Una volta pronunciata la diagnosi di diabete, essa si ripercuoterà ad ampio raggio in tutti i contesti in cui il paziente, in questo caso il “piccolo paziente”, vive e vivrà; il nucleo familiare perciò, come conseguenza diretta, subisce una riorganizzazione volta ad accogliere i cambiamenti che la malattia porta con sé.
Introduzione
Il diabete mellito, definito nel linguaggio comune “diabete”, è una malattia cronica che si verifica quando il pancreas non produce abbastanza insulina o quando il corpo non può utilizzare efficacemente l’insulina che produce (WHO, 2021). Esistono vari tipi di diabete, diversificabili a seconda della tipologia di fattori intervenienti, di ordine genetico ed ambientale.
Nel presente lavoro ci si soffermerà in particolare sul diabete di tipo 1, che colpisce la fascia d’età infantile, adolescenziale e dei giovani adulti. In bambini e adolescenti, in Italia, si ha una incidenza media di 12,26 nuovi casi/100.000/anno, con variazioni anche importanti tra le varie regioni (Bruno G., et al, 2010). Verranno trattate le fasi psico-comportamentali che si devono affrontare per arrivare all’accettazione della malattia, sia dal punto di vista del piccolo paziente, che dei caregiver di riferimento. Inoltre, attenzione verrà data in particolare al ruolo fondamentale dello Psicologo in ambito ospedaliero, il quale mette a disposizione il proprio sapere al fine di “accompagnare” sia il paziente che tutta la sua famiglia nel difficile percorso che inizia dalla diagnosi e si predispone per un’intera vita. La famiglia, infatti, risulta essere bersaglio indiretto della malattia, dovendo procedere a una riorganizzazione sul piano della quotidianità per tutti i suoi membri.
L’attenzione nazionale alla malattia diabetica: il PND
Nel 2013 il Ministero della Salute ha emanato il “Piano Nazionale sulla malattia diabetica”, dove sono state sottoscritte linee guida clinico organizzative da osservare su tutto il territorio nazionale, insieme agli obiettivi, generali e specifici, da perseguire. All’interno del documento vengono affrontati argomenti che vanno dalla prevenzione alla gestione della malattia, passando per la diagnosi precoce e al miglioramento dell’assistenza. In linea generale, il Piano esplicita i principali punti dell’assistenza alla malattia cronica in un’ottica multidisciplinare e multiprofessionale, raggruppando così le diverse figure verso pratiche e obiettivi condivisi. L’obiettivo è quello di avere, progressivamente negli anni, un miglioramento del benessere e della qualità di vita delle persone con una malattia cronica come il diabete. Si consolida l’abbandono della vision strettamente medica, per favorire una presa in carico ad ampio spettro.
Il percorso di cura e assistenza non è costituito quindi solamente dal ricovero in ospedale, ma diventa continuo, con la necessità nel tempo di rivalutazioni, educazione, supporto al cambiamento nello stile di vita, i quali possono essere effettuati in ambulatori o day-hospital, oppure in strutture dedicate sul territorio.
Nello specifico, in riferimento all’età evolutiva, il Ministero della Salute si pronuncia così: l’attività di un singolo pediatra diabetologo, senza un supporto dedicato ed esperto in diabetologia pediatrica (infermieristico, psicologico, dietologico, socio-sanitario, ecc.), non è coerente con le funzioni assistenziali richieste per gestire tale complessa patologia pediatrica (Commissione Nazionale Diabete, Ministero della Salute, 2013).
Il bambino con una malattia per tutta la vita
Per malattia cronica si intende una patologia che durerà dal momento del suo esordio per tutto il corso della vita. Più specificatamente, sono condizioni che interferiscono con il funzionamento quotidiano per più di tre mesi all’anno o che richiedono ospedalizzazione per almeno un mese all’anno (Perrin J. M., 1985). In questo tipo di malattie non si osserva una completa guarigione, bensì, soprattutto nel caso specifico del diabete, un adattamento dello stile di vita ad esso, con una conseguente soddisfacente qualità di vita.
Una volta pronunciata la diagnosi di diabete, essa si ripercuoterà ad ampio raggio in tutti i contesti in cui il paziente, in questo caso il “piccolo paziente”, vive e vivrà (Balbo V., 2016); il nucleo familiare perciò, come conseguenza diretta, subisce una riorganizzazione volta ad accogliere i cambiamenti che la malattia porta con sé.
Il diabete necessita di una consistente attenzione, soprattutto per quanto riguarda il trattamento: il paziente, infatti, è responsabile per il 95% della propria terapia (Ciechanowski P. S., et al, 2002). Tramite questo 95% si comprende la rilevazione più volte al giorno dei tassi glicemici, l’autosomministrazione dei farmaci, le particolari attenzioni al piano alimentare e la regolamentazione dell’attività fisica. Si tratta di pratiche difficili da seguire in piena autonomia, almeno per i primi tempi, per un bambino.
Una delle conseguenze a livello psicologico derivante dall’avere una malattia cronica consiste nel mutamento dell’immagine di sé: soprattutto nella fase d’esordio viene percepita una sostanziale perdita di controllo nella gestione del proprio corpo, e più in generale della propria vita, andando a minare, di conseguenza, il benessere soggettivo (Musacchio N., et al, 2013).
La malattia può dunque incidere sulla qualità di vita direttamente tramite gli effetti dello stato di malattia e/o dei trattamenti, o indirettamente tramite i cambiamenti conseguenti nel funzionamento psicosociale (Snell C., et al, 2010).
In età evolutiva l’insieme di tutti questi nuovi aspetti non sempre può risultare chiaro, il bambino infatti si può ritrovare emotivamente coinvolto, sotto shock per gli improvvisi cambiamenti, spaventato per la sua situazione di salute, incerto del suo futuro. Differentemente che in età adulta, in età evolutiva gli aspetti maturativi non sono ancora completi e possono subire delle perturbazioni a causa della malattia tanto da interferire nella formazione e nella percezione della propria immagine (De Carlo N.A., et al, 2012). Spesso, successivamente alla diagnosi, affiorano paure tipiche, come quella di morire, della perdita dell’autonomia, o dell’avere danni irreversibili all’incolumità fisica. Diventa quindi indispensabile un supporto multidisciplinare al bambino, e nel complesso a tutta la famiglia, a partire dalle prime fasi della malattia, sottolineando l’importanza del sostegno psicologico che, grazie a specifiche metodologie e all’insegnamento di determinate strategie e tecniche, può accompagnare il nucleo verso la conoscenza e accettazione della diagnosi, fino ad un adattamento alla nuova quotidianità. Infatti, in base alle indicazioni delle società scientifiche tra cui l’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), la Società Italiana di Diabetologia (SID) e la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), l’intervento psicologico è parte integrante del modello multidisciplinare di risposta ai bisogni di salute delle persone con diabete (Tomai M., et al, 2018).
L’esordio: il primo contatto con l’ospedale
Nel corpo di un bambino, dopo un periodo in cui la malattia è ancora silente, il deficit insulinico a poco a poco inizia a manifestarsi attraverso i sintomi specifici. Due sono le possibilità di contatto ospedaliero: con carattere d’urgenza, attraverso quindi il pronto soccorso durante una situazione di acutizzazione estrema dei sintomi; oppure attraverso il ricovero programmato (solitamente in situazioni di esordio in cui vengono eseguiti accertamenti preventivi alla fase acuta) (Favalli V., et al, 2017).
Il ricovero in ospedale è, sia per il bambino che per la famiglia, un evento con potenziale traumatico. Il bambino si trova improvvisamente in un corpo che non riconosce più, un corpo che gli provoca dolore e che l’ha portato a trascorrere un periodo in un ambiente diverso dalla sua quotidianità e con persone estranee. I genitori, dall’altro lato, devono sommare ai normali carichi gestionali quotidiani (casa, lavoro, famiglia), il peso di vedere il proprio figlio sofferente e con una malattia che durerà per tutta la vita.
Dopo la diagnosi di diabete, il rischio primario per il piccolo paziente è lo sviluppo di problemi psicologici riguardanti l’adattamento: non è semplice accettare continui prelievi ematici, rilevazioni dei livelli glicemici, visite specialistiche e l’inizio di una terapia. Il bambino proverà la paura oltre che della malattia stessa, anche dell’ospedale, conseguenza della costretta separazione dal suo ambiente quotidiano (Capurso M., 2008). Questa nuova esperienza, inoltre, avviene in modo veloce e il susseguirsi degli eventi non sempre gli permette un’adeguata elaborazione, anche calibrata in base alla giovane età. È utile quindi soffermarsi sul suo vissuto di dolore per il tempo necessario affinché abbia una corretta comprensione di ciò che gli sta accadendo. I vissuti d’irrequietezza e di ansia, che nella maggior parte dei casi compaiono in associazione al ricovero ospedaliero, derivano anche dal fatto che le abitudini giornaliere vengono stravolte: ad esempio, il bimbo dovrà dormire in un letto che non è il suo, dovrà rispettare determinati orari e seguire precisi trattamenti, non sarà sempre insieme ad entrambi i genitori, difficilmente giocherà con bambini di sua conoscenza, si dovrà relazionare per la maggior parte del tempo con medici e infermieri, con fatica troverà un suo spazio accettato come “intimo e privato”. Il bambino sperimenta una sorta di violazione del proprio corpo da parte di persone estranee, che devono attuare procedure necessarie collegate alla sua malattia; la percezione della sua integrità corporea viene così inevitabilmente minata. L’insieme di queste pratiche ha quindi effetti secondari sul bambino di natura psicologica, proprio per questo motivo la figura dello Psicologo è fondamentale per spiegare al bimbo, alla famiglia, ma anche a tutta l’équipe ospedaliera, la strategia migliore per affrontare questo momento.
La famiglia gioca un ruolo importante in questo momento così delicato: le risorse presenti al suo interno devono essere individuate e utilizzate strategicamente con l’obiettivo comune di creare una “squadra” unita che lavora per il benessere del piccolo. Per i genitori stessi, la fragilità del proprio bambino, sia perché piccolo di età, sia per l’immaturità affettiva, rende l’esordio del diabete particolarmente drammatico (Zito E., et al, 2012).
Soprattutto durante i primi giorni in cui il bambino si trova ricoverato in ospedale, è essenziale, per tutto il team, riuscire a creare un clima di fiducia sia con la coppia genitoriale, attraverso una comunicazione chiara e semplice, che con il piccolo, evitando ad esempio l’attuazione delle procedure tramite l’inganno o la non spiegazione di ciò che gli sta accadendo con un linguaggio adatto ad un bambino. Se l’intero nucleo avrà la percezione di trovarsi in un ambiente a misura di bambino, con persone competenti, che sono disponibili al dialogo e comprensive della situazione extra-ordinaria in cui si trova la famiglia, si riusciranno a gettare le basi per costruire una sana relazione terapeutica. Una relazione terapeutica di qualità è determinante al fine dell’adesione al trattamento (Miselli V., 2011). Quella che in inglese viene detta “compliance” o “adherence” alle cure, altro non è che l’obiettivo che l’équipe diabetologica persegue attraverso il lavoro in stretta collaborazione per creare piani di trattamento personalizzati su ogni paziente. Gli aspetti psicologici incidono sull’accettazione e gestione della patologia e, per favorire la compliance, è auspicabile che la consulenza psicologica diventi parte dell’iter terapeutico fin dall’esordio (Falco G., et al, 2015).
L’impatto della diagnosi sul sistema famiglia
La diagnosi di diabete viene comunicata alla famiglia e, successivamente, al bambino, dall’équipe medica. È importante che questa comunicazione sia il più possibile chiara, ma anche rassicurante e realistica per quanto riguarda il percorso da intraprendere e ciò che fondamentalmente diventerà la nuova quotidianità. I genitori attraverseranno, da qui, vari momenti in cui prevarranno diversi sentimenti: potrebbero passare dalla rabbia, dal sentirsi incompresi, dalla solitudine, da un senso di irrealtà, dallo sconforto; cercheranno una maniera per sfuggire alla diagnosi, magari chiedendo un diverso parere medico, inizieranno a fare ricerche personali per informarsi su tutto ciò che riguarda questo nuovo mondo. Mamma e papà hanno cercato con preoccupazione una risposta alla loro domanda sul “perché mio figlio sta male?”, ma proprio quando i medici hanno risposto con una diagnosi, questa diventa di difficile accettazione.
La diagnosi si immette nel ciclo di vita della famiglia come evento disorganizzante, mettendo a dura prova il senso di continuità e minando, almeno al momento della sua ricezione, il progetto di vita futuro. I genitori di un figlio che ha una diagnosi di malattia cronica non sono preparati ad affrontare la malattia del figlio e spesso possono essere spaventati dall’interferenza della malattia sul ciclo vitale (Catastini P., et al, 2000).
Il momento successivo alla diagnosi è per la coppia genitoriale particolarmente carico di vissuti di colpa irrazionali, quasi come se la causa della malattia del figlio fosse quella di non essere stati in grado di generare un figlio sano, ma al contrario, di averlo fatto nascere con qualcosa di sbagliato, che gli provoca sofferenza (sentimento provato soprattutto dalla madre). Entrambi i genitori, ancora, sperimenteranno il senso di fallimento delle loro cure, non essendo stati genitori sufficientemente bravi nella protezione del figlio, causandone la malattia. Tra padre e madre saranno comunque diversificati i tempi di reazione e i comportamenti annessi: ognuno di loro avrà la propria reazione all’evento, chi prima, chi dopo, pur provando entrambi un forte dolore.
Una famiglia funzionale deve attuare un bilanciamento tra le proprie risorse e le proprie vulnerabilità, in relazione alle numerose richieste che la malattia impone nel corso del tempo (Moi G., 2013). Il fine ultimo del percorso che la famiglia inizierà dal momento della comunicazione della diagnosi è costruire insieme un nuovo modello di normalità.
Ruolo importante è rivestito anche dall’eventuale presenza di fratelli e/o sorelle. L’esordio diabetico fa sì che, almeno per un primo momento, la concentrazione e la preoccupazione dei genitori siano tutte rivolte verso il figlio malato. Fratelli e/o sorelle possono esperire vissuti di “abbandono”, percependo i genitori affettivamente lontani; possono subentrare sentimenti di rabbia, gelosia, aggressività rivolti al fratello malato, in quanto è diventato il centro delle attenzioni della famiglia creando scompiglio nella quotidianità. È a volte osservabile anche l’insorgenza di meccanismi come il senso di colpa, per essere il fratello e/o sorella ingiustamente sano/a, le somatizzazioni, per i vissuti non detti e non elaborati, i comportamenti ritirati per non “infastidire” i genitori, già sufficientemente impegnati ad occuparsi di chi sta più male di loro. Si rende quindi necessario spiegare ai genitori che le possibili reazioni di diversa natura dei fratelli e/o sorelle sono gli effetti normali di una situazione verificatasi all’improvviso (Luciano E., 2013).
È importante che anche i fratelli e/o sorelle partecipino alle comunicazioni che avvengono tra lo staff medico e il paziente/famiglia. Lo scopo è far sentire loro parte integrante del nucleo, favorendo la costruzione di una relazione di fiducia, dove possono sentirsi liberi di porre domande ed essere ascoltati e compresi. Se i fratelli vengono coinvolti nel percorso di cura e viene spiegato loro cosa sta accadendo, capiranno che il loro fratello ha esigenze particolari e accetteranno sin da giovanissimi le sfide poste a loro e alla loro famiglia; così facendo, inoltre, il fratello si sentirà sicuro e capace di gestire eventuali emergenze sanitarie nel caso dovessero verificarsi (Commodari E., et al, 2019).
L’équipe sanitaria ha l’importante compito di tenere insieme le fila della famiglia, in quanto ogni suo componente ricopre un ruolo importante affinché possa ristabilirsi (dopo una fase iniziale di shock) un clima di serenità, dato dal ritorno alla normalità quotidiana. Questo, di conseguenza, ha significativi effetti benefici anche sulla salute stessa del paziente, per una positiva ed efficace gestione della malattia.
Accettare la malattia
Accettare di avere un figlio malato, o di essere un bambino malato, non è semplice ed immediato. La convivenza con una malattia cronica richiede innanzitutto un periodo per adattarsi strategicamente ad essa; bisogna tenere in considerazione che nel tempo essa può anche evolvere, possono intervenire eventi critici con conseguente messa in discussione e ripianificazione della quotidianità, e ancora, e ancora.
Gfeller R. e Assal J. P. (1979), hanno descritto il processo adattivo che avviene nelle persone con diagnosi di diabete mellito dividendolo in sei fasi. Queste non hanno mai una netta demarcazione e la durata ed intensità di ognuna è imprevedibile. Nello specifico:
- Fase di shock: la diagnosi della malattia per il paziente potrebbe diventare un evento traumatico. Viene persa la coscienza identitaria, minata dalla perdita della visione del proprio corpo in piena salute. L’impatto primario è quello di stupore, seguito dal sentimento di disorientamento. L’intero nucleo famigliare risente della notizia ed essa ha un forte impatto su tutti i suoi componenti: inizialmente prevarrà l’angoscia dell’incerto, di ciò che non si conosce, portando inevitabilmente a pensare al peggio. Le reazioni tipiche possono essere la rabbia, oppure al contrario un isolamento inerte. Questa è la fase in cui non c’è ancora un controllo da parte del paziente alla sua malattia, il quale si affida totalmente alle scelte dell’équipe medica per quanto riguarda il trattamento.
- Fase di negazione: in questa fase avviene il rifiuto della diagnosi, della malattia in sé. Solitamente si presenta dopo la fase di shock, ed è contraddistinta da frasi come “non è possibile”, “non ci credo, vi sbagliate”, che possono provenire sia dal paziente stesso, che dalla coppia genitoriale. In questo momento la malattia cronica non è tollerabile dal punto di vista dell’accettazione, perciò viene attuato nei suoi confronti il netto distacco, tendendo ad escluderla inconsapevolmente dalla propria coscienza. La negazione viene letta come un tentativo per guadagnare il tempo necessario affinché tutto il sistema attui una riorganizzazione.
- Fase di ribellione: superata la fase di negazione, con il trascorrere del tempo si sviluppa una presa di coscienza della realtà, che porta all’esplosione di emozioni come la paura e la rabbia. La prevalenza di questi due sentimenti porta a reazioni di attacco, come l’assunzione di atteggiamenti oppositivi, o di fuga, come l’evitamento delle cure. La rabbia può essere diretta agli operatori sanitari, alla famiglia, e anche contro il proprio corpo. In questa fase è decisivo il supporto psicologico da parte dell’équipe sanitaria, in quanto è il momento in cui si manifesta la massima vulnerabilità, appellando una richiesta di aiuto implicita. La famiglia, messa a dura prova in questa fase, deve dimostrare una forte tolleranza e comprensione della situazione, affinché, insieme al paziente, si possa arrivare all’obiettivo dell’accettazione della malattia.
- Fase della contrattazione: a partire da questo momento, il paziente tenta di scendere a compromessi con il personale sanitario e la famiglia attuando un negoziato in merito ai comportamenti da assumere e le terapie da seguire per avere uno stile di vita che gli consenta di convivere in maniera accettabile con il diabete. Si possono manifestare anche tentativi di manipolazione delle relazioni e dei messaggi provenienti dall’équipe medica, assumendo talvolta un carattere provocatorio. In questa fase il bambino inizia a prendere coscienza della “anormalità” della sua situazione, esaminando passo per passo che cosa sarà in grado di fare.
- Fase della tristezza meditativa: in questa fase il paziente inizia ad accettare di perdere alcuni aspetti che fino a prima aveva considerato parte della propria identità. La negazione e l’opposizione alla diagnosi fin qui portate avanti lasciano il posto alla tristezza che deriva anche da un senso di sconfitta. Sopraggiungono il pianto e l’abbassamento del tono dell’umore, prevalgono i momenti in solitudine raccolti nel silenzio, alla ricerca di sé stessi, di un nuovo equilibrio. Si inizia da qui a pensare a una proiezione della propria vita nel futuro e alla riorganizzazione della quotidianità. Da sottolineare che questo è un momento di transizione, di durata variabile e soggettiva, ma da non confondere con esordio depressivo, che risulta essere l’estremo patologico del fallimento del passaggio alla prossima fase.
- Fase dell’accettazione: questa fase contrassegna il passaggio ad una piena elaborazione di ciò che è accaduto nella propria vita e ad una sua conseguente accettazione. Il paziente giunge alla comprensione che con la malattia si può convivere, che si possono riprendere le normali attività, seppur modificandone alcuni particolari, che il nuovo assetto di vita non preclude la crescita e sviluppo personale. La persona ha acquisito una nuova capacità di far fronte ai cambiamenti, attraverso un adattamento attivo che gli permetterà di essere protagonista principale delle scelte sulla propria vita. Quest’ultima fase dona inoltre una nuova visione della realtà, meno superficiale rispetto a prima, offrendo nuovi spunti di riflessione e inducendo anche un cambiamento di prospettiva nel pensiero di vivere “nonostante” il diabete, piuttosto che vivere ora “con” il diabete. La comunicazione con il personale sanitario e con la famiglia viene qui riattivata, dando la possibilità di instaurare rapporti di fiducia e collaborativi. Qui inizia il percorso per cui tutti lavorano verso lo stesso obiettivo: il benessere della persona con diabete.
In tutte le fasi sopra elencate, per i molteplici aspetti che riguardano la vita del paziente, si rende necessaria quindi la presenza costante della figura dello Psicologo a supporto del piccolo e della sua famiglia, al fine di accompagnare il nucleo dall’esordio di diabete alla dimissione dall’ospedale e nei seguenti follow-up.
Lo Psicologo in ospedale
Gli interventi terapeutici al paziente diabetico sono di tipo multidisciplinare: il piccolo avrà frequenti contatti con diverse figure sanitarie, ognuna partecipante, per quanto riguarda la sua professionalità, alla gestione del suo trattamento. Per evitare la percezione di frammentarietà delle varie prese in carico, da diversi anni all’interno degli ambienti sanitari si usa strategicamente il lavoro in équipe, dove viene perseguito l’obiettivo comune dell’alleanza terapeutica. È così che Diabetologi, Dietisti, Pediatri e Psicologi lavorano in sinergia per ogni singolo bambino. La futura adesione alle cure viene determinata soprattutto dalla qualità dell’investimento posto nella relazione terapeutica.
Nel caso di piccoli pazienti, il lavoro relativo alla fiducia si rende ancora più delicato: essenziale sarà trovare le giuste modalità di approccio ponderate in base all’età per far comprendere innanzitutto il perché della loro presenza in ospedale. Affinché si instauri un rapporto di fiducia è necessario non mentire mai al bambino: il fatto che sia “piccolo” non implica che non possa capire, bensì è necessario fornirgli adeguate modalità di comprensione per la sua fase di sviluppo. Bisogna porre la giusta attenzione anche alle promesse che vengono fatte al bambino, perché lui riporrà in queste molte aspettative.
Importanti mediatori di questa alleanza risultano essere i genitori: il figlio, soprattutto se molto piccolo, si fiderà innanzitutto dei comportamenti agiti da mamma e papà. Attraverso le loro espressioni ed emozioni, il bimbo capirà se potersi fidare (e affidare) delle persone estranee che tentano di entrare in una prima relazione con lui. Il lavoro dello Psicologo è di intervenire per il raggiungimento dell’adesione alle cure attraverso l’orientamento dei sanitari verso la modalità comunicativa più consona per il nucleo in oggetto.
Il diabete esige molto dalla famiglia in cui esordisce, per questo il supporto psicologico è un percorso indispensabile per accompagnare il piccolo e la sua famiglia verso la sua accettazione.
La relazione terapeutica che si instaurerà con un bambino, oltre all’uso del colloquio clinico come avviene per gli adulti, dovrà essere provvista di altre metodologie su misura del piccolo paziente che mirano alla comprensione di ciò che sta avvenendo nel suo corpo: brevi racconti, favole, giochi, disegni e altro ancora. Il mondo del bambino è spensierato e colorato, così deve esserlo un ospedale infantile attento ai suoi pazienti.
Le tipologie di intervento utilizzate dagli Psicologi sono per la maggior parte concentrate sul rinforzo delle risorse già presenti in famiglia e sull’acquisizione di abilità e competenze (skills) nuove e funzionali ad una migliore autogestione delle cure. In ambiente ospedaliero gli interventi mirano specialmente alla conoscenza del mondo interno del paziente e della famiglia (lavoro sulle emozioni), alla modificazione di alcuni aspetti comportamentali disfunzionali legati alla gestione della malattia, e alla riduzione di eventuali conflitti presenti in famiglia, promuovendo l’informazione e l’adozione di stili comunicativi più funzionali in vista della convivenza con il diabete per tutta la vita, supportando il nucleo in questo difficile percorso.
Il colloquio è lo strumento d’elezione a disposizione dello Psicologo per entrare in relazione con il paziente e i suoi caregivers. In ambito ospedaliero le consulenze sono centrate sul qui-e-ora per poter offrire uno spazio esclusivo volto alla riflessione in merito ai vissuti legati alla malattia. Gli ambiti presi in considerazione, solitamente, riguardano: l’informazione e l’esplicitazione di eventuali difficoltà, ansie, timori, paure, legate all’ospedalizzazione e al percorso di cura; le limitazioni alla quotidianità che il bambino dovrà affrontare; eventuali difficoltà familiari; possibili altre patologie intervenienti o preesistenti; l’indagine sull’esistenza di eventi stressanti cui il nucleo ha già dovuto far fronte. Ci si dovrà soffermare ed esplorare il significato che il diabete rappresenta per ciascun membro, non dimenticando mai che l’impatto di una malattia cronica colpisce la ridefinizione della routine quotidiana anche di fratelli o sorelle, se esistenti.
Ogni fascia d’età implica una diversa modalità di approccio dello Psicologo al bambino: sotto ai 2 anni il colloquio consisterà sostanzialmente in un’osservazione clinica dei comportamenti agiti dal paziente e dalla sua famiglia, sommata al colloquio clinico orientato sui genitori per avere un chiaro quadro di anamnesi evolutiva del figlio. La relazione con il bimbo verrà creata tramite attività come giochi strutturati creati apposta per il suo stadio di sviluppo o racconti di fiabe. Tra i 2 e i 7 anni il colloquio con il bambino avverrà mediante l’osservazione clinica di attività di gioco strutturate, la produzione di disegni, la lettura di favole prodotte appositamente per essere utilizzate durante l’educazione terapeutica. Attraverso queste tecniche, lo Psicologo lavora sul versante della psicoeducazione sia sul bambino, che, indirettamente, sulla famiglia. Dai 7 ai 10 anni, il piccolo paziente è in grado di sostenere un colloquio clinico con domande tarate per la sua età. In età adolescenziale il colloquio clinico sarà condotto tramite domande aperte ed ascolto attivo: le aree di indagine saranno più vaste e profonde rispetto a quelle prese in considerazione durante l’infanzia, si esploreranno gli stili di coping, le aspettative e i timori rispetto al futuro, le immaginazioni rispetto a come sarà il rientro a casa e tra la cerchia dei pari.
A supporto dei colloqui clinici si prende in considerazione anche l’uso di eventuale materiale psicodiagnostico con tarature in base all’età. L’utilizzo di test psicometrici è prevalente nei colloqui di follow-up, per misurare l’impatto della malattia al rientro a casa e il livello di riorganizzazione funzionale adottato. Il colloquio di follow-up solitamente viene pianificato in contemporanea con il controllo in diabetologia: lo Psicologo, finché lo riterrà necessario, continuerà a programmare gli incontri psicologici-psicodiagnostici di supporto al paziente e alla famiglia. L’obiettivo dei colloqui di follow-up è arrivare alla piena comprensione dello stato di malattia e ad un adattamento strategico, comprensivo dell’autogestione della terapia calibrata in base all’età.
Il colloquio clinico con i genitori del paziente è finalizzato alla conoscenza del nucleo e della propria storia precedente allo stato di malattia, ad eventuali eventi stressanti sopravvenuti in passato e all’attuale modalità di funzionamento e di comunicazione. Compito dello Psicologo è anche predisporre il contesto extra-ospedaliero al rientro del piccolo: importanti sono le informazioni alla famiglia in merito a servizi socio-sanitari che offre il territorio (eventuale contatto con Associazioni di zona che si occupano di diabete in età pediatrica), da non dimenticare, infine, la predisposizione del rientro a scuola e nella cerchia di pari. A questo proposito gli alunni con malattie croniche riferiscono di sentirsi aiutati quando compagni e insegnanti sono portati adeguatamente a conoscenza della loro malattia e quando vengono sostenuti dai docenti nell’integrazione sociale e nelle attività disciplinari (Capurso M., 2006).
Conclusioni
In linea generale, le tecniche comunicative con il bambino si sostanziano di diverse modalità di approccio, sempre tenendo conto dell’età del piccolo. Durante i primi contatti con il nucleo, è fondamentale spiegare al bambino in termini rassicuranti e positivi il perché della sua permanenza in ospedale, chi sono tutte le figure estranee che si occupano di lui, anticipare, infine, le procedure cui sarà sottoposto per permettergli di porre domande e non avere paura dell’incerto. Non sarà necessario scendere in particolari superflui, che potrebbero avere l’effetto contrario di creare confusione e ansia in quanto non comprensibili a pieno.
Una patologia entra nel sistema famiglia come evento disorganizzante: è sconvolgente pensare che il proprio figlio è malato, ancor più se la diagnosi è composta dalle parole “malattia cronica”. L’accettazione di una malattia per tutta la vita non è cosa facile, nemmeno immediata: per questo insieme di motivi il lavoro dello Psicologo si rende imprescindibile durante tutto il percorso in ospedale, e anche fuori, se necessario.
Il benessere del piccolo è il fine ultimo del lavoro di tutta l’équipe, sia dal punto di vista prettamente organico, che dal punto di vista emotivo-cognitivo.