedibilità ben si uniformano a quelli della figura genitoriale interiorizzata. Controllare la paura della perdita e della sconfitta, dunque, potrebbe significare, dominare la paura dell’abbandono.

I connotati narcisistici del gambling

L’esaltazione dell’incertezza- intesa come azzardo e sfida della sorte- è stata altresì identificata come il possibile connotato di una personalità narcisistica che, nel tentativo di difendersi da un senso di debolezza e fragilità insostenibile, necessita di sfidare compulsivamente la sorte per ricevere conferme della propria onnipotenza (Rosenthal, 1992).

L’evento della vincita al gioco costituisce la simbolizzazione di una vittoria contro i propri limiti, e al contempo incarna la negazione dell’esistenza degli stessi, a conferma di un sovrainvestimento narcisistico suscitato da un contesto diadico deprivante, da un oggetto materno non empatico o non all’altezza dell’Ideale dell’Io.

L’aspetto più eccitante del gioco consiste nella possibilità di regolare con il proprio volere l’imprevedibilità del risultato: atteggiamento presumibilmente riconducibile alla presenza di un forte senso di vulnerabilità endogena, di disgregazione della famiglia e di sopraffazione della realtà che spinge il soggetto alla relazione con oggetti- Sé non adeguatamente responsivi (Rosenthal, 1992).

Il senso di onnipotenza e di negazione di dipendenza dall’oggetto-tipici della personalità narcisistica- rappresentano in questo caso l’elemento compensativo della deprivazione empatica patita nell’infanzia, ed esitata in un’inguaribile incertezza del Sé (Khout, 1971). Ma sono anche l’esito simbolizzato di un disprezzo verso l’oggetto affettivo che, non essendosi mostrato all’altezza dell’Ideale dell’Io, viene punito, rifuggito negato, proprio a mezzo di un gioco reiterato e dissociativo.

Il valore del legame oggettuale e l’oggetto transizionale

La dipendenza viene a ricreare quel rapporto mancato con la madre ambiente, conferendo occasioni di sicurezza altrimenti mancanti. In questo senso il gioco d’azzardo patologico può essere ricondotto all’attività ludica infantile, con cui condivide altresì la funzione liquidatoria e abreativa di un vissuto angoscioso. Un gioco liberatorio, perché in grado di trasformare una realtà minacciosa attraverso vissuti fantasmatici liberatori. Ma anche una sorta di reverie, di benessere diadico capace di ricreare un contesto facilitante in cui la madre aiuta a dominare le emozioni selvagge e a controllare l’ansia di differenziazione in una prospettiva evolutiva (Bion, 1962).

In una direzione che colloca l’origine del gioco d’azzardo patologico in un deficit relazionale, il gambling potrebbe rappresentare l’esito dell’assenza di un legame attendibile con l’oggetto primario, cui è conseguito un difetto fondamentale (Balint, 1968). Un’assenza distruttiva cha ha reso impossibile la rielaborazione del dolore abbandonico, e dunque la mancata maturazione di un oggetto transizionale con cui fronteggiare gradualmente il dolore per il distacco dalla madre (Winnicott, 1953).

Il bambino che non ha sperimentato un’adeguata responsività diadica non ha avuto l’opportunità di sviluppare una capacità di simbolizzazione dell’oggetto materno, laddove con questa espressione si intende la capacità di sostituire la madre con qualcosa che stia al suo posto e ne replichi la funzione rassicurante.

Data l’assenza di un oggetto transizionale funzionale al distacco evolutivo, la madre non può essere sostituita né simbolizzata: niente e nessuno può prendere il suo posto. Da qui il crollo emotivo, che porta alla necessità di creare oggetti transizionali d’emergenza, provvisori e disfunzionali, con cui supplire l’assenza di un contesto materno securizzante (Ogden, 1994).

Il gambling, col suo reiterarsi alternato di perdita e vincita, potrebbe dunque rappresentare l’oggetto transizionale di un dolore abbandonico mai rielaborato, ed esteriorizzato attraverso il fluttuare compulsivo di un gioco che, come il rocchetto del piccolo Ernst, consente di avvicinarsi all’angoscia quel tanto necessario per conoscerne l’entità, senza tuttavia venirne distrutti.

FORT- DA! Laggiù e qui. È una coazione a ripetere, quella che fa sparire e ricomparire il rocchetto nel tentativo di dominare l’angoscia per l’assenza della madre. Ed è ugualmente un processo nevrotico coattivo quello che spinge il giocatore a tirare i dadi sul tavolo per poi ritrarli, ancora e ancora, nell’illusione di poter “gestire” una mancanza di legame con l’oggetto, ignorando gli effetti distruttivi di questa patologica “scommessa” con il Sé.

 

Uno studio sui cavalli: riconoscimento emotivo attraverso immagini e vocalizzazioni

Negli ultimi anni numerosi studi hanno osservato le emozioni animali e la loro modalità di espressione attraverso il linguaggio corporeo e le espressioni facciali (Waller e Micheletta, 2013), vocali (Briefer, 2018) e olfattive (Kikusui et al., 2001; Trösch et al., 2019).

 

Il riconoscimento delle emozioni tra gli animali

Il riconoscimento emotivo è importante in quanto permette una reazione adeguata per facilitare l’interazione che avviene tra membri della stessa specie (Špinka, 2012). Dato che non è ancora chiaro se gli animali possano classificare le emozioni o meno, lo studio di Trösch e colleghi (2019) vuole valutare questa capacità studiando il riconoscimento cross modale delle emozioni, cioè integrando le informazioni percepite da sensi differenti (Massaro e Egan, 1996; Trösch et al., 2019). Mentre una semplice discriminazione tra emozioni potrebbe essere spiegata da semplici regole associative apprese da parte dell’animale (Albuquerque et al., 2016), il riconoscimento cross modale implica l’identificazione dei messaggi emozionali espressi, la loro interpretazione e migliora l’efficienza, l’accuratezza e l’affidabilità del riconoscimento emotivo (Albuquerque et al., 2016; Massaro e Egan, 1996; Trösch et al., 2019).

Molti animali come cani, scimpanzé e scimmie cappuccino riescono a riconoscere le emozioni dei loro simili, discriminando le immagini presentate in base alla loro congruenza con la vocalizzazione associata (Albuquerque et al., 2016; Izumi e Kojima, 2014; Payne e Bachevalier, 2013; Evans et al., 2005), si pensi ad esempio ad una foto di una scimmia che ride, ad una foto di una che urla e ad una registrazione audio di una scimmia che emette un grido (Trösch et al., 2019). I cani inoltre riconoscono le emozioni umane (Albuquerque et al., 2016) in quanto un riconoscimento specifico delle emozioni potrebbe essere vantaggioso per coloro che vivono quotidianamente con le persone (Trösch et al., 2019; Ringhofer e Yanamoto, 2016; Smith et al., 2016; Catala et al., 2017; Chijiiwa et al., 2017; Schuetz et al., 2017; Trösch et al., 2019).

Il riconoscimento delle emozioni umane nei cavelli

Trösch e colleghi (2019) vogliono studiare come i cavalli percepiscono e reagiscono alle emozioni umane. Nello specifico, voglio osservare se la valenza delle emozioni che esprimiamo porta a sua volta ad una risposta emotiva in questi animali (ad esempio, un uomo che mostra una risposta di paura può spaventare l’animale stesso), suggerendo così un impatto sul benessere del cavallo e sulla sicurezza degli utenti che praticano equitazione (Trösch et al., 2019). Esistono numerosi studi sulle emozioni dei cavalli: possono comunicare emozioni sia vocalmente (Briefer et al., 2017) che visivamente attraverso la postura del corpo e le caratteristiche facciali (Lansade et al., 2018), inoltre reagiscono in modo diverso quando sono di fronte a delle facce o a dei vocalizzi, positivi e negativi, di altri cavalli o degli umani (Smith et al., 2016; Proops et al., 2018; Baba et al., 2019; Wathan et al., 2016; Smith et al., 2018; Trösch et al., 2019).

In questo studio (Trösch et al., 2019), con un campione composto da 34 cavalli (di razza Welsh Mares), sono state mostrate contemporaneamente due immagini di un volto umano (nello specifico, un’immagine esprime gioia e un’altra che esprime rabbia) e sono state fatte ascoltare delle vocalizzazioni positive (gioia) e negative (rabbia) con un autoparlante (Trösch et al., 2019). L’ipotesi di ricerca consiste nel fatto che i cavalli possono discriminare le due immagini in base alla vocalizzazione emessa con l’autoparlante, guardando preferibilmente l’immagine associata, e che abbiano una reazione diversa in base alla vocalizzazione (Trösch et al., 2019). Sono state effettuate sei misurazioni per ogni cavallo, osservando l’indice di preferenza dell’immagine, la risposta comportamentale delle immagini presentate e misurando il battito cardiaco (Trösch et al., 2019). I risultati ottenuti indicano che l’indice di preferenza è significativamente più alto per le immagini che sono incongruenti con la valenza emozionale della vocalizzazione eseguita, inoltre i cavalli si comportano in modo diverso a seconda della valenza della vocalizzazione: la percentuale di tempo trascorso in una posizione vigile è significativamente più alta durante le vocalizzazioni rabbiose, mentre il tempo trascorso in una posizione rilassata è più alto durante quelle gioiose. Per quanto riguarda la frequenza cardiaca, il battito cardiaco è maggiormente elevato durante le vocalizzazioni rabbiose (Trösch et al., 2019).

Conclusioni

In conclusione, lo studio suggerisce come i cavalli siano in grado di categorizzare le emozioni basandosi sulla valenza delle vocalizzazioni emesse. Questo studio è importante per l’incolumità del cavallo e della persona, in quanto una persona che esprime emozioni negative potrebbe causare stress e potrebbe contribuire ad incidenti scatenati da una reazione paurosa. Al contrario, un tono pacato potrebbe avere un effetto calmante per il cavallo e può essere utilizzato in un contesto di formazione (Trösch et al., 2019).

 

L’alleanza terapeutica: contributi teorici, rotture e riparazioni

L’alleanza terapeutica è una variabile, forse la più importante, che costituisce la relazione terapeutica.

 

Riprendendo una definizione in ottica di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), la relazione terapeutica “consiste nell’insieme dei processi interpersonali che intercorrono tra terapeuta e paziente, sia nel contesto della “relazione reale” che si svolge nel qui e ora (vissuti di simpatia, senso di affinità, condivisione di interessi comuni, ecc.), sia nel contesto della relazione transferale e controtransferale, in cui sia nel paziente che nel terapeuta si attivano modelli relazionali e emozioni in gran parte derivati dalle rispettive storie evolutive” (Dimaggio et al., 2013).

Una buona alleanza si raggiunge quando paziente e terapeuta lavorano in maniera cooperativa e collaborativa per il raggiungimento degli obiettivi della terapia, attraverso la condivisione di compiti da svolgere durante il trattamento, mantenendo un legame affettivo caratterizzato da fiducia e rispetto (Bodrin, 1979).

La storia dell’alleanza terapeutica

Il concetto di alleanza terapeutica è stato introdotto da Freud in Studi sull’isteria (Freud, Breuer, 1892-1895): un atteggiamento del paziente di tipo collaborativo può accrescere la possibilità di risolvere i sintomi nevrotici del soggetto.

L’espressione alleanza terapeutica è stata usata per la prima volta dalla psichiatra americana Elisabeth Zetzel (1958) per descrivere la condivisione della realtà tra paziente e terapeuta nella situazione analitica: “un rapporto stabile e positivo tra terapeuta e paziente che mette in grado quest’ultimo di impegnarsi positivamente nel lavoro d’analisi”.

Dagli anni 70 in poi il costrutto di alleanza terapeutica è divenuto oggetto di attenzione clinica e sperimentale da parte dei maggiori orientamenti psicoterapeutici.

Grazie a numerosi studi e a ricerche trasversali, l’alleanza terapeutica è divenuta una delle variabili comuni a tutte le forme di psicoterapia, non più solo in ambito psicodinamico.

L’autore che più d’ogni altro ha contribuito al superamento dei confini tra le diverse impostazioni teoriche è lo psichiatra americano Edward Bordin.

La sua formulazione, infatti, pone l’attenzione sulla collaborazione attiva tra il paziente e il terapeuta contro il nemico comune (il dolore) e contro alcuni comportamenti autodistruttivi del paziente. (Horvath & Luborsky, 1993).

Bordin definisce l’alleanza terapeutica come “un reciproco accordo riguardo agli obiettivi del cambiamento e ai compiti necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi dei legami che mantengono la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico” (Bordin, 1979).

Secondo lo psichiatra statunitense, l’alleanza è composta da 3 fattori:

  • Gli obiettivi (Goals): cambiamenti che l’intervento terapeutico vuole produrre. L’accordo fra paziente e terapeuta sugli obiettivi da perseguire è un momento fondamentale nella costruzione dell’alleanza terapeutica. Più gli accordi sugli obiettivi sono chiari e definiti e più l’alleanza risulterà stabile.
  • I compiti (Task): attività specifiche che il paziente deve svolgere, volte al raggiungimento degli obiettivi.
  • I legami (Bond): legami affettivi che si instaurano tra paziente e terapeuta, includono confidenza, accettazione e fiducia reciproca.

I tre fattori variano in funzione di ogni singola psicoterapia.

La sola alleanza, naturalmente, non è sufficiente per la buona riuscita del trattamento terapeutico, ma è la base indispensabile attraverso la quale il paziente può iniziare, proseguire e portare a termine la propria terapia (Bordin, 1994).

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90, autori di differenti scuole di pensiero iniziano a gettare le basi per la costruzione di strumenti per la misurazione quantitativa e qualitativa dell’alleanza terapeutica. I primi tentativi di misurazione si basano sull’analisi audio e video di sedute registrate (Safran e Muran, 2019), fino alla costruzione di questionari self-report, nelle versioni per il paziente e per il terapeuta (IVAT, Lingiardi, 2002).

Alleanza terapeutica e stili di attaccamento

J. Bowlby, grazie ai suoi studi sugli stili di attaccamento, sostiene che l’alleanza terapeutica è influenzata dalla relazione di attaccamento sviluppata dal paziente nell’infanzia verso le prime persone che lo hanno accudito.

La nuova alleanza che si instaura con il terapeuta permette al paziente, essendo parte attiva del processo terapeutico, di sviluppare una relazione diversa, più sana e gratificante (Liotti, Monticelli, 2014).

Il terapeuta funge quindi da “base sicura”, in questo modo il paziente può sperimentare nuove esperienze relazionali più funzionali dapprima in un ambiente protetto, per poi “esportarle” fuori dalla stanza del terapeuta.

Alleanza terapeutica e caratteristiche del paziente e del terapeuta

La formazione di una buona alleanza e di conseguenza la capacità di risolvere le eventuali rotture, è influenzata dalle variabili proprie del paziente (le caratteristiche interpersonali, il grado di motivazione al trattamento e i sentimenti di ostilità/amichevolezza del paziente nei confronti del terapeuta e della terapia), da quelle del terapeuta (l’empatia, la mentalizzazione, l’ascolto attivo e il tipo di tecniche terapeutiche usate) e dal rapporto, unico ed esclusivo, che si instaura tra i due partecipanti.

Le fasi dell’alleanza terapeutica: rotture e riparazioni

Durante il processo terapeutico l’andamento dell’alleanza è spesso imprevedibile e oscillante tra momenti di grande intesa e altri di perdita della sintonizzazione; come osservano Horvath e Greenberg (1994, p. 3), questo andamento può assumere le caratteristiche di un ottovolante!

Safran e Muran nel loro libro: Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (2019) definiscono l’alleanza come un processo di negoziazione intersoggettiva dei bisogni di entrambi i partecipanti (paziente e terapeuta) alla relazione terapeutica caratterizzato da un costante movimento tra rotture e riparazioni.

Le rotture dell’alleanza sono “utili finestre sul mondo soggettivo del paziente”, non ostacoli alla terapia, ma fattori di cambiamento molto potenti. Infatti è proprio a partire dalle rotture dell’alleanza che il terapeuta ha la possibilità di intervenire sulle modalità relazionali disfunzionali del paziente e lavorare per renderle più sane (Safran & Muran, 2019).

Gli autori distingono le rotture in:

  • rotture da ritiro (Withdrawal): si manifestano con ritardi o assenze agli appuntamenti, negazione di stati d’animo evidenti, povertà della comunicazione.
  • rotture da confronto (Confrontation): il paziente esprime direttamente disaccordo, lamentandosi di alcuni elementi della terapia, come l’adeguatezza del terapeuta, il progresso o l’utilità della terapia, il pagamento.

I pazienti possono utilizzare una o l’altra modalità, oppure muoversi lungo il continuum che le unisce.

Non sempre i pazienti sono in grado di comunicare al terapeuta il loro disagio o disaccordo circa l’andamento della terapia. Lo psichiatra David L. Rennie (1994) individua alcune motivazioni, quali la paura di criticare il terapeuta, il bisogno di aderire alle sue aspettative, l’accettazione dei limiti del terapeuta o la paura di ferirne l’autostima, ma anche il timore di manifestare ingratitudine.

Il compito del terapeuta è anche quello di riconoscere queste difficoltà e inquadrarle nella storia del paziente, così da aiutarlo a prenderne consapevolezza.

Fortunatamente i soli momenti di stallo o le rotture nell’alleanza non sono sufficienti a determinare l’esito della terapia: la capacità del terapeuta di riconoscere ed affrontare in modo costruttivo tali situazioni gioca un ruolo determinante. L’alleanza migliora quando il terapeuta è in grado di rispondere in modo non difensivo al paziente, ma riconoscendo e discutendo insieme gli episodi di rottura.

 

Nata due volte (2021) di Giorgia Bellini – Recensione

Nata due volte è un libro che racconta un’esperienza di vita. È stato scritto da Giorgia Bellini che lo ha editato con pubblicazione indipendente nel 2021.

 

L’autrice è una giovane che ha sofferto di bulimia ed è riuscita a riconquistare una normalità di vita. Ha voluto, con questa sua opera, condividere la sua storia. Nell’introduzione Giorgia chiarisce come il motivo che l’ha spinta a scrivere e pubblicare questo libro è la voglia di testimoniare che, da un lato, i disturbi alimentari possono spingere le persone a ‘’toccare il limite’’ e, dall’altro, che è possibile guarire.

Come sottolineato da Giuseppe Magistrale, psicologo e psicoterapeuta con una importante esperienza nel trattamento dei disturbi alimentari, il valore dell’opera di Giorgia Bellini sta nel fatto che per chi è affetto da un disturbo alimentare non c’è nulla di più prezioso che poter attingere dall’esperienza di chi ha vissuto lo stesso dolore.

Leggendo ciò che la Bellini racconta ci si rende conto di come, superando ogni remora, si metta a nudo condividendo con il lettore i suoi pensieri più intimi. Lo stile narrativo è caratterizzato dall’uso dei dialoghi in forma diretta e questo permette, a chi legge, di comprendere perfettamente le riflessioni ed i vissuti dell’autrice.

Il libro ripercorre tutta l’esperienza di malattia: il rapporto con il cibo, la sofferenza e la guarigione. Due concetti pervadono tutto il racconto: la solitudine e la vergogna. Giorgia si è sentita sola nella malattia poiché, pur soffrendo di bulimia, è sempre stata normopeso e questo ha reso la sua sofferenza invisibile agli occhi degli altri, una sofferenza così grande da spingerla a tentare il suicidio. Dal racconto emerge come questa solitudine abbia radici antiche in un clima emotivo infelice vissuto dall’autrice fin dall’infanzia. L’altro motivo di sofferenza è legato alla vergogna che Giorgia ha provato nell’essere affetta da un disturbo così particolare, il messaggio che la Bellini lancia, con la sua testimonianza, è che non c’è nulla di cui vergognarsi poiché può capitare a chiunque di ammalarsi. Nel libro traspare l’importanza dell’esperienza del ricovero ospedaliero, durante il quale l’autrice ha imparato a fare i conti con sue le emozioni. Per Giorgia essere riuscita a sconfiggere la bulimia è stata una rinascita e la sua nuova vita è una testimonianza tangibile per tutti coloro che stanno ancora lottando contro i disturbi alimentari.

Secondo i dati pubblicati sul sito dell’Ordine dei Farmacisti di Roma, in Italia sono più di tre milioni le persone che soffrono di disturbi alimentari. Il numero di morti ogni anno per anoressia si attesta intorno al 6%, mentre è pari al 2% per la bulimia ed è sempre del 2% per gli altri disturbi alimentari non specificati. Questi numeri fanno comprendere l’importanza del libro di Giorgia Bellini.

 

I vantaggi del perdono tra gli adolescenti

Precedenti ricerche suggeriscono però che il perdono porterebbe con sé molti vantaggi per i ragazzi, aiutandoli a superare emozioni negative come rabbia, preoccupazione, paura e imbarazzo.

 

Nelle relazioni sociali, le persone occasionalmente violano le norme relazionali o danneggiano gli interessi altrui. Tali “trasgressioni” tendenzialmente suscitano due differenti reazioni: la tendenza ad evitare e la tendenza a cercare vendetta. Questo accade perché in seguito ad un’offesa le emozioni principali da parte di chi la subisce sono solitamente paura, rabbia e tristezza (Gilam et al., 2019). In alcuni casi, quando le reazioni istintive di evitamento e di vendetta sono ridotte ed emerge una motivazione ad essere benevoli, le persone scelgono il perdono come strategia efficace di mantenimento delle relazioni (Billingsley & Losin, 2017).

Il perdono è stato definito come una variabile situazionale (di stato) o disposizionale (di tratto). Secondo l’approccio situazionale può essere identificato come una risposta specifica ad una trasgressione interpersonale; da una prospettiva di tratto il perdono si riferisce invece a una disposizione nel tempo e in determinate situazioni (Toussaint et al., 2015). Sebbene siano state differenti le concettualizzazioni del perdono, la letteratura è concorde nel ritenere che si tratti di una decisione personale sul proprio comportamento nei confronti di una trasgressione o di un’offesa altrui, e un cambiamento emotivo provocato da una riduzione di pensieri, sentimenti e motivazioni vendicative e rabbiose, accompagnata da un aumento di pensieri e motivazioni positive nei confronti del trasgressore (Wade et al., 2014). Quando si parla di perdono ci si riferisce quindi ad aspetti cognitivi, affettivi, decisionali, comportamentali, motivazionali e interpersonali (Worthington & Scherer, 2004).

Effetti del perdono

Gli studi presenti in letteratura solitamente prendono in considerazione un campione adulto sebbene una strategia di coping positiva come il perdono possa essere utile anche e soprattutto per gli adolescenti. L’adolescenza è un periodo di grande turbolenza durante il quale si affrontano grandi cambiamenti fisici e mentali e si è quindi vulnerabili agli effetti negativi dei coetanei. Accade spesso, infatti, che durante un conflitto un adolescente risponda in maniera disadattiva alle offese interpersonali, danneggiando così la relazione. Alcuni studi dimostrano infatti che i ragazzi di 15-16 anni prendono in considerazione il perdono soltanto sotto pressione di altre persone (Enright, 1991). Precedenti ricerche suggeriscono però che il perdono porterebbe con sé molti vantaggi per i ragazzi, aiutandoli a superare emozioni negative come rabbia, preoccupazione, paura e imbarazzo, riducendo l’ansia e migliorando l’autostima, il benessere soggettivo e la soddisfazione personale (Bono e McCullough, 2006). Tra i vari vantaggi alcuni studi nel contesto del bullismo scolastico e del cyberbullismo riportano offese meno violente quando gli adolescenti hanno una maggiore tendenza al perdono (Quintana-Orts e Rey, 2018).

Perdono ed empatia

Diversi ricercatori hanno dimostrato che l’empatia ha un effetto stabile sul perdono (McCullough e Hoyt, 2002; Fourie et al., 2020). L’empatia si riferisce alla capacità di condividere e comprendere le emozioni e i sentimenti degli altri (Decety & Jackson, 2006). Secondo la teoria dell’altruismo empatico di Baston (1991), l’empatia fa sì che gli individui si preoccupino dei bisogni dell’offensore, percepiscano che anche l’offensore sta provando colpa e dolore, e di conseguenza sperino di ricostruire un contatto positivo con l’offensore e quindi promuovano il perdono. L’empatia ha quindi un impatto diretto sul perdono e gioca un ruolo di mediazione sul perdono e sulle scuse (McCullough et al., 1998). Tale ruolo importante è stato riscontrato anche tra gli adolescenti: empatizzare con l’offensore e pensare dalla prospettiva degli altri è una strategia chiave nel processo di perdono. Gli adolescenti con livelli più alti di empatia sono quindi più inclini a perdonare di fronte ad un’offesa rispetto a quelli con livelli più bassi. (Johnson et al., 2013). Lin Ma e Yingjie Jiang nel 2020 si sono occupati di esaminare il legame tra le motivazioni legate all’evitamento e alla vendetta, il perdono e il potenziale ruolo di mediazione dell’empatia negli adolescenti. Le ipotesi iniziali erano che il desiderio di vendetta e di evitamento dopo un torto subito fossero correlate negativamente con l’empatia e il perdono, mentre la motivazione di benevolenza fosse correlata positivamente con l’empatia e con il perdono. Infine, che l’empatia potesse mediare la relazione tra una trasgressione e il successivo perdono.

Perdono e adolescenti: uno studio

445 studenti delle scuole medie e superiori (188 maschi, 257 femmine) sono stati reclutati ed è stata sottoposta loro La Tendency to Forgive Scale (TTF) per valutare le differenze individuali nella tendenza a perdonare le offese nelle situazioni e nelle relazioni (Brown, 2003); il Transgression-Related Interpersonal Motivations Inventory (TRIM), un questionario self-report di 18 item che misura i cambiamenti motivazionali delle vittime verso i trasgressori (McCullough et al., 2006). Le differenze individuali nell’empatia sono state misurate usando due sottoscale dell’indice di reattività interpersonale (Davis, 1980): la preoccupazione empatica e l’assunzione di prospettive, pensate per valutare rispettivamente l’empatia affettiva e l’empatia cognitiva. Coerentemente con le ipotesi, i risultati hanno rivelato che le motivazioni di vendetta e di evitamento dopo la trasgressione erano correlate negativamente con l’empatia e il perdono, mentre la motivazione di benevolenza era correlata positivamente con l’empatia e il perdono. Inoltre è stata trovata una correlazione positiva significativa tra l’empatia e il perdono tra gli adolescenti. Infine è risultato che l’empatia avesse un effetto di mediazione tra le motivazioni e il perdono. Questo suggerisce che i giovani altamente empatici tendono a concentrarsi sulle esperienze altrui in modo abbastanza obiettivo o disinteressato, il che comporta una maggiore probabilità di perdonare i colpevoli invece che vendicarsi ed evitare (Toussaint e Webb, 2005).

In conclusione, dato che l’evitamento e il desiderio di vendetta degli adolescenti portano a una diminuzione dell’autostima, a una riduzione emotiva a lungo termine, a conflitti interpersonali, e problemi cognitivi, emotivi o comportamentali (Yao e Enright, 2018), sembrerebbe vantaggioso focalizzare l’attenzione sull’educazione al perdono e considerare anche il ruolo importante dell’empatia. Un programma sull’educazione al perdono nelle strutture scolastiche potrebbe migliorare la capacità empatica degli adolescenti per promuovere il perdono e quindi ridurre l’impatto negativo di un conflitto interpersonale su di loro (Lin Ma & Yingjie, 2020).

 

Il concetto di valore nell’essere umano, una riflessione assiologica

Nel trattamento delle sindromi psicologiche molto spesso ci imbattiamo in convinzioni che riguardano il proprio valore o il valore degli altri.

 

Tali convinzioni risultano fondamentali nel mantenimento del disagio psichico in quanto definiscono in modo totale ed invasivo non solo l’efficacia di tutte le aree funzionali della persona, ma la sua stessa essenza.

Il termine valore viene utilizzato in modo confuso ed indefinito, a volte è astratto mentre a volte è concreto. Come astratto designa le proprietà del valore ed è spesso usato come equivalente di merito o di capacità dell’individuo, come sostantivo concreto invece il termine si riferisce a cose o persone che hanno “oggettivamente” queste proprietà del valore.

Poiché il termine valore risulta piuttosto ambiguo, dobbiamo considerare che la teoria del valore si riferisce tanto alla proprietà del valore, quanto al processo di valutazione. Riguardo alla prima si pongono vari problemi: “Qual è la sua natura? E’ una qualità o una relazione? E’ oggettiva o soggettiva? E’ una proprietà singola o sono parecchie proprietà?”

Abbiamo due modi per affrontare il problema, il primo considerare il valore come legato ad una o più condizioni, parleremo allora di valore condizionato, il valore di una persona aumenterà in base alla presenza delle caratteristiche predefinite.

Tale assunzione, che sembrerebbe proporre un andamento lineare della valutazione, in realtà ci pone un evidente problema definizionale. Qualunque siano infatti le condizioni assunte, esse risulteranno necessariamente mutevoli nel corso del tempo, pertanto, per poter arrivare ad una definizione di valore assoluto nei confronti di una persona, dovremmo assumere la media pesata dei valori relativi, dovendo considerare:

  • tutti gli ambiti che ci interessano
  • i valori relativi del soggetto
  • tenere cioè conto dello specifico peso dell’ambito, facendo quindi una media ponderata.

Anche così facendo in realtà non avremmo risolto il problema, assumendo infatti l’algoritmo di valore condizionato non potremmo mai arrivare ad una valutazione definitiva, in quanto l’andamento delle condizioni definite, qualunque esse siano, è fluttuante e per giungere ad una conclusione coerente con le premesse date dovremmo redigere il bilancio solo all’ultimo secondo di vita, potendo solo allora trarre un bilancio non più soggetto a possibili cambiamenti.

Immaginiamo infatti, per semplicità di esempio, che la condizione assunta per qualificare il valore sia la ricchezza: nel corso della vita una persona potrebbe nascere povera, diventare poi ricca e, a seguito di varie avversità, ritrovarsi di nuovo povera, per poi successivamente riguadagnare un benessere economico. La definizione di valore sarebbe allora molto relativa, seguendo necessariamente l’andamento degli eventi.

Inoltre, nei casi più eclatanti, l’ambito valutativo potrebbe essere praticamente uno solo (i pesi degli altri ambiti sarebbero minimi). Per esempio, un integralista religioso valuterà le persone a seconda della loro fede; un razzista a seconda del colore della loro pelle, ecc., attuando una grave distorsione di sovra generalizzazione in base alla quale il valore di un individuo sarebbe dedotto dalla presenza o meno di un ristretto numero di tratti, caratteristiche o comportamenti, assumendo implicitamente che gli organismi umani sono semplici ed intrinsecamente coerenti, tanto da poter essere valutati globalmente.

Anche l’aspetto della valutazione, come procedimento attribuzionale, suscita qualche perplessità, infatti ne assumiamo automaticamente un significato oggettivo e condiviso, cadendo di nuovo in un errore di sovra generalizzazione. Anche quando operiamo con un algoritmo lineare utilizzando un criterio aritmetico come ad esempio il denaro, di fatto non possiamo sottrarci ai principi del relativismo; una persona che guadagna 10.000 euro al mese può risultare ricca se paragonata ad una che ne guadagna 1.000 e povera se al contrario la contrapponiamo ad una che ne guadagna 100.000, quindi in assoluto come dovremmo definirla?

È evidente che quando ci rapportiamo a valutazioni che riteniamo impropriamente oggettive, ognuno di noi utilizza necessariamente criteri soggettivi e personali, che derivano dalla propria situazione e dalle proprie esperienze di vita. Tale procedura appare in tutta la sua evidenza quando siamo chiamati a valutare secondo criteri non aritmetici, pensiamo ad esempio al concorso di Miss Universo, per eleggere la donna più bella del mondo, o ad una giuria chiamata a valutare la prova ginnica di un concorrente olimpico. Nelle milioni di situazioni analoghe verificatesi, l’uniformità di vedute è stata rarissima, a conferma del fatto che anche in questo caso non esiste un parametro “oggettivo”, ma le persone, anche se esperte nello specifico campo, esprimono pareri diversi e talvolta totalmente divergenti, evidentemente condizionati più da considerazioni personali che dall’applicazione di un metodo imparziale.

Appare manifesto che l’utilizzo del principio di valore condizionato non risolve il problema di una valutazione efficace e valida degli esseri umani, suggerendo che gli individui siano troppo complessi ed articolati per essere costretti in una definizione così semplicistica. Conveniamo tutti che considerare la persona di Gandhi solo alla luce della sua bellezza (posto che si riesca a definire un concetto condiviso di bellezza) o del suo reddito personale sarebbe quantomeno riduttivo.

Le persone che assumono tale algoritmo valutativo commettono due enormi errori, generati da due diverse distorsioni cognitive; la prima, il pensiero dicotomico, ci porta a concettualizzare per categorie onnicomprensive ed assolute, che azzerano la complessità e la gradualità dei comportamenti umani: o si è buoni o cattivi, o intelligenti o stupidi, assumendo implicitamente definizioni universali senza alcuna considerazione del relativismo soggettivo; nessuno può essere sempre intelligente in tutte le occasioni, in tutti i campi, nelle varie forme conosciute dell’intelligenza ecc.; la seconda, che risulta essere la più nefasta, è la schiavitù da risultato.

Se il valore di una persona è collegato ai risultati che si ottengono in alcuni determinati ambiti, ne consegue che la nostra autostima dipenderebbe in modo lineare dai risultati ottenuti, con effetti devastanti qualora questi risultati non fossero raggiunti.

Riprendiamo l’esempio del denaro, se il mio valore è condizionato da quanto guadagno, questo implicherà che più guadagno e più ho valore come individuo; fin qui tutto chiaro, ma la schiavitù da risultato funziona anche in senso regressivo, quindi meno guadagno e meno valgo; estremizzando posso arrivare a concludere che se non guadagno nulla non ho alcun valore.

Rischi dell’attribuzione di valore personale

Ed è questo l’aspetto drammaticamente negativo del valore condizionato, quale che sia il parametro adottato, ricchezza, bellezza, successo, razza, nazionalità, religione ecc., il modello inevitabilmente ci porta a concludere che chi è privo del requisito è privo di valore.

Nella storia dell’uomo abbiamo ben presente cosa questo concetto ha determinato: i genocidi, le persecuzioni razziali o religiose, la stessa condizione della donna si basano sull’assunto di valore condizionato.

Ma tale disastrosa implicazione la ritroviamo anche come valutazione endogena, come dicevo, la scarsa o nulla considerazione di sé stessi è ricorrente in molte delle sindromi psicologiche e rappresenta uno dei cardini del disagio psichico.

Perché allora sviluppiamo tale concetto?

Benché il comportamento delle persone derivi da una interazione di fattori situazionali e personali molto complessa, nella realtà pratica le persone adottano un modello, noto in letteratura come errore di attribuzione fondamentale, individuato da Fritz Heider, che tende ad attribuire il comportamento di una persona alle sue disposizioni personali piuttosto che alle circostanze.

Tale metodo sembra rispondere più efficacemente al nostro bisogno di comprendere gli accadimenti della vita, quindi il poter legare i comportamenti alle caratteristiche dell’altro sembra sollevarci dall’angoscia dell’incertezza interpretativa e dalla fatica di dover ogni volta contestualizzare un comportamento ed astrarre le sue motivazioni da una serie di fatti spesso non chiari o contraddittori.

Questa è una tesi molto forte perché significa che il processore si vincola il prima possibile a questa particolare interpretazione a spesa di altre interpretazioni. Noi formuliamo giudizi circa la verosimiglianza dei fatti sulla base della corrispondenza tra i dati e il modello disponibile.

Il che ci porta al punto più importante e cioè che l’adozione di una rappresentazione determina il modello con cui pensare e che tale modello, se è assunto acriticamente, diventa il fondamento del nostro modo di guardare le cose e più in generale il mondo.

Si comprende quindi come nel tempo, il modello preesistente rafforzi dogmaticamente le proprie interpretazioni a scapito di tutte le alternative divenendo quindi non una possibile interpretazione della realtà, ma la realtà stessa.

Va detto che questa predisposizione è giustificata dall’esigenza di disporre con rapidità di coping comportamentali. Ovviamente per arrivare ad una decisione ci è utile ricorrere a procedure di semplificazione altrimenti passeremmo tutto il nostro tempo a pensare. Queste procedure sono dette euristiche, dal greco “heuriskein” che significa trovare.

Le procedure euristiche servono a trovare una soluzione, non necessariamente quella ottimale, quanto piuttosto quella più veloce.

Il ragionamento intuitivo è basato sulla percezione complessiva di una situazione, senza impiegare un’analisi particolareggiata e quindi richiede molte meno risorse psichiche del ragionamento analitico.

Inoltre, tale concetto è divenuto un modello sociale molto diffuso e oserei dire imposto, almeno nelle culture incentrate sull’ottenimento di risultati, che favorisce la continua e sistematica etichettatura di noi stessi, degli altri e delle situazioni in termini dicotomici, (secondo il principio dell’essere) buono/cattivo, bello/brutto, giusto/sbagliato.

L’utilizzo di tali concetti in modo estremizzato ci porta ad incorporarli saldamente nel nostro sistema di valutazione e di credenze.

Ogni cosa assume allora una ed una sola valutazione, ogni comportamento etichettato in modo immodificabile e definitivo, ogni persona viene sommariamente rappresentata radicalmente nella sua più profonda ed intima essenza.

L’errore risiede proprio in questo, se ci si limitasse a valutare il comportamento e gli effetti che da esso possono derivare, se ne potrebbero valutare gli esiti su di un piano relativo, contingente alla situazione data, in effetti molti comportamenti possono rivelarsi utili o nocivi, efficaci o dannosi, l’errore fondamentale è che tali valutazioni vengono estese al soggetto che manifesta tale comportamento: non è sbagliato solo l’atto, ma anche e soprattutto chi l’ha commesso.

In altre parole si passa immediatamente dalla valutazione del comportamento alla valutazione della persona nella sua globalità; nella nostra società si è imposta la corrispondenza diretta tra la persona ed il suo comportamento, sottostimando sistematicamente l’influenza che il contesto può avere nel determinare quello specifico comportamento.

Esperienza comune è che i nostri educatori (famigliari, maestri, insegnanti, ma anche amici ecc.)  abbiano legato il nostro valore personale alla presenza di alcune attitudini quali l’intelligenza, la perseveranza, la bellezza, la competenza e così via.

Durante la fase della socializzazione primaria si attua il processo di apprendimento che porta i minori, inseriti in un determinato contesto sociale e culturale, ad assimilare le norme, i codici di comportamento ed a condividere il linguaggio di riferimento ai valori vigenti.

È quindi in questa fase che si definiscono i presupposti che porteranno poi ad utilizzare un concetto di valore personale profondamente distorto.

Quando a casa eravate ubbidienti ed educati, vi dicevano che eravate un bravo bambino e voi vi sentivate compiaciuti; quando eravate maldestri o disubbidienti vi dicevano che eravate cattivi, mentre di fatto formulavano la loro opinione su quello che facevate esprimevano valutazioni su ciò che eravate.

Un principio sul quale non si insisterà mai abbastanza, non solo in terapia, ma nella vita quotidiana, è che le opinioni che si hanno su di una persona non sono che opinioni e non fatti indiscutibili, non è corretto, né soprattutto vero, confondere l’opinione che si ha su una persona con la persona.

Se io affermo che un individuo è stupido non è detto che lo sia davvero, né tantomeno che lo sia sempre ma, se anche ciò fosse, questo non significherebbe generalizzare su tutta la sua persona un giudizio negativo (disvalore) in quanto potrebbe possedere molte altre qualità (gentilezza, disponibilità, onesta ecc.), inoltre assumo come univoca la mia soggettiva definizione di stupido, quando altri davanti ad un identico comportamento potrebbero definirlo come disponibile o gentile.

Le persone sono troppo complesse, troppo articolate e sfumate per poter essere correttamente definite ed etichettate con una sola definizione; abbiamo già visto però come opera la distorsione dicotomica che, basandosi sul principio di pensare binario, incasella la realtà nel principio del tutto o niente, schematizzandola e catalogandola in continue distinzioni nette e contrapposte.

Ecco quindi che il combinato delle due distorsioni produce una nefasta conclusione, non riuscendo ad essere sempre competente ne dedurrò che sono sempre un incompetente, e postulato che la competenza sia legata al mio valore personale me ne sentirò privo, ledendo radicalmente il concetto di autostima, che è appunto il modo in cui la persona valuta e considera sé stesso.

Come uscire quindi da questa trappola cognitiva?

Implicazioni sociali del principio di valore

Abbiamo illustrato le pessime conseguenze derivanti per l’individuo dall’accettare il principio di valore condizionato; appare utile considerare anche le implicazioni sociali che l’adesione di tale principio comporta. Infatti siamo indotti ad applicare tale modello anche alle altre persone derivandone un’euristica attribuzionale veloce e spietata; se gli altri non presentato sufficientemente i presupposti definiti, allora hanno poco valore, se non li presentano affatto, non hanno valore, ne sono cioè del tutto privi.

La devastante linearità di tale logica, spesso applicata in modo inconsapevole, ci sottrae alla comprensione delle sue tristi implicazioni concettuali. Definire una persona, in quanto non intelligente, o povera, o incapace o inadeguata, ponendo cioè una qualunque attribuzione come condizionante il suo valore, ci spinge ai confini estremi del razzismo e ci rende idealmente concordi con le peggiori ideologie che hanno inquinato la storia dell’uomo giustificandone i peggiori comportamenti.

I nazionalsocialisti sostenevano che le razze non ariane erano inferiori, prive dell’attribuzione condizionante il valore si sentivano legittimati a trattare gli ebrei, gli zingari, gli slavi e poi via via tutti i popoli assoggettati come “sub umani”. Analogamente, tale principio di valore condizionato all’appartenenza razziale è stato adottato dagli americani nei confronti dei nativi prima e delle persone di colore, dei cinesi e degli ispanici poi.

Del resto, basta estremizzare un pochino il ragionamento per comprenderne appieno il senso implicito. Abbiamo visto che se il valore di una persona è condizionato dalla sua ricchezza, questo significa che più la persona è ricca e più vale e, specularmente, meno è ricca e meno vale. Ma se la persona non solo è poverissima, ma versa in condizioni tali da non essere in grado di provvedere a sé stessa, dovremmo allora concludere necessariamente che è del tutto priva di valore. Se così fosse sarebbe allora legittimo domandarci se non fosse più conveniente ad esempio usare i suoi organi, gli organi di uno che non vale niente, per salvare due o tre persone, che invece essendo ricche, hanno più valore.

Cambiando esempio, dovremmo domandarci se è conveniente curare un anziano povero e non auto sufficiente piuttosto che impegnare le risorse sanitarie per dedicarle a persone di maggior “valore”. Prima di rispondere inconsapevolmente alla domanda vi suggerisco di mettervi nei panni dell’anziano e pensare che si potrebbe decidere del vostro destino, o di quello dei vostri genitori o addirittura dei vostri figli. E non è il caso di liquidare con disinvoltura la faccenda visto le recenti vicissitudini sofferte a causa della pandemia Covid, che hanno riproposto esattamente in questi termini le valutazioni rispetto alle persone anziane, o su più ampia scala, riguardo ai paesi poveri.

Dovrebbe quindi apparire evidente che l’adozione del valore condizionato nei confronti degli individui è una pessima scelta, sia da un punto di vista etico che procedurale, scelta che va abbandonata a favore di un principio più oggettivo e più stabile, differenziando nettamente il concetto di valore della persona da quello che riguarda l’efficacia dei suoi comportamenti.

Ed in effetti questo rappresenta il cuore del problema, nel rifiutare l’adozione di condizioni esterne che definiscano il valore di una persona, accettare il concetto che ogni persona vale in sé stessa e per sé stessa e non solo per la funzione che può svolgere, che ogni persona è un fine che ha valore assoluto e non solo un mezzo che vale per l’utilità che può offrire, individuando una qualità intrinseca che sia specie specifica, che sia caratteristica quindi di ogni essere umano.

E quale può essere una condizione che subordini alla sua assenza tutte le attribuzioni pratiche? Se io offrissi ad alcuni di voi, la fama, il successo, la ricchezza o qualsivoglia altra condizione, soddisfacendo quindi tutte le più inconfessate ambizioni, chiedendo in cambio solo il vostro tempo, consentendovi cioè di vivere così solo per un giorno e poi morire, quanti sinceramente accetterebbero?

La risposta a questa seconda domanda veicola anche la risposta alla prima, infatti la mia esperienza statistica maturata in molti anni di attività come psicoterapeuta, mi dice che pochissimi hanno tentennato nel rifiutare definendo la propria vita più importante di tutte le condizioni offerte.

Sono quindi in grado di rispondere alla domanda che mi ero posto: quale valore attribuire alla persona umana? La risposta ora appare semplice: poiché non esiste vita umana che non sia la vita di una persona; poiché qualunque condizione materiale ha un senso solo in presenza di un soggetto in grado di percepirla, ogni persona vale in sé e per sé in ragione del fatto che è viva, ed è l’essere vivo che caratterizza e definisce il senso delle nostre azioni e delle nostre attribuzioni.

Essere apprezzati, ammirati, poter disporre del benessere economico o di qualunque altra condizione che qualifichi soggettivamente la felicità, necessita come elemento fondamentale della presenza del soggetto percipiente, senza il quale questi fatti non veicolano alcun significato; non credo che Van Gogh sia ora in grado di essere soddisfatto del successo attualmente raggiunto dalle sue opere, o Leonardo della fama universalmente riconosciutagli, questi accadimenti non hanno ovviamente alcun senso se non gliene viene attribuito uno, specifico e soggettivo, dal singolo individuo.

 

Manuale del Disturbo Borderline di Personalità nell’infanzia e nell’adolescenza – Recensione

Manuale del Disturbo Borderline di Personalità nell’infanzia e nell’adolescenza è organizzato in sei parti, ciascuna di queste tenta di analizzare tematiche e problematiche connesse, riportando una grande quantità di ricerche, teorie e modelli.

 

Questo libro assume un grande valore scientifico e clinico, non solo racchiude gran parte delle ricerche scientifiche condotte sul Disturbo Borderline di Personalità in infanzia e adolescenza, in ottica multidisciplinare ed evoluzionistica, ma percorre varie tappe: dalla complessa questione diagnostica, alla prevenzione e al trattamento.

Il Nuovo libro Manuale del Disturbo Borderline di Personalità nell’infanzia e nell’adolescenza a cura di Carla Sharp e Jennifer I. Tackett, edizione italiana a cura di Ilaria Riccardi e Donatella Fiore; e pubblicato da FrancoAngeli editore, affronta la complessa e delicata questione del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) in infanzia e adolescenza, riportando in modo dettagliato ed analitico una vasta letteratura scientifica, tentando di restituire al lettore una visione più completa ed esaustiva possibile del presente disturbo. Un primo compendio che restituisce i risultati di anni di studi sull’argomento.

Il libro è organizzato in sei parti, ciascuna di queste tenta di analizzare tematiche e problematiche connesse, riportando una grande quantità di ricerche, teorie e modelli.

Nella parte iniziale del libro viene introdotto il costrutto del DBP, riportando i dati delle ricerche degli ultimi vent’anni, circa la complessità di concettualizzazione e la difficoltà diagnostica in infanzia e adolescenza.

Difatti, il DBP può essere definito come una modalità pervasiva di instabilità e di ipersensibilità nei rapporti interpersonali, instabilità nell’immagine di sé, estreme fluttuazioni dell’umore, e impulsività.

Data la pervasività e la gravità del disturbo e la compromissione del funzionamento, nonché la sofferenza dell’individuo, risulta di particolare rilevanza riuscire a identificare in età precoce l’evolversi di una sintomatologia affine. Perciò, nel corso degli anni, vari autori hanno tentato di rispondere a diverse domande, tra cui le più rilevanti: “Quali sintomi, in infanzia e adolescenza, sono i migliori predittori per lo sviluppo di un DBP?” “Quali fattori possono considerarsi un rischio per l’evolversi verso un DBP? E quali fattori di protezione?”

Ma anzitutto, “È corretto utilizzare i criteri diagnostici degli adulti, anche per bambini e adolescenti?” e ancora “Il costrutto rimane invariato oppure si manifesta in maniera differente nelle diverse età?”

Come si può comprendere, queste sono alcune delle moltissime domande a cui i ricercatori hanno tentato di rispondere ed è tutt’altro che semplice, lungi dall’esaurire la questione in poche centinaia di pagine del libro. Tuttavia, le finalità di questo manuale sono di far luce e chiarezza sul panorama scientifico e restituire in forma organizzata il sapere in unico testo, peraltro finalità ampiamente ed egregiamente raggiunte.

“Quali sintomi, in infanzia e adolescenza, sono i migliori predittori per lo sviluppo di un DBP?”

Molti degli autori concordano sul fatto che il DBP insorga in infanzia e adolescenza, anche se al momento risulta molto più complesso identificare segni e sintomi predittori soprattutto in infanzia rispetto all’età adolescenziale. Del resto, anche la fase adolescenziale stessa, non è priva di problematiche, anzi comporta una difficoltà nel distinguere efficacemente tra la sintomatologia del DBP e i cambiamenti tipici adolescenziali che non rappresentano necessariamente una problematica, a meno che non si raggiungano livelli tali da interferire con il funzionamento dell’individuo nella quotidianità.

Alcuni autori tentano di individuare sintomi precursori, sostenendo una semplicistica suddivisione di prevalenza di disturbi internalizzanti in infanzia, mentre in adolescenza disturbi esternalizzanti; altri autori invece, si spingono nell’individuazione di sintomi specifici. L’idea maggiormente condivisa è la presenza di una costellazione di sintomi che si manifesti in età adolescenziale come: disregolazione emotiva, instabilità dell’immagine di sé e delle relazioni interpersonali, multi-impulsività, autolesionismo e talvolta abuso di sostanze fino all’overdose. Inoltre, sono stati teorizzati i “Warning Signs”, cioè sintomi che devono allertare il professionista circa la possibilità di un DBP, ovvero tratti stabili come: sensazione cronica di vuoto, rabbia intensa e inappropriata, impulsività e instabilità affettiva.

Quali ipotesi eziologiche?

Le ipotesi avanzate dagli autori sono molteplici, tenendo conto di vari fattori che possono determinare un fattore di rischio o predisponente per l’insorgenza di un DBP nel soggetto. Il manuale riporta moltissime ricerche di questi fattori di rischio, di varia natura, come: genetiche, epigenetiche, neurobiologiche, sociali, cognitive, attaccamento, etc. In particolare, le ipotesi maggiormente condivise, sostengono che una mancanza di socializzazione precoce, un’esposizione costante ad ambienti caotici e traumatici, modelli familiari devianti, lieve alterazione neuropsicologica e biochimica, possa portare con più probabilità a un’insorgenza di DBP.

Diversamente da come si pensava in passato, la sola presenza di un trauma non sarebbe sufficiente a spiegare l’evoluzione verso la patologia.

Inoltre, vari autori hanno tentato nel tempo di dare una spiegazione maggiormente organizzata e integrata dell’eziologia del disturbo formulando differenti modelli, tra cui il più esaustivo sembra essere il modello multifattoriale dell’eziologia.

Il DBP rimane stabile nel tempo?

I dati riportati dai diversi studi suggeriscono che, se mentre nell’adulto il DBP è principalmente cronico, nel periodo adolescenziale il DBP è temporaneo e può andare incontro a variazione o addirittura verso una remissione. Quindi, se si interviene precocemente sarebbe possibile ridurre gli effetti e il progredire della patologia, perciò, viene da sé la necessità di identificare la sintomatologia precocemente.

La diagnosi in infanzia e adolescenza?

Una volta chiariti i criteri diagnostici in infanzia e adolescenza, il professionista, oltre all’utilizzo del colloquio clinico, può avvalersi di vari strumenti provenienti da diversi orientamenti teorico-scientifici. Quelli maggiormente utilizzati sono il Personality Assessment Inventory – Adolescent (PAI – A) e il Minnesota Multiphasic Inventory – Adolescent (MMPI – A), che permettono un inquadramento diagnostico più accurato.

Quali trattamenti?

Per l’adolescenza sono stati messi a punto vari trattamenti, molti dei quali risultano essere degli adattamenti di interventi già validati e destinati ai soggetti adulti. Di seguito gli interventi maggiormente utilizzati:

  • Mentalization Based Treatment for Adolescent (MBT-A): questo intervento individuale spesso viene associato insieme ad un intervento Familiare (MBT-F).
  • Transference Focused Psychotherapy for Adolescent (TFP-A)
  • Helping Young People Early programme (HYPE): questo programma di aiuto precoce integra i principi della Terapia Cognitivo – Analitica (CAT)
  • Dialectical Behavior Therapy (DBT)
  • Terapia Familiare
  • Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving (STEPPS): questo intervento viene svolto in gruppo.

In conclusione, questo libro risulta essere un volume che necessariamente dovrebbe essere presente nello studio di ciascun professionista che svolge la pratica clinica con soggetti in età infantile e adolescenziale.

Nonostante la chiarezza espositiva e l’intenzione comunicativa, la ricchezza di dettagli e la complessità delle argomentazioni, nonché la mole, fa sì che il pubblico a cui si rivolge il presente volume, sia perlopiù di tipo professionale.

Inoltre, questo manuale rappresenta una grande opportunità per il clinico, sia per ampliare e approfondire le proprie conoscenze sia per cogliere anticipatamente la sintomatologia riportata, diagnosticare accuratamente e intervenire precocemente per scongiurare l’evolversi della patologia stessa e migliorare il benessere del soggetto.

Difatti, la complessità che emerge dal libro, non è altro che il riflesso della complessità delle argomentazioni stesse.

Ci auguriamo che nuovi studi, in particolare focalizzati sull’infanzia, possano far luce su altri aspetti al momento sconosciuti, così da andare ad arricchire ulteriormente questo manuale.

 

“Quante realtà esistono? Una, nessuna o centomila?” L’importanza degli atteggiamenti secondo la psicologia sociale

L’atteggiamento viene definito in psicologia sociale come una “tendenza nel valutare il senso in positivo o negativo un oggetto, sia esso reale o astratto, ed essendo quest’ultimo proveniente dall’ambiente sociale lo si può identificare come la risposta, ma non solo, a qualcosa al di fuori di sé” (Maggio, 2018).

 

“C’è forse una realtà sola, una per tutti?
[…] Non ce n’è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra cangia di continuo!”

(Luigi Pirandello, Uno nessuno e centomila, 1909).

 

Esiste un potenziale di cambiamento ancora prima che venga effettuata una comunicazione tra mittente e destinatario (Maggio, 2018). La psicologia sociale è una disciplina dove l’utilizzo degli strumenti non dev’essere pensato come una rigida applicazione di tecniche all’interno di specifici contesti, bensì come una possibile scienza che considera fondamentale il ruolo delle relazioni e dei sistemi sociali per comprendere i pensieri e gli agiti degli individui (Maggio, 2018). Il mondo psichico e il mondo sociale furono descritti lungo un continuum che parte da un livello intrapersonale (cioè come le persone organizzano la loro percezione, la valutazione dell’ambiente sociale e il loro comportamento all’interno di quest’ultimo) per arrivare ad un livello interpersonale (manifestazione di processi inter-individuali), un livello inter-gruppo (riguarda l’effetto delle posizioni di ruolo e di status sociale preesistenti) ed un livello ideologico (sono presenti delle concezioni generali e delle credenze, condivise attraverso i rapporti sociali, funzionali al mantenimento dell’ordine sociale stabilito) (Doise, 1986).

Le origini della psicologia sociale

La psicologia sociale affonda le sue radici nella filosofia: Platone asserisce la supremazia del contesto sull’individuo, dove quest’ultimo viene educato per adattarsi socialmente, mentre Aristotele sviluppa un pensiero in cui gli individui creano relazioni in modo spontaneo. La sociologia nasce grazie ad Auguste Comte (1830) con lo scopo di effettuare un confronto tra culture differenti attraverso la comparazione degli stadi dell’evoluzione sociale (Maggio, 2018, p. 131), mentre Durkheim (1898) apporta un notevole contributo a tale disciplina considerando gli eventi sociali come delle rappresentazioni collettive di una società: tali rappresentazioni vengono descritte come dotate di vita propria rispetto agli stessi individui che ne sono i creatori (Maggio, 2018, p.131). Charles Darwin (1871; 1872) conia la teoria dell’evoluzione dove l’uomo è considerato un animale sociale capace di adattarsi mentalmente, fisicamente e socialmente all’ambiente e alle sue modifiche grazie allo scambio emotivo che avviene tra gli individui (Darwin, 1871; 1872; Maggio, 2018).

La psicologia sociale oggi

Attualmente, esistono due approcci incentrati maggiormente sulla società e su una prospettiva osservativo-interpretativa e non sperimentale. La psicologia delle folle, approccio concepito alla fine del XIX secolo, fa riferimento alla tecnica della suggestione e all’epidemiologia per spiegare il “contagio mentale” quando sono presenti emozioni intense di rifiuto delle norme, mentre la Völkerpsychologie, rappresentante il pensiero tedesco del XIX secolo, considera la società come composta da tre elementi essenziali: Gemeinschaft (la comunità culturale), Volk (popolo di un posto che subisce un’influenza dall’ambiente) e formazione educativa (Maggio, 2018, p.132). Anche se non vi è una definizione precisa di psicologia sociale dal XIX secolo, Doise e colleghi (1986) definiscono il concetto di rappresentazione sociale come polimorfo, composto da processi socio-cognitivi e rappresentazioni sociali semantiche: lo scopo è quello di studiare i modi e le forme dell’articolazione tra il mondo sociale e il mondo psichico, fornendo risposte capaci di accrescere la conoscenza scientifica e quotidiana (Doise, 1986; Maggio 2018).

Psicologia sociale e atteggiamenti

Secondo la psicologia sociale, è possibile comprendere il rapporto tra individui e società studiando l’importanza degli atteggiamenti e il ruolo dell’influenza reciproca tra persone. L’atteggiamento viene definito come una “tendenza nel valutare il senso in positivo o negativo di un oggetto, sia esso reale o astratto, ed essendo quest’ultimo proveniente dall’ambiente sociale lo si può identificare come la risposta, ma non solo, a qualcosa al di fuori di sé.” (Maggio, 2018, p.139). Inizialmente, l’atteggiamento fu definito come ”un’elaborazione compiuta mentalmente dall’individuo di influenza delle risposte agli stimoli del contesto sociale, siano esse attuali che potenziali” (Thomas e Znaniecki, 1918-1920). Un atteggiamento si forma grazie all’esperienza diretta, o mediata, e attraverso l’educazione ricevuta dai familiari, dal gruppo di riferimento o dai mezzi di comunicazione di massa (Maggio, 2018). Attraverso l’identificazione, tale atteggiamento viene interiorizzato per una propria autorealizzazione, per un uso utilitaristico, per difesa o conoscenza (Katz, 1967; McGuire, 1969; Smith, Bruner e White, 1956).  Si parla di una “funzione di adattamento sociale” quando si considera un contesto utile a modificare tali atteggiamenti in quanto associati a frustrazioni nel raggiungimento di un esito; di “funzione conoscitiva” come risultato del ruolo di tali atteggiamenti che permette una migliore comprensione dell’ambiente circostante; “funzione di espressione” di valori per riferirsi ai principi morali in cui gli individui credono e, infine, “funzione ego-difensiva” per comprendere come gli individui controllano e fronteggiano situazioni che provocano emozioni negative, proiettandole su altre persone o altri gruppi (Maggio, 2018, p. 140).

Gli atteggiamenti possono essere misurati per conoscere come le opinioni siano distribuite in una popolazione, che siano favorevoli o meno (Maggio, 2018). Dato che non sono direttamente misurabili, vengono utilizzati degli strumenti utili a misurare il costrutto con cui potrebbe esserci un rapporto significativo: gli strumenti diretti includono scale e item, mentre gli strumenti indiretti si basano su tecniche di misurazione della conduttanza cutanea oppure dell’attività dei muscoli facciali, per comprendere la valenza positiva o negativa nei confronti di un oggetto e le varie emozioni suscitate (Ekman, 1971). Quando si parla di Sé, si fa riferimento ad un insieme di credenze che, in un dato momento, ogni persona possiede per costruire uno schema utile a comprendere quale evoluzione si è vissuta dinamicamente nel corso del tempo. Il Sé viene influenzato dall’Altro e non ci si può esimere dal manifestare un atteggiamento verso qualcosa con cui si ha un’interazione, in modo diretto o non (Maggio, 2018). In conclusione, quante realtà esistono?

Facendo riferimento all’opera pirandelliana (1909), come è funzionale assumersi la responsabilità di scegliere una rappresentazione armonica di noi stessi all’interno della società, è utile creare confronti grazie ad atteggiamenti e ad un’influenza reciproca, che servono da garanzia per uno scambio che porta alla progressione, tanto nella scienza quanto nella vita quotidiana (Maggio, 2018).

 

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2021

Il 25 novembre di ogni anno si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un’occasione per puntare l’attenzione su una tematica dolorosa e, purtroppo, sempre più attuale

 

Le origini della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Questa importantissima ricorrenza è stata istituita dall’assemblea dell’Onu nel 1999. La data è stata scelta per ricordare il sacrificio di Patria, Minerva e Maria Teresa, tre sorelle che, a causa della loro militanza politica contro il regime del dittatore dominicano Rafael Leonida Trujillo, furono brutalmente trucidate nel 1960. Le sorelle Mirabal, fervide attiviste politiche della Repubblica Dominicana e sostenitrici del “Movimento 14 giugno”, mentre stavano andando in auto a far visita ai loro mariti (anch’essi incarcerati per la loro militanza politica), furono fermate dalla polizia, condotte in una piantagione di canna da zucchero e, dopo indicibili torture, gettate in un precipizio per simulare un incidente. L’opinione pubblica comprese subito che si trattò di un efferato assassinio. L’eco di tale tragedia si diffuse, però, solo dopo la morte del dittatore. E il sacrificio delle donne fu noto al mondo intero solo nel 1999, quando questa storia intrisa di violenza e di disuguaglianza di genere giunse sul tavolo dell’assemblea dell’Onu.

In Italia il ricordo di tutte le donne vittime di violenza si celebra dal 2005. Perché ancora oggi, a distanza di sessantuno anni dall’assassinio delle sorelle Mirabal, a casa, a scuola, a lavoro, per strada, su internet, una donna su tre (secondo i dati forniti dall’Onu) subisce violenza fisica e psicologica (Manco, 2018)

Dati dal mondo e dall’Italia

I dati raccolti dall’OMS nel più grande studio condotto sulla violenza contro le donne (dal 2000 al 2018) parlano chiaro: una donna su tre, ovvero circa 736 milioni in tutto il mondo, subisce violenza fisica o sessuale da parte di un uomo. Questo problema inizia in modo allarmante da giovane: una donna su 4 avrà già subito violenza da parte di un partner entro i 25 anni di età. (Ansa, 2021).

In Italia gli ultimi dati Istat (raccolti nel 2019) mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner (Ministero della Salute, 2021)

Secondo il Rapporto Istat 2019 sulle donne vittime di omicidi, delle 111 donne uccise nel 2019, l’88,3% è stata uccisa da una persona conosciuta (il 49,5% di queste dal partner attuale; l’11,7%, dal partner precedente; il 22,5% da un familiare – inclusi i figli e i genitori – e il 4,5% da un’altra persona che conosceva – amici, colleghi, ecc.).

Nel mese di marzo 2019 la Polizia di Stato ha registrato, in media, ogni 15 minuti una vittima di violenza di genere di sesso femminile. Maltrattamenti, stalking, abusi sessuali, fino alla forma più estrema: il femminicidio

Nel triennio 2017-2019 (EMIUR, 2019), il numero totale di accessi in Pronto Soccorso con l’indicazione di diagnosi di violenza nell’arco del triennio è pari a 19.166 (1,2 accessi pro capite). Le stesse donne nell’arco del triennio hanno effettuato anche altri accessi in Pronto Soccorso con diagnosi diverse da quelle riferibili a violenza: una donna che ha subito violenza nell’arco del triennio torna in media 5/6 volte in Pronto Soccorso. La maggior parte degli accessi è di donne che tra 18 e 44 anni.

Nel 2021 invece si segnalano 19.128 reati spia (delitti indicatori di violenza di genere, espressione dunque di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, diretta contro una donna in quanto tale, tra cui rientrano atti persecutori, maltrattamenti e violenze sessuali). Le donne uccise in ambito familiare/affettivo per mano del partner o l’ex partner sono l’89% (Ministero dell’interno, 2021)

La violenza contro le donne e la pandemia Covid-19

La pandemia ha costretto le famiglie a stare più a stretto contatto e a trascorrere più tempo assieme, sono aumentate le perdite economiche e i licenziamenti. Man mano che le risorse economiche diventavano più scarse, sono aumentate le forme di abuso, di potere e di controllo da parte del partner.

Nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking (promosso e gestito dal Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio) sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019. Il boom di chiamate si è avuto a partire da fine marzo 2020, in piena emergenza Covid-19, con picchi ad aprile (+176,9% rispetto allo stesso mese del 2019) e a maggio (+182,2 rispetto a maggio 2019). La violenza segnalata quando si chiama il 1522 è soprattutto fisica (47,9% dei casi), ma quasi tutte le donne hanno subito più di una forma di violenza e tra queste emerge quella psicologica (50,5%).

Rispetto agli anni precedenti, sono aumentate le richieste di aiuto delle giovanissime fino a 24 anni di età (11,8% nel 2020 contro il 9,8% nel 2019) e delle donne con più di 55 anni (23,2% nel 2020; 18,9% nel 2019).

Riguardo agli autori, aumentano le violenze da parte dei familiari (18,5% nel 2020 contro il 12,6% nel 2019) mentre sono stabili le violenze dai partner attuali (57,1% nel 2020).

Diversi tipi di violenza

I dati fin qui esposti sono molto probabilmente solo una parte del quadro complessivo. Quelli registrati sono i dati raccolti attraverso denunce e segnalazioni alle Forze dell’Ordine e ad altri enti di competenza. Una grande parte delle violenze resta taciuta. Il silenzio spesso è dovuto alla vergogna provata dalle donne vittime di violenza, alla paura di possibili ritorsioni, alla colpa di frequente provata nei confronti del perpretatore (soprattutto se si tratta di un familiare o di un partner). Ciò che infatti disorienta la vittima e che spesso la induce a reputarsi colpevole della violenza e quindi a non denunciare l’abuso è il fatto che a commettere questi soprusi siano persone a lei care, persone che dovrebbero amarla e proteggerla. Sono difatti diversi i tipi di violenza di cui possono essere vittime le donne, alcuni dei quali – basandosi su dinamiche di potere e manipolazione – possono diventare anche più difficili da riconoscere. In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, è bene esaminarli e aiutare le donne vittime di alcuni tipi di violenza, a riconoscersi come vittime.

Con il termine violenza si fa riferimento a quella situazione nella quale uno dei due contendenti ha più potere ed utilizza quest’ultimo per imporre i propri interessi e le proprie scelte all’altro. Così facendo inevitabilmente lo danneggia (Godenzi, 1993).

  • La più conosciuta è sicuramente la violenza fisica.

Essa comprende tutte quelle azioni che comportano l’aggressione fisica come percuotere (con e senza oggetti), spingere, scuotere, mordere, strangolare, legare, bruciare con sigarette, privare del sonno e privare delle cure mediche. Ne fanno parte anche quei gesti intimidatori che terrorizzano l’altra persona come spaccare oggetti o uccidere animali a cui la vittima è affezionata. Questo tipo di violenza è la più facile da riconoscere perché le sue conseguenze sono ben visibili sui corpi delle vittime (Romeo e Sirotti, 2015).

  • Un altro tipo di violenza molto conosciuto è la violenza sessuale.

Essa comprende tutti gli atti sessuali imposti con la forza dalla coazione fino alla violenza carnale e alla prostituzione coatta (ibidem).

  • La violenza si può attuare anche a livello economico.

Essa comprende il divieto di lavorare, la costrizione a lavorare, il sequestro del salario nonché la facoltà di disporre esclusivamente delle risorse finanziarie arrogatosi da uno/una dei/delle partner (ibidem).

  • Un ulteriore tipo di violenza è quella psicologica.

Quest’ultima è la più subdola di tutte perché non lascia ferite visibili ma nascoste nell’animo della vittima. Essa comprende sia minacce gravi, privazione della libertà, nonché forme che di per sé non costituiscono nessuna minaccia immediata ma che, se sommate, debbono essere considerate alla stregua di un atto di violenza vero e proprio. In questo ambito rientra la violenza di carattere discriminatorio sotto forma di disprezzo, offesa, umiliazione, biasimo, critica che infonde sensi di colpa, intimidazione o insulto. Vi rientrano pure gli impedimenti imposti alla vita sociale di una persona, quali il divieto di uscire di casa, il divieto o il controllo severo dei contatti con i familiari e/o con conoscenti ed amici (Romeo e Sirotti, 2015).

  • Stalking

Una delle forme più recenti di violenza, riconosciuta ormai anche dalla giurisprudenza italiana in seguito ad eventi fin troppo noti, è quella relativa allo stalking. Stalking è un termine inglese, il cui significato letterale è “inseguimento”, che indica un insieme di comportamenti di sorveglianza e controllo ripetuti ed intrusivi volti a ricercare un contatto con la vittima (Bernardini de Pace, 2004). Lo stalking si può manifestare in varie modalità: attraverso lettere, telefonate, e-mail, messaggi sul cellulare, pedinamenti; e può essere rivolta a personaggi diversi (come personaggi di successo o datori di lavoro) anche se nella maggior parte dei casi gli aggressori sono ex-conviventi o ex-coniugi che non si rassegnano alla separazione (Romeo e Sirotti, 2015).

  • Molestia sessuale in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale, ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito (Cass. 12.5.2010 n. 27042)

La molestia sessuale, quindi, prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con petulanti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta (Cass. 26.10.2005 n. 45957).

Possono inoltre essere considerate molestie quei comportamenti, siano essi espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un essere umano e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, come accade ad esempio con affermazioni e comportamenti sessisti (Loi, 2016).

  • Catcalling

Le molestie di strada (o street harassment) vengono generalmente definite come attenzioni sessuali non desiderate esercitate da un estraneo in ambienti pubblici, siano essi strade, parchi o trasporti (Wesselmann & Kelly, 2010). Questo genere di molestie comprende un ampio spettro di comportamenti, quali fischi, pedinamenti, palpeggiamenti o qualsivoglia altro tipo di atteggiamento volto ad intimidire la vittima, attraverso connotazioni dal forte contenuto sessuale e minando la sua sicurezza (Stop Street Harassment, 2019). Nonostante questo fenomeno si rifletta sia sugli uomini che sulle donne, queste ultime sono maggiormente esposte a tali rischi. Questo fenomeno correla positivamente con l’auto-oggettivazione, che coincide con la tendenza a focalizzarsi, preoccuparsi e, conseguentemente, a vergognarsi per il proprio aspetto corporeo (Fairchild & Rudman, 2008).

Vittimizzazione secondaria e Victim blaming

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne va ricordato quanto sia fondamentale denunciare. Spesso – purtroppo – le donne che denunciano, devono fare i conti con un fenomeno secondario di vittimizzazione. Col termine Victim Blaming si indica proprio la tendenza a colpevolizzare, in toto o in parte, le vittime di violenza, in quanto corresponsabili dei trattamenti loro inflitti. È come se i ruoli si invertissero: l’errore commesso viene trasferito dall’oppressore all’oppresso, che avrebbe agito in maniera tale da meritare quel torto, quello schiaffo, quel pugno, quell’insulto, quella morte (Romeo, 2021). Purtroppo, la questione interessa prevalentemente le vittime di violenza sessuale e/o domestica (Gravelin, Biernat, Bucher; 2019): in entrambi i casi, il martire è di solito una donna che, secondo il parere di chi le punta il dito contro, è troppo distante dall’idea stereotipata di “vittima indifesa, autentica, vera, leale” e peccherebbe di credibilità (Randall; 2016) in quanto, a causa del suo comportamento o atteggiamento provocatorio, del suo abbigliamento inopportuno e provocante, ha dato fuoco alla miccia. Tutto ciò, non soltanto aumenta la sofferenza di chi già patisce, ma ne raddoppia anche l’umiliazione (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021).

Nel caso specifico dei soprusi sulle donne, è chiaro quanto la tendenza a condannare chi non è in difetto sia alimentata, in parte e non solo, dagli stereotipi di genere (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021), ovvero da un “insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”; tali credenze influenzano negativamente gli atteggiamenti e i pensieri della società nei confronti di chi subisce violenza (Romeo, 2021).

Tale retroterra socioculturale è anche alla base del diffondersi della rape culture, ovvero «Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne […] e che normalizza il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne.” (Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth, 1993) Infatti, si manifesta e concretizza mediante l’adozione quotidiana di un lessico misogino, attraverso l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili, operata dai media, e grazie a un massiccio processo di normalizzazione della violenza (Nuzzo, 2021).

Quanto più condividiamo questi tossici meccanismi, tanto più rendiamo difficile alle donne denunciare, parlare, allontanare e difendersi dalla violenza. Il cambiamento deve partire da tutti noi, bisogna riconsocere i modi in cui la violenza si diffonde intorno a noi e spesso anche dentro di noi.

Violenza sulle donne: Cosa fare

Qualsiasi forma di violenza va denunciata. Le donne vittime di violenza possono rivolgersi ai seguenti servizi (Ministero della Salute, 2021):

112: chiamare il numero di emergenza senza esitare, né rimandare:

  • in caso di aggressione fisica o minaccia di aggressione fisica;
  • se si è vittima di violenza psicologica;
  • se si sta fuggendo con i figli (eviti in questo modo una denuncia per sottrazione di minori);
  • se il maltrattante possiede armi.

Numero antiviolenza e anti stalking: 1522

  • Il numero di pubblica utilità 1522 è attivo 24 ore su 24 per tutti i giorni dell’anno ed è accessibile dall’intero territorio nazionale gratuitamente, sia da rete fissa che mobile, con un’accoglienza disponibile nelle lingue italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. L’App 1522,  disponibile su IOS e Android, consente alle donne di chattare con le operatrici. È possibile chattare anche attraverso il sito ufficiale del numero anti violenza e anti stalking 1522

App: YouPol

  • realizzata dalla Polizia di Stato per segnalare episodi di spaccio e bullismo, l’App è stata estesa anche ai reati di violenza che si consumano tra le mura domestiche

Pronto Soccorso

  • soprattutto se si ha bisogno di cure mediche immediate e non procrastinabili. Gli operatori sociosanitari del Pronto Soccorso, oltre a fornire le cure necessarie, sapranno indirizzare la persona vittima di violenza verso un percorso di uscita dalla violenza

Vi sono poi altri enti o servizi a cui rivolgersi, tra cui consultori, farmacie e numeri verdi:

  • Mappa dei consultori in Italia
  • Centri antiviolenza sul sito del Dipartimento delle pari opportunità
  • Farmacie, per avere informazioni se non è possibile contattare subito i Centri antiviolenza o i Pronto soccorso
  • Telefono Verde AIDS e IST 800 861061 se si è subita violenza sessuale. Personale esperto risponde dal lunedì al venerdì, dalle ore 13.00 alle ore 18.00. Si può accedere anche al sito www.uniticontrolaids.it
  • Poliambulatorio dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (INMP), dall’8 marzo 2021 è attivo il Servizio Salute e Tutela della Donna, dedicato alla presa in carico delle donne più fragili o comunque bisognose di assistenza sanitaria e psicologica.

La responsabilità è di tutti

La Giornata Internazionale per l’Eliminazione delle violenza sulle donne ci deve aiutare a comprendere la grande diffusione del fenomeno, le tante sfaccettature della violenza e le sue profonde radici all’interno della nostra società e della nostra vita. Sensibilizzare ci aiuta a capire quanto alcuni meccanismi violenti – che spesso riteniamo lontani da noi – possono esserci più vicini di quanto immaginiamo: riflettere sulle conseguenze di un linguaggio misogino, degli stereotipi di genere, del victim blaming ci mette nelle condizioni di scoprire se e in che modo tali condotte riguardano noi stessi e le persone a noi vicine e cosa fare per eliminarle. Non c’è tempo per de-responsabilizzarsi ma per diventare consapevoli e iniziare a fare la propria parte per eliminare qualsiasi traccia di discriminazione e violenza.

 

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