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La diagnosi di sordità del proprio figlio: un percorso di elaborazione del lutto

In questo articolo vengono presentati i risvolti psicologici di ognuna delle cinque fasi di elaborazione della diagnosi di sordità

Di Debora Mauri

Pubblicato il 19 Dic. 2023

Elaborare la diagnosi di sordità

La sordità colpisce un bambino ogni mille nati. È una condizione caratterizzata da importanti risvolti non solo sul piano medico ma, anche, sul piano sociale e culturale. Le famiglie reagiscono diversamente alla diagnosi di sordità, la maggior parte delle reazioni sono però caratterizzate da un profondo dolore causato dalla delusione dell’aspettativa che il genitore ha coltivato per tutta la gravidanza, cioè quella di un bambino sano. Ciò richiederà un processo di riorganizzazione comparabile a una vera e propria elaborazione del lutto. In questo articolo vengono presentati i risvolti psicologici di ognuna delle cinque fasi di elaborazione della diagnosi di sordità, secondo il modello di Shontz, anche attraverso alcune testimonianze di genitori di bambini sordi che hanno raccontato la loro esperienza. Molti genitori lamentano la mancanza di un supporto psicologico nella loro esperienza con la sordità del figlio. Sarebbe quindi auspicabile l’inserimento di questa figura professionale nelle equipe che si occupano di sordità pediatrica

La sordità pediatrica

La sordità congenita interessa un neonato su 1000. Circa la metà dei casi è causato da mutazioni genetiche, il restante 50% è causato da infezioni trasmesse al bambino in utero. Alcune sordità non sono presenti alla nascita, ma sono acquisite nel periodo neonatale, ovvero nel primo mese di vita, a causa di ipossia/scarsa ossigenazione tissutale, ittero o terapie antibiotiche per via endovenosa, necessarie per trattare gravi infezioni (Rinaldi et al., 2018). 

La sordità è una condizione caratterizzata da importanti risvolti non solo sul piano medico ma, soprattutto, sul piano sociale e culturale. Una normale funzione uditiva rappresenta un prerequisito fondamentale per il corretto sviluppo del linguaggio, che inizia a strutturarsi nei primi mesi di vita e che si considera “organizzato” a 12-15 anni di età (Prosser & Martini, 2013). Questo determina la necessità di riconoscere precocemente la presenza di un deficit uditivo per indirizzare il bambino, in accordo con i genitori, verso un adeguato iter riabilitativo possibilmente entro i primi 6 mesi di vita (Prosser & Martini, 2013).

Tale obiettivo è raggiungibile grazie alla sempre maggiore diffusione, nel panorama nazionale, dei programmi di screening uditivo neonatale: protocolli che prevedono di sottoporre tutti i neonati ad esami specifici (Otoemissioni acustiche, ABR automatico) in grado, non solo, di valutare la capacità uditiva del bambino nei primi giorni di vita, ma soprattutto, qualora abbiano esito negativo, di evidenziare i casi meritevoli di una valutazione specialistica otorinolaringoiatrica, nell’ottica di riconoscere e quantificare tempestivamente un’eventuale problematica uditiva.

La reazione della famiglia alla diagnosi di sordità del figlio

Ogni famiglia reagisce diversamente alla scoperta della sordità, in base a differenze individuali, quali la personalità, il livello culturale, la storia di vita dei genitori e la situazione socioeconomica. Ogni reazione è però caratterizzata da un profondo dolore psichico, che si concretizza nei sentimenti di disperazione, incredulità, angoscia, impotenza, rabbia e senso di colpa, causati dalla delusione dell’aspettativa che il genitore ha coltivato per tutta la gravidanza, cioè quella di un bambino sano (Bacchini & Valerio, 2000; Boothroyd & Gatty, 2012). Per molti genitori la diagnosi di sordità può anche rappresentare un sollievo poiché si temeva un problema più grave. La fase di disperazione e angoscia subentra nel momento in cui si realizza che non esiste una “cura” veloce alla sordità, ma che saranno necessarie terapie, interventi chirurgici e un lungo lavoro logopedico (Curti, 2015).

Il modo in cui la famiglia reagirà a tale evento avrà una notevole influenza sia sullo sviluppo del bambino che su quello della famiglia stessa. Per i genitori sordi, la diagnosi di sordità non è sempre traumatica. Più complessa è la situazione nelle famiglie con genitori udenti perché, se non ci sono precedenti di sordità in famiglia, la possibilità del deficit acustico non era stata presa in considerazione (Boothroyd & Gatty, 2012). La nascita di un bambino sordo avrà effetti sull’intero nucleo famigliare, in quanto può rompere il delicato equilibrio della famiglia, che necessiterà di maggiore supporto e tempo per adattarsi alla nuova situazione e proseguire nel percorso di crescita personale (Curti, 2015).

Secondo Aulagnier (1985), esisterebbe una sorta di immagine anticipatrice, la cosiddetta ombra parlata, ovvero una proiezione dei desideri e delle aspettative dei genitori sul figlio, che sarà ciò che guiderà poi la relazione madre-figlio. Dunque, la diagnosi di sordità fa crollare le aspettative che la famiglia si è costruita nel corso della gravidanza. Lo scontro con la realtà sarà molto duro poiché richiede una ristrutturazione della situazione e renderà necessario sostituire l’immagine perduta del bambino sano con quella più realistica del bambino deficitario (Curti, 2015). Questo processo di riorganizzazione renderà necessaria una vera e propria elaborazione del lutto che, secondo il modello di Shontz (1967), si struttura in cinque fasi, molto simili a quelle descritte da Elisabeth Ku.̈bler-Ross (1969).

La prima fase è contraddistinta da uno stato di shock accompagnato da un senso di vuoto e distacco fisico dall’evento. Si passa poi alla presa di coscienza della realtà: in questa fase i genitori si sentono sopraffatti dall’evento, confusi e inadeguati rispetto ai compiti educativi che devono affrontare. La terza fase caratterizzata da meccanismi di difesa che hanno la funzione di ridurre i sentimenti di angoscia e tensione. I più frequenti sono la colpevolizzazione, lo spostamento, attraverso il quale i sentimenti di rabbia e di colpa vengono indirizzati verso altre persone e l’isolamento affettivo, attraverso cui la sordità viene accettata solo razionalmente e non vengono tenute in considerazione le implicazioni emotive associate ad essa. In questo momento i genitori tendono generalmente ad investire in impegni all’esterno della famiglia sottraendo del tempo al rapporto con il bambino. La quarta fase rappresenta la presa di coscienza del problema. Durante questo stadio il genitore accetta le protesi acustiche e si dimostra aperto ad altri metodi riabilitativi. L’ultima fase rappresenta l’adattamento e l’accettazione del problema, conseguente alla ricomparsa nei genitori di sentimenti di fiducia in se stessi e di autostima come riflesso delle acquisizioni raggiunte dal bambino (Shontz, 1967; Harvey, 2003).

La sordità del proprio figlio implica quindi una situazione inaspettata e provoca un grande vuoto simile a un lutto. I genitori non sanno come comportarsi e si chiedono se e come riusciranno a gestire un figlio sordo. La domanda più frequente è questa: “Come comunicherò con lui/lei?”. Si sentono impotenti e incapaci di aiutarlo; questi sentimenti di frustrazione li portano a vivere un profondo senso di colpa poiché pensano di essere i responsabili del deficit acustico del figlio/a, credono di aver commesso degli errori durante la gravidanza (Maragna, 2008; Bacchini, 2000). La maggiore difficoltà delle madri e dei padri di bambini sordi riguarda la comunicazione, che non può avvenire, almeno all’inizio, “normalmente”

Differente è il caso dei genitori sordi che sono più preparati alla diagnosi di sordità e agiscono in maniera del tutto differente esponendo da subito il figlio/a alla lingua dei segni trasmettendogli nel contempo un senso di appartenenza alla dimensione sorda senza vivere questo deficit come debilitante. Esiste anche una tipologia di genitori udenti che non vede la sordità del figlio come un handicap e, anzi, la accetta come condizione naturale indirizzandolo a percorsi educativi mirati senza escludere a priori la possibilità di apprendere anche la lingua dei segni e di venire a contatto con una cultura e una comunità sorda (Maragna, 2008). Certamente si deve tenere presente che l’obiettivo primario di educazione di un bambino/a sordo/a non dovrebbe essere quello di parlare bene, quanto quello di aiutare il bambino/a stesso/a ad accettare il proprio deficit e accompagnarlo nella gestione dei sentimenti che ne derivano.

 La fase di disperazione e depressione si risolve con il tempo, quando il genitore riesce a mettere da parte le sue aspettative, accettando i limiti della sordità del figlio. Questa transizione non avviene in modo veloce, né semplice: un periodo di estrema tensione perché i genitori devono confrontarsi con una nuova realtà (Carchio, 2009; Cappanera, 2010). Spesso la disperazione e il senso di colpa si trasformano in rabbia per essere soli e abbandonati nell’affrontare la sordità e tutte le decisioni che ne derivano. Il genitore sordo si può rivolgere a centri di assistenza e consulenza, che spesso propongono una sola possibilità educativa, senza offrire una panoramica generale sulle varie opportunità (Maragna, 2008). La famiglia deve decidere quale metodo fornire al figlio per imparare a parlare, quale scuola e come gestire i rapporti interpersonali e il proprio futuro.

Il percorso di elaborazione della sordità tramite le testimonianze dei genitori

Sono state analizzate dodici testimonianze di genitori di bambini sordi, alcune delle quali raccolte tramite interviste, altre tratte dal libro “INSIEME – Percorsi di integrazione nella lotta alla sordità”, a cura di Marco Ferrari e dell’associazione L’Orecchio Magico di Ravenna (Ferrari, 2008). È stata poi condotta un’analisi qualitativa dei contenuti dei racconti attraverso il software Nvivo.

Tramite l’analisi delle occorrenze è stato possibile identificare alcuni elementi che ricorrono nella maggior parte dei racconti dei genitori che hanno vissuto l’esperienza di avere un figlio sordo. Le cinque fasi dell’elaborazione della diagnosi di sordità proposte da Shontz (1967), si possono riprendere per riflettere su quanto emerso dalle testimonianze dei genitori.

Fase 1: Shock

Lo stato di shock accompagnato da un senso di vuoto e distacco fisico dall’evento che caratterizza la prima fase del modello di Shontz (1967) si ritrova analogamente nel momento della scoperta della sordità. Esso si contraddistingue per una sensazione di intenso dolore e sconforto dati dalla difficoltà nel gestire un evento così inaspettato. 

Non è facile spiegare a parole ciò che si prova in quel momento. È uno dei momenti che ti restano dentro e ricordi ogni secondo, dall’ansia dell’attesa per i test, all’ansia mista a speranza mentre li stanno facendo. Cerchi di ripeterti nella mente che a tuo figlio non può assolutamente accadere una cosa del genere. Prima di allora nemmeno immaginavi che dei bambini potessero avere deficit uditivi; a volte si da tutto per scontato, quando non vieni coinvolto in prima persona pensi che certe cose capitino solo agli altri, ma quando diventi “gli altri” la cosa cambia notevolmente…. e poi la “mazzata” quando ti comunicano la diagnosi. Guardi negli occhi il medico che ti sta di fronte, cerca di rimanere professionale e cerca le parole migliori, più adatte per dare la notizia, ma in realtà non esistono parole adatte. In quel momento, qualsiasi parola cambierà notevolmente la tua vita e il tuo modo di vederla, il tuo approccio ai problemi e dentro di te, come genitore, muore qualcosa. Si vive ogni giorno una battaglia per aiutare il proprio figlio: ci si sveglia al mattino con il solo pensiero fisso di aiutarlo e si vive con un perenne “mattone” sullo stomaco che non va via, il primo pensiero al mattino, il pensiero costante durante il giorno e l’ultimo alla sera. (I.)

Fase 2: Presa di coscienza della realtà

La fase di presa di coscienza della realtà descritta da Shontz (1967), nelle testimonianze si riflette in una sensazione di inadeguatezza, confusione e frustrazione rispetto alle scelte delicate da compiere. Tali sensazioni sono dovute, da una parte dall’essere sopraffatti dagli impegni di carattere medico, di fronte ai quali i genitori si sentono completamente impreparati ed estranei, dall’altra parte sono dovute alla percezione di solitudine e mancato sostegno dalle figure di riferimento. Nei racconti dei genitori viene dedicato ampio spazio alla descrizione degli esami, dei test, dei controlli e degli accertamenti che hanno dovuto affrontare. Questo ci indica quanto impegno la componente medica richieda da parte del genitore, che deve riuscire a mettere da parte le sue emozioni e il suo dolore per sostenere il figlio e rapportarsi con medici e specialisti.

È opportuno riflettere sulle figure professionali di riferimento che si occupano di sostenere il genitore in un momento così delicato. Dalle testimonianze è emerso che la figura del logopedista è ritenuta fondamentale per il genitore. Anche i medici, gli audiologici, i foniatri, vengono più volte citati e ricordati con gratitudine. I genitori riconoscono di aver ricevuto aiuto e supporto anche dalle educatrici e insegnanti di sostegno, tuttavia la figura dello psicologo è quasi del tutto assente. 

Ma le istituzioni, gli psicologi, i medici dov’erano? E’ davvero tutta colpa mia? Adesso, con il senno di poi, capisco che se come famiglia fossimo stati aiutati, accompagnati e se qualcuno avesse ascoltato il nostro dolore le cose sarebbero state più facili. Il problema non solo fisico. Non sono solo le orecchie che non funzionano. Ci sono la mente ed il cuore di un bambino e della sua famiglia che soffrono e piangono in solitudine. Nessuno ti spiega quali saranno le problematiche che affronterai negli anni. Nessuno ti dice che l’intervento non è la fine di un problema, ma l’inizio di un lungo percorso in salita fatto di anni di logopedia, di visite di controllo, di sedute di audiologia. Anni di lotte da combattere per avere logopediste, educatrici ed insegnanti di sostegno adeguate e qualificate e soprattutto per la totale mancanza di un supporto psicologico. Adesso che sono passati tre anni dall’intervento, dopo tante difficoltà, (…) finalmente nostra figlia è seguita da brave logopediste, ma dobbiamo andare tre volte a settimana in altre città perché nella nostra città le logopediste sono numericamente insufficienti. Per i bambini con questo tipo di problema è fondamentale che la famiglia e gli educatori comunichino tra di loro per creare un percorso comune di riabilitazione. (C.)

I genitori riferiscono di essere abbandonati e di aver bisogno di supporto, tuttavia le istituzioni non sono preparate a rispondere alle loro necessità. Sebbene dal punto di vista medico, la maggior parte delle strutture si siano dimostrate efficienti e di enorme aiuto, ai genitori manca un supporto psicologico, che li sostenga. I genitori, infatti, hanno la necessità di sentirsi compresi, di non sentirsi colpevoli e di comprendere i bisogni speciali del loro bambino privo di udito. È auspicabile che le istituzioni si organizzino per offrire un sostegno di natura psicologica alle famiglie. Fortunatamente i genitori possono trovare aiuto in numerosi forum online, all’interno dei quali possono scambiarsi pareri, opinioni e risolvere reciproci dubbi. Il fatto di sentirsi inclusi in una comunità di persone che stanno vivendo o hanno superato con successo la medesima esperienza, permette di vivere con maggiore serenità e consapevolezza l’esperienza. Inoltre, sono nate diverse associazioni di genitori di bambini sordi che si sono organizzati per creare una rete di mutuo-aiuto per altre famiglie nella loro stessa situazione. 

Fase 3: Meccanismi di difesa

La terza fase è caratterizzata da meccanismi di difesa per ridurre i sentimenti di angoscia e tensione, ad esempio con il diniego, ovvero il rifiuto della diagnosi e la minimizzazione dei segnali di disagio. Un altro meccanismo di difesa che generalmente si manifesta nei genitori è l’isolamento affettivo, i genitori tendono ad investire il loro tempo in impegni all’esterno della famiglia sottraendolo al rapporto con il bambino, accettando la sordità solo razionalmente, senza considerare le implicazioni emotive associate ad essa.

Da buon militare quale sono, ho zittito il turbine di emozioni interiori e mi sono subito concentrato sulle soluzioni al problema nella utopica convinzione che tutto si potesse risolvere. Oggi rileggo quel mio comportamento come una fuga: forse per una paura non consapevole di qualcosa più grande di me. Allora la ossessiva ricerca di soluzioni al problema nascondeva in qualche modo anche una scarsa capacità di sostenere moralmente mia moglie, dilaniata dai sensi di colpa.” (F.)

Molto frequente è la colpevolizzazione, che permette di fornire al genitore una spiegazione dell’evento. Il senso di colpa, se non è eccessivo, può rappresentare uno stimolo per i genitori, nella ricerca di soluzioni. Nelle interviste, parole legate al sentimento di colpa sono molto frequenti e accomunano soprattutto le madri, che soffrono per non essere state in grado di far nascere un bambino sano.

Io piangevo, tutti mi guardavano, ma per me non c’era nessuno, ero solo io con mio bambino in braccio e l’unica cosa che riuscivo a fare era baciarlo con il cuore a pezzi. Mi sentivo in colpa perché non ero stata in grado di farlo nascere perfettamente sano, non gli avevo dato l’udito. Attribuivo a me ogni colpa e pensavo a mio marito e a quello che poteva pensare … pensavo alle volte che in gravidanza gli parlavo e lui non mi aveva mai sentito, pensavo che non conosceva la voce della sua mamma. del papà, del fratellino, che le mie ninna nanna non lo avevano mai rasserenato. (I.)

Fase 4: Presa di coscienza del problema

Nella quarta fase avviene la presa di coscienza del problema: il genitore accetta le protesi acustiche e si dimostra aperto ad altri metodi riabilitativi. In questo momento le madri vivono un difficile conflitto tra il desiderio di facilitare lo sviluppo dell’autonomia del bambino e quello opposto di proteggerlo dagli stress associati alle limitazioni derivanti dal suo deficit (Leone, 2009). Ciò si traduce in un’azione di aiuto inefficace o controproducente, che porta la madre a un sovrautilizzo dell’aiuto, in cui si sostituisce al bambino anche quando lui avrebbe le risorse sufficienti per risolvere da sé il problema. Leone (2009), parla di ambivalenza dell’aiuto poiché la madre, cercando di non evidenziare le condizioni di svantaggio del bambino, inconsapevolmente ostacolerà la sua necessità di fare da sé. Questo comportamento risponde a una necessità della madre di attenuare le proprie emozioni negative. Infatti, in una ricerca di D’Errico, Leoni e Mastrovito (2008), è emerso che quando si chiedeva alle madri di bambini malati cronici di offrire al proprio figlio un aiuto parziale perfettamente adeguato alle capacità del bambino, esse dichiaravano di provare emozioni negative, ansia e disagio in misura maggiore rispetto a madri di bambini sani.

Come mamma si vive come una sensazione di fallimento e un senso di colpa che non andrà mai via. Si ha paura del futuro e ci si domanda sempre se si è e si sarà all’altezza di tutto quello che ci aspetta. Mille domande attanagliano la mente e si cerca conforto su internet, dalle persone che vivono nello stesso paese con un figlio che ha lo stesso problema (ancora oggi non riesco a pronunciare la parola “sordo”). Poi arriva la fase in cui si spera in un errore dei medici, così girammo altri ospedali, ma tutti confermarono la diagnosi … ci vollero dei mesi per accettare il tutto, ma grazie al sostegno del centro che ci segue, oggi non dico di averlo accettato totalmente, ma il mio pensiero fisso non è più “perché a lui e perché a me”, ma solo “devo aiutare il mio bambino, devo proteggerlo da tutti e tutto, devo renderlo forte”. Così ogni giorno combattiamo la nostra battaglia, ma siamo più forti noi e lui parlerà e sentirà come noi. Questo è il mio obiettivo per lui non voglio accontentarmi mai… voglio il meglio. Per questo abbiamo optato per l’IC, perché tenere le sole protesi sarebbe stato come accontentarci e limitarlo, perché la sordità non dipende da noi e invece se lo avessimo limitato alle sole protesi sarebbe stata una nostra colpa e un giorno ci avrebbe chiesto il perché e sarebbe stata davvero colpa nostra. (I.)

Fase 5: Accettazione

Prima di arrivare all’accettazione del problema è necessario del tempo, infatti dai racconti è emerso che i genitori con bambini più piccoli avevano ancora difficoltà ad accettare il deficit, al contrario i genitori di bambini più grandi, che avevano già superato la lunga e faticosa fase di riabilitazione, mostravano un diverso e più positivo approccio alla loro condizione. In particolare, sono emerse parole come percorso, avventura e crescita. Per molti di loro la sordità del proprio figlio è stato definito come una “bella avventura”, un motivo di crescita personale e famigliare.

Le figure di riferimento

La scoperta della sordità del proprio figlio implica dunque una situazione inaspettata e provoca un grande vuoto paragonabile a un lutto. Infatti, la diagnosi fa crollare le aspettative che la famiglia si è costruita nel corso della gravidanza, questo scontro con la realtà richiederà che la famiglia si ristrutturi e si impegni a sostituire l’immagine del bambino sano con quella più realistica del bambino deficitario (Curti, 2015). Questa transizione non avviene in modo veloce, né semplice perché i genitori devono confrontarsi con una nuova realtà (Carchio, 2009). 

Di fondamentale importanza nel processo di elaborazione risultano essere le figure di riferimento per le famiglie, che vanno da professionisti medici come audiometristi e audiologi, a logopedisti, educatori e psicologi. Sulla base delle testimonianze raccolte si ritiene che la figura dello psicologo sia carente. Considerando l’importanza di una elaborazione adeguata per il benessere del bambino sordo e della sua famiglia, sarebbe auspicabile che venga inserito uno psicologo nelle equipe che si occupano di sordità pediatrica nell’ottica di supportare le famiglie nell’elaborazione della diagnosi di sordità, che li accompagni nella gestione delle emozioni e li sostenga nelle molteplici decisioni che devono prendere. 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Aulagnier, P. (1984). L’Apprentihistorien et le mìtre sorcier. Du discours identificant au discours délirant. Paris: Presses Universitaires de France. 
  • Bacchini, D., Valerio, P. (2000). Le parole del silenzio: le problematiche emozionali della sordità
  • Boothroyd, A., Gatty, J. (2012). The Deaf Child in a Hearing Family: Nurturing Development. San Diego: Plural Publishing. 
  • Carchio, R. (2009). Ruolo genitoriale. Linguaggio in circostanze atipiche. Dispensa del corso di laurea magistrale in Teoria e tecnologia della comunicazione. Milano: Facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca.
  • Curti, A. (2006). Competenza sociale e sordità. (Tesi di Laurea in Psicologia. Università di Parma).
  • Curti, A. (2015). La sordità nelle relazioni familiari e nella relazione terapeutica. Cambia-menti. Rivista dell’Istituto di Psicoterapia Sistemica Integrata, pp 43-51. 
  • Ferrari, M. (2008). Insieme: percorsi di integrazione nella lotta alla sordità. Ravenna: Claudio Nanni Editore.
  • Harvey, M.A. (2003). Psychoterapy with Deaf and Hard of Hearing Persons: A Systemic Model. Lawrence Erlbaum Associates. Roma: Edizioni scientifiche.
  • Kubler-Ross E. (1969). On death and dying. New York: Macmillan.
  • Maragna, S. (2008). La sordità: educazione, scuola, lavoro e integrazione sociale. Milano: Hoeply.
  • Prosser, S., Martini, A. (2013). Argomenti di Audiologia. Omega Edizioni
  • Rinaldi, P., Tomasuolo, E., Resca, A. (2018). La sordità infantile: nuove prospettive di intervento. Trento: Erikson.
  • Shontz F. (1967). Reaction to Crisis. Volta Review, 69: 405-411. 
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