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John Bowlby e la teoria dell’attaccamento – Introduzione alla Psicologia

La teoria dell’attaccamento nasce in seguito ad attente e ripetute osservazioni effettuate nei confronti dei bambini, più in generale dei mammiferi, durante i primi anni di vita; il più grande sostenitore e studioso di questa teoria è stato John Bowlby, considerato un tra i più grandi psicoanalisti del ventesimo secolo.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

John Bowlby sosteneva che: “l’ attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba” (Bolwby, 1982). La teoria dell’attaccamento, inserita nell’ottica sistemica, etologica ed evoluzionista, propone un nuovo modello psicopatologico in grado di dare indicazioni generali su come la personalità di un individuo cominci ad organizzarsi fin dai primi anni di vita. La teoria dell’attaccamento fornisce un valido supporto per lo studio di fenomeni legati a storie infantili di gravi abusi e trascuratezza, correlate con lo sviluppo di un ampio spettro di disturbi di personalità, sintomi dissociativi, disturbi d’ansia, depressione e abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti.

La vita di John Bowlby

John Bolwby nasce a Londra il 26 febbraio del 1907. Suo padre, il generale maggiore Sir Anthony Bowlby, era un medico chirurgo e nominato chirurgo reale di re Edoardo VII. John Bolwby durante la carriera universitaria vinse diversi premi e conseguì la laurea prima in scienze precliniche e poi in psicologia.

Successivamente, John Bowlby iniziò a lavorare in una scuola all’avanguardia per bambini, dove entrò in contatto con bambini disturbati, le cui difficoltà derivavano dalla loro infanzia infelice e frammentata. Contemporaneamente, incontrò John Alford, il quale consigliò a John Bowlby di recarsi a Londra per seguire il training in psicoanalisi.

Nell’autunno del 1920 John Bowlby tornò a Londra seguendo il suggerimento di Alford e nel 1933, terminati gli studi medici presso la University College Hospital, frequentò il tirocinio in psichiatria; nel 1936 fu assegnato alla Child Guidance Clinic di Londra fino al 1940, anno in cui diventò psichiatra dell’esercito britannico. Dopo la guerra, John Bowlby fu nominato vice direttore di Jock Sutherland della prestigiosa Tavistock Clinic di Londra, con lo specifico compito di sviluppare un dipartimento infantile.

Nel 1950, su incarico ricevuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, elaborò uno studio sulla salute mentale dei bambini orfani o privati della loro famiglia d’origine.

John Bowlby ha dedicato gli anni dal 1964 al 1979 alla stesura della sua imponente trilogia: Attaccamento (1969), Separazione (1973) e Perdita (1980). Egli ricoprì molte cariche prestigiose e importanti posti di consulenza, ricevette molte onorificenze a livello mondiale. Andò in pensione dal National Health Service e dal Medical Research Council nel 1972, rimanendo però alla Tavistock Clinic.

Nel 1980 fu professore all’University College of London e le sue conferenze furono trascritte e raccolte in libri come, “Costituzione e rottura dei legamenti affettivi” e in “Una base sicura”. Sempre mentalmente e fisicamente attivo, all’età di settantanni iniziò la psicobiografia di Darwin, da lui sempre ammirato, pubblicata pochi mesi prima della sua morte. Il suo ottantesimo compleanno fu celebrato a Londra con una conferenza alla quale parteciparono in moltissimi. Tre anni dopo ebbe un ictus mentre si trovava nella sua cità Skye con la famiglia.

Pochi giorni dopo, il 2 settembre 1990, John Bowlby morì. Fu seppellito a Trumpan, in un piccolo cimitero vicino a Waternish, luogo selvaggio dove spesso faceva lunghissime passeggiate; era stato egli stesso a chiedere di essere sepolto in quel posto.

La teoria dell’Attaccamento

Il comportamento di attaccamento si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra persona, figura di attaccamento, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Secondo John Bowlby prendere in braccio il proprio piccolo che piange è la risposta più adeguata, da parte della madre, ad un segnale di disagio espresso dal bambino.

John Bowlby, rifiutò il modello di sviluppo di Freud secondo il quale il bambino avanza dalla fase orale a quella anale per giungere a quella genitale, e affermò che il legame madre-bambino non si basa solo sulla necessità di nutrimento del piccolo, ma sul riconoscimento delle emozioni. John Bowlby intuì che l’ attaccamento riveste un ruolo centrale nelle relazioni tra gli esseri umani, dalla nascita alla morte. Egli dimostrò come lo sviluppo armonioso della personalità di un individuo dipenda principalmente da un adeguato attaccamento alla figura materna o un suo sostituto.

John Bowlby formulò la teoria dell’attaccamento dopo aver letto i lavori etologici di Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen. Difatti, tale teoria prende spunto dagli studi etologici sull’imprinting e dagli esperimenti di Harlow con i macachi Rhesus fornendo a John Bowlby il fondamento scientifico che egli riteneva necessario per evolvere dalla impronta psicoanalitica. Secondo la teoria di Lorenz i piccoli di anatroccolo, privati della figura materna naturale, seguivano un essere umano o qualsiasi altro oggetto, nei confronti del quale sviluppavano un forte legame che andava oltre la semplice richiesta di nutrizione, dato che questo tipo di animale si nutre autonomamente di insetti. Harlow, a sua volta, aveva dimostrato come, in una serie di esperimenti, i piccoli di scimmia venivano messi a confronto con una madre fantoccio, fatta di freddo metallo, alla quale era attaccato un biberon e con un’altra madre fantoccio senza biberon, ma coperta di una stoffa morbida, spugnosa e pelosa. Le piccole scimmie mostrarono una chiara preferenza per la madre di stoffa passando fino a diciotto ore al giorno attaccate ad essa, come avrebbero fatto con le loro madri reali.

John Bowlby identifica quattro fasi attraverso le quali si sviluppa il legame di attaccamento:

  • Dalla nascita alle otto-dodici settimane: il bambino non è in grado di discriminare le persone che lo circondano nonostante riesca a riconoscere, attraverso l’odore e la voce, la propria madre. Successivamente, il bambino riuscirà a mettere in atto modi di relazionarsi sempre più selettivi, soprattutto con la figura materna;
  • Sesto – settimo mese: il bambino è maggiormente discriminante nei confronti della persone con le quali entra in contatto;
  • Dal nono mese: l’ attaccamento con la figura di attaccamento diventa stabile e visibile, richiama l’attenzione della figura di riferimento e la usa come base per esplorare l’ambiente, ricercando sempre  protezione e consensi.
  • Il comportamento di attaccamento si mantiene stabile fino ai tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto essendo, però, sempre in compagnia di figure di riferimento secondarie, ed avere la certezza che la figura di riferimento faccia sempre e presto ritorno.

John Bowlby riteneva che l’ attaccamento si sviluppasse attraverso alcune fasi, e che possa essere di tipo sicuro, quando il bambino sente di avere dalla figura di riferimento protezione, senso di sicurezza, affetto; di tipo insicuro quando il bambino nel rapporto con la figura di attaccamento prevalgono instabilità, eccessiva prudenza, eccessiva dipendenza, paura dell’abbandono.

Una base sicura

Il concetto di base sicura è stato elaborato da John Bowlby nel 1969, osservando il comportamento dei macachi e quello dei bambini nei primi mesi in cui notò la presenza di schemi di comportamento identici. In particolare, verificò come la madre, e la relazione con lei, fornisce al bambino la base sicura dalla quale può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno. Quando il bambino avverte qualche minaccia da parte del mondo esterno, cessa l’esplorazione per raggiungere prontamente la madre per poter ricevere conforto e sicurezza.

Per John Bowlby i legami emotivamente sicuri hanno un valore fondamentale per la sopravvivenza. Egli sottolinea anche che il conflitto è una dimensione ordinaria della condizione umana e che la malattia psichica è data dall’incapacità di affrontare efficacemente i conflitti.

Mary Ainsworth ideò nei tardi anni ’60 un valido strumento di indagine, la Strange Situation, per classificare i tre pattern di base, riscontrabili in bambini di età prescolare. La Ainsworth dall’osservazione di gruppi di bambini che si ricongiungevano alla madre, dopo essere stati separati, distinse quanto segue: un primo gruppo manifestava sentimenti positivi verso la madre, un secondo mostrava relazioni marcatamente ambivalenti ed un terzo intratteneva con la madre relazioni non espressive, indifferenti o ostili.

Indagare l’attaccamento nei bambini: la Strange Situation

La strange situation si concretizza in venti minuti di osservazione in cui si trovano in una stanza il bambino, la mamma e un estraneo. In quella occasione si possono osservare i diversi comportamenti e le reazioni emotive del bambino in presenza della madre, al momento della separazione da questa ed in compagnia di un estraneo.

Da qui si dedussero diversi stili di attaccamento: sicuro, insicuro ansioso ambivalente e insicuro evitante (e in un secondo momento anche lo stile disorganizzato).

Lo stile di attaccamento che un bambino svilupperà dalla nascita in poi dipende in grande misura dal modo in cui i genitori, o altre figure parentali, interagiscono e da cui si svilupperà uno dei seguenti stili di attaccamento:

  • Stile Sicuro: il bambino si fida e si affida al supporto della figura di attaccamento, sia in condizioni normali sia di pericolo. In questo modo, il bambino si sente libero di poter esplorare il mondo. Tale stile è determinato dalla presenza di una figura sensibile ai segnali del bambino, disponibile e pronta a concedergli protezione nel momento in cui il bambino lo richiede.I tratti che caratterizzano questo stile sono: sicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di essere amabile, capacità di sopportare distacchi prolungati, nessun timore di abbandono, fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri. L’emozione predominante è la gioia.
  • Stile Insicuro Evitante: questo stile è caratterizzato dalla convinzione del bambino che, alla richiesta d’aiuto, non solo non incontrerà la disponibilità della figura di attaccamento, ma addirittura verrà rifiutato. Così facendo, il bambino costruisce le proprie esperienze facendo esclusivo affidamento su se stesso, senza il sostegno degli altri, ricercando l’autosufficienza anche sul piano emotivo, con la possibilità di arrivare a costruire un falso Sé. Questo stile deriva da una figura di attaccamento che respinge costantemente il figlio ogni volta che le si avvicina per la ricerca di conforto o protezione. I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere amato, percezione del distacco come “prevedibile”, tendenza all’evitamento della relazione per convinzione del rifiuto, apparente esclusiva fiducia in se stessi e nessuna richiesta di aiuto. Le emozioni predominanti sono tristezza e dolore.
  • Stile Insicuro Ansioso Ambivalente: il bambino non ha la certezza che la figura di attaccamento sia disponibile a rispondere ad una richiesta d’aiuto. Per questo motivo l’esplorazione del mondo è esitante, ansiosa e il bambino sperimenta alla separazione angoscia. Questo stile è promosso da una figura d’attaccamento che è disponibile in alcune occasioni ma non in altre e da frequenti separazioni, se non addirittura da minacce di abbandono, usate come mezzo coercitivo. I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere amabile, incapacità di sopportare distacchi prolungati, ansia di abbandono, sfiducia nelle proprie capacità e fiducia nelle capacità degli altri.

Dalle osservazioni derivanti della Strange Situation è emerso che alcuni bambini manifestavano comportamenti non riconducibili a nessuno dei tre pattern descritti. Di conseguenza, è stato definito un quarto stile di attaccamento da parte di Main e Salomon: disorientato/disorganizzato.

  • Stile Disorientato/Disorganizzato: il bambino si mostra disorientato/disorganizzato, ovvero manifesta ansia, pianto, si butta sul pavimento o porta le mani alla bocca con le spalle curve, gira in tondo, manifesta comportamenti stereotipati, e assume espressioni simili alla trance in risposta alla separazione dalla figura di attaccamento. Sono anche da considerarsi casi di attaccamento disorganizzato quelli in cui i bambini si muovono verso la figura di attaccamento con la testa girata in altra direzione, in modo da evitarne lo sguardo.

Tutti i bambini sviluppano entro i primi 8 mesi di vita uno stile di attaccamento, che si completa entro il loro secondo anno. L’indicatore per eccellenza che il legame di attaccamento è stabilito, si identifica nell’angoscia da separazione. Possono verificarsi attaccamenti multipli, che nel corso dello sviluppo sono suscettibili di variazioni.
Non è chiaro quando avvenga esattamente il passaggio dall’ attaccamento genitoriale a quello tra i pari. Nell’adolescenza, però, l’ attaccamento attraversa un periodo di transizione. L’adolescente si allontana intenzionale dalla relazione con i genitori e familiari, per costruire relazioni nuove con coetanei, relazioni amicali e amorose.

I Modelli Operativi Interni

I Modelli Operativi Interni sono rappresentazioni mentali che, secondo John Bowlby, si costruiscono nel corso dell’interazione col proprio ambiente. Essi consentono di valutare e analizzare le diverse alternative possibili, scegliendo quella ritenuta migliore per affrontare le difficoltà che si verificano. Quindi permettono al bambino, e poi all’adulto, di prevedere il comportamento dell’altro guidando le risposte, soprattutto in situazioni di ansia o di bisogno.

Lo sviluppo dei Modelli Operativi Interni utilizza come cornice teorica lo sviluppo senso-motorio di Jean Piaget, riferendosi, principalmente, ai processi di assimilazione e di accomodamento, tipici delle prime fasi dello sviluppo del bambino. Gli schemi interiorizzati del bambino, nei primi anni di vita, possono continuamente essere ridefiniti sulla base dei cambiamenti della realtà esterna e della relazione con la figura di attaccamento che muta con il tempo e con lo sviluppo.

 

 

Per John Bowlby è importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata, poiché da questo deriva un buono sviluppo della persona. Se si manifestassero in età adulta stati di angoscia e depressione, è possibile possano derivare da periodi in cui la persona ha fatto esperienza infantile di angoscia e distacco dalla figura di riferimento. Quindi, il modello di attaccamento, sviluppatosi durante i primi anni di vita, deriva dalla relazione con la figura di riferimento e influenzerà la relazione con la stessa anche durante l’infanzia. Successivamente, diviene un aspetto su cui si fonda l’assetto personologico adulto e influenzerà le relazioni e i rapporti futuri.

La separazione precoce dalla figura di riferimento, evento traumatico per un bambino, può avere diverse ripercussioni sulla vita dell’individuo a seconda della durata e del periodo in cui si verifica la separazione.

La separazione dalla figura di riferimento si snoda, secondo John Bowlby, in tre momenti: la protesta per la separazione, la disperazione dovuta all’assenza della figura e il distacco finale. La separazione può risultare meno dolorosa se vi sono alcune circostanze favorevoli come la presenza di figure sostitutive o di un ambiente accogliente.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Ipocondria. Guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo – Recensione del libro

Le persone che soffrono di ipocondria o disturbo d’ansia per la salute, infatti, sono costantemente preoccupate di avere una malattia grave e cercano informazioni e rassicurazioni costanti sui sintomi che provano o sulle malattie temute. Come reazione a queste paure, le persone affette da ipocondria si sottopongono a numerosi esami medici, che tuttavia non rassicurano davvero il paziente, se non nel breve periodo. Alcune persone, al contrario, sono talmente spaventate dall’idea di avere un problema grave da evitare qualunque visita medica o accertamento, pur continuando a preoccuparsi.

 

Ipocondria: la preoccupazione costante di essere affetti da una grave malattia

La preoccupazione per la propria salute o per quella delle persone care è un’esperienza assolutamente comune per la maggior parte delle persone. A chi non è capitato di provare ansia in attesa del referto di un esame medico importante? O di preoccuparsi della propria morte o di quella di persone care apprendendo la notizia della morte di un conoscente per una grave malattia? Preoccuparsi e provare ansia riguardo alla salute e alla morte è assolutamente normale.
Ma cosa succede quando una persona è così preoccupata da stare in costante ascolto dei piccoli segnali del proprio corpo, temendo che siano sintomo di qualche grave malattia, ricorrendo a controlli continui e sottoponendosi a esami medici ripetuti anche invasivi, ignorando le rassicurazioni del medico e delle persone che le stanno intorno?

Quando queste preoccupazioni assumono proporzioni tali da far stare molto male al solo pensiero di avere una malattia e incidono pesantemente sulla qualità della vita, allora ci si trova di fronte ad un disturbo clinico.

Come Leveni, Lussetti e Piacentini ben descrivono nel loro volume, le persone che soffrono di ipocondria o disturbo d’ansia per la salute, infatti, sono costantemente preoccupate di avere una malattia grave e cercano informazioni e rassicurazioni costanti sui sintomi che provano o sulle malattie temute. Come reazione a queste paure, le persone affette da ipocondria si sottopongono a numerosi esami medici, che tuttavia non rassicurano davvero il paziente, se non nel breve periodo. Alcune persone, al contrario, sono talmente spaventate dall’idea di avere un problema grave da evitare qualunque visita medica o accertamento, pur continuando a preoccuparsi.

Questo disturbo è stato per lungo tempo ignorato e minimizzato dalla psichiatria generale e ciò ha influito negativamente sulla vita di tante persone sofferenti che non hanno potuto così ricevere un trattamento adeguato. Il termine, infatti, ha assunto nel corso del tempo una connotazione negativa, facendo pensare alle persone che soffrono di questo disturbo come a dei “malati immaginari” che traggono gratificazione dal presentarsi come malati.

La realtà, però, è molto diversa: le persone affette da questo disturbo, meglio descritto come disturbo d’ansia per la salute, sono realmente sofferenti e la loro vita è pesantemente condizionata e menomata per via delle continue preoccupazioni e dei conseguenti tentativi di controllo e rassicurazione.

L’andamento del disturbo è di solito cronico e disabilitante, se non adeguatamente trattato. Negli ultimi anni, tuttavia, è stata ampiamente dimostrata l’efficacia di trattamenti psicoterapici specifici e, se pur in misura minore, anche di quelli farmacologici. In particolare i risultati indicano una forte evidenza a sostegno dell’efficacia delle psicoterapie comportamentali o cognitivo-comportamentali, con riduzione dei sintomi, miglioramento del benessere soggettivo e, aspetto non meno importante sul piano sociale, riduzione significativa dei costi a carico del sistema sanitario.

Questo manuale, dunque, si propone da un lato di fornire ai clinici un utile strumento teorico e pratico per riconoscere e trattare adeguatamente pazienti che soffrono del disturbo d’ansia per la salute e dall’altro di accompagnare i pazienti stessi nel percorso di conoscenza del problema, dando loro informazioni preziose e pratiche, suffragate da argomentazioni scientificamente rigorose, e aiutandoli ad affrontare le proprie preoccupazioni e a uscire dai circoli viziosi che mantengono il disturbo.

Il modello teorico dell’ipocondria

Gli autori illustrano il modello interpretativo dell’ipocondria di Salkovskis e Warwick (riportato e tradotto per intero in un capitolo del volume), due fra i più importanti e autorevoli clinici e ricercatori a livello internazionale, che ipotizza come il nucleo centrale di questo disturbo sia rappresentato dalla tendenza a interpretare erroneamente ogni segnale proveniente dal corpo e altre informazioni ritenute rilevanti per la salute come prove dell’esistenza di una grave malattia.

Secondo questo modello, a mantenere le interpretazioni erronee è l’interazione fra diversi elementi, che gli autori del volume sintetizzano in modo efficace ed evocativo nella metafora del “fiore dell’ipocondria”: le radici del fiore sono costituite da fattori genetici, biologici, legati all’ambiente educativo e agli eventi di vita e rappresentano la vulnerabilità che predispone la persona a sviluppare il disturbo; alla base del gambo del fiore si collocano gli eventi critici e il gambo su cui si regge il fiore è dato dalle credenze superstiziose e convinzioni di base sulle malattie; al centro del fiore c’è la preoccupazione e i petali sono formati dai diversi circoli viziosi che, nel tentativo di sedare la preoccupazione, mantengono invece il problema.

Questi circoli viziosi sono illustrati nel dettaglio e riguardano la ricerca di informazioni inerenti la malattia temuta, le continue ricerche di rassicurazione, l’evitamento, i continui controlli, l’eccessiva attenzione sul corpo, l’ansia e l’evitamento di attività fisica. A innaffiare il fiore dell’ipocondria ci pensa il rimuginio che porta il paziente a farsi e a guardare il proprio “film dell’orrore”, immaginando sempre più nel dettaglio tutto ciò che di negativo potrebbe capitare, in una spirale sempre più drammatica e catastrofica.

Il trattamento dell’ipocondria

La seconda parte del volume è un vero e proprio manuale di auto-aiuto, da utilizzare da soli o con l’aiuto del terapeuta durante il trattamento, in cui i pazienti sono accompagnati passo dopo passo nell’identificazione di tutti gli elementi che compongono il loro personale fiore dell’ipocondria. Ogni capitolo comprende dettagliate schede di lavoro per i compiti a casa grazie ai quali i pazienti possono imparare a esplorare gradualmente le loro convinzioni disfunzionali e a confrontarsi con l’idea di fondo che sostiene la terapia: il problema non è dato dall’avere una malattia fisica, ma dalla convinzione e dalla preoccupazione di esserne affetto e queste paure hanno conseguenze negative importanti, inclusi forse i suoi stessi sintomi, creando disabilità e compromissione della qualità di vita.

L’obiettivo del trattamento, infatti, consiste nel mettere la persona con un disturbo d’ansia per la salute nella condizione di considerare e adottare convinzioni più funzionali e meno catastrofiche, aiutandola a esplorare modi alternativi e meno rigidi di dare senso alle proprie esperienze.

La difficile relazione terapeutica con i pazienti ipocondriaci

I dati di ricerca sono incoraggianti e dimostrano l’efficacia di questo tipo di trattamento, nonostante si tratti di un disturbo grave e difficile da trattare.
Parte della difficoltà, tuttavia, sta nell’accesso di questi pazienti agli specialisti adeguati. Queste persone, infatti, essendo convinte di avere un disturbo medico, non si rivolgono a psichiatri o psicoterapeuti, ma al medico di base o a specialisti di varie branche della medicina, spesso rimbalzati dall’uno all’altro alla ricerca di una diagnosi che “finalmente” confermi i loro sospetti di avere una grave malattia.
L’invio, dunque, è un tema molto delicato e dovrebbe essere gestito con la massima collaborazione da parte di tutte le figure curanti, per facilitare la difficile accettazione della diagnosi.
Gli autori dedicano ampio spazio a questo delicato argomento, dando indicazioni pratiche di grande utilità su come coinvolgere medici e specialisti nel trattamento del disturbo.

Il ruolo dei familiari

Viene anche approfondito il cruciale ruolo dei familiari, rilevando l’opportunità di un loro coinvolgimento diretto nella terapia, in modo che possano da un lato aiutare il paziente a non ricadere nei circoli viziosi, evitando per esempio di cedere alle richieste di rassicurazione, e dall’altro trovare ascolto e un aiuto per “sopravvivere” loro stessi alla difficile relazione con persone affette da questo disturbo.

Conclusioni

Il manuale di Leveni, Lussetti e Piacentini rappresenta in definitiva un tentativo sicuramente ben riuscito di sintetizzare e rendere fruibile a clinici e pazienti ciò che le ricerche hanno dimostrato negli ultimi anni rispetto all’ipocondria in termini di meccanismi d’azione e delle ricadute che queste scoperte hanno avuto nel generare trattamenti efficaci e sperimentati in vari setting clinici. Di particolare merito, a mio avviso, è la seconda parte del volume, quella dedicata ai pazienti: in queste pagine, concepite appunto come un quaderno di lavoro, gli autori offrono un aiuto concreto nell’accompagnare con empatia e rispetto le persone affette dal disturbo d’ansia per la salute attraverso il difficile cammino di accettazione della diagnosi, riconoscimento dei meccanismi di mantenimento e cambiamento dei significati attribuiti alle varie sensazioni fisiche, alle informazioni mediche o alle cognizioni intrusive negative sulla salute.

Emotion Acceptance Behavior Therapy (EABT): un nuovo possibile trattamento per l’anoressia nervosa nei soggetti adulti?

L’emotion acceptance behavior therapy (EABT) è una strategia psicoterapeutica ambulatoriale progettata specificamente per il trattamento di adulti e tardo adolescenti con Anoressia Nervosa (Wildes et al., 2011).

 

I presupposti teorici dell’ EABT per il trattamento dell’ anoressia

Nel corso dell’ultimo decennio sono avvenuti importanti progressi nella gestione dell’ anoressia nervosa (AN) in adolescenza (Lock et al., 2009); tuttavia una significativa minoranza di soggetti non ottiene benefici diretti dal trattamento (Eisler et al., 2007) e il passaggio ad altre forme di disturbo alimentare è piuttosto comune (Tozzi et al., 2005). Per di più, i trattamenti per i soggetti adulti con Anoressia restano ancora in fase di ricerca e sperimentazione (Wilson et al., 2007).

L’emotion acceptance behavior therapy (EABT) è una strategia psicoterapeutica ambulatoriale progettata specificamente per il trattamento di adulti e tardo adolescenti con Anoressia (Wildes et al., 2011).

In accordo con i primi scritti di Bruch (1988) e Slade (1982) e con le più recenti formulazioni dell’ anoressia nervosa e dei disturbi alimentari (vedi Fairburn, 2008; Schmidt et al., 2006), L’EABT si basa su un modello teorico che enfatizza il ruolo dei sintomi anoressici nel facilitare l’evitamento emozionale. Il modello postula che le persone con Anoressia mostrano spesso caratteristiche individuali, come tratti di personalità evitanti e problemi di ansia e umore, che rendono le loro esperienze emotive negative e incontrollabili. Queste esperienze emozionali negative sfociano nell’evitamento emozionale, cioè nel desiderio di evitare di sperimentare sensazioni fisiche, pensieri, impulsi e comportamenti correlati agli stati emotivi. I sintomi dell’ Anoressia (come l’eccessiva restrizione dietetica, i comportamenti di compensazione, l’eccessivo esercizio fisico, i pensieri rimuginanti su cibo, corpo e peso) vengono visti come elementi facilitanti l’evitamento emozionale, in quanto, da un lato, prevengono l’insorgere di emozioni negative e, dall’altro, riducono l’intensità e la durata delle reazioni emotive.

L’EABT ipotizza la presenza di due principali problemi correlati all’evitamento emozionale: in primo luogo, sebbene i sintomi possano ridurre le emozioni negative nel breve termine, nel lungo periodo gli sforzi di evitare i vissuti emotivi incrementa la frequenza e l’intensità delle reazioni emotive negative. Ciò a sua volta alimenta il circolo vizioso di vulnerabilità emotiva, evitamento e disturbo alimentare. Secondariamente, dal momento che i soggetti passano molto tempo focalizzati sulle loro ruminazioni e su tutto ciò che riguarda alimentazione, corpo e peso, i loro obiettivi nelle restanti aree di vita vengono spesso offuscati e messi da parte (Wildes et al., 2011).

Come funziona l’ EABT

L’EABT si propone pertanto di trattare non solo i sintomi, ma anche l’evitamento emozionale e la disconnessione dalle attività sociali, ricreative ed affettive.

L’EABT combina interventi comportamentali standard, rivolti alla gestione dei sintomi clinici (come il monitoraggio del peso corporeo e la prescrizione di un’alimentazione regolare e bilanciata) con tecniche psicoterapeutiche rivolte all’aumento della consapevolezza emotiva, alla riduzione dell’evitamento emozionale e all’incoraggiamento della ripresa di attività di valore e relazioni interpersonali.

L’EABT ha avuto forti influenze dalle terapie comportamentali di terza generazione, come l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), la DBT (Dialectical Behavior Therapy) e la MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy) (Hayes, 2004). Queste terapie sono simili agli approcci cognitivo comportamentali nell’utilizzo di strategie di cambiamento comportamentali supportate empiricamente (come le esposizioni, l’analisi comportamentale); tuttavia le terapie di terza generazione si distinguono per l’enfasi posta sul contesto e sulle funzioni dei fenomeni psicologici, piuttosto che sulla modificazione cognitiva dei sintomi. Pertanto, l’EABT si propone di aiutare i pazienti ad identificare le funzioni che assolvono i sintomi dell’ Anoressia, compresa la correlazione con l’evitamento emozionale, e di promuovere strategie alternative (come lo sviluppo di tolleranza e di valore alle esperienze emotive negative) per favorire la riconnessione con le attività quotidiane e le relazioni affettive. Non vengono invece utilizzati gli strumenti cognitivi di ristrutturazione dei pensieri disfunzionali.

L’EABT si sviluppa in tre fasi. Nella prima fase, come in altre psicoterapie, il focus è indirizzato a motivare il paziente al trattamento e costruire una buona alleanza terapeutica. Lo scopo principale è quello di creare una formulazione personalizzata e condivisa del disturbo con particolare enfasi sulla relazione tra sintomi ed esperienza emotiva, illustrando come i comportamenti agiti servano a disconnettere il paziente dall’emotività negativa, ma anche dalle relazioni e dagli affetti. Sulla base di questo modello iniziale vengono fissati gli obiettivi del trattamento: 1) mantenimento del peso (e solo successivamente, recupero di peso); 2) riduzione dei sintomi tipici del disturbo alimentare, 3) accettazione delle emozioni e di altre esperienze evitate; 4) coinvolgimento interpersonale e relazionale.

Lo scopo della fase due è quello di aiutare il paziente a raggiungere gli obiettivi attraverso l’uso di tecniche psicoterapeutiche adattate dalle terapie comportamentali di terza generazione (mindfulness, accettazione e contatto con il momento presente). Ad esempio, quando il paziente si sentirà ansioso nei confronti di un determinato alimento, le strategie mindfulness l’aiuteranno ad osservare, descrivere e tollerare le sensazioni, i pensieri e le sensazioni fisiologiche relative a questa esperienza (piuttosto che sfidare la validità delle sue credenze, come avviene per le ristrutturazioni cognitive). In modo simile, l’esposizione graduata può aiutare il paziente ad aumentare la capacità di fronteggiare alcune situazioni che provocano reazioni aversive (come gli ambienti sociali). Infine, l’auto-monitoraggio viene usato per aiutare il paziente ad identificare il legame che unisce sintomi e reazioni emotive, o sintomi e distacco dalle relazioni.

La terza e ultima fase del protocollo EABT si focalizza sul consolidamento degli obiettivi, sulla prosecuzione delle pratiche comportamentali e sulla pianificazione della chiusura del trattamento. (Wildes et al., 2011).

I risultati ottenuti con l’applicazione di questo modello appaiono stimolanti ma necessitano di ulteriori approfondimenti e ricerche. Tuttavia, i promettenti esiti ottenuti finora fanno aumentare l’interesse nell’utilizzo delle strategie mindfulness e degli interventi basati sull’accettazione per il trattamento di adulti con anoressia nervosa (Baer et al., 2005; Berman et al., 2009; Wildes et al., 2011).

Riaccendere la passione di coppia guardando…immagini di cuccioli

Una delle sfide più difficili per due partners è mantenere viva la passione di coppia e la soddisfazione coniugale negli anni poiché, anche nelle relazioni soddisfacenti, questo aspetto tende ad affievolirsi.

 

Uno studio pubblicato su Psychological Science (2017) ha dimostrato l’efficacia di un intervento non convenzionale per riaccendere la scintilla coniugale e ritrovare la passione di coppia: immagini di cuccioli!

Soddisfazione coniugale: il condizionamento semplice per ritrovare la passione di coppia

L’ipotesi alla base dell’intervento consisteva nel verificare se fosse possibile migliorare la soddisfazione coniugale modificando le associazioni automatiche che ogni partner presentava quando pensava al coniuge. La teoria di riferimento prevedeva che i sentimenti nei confronti del coniuge potessero dipendere dall’associazione di quest’ultimo con affetti positivi o negativi, derivanti dal partner stesso o da stimoli non strettamente legati ad esso, come immagini di cuccioli.

Il paradigma utilizzato era il cosiddetto “evaluative conditioning”, ovvero una tipologia di condizionamento semplice che comporta un’associazione tra immagini positive (cuccioli) e quelle del proprio partner.

Il campione era costituito da 144 coppie sposate assegnate in modo randomizzato ad un gruppo sperimentale e ad uno di controllo. Nel primo caso, alle coppie venivano presentate una serie di immagini relative al volto del proprio coniuge bilanciate con altre ad accezione positiva (cuccioli), nel secondo caso invece il volto del partner era presentato insieme a stimoli neutri (es. immagine di un bottone). I soggetti hanno svolto questo compito ogni tre giorni per sei settimane. Inoltre, ogni due settimane per otto settimane, è stato misurato in modo implicito l’atteggiamento reciproco di ogni partner richiedendo loro di indicare più velocemente possibile il tono emotivo di una parola positiva o negativa dopo aver visto una serie di volti, inclusa quella del coniuge.

I risultati hanno dimostrato che tale tecnica associativa funzionava perché i soggetti del gruppo sperimentale (esposti all’associazione di immagini coniuge – cuccioli), rispetto al gruppo di controllo, mostravano un maggior numero di risposte automatiche positive nei confronti del partner lungo il corso dell’intervento.

E’ necessario, però, che questi dati non vengano sopravvalutati tralasciando l’importanza del comportamento di ogni partner ai fini della soddisfazione coniugale e della passione di coppia, poiché l’interazione tra i coniugi è il primo fattore fondamentale nella formazione delle associazioni automatiche.

In ogni caso questi risultati forniscono l’evidenza di un meccanismo di cambiamento della soddisfazione coniugale, suggerendo una nuova tipologia di intervento per le relazioni di coppia: l’atteggiamento tra partner può evolversi anche semplicemente attraverso l’esposizione passiva ad informazioni.

 

 

Dieci punti per resistere alle influenze sociali indesiderate

Nell’ultimo capitolo del libro L’effetto Lucifero Zimbardo prova ad esaminare cos’è l’eroismo, a dare una definizione di eroe ed a dare consigli, tramite un programma in dieci passi, su come riuscire a resistere alle influenze sociali mantenendo una propria indipendenza di pensiero.

Cesare Basilico – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Nel libro “L’effetto LuciferoPhilip Zimbardo (2008) analizza le influenze sociali ed ambientali che contribuiscono ad elicitare nelle persone comportamenti considerati moralmente negativi e riprovevoli. Lo fa alla luce di un suo storico studio del 1971, l’esperimento della Prigione di Stanford, in breve tempo sfuggitogli di mano per l’intervento di forze che non aveva precedentemente considerato ed alle quali poi dedicherà gran parte dei suoi studi, compresa anche una sua esperienza come consulente nel processo a militari americani implicati nei casi di torture a prigionieri nel carcere di Abu Ghraib nel 2004.

Nell’ultimo capitolo del libro Zimbardo guarda al rovescio della medaglia e, a partire dalla conoscenza ipotizzata del funzionamento di tali meccanismi, prova ad esaminare cos’è l’eroismo, a dare una definizione di eroe ed a dare consigli, tramite un programma in dieci passi, su come riuscire a resistere alle influenze sociali mantenendo una propria indipendenza di pensiero. Tale argomento viene ripreso ed ampliato nell’ebook “Resisting Infulence”, scritto da lui stesso e da Cindy X. Wang (2006), presente in inglese sul sito http://www.lucifereffect.com.

Resistere alle influenze sociali: i dieci passi illustrati da Zimbardo

Questo programma in 10 passi mira ad incrementare la resistenza alle influenze sociali indesiderabili e, allo stesso tempo, a promuovere la resilienza personale e la virtù civica. Propone spunti utili a contrastare diverse strategie di influenza e fornisce dei modi semplici ed efficaci di farci fronte. Una buona capacità di resistenza nasce dallo sviluppo di tre caratteristiche chiave: la consapevolezza di sé, la sensibilità alle situazioni ed “il sapersela cavare”. Sono tre caratteristiche centrali per la maggior parte di queste strategie generali di resistenza. Ecco i dieci passi commentati direttamente da Zimbardo.

 “Ho fatto uno sbaglio!”

Iniziamo incoraggiando l’ammissione dei nostri errori, prima a noi stessi e poi agli altri. Accettiamo il fatto che errare è umano. Hai fatto un errore di giudizio; la tua decisione era sbagliata. Tu avevi ogni motivo di credere che fosse giusta quando l’hai scelta, ma ora sai che sbagliavi. Dì le quattro parole magiche: “Mi dispiace”; “Scusa”; “Perdonami”. Dì tra te e te che imparerai dai tuoi errori, crescerai grazie a loro. Non continuare a mettere denaro, tempo e risorse in cattivi investimenti. Vai avanti. Fare ciò riduce chiaramente il bisogno di giustificare o razionalizzare i nostri errori ed in tal modo riduce anche la possibilità di continuare supportare azioni malvagie o immorali. Confessare gli errori riduce la motivazione a ridurre la dissonanza cognitiva, essa evapora quando si entra onestamente in contatto con la realtà. Lasciare, piuttosto che perseverare, quando si ha torto ha un costo immediato, ma nel lungo termine porta sempre ad un guadagno.

Considera quanti anni la Guerra del Vietnam è continuata dopo che l’establishment militare e politico Statunitense, come il Segretario della Difesa Robert Mc Namara, conosceva perfettamente che era una guerra ingiusta e che non poteva essere vinta. Questa sciagurata resistenza ad ammettere un errore quante migliaia di vite è costata? Mentre il riconoscimento dell’errore e del fallimento le avrebbe potute salvare. E quanti benefici avrebbe portato il riconoscimento da parte dei leader politici dei loro errori in Iraq? Questa è ben più di una decisione politica per “salvarsi la faccia” negando gli errori, è un imperativo morale: salvare le vite dei soldati e  dei civili

“Io sono mindful”

In molte situazioni persone intelligenti fanno cose stupide perché non riescono a notare caratteristiche chiave nelle parole o nelle azioni degli “agenti di influenza” e si perdono indizi situazionali ovvi. Troppo spesso noi funzioniamo col pilota automatico, usando script superati che hanno funzionato per noi in passato; non ci fermiamo a riflettere se siano appropriati nel qui e ora. Seguendo il consiglio della ricercatrice di Harward Ellen Langer, noi dobbiamo trasformare il nostro stato usuale di disattenzione non concentrata in uno stato “mindful”, specialmente nelle nuove situazioni. Non esitare a svegliare la tua corteccia; nelle situazioni familiari le vecchie abitudini continuano a comandare anche se sono diventate obsolete o errate. Abbiamo bisogno di ricordarci di non vivere le nostre vite col pilota automatico, ma di prendere sempre un momento Zen per riflettere sul significato della situazione immediata, per riflettere prima di agire. Non andare mai incurante su sentieri pericolosi ed oscuri. Per risultati ancora migliori aggiungi il “pensiero critico” alla presenza mentale. Chiedi prove che supportino le asserzioni fatte; richiedi che le idee siano sufficientemente elaborate da poterti permettere di separare la retorica dalla sostanza. Prova a vedere se il fine giustifica i mezzi, anche se le cose dovessero andare male. Immagina i possibili finali con le probabili conseguenze delle azioni svolte nel presente. Rigetta le soluzioni semplici proposte per problemi complessi, sociali o personali che siano. Incentiva il pensiero critico nei bambini fin da quando son piccoli, informandoli delle pubblicità ingannevoli, delle affermazioni scorrette e delle prospettive distorte che si presentano dinanzi a loro. Aiutali a diventare consumatori di conoscenza più saggi e diffidenti.

“Io sono responsabile”

Assumersi la responsabilità delle proprie decisioni e azioni ci pone, nel bene e nel male, sul sedile di guida. Permettere agli altri di compromettere la nostra responsabilità, di diffonderla, ci porta direttamente sul sedile posteriore, e fa muovere la macchina in maniera sconsiderata senza qualcuno che la guidi veramente. Noi diventiamo più resistenti alle influenze sociali non desiderabili mantenendo sempre un senso di responsabilità personale e restando disposti ad essere ritenuti responsabili per le nostre azioni. L’obbedienza all’autorità è meno cieca se siamo consapevoli che la diffusione della responsabilità è solo un trucco perpetrato da noi stessi per nasconderci la nostra complicità individuale in azioni discutibili. La tua non conformità a norme di gruppi anti-sociali è salvaguardata fino a quando non permetti la dislocazione della responsabilità, quando ti rifiuti di suddividere la responsabilità nella gang, nella fratellanza, nel laboratorio, nel battaglione, nell’azienda. Immagina sempre un futuro dove le azioni di oggi saranno sotto processo e nessuno accetterà le tue suppliche: “Stavo solo eseguendo gli ordini!” o “Lo stavano facendo tutti!”.

“Io sono Me, il meglio che posso essere”

Non permettere agli altri di de-individuarti, di metterti in una categoria, in una scatola, in un slot, di trasformarti in un oggetto. Afferma la tua individualità: dichiara gentilmente il tuo nome e le tue credenziali, con voce forte e chiara. Insisti nel richiedere lo stesso comportamento agli altri. Cerca il contatto oculare (togli gli occhiali da sole) e offri informazioni riguardo te stesso che rinforzino la tua identità unica. Cerca un terreno comune con gli altri dominanti ed usalo per aumentare la loro percezione di similarità nei tuoi confronti. L’anonimato e la segretezza nascondono le azioni sbagliate e distruggono le connessioni umane. Queste condizioni sono l’humus dal quale può generarsi la deumanizzazione e, ora noi lo sappiamo bene, la deumanizzazione è la porta d’ingresso del bullismo, degli stupri, delle torture, del terrorismo e della tirannia. Vai un passo oltre l’autoindividuazione: lavora per modificare ogni condizione sociale che fa sentire le persone anonime. Supporta invece le pratiche che fanno sentire gli altri speciali, così che anche loro abbiano un senso di valore personale e di autostima. Non accettare o usare mai gli stereotipi: le parole e le etichette possono essere distruttive.

“Io rispetto un’Autorità Giusta, ma mi ribello ad un’Autorità Ingiusta”

In ogni situazione impegnati nel distinguere, tra le persone che hanno un’autorità, coloro i quali, per esperienza, saggezza, anzianità di servizio o con status speciali, meritano rispetto, e quelle figure di autorità ingiusta che chiedono la nostra obbedienza senza avere alcuna sostanza. Molti di quelli che si ammantano di autorità sono pseudoleader, falsi profeti, truffatori, egocentrici, che non dovrebbero essere rispettati, bensì dovrebbero essere disobbediti ed esposti apertamente ad una valutazione critica. I genitori, gli insegnanti ed i leader religiosi dovrebbero giocare un ruolo più attivo nell’insegnare ai bambini questa importante differenza. Dovrebbero essere gentili ed educati quando questo atteggiamento è giustificato, ma dovrebbero essere bambini coraggiosi e saggi a resistere a quelle autorità che non meritano il loro rispetto. Facendo così si ridurrebbe l’obbedienza cieca ad autorità auto-proclamatesi le cui priorità non sono nel nostro interesse.

“Io voglio l’accettazione del gruppo, ma do valore alla mia indipendenza”

La brama dell’accettazione da parte di un gruppo sociale desiderato è più forte di quella del mitico unico anello ne “Il Signore degli Anelli”. Il potere di quel desiderio di accettazione può far fare a certe persone quasi qualsiasi cosa per raggiungere lo scopo, e può far raggiungere anche ulteriori estremi per evitare il rifiuto da parte del Gruppo. Noi infatti siamo animali sociali, e spesso le nostre connessioni sociali ci danno benefici e ci aiutano a raggiungere obiettivi importanti che non potremmo mai raggiungere da soli. Tuttavia ci sono casi in cui il conformarsi alle norme di un gruppo è controproducente per il bene sociale. E’ imperativo determinare quando seguire la norma e quando rifiutarla.

Essenzialmente noi viviamo all’interno delle nostre stesse menti, in uno splendore solitario, e perciò noi dobbiamo essere pronti e determinati a dichiarare la nostra indipendenza nonostante il rifiuto sociale che essa potrebbe elicitare. Non è facile, specialmente per persone giovani con delle immagini di sé fragili, o adulti la cui immagine di sé è corrispondente a quella del loro ruolo lavorativo. Le pressioni esercitate su di loro per fare del “gioco di squadra” sacrificando la propria personale moralità per il bene del team sono praticamente irresistibili. Ciò di cui abbiamo bisogno è di fare un passo indietro, raccogliere opinioni esterne e trovare nuovi gruppi che sosterranno la nostra indipendenza e promuoveranno i nostri valori. Ci saranno sempre altri gruppi differenti e migliori per noi.

“Io sarò più attento allo schema”

Chi costruisce lo schema diventa il burattinaio, o l’aiuto burattinaio. Il modo in cui le questioni sono poste è spesso più importante di argomenti persuasivi costruiti però all’interno di quello stesso schema. Gli schemi più efficaci sono quelli che non lo sembrano per niente; solo spezzoni di suoni, immagini visive, slogan e loghi. Essi ci influenzano senza che noi ne siamo consapevoli attirando il nostro orientamento verso le idee o le questioni che subliminarmente promuovono. Per esempio negli U.S.A. i votanti che erano favorevoli a ridurre i benefici per le tasse ereditarie dei ricchi sono stati incoraggiati a votare contro la “death tax”; questa tassa era praticamente la stessa della precedente, ma l’etichetta era differente. Noi desideriamo cose che sono descritte come “scarse”, anche se sono abbondanti. Siamo maldisposti verso le cose che sono narrate come potenziali perdite, e preferiamo cosa ci è presentato come un guadagno, anche se le percentuali di guadagni e perdite sono le stesse. Noi non vogliamo una possibilità di perdita del 40% ma vogliamo la possibilità di vincita del 60%. Il linguista George Lakoff ci mostra chiaramente nei suoi studi che è fondamentale essere consapevoli del potere dei frame e stare attenti a controbilanciare le loro insidiose influenze sulle nostre emozioni, sui nostri pensieri e sui nostri voti.

“Io bilancerò la mia Prospettiva Temporale”

Possiamo essere portati a fare cose che non sono realmente ciò che vogliamo fare in conformità ai nostri valori; ciò può accadere quando ci lasciamo intrappolare in un momento di presente espanso. Quando smettiamo di pensare ai nostri impegni presi nel passato ed alle responsabilità che essi comportano nel futuro, diventiamo più vulnerabili; in queste circostanze tentazioni presenti in certe situazioni possono portarci ad eccessi, come nel romanzo “Il Signore delle Mosche”. Per non agire in maniera conformista quando altri attorno a te si stanno comportando in maniera abusante o fuori controllo puoi far leva su una prospettiva temporale che va oltre il mero istante presente. Così sarà più probabile che tu inizi un’analisi costi/ benefici delle conseguenze future delle tue azioni; in alternativa o in aggiunta a tali operazioni potrai resistere essendo sufficientemente consapevole di uno schema passato contenente i tuoi valori ed obiettivi personali.

Sviluppando una prospettiva temporale bilanciata, in cui passato, presente e futuro sono presenti contemporaneamente nella tua mente, sei in una posizione migliore per agire responsabilmente e saggiamente; quando si ha una prospettiva temporale in cui sono presenti solo uno o due schemi temporali, il rischio di subire influenze sociali e ambientali è molto aumentato. Il potere situazionale è indebolito quando il passato ed il futuro si combinano per contenere gli eccessi del presente. Per esempio la letteratura indica che i Gentili virtuosi che aiutarono gli Ebrei Olandesi a nascondersi dai Nazisti non si impegnarono a creare razionalizzazioni, come i loro vicini, atte a generare ragioni per non aiutare. Questi eroi avevano ben in mente le strutture morali derivanti dagli insegnamenti nel loro passato e mai persero di vista la possibilità di un futuro in cui si sarebbero voltati a guardare questa situazione terribile e si sarebbero dovuti chiedere se avevano fatto la cosa giusta scegliendo di non soccombere alla paura ed alla pressione sociale.

“Io non sacrificherò libertà personali o civili per l’illusione della sicurezza”

Il bisogno di sicurezza è una potente determinante del comportamento umano. Possiamo essere spinti a fare azioni ben lontane dal nostro sentire quando siamo posti davanti a presunti pericoli o alla promessa di sicurezza dal pericolo. Spesso i governanti aumentano il loro potere proponendoci un patto col diavolo: sarai al sicuro dal pericolo se cederai una parte della tua libertà, sia personale che civica, a quella autorità. Il tentatore mefistofelico argomenterà che la sua capacità di salvarti dipenderà dai piccoli sacrifici fatti dalla comunità di un loro piccolo diritto o una loro piccola libertà. Rifiutate quel patto. Mai sacrificare libertà personali di base per la promessa di sicurezza, perché i sacrifici sono reali ed immediati e la sicurezza è una illusione distante. Ciò è vero sia nei tradizionali matrimoni combinati che nelle promesse elettorali di sicurezza al costo del sacrificio collettivo di diritti, privacy e libertà. Il classico di Erich Fromm “Fuga dalla Libertà” ci ricorda che questo è il primo passo che un leader fascista fa per imporsi in una società nominalmente democratica.

“Io mi posso opporre a Sistemi ingiusti”

Gli individui vacillano davanti alla forza di sistemi come quello militare o quello organizzativo di una prigione, come anche quelli delle gang, del culti, delle fraternità, delle corporazioni ed anche delle famiglie disfunzionali. Ma la resistenza individuale concertata con quella di altri che la pensano allo stesso modo può fare la differenza. Per cambiare i sistemi bisogna assumersi il rischio di denunciare la corruzione al loro interno e lavorare costruttivamente per cambiarli. La resistenza può implicare il sottrarsi da una “situazione totalizzante” in cui tutte le informazioni, le ricompense e le punizioni sono controllate; può implicare lo sfidare il pensiero dominante di gruppo e l’essere pronto a provare tutte le accuse di reato fatte; può implicare l’ottenere un appoggio da parte di altre autorità (avvocati, reporter investigativi o compatrioti rivoluzionari). I sistemi hanno un’enorme forza di resistenza al cambiamento e contrastano anche gli assalti più virtuosi. In questa situazione gli individui che compiono atti di eroismo che sfidano i sistemi ingiusti ed i loro perpetuatori sono più efficaci se sollecitano gli altri a seguire la loro causa. Il sistema può ridefinire un’opposizione individuale come un delirio, un paio di opponenti come una follia a due, ma con tre persone dalla tua parte tu diventi una forza di idee con cui dover fare i conti.

I dieci passi di Zimbardo: l’importanza di ulteriori studi

Come ricorda Zimbardo, questo programma in dieci passi è solamente lo “starter kit” che ognuno di noi può avere per costruire resistenza e resilienza contro influenze sociali indesiderabili e tentativi illegittimi di persuasione. Per poter avere un ruolo positivo nel proprio ambiente c’è bisogno di consapevolezza e sensibilità, e di forza di volontà per pensare da sé, praticando la propria autonomia nel modo più ampio possibile.

Questa è un’area di lavoro vecchia ma contemporaneamente nuova: già dalla fine degli anni ’70 si producono lavori su tali argomenti(Andersen e Zimbardo, 1979), tuttavia ad oggi esistono pochissime evidenze empiriche al riguardo (Manso, 2009; Mastroianni, 2007); praticamente le effettive conoscenze in questo ambito sono ferme da quarant’anni ad una fase esplorativa ed ipotetica. Questo sicuramente è dovuto alla elevata difficoltà nello strutturare esperimenti atti a falsificare ipotesi in questo campo, oltre che alla spinosità delle questioni ed all’elevato rischio di “politically uncorrect” nel trattare l’argomento tout court.

Zimbardo nel 2007 ha presentato il suo “Programma in 10 passi per resistere a influenze non volute”. Questa lista non è intesa per essere definitiva, bensì è stata pensata come un modo per incominciare ad esaminare queste modalità di resistenza. Ciò che più manca a questo intrigante campo di ricerca sono degli studi: studi in cui si esamina e si testa la capacità delle persone di resistere ad influenze sociali indesiderate sarebbero utilissimi per comprendere meglio il funzionamento interpersonale ed intrapsichico di queste azioni. A partire da tali conoscenze sarebbe possibile anche iniziare a strutturare programmi scientificamente validi per aumentare la resistenza delle persone alle influenze gruppali. Un ulteriore aspetto scarsamente considerato in questo campo (ed anche nei 10 passi di Zimbardo) è l’impossibilità di oggettivizzare le caratteristiche di un sistema giusto od ingiusto, o di un tipo di influenza lecita od illecita (Manso, 2009), essendo tali distinzioni legate completamente al sistema valoriale preponderante nello spazio e nel tempo in cui questo ambito di ricerca si è sviluppato. Se vi fosse un sistema valoriale differente tali distinzioni cambierebbero radicalmente, è innegabile. Forse le future ricerche dovrebbero concentrarsi maggiormente sulla forma e sul funzionamento delle influenze sociali gruppali, lasciando maggiormente sullo fondo il loro contenuto che, in quanto non oggettivizzabile, è per sua natura transeunte e può avere un effetto confondente.

Provare scarsa attrazione fisica verso il partner: c’è qualcosa di sbagliato? – Le risposte di fluIDsex

Sono in una relazione con un ragazzo da due anni, abbiamo sempre avuto molta intesa sessuale, anche ultimamente. Io lo amo però non lo trovo per niente attraente, anzi spesso mi ripugna. Cosa significa? Ho qualcosa di sbagliato? (Andrea)

 

Buongiorno Andrea,

immagino come la ripugnanza, abbinata sia all’intesa sessuale sia all’amore, porti ad una duplice sofferenza: una iniziale, legata alla sensazione spiacevole stessa ed una successiva, connessa alla difficoltà di integrare armonicamente i diversi aspetti. Questa seconda sofferenza risulta addirittura capace di portarla ad attribuire qualcosa di sbagliato a lei stesso/a. Non ne faccia una questione etica: non c’è nulla di sbagliato né in lei, né nella situazione che sta vivendo. Ciò che prova e pensa è psicologicamente lecito in quanto presente.

Invece, il significato che possano avere queste diverse spinte (una relazione di due anni, di intesa sessuale e amore con l’assenza di attrazione ed in cui si trova l’altro spesso ripugnante) non è semplice da trovare e forse non è nemmeno necessario farlo.

Si lasci guidare dalle sue sensazioni e provi a rintracciare cosa pensa e cosa prova nel mentre. E si ricordi che non è una questione di giusto o sbagliato nemmeno separarsi da qualcuno, qualora, nonostante l’affetto, esso non risulti più desiderabile per lei.

Buona fortuna e per altre domande: sa dove trovarci!

Greta Riboli

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

I sette geni dell’insonnia: le cause biologiche della mancanza di sonno

Un nuovo studio ha mostrato come anche l’insonnia possa avere una causa genetica. Un team di ricercatori, guidato dai professori Danielle Posthuma, Vrije Universiteit (VU) di Amsterdam e Eus Van Someren, dell’Istituto Olandese di Neuroscienze, avrebbero individuato i fattori genetici della mancanza di sonno.

 

Le cause genetiche dell’insonnia

Molti di noi, ad un certo punto della vita, hanno avuto problemi di insonnia ed è noto quanto sia difficile superarla. Più pensiamo a dormire, più è difficile addormentarsi. L’insonnia è spesso una battaglia con le nostre menti. La National Sleep Foundation la definisce come la difficoltà ad addormentarsi o incapacità di dormire nonostante l’organismo ne abbia il reale bisogno fisiologico.

Ma oltre alla lotta psicologica, ci sono anche cause genetiche?

Un nuovo studio ha mostrato come anche l’insonnia possa avere una causa genetica. Un team di ricercatori, guidato dai professori Danielle Posthuma, Vrije Universiteit (VU) di Amsterdam e Eus Van Someren, dell’Istituto Olandese di Neuroscienze, avrebbero individuato i fattori genetici della mancanza di sonno.

A tal fine, i ricercatori hanno condotto uno studio di associazione genome wide (GWAS), che prevede un’indagine di tutti i geni di diversi individui di una particolare specie per determinare le variazioni geniche tra gli individui in esame. In seguito si tenta di associare le differenze osservate con alcuni tratti particolari, ad esempio un disturbo o una malattia.

I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Genetics, dimostrano che l’insonnia condivide il patrimonio genetico con altri disturbi. In questo studio, gli scienziati hanno eseguito queste analisi genetiche in 113.006 persone, trovando così sette geni.

La più forte associazione genetica con l’insonnia è stata nella “sindrome delle gambe senza riposo”. La sindrome delle gambe senza riposo è caratterizzata dalla impellente necessità di effettuare movimenti frequenti degli arti inferiori. Altre condizioni le cui basi genetiche si sovrappongono a quelle dell’insonnia sono: disturbi d’ansia, depressione e nevroticismo.

Questa è una scoperta interessante, perché questi disturbi tendono ad andare di pari passo con l’insonnia. Ora si può affermare che ciò è dovuto in parte alla base genetica condivisa.

Lo studio ha anche identificato differenze genetiche tra i sessi. Il Prof. Posthuma spiega come sia stata trovata una differenza tra uomini e donne in termini di prevalenza: nel campione studiato, della quale facevano parte principalmente persone di età superiore ai 50 anni, il 33 per cento delle donne ha riferito di soffrire di insonnia, mentre per gli uomini questa percentuale scende al 24 per cento.

 

Ruminazione ed evitamento esperienziale nell’anoressia come fattori di mantenimento: quali strategie terapeutiche adottare?

Una recente concettualizzazione dell’ anoressia nervosa considera le preoccupazioni riguardanti cibo, peso e corpo come una ruminazione specifica del disturbo, focalizzata sul controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporee, piuttosto che un’esperienza di ampio significato emotivo (Park et al. 2011). Questo suggerirebbe che la ruminazione giochi un ruolo importante nel mantenimento dell’anoressia, in quanto l’esclusivo focus mentale su cibo e alimentazione potrebbe associarsi ad un’emotività meno rilevante.

Ruminazione ed evitamento: i fattori di mantenimento dell’anoressia nervosa

L’assenza di trattamenti evidence-based per il trattamento dell’anoressia nervosa in tarda adolescenza ed età adulta è uno dei maggiori problemi nel campo dei disturbi alimentari. Sebbene le terapie familiari abbiano mostrato buoni risultati nel trattamento di giovani adolescenti, questo approccio è solitamente raccomandato per soggetti entro i 17 anni. Alcuni studi identificano la terapia cognitivo comportamentale (CBT) come trattamento utile nel prevenire ricadute tra i soggetti anoressici che hanno raggiunto il normopeso. Tuttavia, alcune ricerche mostrano che la CBT non sia il trattamento di elezione nel trattamento degli individui sottopeso ( Carter et al., 2009; Pike et al., 2003; McIntosh et al., 2005).

Per poter sviluppare trattamenti efficaci sembra indispensabile identificare gli elementi centrali che alimentano e mantengono il disturbo di anoressia nervosa.

La ruminazione è una strategia di evitamento cognitivo che si ritrova in molti disturbi psicologici e psichiatrici. Viene definita come una forma negativa di attenzione focalizzata su di sé, caratterizzata da passività. E’ una modalità di pensare improduttiva, in cui le problematiche presenti vengono analizzate in modo grossolano, globale e catastrofico, che quindi non consente la predisposizione di un piano di risoluzione e azione concreto.
Si rileva con elevata frequenza negli stati depressivi, dove la ruminazione prende la forma di pensieri sulle cause, sui sintomi e sulle conseguenze del proprio stato depressivo, inferendo con l’esperienza diretta di informazioni emotivamente rilevanti e con l’adozione di risposte efficaci.

I criteri diagnostici dell’anoressia nervosa evidenziano il ruolo svolto dalla preoccupazione rispetto al cibo, al peso e alle forme corporee nell’esordio e mantenimento del disturbo. Gli studi comportamentali e di neuroimaging sostengono questo concetto, dimostrando che i soggetti con attuale o trascorsa anoressia nervosa mostrano dei bias attentivi ed un’elevata vigilanza agli stimoli relativi all’alimentazione e al corpo (Brooks et al., 2011; Giel et al., 2011)

Una recente concettualizzazione dell’anoressia nervosa considera le preoccupazioni riguardanti cibo, peso e corpo come una ruminazione specifica del disturbo, focalizzata sul controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporee, piuttosto che un’esperienza di ampio significato emotivo (Park et al. 2011). Questo suggerirebbe che la ruminazione giochi un ruolo importante nel mantenimento dell’anoressia, in quanto l’esclusivo focus mentale su cibo e alimentazione potrebbe associarsi ad un’emotività meno rilevante. Dal momento che i soggetti con anoressia nervosa tendono ad evitare le esperienze emotive e hanno difficoltà nel tollerare le emozioni, l’effetto “collaterale” della ruminazione, che occupa totalmente la loro attività cognitiva, impedendo l’accesso a contenuti emotivi, può agire da rinforzo positivo, mantenendo il disturbo alimentare (Hambrook et al.,2011).

Anche gli altri sintomi dell’anoressia (come i comportamenti di compensazione e l’eccessivo esercizio fisico) vengono visti come elementi facilitanti l’evitamento emozionale, in quanto, da un lato, prevengono l’insorgere di emozioni negative e, dall’altro, riducono l’intensità e la durata delle reazioni emotive.

La mindfulness per il trattamento della ruminazione e dell’evitamento

La controparte adattiva della ruminazione e dell’evitamento esperienziale è la mindfulness, definita come la capacità di entrare in contatto con il momento presente in maniera accettante e non giudicante. Questa modalità alternativa di prestare attenzione alle informazioni relative al corpo e al sé potrebbe essere parte fondamentale del processo di guarigione dall’anoressia nervosa. Già precedenti ricerche mostrano una relazione inversa tra mindfulness e pensieri correlati al disturbo alimentare (Lavender et al., 2011). Si ricorda che le pratiche mindfulness sono state incorporate tra le terapie cognitivo comportamentali di terza generazione, come la Emotion Acceptance Behaviour Therapy (Wildes et al., 2010), la Dialectical Behaviour Therapy (Palmer et al., 2003), e la Mindful Eating o Mindfulness Based Eating Awareness Training (Kristeller et al., 2010).

Il trattamento della ruminazione, considerato parte integrante del processo di trattamento dell’anoressia nervosa, dovrebbe prevedere lo sviluppo di uno stile cognitivo più adattivo e accettante, o una modalità esperienziale della mente, che possa ridurre l’evitamento cognitivo associato con la psicopatologia del disturbo alimentare e implementare tratti mindfulness nel corso del tempo. A sostegno di queste ipotesi, è stato dimostrato che classi di yoga e movimenti mindfully, possono incrementare la mindfulness e ridurre l’evitamento e la psicopatologia del disturbo alimentare (Carei, Breuner, & Fyfe-Johnson, 2007; Rawal et al., 2009; Wildes et al., 2010).

In aggiunta, vi sono iniziali prove di evidenza a sostegno di altri interventi psicoterapeutici di terza generazione, come l’uso della Dialectical Behavior Therapy o dell’Emotion Acceptance Behaviour therapy, che combinano interventi comportamentali standard con tecniche di consapevolezza emotiva al fine di ridurre l’evitamento esperienziale, che potrebbero rivelarsi utili strumenti nel trattamento dell’anoressia nervosa (Palmer et al., 2003;Wildes et al., 2010).

Identità sessuale: definizione e analisi tra natura vs cultura

L’ identità sessuale descrive la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati, ed è l’esito della complessa interazione tra aspetti bio-psico-socio-culturali (Bancroft, 2009). L’ identità sessuale è vista come un costrutto multidimensionale da Shively e De Cecco (1977) come da numerosi altri autori, che ne distinguono quattro componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Giulio Gambino 

 

Già prima della nascita, per molti genitori, il sesso del nascituro, sembra essere il “mistero” più importante da svelare. Si configura con la domanda più gettonata, tipica di qualsivoglia parente, amico, conoscente e perfino sconosciuto, che con aria incuriosita, con fierezza e voce squillante, guarda il pancione e domanda: ma è maschio o femmina?

Fin dal 400 a.C. Platone nel suo Il Convivio s’interrogava sul tema dell’identità e sugli elementi maschili e femminili presenti in ogni essere umano (Turolla, 1953). Esiste un bisogno profondo degli esseri umani di comprendere meglio questa componente della personalità che, a prima vista, può sembrare semplice nella sua divisione polarizzata maschio e femmina, ma che invece, attraverso un esame più profondo e articolato, evidenzia confusione e ambiguità.

L’ identità sessuale

Interrogarsi sull’ identità sessuale vuol dire porsi di fronte alla domanda sul proprio essere maschi o femmine (Batini, 2011).

La sessualità non può essere considerata come un’entità a sé stante, ma va inquadrata nel contesto biopsicosociale della personalità come ha dimostrato la psicoanalisi che, attraverso la scoperta delle sue origini nell’infanzia, ne ha sottolineato da un lato il significato centrale nello sviluppo umano, dall’altro ha dimostrato i rapporti tra disturbi sessuali e sessualità normale (Freud, 1905). Inoltre Freud già nel 1920 teorizzò la presenza di tre ordini di fattori nella sessualità: le caratteristiche sessuali, fisiche e psichiche e il tipo di scelta oggettuale (Freud, 2008).

Le classificazioni più recenti rintracciano nella componente psicologica un elemento interno denominato identità di genere ed un elemento esterno denominato comportamento sessuale. Nell’articolazione di quattro fattori principali si sostanzia la sessualità, tali fattori, detti psicosessuali, sono allo stesso tempo collegati e distinti tra loro: identità sessuale, identità di genere, orientamento sessuale e comportamento sessuale (Giberti & Rossi, 2004).

L’ identità sessuale descrive la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati, ed è l’esito della complessa interazione tra aspetti bio-psico-socio-culturali (Bancroft, 2009).

L’ identità sessuale è vista come un costrutto multidimensionale da Shively e De Cecco (1977) come da numerosi altri autori (Rosario, Schrimshaw, Hunter, & Braun, 2006; Worthington, Navarrom Savoy, & Hampton, 2008) che ne distinguono quattro componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Sesso biologico

Il sesso biologico viene determinato dalle caratteristiche fenotipiche che contraddistinguono la funzione riproduttiva degli individui: organi sessuali interni e esterni e i livelli ormonali, tra maschi e femmine (Giannini Belotti, 1980). Il sesso genotipico ha origine dall’intreccio dei cromosomi XY e XX, dando vita a una femmina o un maschio. Quando i cromosomi dell’embrione non sono specificatamente definiti come maschile o femminile, si parla di intersessualità. È necessario differenziare i soggetti intersessuali dagli ermafroditi che Batini (2011) definisce come “soggetti che possiedono genitali esterni fisiologici sia maschili che femminili” (p. 58).

I cromosomi determinano l’appartenenza biologica al sesso femminile o al sesso maschile: la coesistenza di due cromosomi X dà vita a una femmina, la presenza di un cromosoma X e un cromosoma Y dà vita a uno maschio (Ruspini, 2004).

Il sesso è determinato dall’uomo attraverso gli spermatozoi: gli androspermi, forniti di un cromosoma Y e i gimnospermi, forniti di un cromosoma X (Giannini Belotti, 1980).

Le fasi dello sviluppo del sesso biologico vedono:

La presenza di bipotenza sessuale degli embrioni, fino alla sesta settimana dopo il concepimento.
Dalla settima settimana avviene la diversificazione sessuale causata dalla presenza o assenza del cromosoma Y: se è presente, le gonadi si svilupperanno in testicoli dando origine agli organi sessuali maschili, se è assente, le gonadi si svilupperanno in ovaie originando gli organi sessuali femminili.

Lo sviluppo dei testicoli permetterà la secrezione di ormoni sessuali, in grado di completare lo sviluppo degli organi sessuali interni e esterni e se l’embrione non compirà tale funzione, rimarrà femminile anatomicamente (Ruspini, 2004).

Migeon et all. (2002) elaborano il modello del sesso biologico pensandolo come frutto dell’interrelazione di varie componenti: sesso cromosomico, sesso gonadico, sesso fenotipico, sesso dei genitali esterni, sesso ormonale e sesso cerebrale:

  • Sesso cromosomico: ha origine genetica e consiste nei cromosomi sessuali e geni tramandati dai genitori, determina il genotipo sessuale del feto, 46,XX femmina, 46,XY maschio, o intersessuale.
  • Sesso gonadico: è determinato dalla presenza del gene SRY del cromosoma Y. Le gonadi dapprima bipotenti, tramite l’azione del gene SRY si trasformano in testicoli e se assente come ovaie.
  • Sesso fenotipico: consiste nella presenza o assenza dei caratteri secondari, dei genitali esterni, e l’aspetto esteriore dell’individuo.
  • Sesso dei genitali interni: è determinato dalle gonadi e dai canali a essi collegati. I dotti Mulleriani originano le tube di Falloppio, l’utero e la porzione posteriore della vagina. I dotti di Wolf originano l’epididimo, i vasi deferenti e la vescicola seminale.
  • Sesso ormonale: è determinato dal rilascio di ormoni LH e GnRH dall’ipotalamo che agiscono sulle gonadi. Queste sintetizzano gli ormoni in estrogeni o androgeni, determinando lo sviluppo dei tessuti in femminile o maschile.
  • Sesso cerebrale: consiste nelle differenze anatomiche tra cervello maschile e cervello femminile in merito ai circuiti nervosi, comportamenti, capacità cognitive.

Allen, Richey, Chai & Gorsky (1991), hanno riscontrato che le capacità cognitive potrebbero essere influenzate dal corpo calloso, ovvero un fascio di nervi che collega gli emisferi, in quanto nei due sessi si presenta con forma differente.

Identità di genere

Batini (2011) offre una definizione di identità di genere intendendola come: [blockquote style=”1″]la relazione che un individuo ha con il proprio essere biologico, ovvero a come l’individuo si sente e si percepisce rispetto al proprio sesso biologico, adeguato o inadeguat[/blockquote]o (p. 21).

Il termine identità di genere è stato coniato ed usato nel linguaggio di ogni giorno dal sessuologo John Money et al. (1972) e dallo psicoanalista Robert Stoller (1968).

Stoller lavorava presso l’University of California e le sue ricerche lo portarono verso la formazione di un gruppo di lavoro psicoanalitico sull’identità di genere, dando un sostanziale contributo alla diffusione e all’espansione del termine nella psicoanalisi e nelle scienze sociali. Stoller affronta più attentamente le questioni attinenti a sesso, genere, ruolo e identità, evidenziando la peculiare distinzione tra sesso e genere, dove il sesso fa riferimento alla dimensione corporea, il genere invece lo colloca tra lo psichico e il culturale, in una posizione che potenzialmente non dipende dal sesso biologico ma dalla somma di elementi mascolini e femminini (Stoller, 1968; 1975). Stoller introdusse inoltre il termine identità di genere nucleare e lo considerò come prodotto della relazione bambino-genitore intendendo “il senso che abbiamo nel nostro sesso, di essere maschio nei maschi e di essere femmina nelle femmine” (Stoller, 1979, p.53). L’ identità di genere nucleare la descrisse come una struttura psichica non passibile di cambiamento dopo i 2 o 3 anni e derivata dal sesso in cui i bambini erano stati educati (Stoller, 1964). In seguito aggiunse che mentre l’identità di genere continua a svilupparsi in maniera intensa almeno fino alla fine dell’adolescenza, l’identità di genere nucleare è pienamente raggiunta prima che sia stata raggiunta la fase fallica (Stoller, 1979).

Stoller ha messo in evidenza, attraverso dati osservativi e clinici, che quando gravano aspettative non compatibili delle diverse figure di accudimento sul bambino, questo si sviluppa in un mondo di spinte conflittuali che influenzano il suo ruolo di genere e, in situazioni gravemente patogene, la sua identità di genere (Stoller, 1964).

Money lavorava presso la Johns Hopkins University a Baltimora, Maryland, USA e le sue ricerche erano incentrate prettamente sullo sviluppo psicosessuale dei bambini con anomalie cromosomiche, disturbi endocrini e ambiguità genitali. Money indicava con identità di genereil senso di se stesso, l’unità e la persistenza della propria individualità maschile e femminile intesa come esperienza di percezione sessuata di se stessi e del proprio comportamento” (Money & Ehrhardt, 1972, p.4).

L’identità di genere è uno degli elementi fondamentali del processo di costruzione dell’ identità sessuale e personale, un processo dinamico, malleabile, negoziabile, influenzato dalla cultura d’appartenenza, che determina un modo di vedere se stessi in relazione alla società. L’assegnazione ad una precisa categoria di genere avviene attraverso l’aspetto degli organi sessuali esterni che determinano sin dalla nascita il parametro su cui si basa l’assegnazione al sesso biologico. La categoria sessuale agisce sulla costruzione e sull’apprendimento dell’identità di genere: se il nascituro possiede gli organi sessuali femminili, crescerà come bambina, se possiede gli organi sessuali maschili, crescerà come bambino (Ruspini, 2004). Inoltre altri importanti elementi che determinano l’identità di genere sono i fattori culturali e sociali (Kessler, 1996).

Infatti, Ruspini (2004) ritiene che:

[blockquote style=”1″][…] per definire l’essere femminile o l’essere maschile, non è sufficiente l’appartenenza sessuale. La femminilità e la maschilità non sono esclusivamente stabilite dalle caratteristiche fisiche e biologiche, ma rivestono una fondamentale importanza la cultura e l’educazione. La costruzione dell’ identità sessuale si avvia attraverso l’assegnazione ad una precisa categoria sessuale in base all’aspetto dei genitali esterni come maschio o femmina. Tale riconoscimento è la genesi sulla quale andrà ad innestarsi il processo di apprendimento dell’identità di genere[/blockquote] (p. 88).

Il processo di apprendimento dell’identità di genere si attiva ed è determinato sulla base anatomica: ciò avviene mediante la sollecitazioni, imposte dalla cultura, dei comportamenti tipici e caratteristici dei ruoli di maschio e femmina, generando affetti, spinte emotive, e la percezione di appartenere a un genere piuttosto che all’altro. (Ruspini, 2004). I fattori biologici non sono gli unici indicatori che determinano l’appartenenza alla categoria uomo o alla categoria donna, ma esistono anche fattori sociali e culturali che determinano modi di essere tipici del sesso maschile e del sesso femminile. I bambini sin da piccoli vengono incoraggiati ad assumere comportamenti diversi in base al loro sesso biologico: imparano a dialogare, comportarsi e camminare nei modi tipicamente accettati dalla cultura di appartenenza (Lorber, 1994). L’atteggiamento dei genitori deriva dalle percezioni socialmente e culturalmente apprese, regalando giocattoli differenti, quali bambole e trucchi, alle femminucce, e automobili e costruzioni ai maschietti.

I genitori inoltre, tenderanno a spingere i figli verso ogni tipo di attività tipicamente e socialmente adeguata al genere, influendo nel processo di acquisizione dell’identità in quanto dipendente in parte dal ruolo di genere (Ruspini, 2004).

Cohen-Kettenis & Pfaffin (2003) mettono in evidenza il ruolo degli adulti che si pongono in modo differente di fronte ai bambini e alle bambine, incoraggiando e influenzando proporzionalmente le attività tipiche del sesso al quale si appartiene.

Alla fine del primo anno, nella reciproca interazione sociale tra bambino e famiglia, mascolinità e femminilità sembrano ben stabilite. Si osserva che tra il primo e il secondo anno i genitori rinforzino quei comportamenti che considerano opportuni e appropriati al ruolo sessuale del bambino e questo li apprende indipendentemente da qualsiasi motivazione interna. E infine, Lichtenberg (1989) sottolinea che tra i diciotto e i ventiquattro mesi, l’identità di genere è probabilmente stabilita in maniera salda e immutabile e a partire dai tre anni i bambini sviluppano guide interne per seguire il range di comportamenti precedentemente rinforzati.

Ruolo di genere

Volendo fornire una definizione di ruolo di genere, riprendiamo il pensiero di Batini (2011) il quale sostiene che:

[blockquote style=”1″][…] il ruolo di genere consiste nelle aspettative della società rispetto ai comportamenti appropriati di un uomo e una donna, ovvero tutto ciò che un uomo e una donna fa per manifestare nelle relazioni il proprio livello di mascolinità e femminilità[/blockquote] (p. 89).

A partire dall’insieme dei comportamenti e degli atteggiamenti tipici dell’essere uomo o essere donna, si definisce il ruolo di genere. I comportamenti e gli atteggiamenti suddetti strutturano le modalità relazionali e le percezioni delle sensazioni generate negli altri individui. Il processo di apprendimento del ruolo di genere si consolida tra i tre e sette anni, configurandosi come fase in cui bambini e bambine acquisiscono la conoscenza di ciò che è tipicamente maschile e femminile (Batini, 2011).

Come sostiene Priulla (2013):

[blockquote style=”1″]I ruoli sociali hanno retaggi antropologici legati alla biologia umana, alla struttura fisica e alla funzione generatrice femminile come agli ideali patriarcali dalla quale discende la culturale contemporanea. La divisione dei ruoli non avviene coscientemente. […] tutti coloro i quali non rispettano i ruoli sanciti dall’appartenenza al proprio sesso vengono stigmatizzati.[/blockquote] (p.35)

Money (1994) metteva in relazione l’identità di genere con il ruolo di genere affermando che fossero le due facce della stessa medaglia. Secondo il sessuologo il ruolo di genere è “ciò che una persona dice o fa per indicare il suo status di ragazzo o uomo, o di ragazza o donna” (Money, 1994, p.22). Continua affermando che “nel linguaggio teatrale, il ruolo di genere non è semplicemente un pezzo di carta presentato da un attore, ma un ruolo incorporato nell’attore, il quale, trasformato da questo, lo incorpora e lo manifesta attraverso se stesso” (Money, 1994, p.24).

L’identità di un soggetto è definita dal ruolo di genere e da ciò che la società e la cultura d’appartenenza ritiene adeguato per maschi e femmine. La donna è sempre stata considerata nel suo ruolo di madre e di cura della prole, l’uomo dal ruolo professionale e dallo status economico. La società impone, sulla base dei valori culturali, degli atteggiamenti e dei comportamenti adeguati al genere maschile o femminile (Priulla, 2013).

L’individuo che non si stabilizza in base ai ruoli decisi dalla società ed appartenenti al proprio sesso è a rischio stigmatizzazione. Tale rischio si pone in relazione alla cura del proprio corpo, alla modalità con cui il soggetto si relaziona al sesso opposto nonché al proprio orientamento sessuale (Priulla, 2013).

ncora oggi quando si parla di ruolo di genere ci si riferisce a modi, comportamenti e tratti di personalità che la società, la cultura ed il periodo storico ha stabilito come mascolini o femminini (Zucker, 2002).

Money (1972) affermava che l’identità di genere è l’esperienza privata del ruolo di genere mentre il ruolo di genere è l’espressione pubblica dell’identità di genere.

Il ruolo di genere è trattato come un surrogato delle cognizioni sociali che modificano in modo casuale i comportamenti. Tutto questo ha un enorme impatto per gli individui con identità di genere incerte, in quanto ha avuto sostanziali implicazioni a livello del trattamento: se il sesso fosse considerato la base naturale, allora la psicoterapia avrebbe dovuto aiutare i pazienti ad accettare la propria natura; se invece fosse stato considerato il genere come base naturale, allora il trattamento per la riassegnazione del sesso sarebbe stato possibile (Pfafflin, 2011).

Durante lo sviluppo, il bambino acquisisce l’abilità di riconoscere il genere sessuale che si pone come base fondamentale nello sviluppo del ruolo di genere. I bambini pongono in essere i comportamenti sessuali tipici solo dopo aver compreso l’irreversibilità del proprio sesso, che viene denominato costanza di genere (Kohlberg, 1966).

Nell’economia di questo lavoro è utile sottolineare e tenere presente che, a livello squisitamente psicopatologico, il disagio derivante dall’incongruenza tra la propria identità sessuale e il sesso assegnato alla nascita viene indicato con l’espressione: disforia di genere (Steensma, Biemond, Boer, & Cohen-Kettenis, 2011).

La costanza di genere si sviluppa attraverso diverse fasi. Dapprima il bambino comincia a riconoscere il proprio sesso e quello degli altri, poi perviene all’idea che il genere è stabile nel tempo ed infine si rende conto che il genere sessuale è permanente e non dipende da aspetti apparenti o dalle attività che si praticano (Slaby & Frey, 1975).

Weinraub et al. (1984) ha rilevato che gli atteggiamenti del padre verso la madre, influiscono sulle attività scelte dal bambino e nello sviluppo del suo ruolo di genere.

Fagot (1978) non trovò alcuna relazione tra rinforzo da parte del genitore di fronte a comportamenti tipicamente maschili e femminili e la messa in atto di tali in bambini di due anni, ma trovò una forte relazione tra la comprensione delle etichette da parte del bambino e la reazione dei genitori a comportamenti sessuali tipizzati, evidenziando inoltre una relazione tra la comprensione delle etichette di genere da parte del bambino e l’adozione di ruolo di genere. Fagot inoltre affermava che la costruzione dello schema di genere riflette non solo il ruolo inteso come comportamento, ma anche gli aspetti prettamente cognitivi e la sfera affettiva ricevuta dall’ambiente familiare.

Orientamento sessuale

L’orientamento sessuale, scrive Batini (2011):

[…] [blockquote style=”1″]si riferisce all’attrazione affettiva e sessuale da parte di un individuo verso altri individui che possono essere del suo stesso sesso, del sesso opposto o di entrambi. In relazione al proprio orientamento sessuale le persone vengono etichettate come eterosessuali, quando si è attratti dall’altro genere rispetto alla propria identità sessuale, omosessuale, quado si è attratti dallo stesso genere rispetto alla propria identità di genere e infine bisessuale, quando si è attratti da entrambi i generi[/blockquote] (p. 95).

L’American Psychological Association (2008) definisce l’orientamento sessuale come la tendenza stabile a sentirsi attratto dal punto di vista affettivo-emozionale, sentimentale e sessuale verso uno o più sessi. Si individuano, inoltre, orientamenti sessuali diversi dall’eteronormatività sociale, finalizzata alla sopravvivenza della specie attraverso l’atto riproduttivo, ovvero l’omosessualità e la bisessualità.

L’eterosessualità viene considerata normale e generalmente sostenuta dalla cultura dominante, istituzionalizzandola come unico orientamento sessuale socialmente riconosciuto e incoraggiando i giovani a plasmarsi in tale direzione.

Le persone che si sono considerate eterosessuali possono percepire, durante la vita, un cambiamento di rotta sentendosi attratti da individui dello stesso sesso, modificando il proprio orientamento sessuale da etero a omosessuale o bisessuale, se attratti da individui di entrambi i sessi. Quindi, l’orientamento sessuale di ciascun individuo, mutando anche più volte nel corso della vita, si deve considerare come un processo di costruzione dinamico non immutabile che si verifica nel corso di tutta l’esistenza (Ruspini,2004).

L’APA (2008) afferma che sarebbe alquanto semplicistico ridurre orientamento sessuale su un continuum che va dall’eterosessualità all’omosessualità passando per la bisessualità. Sarebbe più corretto considerare l’orientamento sessuale come un costrutto multidimensionale in cui convergono molti fattori: comportamento sessuale, attrazione, fantasie sessuali, preferenze sociali ed emotive, autoidentificazione e stile di vita (Klein, 1993). Questo significa che possono esistere differenze tra le fantasie e i comportamenti o tra innamoramento e attrazione. Graglia (2009) afferma che ci si può eccitare davanti scene omosessuali, ma infine innamorarsi solo di persone dell’altro sesso.

Parlando dei fattori determinanti l’orientamento sessuale non esiste una spiegazione scontata, si deve lasciare il territorio del sesso genetico-biologico-fisiologico per addentrarsi nel territorio del sesso culturale-sociale-storico-linguistico e cioè come ogni cultura, in un determinato momento storico, organizzi e costruisca i significati relativi all’appartenenza al sesso maschile o femminile (Foucault, 1978).

Graglia (2009) prova a concettualizzare l’orientamento sessuale tramite una metafora: “[blockquote style=”1″]l’orientamento sessuale può essere rappresentato come una bussola che indica la direzione sentimentale e erotica; chi è portato verso persone del proprio sesso, come chi è portato verso persone dell’altro sesso, può scegliere se contrastare questa direzione e con quale modalità farlo, se comunicare tale direzione ad altri, ma non può scegliere la specifica direzione della bussola[/blockquote]” (p. 20).

L’orientamento sessuale di gay, lesbiche e bisessuali quando è considerato come deviante, conduce verso il campo delle stereotipie e dei processi di stigmatizzazione. L’ostilità nei confronti di coloro i quali “deviano”, deriva infatti dalle credenze eteronormative che impongono la visione dell’eterosessualità come l’unico atteggiamento accettato e accettabile. La considerazione negativa nei confronti di gay, lesbiche e bisessuali causano la diffusione di miti per nulla fondati e scarsi di verità, come quelli che vedono gli omosessuali solamente giovani o di mezza età, principalmente intenti alla cura della loro bellezza e con redditi elevati, quando in realtà esiste anche una moltitudine di omosessuali anziani, di omosessuali con basso reddito e omosessuali che non curano spasmodicamente la loro bellezza. (Anderson, & Taylor, 2004).

Attualmente vengono distinti specificatamente l’orientamento sessuale e l’ identità sessuale. Quest’ultima viene intesa secondo l’accezione del riconoscimento e internalizzazione del proprio orientamento sessuale, comprendendo quindi vari elementi come l’autoconsapevolezza, l’autoetichettatura, il sentirsi parte di un gruppo e di una cultura, l’accettazione, l’auto-stigmatizzazione, con importanti conseguenze sulla presa di decisione nella formazione di supporto sociale, modelli di ruolo, amicizie e rapporti interpersonali di vario genere (American Psychological Association, 2012; Kinnish, Strassberg & Turner, 2005; Morris, 1997).

L’orientamento sessuale non può dunque essere concepito in maniera lineare, ma più come una mappa personale in cui le dimensioni considerate si compongono in modo del tutto soggettivo (Kinnish, Strassberg, & Turner, 2005; Le Vay, 2015).

Categorizzazione dicotomica del sesso biologico

Nella società Italiana l’ identità sessuale, intesa nella concezione di sesso biologico, è vista come una caratteristica molto importante e basilare per descrivere primariamente ogni essere umano. L’interpretazione che facciamo della realtà si basa non solo sulla percezione che abbiamo di ciò che ci circonda, ma anche sulle categorizzazioni che abbiamo precedentemente generato dell’ambiente (Hampton, 2000).

La mente umana è protesa a cercare scorciatoie per avvicinarsi di più al principio del risparmio energetico, decodifica e classifica i nuovi eventi e le nuove informazioni con categorie mentali prestabilite, culturalmente e socialmente apprese. Ognuno percepisce ciò per cui è preparato o predisposto a percepire. La cosiddetta euristica della disponibilità ci spiega come la nostra mente non tenda a costruire nuove forme mentali per ogni nuova informazione, ma tenda a utilizzare forme mentali già precedentemente esistenti per l’interpretazione e la percezione delle nuove informazioni. Anche l’euristica della rappresentatività aiuta la mente a trovare scorciatoie per classificare eventi, oggetti ed individui, impiegando stereotipi e somiglianze. In altri termini, tendiamo a valutare un nuovo evento sulla base di esempi concreti simili che ci vengono in mente (Kahneman, 2012).

Le categorie, che costituiscono la nostra forma mentis, costruite sulla base delle esperienze pregresse, tendono ad essere piuttosto rigide, poco duttili, poco malleabili e modificabili. Pertanto alcune informazioni contenute in esse, essendo maggiormente radicate nell’individuo, assumono un carattere di assolutezza, con la conseguente perdita di elementi della realtà che contraddicono la realtà stessa. In tal senso, gli studi di Festinger (1957), definivano la dissonanza cognitiva come la tendenza per cui, elementi della realtà che contraddicono un’aspettativa relativa ad uno specifico fenomeno tendono ad essere ignorati, per permettere il mantenimento della rappresentazione del fenomeno stesso.

Una delle categorie più rigide e tendenzialmente più stabili e radicate, è costituita dalla differenziazione binaria maschio/femmina, che istituisce una differenziazione cui facciamo riferimento in modo inconsapevole: cioè siamo sempre in grado di attribuire a quel soggetto un’ identità sessuale, a partire da pochi elementi specifici. Secondo tale paradigma, ad ogni “sesso” corrisponde un certo tipo di caratteristiche morfologiche specifiche, che non sono mai presenti nei fenotipi opposti. Oltre a possedere un corpo specifico, ogni “sesso” possiede un pattern di comportamenti ed atteggiamenti che permettono al resto della società di inserire ogni individuo nelle categorie maschio o femmina (Irigary, 1985; Fausto-Sterling, 1993).

A tal proposito Freud (1905) criticò, già più di cent’anni fa, tale visione, scrivendo che fosse necessario pervenire alla consapevolezza di ciò che è definibile nei termini di maschio e femmina, in quanto appartengono nella scienza ai concetti più confusi, sebbene il contenuto di questi appaia privo di ambiguità all’opinione comune.

Sex and Gender

Gayle Rubin nel 1975 introdusse il termine “genere” chiamandolo Sex-gender system.

Rubin con l’espressione Sex Gender System intendeva “[blockquote style=”1″]l’insieme dei processi, delle modalità di adattamento, di comportamento e di rapporti, con i quali la società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana, organizzando la divisione dei compiti tra uomini e donne, differenziandoli l’uno dell’altro e creando quindi il genere[/blockquote]” (Piccone Stella & Saraceno, 1996, p. 7).

Il saggio di Rubin sottolineava lo squilibrio causato della gerarchia tra i sessi, che conduceva verso prevaricazione, oppressione e violenza delle donne. Già Ann Oakley nel 1972 descrisse un concetto molto simile a quello di Sex-gender system (coniato da Rubin), in cui il sessosi riferirebbe alla diversificazione biologica e anatomica tra maschio e femmina, il concetto di genere sarebbe una questione culturale e quindi di interesse sociale” (Busoni, 2000, p 126).

Nell’ambito del femminismo, della sociologia e della gender e queer theory, si ritiene che non si possa scindere il sesso ed il genere secondo la dicotomia tra le categorie di natura e cultura, ma nonostante questo, il concetto di genere viene considerato maggiormente importante rispetto a quello di sesso, in quanto la divisione sociale viene posta in essere attraverso l’attribuzione di un significato particolare a certe caratteristiche anatomiche (Kessler & McKenna, 1978).

Come afferma Anne Fausto-Sterling (2000) questo non significa sostenere che “[blockquote style=”1″]le persone creano i corpi. […] significa che creano il sistema che li divide, e un sistema con soltanto due corpi non è l’unico possibile[/blockquote]” (pp.286-287).

Se non esistessero, all’interno della società, due categorie di genere distinte, non sarebbe necessario attribuire a determinate caratteristiche anatomiche un significato particolare. Il corpo assume invece un genere, proprio perché nel contesto sociale e culturale occidentale è in vigore una divisione in soli due gruppi. Le caratteristiche del corpo diventano particolari indicativi significativi, poiché vengono interpretati sulla base della divisione sociale esistente tra maschi e femmine, e collegati a preconcetti culturali che riguardano tali categorie. In tal senso la divisione degli individui in gruppi separati sulla base della differenza sessuale, tipica della società occidentale, non è affatto necessaria, immutabile o naturale, ma un prodotto sociale. Tutto questo viene sottolineato dagli studi di Judith Lorber (1993) che afferma che l’attribuzione di un genere alle persone non deriva dalla fisiologia o dagli ormoni, ma da esigenze di ordine sociale. Secondo tali studi non esiste nessuna caratteristica fisica né alcun tratto comportamentale, che appartiene in maniera esclusiva a un solo sesso e che quindi permetta la distinzione precisa tra donne e uomini. Come evidenzia Judith Lorber (1993): “[blockquote style=”1″]In realtà, il materiale corporeo essenziale è lo stesso per femmine e maschi, e, a parte organi e ormoni legati alla procreazione, gli esseri umani femmine e maschi hanno corpi simili[/blockquote]” (pp. 568). Eppure nella nostra società occidentale, abbiamo due sessi e due generi distinguibili perché la nostra società si fonda su due classi di persone, uomini e donne: ogni cosa relativa a una donna è femminile; ogni cosa relativa a un uomo è maschile.

Il concetto di genere nella lingua italiana ha una valenza molto sommaria che potrebbe generare una forte ambiguità. Deriva dal latino “genus”, che rimanda all’ambito semantico del “generare” e riflette una moltitudine di significati. Prendendo in considerazione la definizione che fornisce il Dizionario della Lingua Italiana Treccani (2015),

genere s.m. 1. Nel suo sign. Più ampio, termine indicante una nozione che comprende in sé più specie o rappresenta ciò che è comune a più specie […], In filosofia, categoria di oggetti che hanno in comune proprietà essenziali mentre differiscono per proprietà non essenziali […]. 2. Nel linguaggio com., l’insieme dei caratteri essenziali per cui una cosa è simile ad altre o differisce da altre […] 3. Categoria grammaticale esistente nelle lingue indoeuropee, semitiche e in molte altre famiglie linguistiche, alcune delle quali distinguono tre generi, maschile, femminile e neutro […].

Possiamo facilmente renderci conto che, queste tre definizioni, non ci forniscono un significato unitario e condiviso del termine in questione. La prima non si riferisce a ciò che la nozione di genere vuole trasmetterci, la seconda e la terza riguardano ambiti troppo specifici della lingua italiana e del linguaggio parlato e quindi non utili per descrivere un concetto così importante.

Sherry B. Ortner & Harriet Whitehead (2000) definiscono il genere come “[…] ciò che gli uomini e le donne sono, i tipi di relazioni che si instaurano o si dovrebbero instaurare tra loro” (p. 201). Inoltre affermano che essi non sono solo lo specchio dei dati biologici o le elaborazioni di questi ultimi, ma innanzitutto prodotti delle norme sociali e culturali. Gli autori inoltre evidenziano che la relazione tra sesso e genere non è biunivoca, infatti nella nostra società diamo un’educazione distinta ai due sessi in base alle norme socialmente accettate, che ci forniscono l’idea di come si dovrebbero comportare i ragazzi e le ragazze.

Ciò che la società si aspetta da tutti noi diventa il nostro modo di essere; la nostra identità pone le sue origini sulle caratteristiche attribuite al gruppo al quale facciamo parte (Busoni, 2000). Secondo questa prospettiva il genere è attribuibile a un uomo e a una donna in quanto esseri sociali, inseriti in un contesto normativo e relazionale. Le parole di Mila Busoni (2000) esprimono pienamente tale concetto:

In sintesi, essere uomini non significa avere un sesso maschile, come essere donne non significa avere un sesso femminile. Essere uomini o donne è piuttosto il convergere di senso esperenziale di sé e di percezione del mondo, vale a dire ciò che si è appreso ad essere nelle relazioni sociali, nei rapporti con gli altri (p. 88).

Linda Nicholson (1996) definisce il rapporto stretto tra biologia e socializzazione, che si trova nella prima concezione di genere ereditata dalle teorie femministe degli anni sessanta e settanta, come visione attaccapanni dell’ identità. Il corpo è considerato simile ad un attaccapanni sul quale prendono posto differenti costruzioni socioculturali, come quelli che riguardano personalità e comportamento. La forma propria dell’attaccapanni influisce marginalmente su ciò che viene appreso.

I postulati fin ora esposti ritengono l’ identità sessuale un fenomeno transculturale. Esiste una comunanza biologica prodotta dai dati materiali del corpo, ovvero il pene per determinare l’appartenenza alla categoria dell’uomo e la vagina per determinare l’appartenenza alla categoria della donna. Linda Nicholson (1996) attraverso la sua idea di Fondamentalismo Biologico, afferma che l’ identità sessuale, comune alle varie culture e costruita socialmente, si unisce alla concezione del sesso come distinto dal genere tramite l’idea che le distinzioni naturali fondino e producano l’identità umana.

Gli Stereotipi di genere nell’ identità sessuale

L’ identità sessuale nasce come costrutto che rappresenta un’esigenza di stabilità, di ordine e coerenza, per cercare di strutturare una componente dell’ identità individuale e rassicurare l’individuo attraverso una categorizzazione di sé, nonostante le esperienze siano molto più fluide ed imprevedibili di quanto si possa pensare (Bancroft, 2009; Kinnish, Strassberg & Turner, 2005). La classificazione dicotomica e polarizzata tra omosessualità ed eterosessualità è stata definitivamente superata e surclassata in favore di un criterio moderno che considera come criterio definitore dell’identità, la complessità dell’esperienza soggettiva (Bancroft, 2009; Sandfort, 2005).

Tra gli aspetti più rilevanti del costrutto dell’ identità sessuale è funzionale introdurre il concetto di stereotipo di genere inteso come credenza semplificata che viene applicata a specifiche categorie di persone e rappresenta il nucleo soggettivo del pregiudizio (Pavlova, Wecker, Krombholz, & Sokolov, 2010), ovvero un giudizio di valore assunto a priori che è in grado di dirigere l’azione sotto forma di pratiche più o meno violente ed esplicite di discriminazione (Blair, 2002).

Gli stereotipi di genere influenzano profondamente il pensiero collettivo, riempiendo di contenuti specifici le convinzioni e le idee di un determinato gruppo sociale rispetto a donne e uomini e ai rapporti tra essi (Ruspini, 2004).

Gli stereotipi indirizzano la classificazione di ogni soggetto in classi definite in relazione alla concezione di ciò che è considerata maschile e femminile (Kite & Whitley, 1998). I soggetti che mostrano tratti del sesso opposto vengono definiti gay o lesbiche (McCreary, Newcomb, & Sadava, 1998). Tali soggetti omosessuali sono spesso colpiti da stereotipi negativi (Prati & Pietrantoni, 2009; Smiler, 2004). Da questa prospettiva si evince che coloro che posseggono caratteristiche e comportamenti del sesso opposto non vengono percepiti positivamente, a causa della visione duale che l’eteronormatività impone (Kite & Whitley, 1998). Le convinzioni stereotipiche orientano condotte e comportamenti verso coloro i quali non rispecchiano l’idea culturalmente appresa di uomo/maschilità e donna/femminilità, caratterizzandoli in una maniera non consona e non veritiera che non riflette la realtà, in quanto ogni persona vive il proprio orientamento sessuale in modo diverso e del tutto soggettivo (Sandfort, 2005).

Gli stereotipi hanno uno strano destino; la gente comune si accorge che esistono solo quando sono dirette verso il proprio gruppo di appartenenza e soprattutto se le attribuzioni che propongono hanno valenza negativa (Arcuri & Cardinu, 2011).

Gli stereotipi di genere detengono un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità e delle relazioni sociali e agiscono su alcune componenti dell’ identità sessuale, come l’orientamento ed il ruolo, attribuendo loro caratteristiche di rigidità e stabilità che recenti ricerche hanno invece contraddetto (Diamond & Butterworth, 2008; Sandfort, 2005). La filosofia dello stereotipo di genere vuole che, partendo dalla dimensione dell’identità di genere, si debbano rispettare rigide e specifiche caratteristiche e che chi non vi si adegua sia in qualche modo inferiore o sbagliato. L’ identità sessuale e le sue manifestazioni non sarebbero fisse nel tempo, ma soggette a cambiamenti dovuti a variabili personali individuali, sociali, culturali e situazionali (Dettore & Lambiase, 2011). Gli stereotipi di genere proprio per la loro rigidità condizionano lo sviluppo dell’ identità sessuale di una persona, in quanto ne limitano l’esplorazione e la plasticità nella definizione (Dèttore & Lambiase, 2011; Kinnish, Strassberg, & Turner, 2005).

Gli stereotipi sono definiti da ciò che ciascuno di noi si aspetta da entrambi i sessi, ovvero dalle condotte dei maschi e delle femmine: i maschi non sono timorosi, appaiono forti, impavidi e determinati, le femmine appaiono dolci, timorose e sensibili (Ruspini, 2004).

L’ identità sessuale nelle sue ultime concettualizzazioni sembra quindi non essere considerata come un costrutto stabile, ma piuttosto come un costrutto che si acquisisce nel corso dell’intero sviluppo e per tappe successive subendo molte influenze, e, anche quando stabilita, non è definitivamente cristallizzata, ma può essere soggetta a disforie e successivi riassestamenti (Bancroft, 2009; Diamond, 2008).

Graziella Priulla (2013) afferma che:

le appartenenze di genere sono spesso decodificate attraverso l’utilizzo di stereotipi definendoli come dei processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano una o un gruppo di caratteristiche a una categoria o gruppo, sulla base di una limitata e insufficiente informazione o conoscenza. Inoltre funziona mettendo a fuoco gli aspetti salienti, articolando intorno ad essi tutto il resto e lasciando nell’ombra gli elementi che porterebbero a una disconferma dell’immagine di base (p. 333).

Critiche sulla differenziazione binaria per definire l’ identità sessuale

La condizione di intersessualità, termine usato per descrivere quelle persone i cui cromosomi sessuali e i genitali non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili, sconvolge letteralmente la nostra categoria di differenziazione binaria, inserendo la questione degli stereotipi di genere come elemento centrale rispetto al quale le persone si confrontano per definire la propria identità sessuale. L’ identità sessuale non sempre coincide con il sesso biologico (genetico, ormonale, fenotipico) e con il sesso attribuito. Il termine “genere” è stato utilizzato per la prima volta negli anni cinquanta per distinguere l’ identità sessuale dall’anatomia dei genitali, ovvero per differenziare la categoria anatomo-biologica di appartenenza (sex), dalle categorie psichiche di maschile e femminile (gender), cosi come vengono a “costruirsi” nella cultura sociale e ad articolarsi nei contesti relazionali (Petruccelli, Simonelli, Grassotti & Tripodi, 2014).

Il genere, tipicamente descritto in termini di mascolinità e femminilità, è una costruzione sociale che varia tra le diverse culture e nel tempo (Wood, 1997).

Il genere è per Butler (2004) “un’aspettativa che finisce per produrre proprio il fenomeno atteso” cioè la differenza sessuale (p.19).

Le categorie maschili e femminili si configurano come poli opposti di un continuum tra i quali potrebbero collocarsi una moltitudine di categorie intermedie non socialmente riconosciute (Ruspini, 2004). Esistono, ad esempio, alcune culture in cui il sesso ed il genere non sono sempre nettamente divisi dicotomicamente, come maschio e femmina, oppure come omosessuale ed eterosessuale. In Arizona è presente un popolo nativo americano conosciuto come Navajo. All’ interno di tale popolo, alcuni uomini chiamati Bardaches, vengono categorizzati in un terzo genere, ed è permesso loro di sposare altri uomini. Questo, nella loro società, differentemente dalla cultura occidentale, non è definito omosessualità, uomini donne e Bardaches coesistono all’interno di un’unica cultura (Andersen & Taylor, 2004). Questa terza categoria si riferisce ad individui biologicamente maschi ma che assumono i tipici atteggiamenti e comportamenti del sesso opposto, lavorando e vestendo essenzialmente come delle donne. I Bardache del Nordamerica, i Fa’afafine nel Pacifico ed i Kathoey in Tailandia, sono tutti esempi di diverse categorie di genere che differiscono dalla divisione, categorizzante, dell’occidente. Anche tra gli africani e gli indiani americani esistono società con un terzo genere chiamato donne dal cuore maschile, ossia donne biologicamente femmine ma che assumono condotte ed atteggiamenti stereotipicamente maschili (Lorber, 1994).

Mi sorge una domanda spontanea: perché allora non vedere maschio/femmina, uomo/donna, come poli opposti di un continuum al cui interno poter ‘sistemare’ tutte le varietà tipologiche di identità sessuale, di identità di genere e perché no, anche di orientamenti sessuali? È evidente che molte culture, a noi più remote, hanno adottato molteplici approcci per distinguere le fluidità e la complessità del genere e del sesso biologico, perché questa visione non può esser adottata dalla nostra cultura? Sono comunque del parere che, negli ultimi decenni, si stiano realizzando dei consistenti passi avanti, in quanto la decostruzione dei generi sta allentando le costruzioni binarie, contribuendo a smontare lo stereotipo di un’omosessualità condizionata dal genere, ampliando semmai dimensioni di genere multiple e queer (Lingiardi & Vono 2012).

 

Aspetti neuropsicologici utili nella pratica psicoterapeutica

Quest’articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di avvicinare coloro che lavorano in ambito psicologico e psicoterapeutico ad un tema molto importante. L’obiettivo è quello di diventare più consapevoli del fatto che i processi cognitivi ed affettivi le cui disfunzioni possono condurre in terapia, sono dotati di un substrato neurologico.

Daniela Beltrami – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La psicoterapia può essere definita come una pratica terapeutica della psicologia clinica che si occupa di disturbi psicopatologici. “Terapia cognitivo – comportamentale” si riferisce ad una terapia diretta a modificare i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti disadattivi del paziente, con lo scopo di facilitare la riduzione e l’eliminazione del disagio psicologico. È rivolta a tutto ciò che accade all’interno della mente (memoria, attenzione, ragionamento, ecc.) e alle risposte comportamentali dell’individuo.

Nonostante l’ampio dibattito sul concetto “mente” che ancora vanta una visione triplice (la mente indagabile senza riferimenti alla fisiologia cerebrale; la mente in quanto prodotto del cervello e dunque oggetto di indagine neurofisiologica; la mente come software dell’hardware cervello), è chiaro che una terapia rivolta ai processi cognitivi si dedica sostanzialmente al cervello.

Durante una lezione universitaria ricordo che un professore ci raccontò di un paziente che, dopo diversi mesi di terapia per una sintomatologia depressiva, ricevette una diagnosi di cancro al cervello. Nessuno aveva considerato il sintomo depressivo come spia di una problematica organica.

Quest’articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di avvicinare coloro che lavorano in ambito psicologico e psicoterapeutico ad un tema molto importante. L’obiettivo è quello di diventare più consapevoli del fatto che i processi cognitivi ed affettivi le cui disfunzioni possono condurre in terapia, sono dotati di un substrato neurologico.

Anatomia e funzioni del cervello

Il cervello è l’organo principale del sistema nervoso centrale. È contenuto nella scatola cranica e suddiviso in rombencefalo (bulbo, ponte e cervelletto), mesencefalo e prosencefalo (diencefalo: talamo e ipotalamo; telencefalo: emisferi cerebrali). I due emisferi sono separati in superficie dalla scissura interemisferica, mentre in profondità sono collegati dalle fibre del corpo calloso, che permette la comunicazione tra le due metà. Sebbene non esista una divisione funzionale netta nonostante la specializzazione delle varie strutture (grazie al ricco dialogo che intercorre tra le diverse aree), spesso ci si rivolge all’emisfero sinistro come alla sede dei processi deduttivi e a quello destro come al sito deputato all’intuizione (Jaoui, 2010).

Esploriamo rapidamente le funzioni di alcune delle strutture più importanti. Ciascun emisfero è suddiviso in quattro lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale):

  • Il lobo frontale (parte anteriore del cervello; aree corticale motoria e pre-motoria) è il luogo in cui sono elaborati i pensieri; esso partecipa ai processi di apprendimento, memoria e linguaggio;
  • Il lobo parietale (parte superiore del cervello, area somestesica primaria, contenitore di stimoli tattili, dolorifici, pressori e termici) controlla la comprensione linguistica, la memoria verbale, le capacità matematiche e visuo-spaziali;
  • Il lobo temporale (parte inferiore degli emisferi; area acustica) elabora affettività, memoria, reazioni e comportamenti istintivi, riconoscimento visivo e percezione uditiva; la parte sinistra è deputata alla comprensione linguistica e alla scelta delle parole, quella destra alla comprensione dell’intonazione del discorso e della sequenza di suoni; coinvolge anche il sistema limbico;
  • Il lobo occipitale, situato posteriormente, è sede dell’integrazione di tutte le informazioni visive, comprese quelle che influenzano postura ed equilibrio.

Lesioni (funzionali o strutturali) o disfunzioni a carico anche solo di una piccola porzione dei lobi si possono ripercuotere ampiamente sul funzionamento cognitivo e/o affettivo.

Negli esseri umani la corteccia è la struttura predominante del cervello ed è sede delle funzioni superiori (Abrahams, 2010). Da essa provengono tutte le afferenze sensitive che sono percepite a livello cosciente e interpretate in base alle esperienze precedenti. Le informazioni provenienti dal mondo esterno sono accolte dalla porzione corticale posteriore tramite le aree sensitive primarie e sono immagazzinate e rese disponibili per il recupero grazie all’attività della fascia mediale (sistema limbico). La corteccia anteriore è molto importante, è deputata all’organizzazione del movimento (aree motorie primarie, supplementari e pre-motorie) e alla pianificazione del comportamento motorio complesso (area prefrontale).

L’area prefrontale è sede delle funzioni esecutive, che coordinano i processi di pianificazione e controllo (organizzazione delle azioni in base a mete e obiettivi, spostamento flessibile dell’attenzione, attivazione di strategie appropriate e inibizione di quelle meno adeguate, astrazione, regolazione delle emozioni, della motivazione e decision making, ecc.). In pazienti con disturbi psichiatrici (ad es. ADHD, schizofrenia e disturbo della condotta), lesioni traumatiche o disfunzioni delle aree prefrontali e dei circuiti cortico-sottocorticali associati, tali abilità possono essere compromesse. Inoltre, sembra che anche la sperimentazione di molteplici traumi psicologici, soprattutto se concentrati nei primi anni di vita, possa aumentare il rischio per lo sviluppo di disfunzioni esecutive, attentive, mnesiche (Bremner et al., 1995) e metacognitive (Myers & Wells, 2015).

Il sistema limbico è costituito da strutture che proiettano all’ipotalamo e alle vie afferenti che partono dalle aree corticali associative parietali e occipitali (funzione percettivo-spaziale) e presiedono al controllo dei movimenti finalizzati, dei comportamenti istintivi e a varie funzioni psichiche come emotività, comportamento, memoria a lungo termine e olfatto. Esso comprende amigdala, ippocampo (formazione delle tracce di memoria a lungo termine e orientamento spaziale tramite mappe cognitive), talamo e ipotalamo (controllo delle reazioni emozionali, di paura e dei ritmi circadiani), bulbo olfattivo (ricezione degli stimoli olfattivi) e fornice (formazione della memoria a lungo termine). L’amigdala riceve afferenze dalle aree temporali, frontali, limbiche (olfattive) e invia ad aree frontali, ippocampo, ipotalamo e troncoencefalo (funzioni vegetative e comportamenti specie-specifici); la somministrazione di alcune sostanze farmacologiche (ad es. benzodiazepine, oppioidi) attenua la risposta emotiva.

Plasticità

In un breve e divertente video di Smarter Every Day (riportato alla fine del testo), che vi consiglio vivamente di guardare prima di procedere nella lettura, emerge come sia difficile chiedere al nostro cervello di rispondere ad uno stimolo in modo completamente diverso dal solito (ovvero da come ha imparato a rispondere in base ad una serie di esperienze). Un giovane adulto si cimenta nella guida di una bicicletta nella quale è necessario girare il manubrio a destra per andare a sinistra e viceversa. Ogni giorno si allena con costanza e, dopo circa otto mesi di stimolazione ripetuta, “all’improvviso” riesce nell’impresa. Il figlio impiega soltanto due settimane.

Il cervello si modifica costantemente. È stato dimostrato (Paus, 2005a,b) che la densità di sostanza grigia non è legata soltanto ad aspetti ereditari, ma è influenzata dall’esperienza. I circuiti cerebrali cambiano in risposta a diversi fattori (sviluppo, lesioni, apprendimento e memoria; Squire & Kandel, 1999). La plasticità è il modo in cui gli individui creano e modificano le connessioni neurali in risposta alla propria esperienza (Dudai, 2002; Squire & Kandel, 1999); quando uno stimolo è ripetuto per un lungo periodo (da ore a giorni) ad alta frequenza, l’efficacia delle sinapsi aumenta (Dudai, 2002).

Esaminando l’ippocampo di alcuni aspiranti tassisti dopo un training specifico di circa tre anni, ad esempio, è stato recentemente evidenziato (Woollett et al., 2011) un maggior volume della porzione posteriore di tale struttura (deputata alla memoria e all’esplorazione visuo-spaziale) di coloro che avevano ottenuto la licenza. Imparare a memoria la mappa di una grande città produce cambiamenti strutturali nel cervello (Maguire et al., 2006)[3].

Da questi due esempi possiamo trarre alcune considerazioni: l’apprendimento è in grado di produrre cambiamenti strutturali anche nel cervello di individui adulti, sebbene quello dei bambini sia più malleabile e rapido nell’acquisire nuove informazioni; tali cambiamenti sono possibili in seguito ad un allenamento ripetuto e costante nel tempo.

Tramite l’interazione tra processi neurofisiologici cerebrali ed esperienze vissute, la plasticità consente alla mente di formarsi. Le esperienze vissute, di tipo ambientale e interpersonale (in particolar modo quelle precoci), sono fondamentali poiché influenzano il nostro modo di vedere e interpretare il mondo, modificando la struttura cerebrale.

Un’esperienza potrebbe essere emotivamente così forte da lasciare una cicatrice nel tessuto cerebrale

W. James, 1890

 

Tutto ciò che facciamo è il risultato di un apprendimento. Quando facciamo il caffè, guidiamo o reagiamo ad una situazione ridendo o piangendo, stiamo mettendo in atto un processo cognitivo che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva tramite il processo di memorizzazione. Tutto ciò che apprendiamo lascia una traccia, anche quando non ce ne accorgiamo. Agli inizi del XX Claparède, un neuropsichiatra svizzero che era solito stringere la mano ai suoi pazienti, nascose uno spillo nella mano destra e si recò a salutare una paziente amnesica. La mattina successiva la paziente si rifiutò di stringergli la mano, nonostante non ricordasse alcunché (Fabbro, 1996, 1999).

La terapia non è solo una revisione della storia del paziente; è un metodo di insegnamento, un processo di integrazione,un insieme di principi per una organizzazione futura

Cozzolino, 2002

Come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo, la terapia cognitivo – comportamentale si fonda sul presupposto che vi sia una stretta correlazione tra pensieri, emozioni e comportamenti, e che alla base dei disturbi vi siano credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, provocando sofferenza nel soggetto. Tali credenze sono difficili da modificare poiché si basano su meccanismi di mantenimento: grazie alla loro utilità hanno consolidato determinati “sentieri neuronali”.

Psicoterapia e plasticità

Riconoscendo e modificando i pensieri disfunzionali è possibile promuovere cambiamenti a livello emotivo e comportamentale. La psicoterapia stimola la costruzione di punti di vista alternativi, modi nuovi di pensare e di comportarsi, potenzia la capacità di problem solving, di auto-rappresentazione e di regolazione degli stati affettivi, stimolando le aree cerebrali sottostanti (corteccia prefrontale dorsolaterale, mediale e ventrolaterale, corteccia cingolata e insulare, precuneo, amigdala; Frewen et al., 2008). Partendo dal presupposto che le aree del cervello associate con emozioni e memoria sono dotate di grande plasticità (Davidson et al., 2000), possiamo sostenere che gli approcci terapeutici che si basano sullo stimolo di emozioni e memoria mirano direttamente al cambiamento neuronale (Davidson et al., 2000). Tutte le forme di terapia, indipendentemente dall’orientamento terapeutico, sono efficaci nel grado con cui stimolano la crescita e l’integrazione neurale (Cozzolino, 2002).

Dopo essere stata considerata per anni un trattamento “per problemi d’origine psicologica”, con l’avvento delle nuove tecniche di neuroimaging (SPECT, PET, fMRI, ecc.) (Gabbard, 2000), la psicoterapia è ora vista come un trattamento biologico, una terapia del cervello che produce cambiamenti strutturali riscontrabili nel cervello, esattamente come accade per l’apprendimento (Kandel, 2013).

Sembra che la relazione terapeutica sia il predittore più affidabile di cambiamento in psicoterapia (Lambert, 1992; McCabe & Priebe, 2004); più è connotata da fiducia, condivisione e accettazione, più efficace sarà l’intervento (Horvath et al., 2011). Le connessioni interpersonali possono stimolare lo sviluppo dei circuiti cerebrali corticolimbici e orbitofrontali (associati a regolazione emotiva e attivazione corporea; Schore, 2003), tanto da promuovere la terapia a nuova relazione di attaccamento, in grado di migliorare la regolazione emotiva (Siegel, 1999) e ristrutturare la memoria implicita attaccamento-correlata (Amini et al., 1996; Gabbard, 2000). Tale memoria, che contiene le informazioni ottenute dalle interazioni corporee ed emozionali, e riguarda le azioni automatiche e le modalità di comportamento non verbale, ha come substrato neurologico gangli basali, cervelletto e amigdala (Kendel, 1999).

Il terapeuta è dunque chiamato ad accompagnare il paziente nel lungo viaggio del cambiamento, guardandolo cadere dalla bicicletta, aiutandolo a risalire sui pedali, rassicurandolo e ripetendosi con pazienza ed accoglienza, affinché i circuiti neuronali possano modificarsi.

Oltre all’efficacia terapeutica, le relazioni di cura nell’età adulta possono elicitare risposte fisiologiche dalla modificazione del ritmo circadiano al recupero da una malattia (Hofer & Sullivan, 2001).

Senza l’emozione non c’è conoscenza. Possiamo essere consapevoli di qualcosa, ma finché non abbiamo sentito la sua forza, non è nostra

 Bennett, 1897

 

Il ruolo delle emozioni

Come abbiamo appena visto, l’emozione è un concetto centrale dal punto di vista terapeutico e neuropsicologico. Essa può essere definita come una risposta del corpo necessaria e funzionale alla sopravvivenza che deriva dalle strutture più antiche del nostro cervello (LeDoux, 1997), un “processo attraverso cui il cervello determina o computa il valore di uno stimolo” (LeDoux, 2002).

Secondo la teoria di Cannon-Bard (Cannon, 1920; Scachter & Singer, 1962), lo stimolo emotigeno viene inizialmente elaborato dai centri sottocorticali del sistema limbico: l’amigdala riceve l’informazione dai nuclei posteriori del talamo e provoca una prima reazione finalizzata a mettere in allerta l’organismo (aumento o diminuzione della sudorazione e delle pulsazioni cardiache, accelerazione del ritmo respiratorio, ecc.). Contemporaneamente lo stimolo è inviato dal talamo alle cortecce associative, ed è sottoposto ad una elaborazione più lenta e raffinata che porta ad una risposta appropriata all’ambiente.

La gestione emotiva è un punto centrale nel percorso terapeutico. Sembra che etichettare le emozioni negative, ad esempio, produca una maggior attivazione della corteccia prefrontale e una diminuzione dell’attività del sistema limbico e dello stress emotivo (Hariri, Bookheimer, & Mazziotta, 2000; Lieberman, Hariri, Jarcho, Eisenberger, & Bookheimer, 2005); esplorarne il significato può agire sui processi di decision making e modificare i comportamenti maladattivi.

Uno degli effetti più conosciuti delle emozioni negative è l’esposizione elevata ai glucocorticoidi (McEwan et al., 1995). In bassa concentrazione essi aumentano la memoria; in elevata e prolungata concentrazione danneggiano le cellule dell’ippocampo (Sapolsky, 1998). Inoltre, stress ed emozioni negative incidono negativamente sul sistema immunitario (Goleman, 2011; Friedman & Boothby-Kewley, 1987).

Lesioni cerebrali possono comportare disturbi nel riconoscimento e nell’espressione emotiva. I pazienti che hanno subito lesioni frontali (situazione frequente negli incidenti automobilistici), ad esempio, mostrano condizioni eterogenee verosimilmente legate alla specifica area compromessa. In alcuni casi emergono condotte emozionali e sociali non appropriate (es. disinibizione, utilizzo di espressioni colorite, ecc.), in altri casi apatia, abulia, mancanza di spontaneità, incapacità di pianificazione ed espressioni mimiche povere o instabilità ed egocentrismo.

Immaginiamoci la seguente situazione: un paziente con sindrome ansioso-depressiva che ha recentemente avuto un piccolo incidente senza perdita di coscienza o amnesia, con esami neurologici e neuroradiologici negativi, arriva al colloquio. Secondo la compagna “è cambiato, è più irritabile, risponde male ed è spesso depresso”. Prima di procedere con la terapia, è opportuno ricordare che esiste una sindrome denominata “soggettiva post-traumatica”, caratterizzata da una serie di sintomi cognitivi, affettivi e comportamentali che conseguono ad un trauma cranico lieve e persistono nel tempo: irritabilità, ansia, depressione, modificazione della personalità, affaticabilità, disturbi del sonno, della libido o dell’appetito, disturbi mnesici o attentivi.

Nel valutare l’atteggiamento del paziente in terapia, è necessario escludere che vi siano compromissioni dal punto di vista neuropsicologico. Una ridotta capacità di riconoscere o identificarsi con i sentimenti e le necessità altrui, un atteggiamento irriverente, irrispettoso, provocatorio, ad esempio, possono essere sintomi di un disturbo di personalità, come di una disfunzione frontale.

Anche la personalità può modificarsi in seguito a lesioni cerebrali. Nel 1848 un’esplosione accidentale fece schizzare in aria il ferro da pigiatura che Phineas Gage, capocantiere, stava utilizzando. Il ferro attraversò la parte anteriore del suo cranio, provocando un grave trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello. Egli sopravvisse miracolosamente all’incidente: dopo alcuni minuti era in grado di parlare e in circa tre settimane poteva alzarsi dal letto e uscire autonomamente. Era però profondamente cambiato, al punto che gli amici non lo riconoscevano più: burbero, in preda ad alti e bassi, incline alla blasfemia, in continua ricerca di nuovi progetti che poi abbandonava per altri apparentemente più fattibili.

L’immaginazione

Prima di concludere facciamo un piccolo accenno al potente tema dell’immaginazione. Essa è la capacità di vedere oggetti che non possono essere percepiti in un particolare momento (Kosslyn et al., 2001). La cosa interessante è che sembra che i processi immaginativi utilizzino gli stessi substrati neurali di quelli percettivi (Kreiman, et al. 2000): immaginare un animale feroce è come vedere un animale feroce. Per questo motivo, alcune tecniche immaginative sono utilizzate in terapia per il trattamento di condizioni patologiche quali il dolore, la paura, le fobie o l’ansia. Immaginare una realtà diversa permette di formulare e sperimentare alternative al proprio modo di pensare. Un giovane che ritiene di “parlare con un muro” quando tenta l’approccio con i genitori, può immaginare di arrampicarsi, sdraiarsi o disegnare su quel muro (Kopp, 1995) invece di volerlo distruggere con rabbia e delusione.

Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregata. Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali

(E. Dickinson)

GUARDA IL VIDEO SULLA PLASTICITA’ NEURALE DI SMARTER EVERY DAY:

Come non avere paura dello spettro del trauma

Diversamente da quanto sostengono Sassaroli e colleghi il problema non è che tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress quanto piuttosto il contrario: il trauma è uno dei maggiori fattori di rischio per tutti i disturbi psichici, indipendentemente dalla specifica diagnosi.

Di Benedetto Farina

 

Il trauma spiega ogni psicopatologia?

Il 25 maggio su State of Mind Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni Ruggiero hanno pubblicato l’articolo “Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)”. Il titolo curiosamente parafraseggia la nota espressione del Manifesto del partito Comunista scritto da Marx ed Engels nel 1847 “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”. Per Sassaroli e colleghi lo spettro che si aggira per il mondo della psicoterapia è il pantraumatismo, specie nel mondo della psicoterapia cognitiva: “Il problema è, come al solito, quando un modello smette di limitarsi a spiegare solo alcuni disturbi e aspira a una spiegazione universale dell’intera sofferenza emotiva”. Come è possibile non essere d’accordo con loro? E’ assurdo e ingenuo pensare che esista un solo meccanismo patogenetico che spieghi tutta la sofferenza psichica.

Il problema però è che i colleghi che hanno scritto l’articolo e sollevato questo condivisibile timore non ci dicono chi è che sostiene tutto questo. Purtroppo nell’articolo non viene citata una sola fonte bibliografica che giustifichi tali timori: non un autore o un articolo dove venga affermato che il trauma spiega tutto.

Viene citato invece il lavoro di Liotti e mio, in cui però abbiamo affermato e descritto tutt’altro. E poiché in questo momento Liotti non può rispondere e rassicurare i colleghi rispetto ai loro timori spettrali cercherò di farlo io. E cosa c’è di meglio per combattere la paura di fantasmi e spettri se non i dati della realtà?

Leggi anche:
(1) Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)
(2) Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina

 

Cosa dicono i dati scientifici

In questo caso la realtà descritta dai dati della ricerca scientifica. Con Sassaroli, Caselli e Ruggiero so che condividiamo la necessità di basare le riflessioni cliniche sui dati della ricerca e non sulle opinioni personali fondate su pregiudizi o peggio sulle paure: per questo citerò le fonti scientificamente più autorevoli e accurate che “circoscrivono” il problema del trauma dello sviluppo (TdS) a circa il 10% della popolazione generale e circa un terzo di quella clinica. Secondo l’ultimo report del National Child Abuse and Neglect Data System del Dipartimento della Salute degli USA (uno dei maggiori osservatori epidemiologici sul trauma infantile): “circa il 10% della popolazione generale negli USA sperimenta una o più forme di abuso o maltrattamento nell’infanzia (…) Circa un terzo prima dei tre anni (…) il 91.7 % degli abusi sono causati da uno o entrambi i genitori”. La forma più comune di trauma infantile (80%) è il neglect, la trascuratezza, l’abuso sessuale “solo” l’8.4% (US Department of Health and Human Services, 2017).

Questi dati spiegano il sottotitolo di un noto volume curato da molti studiosi del trauma infantile: l’epidemia nascosta. Eh già, perché questi dati non solo ci rivelano che il trauma infantile ha la diffusione di un’epidemia, ma anche il fatto che una parte notevole avviene senza cicatrici evidenti e soprattutto in un periodo dell’età in cui non è possibile formare memorie episodiche per cui può non essere riportato nei racconti che il paziente offre al terapeuta, anche al più attento.

I segni del trauma sono però rintracciabili dall’espressione clinica delle sue conseguenze, non conoscerle rischia di confondere il clinico non adeguatamente informato e può condurre a quelle “scorrettezze cliniche” che Sassaroli e colleghi giustamente temono.

Un secondo dato per evitare di avere paura dei fantasmi è che “solo” un terzo di tutti i pazienti che ci chiedono aiuto, indipendentemente dalla diagnosi con cui si presenta il paziente, ha come fattore di rischio il trauma (Green et al 2010). Questo dato importante risponde a un altro dei timori che Sassaroli e colleghi segnalano: “L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta [il trauma n.d.r.] e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress”.

Il trauma come fattore di rischio per tutti i disturbi psichici

Diversamente da quanto sostengono Sassaroli e colleghi il problema non è che tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress quanto piuttosto il contrario: il trauma è uno dei maggiori fattori di rischio per tutti i disturbi psichici, indipendentemente dalla specifica diagnosi. Il trauma dello sviluppo genera una dimensione psicopatologica rivelata dalla presenza di specifici elementi clinici o da dirette prove di storie traumatiche e incide sulla gravità, sulla prognosi e sul trattamento di tutti i disturbi psichici. Un monumentale studio epidemiologico condotto dalla Harvard University su circa 5600 individui e pubblicato nel 2010 su Archives of General Psychiatry dimostrava che il trauma dello sviluppo rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio per circa un terzo dei pazienti adulti e per circa il 44 % della psicopatologia che esordisce durante l’infanzia e l’adolescenza (Green et al., 2010). McCrory e collaboratori, più recentemente, in una rassegna dei dati che provengono dagli studi di neuroimaging hanno confermato che: “Il maltrattamento infantile, incluso quello fisico, emotivo, il neglect, rappresenta verosimilmente il predittore più potente per la bassa qualità della salute psichica durante tutta la vita. Tali eventi di vita negativi incrementano il rischio di una vasta gamma di disturbi psichici durante l’infanzia e la vita adulta” (McCrory et al 2017).

Il TdS non è solo il “il predittore più potente per la bassa qualità della salute psichica” ma lo è anche per le malattie fisiche. Ciò è quanto è stato stabilito dallo studio ACE (Adverse Childhood Experiences) promosso dal Centro per la Prevenzione e Controllo delle Malattie del Dipartimento della Salute degli USA (Felitti 2009): “Lo studio ACE è una delle più vaste sperimentazioni mai condotte sull’associazione tra il maltrattamento infantile e lo stato di salute nella vita adulta (…) I risultati dello studio ACE suggeriscono che queste esperienze sono uno dei maggiori fattori di rischio per le più diffuse malattie, per la mortalità, così come per la bassa qualità della vita negli USA”.

Secondo i dati che provengono dalla letteratura scientifica il trauma non conduce solo al PTSD che è solamente la categoria diagnostica che descrive le conseguenze cliniche dei singoli eventi traumatici (e che non è in grado di descrivere la complessità clinica generata dal TdS), ma genera una dimensione patologica che diffonde in tutti i quadri clinici peggiorandone la prognosi e determinando resistenza a qualsiasi tipo di trattamento (Farina e Liotti 2013).

McCrory e colleghi (2017) stanno corredando con numerosi dati di letteratura le loro affermazioni a questo proposito: “I disturbi psichiatrici in coloro che hanno sperimentato maltrattamento infantile tendono a manifestarsi più precocemente, con una sintomatologia più grave (…) e con un aumentato rischio di comorbilità (…) Inoltre un disturbo in chi ha sperimentato maltrattamento infantile tende a essere più persistente, ad avere più ricadute e a rispondere meno agli approcci terapeutici standard.”. Questi sono i dati di realtà che illuminano la nostra attività clinica e ci proteggono contro la paura dei fantasmi.

Le cause che conducono il trauma dello sviluppo a generare resistenza al trattamento sono precise e in buona parte identificate dalle ricerche. E’ buona pratica clinica che lo psicoterapeuta conosca e disinneschi (laddove è possibile) tali processi patogenetici. Il principale di essi è dato dalle difficoltà nella relazione terapeutica e nella costruzione e nel mantenimento dell’alleanza terapeutica (Liotti e Farina, 2011). Relazione terapeutica e alleanza terapeutica sono tutt’altro che concetti “fumosi” e “poco promettenti come strumento terapeutico” come hanno affermato Sassaroli e colleghi.

Essi hanno affermato che “Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire”. Un’enorme e crescente letteratura scientifica, anche in ambito cognitivista, contraddice queste affermazioni che riducono il lavoro con e sulla relazione terapeutica alla “buona educazione” (Semerari 2000, Dimaggio et al 2010, Liotti e Monticelli 2014). La stima che ho dei colleghi Sassaroli, Caselli e Ruggiero mi spinge a invitarli a riconsiderare le loro affermazioni antiscientifiche su un tema così importante. Le difficoltà terapeutiche con i pazienti che hanno subito una qualche forma di trauma dello sviluppo ci impongono invece di conoscere la ricerca empirica e teorica sulla relazione terapeutica ed affinare le capacità e le tecniche che ci permettono di utilizzarla come strumento di lavoro psicoterapico.

A distanza di 170 anni dalla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista possiamo dire che, almeno in Europa, lo spettro del comunismo si è dissolto e che ad avere timore dei comunisti sono rimasti alcuni politici italiani come Berlusconi e Salvini che continuano la loro personale “caccia alle streghe” (Marx e Engels 1847) per accaparrarsi consensi. Spero che Sandra Sassaroli, Giovanni Ruggiero e Gabriele Caselli si possano sentire confortati sul rischio del pantraumatismo già da questi pochi dati e dalle fonti che ho citato. Dati scientifici controllati che affermano il ruolo primario del trauma dello sviluppo nel generare la psicopatologia e quello centrale del lavoro con la relazione terapeutica.

Le competenze dei bambini bilingue nel riconoscimento delle voci

Secondo un nuovo studio i bambini bilingue avrebbero delle capacità in più rispetto ai loro coetanei monolingue.

 

I risultati, pubblicati sulla rivista Bilingualism: Language e Cognition, suggeriscono che la capacità di saper parlare più di una lingua va ben oltre i vantaggi cognitivi.

Secondo la Dottoressa Susannah Levi, i bambini bilingue hanno un vantaggio sui coetanei monolingue quando si tratta di elaborare informazioni sulla voce durante un colloquio. Questo vantaggio si verifica nell’aspetto della percezione del linguaggio: non vengono elaborate solo informazioni linguistiche, ma anche informazioni su chi sta parlando e su come lo sta facendo

Nel suo studio la Dottoressa Levi ha esaminato come i bambini elaborano informazioni mentre una persona parla. Quarantuno bambini hanno partecipato allo studio: 22 bambini monolingue e 19 bambini bilingue. I bambini bilingue parlavano inglese e sono stati quotidianamente esposti ad una seconda lingua (di solito il tedesco). Inoltre, essi sono stati divisi per età in due gruppi: un gruppo di bambini fino ai 9 anni, e un gruppo di bambini dai 10 anni in poi.

Bambini bilingue: la capacità di ascolto e riconoscimento vocale

I bambini hanno compiuto una serie di compiti di ascolto. In un primo compito i bambini, monolingue, dovevano ascoltare una serie di parole in una lingua che conoscevano (inglese, parlato con un accento tedesco) e in un linguaggio sconosciuto (tedesco). Ai bambini fu poi chiesto se le parole che avevano ascoltato provenissero, basandosi su sintomi vocali, dalla stessa persona o da persone diverse.

In un secondo compito, ai bambini fu chiesto di identificare le voci interpretate da personaggi dei cartoni animati. Dopo aver ascoltato i personaggi dire una serie di parole, i bambini hanno successivamente ascoltato una sola parola e hanno in seguito indicato quale dei personaggi avesse parlato. Questi compiti hanno rivelato che i bambini più grandi hanno eseguito i compiti meglio dei bambini più giovani, confermando gli studi precedenti i quali affermano che si migliora con l’età.

La Dottoressa Levi ha anche scoperto che i bambini bilingue eseguono questo tipo di compiti meglio dei bambini monolingue. Quando ascoltavano persone parlare in inglese, i bambini bilingue sapevano discriminare meglio e identificare meglio le voci. Lo studio, continua la Dottoressa, evidenzia i vantaggi del bilinguismo nell’apprendimento e nello sviluppo cognitivo. Altri studi in letteratura dimostrano che i bambini bilingue possono apprendere più conoscenze ascoltando i discorsi, presentano un miglior controllo cognitivo e un maggior grado di concentrazione.

Lo studio fornisce un esempio di quelli che sono i vantaggi del parlare e comprendere più lingue contemporaneamente anche se serviranno ulteriori ricerche per comprenderne i meccanismi sottostanti.

Diabete: la terapia cognitivo-comportamentale riduce la fatica

La fatica è una delle condizioni meno studiate nel diabete. Un gruppo di ricercatori olandese ha valutato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nella riduzione di questo sintomo.

 

Un nuovo studio (Juliane Menting et al, 2017) randomizzato e controllato – pubblicato online da The Lancet Diabetes and Endocrinology – dimostra che la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), erogata sia frontalmente, sia via web, riduce notevolmente la stanchezza nei pazienti con diabete mellito di tipo 1. Questa è una forma di diabete che si manifesta prevalentemente nell’infanzia e nell’adolescenza ed è caratterizzata da una carente produzione di insulina con conseguente iperglicemia.

La stanchezza cronica nei pazienti con diabete: il contributo della terapia cognitivo-comportamentale

Questa ricerca clinica è la prima che ha indagato la fatica nei soggetti affetti da diabete di tipo 1. Menting e colleghi scrivono che buona parte (fino al 40%) dei pazienti affetti da diabete di tipo 1 presenta una forma di stanchezza cronica, definita come un’importante stanchezza che dura almeno da sei mesi (Pouwer F., 2017). L’impiego della terapia cognitivo-comportamentale per curare la stanchezza cronica – basato sull’idea che se la malattia provoca la stanchezza sono tuttavia i fattori cognitivi-comportamentali che mantengono i sintomi – ha dimostrato di essere efficace nei pazienti sofferenti anche di altre malattie croniche.

Menting e il suo team hanno eseguito uno studio controllato randomizzato multicentrico presso un centro medico universitario e quattro grandi ospedali nei Paesi Bassi. I pazienti arruolati nello studio, tra il 6 febbraio 2014 e il 24 marzo 2016, erano di età compresa tra 18 e 70 anni ed erano affetti da diabete mellito di tipo 1 da almeno 1 anno e stanchezza cronica da almeno 6 mesi. I 120 pazienti arruolati sono stati divisi casualmente (tramite computer) in due gruppi. Il primo ha ricevuto per cinque mesi la terapia cognitivo comportamentale (Dia-Fit), mentre il secondo è stato inserito in una lista di attesa. I pazienti del gruppo trattato sono stati sottoposti a 5-8 sedute faccia a faccia con uno psicologo clinico e poi hanno completato 8 moduli via web.

Nel trattamento i pazienti hanno imparato, per esempio, a regolare meglio la loro attività fisica o a ottimizzare il ciclo sonno-veglia o a cambiare le loro idee negative sulla fatica. L’obiettivo del trattamento non è stato quello di imparare a fronteggiare la fatica, ma quello di ridurre effettivamente la stanchezza. Alla fine del trattamento, i punteggi relativi al grado di severità della fatica, nei pazienti del gruppo trattato con psicoterapia cognitivo-comportamentale, erano di 13,8 punti inferiori rispetto al gruppo di controllo (p <0,0001).

Nonostante i risultati promettenti, è necessario proseguire con le ricerche per dimostrare se gli effetti del trattamento possono essere mantenuti nel tempo e per trovare le spiegazioni del suo funzionamento. L’impressione, secondo gli autori, è che la stanchezza sia spesso trascurata a causa del tempo limitato che i medici dedicano a questo sintomo essendo concentrati soprattutto sulla stabilizzazione della glicemia.

Nell’editoriale (2017), che ha accompagnato la pubblicazione dell’articolo, si osserva che alcuni studi hanno suggerito come l’ipoglicemia notturna contribuisca alla stanchezza, ma gli autori non hanno affrontato questo problema nello studio. I risultati del team di Menting devono essere confermati in ulteriori studi, ma quanto è emerso suggerisce che l’affaticamento cronico nel diabete di tipo 1 è suscettibile di trattamento. È una notizia positiva sia per i pazienti, sia per la ricerca futura in questo ambito ancora poco indagato.

I Bisogni educativi speciali. Diagnosi, prevenzione e intervento (2016) – Recensione

I Bisogni Educativi Speciali. Diagnosi, prevenzione e intervento di Monica Pratelli e Francesca Rifiuti è un interessante lavoro in cui si dà spazio, valore e voce a tutti i protagonisti della sempre più complessa realtà scolastica e educativa.

 

Bisogni educativi speciali: l’importanza del rapporto tra scuola e famiglia

Il testo si apre con una ricca testimonianza di temi e riflessioni che vanno dallo sguardo dei più piccoli sul contesto scolastico, all’attenzione dei genitori sui bambini, fino al rapporto tra scuola, famiglia e servizi.

È proposto un ambiente scolastico che, se osservato con attenzione, non manca di rivelarci il modo in cui ciascun alunno occupa il proprio posto in esso, con interesse e curiosità, noia e persino sofferenza, ma anche con desiderio di miglioramento. Il più delle volte, proprio dietro quest’ultimo, si coglie la semplicità delle richieste, che dovute e possibili risultano ancora poco accolte.

Allo stesso modo, anche l’osservazione dell’ambiente familiare ci consente di rilevare quanto i genitori riescano a rispondere, talvolta, con fatica ai bisogni educativi speciali dei bambini. Il tempo del fare tutto e a tutti costi sembra aver occupato il posto di quello della condivisione e del piacere di stare insieme, privandolo di quella qualità in cui si consolida l’interesse per l’apprendimento e si dà importanza al naturale processo di crescita.

Un importante messaggio sulla relazione esistente tra il valore che il bambino attribuisce a se stesso e ciò che gli adulti vedono di lui e gli comunicano direttamente e non, si coglie perfettamente in queste parole di Monica Pratelli e Francesca Rifiuti (2016) “I figli hanno però bisogno di quotidianità, di sentirsi nella mente dei genitori, di percepire che ciò che fanno a scuola è “interessante” agli occhi dei grandi” (p. 21). In esse si condensa l’importanza di perseguire un equilibrio di forze comunicative e comportamentali tra scuola e famiglia per la promozione del benessere non solo individuale, ma anche collettivo.

Più precisamente, quello cui le autrici fanno riferimento, è un impegno corresponsabile portato avanti da parte della scuola e della famiglia nel trasmettere un messaggio positivo ai bambini e nel condividere un ambiente accogliente e capace di comunicare apertamente; la collaborazione con i servizi del territorio e il rispetto reciproco devono, inoltre, guidare il transito verso obiettivi educativi comuni.

Un sistema così organizzato permette un’importantissima attività di screening. A partire dalla scuola d’infanzia, indagando le principali aree dello sviluppo, con quest’attività valutativa è possibile individuare precocemente situazioni a rischio e predisporre programmi d’intervento efficaci.

Durante tali momenti d’indagine, nei quali gli operatori dei servizi dedicano una doverosa attenzione alla “prassi”, è altrettanto importante rivolgere uno sguardo verso quell’intessersi di vissuti, emozioni, desideri e attese, che dal primo colloquio, a quello di restituzione esplodono alla ricerca di uno spazio in cui essere accolti e compresi.

Bisogni educativi speciali: diagnosi e intervento

Proseguendo nella lettura, si viene accompagnati verso la conoscenza delle problematiche che riguardano l’apprendimento, dalla definizione, la valutazione delle competenze di base, alla diagnosi, fino all’intervento.

In quest’ampia sezione, che prende in esame i disturbi della comunicazione e coordinazione, di apprendimento, il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, il funzionamento psicologico in area limite, il disturbo dello spettro autistico e le difficoltà psicologiche e temporanee, prosegue la lettura sistemico-relazionale su cui il libro si fonda. Al clinico è offerto uno sguardo diagnostico nosografico e funzionale di ciascun disturbo, sono segnalati gli strumenti di valutazione e sono fornite indicazioni per il trattamento, individuale e familiare.

Di questi ultimi, si pone in evidenza che la misurazione dell’efficacia non può prescindere dalla considerazione delle relazioni autentiche su cui sono costruiti e il coinvolgimento attivo dei destinatari.

Seguendo questo itinerario è possibile riconoscere una “infinita” personalizzazione d’interventi. In primo piano, è collocata la complessità di ciascuna condizione ed è sostenuto uno sguardo che sia realmente interessato alle risorse, talvolta, trascurate. Si tratta di un’attenzione rivolta ai comportamenti positivi nei bambini con ADHD, al ricorso alla concretezza nei bambini con funzionamento psicologico in area limite, alla valorizzazione “contenuta” degli interessi nei bambini autistici, al doveroso sostegno per i bambini con livelli intellettivi superiori alla media. Quello proposto sembra un ambiente accogliente e comprensivo nei confronti di tutti i bambini, rispettoso delle difficoltà psicologiche e/o fisiche che stanno vivendo.

Un luogo in cui la valorizzazione delle differenze culturali passa attraverso modelli di comportamento inclusivi che per primi gli adulti, insegnanti e genitori, dovrebbero trasmettere ai bambini. Il terreno di un possibile incontro e confronto sulle difficoltà che personalmente provano nel comprendere una cultura molto differente dalla propria e sul modo in cui trasformarle in risorsa.

La scuola in definitiva è un laboratorio per sperimentare, conoscere, crescere” (Pratelli & Rifiuti, 2016, p. 263). Tuttavia, gravano su di essa criticità e resistenze che s’intrecciano con quelle familiari e dei servizi, allontanando quello spirito teso alla collaborazione multi – professionale, auspicabile per il suo rinnovamento.

La sovrapposizione di competenze e la confusione di ruoli, che talvolta si riscontra al suo interno, rendono difficile l’introduzione d’interventi che non siano solo compensativi ma finalizzati a stimolare lo sviluppo di risorse e strategie di apprendimento e dunque realmente efficaci.

Per tale ragione nel testo è fornita una chiara distinzione delle competenze e delle aree d’intervento proprie degli insegnanti, dello psicologo scolastico e del pedagogista clinico. Un’adeguata formazione e una conoscenza profonda del contesto in cui operano, delle caratteristiche, delle progettualità, dei bisogni e delle risorse degli istituti scolastici e del territorio costituiscono elementi indispensabili del loro agire.

Lo psicologo scolastico, impegnato nell’osservazione del gruppo classe, nella gestione delle dinamiche relazionali, comunicative ed emotive, non dovrebbe aderire a richieste di deresponsabilizzazione. Oltre al suo ruolo di supporto e formazione degli insegnanti, deve poter garantire uno spazio di ascolto destinato a genitori e alunni. Il pedagogista clinico, invece, è chiamato a sostenere un punto di vista educativo diretto a valorizzare le potenzialità e le differenze individuali nella programmazione didattica, nell’organizzazione degli ambienti e negli interventi di recupero e di potenziamento.

Il libro termina affidando alla scuola il compito di rinnovarsi, affinché possa essere rinnovato l’interesse nei confronti dell’apprendimento all’interno di uno spazio in cui poter respirare la soddisfazione di essere protagonista di esperienze positive, la dimensione del piacere che connetta alunni e insegnanti e un’attenzione positiva nei confronti dell’errore, proprio per l’importanza che riveste nel processo di apprendimento.

Lo sguardo verso i bambini durante una spiegazione, nel corso di una verifica come incoraggiamento, durante una qualsiasi attività per individuare la possibile difficoltà, per prevenire comportamenti inadeguati, per gratificare…tutto questo ha un grande valore” (Pratelli & Rifiuti, 2016, p. 258).

Il testo così concepito è uno stimolante invito all’esplorazione degli aspetti affettivi e sociali dei bisogni educativi speciali, un po’ troppo spesso trascurati.

 

La riabilitazione psichiatrica a vicolo cieco. Una conseguenza dell’inconsapevolezza sociale collettiva

La riabilitazione psichiatrica è un processo guidato in genere da un’èquipe multiprofessionale, nella quale un ruolo chiave è rivestito dal Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica (TeRP). Questo professionista ha il compito di progettare ed attuare interventi riabilitativi ed educativi in collaborazione con l’èquipe curante e la persona destinataria dell’intervento, al fine di potenziarne il funzionamento personale e sociale.

In cosa consiste la riabilitazione psichiatrica

La riabilitazione psichiatrica è un processo che ha come obiettivo principale la “guarigione sociale” della persona con disabilità psichiatrica. Essa lavora sulla compromissione delle abilità nello svolgere ruoli sociali e mira all’integrazione totale della persona nel contesto sociale di appartenenza a partire dalla riorganizzazione e dal potenziamento delle sue capacità residue.

La riabilitazione psichiatrica è un processo guidato in genere da un’èquipe multiprofessionale, nella quale un ruolo chiave è rivestito dal Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica (TeRP). Questo professionista ha il compito di progettare ed attuare interventi riabilitativi ed educativi in collaborazione con l’èquipe curante e la persona destinataria dell’intervento, al fine di potenziarne il funzionamento personale e sociale.

Per fare ciò si serve di tecniche e strumenti che funzionano solo se associati ad una competenza relazionale di base.

A livello sociale il compito di questo professionista è orientato alla creazione ed al mantenimento di una rete collaborativa con l’esterno. Per esterno ci si riferisce alla cerchia dei familiari e conoscenti dell’utente, ma anche alla realtà sociale più ampia, al fine di mediare l’inserimento della persona che vive l’esperienza della malattia mentale nella società sia a livello ricreativo che lavorativo.

I limiti e le difficoltà di attuazione della riabilitazione psichiatrica

L’inserimento della persona con disabilità psichiatrica nella società risulta di difficile attuazione, soprattutto nel mondo del lavoro. A prescindere dall’attuale crisi che interessa il nostro Paese, ciò avviene da un lato per il timore della persona avente il disagio psichico di frequentare posti “non protetti” lontani dall’atmosfera rassicurante e non giudicante propria delle strutture psichiatriche, dall’altro per la mancanza di prontezza della società che fatica ancora ad aprirsi a questo tipo di disabilità, vuoi per l’assenza di politiche forti, vuoi per la mentalità orientata al profitto più che al processo.

Inoltre, anche se a livello legislativo è ormai da tempo sancita la centralità della persona con disabilità nei percorsi di inserimento lavorativo, nella pratica dei fatti gli esigui inserimenti lavorativi che si concretizzano risultano spersonalizzanti e inadeguati a rinforzare e valorizzare le capacità della persona. Gli utenti vengono spesso inseriti in tirocini o percorsi lavorativi che non sono loro a scegliere e che non tengono conto delle loro potenzialità e vocazioni. Questo sistema che si definisce riabilitativo risulta ad uno sguardo più attento molto disfunzionale, oltre che predisponente alla ricaduta.

Quanto può ritenersi efficace il lavoro riabilitativo effettuato all’interno delle strutture se l’ambiente esterno si trova impreparato ad offrire agli utenti la possibilità di generalizzare le capacità riacquisite dopo un percorso riabilitativo?

È ormai assodato sul piano teorico che la disabilità altro non è se non una condizione di salute che si scontra con un ambiente sfavorevole.
Risulta fondamentale ormai l’addestramento della società alla responsabilità sociale, anche attraverso la sollecitazione delle aziende a munirsi degli strumenti teorici e tecnici per facilitare il processo di inserimento della persona con bisogni speciali al suo interno.

La necessità che sembra emergere è quella di abbattere la convinzione che l’integrazione della persona con disabilità psichiatrica a livello lavorativo sia un optional legato alla filosofia più o meno tollerante delle aziende e dei datori di lavoro. L’accessibilità lavorativa e sociale per le persone con disabilità è un diritto e interessa tutti allo stesso modo, perché come citava il messaggio di sensibilizzazione dell’associazione di volontariato toscana “I care” in un cartellone pubblicitario del 2011: “tutti possiamo diventare disabili, ma ognuno di noi può aiutare”.

La realtà virtuale nella pratica terapeutica: il video dall’esperienza del Forum di Riccione

Nel corso del Forum di Psicoterapia e Ricerca della Scuola di specializzazione Studi Cognitivi, sono state proposte a tutti gli allievi e docenti alcune esperienze di possibili usi nella pratica terapeutica di apparecchiature di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Prof. Gianni Brighetti

 

Nel corso del Forum di Psicoterapia e Ricerca della Scuola di specializzazione Studi Cognitivi tenutosi a Riccione il 5 e 6 Maggio 2017, accanto alle presentazioni di quasi 200 lavori di ricerca condotti dagli allievi delle diverse sedi della Scuola, sono state proposte a tutti gli allievi e docenti alcune esperienze di possibili usi nella pratica terapeutica di apparecchiature di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Negli ultimi anni si è assistito anche nell’ambito della terapia psicologica ad un consistente aumento di sperimentazioni di tecniche immersive virtuali. Nell’ambito della terapia del dolore McSherry et al. (2017); in quello delle fobie, Botella et al.(2017); Lindner et al. (2017); nel trattamento dei disturbi d’ansia, Kampmann et al. (2016); nella Exposure Therapy, unendo realtà virtuale e realtà aumentata Ben-Moussa et al. (2017).

Realtà virtuale nella pratica terapeutica video dall'esperienza del Forum di Riccione

Forum di Riccione – Docenti e allievi provano la realtà virtuale

Come mostra il video, filmato e montato da Mattia Nese, un giovane psicologo che si sta dedicando con impegno e passione al settore delle tecnologie digitali nella psicoterapia, supportato dalla Scuola Studi Cognitivi e con il contributo fondamentale della Società di Ingegneria Touchlabs di Bologna, gli effetti di immersività e di realismo degli scenari presentati sono davvero notevoli.

La Scuola di Studi Cognitivi ha avviato un progetto di ricerca aperto al contributo di tutte le sue sedi nazionali, per la progettazione e la sperimentazione di ambienti virtuali e di realtà aumentata con Avatars, utilizzabili nella pratica di flooding per la gestione e la terapia di disturbi fobici e post traumatici, di riabilitazione attraverso sistemi di Mobile Health, seguendo l’esempio dei progetti del Maudsley Biomedical Research Centre e di ricostruzione della memoria autobiografica a partire dall’anamnesi remota e recente.

 

REALTA’ VIRTUALE E PRATICA TERAPEUTICA – IL VIDEO DALL’ESPERIENZA DEL FORUM DI RICCIONE

https://www.youtube.com/watch?v=GWKgzG2TvnU

La nuova frontiera sull’origine della malattia di Parkinson

Uno studio pre-clinico suggerisce che la malattia di Parkinson potrebbe originare dalle cellule endocrine dell’intestino: la proteina correlata al Parkinson potrebbe diffondersi dall’intestino al sistema nervoso.

 

Malattia di Parkinson: sintomatologia

La malattia di Parkinson è neurodegenerativa e progressiva, causata principalmente da una perdita dell’input dopaminergico dalla sostanza nera (pars compacta) allo striato, con conseguente ipoattivazione dell’area supplementare motoria e dell’area motoria primaria. All’interno dei neuroni residui si osservano inclusioni citoplasmatiche denominate corpi di Lewy e costituiti da α-sinucleina, proteina implicata nella patogenesi della malattia.

Le manifestazioni cliniche sono devastanti, la malattia di Parkinson è caratterizzata dalla presenza di rallentamento motorio (bradicinesia), rigidità muscolare e tremore.

Nella maggior parte dei casi, la malattia di Parkinson si trasmette in forma sporadica, senza che sia possibile identificare correlazioni con particolari eventi, condizioni o alterazioni genetiche. Alcune evidenze cliniche e patologiche mostrano che l’incremento di α-sinucleina avviene prima nel sistema nervoso enterico che in quello centrale.

La possibile connessione tra intestino e cervello per spiegare la malattia di Parkinson

Alcuni recenti studi relativi al Parkinson si sono concentrati sulla connessione intestino-cervello, esaminando i batteri dell’intestino; inoltre, è stato osservato come la separazione del nervo vago, che collega lo stomaco e il cervello, sarebbe in grado di proteggere alcune persone dalla malattia debilitante.

I ricercatori della Duke University hanno identificato un nuovo potenziale meccanismo delle cellule endocrine nell’intestino sia nei topi che negli esseri umani. All’interno di queste cellule si trova l’α-sinucleina; questa proteina è in grado di danneggiare il cervello a causa della sua tendenza ad aggregarsi, formando oligomeri più grandi che creano depositi tipici nei neuroni malati, i cosiddetti corpi di Lewy, sia nei pazienti con malattia di Parkinson che in pazienti con malattia di Alzheimer.

Secondo i risultati pubblicati il 15 giugno nella rivista JCI Insight, i ricercatori della Duke e i collaboratori dell’Università della California di San Francisco ipotizzano che un agente nell’intestino potrebbe interferire con l’α-sinucleina nelle cellule endocrine deformando la proteina. Tale proteina deformata o la sua aggregazione potrebbe quindi diffondersi attraverso il sistema nervoso nel cervello come prione (proteina alterata derivata da proteine normali prodotte dalle cellule), o proteine infettive, in modo simile alla malattia della mucca pazza. Questo dato supporta l’ipotesi che il disturbo neurodegenerativo potrebbe effettivamente originare dall’intestino.

L’ α-sinucleina è la componente principale dei corpi di Lewy o dei depositi proteici tossici che innescano la morte dei neuroni dopaminergici, uccidendoli dall’interno. Gli aggregati proteici si formano quando l’α-sinucleina sviluppa un errato ripiegamento nella sua struttura, normalmente a spirale, rendendola “appiccicosa” e soggetta ad aggregazione.

La domanda che sorge spontanea è: come può una proteina viaggiare dal tubo digerente, dove non ci sono cellule nervose, e arrivare fino al sistema nervoso? I ricercatori della Duke hanno mostrato che, anche se la funzione principale delle cellule endocrine dell’intestino è quella di regolare la digestione, esse hanno anche proprietà nervose.

Piuttosto che utilizzare gli ormoni per comunicare indirettamente con il sistema nervoso, queste cellule endocrine dell’intestino si collegano fisicamente alle cellule nervose, fornendo una via per comunicare con il cervello. I ricercatori hanno dimostrato questo in uno straordinario time-lapse (2015, Journal of Clinical Investigation) in cui una cellula endocrina intestinale viene osservata mediante microscopio in prossimità di un neurone. In poche ore la cellula endocrina si muove verso il neurone, appaiono le fibre tra loro e si stabilisce la connessione. Il video dimostra che le cellule endocrine sono in grado di comportarsi come le cellule nervose; ciò suggerisce che esse sono in grado di comunicare direttamente con il sistema nervoso e quindi con il cervello.

Con la nuova ricerca sull’ α-sinucleina nelle cellule endocrine, Liddle e colleghi ora hanno una spiegazione funzionale di come le proteine malformate possono diffondersi dall’interno dell’intestino al sistema nervoso, utilizzando una cellula non nervosa che agisce però come tale.

I ricercatori intendono raccogliere ed esaminare le cellule endocrine dell’intestino in pazienti Parkinson per osservare se contengono una α-sinucleina misfolded o anormale. Nuove informazioni su questa proteina potrebbero aiutare gli scienziati a sviluppare un biomarker che potrebbe diagnosticare precocemente la malattia di Parkinson.

Ulteriori approfondimenti sull’ α-sinucleina potrebbero essere utili per lo sviluppo di terapie che agiscono direttamente sulla proteina. Gli scienziati sono alla ricerca di trattamenti in grado di impedire che l’α-sinucleina si deformi ma, per ora, lo studio è ancora in una fase iniziale.

Neurodiversità: le variazioni neurali sono un ostacolo o una risorsa?

Negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità. Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. 

Sara Bocchicchio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Neurodiversità: semplice variazione umana o segno di patologia?

Dal 1889, a Sèvres, nei dintorni di Parigi, nei sotterranei del Bureau international des poids et mesures (in italiano, ufficio internazionale dei pesi e delle misure), in una stanza blindata e sotto tre campane di vetro, si trova custodito un cilindro metallico chiamato Grand Kilo. Esso rappresenta lo standard mondiale del chilogrammo e a esso fanno riferimento tutte le bilance dei Paesi che lo impiegano come unità di misura della massa. Per quanto riguarda il cervello umano non esiste uno standard, un prototipo mondiale al quale devono essere confrontati tutti gli altri cervelli umani.

Quindi com’è possibile decidere se il cervello o la mente di un individuo è normale o anormale? Indubbiamente nel mondo psichiatrico esistono molti tentativi di classificazione dei disturbi mentali, ma quando si tratta di condizioni come l’Autismo, il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI, in inglese ADHD), la Dislessia e i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) sembra che vi sia una sostanziale incertezza su quale sia la soglia critica che permette di definire un comportamento con una base neurologica, come una normale variazione umana o come segno di patologia (Armstrong, 2015).

Uno dei motivi di questa ambiguità è l’emergere negli ultimi due decenni di studi che suggeriscono che molti disturbi del cervello o della mente si caratterizzano sia di punti di forza che di debolezza. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, ad esempio, sembrano avere punti di forza legati al lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).

Uno dei risvolti pratici di queste particolari abilità è rappresentato dalla scelta di molte aziende che operano in ambito tecnologico di assumere persone autistiche per mansioni lavorative che richiedono abilità di organizzazione e di sequenziamento come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici (Wang, 2014). Altri studi hanno evidenziato le notevoli abilità visuo-spaziali che possono possedere i dislessici, tra cui la capacità di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) e l’abilità di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008). Queste abilità possono rivelarsi molto vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2012).

I ricercatori hanno osservato che i soggetti con Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) possiedono livelli di creatività e innovazione maggiori rispetto a persone di pari età e scolarità non DDAI (White & Shah, 2011). Esistono, poi, numerose testimonianze di persone che hanno raggiunto un enorme successo; tra i dislessici ricordiamo il celebre Steve Jobs che ha rivoluzionato il mondo della tecnologia e Richard Branson leader del colosso Virgin che ha definito la sua Dislessia “un vantaggio”; per quanto riguarda lo spettro autistico ricordiamo l’attore canadese Dan Aykroyd e la ricercatrice e blogger Michelle Dawson, una delle ricercatrici più importanti nell’ambito dell’autismo; per quanto riguarda il DDAI, infine, ricordiamo il famosissimo attore Jim Carrey e l’imprenditore brasiliano-statunitense David Neeleman fondatore di quattro compagnie aeree.

I vantaggi evolutivi della psicopatologia

Tali punti di forza possono spiegare da un punto di vista evolutivo il motivo per cui questi disturbi siano ancora nel pool genico. Alcuni scienziati suggeriscono che la psicopatologia talvolta può portare con sé specifici vantaggi evolutivi, nel passato, così come nel presente (Brüne et al., 2012).

Le capacità organizzative delle persone con disturbo dello spettro autistico potrebbero essersi rivelate vantaggiose e adatte alla sopravvivenza degli esseri umani preistorici. Come ipotizza in modo provocatorio un attivista appartenente al movimento per i diritti delle persone autistiche al New York Magazine nel 2008: “A realizzare la prima lancia di pietra probabilmente è stato un giovane con autismo ad alto funzionamento e non uno tra quelli con spiccate doti sociali soliti chiacchierare intorno al fuoco” (Solomon, 2008). Allo stesso modo, l’abilità di pensare per immagini e il pensiero tridimensionale evidenziati in alcuni dislessici potrebbero essere stati estremamente utili nelle culture preletterate per la progettazione di strumenti, per tracciare i percorsi di caccia e la costruzione di ripari (Ehardt, 2009).

La Dislessia e i DSA si prestano molto bene per comprendere quanto spesso questi disturbi rappresentino artefatti della società. La Dislessia non è una disabilità, ma una differenza nello stile di apprendimento. Le persone con Dislessia hanno molte difficoltà nell’apprendimento e nell’automatizzazione della lettura, pertanto, faticano nel corso degli studi scolastici in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se pensiamo alle società preletterate, quando il sapere era veicolato soprattutto per via orale, la Dislessia non aveva modo di emergere e soprattutto non rappresentava un ostacolo alla sopravvivenza e alla riuscita personale! Infine, possiamo ipotizzare che i sintomi principali del DDAI, tra cui l’iperattività, la facile distraibilità e l’impulsività, potevano rappresentare tratti estremamente adattativi e funzionali alle società preistoriche nelle quali le abilità di caccia e di ricerca di cibo, la velocità di reazione agli stimoli ambientali minacciosi e l’abilità di muoversi rapidamente potevano contribuire allo sviluppo e alla prosperità della comunità stessa (Jensen et al., 1997).

Neurodiversità: le qualità delle persone neurodiverse

L’insieme di questi studi dovrebbe suggerire un approccio più giudizioso al trattamento di queste particolari condizioni. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di sostituire i termini “disabilità”, “disturbo” o, peggio, “malattia” con il concetto di “diversità” che permette di tenere in considerazione sia i punti di forza che di debolezza, e abbracciando l’idea che queste “variazioni umane” possono essere vantaggiose in sé e per sé (Armstrong, 2015). A tal fine, negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità.

Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. Con questa nuova definizione la sociologa ha voluto evidenziare le attitudini, le qualità e le capacità delle persone neurodiverse con la speranza che le differenze neurologiche venissero riconosciute semplicemente come “variazioni umane”. Richiamando termini positivi, come la biodiversità e la diversità culturale, il suo neologismo ha richiamato l’attenzione sul fatto che un funzionamento cerebrale atipico può portare allo sviluppo di competenze e attitudini insolite. A proposito dei disturbi dello spettro autistico, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008, Judy Singer spiega: “Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali” (Solomon, 2008).

Un modo per capire la neurodiversità è pensare che solo perché un computer non usa Windows come sistema operativo non significa che non funzioni correttamente. Non tutte le caratteristiche atipiche dei ‘sistemi operativi umani’ sono difetti. Il termine neurodiverso si riferisce all’organizzazione strutturale del cervello; un cervello neurodiverso possiede una struttura cerebrale atipica che implica un modo differente di elaborare le informazioni, un modo differente non patologico! Per quanto riguarda i mezzi di stampa, il termine neurodiversità fece la sua prima apparizione nel 1998 grazie ad un articolo del giornalista Harvey Blume pubblicato sulla rivista Wired Hot Wired, nella sezione Atlantic. Blume dichiarò: “la neurodiversità può essere altrettanto cruciale per il genere umano quanto la biodiversità per la vita in generale. Chi può dire quale tipo di cablaggio si rivelerà il migliore in un dato momento? La cibernetica e l’informatica, per esempio, potrebbero favorire un’organizzazione ‘autistica’ della mente“ (Blume, 1998). Assumere questa posizione aiuta a comprendere perché le persone neurodiverse sono spesso disoccupate o demansionate; le aziende sono riluttanti ad assumere lavoratori che guardano, agiscono, e comunicano in modi non-neurotipici, usando una tastiera e software di sintesi vocale per esprimere se stessi, piuttosto che chiacchierare intorno ad una macchinetta del caffè!

Da allora, l’uso del termine neurodiversità ha continuato a crescere anche al di là del movimento per i diritti delle persone autistiche, nell’ambito degli studi sulla disabilità e sulle modalità educative speciali, nell’ambito lavorativo, ma anche in ambito sanitario e nelle istituzioni pubbliche. Questo, tuttavia, è vero se prendiamo in considerazione Paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, mentre in Italia la conoscenza e la diffusione del termine neurodiversità è praticamente nulla!

In questi anni di ricerche il mondo scientifico, mosso dall’esigenza di sostenere queste persone nel corso delle varie tappe di vita, si è soffermato soprattutto sugli aspetti negativi legati a queste condizioni contribuendo a diffondere l’idea che queste persone rappresentino una categoria “debole”, bisognosa di tutele e di sostegno da parte delle istituzioni. Questa visione, tuttavia, rappresenta solo un lato della medaglia. Adottare il concetto di neurodiversità potrebbe contribuire a diffondere un’idea più precisa di queste condizioni che tenga conto sia dei sui punti di forza che di debolezza e favorire, quindi, il successo e la realizzazione personale di queste persone. Essere neurodiversi non rappresenta di per sé un ostacolo al successo personale e professionale. E’ la scarsa comprensione del fenomeno e il mancato sostegno ad impedire la crescita di queste persone e ciò costituisce una perdita netta per l’intera società. E’ solo grazie alla diffusione di una conoscenza più precisa e all’intervento delle nostre istituzioni che potremo considerare queste persone non solo individui da tutelare, ma soprattutto talenti da non sprecare e l’adozione del termine neurodiversità sembra proprio un ottimo punto di partenza!

 

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