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Alessitimia, strategie di autoregolazione e metacognizione – Partecipa alla ricerca

Questa ricerca si propone di indagare la relazione che intercorre tra i livelli di alessitimia, il ricorso a specifiche strategie di autoregolazione, elementi metacognitivi ed esperienze infantili traumatiche/stressanti.

 

Le emozioni giocano un ruolo chiave nell’esperienza quotidiana di ogni individuo e rappresentano un segnale fondamentale per l’essere umano spingendolo all’azione o, viceversa, all’autoprotezione. La capacità di prendere contatto con il proprio mondo interno, elaborarlo ed utilizzarlo a fini adattivi consiste in un processo complesso e continuo che spesso rappresenta una sfida. Soprattutto quando ci si trova di fronte a situazioni emotivamente difficili (sentimenti negativi di rabbia, colpa, tristezza, ansia) o a eventi potenzialmente destabilizzanti (un lutto, la solitudine, una pandemia mondiale). In questi casi, la regolazione emotiva e in particolar modo l’auto-regolazione, rappresentano alcuni degli elementi centrali in grado di orientare il vissuto individuale nella direzione di una progressiva risoluzione oppure di una crescente sofferenza.

L’alessitimia è attualmente considerata un tratto di personalità relativamente stabile che riflette un deficit nella capacità di elaborare cognitivamente le emozioni e regolarle (Luminet, Taylor & Bagby, 2018). Appare evidente che una condizione di questo tipo, pur non rappresentando un indice di patologia in sé, si accompagna facilmente a situazioni di difficoltà e sofferenza, innescando potenziali circoli viziosi da cui l’individuo fatica a uscire.

La prima concettualizzazione del costrutto risale agli anni ‘70 quando il ricercatore Peter E. Sifneos coniò il termine “alexithimic”, letteralmente una “mancanza di parole per le emozioni”, ad indicare una costellazione sintomatica frequentemente riscontrabile in pazienti psicosomatici (Sifneos, 1973). Oggi la ricerca scientifica che ruota attorno a questo costrutto si è notevolmente ampliata diffondendosi ben oltre il ristretto campo della psicosomatica. Di fatto, grazie a evidenze empiriche che ne riferiscono la presenza in condizioni cliniche differenti così come in popolazione generale (es. Honkalampi et al., 2000; Salminet et al., 1999; Westwood, 2017), le indagini odierne tendono a collocare l’alessitimia nel più ampio panorama dei processi affettivi e della regolazione emotiva.

Parlare di alessitimia significa parlare di un elemento di vulnerabilità transnosografico e multidimensionale che si caratterizza per: (i) una difficoltà nell’identificare le proprie emozioni, (ii) una difficoltà nel discriminare le emozioni da percezioni più prettamente fisiologiche, (iii) una difficoltà nel descrivere e comunicare i propri stati emotivi, e (iv) uno stile di pensiero concreto orientato all’esterno (Taylor, Bagby & Parker, 1997). La presenza di elevati tratti alessitimici confluisce poi in specifici pattern relazionali, caratterizzati da distacco e superficialità, che precludono al soggetto la possibilità aprirsi alla vicinanza emotiva con l’altro (Vanheule et al., 2007) e quindi al supporto sociale. Uno stile intra e interpersonale di questo genere si ripercuote inevitabilmente nella relazione psicoterapeutica con conseguenti difficoltà di trattamento, sia nell’alleanza che negli esiti (es. Vanheule, Verhaeghe & Desmet, 2011).

La derivazione descrittivo-fenomenologica del costrutto ha contribuito a creare confusione in merito ai meccanismi eziologici-esplicativi in essa coinvolti. Innumerevoli modelli teorici si sono alternati prediligendo talvolta fattori di natura biologica innata (nature), talvolta elementi ambientali appresi (nurture). Questa ricerca si propone di indagare la relazione che intercorre tra i livelli di alessitimia, il ricorso a specifiche strategie di autoregolazione, elementi metacognitivi ed esperienze infantili traumatiche/stressanti. L’obiettivo principale dello studio è stabilire se la presenza di tratti alessitimici possa rappresentare una proprietà emergente (descriptive outcome) dell’adottare specifiche strategie di autoregolazione in virtù di certe credenze metacognitive. In altre parole, vuole comprendere se le difficoltà alessitimiche possano effettivamente rappresentare l’esito di un processo disfunzionale (teorie funzionaliste) piuttosto che una mancanza strutturale in senso stretto (teorie del deficit). Raggiungere una comprensione dei meccanismi eziopatologici coinvolti nell’alessitimia è essenziale non solo per una spiegazione teorica lineare, che pure sarebbe vantaggiosa, ma soprattutto per le implicazioni cliniche differenti che ne deriverebbero e la conseguente possibilità di strutturare tecniche d’intervento specifiche e maggiormente efficaci.

Il progetto di ricerca, nato dall’Università Sigmund Freud di Milano, abbraccia una prospettiva cognitiva-comportamentale nel tentativo di comprendere quali siano le variabili che maggiormente influenzano il rapporto che la persona adulta (18-60 anni) intrattiene con i propri stati interni, siano essi pensieri e/o emozioni. I livelli di alessitimia individuali saranno analizzati in relazione alle strategie di autoregolazione, alle credenze metacognitive e ad eventuali esperienze di vita particolarmente avverse. Verrà inoltre indagata la presenza di variabili confondenti che potrebbero influenzare l’analisi, quali le sfumature personologiche e la presenza di aspetti ansiosi e/o depressivi. Tale aspetto è estremamente innovativo dal momento che gran parte della ricerca sull’alessitimia si concentra ora su aspetti evolutivi, quali eventi traumatici/stressanti in infanzia o stili di attaccamento (teorie del deficit), ora su aspetti funzionali, quali strategie di autoregolazione (teorie funzionaliste), senza però indagare contemporaneamente entrambi gli elementi che ugualmente potrebbero concorrere, seppur in modo diverso, all’esacerbazione e al mantenimento di tratti alessitimici.

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Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo (2021) di Steven Pinker – Recensione

L’autore Steven Pinker, in Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo, scrivendo di ragione e irrazionalità, spiega con chiarezza e rigore quanto sia importante nella quotidianità compiere scelte razionali.

 

Che cosa è la razionalità? In realtà nessuna definizione può stabilirne esattamente il significato, come avviene per la maggior parte dei vocaboli d’uso comune. I dizionari definiscono razionale colui che è “dotato di ragione”; si tratterebbe fondamentalmente della «capacità di usare la conoscenza per raggiungere obiettivi». A sua volta, la definizione di «conoscenza» consiste in una «credenza vera giustificata».

Non si definisce razionale infatti chi agisce sulla base di credenze ingiustificate, come ad esempio cercare il portafogli dove si sa che non può essere, e neppure sulla base di convinzioni irrealistiche che derivano, ad esempio, dall’utilizzo di sostanze psicoattive anziché da una visione oggettiva.

Nel testo le scelte razionali vengono confrontate con quelle intuitive sulla base dei più grandi studi di psicologia della decisione, indagando le cause della ragione e dell’irragionevolezza.

Le credenze dovrebbero quindi innanzitutto essere coerenti con la realtà, dovrebbero poi servire per perseguire un obiettivo implementando le azioni necessarie. Tutto ciò può essere fatto basandosi su ogni conoscenza relativa alle circostanze.

Le capacità di ragionamento, ossia la razionalità, vengono però incrinate dai pregiudizi perché la mente tende a prendere delle scorciatoie giudicando a priori. In generale, ciò che si crede, ossia tutto ciò che riguarda le proprie convinzioni, determina le scelte che verranno intraprese, comprese quelle più rischiose. Qualsiasi tipo di prova che alteri la propria fiducia connessa a un risultato modificherà quindi la sua probabilità nonché le azioni adottate.

Ecco il motivo per cui di fronte a svariati dilemmi le persone falliscono restando ancorate ai propri pregiudizi: è evidente come i limiti del cervello ci facciano intraprendere percorsi che ci allontanano dalla razionalità. È possibile tuttavia sforzarsi di scegliere i percorsi della mente, ossia di ragionare in modo da ottenere così conseguenze migliori. Tramite alcuni studi è stato infatti dimostrato che le persone che s’impegnano maggiormente in un ragionamento approfondito, non solo commetteno meno errori, ma hanno di conseguenza anche meno guai nella vita rispetto al resto della popolazione.

L’autore spiega infatti che se le persone di fronte a una scelta ragionano sulle probabilità connesse all’esito, riescono a commettere meno errori.

La razionalità correla solo in parte con l’intelligenza, e nello specifico con l’intelligenza grezza, ma intelligenza non è sinonimo di razionalità. Occorre in particolare anche avere la padronanza di altri strumenti cognitivi quali la probabilità matematica e la logica formale, nonché l’apertura mentale e la riflessività.

L’autore valorizza così le abilità decisionali degli esseri umani, rifiutando l’idea che siamo esseri irrazionali, bensì basandosi sul fatto che sarebbe proprio la razionalità a distinguerci dalle altre specie.

In conclusione, Pinker dimostra quanto sia importante essere razionali, sia perché questo atteggiamento ci induce a compiere scelte più vantaggiose per la nostra vita privata e pubblica, sia perché rappresenta il motore del progresso morale e della giustizia sociale.

 

Il Funzionalismo moderno e lo stress

Perché uno stress positivo, che rivitalizza, dà energie, rende la vita briosa e non piatta deve poi divenire negativo? Cosa lo fa cronicizzare?

 

Stress o stanchezza?

Lo stress è una delle malattie tipiche del nostro tempo, della nostra società.

Perché parlare di stress? Perché il fenomeno dello stress è il fenomeno più emblematico e significativo quando si vuole comprendere i fattori molteplici che intervengono nella conservazione o nella perdita della salute: come quando si affronta la complessità mente-corpo dell’individuo, la persona nella sua interezza.

Oggi siamo arrivati a conoscere, con profondità scientifica, i meccanismi di cronicizzazione dello stress (stress negativo o distress).

Lo stress cronico viene confuso, troppo spesso, con l’affaticamento, con la stanchezza, con il carico di lavoro. In realtà è ben altra cosa dallo stress temporaneo (stress positivo o eustress) che stimola l’organismo rivitalizzandolo e che lo predispone a superare situazioni e problemi in tempi brevi, agendo immediatamente, con tutte le energie e le capacità che si possiedono.

L’eustress, quindi, scompare dopo che si è affrontato lo stimolo stressante (o stressor) contrariamente a quanto accade per lo stress cronico (o distress) che permane nel tempo, creando disturbi oggi molto diffusi, logorando l’organismo, fino a farlo ammalare di malattie importanti, quali le cardiologiche, le oncologiche, il diabete, le cefalee, le malattie gastroenteriche, per arrivare anche a quelle autoimmuni oggi in continua crescita.

Ma perché uno stress positivo, che rivitalizza, dà energie, rende la vita briosa e non piatta deve poi divenire negativo? Cosa lo fa cronicizzare?

Per capirlo dobbiamo guardare all’individuo che è sottoposto allo stimolo stressante, al suo Funzionamento e in particolare al modo in cui l’evento stressante impatta su di lui a livello emotivo, cognitivo ma anche sensoriale e fisiologico.

Il Filtro Funzionale secondo la teoria del Neo-Funzionalismo

È il “filtro Funzionale” (costrutto teorico del Neo-Funzionalismo presente in Rispoli, Di Nuovo, Genta, 2000; Di Nuovo, Rispoli, 2011) che costituisce la maniera in cui l’individuo attraversa un evento stressante (stressor) con tutto il proprio organismo: vale a dire con lo stato delle sue emozioni, lo stato cognitivo, ma anche la respirazione, la condizione muscolare, le sue posture, la sua voce, la condizione fisiologica e biologica profonda. Lo stressor può venire percepito come qualcosa di affrontabile oppure di non affrontabile, come un evento ordinario oppure come una condizione drammatica.

Il “filtro Funzionale” viene condizionato nella sua capacità di reagire all’evento stressante da esperienze precedenti; esperienze negative (che non hanno aiutato il pieno funzionamento della persona, possono aver alterato questo filtro, per cui eventi stressanti che non sono insormontabili ma abbastanza normali vengono vissuti come molto allarmanti, pericolosi, drammaticamente stressanti.

Le conseguenze

Le conseguenze sono fondamentalmente di due tipi.

L’organismo è già debilitato, e ciò fa permanere lo stato di stress più a lungo. Le condizioni che caratterizzano la reazione di stress non si esauriscono, nell’organismo, il quale non è più in grado di ritornare allo stato primario di allentamento e benessere, ma permangono al di là dell’evento. Lo stress diventa cronico e l’organismo ne esce ancora più debilitato e il filtro Funzionale più alterato. La persona non riesce più a gestire eventi stressanti anche lievi.

Questo è lo stress cronico.

Permanendo le condizioni di stress ormai cronicizzato, la persona soffrirà di disturbi di vario genere, comunque sempre abbastanza invalidanti, come difficoltà a concentrarsi, irritabilità, disturbi di ansia, insonnia, cefalee e disturbi neurovegetativi. E, cosa ancor più grave, si creerà nel tempo un terreno che è la base biopsichica di quasi tutte le malattie.

L’altra tipologia di conseguenza è la seguente. La persona perde anche la capacità di comportarsi secondo quelle norme elementari che aiutano a conservare la salute: potrà bere alcolici, stare sveglio fino a tardi, prendere più caffè, impegnarsi in un lavoro ancora più logorante, accollarsi altri impegni, mangiare molto o troppo, mangiare male. Tutte condizioni che peggiorano lo stato di salute in generale.

Le radici dell’ammalarsi

Allora è fondamentale capire dove si àncora questo ammalarsi, cioè questa alterazione dei funzionamenti, questo stress cronicizzato.

Oggi, dopo gli studi che ho condotto per oltre 30 anni con la mia equipe della psicologia Funzionale, sappiamo molto bene come funziona lo stress: sappiamo dove si inizia a formare; sappiamo che non dipende dalle differenti situazioni di vita, ma da come funziona la persona ai suoi livelli più profondi. Lo stress è esattamente lo specchio di questi livelli di funzionamenti profondi, perciò, è un fenomeno di importanza vitale.

E lo stress inizia ad annidarsi nel respiro alterato che diventa toracico, nelle contrazioni muscolari e nelle ipertonie, nelle posture non più mobili, nei movimenti che in parte diventano stereotipati, nelle sensazioni fisiche alterate; per poi diffondersi al pensiero che diventa sempre più sovraccarico di preoccupazioni, alle emozioni che si colorano di scuro, alle fantasie negative che tendono ad aumentare sempre di più.

La cura e i consigli più immediati per lo stress

Tutti i consigli che si possono dare, perciò, devono essere necessariamente rivolti a recuperare i Funzionamenti di fondo alterati di cui la persona non può avere reale consapevolezza. Questi funzionamenti sono costituiti da tutti i piani psichici e corporei, e sono alla base di emozioni, pensieri, comportamenti. Ed è su questi che bisogna agire perché sui funzionamenti profondi alterati il soggetto non può intervenire senza un aiuto specifico esterno, dal momento che sono al di là della sua volontà. È questo un agire sulle radici sulle quali si è innescato lo stress negativo, per poter così invertire il processo di cronicizzazione dello stress.

Ciononostante qui cercheremo comunque di dare alcuni consigli più immediati e pratici che possono costituire un momento di autoaiuto, suggerendo anche alcune semplici tecniche per cercare di non farsi sopraffare dallo stress in alcune situazioni chiave.

Una riunione di lavoro difficile, un impegno importante nel dover parlare ed esporre

Preparare il lavoro un po’ di tempo prima, prospettando alla mente i possibili andamenti della riunione, progettando attraverso l’immaginazione le modalità più adatte per raggiungere gli obiettivi voluti.

Terminare la progettazione almeno un giorno prima, e poi dimenticare per un giorno tutto, distrarsi, e cercare momenti piacevoli e di divertimento.

Un’ora prima praticare una respirazione diaframmatica profonda: inspirazione a bocca aperta lunga (3-4 tempi), nessuna pausa, espirazione più rapida a lasciare con un po’ di voce (2 tempi), pausa (di 2 tempi), e poi ricominciare il ciclo. La respirazione deve durare almeno 10 minuti. A poco a poco si instaurerà una calma profonda.

Subito dopo fare alcuni movimenti di slancio, per creare convinzione e determinazione, movimenti veloci e intensi con le braccia e le mani, muovendosi con fermezza e decisione anche sulle gambe.

Un momento di rabbia, di lite pericolosa

Non rispondere subito.

Portare lo sguardo in giro e cercare di vedere veramente cosa c’è intorno a noi.

Espirare rapidamente diverse volte e poi effettuare lunghi respiri con una inspirazione molto lunga e lenta. Molte volte.

Cercare in mente una canzone molto allegra. Meglio se se ne ha una già a portata di mano, una che ci piace molto.

Provare a dire qualcosa di molto diverso da quello che si stava per dire. Senza paura di perdere la faccia, di perdere una posizione da mantenere a tutti i costi.

Poi parlare lentamente con voce intensa ma non acuta e tenendo la testa ben sollevata, esprimendo sicurezza, determinazione ma con grande calma.

Conclusioni

Dal momento in cui vengono sempre più conosciuti i meccanismi dello stress negativo diventa possibile mettere in atto un piano di prevenzione serio, efficace e scientificamente basato. Le conseguenze di questo disfunzionamento stanno aumentando sempre di più nelle nostre società, in tutti i paesi, e in età che stanno diventando sempre più precoci. Tra l’altro nel mondo del lavoro il danno economico dovuto alla presenza sempre più diffusa e ampia di stress, con i relativi disturbi e patologie, sta diventando veramente insostenibile.

La lotta allo stress è una cosa molto seria, e lo sarà sempre di più nel futuro.

 

L’influenza di TikTok nell’insorgenza dei disturbi alimentari

TikTok ha riscosso grande successo attirando l’attenzione di una larga fetta della popolazione caratterizzata da una variabilità nel genere e nell’età in diversi paesi del mondo. Questo social tanto utilizzato può avere un ruolo nell’insorgenza dei Disturbi Alimentari?

 

Introduzione

Tiktok, applicazione che fornisce brevi video dai 15 ai 60 secondi, a Dicembre 2020 ha raggiunto i 2 miliardi di iscritti e per la maggior parte sono adolescenti. Promuove video su una larga gamma di tematiche: dalla cucina, alle esibizioni dei ballerini più famosi, alle discussioni politiche. Basata su algoritmi, più volte mirino di attacchi mediatici per la difficoltà nel limitare e filtrare contenuti spesso maladattivi. Sebbene nell’attuale panorama scientifico si promuova una visione bio-psico-sociale nel definire i fattori che predispongono l’esordio di un disturbo alimentare, diversi studi riconoscono i contenuti dei diversi social media come fondamentali nell’interiorizzazione di un ideale di bellezza.

TikTok – For You: di cosa si tratta?

TikTok, applicazione sviluppata e lanciata dalla compagnia cinese ByteDance Ltd nel 2016, è attualmente riconosciuta come una delle piattaforme social più utilizzate. Dal suo lancio, l’applicazione ha riscosso pieno successo attirando l’attenzione di una larga fetta della popolazione caratterizzata da una variabilità nel genere e nell’età, non solo in Giappone ma in diversi Paesi del mondo. Infatti, un report del Dicembre 2020, ha rilevato i dati demografici degli utenti TikTok in Giappone: il 15% della popolazione appartenente alla fascia dei teenegers, il 12,1% intorno ai 40 anni. Nel 2019, in India, TikTok ha visto una crescita esponenziale del 50%, giungendo ad avere 75 milioni di utenti attivi a Dicembre 2019. Ulteriori statistiche relative a Paesi come Germania, U.S., Brasile, dimostrano nel corso dell’ultimo anno una crescita esponenziale raggiungendo quasi i 10 milioni di utenti android a Dicembre 2019.

Formalmente riconosciuta come Musical.ly, TikTok è un’ applicazione telefonica accessibile sia agli utenti con sistema Apple che Android. L’app permette ai suoi utenti la creazione e la condivisione con altri audience di tutto il mondo, di diverse modalità di video clips: brevi video in cui imitare i balletti di famosi tiktokers, mediante musica in background o la creazione di proprie versioni originali, mediante l’uso di specifiche tecniche di editing e filtri immagini, forniti dall’app.

Più in generale si può affermare che, in pochi anni, la piattaforma ha raggiunto più di 2 miliardi di persone che hanno scaricato l’app, più di 800 milioni di utenti attivi, in cui quasi la metà di essi ha un’età compresa tra i 16 e i 24 anni.

Ulteriore caratteristica propria della presente applicazione è il “For-You” pagina feed video, in cui si susseguono video di account, non sempre riguardanti persone seguite, ma consigliate sulla base della propria cronologia.

Nel corso del 2020, con la condizione pandemica, in Italia si è osservato un incremento del 33%. Come riferito dall’Ansa, pur avendo ancora un utilizzo soprattutto tra i giovanissimi – nel 2020 è stata utilizzata da circa il 26% dei 18-54enni – può vantare un tempo di permanenza di circa 5 ore al mese a persona.

TikTok influenza l’insorgenza dei disturbi alimentari?

L’applicazione è stata più volte contestata per i contenuti spesso poco filtrati e la scarsa protezione della privacy. Una recente indagine del The Guardian del 2020, ha denunciato come i contenuti pro-anoressia siano ancora facilmente rintracciabili nonostante le compagnie dei diversi social media abbiano proibito pubblicità riguardanti la perdita di peso mediante condotte alimentari estreme (Garson, 2020; Kaufman, 2020; Lantos, 2020). Pertanto, sebbene la compagnia avesse bloccato alcuni hashtag, digitando le stesse parole, sono emersi dozzine di account che promuovevano condotte di vita pericolose e disturbi alimentari, utilizzando lievi errori ortografici o sinonimi dei termini comuni. Ulteriormente in relazione all’uso dei “For you”, diverse persone avevano testimoniato di essere venute facilmente in contatto con account i cui contenuti riguardavano i disturbi alimentari, la perdita di peso o le diete, e ciò in quanto, come riferisce Ysabel Gerrard dell’università di Sheffield: “TikTok è designato a mostrarti solo ciò che pensa possa piacerti”.

In accordo con l’indagine di The Guardian, anche diversi studi (Lantos, 2020, Herrick, 2020) hanno sottolineato la facilità con la quale, nonostante gli hashtag contenenti il testo completo “#EDrecovery”, i Tiktok potessero essere anticipati da immagini proprie di un contenuto definito “thininspiration”. Portando alla luce, da un lato la semplicità con la quale molte tipologie di Tiktok e di narrative associate possono finire per essere mal interpretate, dall’altro lato la difficoltà con la quale tracciare e fermare i contenuti maladattivi.

In accordo con tali dati, diversi studi in letteratura sottolineano l’aumento dell’incidenza dei disturbi alimentari. Secondo un’analisi dell’Ospedale San Raffaele di Milano, con lo stress associato alla condizione di pandemia 2020, le persone che già soffrivano di Disturbi alimentari hanno vissuto una ricaduta. Nella popolazione sana, quasi il 30 % di adolescenti hanno iniziato a soffrire di tali problematiche.

La metanalisi di Rodger e colleghi (2016) dimostra la relazione diretta tra la visione di contenuti online “pro- eating disorder” e la manifestazione delle problematiche alimentari. Nello specifico la ricerca rivela che l’esposizione ai siti web “thinspiration”, è associata all’aumento dell’insoddisfazione corporea, dieta ferrea, affettività negativa. La visione di pro-Ana website, aumenterebbe la sensibilità alla propria soddisfazione -insoddisfazione per l’immagine corporea, al “drive for thinness” e al cibo, portando così allo sviluppo di tali disturbi in relazione ad una soggettiva vulnerabilità.

Nel recente studio caso-singolo, LoGrieco e colleghi, 2021, descrivono il caso di un’utente di 14 anni ricoverata presso l’ospedale Bambin Gesù di Roma con diagnosi di Anoressia Nervosa. Durante il colloquio iniziale con la neuropsichiatra, la paziente riferisce di essersi ispirata a TikTok, piattaforma in cui molte ragazze condividono le loro personali esperienze nella lotta contro profonde sofferenze, contro i disturbi alimentari o  gesti autolesionistici. Afferma, dunque, di voler intraprendere tali condotte per dimostrare a se stessa e agli altri la difficoltà della condizione che l’ha portata all’ospedalizzazione. Pertanto, gli autori sottolineano la gravità degli effetti dell’esposizione a contenuti pro-Ana soprattutto su giovani utenti, già insicuri della propria immagine corporea.

CBT-E: cause multifattoriali nello sviluppo dei DA

Secondo la formulazione transdiagnostica della CBT-E, i disturbi alimentari sono  accomunati all’interno di un’unica categoria ombrello. Il protocollo, definito agli inizi degli anni 2000 presso il centro CREDO di Oxford dal prof.re Fairburn e, successivamente, introdotto in Italia dal dott.re Dalle Grave, prevede come al centro di tutte le categorie nosografiche dei disturbi alimentari si possa riconoscere un unico nucleo psicopatologico: l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo.

Se generalmente le persone tendono a valutarsi sulla base della percezione delle loro prestazioni in una larga varietà di domini di vita (scuola, lavoro, amicizie), quelle affette da problematiche alimentari fondano la propria autovalutazione principalmente sul peso, sulla forma del corpo e sull’alimentazione. Secondo tale teorizzazione, alla base della condotta di restrizione alimentare cognitiva o calorica, comportamento che generalmente rappresenta l’inizio di un disturbo alimentare, possono esserci due possibili condizioni: da un lato l’aver interiorizzato un ideale di bellezza, dall’altro la necessità di controllo dei vari domini di vita.

In quest’ottica, dunque, non esiste un’unica causa. In un panorama più bio- psico- sociale, si possono riscontrare i fattori predisponenti in una multifattorialità, ovvero, una più ampia gamma di fattori combinati tra loro (da quelli genetici a quelli ambientali). Tra i diversi fattori di rischio si può sottolineare in primis la fase dell’adolescenza. Vari studi dimostrano come le persone intraprendono la prima dieta soprattutto nell’adolescenza, prima età adulta, e ciò per diversi motivi: la necessità di definire il proprio valore in termini di bellezza e aspetto fisico, le modificazioni fisiche che rendono il proprio corpo lontano dal proprio ideale di bellezza o la necessità di mantenere un proprio senso di autocontrollo. In secondo luogo, i fattori socio-culturali sembrerebbero giocare un ruolo importante soprattutto nei paesi occidentali. Rinforzata dai messaggi dei mass-media, si fa propria l’idea che il proprio valore e dunque la propria autostima, dipenda principalmente dai tratti fisici e dalla capacità di conformarsi a dei canoni di bellezza, noti nella propria società. Infatti, mentre per le donne, il concetto di bellezza è associato maggiormente alla necessità di dimagrire per raggiungere la condizione di “thinness”, per gli uomini la bellezza promossa è associata al “drive for mascularity” e dunque ad un corpo tonico e muscoloso. Concorde, con i precedenti studi, con il fatto che l’esposizione a media che mostrano persistentemente l’ideale di bellezza può associarsi alla preoccupazione e all’insoddisfazione per la propria immagine corporea.

 


 

Cos’è la comunicazione?

Nella linguistica la comunicazione è una trasmissione dinamica, cioè uno scambio di informazioni mediante uno o più linguaggi tra un emittente e un destinatario. In psicologia è la produzione intenzionale di qualche tipo di segno che possa essere percepito e interpretato come tale da un’altra persona.

 

La comunicazione

Comunicare ha una duplice valenza: indica sia l’atto di costruire messaggi costituiti da segni, che offrano la possibilità di agire sulle cose e sulle persone senza che vi sia necessariamente contatto con esse, sia quello di produrre qualcosa di concreto; infatti, secondo la Teoria degli Atti Linguistici, dire qualcosa è sempre fare qualcosa. Tale teoria distingue l’atto linguistico in tre livelli:

  • atto locutorio, cioè l’atto di dire qualcosa, l’azione che si compie per il fatto stesso di parlare.
  • atto illocutorio, cioè l’atto nel dire qualcosa, l’azione che si compie attraverso il parlare e corrisponde alle intenzioni comunicative di chi parla.
  • atto perlocutorio, cioè l’azione che si compie con il parlare e corrisponde alle conseguenze sui sentimenti, sulle credenze e sui valori dell’interlocutore.

La comunicazione è una peculiarità universale, tant’è vero che gli animali utilizzano forme di comunicazione più o meno complesse, anche vocali. La comunicazione negli animali è associata ad una condotta specie-specifica, è innata e identica in animali della stessa specie, assolve a funzione adattiva e serve principalmente per segnalare gerarchie, stati d’animo e accoppiamenti. Negli esseri umani la comunicazione conosce tre settori:

  • la sintassi, che si occupa di problemi sintattici associati alle proprietà statistiche del linguaggio (parole e configurazioni).
  • la semantica, che analizza i simboli e il significato della comunicazione stessa (parole e significato).
  • la pragmatica, che analizza gli effetti della comunicazione sul comportamento, il legame tra lingua e contesto e la competenza comunicativa.

L’intenzione comunicativa si traduce in vero e proprio atto comunicativo a seguito di tre fasi diverse:

  • concettualizzazione (definizione della struttura semantica della parola)
  • formulazione (trasposizione della struttura semantica in struttura linguistica)
  • articolazione (esecuzione delle parole).

L’atto comunicativo avviene in un ambiente detto “contesto”. Gli elementi che concorrono a realizzare tale atto sono tre:

  • emittente (che codifica l’informazione di partenza)
  • ricevente (che accoglie, decodifica, comprende e interpreta la suddetta informazione)
  • codice (insieme dei simboli e delle regole adoperati nella comunicazione stessa)

Esistono tre diversi codici comunicativi:

  • verbale (che comprende lessico, parole e concetti)
  • paraverbale (che comprende ritmo, accento, tono e volume)
  • non verbale (che comprende gestualità, mimica facciale, postura e prossemica).

Il linguaggio non verbale o gestuale è tendenzialmente più efficace di quello verbale per esprimere emozioni complesse, in quanto può trasformare la comunicazione stessa, rafforza il codice comunicativo verbale e lo carica di un significato affettivo ed emotivo.

Emittente, ricevente e codice costituiscono il circuito comunicativo: esso si configura come un circuito dinamico, nel quale assume fondamentale importanza il concetto di feedback o retroazione, cioè l’effetto che l’informazione esercita quando, dal ricevente, torna indietro all’emittente. Il feedback può essere positivo o negativo, a seconda che generi un cambiamento nel ricevente oppure no. Come abbiamo detto, l’emittente codifica l’informazione e il ricevente la decodifica, producendo un feedback. Tuttavia, quando il ricevente decodifica l’informazione diventa emittente di una nuova informazione, pertanto egli sceglie un canale comunicativo, cioè un mezzo tramite cui propaga il codice, e, in una prospettiva prettamente retroattiva, manda un messaggio all’emittente.

Il linguaggio è una forma di comunicazione superiore che può essere espressa tramite un canale verbale o non verbale: è un sistema di segnalazione arbitrario, costituito da fonemi, morfemi, sintagmi, frasi e testi che possono costituire infinite combinazioni per via di regole ricorsive di scrittura. Ha come finalità la decodificazione contenutistica e come proprietà fondamentale la dislocazione: è possibile alludere ad eventi e oggetti assenti alla percezione dei comunicanti.

La comunicazione e lo sviluppo del linguaggio

Il linguaggio, nell’uomo, evolve e si sviluppa modulandosi lungo diverse fasi:

Fase preverbale o prelinguistica (da 0 a 6 mesi): in questa fase, in cui il bambino è molto piccolo, pianto e vocalizzazioni sono le produzioni vocali principali e tendono ad interporsi nei turni comunicativi e nelle pause verbali dell’adulto con cui il bambino si relaziona. Intorno al terzo mese di vita compaiono le prime associazioni vocali-consonanti, che il bambino ripete per formare delle parole bisillabiche. Intorno al sesto mese compaiono le lallazioni canoniche, sequenze di sillabe ripetute che il bambino crea ricorrendo alle medesime associazioni di consonanti e vocali (per esempio, una lallazione è “da-da-da”). Intorno al decimo mese di vita compaiono le lallazioni variate: la natura della sillaba si fa più complessa ed eterogenea.

Fase protoverbale o monolinguistica (dagli 11 ai 12 mesi): il bambino in questa fase utilizza una sola parola. Le prime parole sono caratterizzate da uno scopo comunicativo chiaro; ad esse si avvicina gradualmente e soprattutto grazie a sollecitazioni da parte di un adulto. Inizialmente le parole sono utilizzate in contesti specifici e situazioni abituali e riguardano in particolar modo nomi comuni di animali o cibi, in seguito vengono applicate anche in contesti nuovi e ad uso generalmente referenziale.

Linguaggio telegrafico (dai 20 ai 24 mesi): quando intorno al ventiquattresimo mese si sviluppa la morfologia, il bambino si accosta ad un linguaggio telegrafico, composto principalmente da due parole. Intorno al trentaseiesimo mese di vita il bambino inizia ad utilizzare tutte le parti di una frase.

Acquisizione grammaticale e sintattica (tra i 2 e i 4 anni): man mano che cresce, si estende la gamma di termini che il bambino apprende, memorizza e pronuncia.

Molti psicologi concordano nel dire che il linguaggio sia una caratteristica insita nell’uomo: nel 1979, il linguista Chomsky formulò che gli esseri umani nascono con una capacità linguistica innata e universale che emerge con lo sviluppo. Secondo Chomsky, tutte le lingue del mondo possiedono una struttura denominata “Grammatica Universale (GU)”, che contiene la descrizione degli aspetti strutturali condivisi dalle lingue naturali. Grazie al LAD (Language Acquisition Device), cioè un dispositivo di acquisizione linguistica, che non localizza in nessuna specifica area cerebrale, è possibile comprendere il funzionamento esatto di una lingua: tale dispositivo garantisce la comprensione e la realizzazione del linguaggio stesso. Jean Piaget, il fondatore dell’epistemologia genetica, ha invece una posizione interazionista, in bilico tra Innatismo ed Empirismo: il linguaggio compare nel periodo sensomotorio (il primo stadio dello sviluppo cognitivo del bambino).

Gli assiomi della comunicazione

Tra il 1971 e il 1974 Paul Watzlawick e la Scuola di Palo Alto delinearono cinque assiomi fondamentali della comunicazione umana:

Primo assioma – Impossibilità di non comunicare: una comunicazione include sempre un comportamento. Ogni comportamento è un messaggio e comunica qualcosa di noi. Dal momento che è impossibile non comportarsi, è impossibile non comunicare.

Secondo assioma – Livello di contenuto e livello di relazione: ogni comunicazione umana ha un livello di contenuto, relativo alla componente di informazione trasmessa, e un livello di relazione, relativo ai ruoli dei comunicanti.

Terzo assioma – La punteggiatura della sequenza di eventi: la comunicazione comprende diverse versioni della realtà, ognuna delle quali dipende dalla punteggiatura della sequenza degli eventi, ossia dal modo in cui ognuno tende a pensare che l’unica versione possibile dei fatti sia la propria. La punteggiatura della sequenza degli eventi organizza gli eventi comportamentali.

Quarto assioma – Comunicazione numerica e analogica: la comunicazione può essere numerica (cioè connessa al linguaggio verbale e alla logica dei contenuti trasmessi e funzionale a veicolare il contenuto della relazione e a tramandare la conoscenza nel tempo) o analogica (cioè connessa al linguaggio non verbale o para verbale e funzionale a veicolare la relazione stessa).

Quinto assioma – Interazione simmetrica e complementare: gli scambi comunicativi sono simmetrici (la persona che parla tende a rispecchiare il comportamento dell’altro, generando un’interazione simmetrica) e complementari (la persona che parla tende a completare il comportamento dell’altro, generando un’interazione complementare).

 

A un metro dal futuro. Speranze e paure di una gioventù sospesa (2021) di Marco David Benadì – Recensione

A un metro dal futuro. Speranze e paure di una gioventù sospesa di Marco David Benadì è un libro che appartiene ad una nuova collana, I Trampolini, delle edizioni del Gruppo Abele ed è stato edito nel 2021.

 

Questo progetto editoriale intende presentare libri, dedicati agli adolescenti, che hanno come tema il mondo giovanile e le sue attuali trasformazioni. Marco David Benadì è laureato in economia, è professore presso la Facoltà di Economia ed il Master in Marketing e Comunicazione a Torino e, oltre ad essere titolare di altre docenze, è autore di diversi libri.

A un metro dal futuro è un libro, illustrato in bianco e nero da Inka Mantovani, che racconta il mondo giovanile italiano attraverso una serie d’interviste. L’autore, attraversando il nostro paese da nord a sud e fermandosi in città e paesi, ha incontrato ed ascoltato ragazzi tra i 15 ed i 19 anni. Gli incontri con i ragazzi, delle periferie e dei quartieri “alti”, sono stati organizzati in collaborazione con Libera, l’associazione contro le mafie, che lavora con le giovani generazioni e sono avvenuti durante il lockdown.

La prospettiva utilizzata da Benadì non è quella di parlare dei giovani, ma è quella di permettere ai giovani di raccontarsi, di narrare la propria vita. Attraverso la voce della nuova generazione l’autore cerca di comprendere come i ragazzi di oggi si sentono, pensano, sognano e cerca di capire se i giovani hanno ancora la voglia di cambiare le cose ed il mondo in cui vivono. «I miei sogni sono veramente grandi – dice Beatrice, di 17 anni di Sanremo – così mi capita di pensare: “Quand’è che si potrà fare?”».

Leggendo le testimonianze raccolte da Marco Benadì ci si accorge di come i giovani, differenti per età, per regione geografica e per status sociale, si raccontino con libertà e franchezza. Quello che emerge è che la generazione zeta mostra una grande ricchezza interiore al di là dello stereotipo che i ragazzi di oggi siano superficiali e privi di valori. Questo fatto è ben rappresentato dall’intervista di Francesca che narra il momento in cui vide una rosa: «una cavolata, però secondo me ogni giorno dovremmo trovare una cosa bella per la quale poter dire: “Ma che bello!”».

Il valore aggiunto di questo libro di Marco David Benadì sta, non solo nel suo essere un’opera che nasce dai ragazzi per tornare ai ragazzi, ma anche nel fatto che i proventi delle vendite concorreranno a finanziare i progetti educativi del Gruppo Abele per il contenimento dell’abbandono scolastico e per la promozione dell’inclusione in contesti sociali difficili. Il libro di Benadì finanzierà i progetti educativi di strada che intendono favorire l’accesso agli strumenti formativi per quei ragazzi che si trovano in difficoltà.

 

“So di non sapere”. Monitoraggio metacognitivo e illusione di sapere

Lo scopo del lavoro di Avhustiuk e colleghi (2021) è quello di analizzare l’illusione del sapere nel monitoraggio metacognitivo dell’attività di apprendimento degli studenti universitari.

 

La metacognizione ed il monitoraggio metacognitivo

La metacognizione è definita come la capacità di “pensare al proprio pensiero” (Flavell, 1979, p. 906), cioè indica l’attitudine a monitorare e a controllare il proprio flusso mentale (Martinez, 2006, p. 696).

Il monitoraggio metacognitivo è definito come l’abilità di controllo dell’attività cognitiva e il suo scopo è diretto alla risoluzione di determinati compiti, come il richiamare delle risposte, svolgere dei test o leggere delle istruzioni (Savin & Fomin, 2013). Nello specifico, è la valutazione umana delle proprie conoscenze, sia per quanto riguarda le strategie cognitive e sia per la conoscenza di condizioni riguardanti i processi di apprendimento (Serra & Metcalfe, 2009).

I primi studi sull’illusione del sapere sono stati condotti da Glenberg, Wilkinson ed Epstein (1982), che mostrarono come la convinzione di comprendere sia maggiormente evidente, quando, in realtà, la comprensione non è stata raggiunta da parte di una persona. È un fenomeno che può verificarsi durante l’apprendimento di un testo, quando le persone esprimono convinzioni errate sull’acquisizione delle informazioni (Dunlosky, Rawson e Middleton, 2005; Glenberg, Wilkinson ed Epstein, 1982), o mentre si studiano coppie di parole, poiché le persone spesso tendono a sopravvalutare la probabilità che le ricorderanno in seguito (Eakin, 2005). Tipicamente, questa illusione appare nei giudizi espressi immediatamente dopo il processo di apprendimento, in quanto le informazioni assimilate sono ancora immagazzinate nella memoria di lavoro (Nelson & Dunlosky, 1991).

L’illusione di sapere è vista come un’eccessiva fiducia soggettiva nella correttezza dell’apprendimento e della comprensione delle informazioni oggettivamente errate (Commander & Stanwyck, 1997; Dunlosky, Rawson e Middleton, 2005; Epstein, Glenberg e Bradley, 1984; Glenberg & Epstein, 1985; Glenberg & Epstein, 1987; Glenberg, Wilkinson, & Epstein, 1982; Kroll e Ford, 1992; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021), nella correttezza delle prestazioni del compito (Begg et al., 1996; Fazio & Marsh, 2008; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021) o come un’eccessiva sicurezza nella capacità di ricordare informazioni che non possono essere ricordate (Castel, McCabe, & Roediger, 2007; Eakin, 2005; Koriat & Bjork, 2005; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). L’eccessiva sicurezza può verificarsi quando le valutazioni di confidenza dei giudizi metacognitivi sono superiori ai livelli di prestazioni effettivi (Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). Molti lavori dimostrano che un ruolo significativo è svolto da diverse euristiche (Koriat, 1997; Serra & Metcalfe, 2009) che facilitano o impediscono l’attuazione di giudizi durante il monitoraggio metacognitivo nell’apprendimento.

Nello specifico, nel 1997 Koriat identificò le tre classi di segnali dipendenti dalla complessità, dal contenuto semantico e dalle condizioni di elaborazione delle informazioni apprese: il segnale intrinseco, estrinseco e mnemonico. Questi ultimi non sempre hanno un impatto positivo sui giudizi metacognitivi, in quanto possono essere ignorati (Dunlosky & Nelson, 1992; Koriat, 1997) o fraintesi (Benjamin, Bjork e Schwartz, 1998; Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). Alcuni scienziati studiano l’affidabilità del monitoraggio metacognitivo nel processo di lettura dei testi (Glenberg, Wilkinson ed Epstein, 1982), mentre altri ne studiano il ruolo nel processo verbale (Eakin, 2005; Parkinson, 2009) e nell’apprendimento delle dichiarazioni (Kolers & Palef, 1976; Nelson & Narens, 1980; Smith & Clark, 1993). Il livello del compito e la complessità influenzano in modo significativo i giudizi di monitoraggio metacognitivo dell’accuratezza dell’apprendimento (Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021).

Il monitoraggio metacognitivo e l’apprendimento

Lo scopo del lavoro di Avhustiuk e colleghi (2021) è quello di analizzare l’illusione del sapere nel monitoraggio metacognitivo dell’attività di apprendimento degli studenti universitari (n = 262). L’analisi si focalizza sugli effetti delle diverse tipologie di informazioni proposte e di quelle personali, cognitive, metacognitive e delle caratteristiche psicologiche individuali dei partecipanti.

Lo studio è stato condotto in due fasi: la prima è una fase diagnostica dove i partecipanti hanno svolto un questionario utile ad accertare le caratteristiche psicologiche degli studenti, legate all’affidabilità del monitoraggio metacognitivo (Pasichnyk, Kalamazh e Avhustiuk, 2017), mentre la seconda è una fase sperimentale misurata in laboratorio. I partecipanti hanno dovuto imparare 6 testi, 18 affermazioni e 18 coppie di parole in ucraino. Sono stati osservati i giudizi metacognitivi prospettici sull’apprendimento della fiducia (JOL) e i giudizi prospettici sul numero di risposte corrette (aJOL), nonché giudizi metacognitivi retrospettivi simili di entrambi i tipi (RCJ e aRCJ). Con una corretta procedura di calibrazione, sono stati definiti gli indicatori medi dell’illusione di sapere (eccessiva sicurezza) e gli indicatori medi dell’illusione di non sapere (sotto confidenza) (Avhustiuk, Pasichnyk e Kalamazh, 2021). I risultati della fase diagnostica hanno mostrato una predominanza della motivazione all’apprendimento per acquisire conoscenze (48,7%) e per lo sviluppo delle competenze (39,2%), livelli medi (49%) e alti (29,5%) di autostima generale, autoefficacia (livello medio – 44,3%, livello alto – 32,6%) e consapevolezza metacognitiva (livello medio – 43,5%, livello alto – 35,5%), così come livelli medi di conoscenza metacognitiva (62,8%) e attività metacognitiva (58,7%). I dati della ricerca hanno anche mostrato una grande quantità di studenti con livelli medi di riflessività (56,7%), nonostante la maggior parte di essi abbia mostrato una bassa riflessione (30,9%).

In generale, i risultati dello studio hanno messo in luce che il 59,4% dei partecipanti ha commesso degli errori nei JOL e che la maggior parte di loro (31,3%) ha mostrato un’eccessiva sicurezza nel compito e nella correttezza prestazionale. Inoltre, il 50% degli studenti ha commesso errori di monitoraggio metacognitivo nel corso di aJOL, mentre il 35,9% degli studenti era troppo sicuro della correttezza delle prestazioni dei compiti. I risultati medi dell’illusione di sapere erano leggermente diversi nei JOL (MJOL = .27, SD = .61) e in aJOL (MaJOL = .25, SD = .69) (p ≤ .05). Il numero di studenti che hanno mostrato l’illusione di sapere non era significativamente diverso. Tali risultati possono indicare che l’eccessiva sicurezza prima delle prestazioni del compito non è necessariamente dipendente dal tipo di compito svolto. Tuttavia, negli RCJ c’è stata una diminuzione (6,3%) dell’eccessiva fiducia degli studenti nell’accuratezza del compito e negli aRCJ il calo ha raggiunto l’11,7%. Il valore medio della sopravvalutazione è rimasto invariato.

Conclusioni

La ricerca ha dimostrato che l’illusione di conoscere può verificarsi in tutti i tipi di giudizi metacognitivi, ma è più evidente nei giudizi prospettici e dipende dal tipo di informazione, dalla sua lunghezza, dallo stile e dal tipo di compito. Esistono correlazioni empiricamente stabilite tra le caratteristiche personali, cognitive e metacognitive selezionate.

Non si osservano differenze di genere ed età nella manifestazione dell’illusione di sapere, sebbene si osservi che le donne tendono ad un’eccessiva sicurezza. I risultati hanno anche mostrato che l’illusione di sapere è più tipica per gli studenti più giovani, specialmente per quelli con meno livelli di risultati accademici.

 

I Pazienti gravi e difficili: l’uso della NET, della co-terapia e della terapia integrata

In presenza di pazienti gravi, con l’ausilio dell’oggetto analitico e di un eventuale oggetto transizionale, il terapeuta può essere il perturbatore strategicamente orientato

 

Introduzione

Nella pratica terapeutica ci potrebbe capitare di avere in cura un paziente considerato grave e difficilmente gestibile. Secondo alcuni specialisti, ad esempio, con il disturbo borderline non c’è molto da fare e i “border” vengono definiti incurabili. Con questa visione delle cose finiremmo presto per andare in burnout e buttare tutti i nostri anni di studio nel cestino. Un approccio diverso dovrebbe prevedere di mettersi accanto al paziente e provare a “camminare” per un breve tratto insieme a lui. Questo ci permetterebbe di capire le diverse modalità di approccio che ogni persona può avere in terapia, le diverse lacune emotive che ci potrebbero essere e che possono inficiare il percorso di cura. Oltre ciò, aiuta saper “inquadrare” il paziente come essere capace e depositario di risorse che gli permettono di compiere azioni e di progredire nella vita, nonostante le difficoltà che incontra nel suo percorso.

Se gli altri lo considerano ingestibile e non migliorabile, noi abbiamo il dovere morale e professionale di accoglierlo e validare ogni suo vissuto. Tutto ciò per permettergli di costruirsi giorno dopo giorno.

Il Protocollo NET

Nei casi considerati più gravi possiamo avvalerci del protocollo NET; la Narrative Exposure Therapy (NET) è un trattamento breve e focalizzato sulla cura delle sindromi inerenti il trauma, in particolare, quelli articolati e di difficile gestione (Schauer, Neuner & Elbert, 2014). Il principio basilare del suddetto protocollo, è la teoria della rappresentazione duplice (Brewin et al., 1996; Moss, 2016); essa muove i suoi passi dall’ipotesi che la narrazione che una persona fa a se stessa circa il proprio vissuto influenzi le modalità attraverso le quali percepisce le esperienze quotidiane e il benessere soggettivo. Il paziente costruisce, con l’aiuto del terapeuta, un percorso della sua vita, un simbolo, fatto di una corda, fiori e pietre, che mette in ordine cronologico gli eventi della sua esistenza – positivi, negativi (anche traumatici) della persona. Costruita la linea della vita, il paziente inizia la sua narrazione fino a che non incontra gli eventi negativi ovvero le pietre; essi vengono affrontati tramite l’esposizione immaginativa, spazio in cui il terapeuta prova a chiedere un resoconto dettagliato circa il vissuto emotivo e cognitivo, nonché riguardo le risposte fisiologiche vissute dal paziente  durante l’evento traumatico.

Il paziente è incoraggiato a esporre la sua esperienza emotiva mentre elabora il racconto, senza sganciarsi dal presente, collegando ciò che ha provato a fatti episodici. In questo modo, si facilita la rielaborazione e l’integrazione armonica di tutto il vissuto personale. Tutto ciò avviene dopo aver rimodulato la portata degli eventi di vita a valenza altamente negativa. Un ulteriore punto da considerare nel protocollo in questione è “l’essere nel presente”. Il paziente ci arriva ricordandosi che le emozioni e le risposte fisiche che occorrono in risposta ai ricordi, in questo caso di natura traumatica, sono espressamente collegate a specifici fattori come un posto particolare o un luogo specifico. Altresì, esse sono rimodulate e riprocessate all’interno del percorso di vita del paziente difficile, così da unirle ad un significato specifico e non lasciarle vagare come schegge impazzite. Possiamo prendere in prestito una parola dalla neuropsicologia: Anosognosìa. Essa indica la non consapevolezza della propria situazione da parte del paziente in ambito cognitivo. Invece, tramite il lavoro della NET e “L’essere nel presente” è possibile ovviare a questa condizione, ma per quanto riguarda la parte emotiva (alessitimia) e la narrativa di vita.

Queste operazioni possono essere facilitate dalla capacità del nostro sistema “corpo” di entrare in relazione con l’altro, in questo caso il terapeuta. Louis Cozolino, nel suo libro Il Cervello sociale: neuroscienze delle relazioni umane, si domanda quale impatto hanno su di noi le relazioni umane. In terapia l’importanza attribuibile alle relazioni aumenta; lo specialista, tramite una rivisitazione della “Reverìe materna”, può accogliere i vissuti emotivi del paziente e rimandarglieli validati e rimodulati, specialmente nelle fasi in cui la persona non ha le risorse mentali per effettuare un contenimento e/o abbassamento dell’arousal emotivo. In tutto il processo terapeutico il paziente è il vero protagonista della storia ri-vissuta tramite, ad esempio, le tecniche di immaginazione guidata. Dovrebbe essere presente il principio trasversale della “Talking Cure” che permette ai due dialoganti di intessere una trama proficua lungo tutto il percorso.

Il suddetto principio diventa prezioso soprattutto nella fase di stabilizzazione del paziente difficile, prima di addentrarsi nella disamina del vissuto altamente negativo o gravemente psicopatologico. La linearità di pensiero diventa un obiettivo per il paziente tramite l’esame di realtà e l’analisi fattuale. Con questa modalità si cerca di evitare l’eccesso di stimoli proveniente da una situazione gravemente compromessa e/o disregolata. Il terapeuta può insegnare al paziente a focalizzarsi sulla storia e sugli elementi più oggettivi così da aiutarlo a lavorare sulle parti che può “controllare” maggiormente. Il terapeuta e il suo paziente si addentrano nella narrazione della storia di vita di quest’ultimo.

Sebbene ci siano alcuni elementi della relazione paziente-terapeuta che potrebbero riproporre la relazione genitore-figlio e sono, eventualmente, paragonabili ad essa, l’analogia può essere utilizzata impropriamente per giustificare una folie à deux in cui il paziente vuole disperatamente che il terapeuta diventi il genitore buono che compensa il genitore cattivo del passato.

Il terapeuta potrebbe cadere in errore colludendo con questo desiderio, tentando di diventare una figura idealizzata che dovrebbe risarcire il paziente per i traumi passati.

Cosa può fare il terapeuta in casi altamente disfunzionali?

È importante sottolineare che, soprattutto nel lavoro con pazienti problematici, si potrebbe parlare della “creazione” di un nuovo oggetto nello spazio terapeutico; possiamo prendere spunto dalla teoria psicoanalitica secondo la quale l’analista e il paziente concorrono a creare l’oggetto analitico. Quest’ultimo potrebbe essere funzionale all’accoglimento e contenimento di eventuali scompensi e disregolazioni di pazienti altamente problematici e/o traumatici; esso potrebbe dare coerenza di significato al sistema terapeutico in atto, nonostante la disfunzionalità della psicopatologia. Gli oggetti sopra menzionati potrebbero avere per il paziente una funzione validante del sé, in una fase della terapia nella quale il soggetto ha meno risorse disponibili.

In presenza di un paziente grave, con l’ausilio dell’oggetto analitico e di un eventuale oggetto transizionale, il terapeuta può essere il perturbatore strategicamente orientato per il suddetto. L’oggetto transizionale non è solo l’orsacchiotto e la sua utilità non è confinata al solo periodo dell’infanzia. Il compito di accettazione della realtà non è mai completato, nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna e il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza. Il bisogno di un oggetto specifico o di un modello di comportamento può ricomparire in un’età successiva, ad esempio quando si vive una minaccia di privazione (Balestrieri, 2019). È doveroso ricordare che lo spazio di cura che viene portato avanti è privo di schemi di giudizio e dove il concetto di colpa non è contemplato. L’oggetto transizionale, soprattutto nella fase di stabilizzazione critica del paziente difficile e/o grave (es. DBP), potrebbe ovviare alle croniche sensazioni di vuoto e incompletezza che accompagnano la persona. Questa fase sarebbe di ausilio alla fase successiva di rimodulazione dei vissuti disfunzionali nonché alla ristrutturazione degli eventi di vita da cui il paziente è stato travolto.

Per quanto concerne il disturbo bipolare, il paziente elabora in maniera concreta la sua esperienza personale. L’intervento su una modalità poco flessibile e concreta comporta: ricostruire le caratteristiche elementari della sequenzializzazione di una trama, cioè ricostruire gli aspetti basici di cronologia, casualità e tematicità e anche la ricostruzione della distinzione tra interno/esterno. Dopo di che, il lavoro diventa uguale per tutti; si cerca di ampliare la trama narrativa. Una volta che si ricostruisce l’aspetto nucleare di base, si comincia il lavoro di ampliamento e articolazione.

È importante aiutare il soggetto a centralizzare gli aspetti positivi del suo vissuto per aumentare l’agency positiva, dopo aver pensato alla corretta stabilizzazione e “messa in sicurezza” del paziente nelle prime fasi della psicoterapia tramite l’inserimento nella comfort zone terapeutica.

Nei pazienti con dissociazione traumatica si rileva una particolare frammentazione nei ricordi ed una scarsa integrazione negli schemi generali del paziente. Essi si palesano per le loro sensazioni e affetti intensi, spesso poveri dal punto di vista verbale (Van der Kolk et al. 2001). L’integrazione di questi ricordi diventa il core della terapia.

In aggiunta, dovrebbe essere prevista l’acquisizione di livelli sempre più funzionali di tolleranza degli aspetti emotivi che possono emergere con le loro sensazioni corporee.

In terapia, soprattutto il paziente difficile è portato a “sezionare” lui stesso le emozioni alla base di tutti i giorni. Sarebbe utile pensare ad un addestramento per Il paziente tramite la “visual imagery” emotiva, così da depotenziare in maniera funzionale l’arousal delle emozioni che rivestono un ruolo centrale nel vissuto difficile e/o traumatico della persona. Il contenitore sicuro della terapia può diventare a tutti gli effetti un modulatore dei riverberi emotivi che potrebbero palesarsi con la gestione di un paziente grave. È importante non superare la soglia critica oltre la quale il paziente potrebbe disregolarsi e rendere vani i progressi compiuti in terapia.
Dopo aver concluso la fase di stabilizzazione con e per il paziente si può procedere alla parte integrativa.
Per integrazione si fa riferimento all’importanza del lavoro, nel corso della terapia, sugli eventuali processi mentali dissociati. Un’attività di contatto con il proprio corpo e l’ambiente circostante potrebbe essere il grounding.

Il grounding mira a far sentire il paziente in diretto contatto con il suo corpo. È un esercizio che può aiutare a farlo sentire più presente a se stesso nelle azioni quotidiane. Attraverso questa tecnica si cerca la riduzione dei sintomi dissociativi contrastando il frequente effetto numbing (ottundimento emotivo) particolarmente presente nei Disturbi Dissociativi: a questo fine è importante, anche in seduta, un ambiente adeguato e funzionale. Oltre ciò, il terapeuta può far dedicare il paziente alle tecniche di stimolazione sensoriale e corporea autoprodotta (musiche, odori forti, esercizi corporei di stretching etc.). La persona deve essere parte attiva nel processo terapeutico. Lo specialista riporta in asse il paziente in caso ci fosse uno “sbandamento” da parte sua.

Durante la terapia, la cura personale e funzionale costituiscono uno degli obiettivi principali nella gestione di un paziente difficile. Prendersi cura di sé aiuta a riconoscere di poter avere dei confini rispetto agli altri e di essere in grado, con l’aiuto del terapeuta, di dare forma e direzione al proprio quotidiano. Nei pazienti gravi, con spunti dissociativi o fenomeni conclamati, mantenere un saldo ancoraggio a una semplice routine quotidiana e a degli schemi che possano aiutarli a “funzionare” meglio può indicare una via di uscita. Ad esempio, si può sottolineare la fondamentale importanza di avere una rete sociale come supporto o di iniziare un percorso di istruzione che possa dare al paziente un background più solido.

Soprattutto con pazienti affetti da Disturbi Dissociativi gravi o PTSD complesso, la prima sfida riguarda la loro sicurezza e i possibili comportamenti anticonservativi. In questi casi, una sorta di contratto di sicurezza deve essere concordato in modo chiaro e diretto. Il terapeuta dovrebbe aiutare il paziente a esplicitare l’attivazione del suo sistema cooperativo tramite il quale diventa possibile la messa a punto dell’alleanza terapeutica in cui, in maniera esplicita, possono condividere un obiettivo comune. È importante rimanere all’interno dei confini terapeutici così da evitare attivazioni emotive disfunzionali da parte del paziente. Uno strumento utile potrebbe essere l’auto-osservazione o auto-monitoraggio tramite diari giornalieri. Il tutto deve essere supportato dal terapeuta in maniera accurata; quest’ultimo può riformulare e rimandare ciò che si evince dagli homeworks dati al paziente. Non è da tralasciare la validazione delle emozioni sia positive che negative che la persona porta con sé nello spazio sicuro della terapia.

Così facendo è possibile iniziare a dare una continuità narrativa agli eventi/emozioni affrontati dal paziente; tramite queste manovre la persona riesce ad abbassare il “rumore” dei sintomi?

Il terapeuta può riformulare in termini generativi quello che il paziente porta così che quest’ultimo possa sentirsi sempre in grado di migliorare ed essere performante tramite le sue risorse.

Se ci trovassimo a gestire un paziente borderline o bipolare, per riuscire a fornire un confine sicuro tra la fantasia-impulso e l’azione e contenere i desideri del paziente, ad esempio in caso di eventuali acting out verbali e/o fisici, inizialmente, basteremmo come “pellicola” di protezione? Come possiamo aiutarlo ad integrare emozioni e vissuti discordanti, ammesso che ne abbia veramente coscienza?

La Co-terapia e la terapia integrata a confronto

In quest’ultima parte vorrei focalizzarmi sull’uso della co-terapia messo a confronto con la terapia integrata in caso prendessimo in carico un paziente difficile.

Pongo due domande che serviranno come spunto per trattare il nodo centrale sulla co-terapia: “L’ordine mentale, di solito, tende a ricomporsi quando siamo da soli? Potrebbe essere vero che l’assenza di socialità, in determinati momenti della nostra vita, si intende, ci può aiutare a ricordare chi siamo veramente?”.

In casi di pazienti gravi e difficili, la citazione su riportata potrebbe non avere molto senso; il motivo si ritrova nella possibile facile frammentazione e disorganizzazione mentale. Una possibilità di cura potrebbe essere quella di adottare un setting terapeutico peculiare, quello integrato o direttamente in co-terapia.

Per quanto riguarda il primo, si tratta di un setting unico in cui lo stesso specialista può “erogare” sia la terapia farmacologica sia la psicoterapia. Invece, nella co-terapia esistono due setting totalmente diversi che hanno l’obbligo di dialogo costante. Potrebbe capitare la situazione in cui uno specialista è il farmacologo e l’altro lo psicoterapeuta.

Tramite l’ipotesi che il trattamento a SMI (setting multipli integrati) è di elezione nei pazienti con DBP o, comunque considerati gravi, passiamo in rassegna vantaggi e limiti della psicoterapia nei setting multipli integrati.

La Co-terapia appare un valido strumento di cura ma, nella pratica clinica, è faticoso a livello tecnico. Ci troviamo di fronte a due relazioni terapeutiche contemporanee, due setting differenti gestiti da due professionisti diversi; tutto ciò aumenta la complessità della terapia e può mettere a rischio la buona riuscita della terapia, fondamentale in casi di grave psicopatologia.

Questo tipo di attività parallela potrebbe portare ad una eccessiva frammentazione del vissuto del paziente problematico, ad esempio borderline o psicotico. Questi ultimi hanno bisogno di linearità nel percorso di terapia cercando di evitare eventuali “scontri” relazionali tra i terapeuti.

In casi di trauma o estrema disregolazione si potrebbe pensare ad una terapia integrata, la quale prevede la presenza di un solo specialista che effettua la psicoterapia e che cura la parte psicofarmacologica.

I due specialisti devono essere collaborativi tra di loro per tutto il percorso di cura del paziente, questo punto nodale, oltre a costituire la base della co-terapia, potrebbe dare più problemi nel quadro complessivo di gestione del paziente. Le comunicazioni fra terapeuti devono essere costanti e orientate alla assoluta autenticità e fiducia reciproca. Gabbard e Kay nel 2011 hanno usato un’espressione alquanto particolare per indicare la peculiarità tecnica e relazionale della comunicazione fra terapeuti: Tempo non fatturabile. Una delle discriminanti su cui focalizzarsi potrebbe essere l’impegno professionale dei due specialisti, volto alla corretta stabilizzazione del paziente prima e poi al buon andamento del viaggio terapeutico. Per questo motivo è bene programmare periodici “rendez-vous” tra gli specialisti, con annessi brain-storming focalizzati sul medesimo paziente; essi dovrebbero essere svolti senza fretta e faccia a faccia. Altresì, si può impostare un programma di supervisione che possa mantenere le parti in equilibrio; il grado di collaborazione è demandato ad una terza parte esterna ai setting terapeutici. Il ritmo degli incontri dovrebbe rispondere all’esigenza reciproca di sostegno, di affrontare i problemi che insorgono nella relazione con il paziente o tra co-terapeuti.

Con i pazienti difficili e provenienti da storie di attaccamento disorganizzato, i curanti potrebbero esacerbare dei conflitti, spesso inevitabili, provocati dalle conseguenze disfunzionali del suddetto attaccamento. Nonostante le costanti difficoltà che si possono incontrare sarebbe importante riconoscere celermente gli eventuali aspetti di conflittualità tra gli specialisti, che a volte potrebbero assumere connotati caleidoscopici. L’importanza della riconciliazione tra i terapeuti pone al paziente un’importante chance per sviluppare il suo personale assetto della Teoria della Mente. Così è portato a sperimentare, nel rapporto diretto con e fra i suoi terapeuti, la capacità di negoziare l’alterità di un diverso punto di vista, nonché sviluppare la tolleranza per l’inevitabile divergenza di opinioni, essenziale in una relazione interpersonale di qualunque genere.

L’ausilio della co-terapia sarebbe difficile da gestire anche nei casi di pazienti gravi provenienti da storie di attaccamento disorganizzato. Una prima spiegazione potrebbe essere l’insostenibilità, per alcuni pazienti, di gestire l’elevato grado di autenticità nella comunicazione che le co-terapie ben strutturate e ben condotte rapidamente richiedono e mettono in evidenza. La seconda ipotesi sosterrebbe l’idea che esistono soggetti gravi con importanti deficit cognitivi e metacognitivi; essi non sarebbero in grado di gerarchizzare le figure di riferimento e, per questo motivo, non riuscirebbero a tollerare la contemporanea presenza di due terapeuti.

La co-terapia o Trattamento a setting multipli integrati, nonostante sia ipotizzabile come intervento di elezione nel caso del DBP o comunque dei pazienti gravi (es. psicosi), può presentare delle criticità. È bene ribadire alcuni concetti inerenti la teoria dell’attaccamento.

Questi pazienti sembrano mostrare una compromissione più meno grave delle capacità di sviluppare relazioni di attaccamento molteplici e differenziate, ognuna di queste rivolta ad una specifica figura di attaccamento.

Dopo aver sviluppato molteplici legami di attaccamento, direzionati verso i vari membri della famiglia o esterni ad essa, i primati e l’uomo li ordinano in una gerarchia di importanza relativa, come quella che caratterizza l’assetto globale dei rapporti di ciascun individuo con chi può prendersi cura di lui.

La dimensione mentale dell’attaccamento, anziché essere gerarchica e monotropa (rivolta preferenzialmente, ma non esclusivamente, a una figura di attaccamento, detta primaria proprio perché ne esistono di secondarie), in questi pazienti tende a divenire monolitica (rivolta ad una sola persona con modalità rigide ed esclusive). Si può così definire un’ipotetica patologia dell’attaccamento che possiamo chiamare Deficit di gerarchizzazione e di monotropismo.

Oltre ciò, i pazienti suddetti hanno ulteriori caratteristiche da non sottovalutare nella scelta della terapia più appropriata. Ci può essere la perdita della capacità di considerare autonoma la mente di potenziali nuove figure di attaccamento; figure diverse da quella che non solo è, allora, primaria, ma diviene l’unica con cui poter interloquire.

Si potrebbe palesare un grave deficit della TdM; ad ogni interlocutore si attribuiranno intenzioni, pensieri e sentimenti della figura di attaccamento percepita e considerata come “unica”. Da questo potrebbe derivare un deficit della capacità di intrattenere punti di vista multipli su un evento specifico; infine ci potrebbe essere il conseguente rischio di sviluppare convinzioni deliranti particolarmente resistenti alla critica da parte di nuove figure che tentino di offrire cura, ad esempio i due co-terapeuti con i setting diversi. Si potrebbe evidenziare il rischio di sperimentare una forte e insopportabile dissonanza cognitiva nella relazione con due terapeuti che stiano cercando di instaurare la talking cure; il paziente potrebbe valutare impossibile il proseguimento di relazioni simultanee con entrambi.

Nel caso del DOC grave ci potrebbe essere la continua attivazione del sistema agonistico con i due specialisti; alla base ci potrebbe essere la convinzione altamente disfunzionale del paziente secondo la quale: Per valere veramente è necessario dominare sull’altro. Queste sfide agonistiche avrebbero come vulnus le capacità intellettuali. Resistere alle svalutazioni intellettuali del paziente ha lo scopo di non farlo sentire “mostruoso e distruttivo”; ciò potrebbe operare sottosoglia e più nello specifico ad un livello inconscio. C’è il rischio che il soggetto, protagonista nella terapia, possa operare un continuo confronto svalutativo ai danni dei terapeuti anche in modalità alternata. Tutto ciò apparirebbe come un tentativo di valutare la solidità della cooperazione paritetica degli specialisti; altresì, quanto detto sarebbe inconciliabile con la convinzione disfunzionale e, verosimilmente, patogena secondo la quale “valere vuol dire prevalere sull’altro”. Nel corso del trattamento il paziente può “lanciare” ripetuti test ai danni dei terapeuti per creare conflitti inter-terapeutici. L’esito controproducente sarebbe quello di riconoscere come top-down e bottom-up gli specialisti a livello relazionale.

Nel mondo del DOC difficile e/o grave, il principio base della pari cooperazione tra i due setting sembra inconcepibile al paziente tanto da diventare minacciosa; la minaccia sussiste in virtù della credenza nucleare patogena secondo la quale: se non si domina sull’altro non si vale.

I pazienti con storie di attaccamento disorganizzato potrebbero rispondere all’attivazione del sistema di attaccamento in seduta con una disregolazione o, quanto meno, un’escalation agonistica nei confronti del terapeuta o dei terapeuti. Può emergere in diverse situazioni, sia positive che negative.

Conclusioni

Per poter modulare e validare al meglio tutte le situazioni e gli esempi riportati, ritengo che il miglior approccio terapeutico per i pazienti gravi/difficili possa essere la terapia integrata.

Un solo specialista, con un solo setting, ha la capacità di sintonizzarsi in maniera più efficace con il paziente. In caso di scompenso ha tutte le risorse e le informazioni necessarie per agire prontamente a beneficio del paziente. Nel doppio setting, invece, ci sarebbe un rischio maggiore di frammentazione del lavoro e un’esposizione più elevata per il paziente ad eventuali episodi di dissociazione e derealizzazione eccessiva. Questo lo porterebbe ad esperire un vissuto eccessivamente negativo e, probabilmente, scarsamente tollerabile. Ecco perché la terapia integrata può essere più indicata per casi di pazienti Borderline, DOC grave, Disturbo Bipolare grave e per tutte quelle situazioni altamente difficili da gestire.

Si rende necessaria una continua supervisione da parte di un collega esperto che possa indicarci dove effettuare correzioni e dove migliorare; oltre questo si auspicano le classiche intervisioni tra colleghi che sono un buon metodo per implementare il nostro bagaglio di conoscenze.

Come recita il titolo del libro di Fabio Geda: L’esatta sequenza dei gesti, la terapia è un perfetto incastro tra due pianeti che si incontrano. Saper riparare gli strappi e gli eventuali intoppi fa parte di questa esatta sequenza dei gesti che può rimanere, in buona parte, nel mondo della prossemica e del non verbale. Paziente e terapeuta dialogano su più livelli grazie alla messa in pratica dello scaffolding emotivo da parte di quest’ultimo.

 

Opera senza autore – Recensione del film

Il film Opera senza autore è ispirato dal libro Ein Maleraus Deutschland. Gerard Richter Das Drama einer Familie.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Il personaggio del protagonista Kurt Barnert è basato sulla vita del pittore Gerard Richter. La narrazione si snoda lungo tre periodi storici.

La Germania nazista di fine anni trenta, periodo in cui un giovanissimo Kurt è “innamorato” della zia Elisabeth, uno spirito libero, stigmatizzata come schizofrenica la poveretta verrà prima sterilizzata e poi uccisa nelle camere a gas per mano del professor Seeband.

Nel dopoguerra lo stesso professore diventerà, a sua insaputa, il suocero di Barnert e non esiterà a praticare un aborto alla figlia per preservare i suoi geni dalla “contaminazione” prodotta da un artista di ceto sociale inferiore.

L’ultimo periodo è relativo al passaggio di Kurt e sua moglie nella Germania Ovest poco prima della costruzione del muro di Berlino. Qui, finalmente, il pittore, dopo aver svolto la sua attività sotto il regime della Germania Est, anche con successo, ma sempre rispondendo ai canoni di un’arte al servizio del popolo, riuscirà finalmente ad esprimere liberamente la sua creatività.

I tratti che caratterizzano la sua opera suscitano fraintendimenti espressi dalla stampa alla sua prima esposizione: “attingendo a fototessere delle macchinette, istantanee rubate dagli album di famiglia, crea opere che per ragioni inspiegabili sostengono una forza reale… non ha nulla da dire, nulla da raccontare, si distacca da ogni tradizione e per la prima volta nella storia dell’arte crea un’opera senza autore”. In realtà, come già gli aveva detto il suo maestro d’arte, il professor van Verten, “i tuoi occhi hanno visto più di tutti noi”.

Il film Opera senza autore ha un grande fascino, elementi narrativi e figurativi s’intrecciano per tre ore suscitando suggestioni e risonanze che tengono lo spettatore attaccato allo schermo. Nello sviluppo della storia sono presenti temi che potremmo definire archetipici.

Lo slancio vitale della zia Elisabeth contrapposto alla selezione naturale praticata con le camere a gas dai nazisti.

L’orrore e la distruzione della guerra verso la creazione e la bellezza artistica.

La mancanza di struttura morale del professor Seeband, algido, opportunista e incapace di empatia, e la riconoscenza gratuita del maggiore russo al quale il ginecologo fa nascere, dopo un parto a rischio, il primogenito.

La libertà creativa ed espressiva dell’artista contro la coercizione dell’arte realista del regime sovietico.

L’eros e la sensualità della relazione di Ellie e Kurt verso la fatuità dell’amore del professore e di sua moglie.

La verità dei sentimenti in contrasto con i camuffamenti e gli inganni di chi cerca di nascondere verità scomode.

La bellezza di una creatività che irrompe in modo estemporaneo contro il grigiore e il clima plumbeo degli apparati burocratici che limitano e ingabbiano.

Percorsi d’individuazione che consentono di esprimere ciò che si è, contrapposti a traiettorie ideologiche tracciate secondo criteri autoritativi.

I tredici minuti di applausi con cui è stato accolto alla Mostra del Cinema di Venezia e la candidatura a due premi Oscar sono del tutto meritati.

 

OPERA SENZA AUTORE – Guarda il trailer del film:

 

Insegnare agli studenti con DSA (2020) a cura di Fabbri, Rossi e Tironi – Recensione

Insegnare agli studenti con DSA si presenta fruibile e ben ordinato nei contenuti e la lettura è resa agevole da esempi illustrati o veri e propri elaborati di individui con DSA portati come esempi.

 

A mio figlio Elia

La digrafia è la contraddizione dei motivi estetici della scrittura. Le sgrammaticature e il disordine dei modi espositivi tendono, per categoria mentale, ad imputare la scarsa diligenza: è un adulto o un bambino?

È la tonalità nostalgica di non poter allinearsi alle prescrizioni della didattica convenzionale che fa vivere l’alunno nel palpitio di una dimensione che non gli appartiene: ne assorbe la statica atmosfera.

(Claudio Lombardo).

I bambini sono a contatto, più degli adulti, con paure interiori legate al riconoscimento delle proprie caratteristiche, pertanto, qualsiasi istituzione, non dovrebbe rappresentare la bufera bellica che spiana e livella le individualità. Quando ciò avviene è il ‘campo di concentramento’ della formazione, quasi estinto grazie ai progressi sul piano scientifico.

Pertanto, oggi possiamo parlare al plurale riferendoci ‘alle dimensioni scolastiche’ che rimandano a differenti dimensioni di insegnamento, di formazione, di educazione e via dicendo. Tutto questo al fine di ottemperare ad una visione più ampia e generale, come quella che riguarda i ‘Principi Fondamentali’ della Costituzione Italiana dove determinati ostacoli possono impedire la libertà e l’eguaglianza e, quindi, il pieno sviluppo della persona.

Quanto scritto risulta frequente nella realtà dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

Cosa sono i DSA

I DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) sono una sindrome che viene definita come una specifica difficoltà da parte del soggetto ad apprendere. Questo disturbo cronico può modificarsi in base all’età, al contesto o alle richieste ambientali e si evidenzia maggiormente nella scuola primaria e secondaria di primo grado.

La sua prevalenza appare maggiore nella scuola primaria e secondaria di primo grado (ISS, 2011, pp. 7-8). Qualsiasi tentativo di far vivere ai bambini o ragazzi ore scolastiche più ‘saporite’ viene racchiuso in progetti, studi e approfondimenti, nonché di impegno divulgativo, come quello riferito al libro Insegnare agli studenti con DSA, che tenta con successo di creare un equilibro tra linguaggio scientifico e linguaggio comune, avendo, nello stesso tempo, ben chiaro il vissuto di chi affronta il disturbo dell’apprendimento.

Sostanzialmente, quando ci si trova di fronte a una certificazione attestante un Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), la prima naturale e ovvia reazione di un docente, ma anche di un genitore e dell’alunno stesso, è: «E adesso, che si fa?» Evidente è la questione: come tradurre le indicazioni cliniche in programmazione didattica? Come adattare un protocollo clinico senza calpestare l’individualità dell’alunno?

Quali sono i DSA

Il PARCC (Panel di Aggiornamento e Revisione della Consensus Conference, 2011) riconosce:

  • la dislessia: difficoltà nella correttezza e nella rapidità della lettura;
  • la disortografia: difficoltà nella conversione di suoni in rappresentazione ortografica, e.g. confondere la N e la M o la F e la V e anche la P e la B, etc.);
  • La digrafia (*);
  • la discalculia: disturbo nelle abilità di calcolo (e.g. dalle strategie di calcolo a mente al calcolo scritto).

I DSA si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana (Legge del 10 ottobre 2010, n. 170).

Pur interessando abilità diverse, i disturbi sopra descritti possono coesistere in una stessa persona (ciò che, tecnicamente, si definisce «comorbilità»), ad esempio, il disturbo del calcolo può presentarsi in isolamento o in associazione (più tipicamente) ad altri disturbi specifici. La comorbilità può essere presente anche tra i DSA e altri disturbi di sviluppo (disturbi di linguaggio, disturbi di coordinazione motoria, disturbi dell’attenzione) e tra i DSA e i disturbi emotivi e del comportamento (MIUR, 2011, p. 5).

In ultima analisi c’è da prendere in considerazione che, nel momento in cui l’alunno con DSA mostra particolare tenacia caratteriale e riesce nell’intento di risolvere o assolvere un problema – o un impegno dove, per sua condizione, non eccelle -, quale sarà il costo cognitivo? Quali saranno le probabilità di riuscita o fallimento? Quali saranno i rischi per la sua autostima?

Panoramica del libro Insegnare agli studenti con DSA

Il libro si presenta fruibile e ben ordinato nei contenuti. Quello che rende maggiormente agevole la lettura sono gli esempi illustrati o i veri e propri elaborati di individui con DSA portati come esempi – il tutto connesso alle descrizioni sul disagio percepito dei bambini con DSA, come nel caso della disgrafia di Matilde: «Mentre tutti gli altri bambini scrivono le cose di storia, io non faccio niente. La maestra scrive al posto mio. Sono lenta a scrivere e, quando devo copiare dalla lavagna, trovo già che è stato cancellato. Non riesco a rileggere quello che ho scritto; i miei compagni mi ripetono: «Chi non riesce a leggere la sua scrittura è un asino di natura» (MIUR, 2013, p. 2).

Nella discalculia di Paolo si fa riferimento ad un’altra vicenda personale: «Sai dirmi quanto fa 6×7?», egli risponde: «Se vuoi sapere subito il risultato devi venire a scuola mia, dove ti potranno rispondere velocemente tanti bambini. Se vuoi sapere da me quanto fa 6×7, devi aspettare un po’ di tempo.»

Ma abbiamo anche interessanti testimonianze di chi, da adulto, ripercorre la sua esperienza e il suo vissuto scolastico: «Credo che il trauma più grande per un dislessico sia quando a scuola, all’improvviso, si trova di fronte a un’immagine di sé del tutto opposta a quella che aveva fino a quel momento. Allora non sa più chi è. Diventa confuso. Io volevo essere invisibile. Volevo diventare inesistente. La maestra mi rimproverava e faceva commenti che non posso definire cattivi, erano piuttosto di stupore… ma ciò bastò perché l’immagine che avevo di me cambiasse di punto in bianco: prima ero buona e brava, ora non lo ero più, ero qualcosa di profondamente sbagliato.»

Un altro aspetto interessante del libro è certamente il punto di vista dell’insegnante: «il miglior sistema compensativo è un buon docente inclusivo»: l’inclusione è un termine che rimanda alla creazione di ‘relazioni’ equilibrate all’interno del gruppo monitorando il processo dell’insegnamento, nonché proponendo azioni didattiche rispondenti ai bisogni di ciascuno membro. Per relazioni non si intende solamente lo ‘spirito di corpo’ della classe bensì ‘accogliere’ gli alunni nell’area delle proposte del docente (Gli strumenti dispensativi e compensativi sono misure e strumenti che sostengono nelle difficoltà l’alunno con DSA o con altri Bisogni Speciali facilitando il compito di apprendimento).

Doverose anche le considerazioni sul numero di «falsi positivi» distinguendo così le ‘difficoltà scolastiche’ dai disturbi dell’apprendimento. Mentre le difficoltà di apprendimento possono essere superate, il disturbo, avendo una base costituzionale, resiste ai trattamenti messi in atto dall’insegnante e persiste nel tempo, pur potendo presentare notevoli cambiamenti (MIUR, 2013, p. 2). (A questo scopo risultano molto importanti gli ultimi due capitoli del libro «Dalla diagnosi al Piano Didattico Personalizzato» e «La valutazione»).

Il quadro si complica se pensiamo che, quotidianamente, a scuola, si incontrano numerosi alunni con tanti tipi diversi di difficoltà scolastiche, che spesso sono la conseguenza di un insieme di fattori che riguardano tanto lo studente quanto il contesto entro il quale vive e si trova a operare e che influiscono sugli esiti scolastici: il contesto socio-culturale di appartenenza, il clima familiare, alcune carenze emotive, diversi problemi comportamentali, la qualità dell’istituzione scolastica e dei metodi didattici adottati. Proprio questi punti risultano fondamentali poiché possono influire negativamente sopprimendo le risorse del bambino o, di contro, permettendo che, le stesse risorse, possano spontaneamente ‘emergere’. (Un seme attecchisce se il terreno possiede determinate caratteristiche: adeguata percentuale di sabbia, limo, argilla, aria, azoto, etc., allo stesso modo accade nell’ambiente dell’alunno).

Questo è uno dei principali motivi delle ricadute emotive come conseguenza diretta delle continue difficoltà scolastiche, anzi, spesso ai servizi della Sanità gli alunni con DSA giungono inizialmente per i disturbi somatici (le cosiddette fobie scolari), che talvolta rappresentano la punta dell’iceberg della sintomatologia clinica.

Conclusioni

In definitiva il libro abbraccia una grande panoramica di argomenti per evitare che il potenziale degli individui con DSA (come frequentemente avveniva in passato) si traduca in una ‘impotenza funzionale’. Se fino a qualche anno fa si chiedeva uno sforzo estremo, quasi tiranno, allo stile cognitivo e di apprendimento del DSA, oggi è l’intero ‘sistema’ (scuola, famiglia, centri di formazione e varie istituzioni come quelle lavorative), con la sua flessibilità, ad accogliere e sostenere differenti stili di cognizione e apprendimento che, nel tempo, possono configurarsi come ‘sinergie’ e, dunque, progresso sociale!

 

Inquadramento dei disturbi depressivi tramite le componenti emotive della voce

I disturbi dell’umore sono diventati sempre più frequenti e rappresentano un problema nei Paesi sviluppati anche a causa dell’enorme dispendio economico dovuto ai costi per le cure.

 

I test psicologici somministrati, come ad esempio il General Health Questionnaire (GHQ) (Goldberg, 1978) e il Beck Depression Inventory (BDI) (Beck, 1961), o i metodi che analizzano lo stress tramite biomarcatori nella saliva (Takai et al., 2004) e nel sangue (Suzuki et al., 2014) non sono sempre convenienti a causa dei costi elevati e degli oneri che comportano per i partecipanti durante la raccolta dei campioni.

A causa di questi limiti, e grazie alla diffusione degli smartphone, l’analisi della patologia attraverso dati vocali è diventata sempre più popolare (Arora et al., 2015; Lu et al., 2012). Questo tipo di analisi possiede vantaggi da non trascurare come ad esempio la sua non invasività e la sua disponibilità nell’essere eseguita anche da remoto, dato che non richiede dispositivi specifici.

Disturbi dell’umore e dati vocali

La relazione tra i disturbi dell’umore e la componente vocale è già stata studiata precedentemente; alcuni autori hanno, ad esempio, analizzato la velocità del parlato oppure le pause nei discorsi di pazienti con depressione (Cannizzaro et al., 2004; Mundt et al., 2007). Vicsi et al. (2012), tramite l’analisi di frequenza, hanno dimostrato che il tremolio vocale dei pazienti con depressione era superiore a quello di persone sane. D’altronde, la voce di una persona depressa è generalmente descritta come monotona e senza vitalità, e gli ascoltatori stessi possono percepirne la prosodia (Sobin & Sackeim, 1997).

Uno studio molto recente (Shinohara et al., 2021) ha sviluppato un metodo per misurare i disturbi dell’umore usando le componenti emotive contenute nelle tracce vocali dei soggetti, ponendo quindi un focus sulla relazione tra disturbo dell’umore ed emozioni.

Gli autori hanno raccolto dati vocali in due categorie di persone: 14 individui sani e 30 pazienti con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5 – APA, 2013).

La raccolta dei dati vocali per i partecipanti sani è stata ottenuta tramite la lettura di frasi precedentemente stabilite. Per i pazienti con diagnosi di depressione, la raccolta dei dati vocali è stata ottenuta tramite dei colloqui psicologici, durante i quali è stata valutata la gravità della depressione utilizzando la Hamilton Rating Scale for Depression (HAM-D) (Hamilton, 1967), test utilizzato per quantificare oggettivamente lo stato depressivo di un individuo.

Un software specifico è stato utilizzato per estrarre le emozioni dalle voci dei soggetti, riuscendo ad identificare come elementi emotivi “rabbia”, “gioia”, “dolore”, “calma” ed “eccitazione”. L’intensità di ogni emozione è stata rappresentata con un valore intero compreso tra 0 e 10. Un valore pari a 0 implica che il discorso non contiene emozione, mentre un valore pari a 10 implica un contenuto emotivo molto alto.

Il metodo si basava su due indicatori all’interno della voce: vitalità e attività mentale. La vitalità è generalmente bassa per i pazienti con malattie come la depressione, mentre risulta essere alta negli individui sani. La principale differenza tra vitalità e attività mentale è la durata della misurazione: la vitalità è calcolata tramite le componenti emotive della voce (calma, rabbia, gioia, dolore ed eccitazione) basate su dati vocali a breve termine, come una singola conversazione telefonica o una visita in ospedale. L’attività mentale, invece, viene calcolata sulla base dei dati di vitalità accumulati in un certo periodo.

Disturbi dell’umore e dati vocali: i risultati

I risultati mostrano che è stata riscontrata una correlazione negativa tra la vitalità e il punteggio HAM-D (cioè gravità della depressione valutata da un medico). Inoltre, l’indicatore di vitalità ci ha permesso di discriminare i dati vocali di individui sani e pazienti con depressione con un’elevata precisione. Questo suggerisce la possibilità di misurare gli effetti del trattamento in base all’indice di vitalità ottenuto tramite la raccolta di dati vocali. È stata riscontrata anche una differenza significativa tra gli indici di vitalità media di soggetti con depressione severa e gli indici di vitalità media dei soggetti con depressione lieve, e una differenza significativa tra la vitalità media del gruppo con basso rischio di suicidio e il gruppo con alto rischio di suicidio.

Grazie a questo progetto, gli autori hanno inoltre sviluppato un’applicazione per smartphone chiamata Mind Monitoring System (MIMOSYS). Attualmente sono in atto degli esperimenti dimostrativi in tutto il mondo utilizzando il MIMOSYS (Shinohara et al., 2017).

Riassumendo, la vitalità e l’attività mentale rappresentano un metodo utile per misurare i disturbi dell’umore dalla voce e presentano molti vantaggi da non trascurare, come la non invasività e la loro economicità rispetto ai test autosomministrati come il GHQ-30 e BDI e metodi di controllo dello stress utilizzando saliva e sangue. Inoltre, tramite il loro utilizzo, è possibile registrare facilmente i cambiamenti di stato giornalieri tramite smartphone o altri dispositivi simili.

Mediante il monitoraggio quotidiano della vitalità e dell’attività mentale, utilizzando il MIMOSYS, si possono incoraggiare le persone a svolgere visite ospedaliere prima che i sintomi si concretizzino in una diagnosi di depressione oppure durante le prime fasi della depressione stessa. Oltre ad un miglioramento del servizio offerto ai cittadini, questo nuovo metodo potrebbe portare a una riduzione della perdita economica causata dai costi del trattamento.

 

La sindrome del lobo frontale

Il lobo frontale rappresenta il lobo più grande del cervello ed è diviso in tre aree principali ben definite (corteccia motoria primaria, corteccia supplementare e premotoria e corteccia prefrontale) (L. Pirau et al., 2020).

 

Dopo un danno cerebrale alla corteccia prefrontale, varia è la natura dei disturbi della personalità acquisiti e numerose sono state le osservazioni cliniche a riguardo. Gli autori Barrash, Stuss, Aksan et al. (2018) hanno ipotizzato cinque sottotipi di disturbi acquisiti della personalità post Trauma Cranio Encefalico (TCE): esecutivi, comportamento sociale disturbato, disregolazione emotiva, ipoemotività/deenergizzazione ed angoscia. A seguito di un danno al lobo frontale, variano i processi di funzionamento più elevati del cervello, come la motivazione, la pianificazione, il comportamento sociale e la produzione del linguaggio, poiché i lobi frontali regolano le emozioni, le interazioni sociali e la personalità (L. Pirau et al., 2020). Famoso è il caso di Phineas Gage, operaio ferito da un’asta in un’esplosione ferroviaria che provocò lesioni al suo lobo frontale sinistro, causandogli drastici cambiamenti di personalità e comportamento, che vennero descritti per la prima volta da Harlow come ‘sindrome del lobo frontale‘. ‘Le lesioni nelle aree orbitofrontali classicamente causano drammatici cambiamenti nel comportamento che portano all’impulsività e alla mancanza di giudizio. Le lesioni si trovano solitamente nelle aree 10, 11, 12 e 47 di Broadmann e sono associate a una perdita di inibizione, labilità emotiva e incapacità di funzionare adeguatamente nelle interazioni sociali. Le lesioni nelle aree intorno alle aree 9 e 46 di Brodmann possono causare deficit nell’apprendimento delle regole, nella pianificazione e nella motivazione’ (L. Pirau e F. Lui; 2020).

Il lobo frontale: l’apprendimento delle regole e il cambio di attività

I pazienti con danni alla corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) hanno difficoltà ad eseguire il Wisconsin Card Sorting Task (WCST). Il WCST richiede ai pazienti di ordinare le carte in base a una regola (ad esempio, posizionare le carte in pile in base al colore, alla forma o al numero). Ad un certo punto durante l’attività, la regola viene modificata. I pazienti DLPFC spesso non sono in grado di passare a una nuova regola e continuano invece a seguire la regola originale (Milner, 1963; Shallice e Burgess, 1991). In particolare, i pazienti con danni nella PFC commettono errori casuali oltre ad errori perseveranti che possono derivare da interruzioni transitorie dell’attenzione (Barcelo e Knight, 2002). Questo comportamento perseverante in seguito al danno suggerisce che la DLPFC è importante per mantenere internamente regole comportamentali rilevanti per controllare le azioni e per passare in modo flessibile tra queste regole.

Il lobo frontale: la pianificazione e la risoluzione dei problemi

I pazienti con danno laterale sono spesso in grado di eseguire un’azione individuale che fa parte di una sequenza isolatamente, ma non sono in grado di eseguire le stesse azioni in un particolare ordine temporale. Invece, spesso omettono o perseverano sulle azioni o eseguono azioni nell’ordine errato (Duncan, 1986; Grafman, 1989). Questi pazienti spesso lottano con la pianificazione nelle situazioni della vita quotidiana, che è stata definita ‘disturbo dell’applicazione della strategia’ (Burgess, 2000). La Torre di Hanoi (TOH) e la Torre di Londra (TOL) sono due compiti tradizionalmente utilizzati per valutare la capacità di pianificare diverse mosse in anticipo per raggiungere un obiettivo (Shallice, 1982; Simon, 1975). Entrambi i compiti richiedono che i soggetti spostino dischi colorati disposti su più pioli da una posizione iniziale a una posizione finale predeterminata. I pazienti con danno PFC laterale sono molto più lenti e richiedono più movimenti quando risolvono i compiti TOH e TOL (Goel e Grafman, 1995; Manes et al., 2002; Owen et al., 1990; Shallice, 1982).

Il lobo frontale: la motivazione

Blumer e Benson (1975) hanno identificato una sindrome ‘pseudodepressiva’ che è spesso associata a danni alla DLPFC ed è caratterizzata da perdita di iniziativa e diminuita motivazione, appiattimento affettivo, manifestazione esteriore di apatia e indifferenza, ridotta produzione verbale e lentezza comportamentale (sintomi che sono clinicamente caratterizzati come abulia). I sintomi dell’abulia in seguito al danno DLPFC sono direttamente legati all’incapacità di questi pazienti di pianificare e mantenere sequenze di obiettivi e azioni. Infatti, i pazienti DLPFC spesso mostrano disprezzo per i requisiti del compito, anche se i requisiti sono compresi e ricordati, un fenomeno indicato come ‘negligenza dell’obiettivo’ (Duncan et al., 2008). La DLPFC è stata proposta come un’area all’interno di una rete, che comprende anche la corteccia motoria supplementare, la corteccia cingolata anteriore (ACC), i gangli della base e il talamo, che controlla le azioni volute (Jahanshahi e Frith, 1998). Pertanto, quando la DLPFC è danneggiata, i pazienti non hanno l’intenzione di agire.

 

Metacredenze e scopi sociali – Partecipa alla ricerca

Partecipa alla ricerca! Scopo di questo studio è l’indagine e la comprensione di alcune credenze metacognitive e motivazioni che le persone potrebbero avere quando si trovano in situazioni sociali.

 

I ricercatori e i clinici del MeThe Reseach Lab della Sigmund Freud University di Milano stanno effettuando una ricerca per comprendere e indagare come alcune specifiche credenze metacognitive e motivazioni possano influenzare il comportamento delle persone nelle situazioni sociali, ovvero quando si trovano ad interagire con gli altri, siano essi familiari o sconosciuti.

Credenze metacognitive: cosa sono? Il modello di Wells

Con l’espressione “credenze metacognitive” si intendono le credenze, le idee e le teorie che ognuno di noi possiede in merito al contenuto dei propri pensieri, delle proprie emozioni e dei propri comportamenti o motivazioni nell’agire. In generale, potremmo definire le credenze metacognitive come l’insieme delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento (Wells & Matthews, 2015).

Il modello teorico metacognitivo proposto da Wells (1991) assume che questa tipologia di credenze abbia un impatto significativo sul nostro modo di relazionarci con gli stati interni e i pensieri, influenzando l’importanza, il significato e l’attenzione che diamo ad essi. In linea con questo modello, quando tale attribuzione diventa eccessiva, pervasiva e negativa, avrebbe ripercussioni nello sviluppo e nel mantenimento di alcuni disturbi psicologici come ansia e depressione e della sofferenza emotiva.

Credenze metacognitive, relazioni e interventi terapeutici

Di recente, alcuni studi  (Gao et al., 2017; Liebke et al., 2018) hanno altresì cominciato a sottolineare come in alcuni casi la loro presenza possa compromettere anche la costruzione e il mantenimento di una buona e soddisfacente vita sociale oltre che il benessere psicofisico della persona. Ad oggi il contenuto specifico di queste credenze e il loro impatto nell’ambito sociale è poco esplorato e pertanto il laboratorio di ricerca MeThe Reseach Lab della Sigmund Freud University di Milano sarebbe interessato a far luce sia sulla loro natura sia sugli effetti che queste potrebbero avere sulle motivazioni che spingono le persone ad interagire con gli altri.

Questa ricerca permetterebbe di approfondire l’impatto che le credenze metacognitive potrebbero avere nella vita relazionale delle persone favorendo così la realizzazione di ricerche future e interventi clinici più mirati. Infatti per poter pianificare un intervento clinico efficace è necessario ampliare le conoscenze attualmente disponibili su questo fenomeno e sui suoi meccanismi di funzionamento attraverso precise ricerche sperimentali come questa.

Partecipa alla ricerca

La ricerca è stata già approvata dal comitato etico e scientifico competente. Ti chiediamo di compilare un breve questionario. Impiegherai all’incirca 20 minuti e ti verrà garantito il completo anonimato. Siamo agli inizi e il tuo contributo è per noi prezioso!

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Il team del MeThe Lab

L’utilizzo problematico dello smartphone tra gli adolescenti influenza gli atti di bullismo e cyberbullismo

Nel 2020 Méndez e colleghi hanno condotto uno studio per valutare se si verificassero aumenti significativi degli atti di bullismo e cyberbullismo tra gli adolescenti che fanno un uso problematico dello smartphone.

 

Gli smartphone sono diventati uno degli strumenti più utilizzati nella nostra vita quotidiana, in particolare tra gli adolescenti. Svolgono diverse funzioni ludico-espressive e comunicative: ci permettono di comunicare, di esprimerci, di accedere ad alcune informazioni e di trascorrere il tempo libero (Besoli et al., 2018). Inoltre le reti sociali che si creano mediante l’uso dei telefoni costituiscono una forma di interazione sociale che permette di allargare la comunicazione abituale e l’espressione emotiva. Le persone spesso condividono sentimenti e opinioni, talvolta dicendo cose che non riescono a dire a voce, altre volte creando fraintendimenti in quanto i messaggi possono venire male interpretati. È noto in letteratura che l’uso problematico dello smartphone possa anche danneggiare le relazioni interpersonali (Díaz-López et al., 2020). In molti casi, specialmente tra i giovani, è possibile che l’uso del telefono possa diventare problematico e creare dipendenze comportamentali che hanno alcuni meccanismi in comune con quelle da sostanze (tolleranza, meccanismi neurobiologici, comorbilità ecc.).

Uso problematico dello smartphone: quali rischi

Sebbene il DSM-5 abbia una categoria diagnostica dedicata alle dipendenze e disturbi correlati senza sostanze, l’uso del cellulare non è compreso (APA, 2013). Inoltre, spesso ci si serve dello smartphone come tampone alla noia, solitudine, irritabilità, nervosismo o per alleviare la tensione emotiva (Santana-Vega et al., 2019). L’uso intensivo di telefoni cellulari tra gli adolescenti è stato associato all’uso di droghe, scarso rendimento scolastico, bassa autostima e scarse relazioni sociali; impulsività, ansia e stress; maggiore disagio emotivo e bassa coesione familiare (Amendola et al., 2019). Gli adolescenti solitamente usano lo smartphone in modo ricreativo o comunicativo e lo rendono una forma di evasione o distrazione per navigare su internet, sui social network, ascoltare la musica o divertirsi collettivamente. Spesso, però, mostrano un’incapacità di scollegare o spegnere i telefoni che, di conseguenza, riduce il sonno e aumenta preoccupazione e ansia. Inoltre talvolta l’ambiente sociale e il bisogno di appartenenza rendono i cellulari un veicolo di comunicazione essenziale: i ragazzi prediligono la comunicazione online piuttosto che di persona poiché permette loro di divertirsi, socializzare e promuovere lo status sociale (Moral e Suárez, 2016).

Un ulteriore rischio collegato ai cellulari riguarda la condivisione istantanea di video o immagini che possono essere utilizzati in modi impropri e provocare gravi danni alle vittime in differenti contesti. Tale scambio è frequente nel contesto scolastico: gli adolescenti che usano in modo problematico le nuove tecnologie sono coinvolti in maggiori problemi di bullismo e cyberbullismo (Arnaiz et al., 2016). Inoltre, i ragazzi con un comportamento problematico sui social media sono più coinvolti in comportamenti aggressivi tra i pari (Martínez- Ferrer et al., 2018). Gli adolescenti però spesso non sono consapevoli dei rischi che comporta il condividere informazioni relative a sé stessi e agli altri su internet. Tra le forme di cyberbullismo esiste infatti il ‘doxing’ che consiste nel rivelare informazioni relative a un utente (vero nome, indirizzo di residenza, luogo di lavoro ecc.), informazioni che vengono divulgate pubblicamente senza l’autorizzazione della vittima (Chen et al., 2019).

Smartphone e cyberbullismo: uno studio

Nel 2020 Méndez e colleghi hanno condotto uno studio per valutare se esistessero differenze significative negli atti di bullismo e cyberbullismo tra gli adolescenti con un utilizzo problematico del cellulare. Nello specifico si sono occupati di identificare diversi profili che differivano nei problemi conseguenti all’uso dello smartphone e nei modelli comunicativi ed emotivi inappropriati. La prima ipotesi riguardava l’esistenza di diverse tipologie di uso problematico dello smartphone tra gli adolescenti; secondariamente hanno ipotizzato che i ragazzi che utilizzano lo smartphone in modo maggiormente problematico sono coinvolti in problemi di violenza scolastica come bullismo o cyberbullismo. 810 adolescenti della scuola secondaria, sono stati inclusi nella ricerca. Gli autori hanno sottoposto loro il questionario sulla violenza scolastica (Álvarez-García et al.,2011) che valuta diverse manifestazioni di violenza scolastica (violenza fisica indiretta degli studenti, violenza fisica diretta tra studenti, esclusione sociale, violenza degli insegnanti ecc.). Infine agli studenti è stato sottoposto il il Mobile Related Experiences Questionnaire (CERM-Beranuy et al., 2009) per valutare l’abuso del cellulare, composto da due fattori: i problemi conseguenti all’abuso del cellulare e i problemi dovuti all’uso comunicativo ed emotivo inappropriato del cellulare.

I risultati hanno identificato tre diversi tipi di uso problematico dello smartphone: un primo gruppo di 534 studenti (65,9%), caratterizzato da bassi livelli di problemi legati all’abuso del telefono cellulare e bassi livelli di uso comunicativo ed emotivo inappropriato (definito uso non problematico); un secondo gruppo di 209 studenti (25,8%), caratterizzato da moderati livelli di problemi e livelli moderati di uso comunicativo ed emotivo inappropriato (definito uso problematico moderato); e infine un terzo gruppo di 67 studenti (8,3%), caratterizzato da alti livelli di problemi e alti livelli di uso comunicativo ed emotivo inappropriato. Inoltre i risultati hanno rilevato differenze significative tra le tre modalità di uso problematico dello smartphone e le manifestazioni di violenza scolastica.

Conclusioni

Questo avvalora la ricerca che dimostra che l’uso problematico delle nuove tecnologie si relaziona con un maggiore coinvolgimento nelle diverse manifestazioni di violenza scolastica (bullismo e cyberbullismo) (Arnaiz et al., 2016). I problemi nelle relazioni sociali, dovuti a un uso problematico dello smartphone e a uno scarso adattamento emotivo e comunicativo, spesso sono conseguenti al fatto che l’uso del cellulare è collegato alle emozioni intense e alle tensioni dell’adolescente (Serrano-Puche, 2016). I risultati evidenziano quindi la necessità di rendere i ragazzi consapevoli dei problemi che possono derivare da un uso inadeguato del telefono e realizzare inizialmente azioni che promuovano la convivenza, le abilità sociali e comunicative, la gestione delle emozioni e dello stress per gli adolescenti (Moral e Suárez, 2016). Secondariamente, un coinvolgimento della famiglia, degli insegnanti e della scuola, per creare spazi che incoraggino un uso responsabile del cellulare (Santana-Vega et al., 2019), permettere di individuare il prima possibile quando diventa problematico e valutare il rischio che porta alla violenza scolastica (Arnaiz et al., 2016).

 

Uno psicoanalista sul cammino di Santiago (2021) di Carlo Arrigone – Recensione del libro

Nel libro Uno psicoanalista sul cammino di Santiago, per il dilagante vissuto depressivo che sembrava aver attanagliato l’intera comunità dopo il suicidio di Stella, Carlo decide di partire per il Cammino di Santiago di Compostela.

 

Il dolore deve essere liberato, la tristezza deve trovare le sue lacrime, la paura deve trovare una sicurezza, la solitudine deve trovare un conforto, la colpa deve trovare un perdono e la rabbia deve trovare una riconciliazione.

Un giorno di una rovente estate una telefonata irrompe nella quotidianità di Carlo, psicoanalista responsabile di una comunità che ospita ragazze adolescenti affette dal Disturbo Borderline di Personalità. In un attimo lo sgomento prende il sopravvento: Stella ha deciso di suicidarsi, buttandosi sui binari della metropolitana, proprio dopo aver chiesto di essere dimessa.

È a partire da questo tragico evento che prende le mosse il cammino di Carlo, come professionista, ma soprattutto come uomo, con tutto il suo carico di fragilità, di domande e di emozioni contrastanti.

Il suicidio di Stella sconvolge tutti, gli operatori e le altre ragazze ospiti, al punto che diventa impossibile poterne parlare, impossibile condividere il dolore. Il cammino di Stella era stato interrotto e tutti attorno a lei sembravano assecondare questa frattura che Stella aveva deciso per la sua vita. Non parlarne più, non poter esprimere la sofferenza, equivaleva però a non poter elaborare ciò che era accaduto e quindi non poter accettare e andar avanti, proseguire nel proprio cammino.

Ed è proprio per il dilagante vissuto depressivo che sembrava aver attanagliato l’intera comunità, dopo il suicidio di Stella, che Carlo decide di partire per il Cammino di Santiago di Compostela. Un gesto forte, a tratti folle: lui stesso in più occasioni riconosce che lasciare le ragazze e le operatrici in quel momento poteva essere rischioso, ma un gesto che si rivelerà indispensabile per poter elaborare, raccontare, liberamente soffrire e infine perdonarsi e perdonare.

Il suicidio di Stella aveva infatti insinuato, tra le ragazze ospiti della comunità, l’idea che per loro non vi fosse speranza alcuna, aveva confermato il profondo senso di indegnità che le attanagliava e che purtroppo caratterizza chi è affetto da un Disturbo Borderline di Personalità. Sentirsi indegni, non meritevoli di nulla di buono, e spesso senza speranze per il futuro rende il proprio cammino quotidiano un’esperienza drammaticamente estenuante, per chi lo vive come paziente, ma a volte anche per chi lo vive al loro fianco come operatore.

La mancanza di speranza e il senso di impotenza che da essa deriva sono estremamente contagiosi e non c’è nulla di peggio quando proprio chi dovrebbe infondere speranza per un cambiamento, chi tecnicamente è lì per aiutare e guidare, è invaso dallo stesso senso di impotenza. Carlo era quindi di fronte ad un bivio: provare ad andare avanti attanagliato dal dolore, con il rischio di rimanere inesorabilmente fermo, oppure partire per un cammino tanto intenso quanto emozionante che ridarà speranza, innanzitutto a Carlo come uomo, e poi a tutte le persone a lui care, ma soprattutto alle sue ‘guerriere’, come a lui piace chiamare le ragazze ospiti della comunità.

Camminerò perché c’è sempre una speranza, un domani, una redenzione che ci aspetta, una felicità che un giorno potremo abbracciare. Camminerò per tutte voi, per il vostro dolore, per il vostro coraggio, per le vostre battaglie di ogni giorno, per le paure, per gli errori, per le miserie, ma anche perché ciascuna di voi merita l’onore di essere riconosciuta come una grande anima coraggiosa, che lotta e cammina ogni giorno per tornare a vivere degnamente, per vivere con serenità.

Ridare dignità al dolore, dare dignità a delle vite distrutte da vicende ai limiti dell’umana sopportazione. Le guerriere di Carlo sono delle sopravvissute al trauma, e come tutti i sopravvissuti portano sul corpo e nell’anima ferite profondissime, che rendono la loro vita spesso uno strazio, tra esplosioni di rabbia, comportamenti aggressivi e autolesivi. Non aver paura del dolore, non spaventarsi di fronte alla rabbia accecante, accoglierle anche se sembra non vogliano essere accolte, guardare oltre la maschera rabbiosa e vedere le bambine fragili e desiderose d’amore e attenzioni, che si celano dietro quelle maschere. Questo è il compito che Carlo e le sue operatrici cercano, faticosamente, di svolgere ogni giorno. Una sfida estremamente complessa e ambiziosa quella di ridare speranza a chi non ne ha più: fornire un ponte che traghetti dalla disperazione ad una possibilità di vita degna di essere vissuta. Carlo e le sue operatrici ci provano e come tutte le sfide ambiziose, a volte falliscono.

Carlo parte con il suo zaino rosso fuoco in spalla, con un’unica accompagnatrice: Stella. ‘Cammino per Stella’ sarà il messaggio che Carlo porterà con sé sul suo zaino, assieme ad una foto di Stella, bella e sorridente. Nello zaino porterà gli oggetti che gli hanno affidato le ragazze, in segno di speranza. Durante il suo cammino, Carlo si troverà a dover raccontare più e più volte la sua storia, a dover rispondere alla fatidica domanda: ‘Stella è morta? Era tua figlia?’, fino al momento più commovente, quando sente che è arrivato il momento di lasciar andare Stella, affidandola a qualcun altro che possa accompagnarla degnamente nel suo cammino. Arrivato al santuario di O Cabreiro sente che è quello il luogo giusto per Stella

dopo tanto piangere e ricordare è arrivato il momento. Non mi sento pronto, ma non sarò mai pronto, devo farlo, è difficile…rimango ancora a guardare la chiesa, ma adesso sorrido e sono sollevato, mi sento avvolto da una nuova leggerezza e uno stato di pace.

Un racconto intenso, a tratti commovente, in cui l’autore non si esime dal mostrarsi in tutta la propria autenticità di uomo, a volte fragile, a volte presuntuoso, ma sempre mosso da un profondo desiderio di amore e vicinanza, per le ragazze, per la propria famiglia, per le operatrici e per tutte le persone che incontrerà sul suo cammino, di cui sentirà il calore e la profonda empatia, nonostante le lingue diverse, ma grazie ‘a quella lingua universale che sono le emozioni‘.

Nel lungo cammino, che è innanzitutto un cammino di introspezione ed elaborazione, Carlo riguarda una ferita in fondo mai rimarginata: Luca, quel figlio che in fondo non si è sentito abbastanza degno da avere una famiglia che lo amasse e che ora vive per strada.

Perché la libertà è anche questa: libertà di accogliere una speranza di vita migliore, libertà di rifiutare la propria stessa vita, qualunque essa sia.

La vera scoperta a cui Carlo giunge, anche grazie al prezioso contributo di una sua collaboratrice, nonché ex paziente, è proprio questa:

Stella ha solo fatto qualcosa che non capisco e non potrò capire…è una scelta, è la libertà…Stella è libera…è come una storia d’amore, l’altro può anche decidere di non amarti più. Stella è libera anche di scegliere di non starci.

Quella del suicidio è una scelta che Carlo non ha compreso, né tantomeno condiviso, ma accettarla ha restituito dignità a Stella, e alla sua libertà di scegliere e autodeterminarsi.

 

Intervenire con gli Hikikomori: il progetto Psicologo Fuori Studio per il ritiro sociale estremo

Con i giovani Hikikomori, le modalità terapeutiche spesso tentate sono la psicoterapia individuale, la terapia familiare, la psicoeducazione, la farmacoterapia, la terapia EMDR. Spesso funzionano, ma altre volte no. Quando non si trova appiglio nelle risposte più tradizionali, diviene necessario trovare soluzioni nuove e creative.

 

Il ritiro sociale estremo, termine con cui si possono identificare i ragazzi Hikikomori, mette ogni clinico davanti ad un dilemma.

I ragazzi che si sottraggono alle relazioni sociali e alla scuola, e che possiamo definire come ritirati sociali, compiono questa “scelta” pacificamente e volontariamente: un Hikikomori non fa male a nessuno, non compie atti estremi, possibilmente cerca proprio di passare inosservato… Ma il buon clinico può notare, o meglio può intuire, anche dei segnali di sofferenza psicologica, significativa ed acuta, che meriterebbero di essere approfonditi. In fondo il ragazzo, nel momento in cui si ritira, lo fa per paura, ansia, o evitamento di una situazione attuale (gli amici, la scuola…), ma non ha piena consapevolezza di quanto della propria vita stia realmente sacrificando, nel presente e nel futuro. E noi non possiamo sapere quanto davvero, nel profondo, viva della fatica o del dolore legati alla propria vicenda esistenziale e relazionale.

Il dilemma è quindi tra accettare la volontarietà di questo atto, del ritiro sociale, lasciando il ragazzo alla sua vita isolata, oppure tentare di superare l’ostacolo di questa chiusura al mondo, per provare a lenire quella sofferenza.

Se si opta per la seconda possibilità, ci si trova a dover affrontare un fatto: i ragazzi Hikikomori molto spesso rifiutano di definirsi come sofferenti e quindi rifiutano di farsi aiutare, sono difficili da avvicinare e tendono a non fidarsi degli altri.

La psicoterapia individuale, la terapia familiare, la psicoeducazione, la farmacoterapia, la terapia EMDR sono modalità terapeutiche spesso tentate per aggirare questi ostacoli. Talvolta funzionano, ma molte altre volte no. Quando non si trova appiglio nelle risposte più tradizionali, diviene necessario trovare soluzioni nuove e creative.

Negli anni 2013 e 2014, all’interno del nostro percorso di formazione come terapeuti, abbiamo iniziato a confrontarci con situazioni di questo tipo, situazioni complesse che rimbalzavano da un esperto ad un altro, da un servizio specialistico al successivo, senza che nessuno riuscisse a trovare una soluzione efficace. Quando il paziente principale si rifiuta di recarsi in studio, o lo fa saltuariamente ma controvoglia, chiunque si può trovare ad oscillare tra la tentazione di gettare la spugna e la consapevolezza di dover tener duro e avere pazienza, anche se i risultati in un primo momento sono minimi.

Ci capitava di essere chiamati in campo da colleghi ben più esperti di noi, con l’idea di tentare un ultimo disperato approccio, ma senza che fosse chiaro quale fosse la specificità e l’obiettivo del nostro intervento domiciliare: l’importante era inviare a casa qualcuno, che provasse a fare qualcosa, non importa esattamente cosa, ma che tentasse di smuovere le acque e proponesse qualche attività, perché il ragazzo, o ragazza, rifiutava di recarsi in studio, ma certamente si trovava in uno stato di difficoltà.

In quegli anni, abbiamo quindi iniziato ad osservare come esistessero situazioni in cui nessuna delle “classiche” modalità terapeutiche sembrava ottenere risultati soddisfacenti. Spesso non riuscivano proprio a “raggiungere”, ad incontrare, questi ragazzi.

In poco tempo, invece, ci siamo accorti delle potenzialità di questa diversa modalità di intervento domiciliare e siamo stati incoraggiati anche dai primi, promettenti, risultati. Presto abbiamo però anche constatato quanto fosse necessario costruire un preciso modello che facesse da guida per il lavoro psicologico domiciliare. Non bastava infatti “fare qualcosa” o “offrire una relazione”. Non bastava nemmeno solo proporre delle attività. Abbiamo sentito la necessità di costruire un modo di lavorare che sfruttasse al massimo tutte le potenzialità del setting domiciliare, che fosse adeguato alle difficoltà delle situazioni che incontravamo e che fosse di reale aiuto ai nostri pazienti.

Abbiamo quindi iniziato a riflettere su un modello di intervento che fosse diretto a ragazzi e ragazze gravemente sofferenti, ma non motivati a percorrere un classico percorso psicoterapico. Quindi pensato non esclusivamente per gli Hikikomori, ma soprattutto per loro.

Il Progetto Psicologo Fuori Studio

In collaborazione con la Scuola di Psicoterapia Mara Selvini Palazzoli di Milano abbiamo quindi deciso di far diventare quest’idea un progetto di lavoro, il progetto Psicologo Fuori Studio.

Ad oggi, con questo intervento, abbiamo raggiunto oltre settanta ragazzi e famiglie, grazie anche al coinvolgimento di diversi giovani colleghi che sono stati formati e che collaborano con noi negli interventi domiciliari.

Il progetto ha raggiunto ragazzi e ragazze non solo a Milano e hinterland, ma anche nelle province lombarde di Pavia, Bergamo, Brescia, Como, Monza e Lecco, oltre che a Roma, a Faenza, a Vercelli e prossimamente a Torino.

L’obiettivo del progetto è duplice: in primis andare incontro (letteralmente) a questi ragazzi e ragazze, alla loro sofferenza e alle loro famiglie, costruendo un intervento terapeutico efficace e completo. In secondo luogo, abbiamo cercato di dare forma, definizione e dignità a un modello di lavoro psicologico domiciliare che abbiamo chiamato appunto Psicologo Fuori Studio.

Il nostro modello prevede azioni in due luoghi dell’intervento:

  • a casa e sul territorio un intervento individuale con il ragazzo, con una presenza intensiva (due volte alla settimana) e una commistione di livelli di lavoro, che vanno dalla condivisione pratica di attività quotidiane, alla costruzione di una relazione terapeutica, al lavoro clinico sulla sofferenza e sui sintomi.
  • in studio una psicoterapia familiare, o un percorso di sostegno ai genitori, con uno psicoterapeuta familiare e lo stesso Psicologo Fuori Studio.

A ciò si aggiunge un lavoro in rete con tutti gli altri professionisti coinvolti.

Crediamo sia importante che la presa in carico principale sia svolta da un unico professionista: lo Psicologo Fuori Studio, un professionista appositamente formato, supervisionato mensilmente da un referente e inserito in un’équipe di colleghi. Oltre che del percorso terapeutico egli si occupa di costruire le necessarie relazioni che permettano a tutti gli altri operatori coinvolti nel caso di essere in connessione tra loro e procedere in modo armonico. Nel tipo di situazioni in cui lavoriamo, spesso abbastanza complesse, risulta fondamentale avere un unico professionista che sia molto presente nella vita del ragazzo, poiché con competenze terapeutiche, valutative e osservative specifiche può divenire un referente sia per la famiglia che per l’équipe terapeutica, oltre che un catalizzatore del processo di cura nel suo insieme.

Come appare chiaro, il ruolo dello Psicologo Fuori Studio è definito e si distingue da altre figure più tradizionali, e conosciute, come quelle dell’educatore o del terapeuta domiciliare, poiché racchiude, come detto, diversi compiti e competenze in un’unica figura, un unico professionista di riferimento.

Ragazzi fuori dal mondo: qualche informazione sul fenomeno Hikikomori

Come ormai noto, il fenomeno del ritiro sociale estremo è stato inizialmente osservato in Giappone già a partire dalla fine degli anni Settanta. Lo psichiatra giapponese Saitō (1998) coniò il termine Hikikomori, letteralmente “stare in disparte”, per definire questa particolare forma di ritiro sociale.

Oggi si registra un costante aumento di casi in tutto il mondo Occidentale, soprattutto in Italia. Gli studi su questo fenomeno sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni e si è osservato che spesso il ritiro sociale volontario si può associare a disturbi dell’area ansiosa, disturbi dell’umore, forme di natura psicotica, disturbi dell’attaccamento e disturbi post traumatici (Suwa et al., 2003; Suwa & Suzuki, 2013).

L’emergere di questo fenomeno si associa ad un significativo e preoccupante aumento della dispersione scolastica, lavorativa e, possiamo dire, sociale: basti pensare che i ragazzi non impegnati in un percorso formativo o di lavoro (NEET) sono oggi in Italia quasi 1 ogni 4 nella fascia 15-29 anni (ISTAT 2020), e probabilmente in aumento per effetto delle restrizioni legate alla pandemia di Covid-19.

Alcuni di loro diventano Hikikomori: ritirati sociali.

Per capire meglio di cosa si parla quando ci riferiamo ai termini “Hikikomori” o “ritiro sociale estremo” citiamo un nostro articolo, pubblicato nel 2019 sulla rivista specialistica Terapia Familiare.

Dalla nostra esperienza e da quanto emerge nella letteratura italiana e internazionale, l’insorgenza e lo sviluppo del ritiro sociale estremo possono essere descritti come segue.

Il ragazzo inizia a saltare sempre più di frequente la scuola, fino a non andarci più. Si ritrae gradualmente dalle relazioni sociali fino a restare con pochi amici, che comunque non vede, o con nessun amico. Sviluppa un senso sempre maggiore di vergogna, fino a temere gli altri per via del proprio aspetto, del proprio odore, dei propri comportamenti percepiti come inadeguati. Dopo alcune settimane di ritiro inverte il ritmo sonno/veglia. Spesso vive una condizione di forte depressione e/o ansia. Passa da periodi in cui mangia moltissimo ad altri in cui non mangia affatto. Alterna aggressività ad atteggiamenti fortemente dipendenti verso i genitori. Con il passare del tempo, dei mesi e degli anni l’auto-reclusione può portare a manifestazioni violente e allo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi, episodi psicotici o deliri persecutori. Nella maggior parte dei casi, benché avverta un disagio, il ragazzo non chiede aiuto. Non in tutti i casi è presente l’uso di internet o videogame, da considerare come minimi indicatori di apertura verso l’esterno e quindi come possibili strumenti di mediazione, utili per entrare in contatto con il ragazzo (Saito 1998; Li e Wong 2015; Ranieri 2015).

Come evidenziano Li e Wong (2015) in un’interessante revisione della letteratura sul tema, si possono identificare differenti forme di ritiro sociale sulla base di diversi criteri: assenza/presenza di comorbidità con altri disturbi psichiatrici (Hikikomori primario e secondario), legame di attaccamento, livello di socialità/asocialità, gravità e pervasività del ritiro.

Superare quella porta: il nostro intervento per il ritiro sociale

La domanda che sorge quindi spontanea è: come si può aiutare un ragazzo sofferente, che però non riconosce il suo malessere e rifiuta il mondo esterno, dunque anche un nostro aiuto?

Solitamente si suggerisce ai genitori di non “strattonare”, o cacciare, i ragazzi fuori dalla loro stanza o fuori di casa, di evitare azioni forti e aggressive: raramente queste soluzioni possono funzionare e, anzi, spesso peggiorano la loro condizione, incrementando l’isolamento o contribuendo allo sviluppo di una sintomatologia peggiorativa.

Questo perché quando si incontra un ragazzo ritirato bisogna avere bene in mente che l’isolamento dal mondo esterno è per lui una forma estrema di protezione, che gli permette di evitare il contatto con le parti di sé ferite e più sofferenti. Evitarle, chiudendosi, significa quindi avere la garanzia di non essere soverchiati da vissuti emotivi ingestibili: vergogna, senso di inadeguatezza, dolore profondo.

In primo luogo, è quindi necessario comprendere a fondo questa sofferenza e non esporla troppo bruscamente a nuovi traumi, ma tutto ciò non è sufficiente.

Bisogna prendersi cura di quella sofferenza, lentamente avvicinarla e lasciarla, molto gradualmente, emergere, per poter lenire pian piano le ferite. Occorre anche aprire degli spiragli tra il mondo chiuso del ragazzo e il mondo esterno. Piccole finestre dove sperimentarsi in relazione con il mondo, in sicurezza, con qualcuno di cui ci si fida.

Lo strumento principale in questo caso, come in ogni psicoterapia, non può essere altro che la relazione, il luogo dove questi passi graduali ma necessari si possono fare. Costruire una relazione di fiducia, un’alleanza, permette al ragazzo di percepire lo Psicologo Fuori Studio come quella che nella teoria dell’attaccamento si chiama “base sicura” (Bowlby, 1989), un luogo per vivere alcune esperienze senza sentirsi sopraffatti, un porto da cui partire e a cui ritornare in caso di necessità, dubbi o incertezze. Questa funzione della relazione è centrale per costruire un vero recupero e la costruzione graduale di un’autonomia serena e consapevole.

Con i ragazzi ritirati la costruzione di una buona relazione è inizialmente un obiettivo tutt’altro che scontato, un obiettivo che necessita di un certo tempo per essere raggiunto. Come detto, per proteggersi dalla sofferenza (personale, esistenziale, generazionale), i ragazzi Hikikomori cercano proprio di evitare la relazione con gli altri, compresi la maggior parte dei familiari e naturalmente anche lo psicologo.

In questa prima fase, molto delicata, per costruire un vero processo di terapia e cercare di avvicinarci sempre più al ragazzo, cerchiamo quindi di usare il tempo in modo graduale, concentrandoci sulla comprensione, la condivisione delle attività, la valorizzazione delle sue risorse.

Senza il giusto tempo non è possibile ottenere qualcosa. Non si può costringere nessuno a fidarsi contro la sua volontà, specialmente qualcuno che non si fida del mondo esterno. Ragione per cui gli interventi domiciliari devono essere intensivi, due volte alla settimana e della durata di due ore, e ci aspettiamo, per esperienza e conoscenza, che ci vogliano alcuni mesi di frequentazione assidua per poter raggiungere un consolidamento del rapporto di fiducia.

In questo tempo, e anche successivamente, lo Psicologo Fuori Studio si impegna nello sviluppare temi, argomenti, oltre che situazioni concrete, in cui sia possibile incrementare la condivisione di passioni, interessi, idee, pensieri, in un clima di comprensione e riconoscimento del valore del ragazzo. Solitamente i ragazzi ritirati si chiudono in una torre d’avorio proprio per evitare di sentirsi incompetenti o inetti davanti al difficile, ed esigente, mondo esterno: favorire l’emergere delle loro qualità, valorizzarle, farle esprimere è un passaggio centrale per potersi sentire in grado di mettere il naso fuori dal proprio spazio domestico, sicuro, e affrontare le proprie difficoltà.

Parlare non basta. A volte nemmeno si riesce: ci sono troppa resistenza, troppa sfiducia, troppa chiusura. Allora bisogna attivarsi sul piano del fare. La condivisione di un’attività piacevole e interessante è un generatore naturale di relazioni. Stare e fare insieme vanno spesso di pari passo. Camminare, cucinare, ascoltare musica, fare un gioco, visitare un luogo, andare al cinema sono attività che possono sembrare banali, ma per un ragazzo Hikikomori fare queste attività insieme a qualcun altro, in un clima armonico, è un’esperienza positiva e toccante. In quel momento sarà compito dello Psicologo Fuori Studio introdurre anche temi più personali e profondi, propri della psicoterapia.

Come detto, solo quando si è costruita una buona alleanza di lavoro e sarà in atto una graduale ripresa della fiducia in sé e delle proprie attività quotidiane, sarà possibile iniziare a prendersi cura della sofferenza acuta di cui abbiamo parlato.

Questo è l’obiettivo finale del lavoro di uno Psicologo Fuori Studio, un obiettivo che, come detto, richiede tempo, dedizione e cura.

L’accesso alle sofferenze più acute e profonde, e la loro cura, rientrano nelle normali competenze di ogni psicoterapeuta, è il percorso da fare per arrivarci che secondo noi fa la differenza. Arrivarci partendo da una comune esperienza di condivisione e vicinanza è un grande punto di partenza per un percorso che vuole andare a trovare e risolvere i nodi sofferenti, traumatici, disfunzionali del ragazzo.

La famiglia come protagonista

L’esperienza ci insegna che lavorare soltanto con il ragazzo spesso non è sufficiente. La famiglia è il contesto in cui ciascun Hikikomori vive ed è cresciuto e per questo siamo fortemente convinti che sia anche il miglior contesto possibile per favorire un recupero.

Per questo motivo chiediamo alla famiglia tenacia, continuità e attiva partecipazione al percorso terapeutico del figlio. Tutta la famiglia viene quindi coinvolta nel processo di cura, attraverso sedute familiari in studio condotte da una coppia di psicoterapeuti familiari, dei quali possibilmente uno è lo stesso Psicologo Fuori Studio.

Sappiamo per esperienza che la sofferenza acuta di cui tanto abbiamo parlato spesso è condivisa, con tutti o con alcuni familiari, e il più delle volte si attiva proprio nelle dinamiche relazionali della famiglia allargata. Un lavoro congiunto per un cambiamento di tali dinamiche è terapeutico non solo per i ragazzi ritirati, ma anche per i loro familiari.

Senza l’alleanza e la partecipazione attiva dei genitori, il percorso per qualsiasi ragazzo diventa assai più impervio ed incerto.

Guarire la sindrome Hikikomori

Il concetto di guarigione è, dal punto di vista teorico e clinico, piuttosto complesso. Quello che possiamo affermare è che nel seguire i casi cerchiamo di raggiungere non solo la remissione del sintomo e un recupero comportamentale (tornare a scuola, uscire di casa, riprendere le relazioni sociali con i pari), ma anche un’evoluzione psicologica del ragazzo ritirato e del suo contesto familiare, in modo da permettergli di intraprendere nella vita un cammino più stabile, completo e soddisfacente. I risultati ottenuti in questi anni ci incoraggiano a perseguire questo obiettivo e crederlo realizzabile.

 

“È la vecchiaia!”: come il sistema di credenze influenza la prestazione

Secondo l’immaginario collettivo con l’invecchiamento si va incontro a un declino fisico e cognitivo a cui difficilmente ci si può sottrarre, portando così l’anziano a essere percepito come un individuo fragile e malato da proteggere e a cui sostituirsi.

 

Famoso è l’aforisma del commediografo romano Terenzio “senectus ipsa est morbus” ovvero “la vecchiaia è di per sé una malattia”. Questo, però, è solo uno dei tanti stereotipi legati al processo di invecchiamento a cui veniamo esposti fin dalla prima infanzia. Secondo l’immaginario collettivo, infatti, con l’avanzare dell’età si va incontro a un declino fisico e cognitivo a cui difficilmente ci si può sottrarre, portando così l’anziano a essere percepito come un individuo fragile e malato da proteggere e a cui sostituirsi.

Se un tempo l’anziano veniva più facilmente considerato una risorsa per la comunità, sinonimo di saggezza, meritevole di rispetto e riconoscenza, oggi l’atteggiamento collettivo nei suoi confronti è cambiato: egli viene percepito come un peso, un cittadino di serie B. Tale atteggiamento si è accentuato senza ombra di dubbio negli ultimi due anni, quando a inizio pandemia, nell’imprevedibilità più totale, si è optato per una sanità selettiva che vedeva l’età come criterio di accesso o meno ai trattamenti sanitari (Ansa, 2020).

Questo comportamento altamente discriminatorio nei confronti dell’anziano prende il nome di ageismo (Butler, 1969). Secondo il recente report pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2021), questa forma di discriminazione ha un forte impatto sulla salute psico-fisica di chi ne è vittima: sembrerebbe, infatti, che chi viene esposto regolarmente a comportamenti negativi nei confronti dell’invecchiamento vive in media 7 anni e mezzo in meno rispetto a chi non lo è.

Stereotipi e pregiudizi sulla vecchiaia incidono profondamente anche sugli aspetti motivazionali e sul raggiungimento degli obiettivi personali, impedendo la promozione di un invecchiamento attivo, influenzando il modo in cui la persona interpreta i propri fallimenti cognitivi e accelerando il declino fisico e cognitivo (Borella & Carbone, 2020).

Per contrastare questo fenomeno è indispensabile, quindi, diffondere una cultura positiva dell’invecchiamento per mezzo della condivisione di informazioni corrette circa il funzionamento mentale e i reali cambiamenti dettati dall’avanzamento dell’età. Risulta necessario, di conseguenza, promuovere un atteggiamento mentale di tipo incrementale che permetta all’individuo di impegnarsi in compiti nuovi e stimolanti, rafforzando così la fiducia nelle proprie abilità. Infine, è fondamentale avere intorno a sé un ambiente supportivo che sia in grado di favorire l’autonomia e l’autodeterminazione dell’anziano (De Beni & Borella, 2015).

Invecchiamento e motivazione: atteggiamento mentale e fallimenti cognitivi

Ognuno di noi, sulla base delle proprie esperienze, sviluppa delle teorie “ingenue” circa il funzionamento delle proprie abilità cognitive. Prendendo in esame il modello di Carol Dweck (2000), possiamo individuare due tipologie di atteggiamento mentale nei confronti delle proprie abilità, ovvero quello statico e quello incrementale.

Chi possiede un atteggiamento di tipo statico ritiene che le proprie abilità non siano modificabili, dunque eventualmente migliorabili, per cui tende a mettersi in gioco solo in quei compiti routinari e semplici che garantiscono un’alta probabilità di successo, evitando sfide e situazioni nuove.

Chi, invece, presenta un atteggiamento incrementale considera le proprie abilità modificabili se opportunamente stimolate. Dunque, le esperienze nuove vengono vissute come opportunità di crescita che consentono di ampliare le proprie competenze.

Questi due tipi di atteggiamento si caratterizzano, inoltre, per un diverso stile attributivo, ovvero per una diversa modalità di attribuzione delle cause dei propri successi/insuccessi. Sembrerebbe, infatti, che chi abbraccia un atteggiamento statico tenda a spiegare i risultati delle proprie prestazioni tramite fattori non controllabili né modificabili, come l’età. Per contro, chi possiede un atteggiamento incrementale attribuisce i propri successi/fallimenti a cause controllabili e modificabili come ad esempio l’impegno (Weiner, 1972, 2010).

Errori e fallimenti cognitivi capitano spesso nella vita di tutti i giorni e sono causati principalmente da disattenzione, stress, mind wandering, scarsa motivazione e/o disinteresse per quello che si sta facendo (Borella & Carbone, 2020). A tal proposito, la letteratura evidenzia differenze tra giovani e anziani nel modo di interpretare i propri insuccessi. Nonostante gli studi non riscontrino differenze nella frequenza con cui vengono riportati tra giovani e anziani, questi ultimi tendono a sovrastimare i propri errori cognitivi e ad attribuirli all’avanzare dell’età, mentre i giovani imputano i fallimenti ai troppi impegni. Queste diverse spiegazioni date evidenziano il tipo di teoria ingenua posseduta: attribuire i propri fallimenti cognitivi all’età, causa stabile e non modificabile, denota un atteggiamento statico, incentivato in parte dagli stereotipi sull’invecchiamento (Borella et al., 2017). “È la vecchiaia!”: pensieri di questo tipo portano a un circolo vizioso che vede i pensieri demotivanti alimentare comportamenti di evitamento (es. lascio fare ai giovani) che a loro volta altro non fanno che confermare i pensieri disfunzionali e gli stereotipi sull’invecchiamento, minando il benessere della persona.

Risulta, dunque, necessario focalizzare l’attenzione sul ruolo determinante che credenze e atteggiamenti hanno sulla motivazione e sulla prestazione stessa dell’individuo, proponendo interventi psicoeducativi che forniscono conoscenze corrette e supportate da evidenze scientifiche rispetto al proprio funzionamento mentale e ai cambiamenti che si verificano con l’avanzare dell’età e che sottolineano la necessità di adottare un atteggiamento mentale impegnato e attivo.

Invecchiamento e motivazione: il ruolo dell’ambiente

Oltre ai pensieri, anche l’ambiente gioca un ruolo determinante nella motivazione. Quanto più i cari pensano che i successi/insuccessi dell’anziano dipendono da cause controllabili o incontrollabili, tanto più l’anziano sarà portato a pensare allo stesso modo. Lo stile attributivo, quindi, nasce nell’ambiente. È importante promuovere un ambiente che sia supportivo e che, dunque, favorisca l’autonomia e l’autodeterminazione dell’anziano.

Una delle modalità tramite cui un ambiente può risultare controllante – e quindi demotivante – è indubbiamente la sostituzione (De Beni & Borella, 2015). Spesso capita che il caregiver, reputando il compito troppo difficile e impegnativo per l’anziano o avendo il timore che quest’ultimo possa fallire, si sostituisca alla persona minandone il bisogno di sentirsi competente. Per rendere l’ambiente più supportivo è necessario seguire alcune indicazioni come ad esempio semplificare il compito dividendolo in step, evitare messaggi svalutanti e rispettare i tempi dell’altro.

Conclusioni

Per raggiungere e mantenere un adeguato livello di benessere e una miglior qualità di vita è fondamentale promuovere un invecchiamento attivo. Ormai centro focale delle politiche governative e delle attività di ricerca a livello nazionale e internazionale, l’invecchiamento attivo è considerato uno strumento utile per contribuire a risolvere alcune delle principali sfide legate all’invecchiamento della popolazione (WHO, 2015).

Ciò non significa negare i normali cambiamenti dettati dall’età, ma divenire consapevoli di essi e compensarli tramite le risorse possedute e lo sviluppo di nuove competenze, ricoprendo così un ruolo attivo ed evitando un atteggiamento passivo di rassegnazione.

 

Il tema della fiducia interpersonale in psicologia: una breve introduzione

La psicologia ha colto la rilevanza del concetto di fiducia già da molto tempo e molte sono le teorie dello sviluppo psicologico che la considerano centrale nella strutturazione e nel funzionamento della personalità.

 

Introduzione

Pensare a un episodio nel quale la nostra fiducia è stata tradita non è molto difficile, anzi. Tutti conoscono quella sensazione bruciante derivante dall’idea di essere stati ingannati. Tutti conoscono la delusione di aver riposto la propria fiducia nella persona sbagliata o la spietata autocritica che siamo in grado di fare a noi stessi per non aver visto i difetti o le mancanze dell’altro, assieme a tutta la gamma dei sentimenti e dei pensieri connessi a queste circostanze. Non daremmo la nostra fiducia all’altro se non pensassimo di avere buone ragioni per farlo.

Questo articolo si pone come obiettivo quello di offrire, a chi fosse interessato, un panoramica necessariamente non esaustiva delle prospettive psicologiche sulla fiducia interpersonale, fornendo alcuni riferimenti bibliografici. Il lettore a digiuno di psicologia potrà invece farsi un’idea, non dico avvincente, ma almeno stimolante, su quello che la psicologia ha da dire su questo tema.

Fiducia e rapporti interpersonali

Sulla fiducia si reggono la gran parte delle relazioni sociali improntate alla cooperazione e alla collaborazione, andando dai rapporti di mera colleganza, all’amicizia, fino all’amore: insomma, tutte le situazioni in cui è presente quel sottile equilibrio di scambi grazie al quale manteniamo rapporti cordiali con gli altri, forniamo e riceviamo supporto di qualche tipo, condividiamo con l’altro parti superficiali e/o profonde di noi stessi e ci sentiamo relativamente al sicuro da iniziative ostili nei nostri confronti.

A livello intimo la fiducia interpersonale coinvolge le paure, le preoccupazioni e i desideri più profondi della persona. Non a caso le situazioni nelle quali essa è fondamentale (pensiamo a un progetto di lavoro o alla vita di coppia) spesso producono in noi reazioni emotive e comportamenti anche molto intensi, soprattutto se nella relazione è presente un’asimmetria di potere tra le parti, e di conseguenza uno dei partner deve contare sulla benevolenza dell’altro per realizzare i propri desideri (Simpson, 2007).

La psicologia ha colto la rilevanza del concetto di fiducia già da molto tempo e molte sono le teorie dello sviluppo psicologico che considerano questa dimensione dell’esistenza umana come centrale nella strutturazione e nel funzionamento della personalità. Essa viene considerata a fondamento degli schemi espressivi, cognitivi e relazionali che la persona usa quando è in relazione con gli altri e, in questo senso, le esperienze evolutive nelle quali la fiducia è stata rilevante avrebbero un’influenza duratura sull’identità e sulle relazioni lungo tutto l’arco della vita. Viene subito da pensare alla teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson (1963), per la quale nel primo anno e mezzo il conflitto determinante il percorso evolutivo del futuro adulto (le direzioni di sviluppo delle vulnerabilità e delle potenzialità psicologiche e sociali del bambino) è proprio quello di costruire una posizione fondamentale di fiducia nel futuro. La teoria dell’attaccamento fornisce poi ulteriori specifiche. Per essa la fiducia circa la disponibilità, la sensibilità e la responsività della figura di riferimento (la persona o le persone a cui ci rivolgiamo quando siamo affaticati, tristi, impauriti, bisognosi di cura e sostegno) è il perno attorno al quale la mente costruisce modelli operativi interni equilibrati (schemi cognitivi e affettivi di sé, degli altri e delle relazioni), e l’aspettativa di ricevere da essa sostegno, rassicurazione e supporto (sia realmente che in forma simbolica, se non disponibile concretamente) è considerata centrale per lo sviluppo di una personalità resiliente, proattiva, aperta e in grado di mantenere l’equilibrio sotto stress (cfr. Mikulincer & Shaver, 2009). Dal punto di vista clinico, infine, si può pensare a quanto la fiducia tra paziente e psicoterapeuta sia fondamentale per la costruzione dell’alleanza terapeutica, elemento fondamentale per il buon esito della terapia, con tutta la fatica che ciò a volte comporta (cfr Colli & Lingiardi, 2014).

Fiducia e prospettive a confronto

La fiducia è centrale per determinare il modo in cui iniziamo, manteniamo e sosteniamo la maggior parte delle nostre relazioni. Inoltre essa promuove la cooperazione, permettendo benefici a lungo termine che altrimenti non sarebbero ottenibili in altro modo. Ed è proprio a partire da quest’ultima osservazione che le prospettive evoluzionistiche cercano di spiegarne l’origine. Per questo gruppo di teorie (ad esempio Hamilton, 1964; Trivers, 1971; Tooby & Cosmides, 1990) la ragione fondamentale dell’esistenza della fiducia risiede nel fatto che sia la cooperazione che le capacità cognitive dedicate alla valutazione dell’affidabilità dell’altro promuovono la riproduzione dell’individuo e la sopravvivenza della specie, garantiscono l’allevamento della prole da parte dei membri del gruppo sociale di riferimento e promuovono il bene comune, massimizzando i benefici di attività come la caccia, l’allevamento del bestiame e lo scambio di risorse (Axelrod & Hamilton, 1981).

Queste idee possono spiegare in che modo nel corso dell’evoluzione il meccanismo sociale del dare e ottenere fiducia si sia evoluto e perfezionato. Tuttavia anche la storia personale, l’ambiente sociale e la cultura di riferimento, per quanto transitori, contingenti e situati storicamente, sono importanti nella determinazione di una posizione di fiducia verso l’altro, ed ecco che le teorie viste poco sopra, la teoria di Erikson e la teoria dell’attaccamento, ci forniscono elementi di una prospettiva parziale sull’impatto delle determinanti sociali. Ad esse può essere affiancata la teoria dei sistemi familiari (Bowen, 1976) per la quale la storia delle interazioni con i membri della propria famiglia, che include anche episodi nei quali la fiducia è stata ben riposta o tradita, è un elemento fondamentale per la differenziazione del proprio concetto di sé (un Sé differenziato connota stabilità emotiva, capacità di gestione dell’ansia, autonomia, indipendenza) e determina la capacità futura della persona di mantenere legami emotivi con gli altri, cogliendo i benefici dell’intimità e dell’interdipendenza, evitando allo stesso tempo l’invischiamento (definire sé stessi, sentire, pensare e comportarsi in base alle emozioni, alle scelte, alle azioni dell’altro), situazione quest’ultima che sancisce la perdita di quote di identità personale, di capacità autoregolatorie e di autonomia. Se non riesco a fidarmi dell’altro (e se l’altro non mi sembra degno della mia fiducia) come confidare in una relazione duratura? Come dedicarmi completamente ai miei progetti con flessibilità e impegno costante se manca la sicurezza di ricevere sostegno o comunque di non essere ostacolati in qualche modo dalla persona che mi è vicina? Come esprimere pienamente sé stessi e crescere se una relazione autentica non è presente, e ci sentiamo continuamente costretti ad adattarci a ciò che l’altro fa, dice e mostra di provare?

Per quanto penetranti, il limite che appare evidente dalle teorie accennate fino a questo momento è che esse non sono ancora in grado di spiegare in base a quali parametri le situazioni immediate e concrete vissute dalle persone, come anche le caratteristiche specifiche degli attori che vi partecipano, possano spiegare la nascita, il mantenimento e la trasformazione della fiducia interpersonale nel tempo. Insomma, restano ancora troppo sulle generali e non colgono né l’impatto dell’interazione tra le caratteristiche della situazione specifica in cui le persone si trovano, né le differenze individuali. Entrambi gli elementi sono importanti, al punto tale che a chiunque studi psicologia è noto il mantra ‘individuo X ambiente’. Cambia qualcosa se di base sono molto diffidente oppure fiducioso, estroverso oppure introverso? Cambia qualcosa se la fiducia nell’altro viene messa alla prova sul lavoro o in un contesto informale e ludico, oppure in una situazione in cui un partner abbia tutto da perdere e l’altro tutto da guadagnare? E che peso hanno le motivazioni di fondo a stare nella relazione?

Fattori determinanti la fiducia

Riguardo a quest’ultimo aspetto, McClintock (1972) identifica cinque motivi personali per i quali le persone scelgono di dare fiducia all’altro, e si focalizza sulla relazione tra i margini di profitto (materiale o simbolico) che i partecipanti alla relazione ottengono cooperando tra loro: massimizzazione dei propri guadagni (orientamento egoistico/individualistico); massimizzazione dei propri guadagni in relazione a quelli dell’altro (orientamento competitivo); massimizzazione dei guadagni comuni, in modo che entrambi ottengano di più di quanto otterrebbero agendo come singoli (orientamento cooperativo); massimizzazione dei guadagni altrui (orientamento altruistico); minimizzazione dei guadagni altrui (orientamento aggressivo/maligno). Per quanto semplice e intuitiva, questa prospettiva tuttavia fornisce poco spazio per cogliere gli aspetti ‘caldi’, emotivi, delle motivazioni personali sottostanti il dare e il ricevere fiducia, come anche non sembra considerare la diversità delle possibili ragioni individuali alla base di essa, adottando invece una prospettiva esclusivamente utilitaristica.

Questi limiti sono superati dalla teoria di Deutsch (1973) che costruisce una tassonomia di ‘ragioni motivazionali’ alla base della fiducia nell’altro, considerando differenze individuali come le aspettative sui pensieri o le condotte altrui, la conoscenza posseduta, la propensione a seguire le norme sociali, i propri desideri, e altre caratteristiche della persona.

Ci si potrebbe fidare dell’altro, ad esempio, per la disperazione connessa alle conseguenze che il non fidarsi comporta (si pensi a quando si va a fare una visita medica per un malessere che non riusciamo a spiegarci); ci si può fidare per ragioni di conformità sociale, evitando la violazione di norme sociali esplicite o tacite (si pensi ad esempio alla norma tacita espressa che impone, quando si sta male, che si chiami il medico, e come il non farlo sia considerato al minimo poco intelligente, se non insensato); si può dare fiducia all’altro per innocenza, derivante dalla mancanza di conoscenza, informazione oppure esperienza (tutta la gamma di situazioni possibili relative a ‘non accettare caramelle dagli sconosciuti’); per impulsività (ad esempio la decisione di fidarsi ‘perché non mi va di pensarci su più di tanto’). Si può investire l’altro di fiducia, inoltre, nella speranza di essere traditi (masochismo), per la speranza che le conseguenze temute non si presentino (fede), nell’aspettativa che si otterrà ciò che si desidera; o per il puro desiderio di prendersi dei rischi. Altri motivi, infine, riguardano le ragioni e gli scopi personali dell’altro (ad esempio sapere che l’altro ci ama e vuole il nostro bene), motivi di ordine morale (ad esempio il rispetto degli impegni presi) o, finalmente, motivi di ordine strutturale (ad esempio sapere che le amicizie e/o i possessi dell’altro sarebbero messi a rischio se non venisse rispettata la fiducia riposta).

Le informazioni di questo autore sulle motivazioni personali hanno sicuramente un buon valore euristico, poiché ci forniscono una spiegazione del perché ci fidiamo dell’altro sulla base di ragioni ampie e che considerano timori, desideri e speranze, anche inconsapevoli, nelle quali ognuno può rispecchiarsi nella vita di tutti i giorni.

Sempre prestando attenzione ai contenuti mentali individuali, infine, alcuni autori identificano come maggiormente pertinenti la costruzione della fiducia le aspettative sociali, le credenze e le attribuzioni routinarie delle persone, come anche la percezione di quanto l’altro valorizzi il proprio interesse personale in contrapposizione al nostro (ad esempio Barber, 1983; Pruitt & Rubin, 1986; Tyler, 2001).

Purtroppo il problema principale di ogni prospettiva focalizzata solo sull’individuo è che non coglie l’interdipendenza tra i partner. Non considera, infatti, l’impatto che azioni, pensieri ed emozioni di ciascuno di essi ha sull’altro partner e neppure l’impatto che le caratteristiche della situazione (reali o anche solo percepite) hanno sulla relazione che si viene a costruire tra di loro. Una panoramica sulle teorie psicologiche sulla fiducia, quindi, rende obbligatorio considerare anche solo brevemente quelle prospettive, decisamente più complesse, che considerano le caratteristiche individuali (proprie e altrui) in relazione alle caratteristiche dell’altra persona coinvolta e quelle della situazione.

La fiducia può essere così considerata come una particolare situazione interpersonale che implica elevata interdipendenza tra partner (cfr. Kelley & Thibaut, 1978) in relazione ai loro scopi, che possono essere condivisi o esclusivamente personali, e nella quale possono essere di volta in volta determinanti l’impegno profuso nella relazione, le intenzioni (benevole o meno) degli attori, la volontà di questi di mettere in discussione le proprie motivazioni. La fiducia da parte dell’altro si alimenterebbe, soprattutto, dalla trasformazione delle motivazioni individualistiche in motivazioni altruistiche (orientate all’altro o alla relazione) in modo che ne derivino comportamenti che ai suoi occhi attestino la volontà di sacrificarsi per il bene congiunto e/o per il suo bene esclusivo, anche solo sotto forma di comportamenti accomodanti. Altri autori, si focalizzano poi su aspetti come la prevedibilità dei partner (affidabili, interessati al benessere e ai desideri dell’altro), la lealtà verso l’altro e verso la relazione (dependability) e la fiducia nella forza e nella stabilità di entrambi (Holmes & Rempel, 1989).

La ricerca sulla fiducia dal punto di vista della relazione ‘persone X situazione’ è vasta e ha prodotto una mole altissima di dati. Le teorie presentate in questa breve rassegna sono quelle maggiormente citate. Altre teorie sono disponibili, con ricerche che tendono a prestare attenzione anche ad aspetti molto specifici della situazione interpersonale, come l’odore o la distanza interpersonale (ad esempio van Nieuwenburg, de Groot & Smeets, 2019).

Per queste ragioni anche una pur rapida escursione sui risultati disponibili è al di fuori degli scopi di questo articolo. Il lettore interessato che volesse confrontarsi con una panoramica esaustiva sulle teorie che indagano la fiducia interpersonale può rivolgersi a due compendi sintetici, agevoli da consultare e di taglio critico, come il libro di Rotenberg (2020) e la rassegna di Simpson (2007), cui si rimanda per ulteriori riferimenti.

 

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