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La relazione terapeutica e il ruolo del terapeuta in psicoterapia psicodinamica e in psicoterapia cognitivo comportamentale

Molte ricerche scientifiche in campo psicoterapico, che si sono interrogate su quali siano gli elementi decisivi per un buon outcome in terapia, hanno sottolineato il peso determinante della relazione terapeutica nonché dell’alleanza terapeutica, che si viene a creare tra terapeuta e paziente.

Mara Di Paolo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Da quando Freud, fine ‘800 primi del ‘900, descrisse l’analista, nel setting analitico, come schermo opaco, neutrale e “anonimo” è trascorso molto tempo, e la stessa teorizzazione della psicoanalisi ha visto un’evoluzione tale da quasi rovesciare il paradigma : l’approccio della cosiddetta “psicoanalisi relazionale”, soprattutto americana (Mitchell, Hoffman, Ogden, Yalom), postula non solo come ovvio e naturale il coinvolgimento emozionale del terapeuta, ma sopratutto lo considera elemento da utilizzare nel processo di cura.

Attualmente in ambito psicoterapico esistono molti orientamenti : psicodinamico, cognitivo-comportamentale, rogersiano, gestaltista, etc, ma tutti chi più, chi meno, si sono interrogati e si interrogano sul ruolo del terapeuta nella relazione terapeutica. La stessa scoperta dei neuroni specchio in campo delle neuroscienze ha fornito un ulteriore spunto di riflessione sull’argomento.

La relazione terapeutica nella psicoterapia psicodinamica

La psicoanalisi relazionale fin dai suoi albori ha assunto l’opinione secondo la quale il lavoro clinico migliora quando si abbandona la velleità della neutralità dell’analista (Loiacono, 2002).

Nel corso degli ultimi anni nel linguaggio psicoanalitico accanto al concetto di self revelation si è affacciato anche il termine di self disclousure. La self revelation da sempre presente nel contesto analitico è quell’atto passivo e inevitabile che riguarda tutte le informazioni che il terapeuta con la sua presenza dà di se stesso al paziente e che riguardano il suo stile, il suo arredamento, le sue inflessioni linguistiche, i suoi interessi etc. La self revelation è quindi un tipo di disvelamento del terapeuta non consapevole e che permette al paziente di conoscere aspetti reali della persona analista. Mentre la self disclousure è un’azione vera e propria e riguarda tutto ciò che l’analista decide deliberatamente di mostrare di sè al paziente (Levensen). Molti autori usano spesso i termini di self disclosure e disclousure in modo intercambiabile, mentre altri preferiscono distinguere la disclousure della soggettività dell’analista (S.Cooper), dalla disclousure controtransferale (C.Bollas, D.Ehrenberg, I. Greenberg, etc).

Il concetto di self disclousure deve essere inscritto nel contesto dello sviluppo della psicoanalisi nord americana, con lo sviluppo della Psicologia del Sè di Khout e degli analisti appartenenti alle correnti di pensiero, conosciute come intersoggettivisti e interpersonalisti. Nel contesto europeo invece il pensiero Freudiano si è ampliato ai paradigmi della scuola britannica e a sua volta ha influenzato alcuni analisti americani.

Secondo gli analisti intersoggettivisti americani è impossibile per il terapeuta mantenere “l’anonimato” , ma anzi proprio perché l’analista è coinvolto in un rapporto terapeutico, non può non rapportarsi con e attraverso la sua soggettività, considerando che anche nella condizione più neutrale egli porta sempre qualcosa di sé attraverso la self rivelation. Tuttavia non tutti gli analisti sono a favore della self disclousure schierandosi nettamente contro e difendendo il setting tradizionale (Hanley, 1998); questi analisti temono che attraverso la self disclousure si possa inficiare la terapia psicoanalitica, in quanto potrebbe compromettere le dinamiche proiettive transferali del paziente. Nonostante i sostenitori a favore della forza della self disclousure, in terapia psicodinamica e in psicoanalisi, permane comunque l’assunto che la relazione terapeutica, che si viene a creare tra terapeuta e paziente è asimmetrica, con un terapeuta che gestisce un potere più ampio del proprio paziente, che per la sua stessa condizione di sofferenza è in una posizione di subordine.

La relazione terapeutica nella psicoterapia cognitivo comportamentale

Nell’ambito cognitivo-comportamentale il discorso è sempre stato diverso fin dall’inizio. Albert Ellis, psicologo clinico formatosi come psicoanalista presso il Karen Horney Institute di New York alla fine degli anni 40 del ‘900, fondatore della terapia cognitiva, si scontrò con i limiti reali di alcune prescrizioni pratiche della psicoanalisi dell’epoca, modificando il fulcro dell’azione terapeutica. Se Freud metteva al centro dell’azione terapeutica i contenuti inconsci, Ellis considerava l’importanza di concentrarsi sui contenuti coscienti.

Per Ellis la persona soffre per come pensa coscientemente i suoi attuali problemi, dunque sono questi pensieri coscienti, che vanno accertati, criticati, disputati e ripensati. Per Ellis il terapeuta non può essere neutrale, attendista e distaccato, bensì deve essere attivo e persuasivo e la seduta non è più teatro della riproposizione della tragedia edipica, ma del dialogo socratico (Ruggiero, Sassaroli, 2013;2015).

La relazione terapeutica, per i fondatori della terapia cognitiva Ellis e Beck (anch’egli formatosi inizialmente come psicoanalista) e per tutti i loro seguaci passati e presenti, è sempre stata di collaborazione paritaria e pragmatica tra terapeuta e paziente. Beck e i suoi colleghi (Beck,Rush, et.al 1979; Beck ed Emery, 1985; Beck e Young 1985) con il termine di “empirismo collaborativo” intendevano la necessità per i terapeuti di sviluppare relazioni di collaborazione con i pazienti al fine di aiutarli a scoprire le percezioni, che non trovano un riscontro concreto nella realtà. Secondo Beck e J. E. Young (1985) per riuscire a sviluppare una buona collaborazione terapeutica, il terapeuta dovrebbe essere ricco di calore umano, empatico, aperto e sollecito e non impersonare il ruolo dell’esperto assoluto. Liotti ad esempio crede nel fatto che il terapeuta non debba essere quello schermo privo di caratteristiche su cui il paziente possa proiettare i propri schemi transferali, ma al contrario il terapeuta possa far uso consapevole della propria diversità avendo un modello epistemologico e dell’uomo, che permetta di farlo.

La relazione terapeutica può essere plasmata, in accordo con le disposizioni, le tendenze e le caratteristiche che un terapeuta riconosce in sé, terapeuta che, così edotto ed educato durante la sua formazione, può fare uso delle proprie risorse personali del tutto legittimate all’interno di un’ epistemologia che lo permette” (Liotti) . La teoria dei sistemi motivazionali (Gilbert 1989; Liotti 1994/2005; Liotti, Monticelli, 2009) , enfatizza in terapia il ruolo determinate e necessario del sistema di cooperazione paritetica, cioè quel sistema di regolazione del comportamento sociale a base innata, che si attiva tra i membri dello stesso gruppo nel momento in cui un obiettivo possa essere raggiunto più facilmente considerandosi reciprocamente pari e tramite uno sforzo congiunto.

Spesso i terapeuti cognitivo comportamentali sono stati tacciati ingiustamente dai colleghi di orientamenti diversi, di essere più che dei terapeuti in carne ed ossa, dei meri tecnici, che di tecniche ne han fatto virtù. In realtà cognitivisti del calibro di Bara e Liotti si sono spesso confrontati sul valore e ruolo delle tecniche di terapia cognitivo-comportamentale nella relazione terapeutica; entrambi condividendo, seppur con delle visioni diverse per certi aspetti, l’assunto che non esistono le tecniche fuori dalla relazione terapeutica. Bara crede fermamente nel fatto che se il terapeuta non riesce per prima cosa ad instaurare un binario relazionale con il proprio paziente, nulla passerà ed alcuna tecnica funzionerà. La relazione per Bara consiste in una condivisione come stato mentale ed è legata al costruire insieme dei significati; nell’interazione psicoterapica terapeuta e paziente si devono accordare sul senso da attribuire all’interazione terapeutica stessa. Il terapeuta costruisce insieme al paziente ciò che percepisce e ciò che sta accadendo nell’hic et nunc della seduta. Per Bara solo nel momento in cui terapeuta e paziente hanno costruito qualcosa insieme e si sono accordati sul senso di quell’intervento particolare, allora solo a quel punto tutte le tecniche diventano utilizzabili.

 

 

Dormire poco fa male al cervello e si rischia l’Alzheimer

I ricercatori hanno trovato che un sonno persistentemente povero induce il cervello a pulire una serie significativa di neuroni e di connessioni sinaptiche e recuperare il sonno potrebbe non essere sufficiente a riparare il danno.

 

Cosa avviene nel cervello quando si dorme poco

La ragione per cui noi dormiamo va oltre la semplice reintegrazione dei livelli di energia ogni 12 ore – il nostro cervello cambia il proprio stato quando dormiamo per ripulire le sostanze tossiche sottoprodotte dall’attività neurale rilasciate durante il giorno. Alquanto stranamente, lo stesso processo avviene nei cervelli privati cronicamente del sonno – eccetto quando esso va in iperattività. I ricercatori hanno trovato che un sonno persistentemente povero induce il cervello a pulire una serie significativa di neuroni e di connessioni sinaptiche e recuperare il sonno potrebbe non essere sufficiente a riparare il danno.

Un team di ricerca italiano, guidato dal neuroscienziato Michele Bellesi, dell’Università Politecnica delle Marche, hanno esaminato la risposta del cervello di mammiferi abituati a dormire poco e hanno riscontrato una bizzarra similitudine tra quelli ben riposati e i topi privati del sonno.

Come le cellule nel nostro corpo, i neuroni nel cervello sono continuamente ripuliti da due differenti tipi di cellule gliali – cellule di supporto che sono spesso chiamate la colla del sistema nervoso. Le cellule microgliali sono responsabili della pulizia delle cellule morte attraverso un processo chiamato fagocitosi – dal greco “divorare”. Gli astrociti hanno il compito di rimodulare le connessioni sinaptiche inutili nel cervello e di ripulire e riformare le loro connessioni. Questo processo si verifica quando noi dormiamo per rigenerare l’usura e la “rottura” neurologica del giorno, ma adesso è evidente che la stessa cosa avviene quando perdiamo sonno.

Ma piuttosto che essere una cosa positiva, il cervello va in iperattività con la pulizia e inizia ad auto-danneggiarsi.

Pensiamo a ciò come alla spazzatura che viene ripulita mentre tu dormi, e al contrario qualcuno entra in casa tua dopo notti senza dormire e indiscriminatamente butta via il televisore, il tuo frigo e il tuo cane.

Mostriamo per la prima volta che le porzioni di sinapsi sono letteralmente divorate dagli astrociti perché dormiamo poco” – Bellesi ha detto a Andy Coghlan al New Scientist.

Per dimostrare ciò i ricercatori hanno studiato il cervello di topi assegnati a 4 gruppi:
– Un gruppo veniva lasciato dormire dalle 6 alle 8 ore (ben riposati);
– Un altro periodicamente si svegliava dal sonno (risveglio sporadico);
– Un terzo gruppo era tenuto sveglio per altre 8 ore (deprivati del sonno);
– Il gruppo finale era tenuto sveglio per 5 giorni consecutivi (deprivati cronicamente del sonno).

Quando i ricercatori hanno comparato l’attività degli astrociti tra i 4 gruppi, l’hanno identificata in 5.7% delle sinapsi nelle menti dei tipi ben riposati, e in 7.3 nelle menti dei topi svegliati spontaneamente.

Nei topi deprivati e cronicamente deprivati del sonno, hanno notato qualcosa di differente: gli astrociti avevano incrementato la loro attività mangiando parti delle sinapsi come le cellule microgliali mangiano i rifiuti – un processo conosciuto come fagocitosi astrocitica.

Nei cervelli dei topi deprivati dal sonno, gli astrociti sono stati trovati attivi intorno all’ 8.4% delle sinapsi, e in quelli privati cronicamente del sonno, un enorme 13.5 % delle loro sinapsi mostrava attività astrocita.

La deprivazione di sonno genera la fagocitosi astrocitica

Come Bellesi disse al New Scientist, molte delle sinapsi divorate nei 2 gruppi di topi deprivati del sonno erano per la maggior parte quelle più vecchie e più usurate (connessioni logore) – “come vecchi pezzi di una fornitura” – cosa che è probabilmente positiva.

Ma quando il team ha controllato l’attività delle cellule gliali, hanno notato che era intensificato nei cervelli dei topi deprivati cronicamente del sonno.
E cio è negativo, perché l’incontrollata attività delle cellule gliali era già stata associata a disturbi neurali come l’Alzheimer e altre forme di patologie neurodegenerative.

Troviamo che la fagocitosi astrocitica, principalmente di elementi presinaptici in larghe sinapsi, si verifica dopo un’acuta e cronica perdita di sonno, ma non dopo un risveglio spontaneo, suggerendo che ciò favorirebbe la pulizia interna e il riciclo di componenti usurate di sinapsi fortemente logore”, riportano i ricercatori.

Di contro, solo la perdita di sonno cronico attiva le cellule gliali e favorisce la loro attività fagocitica…suggerendo che un’interruzione estesa di sonno potrebbe preparare le cellule microgliali e predisporre probabilmente il cervello ad altri disturbi”.

Molte domande rimangono, come per esempio se questo processo si ripete nel cervello umano, e se recuperando sonno si può rimediare al danno.
Ma il fatto che le morti di Alzheimer siano cresciute del 50% dal 1999, insieme alla difficoltà che molti di noi hanno di avere un buon sonno notturno, significa che è qualcosa che vale la pena continuare ad indagare, e presto.

La ricerca è pubblicata nel Journal of Neuroscience.

La mente nei mondi virtuali. Report dal convegno sulle trasformazioni cerebrali indotte dalle tecnologie

Si è svolto lo scorso 26 maggio a Palermo, presso la prestigiosa sede della Libreria Mondadori Store, un seminario che ha visto riuniti psichiatri e psicoterapeuti nel compito di delineare i problemi di salute pubblica indotti dall’uso delle tecnologie informatiche, nonché i vantaggi apportati a livello cognitivo ed emotivo e le possibilità di cura offerte dalla psicoterapia.

 

I meccanismi cerebrali coinvolti nell’utilizzo delle tecnologie

Molteplici sono le possibilità offerte dalle tecnologie – spiega il professor Vincenzo Caretti, psicologo clinico e professore di Psicopatologia dello Sviluppo all’Università degli Studi di Palermo – Al di là delle possibilità di nuocere, la tecnologia può essere di ausilio nel rallentare il declino cognitivo e nel migliorare i riflessi, come avviene nella neuroriabilitazione. Certamente non si possono trascurare gli svantaggi conseguenti a un abuso delle tecnologie, come l’atrofia della materia grigia, area cerebrale importante per la programmazione, frequentemente presente negli adolescenti dipendenti dai videogames. Dal punto di vista psicologico, un sintomo preoccupante è la trance dissociativa da videoterminale, rilevata originariamente su un ragazzo che presentava un delirio dopo l’abuso del videogioco Street Fighter. Si tratta di soggetti con una particolare vulnerabilità, nel caso specifico il soggetto era cresciuto in casa famiglia”.

Quali sono i meccanismi cerebrali alla base del successo di tali strumenti tecnologici?

Alla base della dipendenza dalle nuove tecnologie vi è l’attivazione di una struttura cerebrale, il nucleo accumbens, stimolato per esempio dai like di Facebook. Quest’area cerebrale si sviluppa tra i 13 e i 17 anni in misura maggiore rispetto alla corteccia frontale, deputata alla regolazione del comportamento – continua Caretti – Ecco spiegata l’impulsività tipica degli adolescenti su cui l’impatto delle nuove tecnologie ha quindi particolare significato e deve stimolare precoci processi di intervento; ovviamente tale iper-attivazione comporta delle problematiche rispetto al trattamento. Oggi la psicoterapia non può più ignorare l’importanza dell’utilizzo, più o meno funzionale, del virtuale: basti considerare come l’interazione uomo-robot porterà alla costruzione di robot con pelle al silicone che interverranno nei diversi ambiti di vita, e altresì penso ai robot affettivi, già adoperati nell’assistenza agli anziani“.

La mente dei mondi virtuali gli effetti delle tecnologie sul cervello - Palermo, 2017

Sui correlati neurofisiologici delle nuove tecnologie si è soffermato il professore Massimo Olivieri, medico specialista in neurologia e professore di neurofisiologia all’Università di Palermo.

Bisogna innanzitutto considerare che l’attività del cervello conseguente all’amicizia off-line e on-line è sostanzialmente identica. In altre parole le aree del cervello che si attivano attraverso i social media sono molto simili a quelle che si attivano con le amicizie reali, ovvero le aree del lobo temporale, importanti per la definizione dell’identità. Se ciò non ci deve portare immediatamente a demonizzare la realtà virtuale, è innegabile il rischio insito in un abuso della realtà virtuale. Nell’attivazione cerebrale indotta dalle tecnologie manca il reclutamento della corteccia frontale, implicata nella rappresentazione del futuro, nel controllo dell’impulsività e nella creatività”.

Dal punto di vista cognitivo i danni possibili dall’abuso del virtuale sono notevoli: per esempio l’abuso dei videogames determina deficit nell’attenzione sostenuta e nell’autocontrollo (spesso a seguito della identificazione con l’avatar). Infine è stata verificata una connessione tra il tempo passato su Google e l’indebolimento della forza delle connessioni tra le aree cerebrali”.

Ancora sui cambiamenti psicologici indotti dalle nuove tecnologie e sul ruolo della psicoterapia argomenta il professore Daniele La Barbera, professore ordinario di Psichiatria presso l’Università di Palermo.

La rapidità dei cambiamenti indotti dal virtuale richiede responsabilità e non può essere trascurata. Il danno psicologico più grave riscontrabile oggi è l’erosione del principio di realtà, che sembra franare nei giovanissimi. In particolare sono in aumento i fenomeni dissociativi a causa del precoce impatto continuativo con il virtuale, con un effetto grave sui bambini, più esposti perché non ancora in possesso di un sistema di pensiero sviluppato. Una diretta conseguenza dell’uso delle nuove tecnologie è inoltre il collasso dell’empatia. Si può addirittura pervenire a un’equazione del narcisismo calcolando il numero dei selfie per ora. L’uso molto intenso dei social media può portare allo sviluppo di tratti autistici, come l’evitamento del contatto oculare. Si assiste in definitiva oggi a un disagio specifico tecno-dipendente che obbliga a dire addio al modello tradizionale di psicoterapia e una presa di consapevolezza di nuove strategie di cura, in cui peraltro le tecnologie stesse sono implicate, come nelle moderne terapie via Skype”.

In che modo lo psicoterapeuta si pone di fronte a tali fenomeni?

Gli psicoterapeuti possono reagire in modi diversi, come la negazione, oppure l’arroccamento su posizioni da rivedere alla luce di tali drastici cambiamenti, come il riferimento alla teoria freudiana. In ultimo esiste l’apertura critica al nuovo disagio, la via più utile, considerata la necessità, ormai irrinunciabile, della comprensione dei fenomeni di mutamento culturale, che non può più considerarsi una questione di nicchia o per pochi illuminati“.

E se i danni delle tecnologie sono innegabili, certamente un ruolo non indifferente lo gioca la personalità, al punto da condizionare lo sviluppo o meno della patologia, come sottolinea il professore Adriano Schimmenti, associato di Psicologia dinamica presso l’Università Kore di Enna..

Vi sono fattori propri di personalità come la schizotipia, ovvero la tendenza al pensiero disorganizzato, che predispongono allo sviluppo di una psicopatologia, in seguito al contatto con il mondo virtuale. Il fattore personalità è talmente centrale che con l’aumentare di tale tratto di personalità il fattore immersione nelle tecnologie appare addirittura trascurabile”.

E sugli effetti benefici della psicoterapia che rendono tale scelta di cura intrinsecamente collegata alle modifiche strutturali dei neuroni, alla plasticità neurale e quindi al miglioramento della qualità di vita si conclude l’evento formativo, con una speranza concreta per chi è affetto da tale forma di disagio psichico, affettivo e comportamentale.

La psicoterapia ha effetti importanti sul benessere mentale e sulla struttura stessa del cervello– continua Schimmenti- Imparare l’autoregolazione emotiva, aumentare il benessere soggettivo e relazionale sono processi che corrispondono a una modifica strutturale del cervello, ovvero all’allungamento delle estremità dei cromosomi, i telomeri”.

L’alcol, dall’uso non patologico alla dipendenza: considerazioni e trattamenti

L’ alcol è una sostanza psicoattiva che, al pari del tabacco e del caffè, è frequentemente utilizzata. E’ fondamentale però distinguere tra: uso non patologico, abuso e dipendenza.

 

L’ alcol è una sostanza psicoattiva che, al pari del tabacco e del caffè, è frequentemente utilizzata. Spesso, per i bambini, il primo contatto con l’ alcol può avvenire all’interno delle mura domestiche; infatti, non è inusuale che l’alcol si trovi sulle nostre tavole. In adolescenza, invece, dove il gruppo dei pari assume un ruolo fondamentale, è frequente che durante le uscite o alle feste si venga esposti all’ alcol. In particolare, relativamente al consumo di sostanze, è fondamentale distinguere tra:

  • Uso non patologico: uso ricreativo e sociale senza conseguenze a livello sia fisico che cognitivo.
  • Abuso: modalità di uso patologico delle sostanze psicoattive. L’individuo continua ad assumere alcol nonostante sia consapevole di avere un problema (sociale, lavorativo) causato dall’uso della sostanza .
  • Dipendenza: è caratterizzata da una scarsa capacità di controllo su consumo della sostanza psicoattiva che viene assunta nonostante il manifestarsi di conseguenze avverse.

Alcol e sostanze: i criteri del DSM per la diagnosi di un disturbo

I criteri riportati nel DSM per il Disturbo da uso di sostanze fanno riferimento a una modalità patologica d’uso della sostanza che conduce a disagio o compromissione clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle condizioni seguenti, che si verificano entro un periodo di 12 mesi:

  • La sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto;
  • Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza;
  • Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per es., recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla, o a riprendersi dai suoi effetti;
  • Craving o forte desiderio o spinta all’uso della sostanza;
  • Uso ricorrente della sostanza che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa;
  • Uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
  • Importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o ridotte a causa dell’uso della sostanza.
  • Uso ricorrente di alcol in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso (ad esempio alla guida).
  • Uso continuato di alcol nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico (es: perdita di memoria), che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza.
  • Tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti:
    • Il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato;
    • Un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza.
  • Astinenza, come manifestata da ciascuno dei seguenti:
    • La caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza (riferirsi ai Criteri A e B dei set di criteri per Astinenza dalle sostanze specifiche);
    • La stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza.

Nella diagnosi bisogna specificare se:

  • La persona beve in Ambiente Controllato
  • Codificare il decorso della Dipendenza: Remissione Precoce (3<x<12 mesi); Remissione Protratta (>12 mesi)
  • Ed infine, stabilire la gravità attuale: Lieve: 2‐3 sintomi; Moderata: 4‐5 sintomi; Grave: 6 o più sintomi

Circa il 13% della popolazione negli Stati Uniti, durante il corso della sua vita soddisfa i criteri per l’abuso di alcol e circa il 5% per dipendenza da sostanza da alcol.

CAGE: il questionario per scoprire se si soffre di un disturbo da uso di alcol

Un breve questionario, che permette di comprendere se una persona abbia un disturbo legato all’ alcol, è il CAGE. In particolare, questo test prevede quattro domande:

  1. Ha mai pensato che dovrebbe smettere di bere?
  2. Si è mai irritato perché alcune persone la criticano a causa del bere?
  3. Si è mai sentito in colpa perché beve troppo?
  4. Si è mai svegliato al mattino pensando di bere come prima cosa?

Due o più risposte positive indicano un uso problematico di alcol.

I trattamenti per i disturbi correlati all’uso di alcol

Sono stati avviati diverse tipologie di trattamenti per i disturbi correlati all’ alcol. Nel trattamento farmacologico vengono spesso utilizzate due categorie di farmaci:

  • Farmaci che agiscono su desiderio di bere: Disulfiram (Antabuse) e Naltrexone.
  • Farmaci che riducono di effetti dell’astinenza: Valium.

Riguardo ai trattamenti psicologici troviamo:

  • Terapia di gruppo: vi è spesso un professionista che dirige il gruppo. Il confronto tra le persone che abusano di alcol è molto importante, in quanto le persone sono spinte a non mentire e a non negare di fronte a persone che conoscono bene questi meccanismi.
  • Interventi ambientali: all’interno delle residenze protette, la persona è impossibilitata a procurarsi le sostanze, in quanto la persona è osservata 24h su 24h. L’intervento viene spesso abbinato alla somministrazione di farmaci e mostra buoni risultati.
  • Terapia cognitivo-comportamentale: si basa su alcune tecniche come il condizionamento avversivo, che condiziona l’assunzione della sostanza in modi negativi, e il training di abilità. Per un paziente alcolista è fondamentale imparare determinate abilità di base al fine di riconoscere i segnali di rischio per una ricaduta, ad esempio andare a una festa, fare un brindisi.

Il 99% degli approcci mirano all’astinenza completa dall’ alcol; altri invece parlano di uso controllato, cioè un uso non problematico.

L’arte di essere fragili: come Leopardi può salvarti la vita di Alessandro D’Avenia (2016) – Recensione

In “L’arte di essere fragili” l’autore Alessandro D’Avenia intesse un ipotetico scambio epistolare con il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) rivalutandone la sua figura “spesso liquidata e ricordata come pessimista e sfortunata”, sebbene a suo avviso dimostri attraverso le varie lettere e citazioni quanto invece Leopardi fosse “affamato di vita e di infinito”. Il testo è suddiviso nelle seguenti sezioni: adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere).

 

L’arte di essere fragili: uno scambio epistolare con Giacomo Leopardi

Alessandro D’Avenia, giovane scrittore e insegnante di Lettere, fin dal suo esordio letterario si è rivolto principalmente ad un pubblico giovane, bloccato in quella età di mezzo caotica che è l’adolescenza. Con i suoi libri ha cercato di intessere un dialogo con loro partendo dall’ascolto dei loro principali bisogni inespressi e inappagati, aiutandoli a ritrovare un senso ed una direzione nella loro vita. Questa volta, tuttavia, il libro può essere apprezzato anche da un lettore più maturo, sebbene l’interlocutore principale continui ad essere l’adolescente in quanto futuro adulto.

In “L’arte di essere fragili” l’autore intesse un ipotetico scambio epistolare con il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) rivalutandone la sua figura “spesso liquidata e ricordata come pessimista e sfortunata”, sebbene a suo avviso dimostri attraverso le varie lettere e citazioni quanto invece Leopardi fosse “affamato di vita e di infinito”. Il testo è suddiviso nelle seguenti sezioni: adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere).

L’autore, in un primo momento, mette in risalto il desiderio del giovane Leopardi di esplorare il mondo esterno, di andare oltre i limiti della “siepe” e di una famiglia controllante, “rapito” da una sorta di “innamoramento” della natura attraverso cui comprende la propria vocazione e il proprio scopo ultimo, ossia realizzarsi attraverso la letteratura, componendo scritti colmi di questo “rapimento”. La vita, però, molto spesso non asseconda le nostre aspirazioni ma, anzi, pone degli ostacoli (nel caso di Leopardi l’ impossibilità in un primo momento di allontanarsi dalla famiglia di origine, l’amore negato più volte, la malattia che lo priva del suo unico scopo di leggere e scrivere). Davanti a ciò, l’adulto mette da parte i propri sogni ma quello che dovrebbe fare è, invece, accettare i limiti per realizzare nuovi “rapimenti” che vadano oltre ai limiti stessi o che ne riattribuiscano un senso. Per questo motivo, secondo Alessandro D’Avenia, Leopardi non è pessimista: a suo avviso è invece un uomo che, scontrandosi con gli ostacoli, ha fatto diventare i suoi scopi irraggiungibili e i limiti della vita ulteriori nuovi scopi di lirica e poesia, di ampliamento della conoscenza. Il canto della solitudine e della natura malvagia nascono proprio dalla riattribuzione di senso rispetto agli eventi negativi che hanno costellato la sua vita.

L’arte di essere fragili, la lettura cognitivista del libro

Emerge una possibilità di lettura del testo in termini cognitivisti, con elementi propri della scopistica e dei movimenti cosiddetti di “terza ondata” del cognitivismo.

Gli scopi costituiscono il sistema motivazionale dell’individuo, orientandone il comportamento e le scelte in base al proprio sistema di valori. Occorre avere degli scopi, senza non siamo definiti come persona. E’ altrettanto importante riuscire a marcare emotivamente i propri desideri. Gli scopi sono infatti strettamente interconnessi alle emozioni, che hanno la funzione di segnalare a noi stessi e agli altri dove ci collochiamo rispetto all’obiettivo finale che ci siamo posti. Emozioni positive segnalano che ci stiamo avvicinando all’obiettivo, viceversa emozioni di tristezza o invidia segnalano che ne siamo lontani. Una marcatura “positiva” di un desiderio è ciò che è alla base del “rapimento” descritto nel testo dall’autore, che sprona i giovani a riconoscerlo e a identificarlo in modo da comprendere quale possa essere il loro scopo terminale o passione nel corso della vita adulta.

Ma la sofferenza psicologica nasce spesso proprio dal continuare a cercare di raggiungere scopi irraggiungibili. Una soluzione a questa impasse giunge dal movimento di “terza ondata” del cognitivismo che sottolinea l’importanza della accettazione, che è un concetto ben diverso dal condividere e subire passivamente quanto stiamo vivendo. Accettare significa capire che non c’è possibilità di azione, sentire l’emozione di dolore e di impotenza che ne scaturisce per poi, in un secondo momento, riuscire però a guardare oltre, trovando nuovi significati di vita [“Malinconia è vedere l’enorme fragilità del mondo e non scappare ma chinarsi a riparare senza stancarsi; scorgere che sempre, sempre, qualcosa manca, e in quel vuoto sentirsi spinti non verso il nulla, ma verso la creazione”].

Questa è l’arte di essere fragili propria della età della maturità, l’arte di accettare ciò che non si può cambiare senza esserne sottomessi. L’arte di continuare a fare poesia della e nella sofferenza [“C’è ancora qualcosa da scoprire, una luce in mezzo alle tenebre, non fosse altro che la luce dei tuoi versi…non hai trasformato il nulla in nulla ma in bellezza”].

Riconoscere le emozioni: il primo passo per regolarle

Si può dire che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno, ma in che modo? In questo ci vengono in aiuto le emozioni.

Valentina Di Dodo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Ogni giorno della propria vita il mondo interno, soggettivo, di ciascun essere umano entra in contatto con il mondo esterno dotandolo di significato.

Il mondo interno è formato da quello che più caratterizza la persona e ne fanno parte: il carattere e le strutture di personalità, le credenze e il sistema di valori propri di ciascuno. Il mondo interno è quella cosa per cui a fine giornata una persona può dire “oggi è stata una bella giornata” o il contrario. Per ogni persona una giornata può essere bella o brutta semplicemente per il significato che essa stessa dà a quella giornata: una giornata molto faticosa può essere ritenuta molto soddisfacente da alcuni e terribile da altri.

Dare significato al mondo: il ruolo delle emozioni

Si può dire quindi che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno. Ma in che modo diamo un significato? In questo ci vengono in aiuto le emozioni. Seconda alcune teorie, infatti, le emozioni sono degli stati mentali in grado di direzionare una persona nel proprio mondo, per fare questo le emozioni aiutano gli esseri umani cosa si frappone tre sé e il proprio scopo: se lo scopo è avere una giornata rilassante, avere un lavoro molto faticoso non ci permette di raggiungere lo scopo, per questo possiamo sentire o un fallimento oppure un’ingiustizia. Se lo scopo è quello di ottenere una promozione lavorativa, ma non siamo certi di riuscire a consegnare tutto il nostro lavoro a fine giornata, lo scopo non è ancora fallito, ma è minacciato.

Ma cosa succede esattamente quando definiamo una giornata “brutta”? Cos’è che ci fa dare questa definizione di una giornata? Come abbiamo appena visto i nostri pensieri, basati sul sistema di valori centrali, ci danno un’indicazione di come stanno andando le cose per noi, ma sono le emozioni che ci danno un indice percepibile di come abbiamo vissuto la nostra giornata, o di come la stiamo vivendo. Quando alla sera parlando con un amico sosteniamo di aver avuto una brutta giornata, l’indicazione di quanto è stata brutta difficilmente ci viene data in modo del tutto razionale. Spesso è quello che sentiamo a darci delle indicazioni più chiare: se sentiamo di stare un po’ male, probabilmente la giornata è stata un po’ brutta, se sentiamo di essere sconvolti dalle nostre emozioni negative probabilmente la giornata si è allontanata moltissimo dai nostri scopi, facendola diventare una giornata pessima.

Riconoscere le emozioni e i pensieri che le generano

A molti verrebbe da chiedersi il motivo per cui la giornata è andata così male: se è facilmente individuabile il motivo, è altrettanto semplice trovare una soluzione o una modalità alternativa a quella già provata. Il problema sorge quando ci si sente giù di morale, o in generale male senza avere un’idea precisa del perché. È proprio in queste situazioni che riconoscere le emozioni che stiamo provando e riconoscere i nostri pensieri diventa molto importante. Se è vero infatti che è possibile riconoscere le emozioni provate partendo dall’informazione che arriva dai pensieri, che tuttavia talvolta sono veloci e confusi nella testa delle persone, è altrettanto possibile arrivare a dare un significato al malessere che pervade la persona anche prendendo come informazione iniziale l’emozione che si sta provando. Le emozioni sono sicuramente più immediate rispetto al contenuto cognitivo, che in situazioni particolarmente attivanti e stressanti, tende a fluire velocemente saltando da un contenuto all’altro senza seguire un vero e proprio processo logico.

Ma cosa succede quando ci si dice che si sta semplicemente male? In questo caso a volte diventa molto difficile ricondurre il malessere soggettivo, il nostro mondo interno, con gli eventi che succedono nel mondo. Capire cosa si sta provando in una determinata situazione è molto importante per comprendere a che punto siamo rispetto ai nostri scopi: sono minacciati? Siamo in una situazione di ingiustizia? O piuttosto ci troviamo di fronte ad una perdita o ad un fallimento? Capire se si è in ansia, arrabbiati oppure tristi ci aiuta a capire cosa possiamo fare per regolare lo stato mentale spiacevole che stiamo provando.

Emozioni e correlati fisiologici

Un valido aiuto per comprendere quale emozione si sta provando in un dato momento arriva dal correlato fisiologico che ciascuna emozione porta con sé. Quando ci attiviamo in seguito ad una emozione sentiamo, di solito, qualcosa nel corpo.

Alcuni ricercatori finlandesi ci vengono in aiuto per riconosce quale emozione si sta provando, partendo dal tipo di attivazione corporea percepita. È stata infatti tracciata una mappa corporea di alcune emozioni.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of The National Academy of Sciences nel 2013 da un team di ricercatori dell’università di Aalto.

Alla ricerca hanno partecipato 700 persone provenienti da Svezia, Finlandia e Taiwan; in questo modo è possibile dimostrare che il codice delle sensazioni corporee legate alle emozioni è universale e non legato a fattori culturali. I ricercatori hanno indotto diversi stati emotivi attraverso la visione di film o la lettura di storie, successivamente hanno fornito ai partecipanti alcune foto del corpo umano ed è stato loro chiesto di colorare, con colori diversi colori, le parti del corpo che sentivano attivarsi o disattivarsi in risposta all’emozione suscitata.

È emerso ad esempio che quando le persone provavano l’emozione rabbia le parti del corpo ad attivarsi maggiormente sono i pugni e la parte alta del tronco insieme alla testa; in caso di paura si percepisce maggiormente una sensazione fisica attivante in mezzo al petto, mentre nel caso in cui si provi ansia oltre all’attivazione nel petto i partecipanti percepivano anche una sensazione di torpore negli arti; in caso di tristezza o depressione il torpore sembra essere percepito in modo molto maggiore rispetto a quando sono provate altri tipi di emozioni; la vergogna sembra attivare il corpo principalmente all’altezza delle guance; mentre l’emozione che sembra attivare il nostro corpo in modo più omogeneo è la felicità, che insieme allo stato d’animo definito dai ricercatori come amore produce un’attivazione intensa ed omogenea.

 

Emozioni riconoscerle per imparare a gestirle partendo dal corpo - Psicologia

 

I ricercatori hanno spiegato che nel condurre lo studio non hanno fatto riferimento a nessuna sensazione specifica, come potrebbero essere per esempio la sudorazione o la sensazione di calore, ma anzi hanno incoraggiato i soggetti a riportare sensazioni nette, come ad esempio la percezione di un’aumentata attivazione o disattivazione di differenti sistemi fisiologici.

Questo studio può essere di grande aiuto nella clinica, soprattutto a tutti quei pazienti che trovano difficoltà nel riconosce quale emozione sentono. La possibilità di avere strumenti come una mappa corporea delle emozioni potrebbe riuscire a facilitare queste persone, partendo dal proprio corpo, partendo da cosa sentono e dove. Avere dei risultati generalizzabili potrebbe essere utile per capire quindi cosa significa per ciascuno “ho avuto una pessima giornata”, semplicemente focalizzandoci su quale parte del corpo sento attivata, o in quale parte sento torpore.

Bullismo: le conseguenze sulla salute e gli interventi di prevenzione

Il bullismo, come forma di stress cronico, può avere importanti implicazioni negative sulla salute fisica e mentale. In questi casi, un intervento tempestivo è di fondamentale importanza. Un’efficace alternativa, relativa agli interventi anti-bullismo, è rappresentata dagli approcci che agiscono in prevenzione.

 

Il fenomeno del bullismo e le conseguenze sulla salute

Il bullismo è una forma di comportamento aggressivo che caratterizza alcune relazioni tra pari. All’interno della definizione di bullismo rientrano sia comportamenti aggressivi diretti (ad esempio, aggressione fisica) sia comportamenti aggressivi indiretti (ad esempio, diffondere calunnie, escludere dal gruppo). Due elementi risultano essere indispensabili per definire meglio tale fenomeno:
– Intenzionalità: vi deve essere intenzionalità da parte del bullo di arrecare un danno fisico o psicologico alla vittima.
– Persistenza nel tempo: gli episodi di bullismo avvengono in maniera sistematica per lunghi periodi di tempo.

Le ricerche ritengono che, il reiterarsi degli episodi di bullismo nel tempo, abbia un notevole effetto negativo sulla salute, per tutta la vita. In particolare, il Dr. Tye sostiene che quando un individuo è esposto a periodi brevi di stress, il corpo è in grado di reagire efficacemente recuperando il funzionamento normale. Al contrario, quando l’esposizione allo stress è cronica, come nel caso del bullismo, tale processo di recupero risulta essere molto più difficoltoso, in quanto lo stress eccessivo influenza negativamente i processi fisiologici. In particolare, a essere alterati sono la risposta infiammatoria, ormonale e metabolica dell’organismo. Tali modificazioni contribuiscono allo sviluppo di malattie, tra cui diabete, malattie al cuore, depressione e altre patologie psichiatriche.

Interventi di prevenzione del bullismo

Dunque, il bullismo, come forma di stress cronico, può avere importanti implicazioni negative sulla salute fisica e mentale. In questi casi, un intervento tempestivo è di fondamentale importanza. Un’efficace alternativa, relativa agli interventi anti-bullismo, è rappresentata dagli approcci che agiscono in prevenzione.

Tenendo conto che episodi di bullismo possono avvenire in svariati contesti verranno esposti alcuni interventi di prevenzione che potrebbero essere applicati all’interno del contesto scolastico. Nell’ambito della scuola, gli interventi possono avvenire su diversi livelli:
– Politica scolastica: l’adozione di una politica anti-bullismo, intendendo con ciò, l’inaccettabilità di qualsiasi forma di prepotenza, accompagnata dall’impostazione di obiettivi e linee guida antiviolenza e basate sulla cooperazione.
– Attività informativa e di sensibilizzazione – livello scuola: un’importante attività è l’informazione e la sensibilizzazione sul bullismo, ad esempio attraverso conferenze. In queste attività, risulta fondamentale la partecipazione dei genitori, degli insegnanti e di tutto il personale scolastico.
– Intervento di cortile: tenendo conto che la maggior parte degli episodi di bullismo avvengono in luoghi privi della supervisione diretta degli adulti, risulta fondamentale, in primo luogo, individuare le zone più pericolose e, successivamente riorganizzare gli spazi e le regole.
– Livello classe: in questa tipologia di interventi si agisce all’interno della classe e viene richiesta la partecipazione attiva degli studenti. Nell’intervento anti-bullismo è fondamentale coinvolgere l’intero gruppo classe, al fine di modificare il clima, le regole e le dinamiche relazionali.
– Livello individuale: spesso, gli individui che assumono in ruolo di bullo o di vittima, necessitano di un’attenzione particolare e di un aiuto psicologico mirato, come l’apprendimento di importanti abilità sociali.

Il bullismo è un fenomeno multi-sfaccettato, per questo motivo necessita di interventi globali. Un fattore molto importante è rappresentato dall’interazione scuola-famiglia. Lavorare in sinergia rappresenta un elemento fondamentale affinché un intervento anti-bullismo risulti efficace.

 

Le donne dei Baustelle: riflessioni psicologiche sui testi delle canzoni

Le donne descritte da Bianconi dei Baustelle appaiono, infatti, tutte molto simili tra loro: caratterizzate dalla stessa età anagrafica (in genere adolescenti o giovani donne) e provenienti generalmente dalla provincia, recitano spesso il ruolo di personaggi dai tratti borderline e socialmente ai margini della società. Rientrano in questa categoria Martina e Betty delle omonime canzoni, e le ragazze senza nome descritte in “La guerra è finita” e “Perché una ragazza di oggi può uccidersi”.

 

Le donne delle canzoni dei Baustelle

I Baustelle sono un gruppo indie-pop-rock toscano il cui leader, nonché autore dei testi, è Francesco Bianconi. Ascoltando le loro canzoni, dal primo album del 2000 (“Sussidiario illustrato della giovinezza”) all’ultimo di quest’anno dal titolo “L’Amore e la Violenza”, spesso si rimane colpiti dalla bravura del cantautore nel tratteggiare con maestria da scrittore, personaggi dal profilo psicologico di grande spessore. Tra di essi, risultano particolarmente interessanti le figure femminili.

Le donne descritte dai Baustelle appaiono, infatti, tutte molto simili tra loro: caratterizzate dalla stessa età anagrafica (in genere adolescenti o giovani donne) e provenienti generalmente dalla provincia, recitano spesso il ruolo di personaggi dai tratti borderline e socialmente ai margini della società. Rientrano in questa categoria Martina e Betty delle omonime canzoni, e le ragazze senza nome descritte in “La guerra è finita” e “Perché una ragazza di oggi può uccidersi”.

Martina: la prima figura femminile delle canzoni dei Baustelle

In ordine cronologico, la prima figura ad “entrare in scena” sul metaforico “palcoscenico” musicale messo in piedi da Bianconi è Martina.

https://www.youtube.com/watch?v=RmE7Wc3gka4

Più che con una donna reale, tuttavia, in questo testo si ha l’impressione di avere a che fare con una sorta di archetipo letterario che vede la figura femminile come un soggetto disintegrato e ambivalente: da un lato fonte inesauribile di dolcezza (“miele infinito per anima”); dall’altro, inaspettato calvario (“Per calvario un angelo”). Tale ambivalenza, in qualche modo, sembra richiamare metaforicamente figure mitologiche come Medusa, raffigurata come una donna bellissima e al tempo stesso letale. La stridente commistione tra stati mentali tanto intensi quanto inconciliabili, che la donna evoca, è resa molto bene dal registro musicale che alterna delicati arpeggi a violente rasoiate di accordi.

Le figure femminili protagoniste di suicidi nelle canzoni dei Baustelle

Nel 2005 i Baustelle partoriscono “La Malavita”, terzo album del gruppo. Qui spiccano due figure femminili entrambe tragicamente protagoniste di suicidi. In “La guerra è finita”, la protagonista è una ragazza giovane ritratta nostalgicamente come un’amica perduta dell’adolescenza (Era mia amica/Era una stronza/aveva sedici anni appena).

Questa canzone riesce a sintetizzare in maniera esemplare le caratteristiche peculiari dell’adolescenza, periodo che coincide spesso con un percorso, più o meno lungo, di strutturazione identitaria, attraverso il quale la persona entra in contatto, volontariamente o meno, con un ampio spettro di possibili Sé e altrettanto possibili percorsi esistenziali. E’ la fase – tipica delle società occidentali economicamente più sviluppate – della cosiddetta “moratoria psico-sociale” (Erikson, 1968), corrispondente, appunto, ad un periodo di sperimentazione di sé, delle proprie capacità e delle proprie attitudini. I versi riportati di seguito, infatti, descrivono l’immagine di una persona dinamica, in continuo movimento e alla ricerca di un’identità che al momento appare una lontana chimera, persa tra dipendenze, condotte trasgressive e autodistruttive:

Vagamente psichedelica/La sua t-shirt all’epoca/Prima di perdersi nel punk/Prima di perdersi nel crack/Si mise insieme ad un nazista/Conosciuto in una rissa.

A ciò fa da sfondo, immancabilmente, un profondo vissuto di insoddisfazione esistenziale che si risolve in un suicidio: tale gesto, che esternalizza in maniera tragica un conflitto interiore, va inteso come l’atto definitivo di rivolta della ragazza contro la società. In tal senso, le parole scritte sul biglietto, da lei lasciato, testimoniano la presa di coscienza dell’impossibilità di pervenire ad una soluzione, ad un adattamento con una realtà esterna vista come incompatibile rispetto ai propri ideali:
La penna sputò parole nere di vita/La guerra è finita/Per sempre è finita/Almeno per me.

La tematica del suicidio si ripropone in “Perché una ragazza d’oggi può uccidersi”. Il titolo è un chiaro riferimento a “Io la conoscevo bene”, film di Antonio Pietrangeli del 1965. Il testo si snoda attraverso una serie di riflessioni di due “conoscenti” sulle possibili motivazioni che hanno spinto la protagonista a togliersi la vita. Più avanti si capirà che, in realtà, i due sono rispettivamente il fidanzato e la più cara amica della sfortunata protagonista, entrambi rei confessi di un “tradimento” nei suoi confronti. Tale evento, sapientemente, viene indicato dai due come la vera “causa scatenante”:
Ma la causa scatenante/il motivo vero siamo io e te/io che l’ho tradita/ tu che le sei stata amica

Dico “sapientemente” perché Bianconi dei Baustelle, qui, invece di fermarsi a quello che sembra il fattore causale immediatamente evidente, si addentra pian piano nella psicologia della donna, allo scopo di comprendere le reali ragioni – in Psicologia li chiameremmo i “fattori predisponenti” – che l’hanno spinta a compiere il tragico atto. Le due voci-narranti della storia (l’altra è quella di Rachele Bastreghi) cominciano, quindi, a elencare una serie di ipotesi per spiegare l’evento e che permettono di fare alcune interessanti inferenze sulla psicologia della “vittima”.

Innanzitutto la protagonista appare come una ragazza solitaria e poco interessata ai rapporti sociali (Forse perché non le piace la gente); particolarmente interessante, tuttavia, è il verso successivo (o quella festa che ha dentro di sè/quando vorrebbe la tranquillità/il niente), il quale, utilizzando le chiavi di lettura delle teorie cognitiviste, è in grado di fornire qualche spunto sui possibili stati mentali ricorrenti nella donna: la “festa” , per esempio, potrebbe alludere alla presenza di stati mentali caotici, poco integrati, o più semplicemente alla presenza di processi di pensiero ripetitivi (ruminazione e/o rimuginazione).

Quest’ultima ipotesi riporta alla mente le parole di Adrian Wells, fondatore della Terapia Metacognitiva: “Le persone restano intrappolate nel disturbo emotivo poiché le loro metacognizioni causano un particolare pattern di risposta a esperienze interne che mantengono l’emozione negativa e rafforzano le credenze/idee negative” (Wells, 2009, p.1). In tale ottica, la comparsa di pensieri negativi come “non sono all’altezza” attiva specifiche metacredenze sulla ruminazione e/o la rimuginazione (es. “se rumino/rimugino uscirò da questa situazione”) che tuttavia si rivelano disfunzionali in quanto, anziché risolverle, rafforzano e mantengono le credenze e le emozioni negative da esse evocate.

Volendo continuare questo “gioco” di interpretazione, si potrebbe avanzare l’ipotesi che la ragazza al momento del gesto versasse in uno stato depressivo acuto; tale aspetto troverebbe conferma nei versi successivi:
Certo perché/non le importa più niente/del freddo forte che fa/nella città/per farla breve che tempo farà/per sempre

Queste parole potrebbero, infatti, essere lette alla luce della famosa triade cognitiva di Beck (1979), usata per descrivere la depressione: secondo il fondatore della Terapia Cognitiva, infatti, la sindrome depressiva è riconducibile alla presenza di una triade di credenze negative su di sé, il mondo e il futuro. La ragazza della canzone, difatti, sembrerebbe nutrire profonda sfiducia e pessimismo verso il mondo esterno e il futuro.
Ma, a mio avviso, i versi più interessanti e in grado di delineare in modo più dettagliato il quadro personologico della ragazza sono quelli riportati qui di seguito:
Forse perché quello che lei voleva/era una vita da star/Milano style/ come credete che si sentirà adesso?

Prendendo spunto anche dalle riflessioni di Riva (2016), si può immaginare che la ragazza provasse un profondo senso di inadeguatezza, un vissuto che spesso ricorre in gran parte degli adolescenti di oggi e che appare sempre più legato alle dinamiche sociali tipiche della nostra epoca, plasmate profondamente dai social-media e permeate da crescenti bisogni narcisistici di affermazione mediatica del Sé. In tale quadro il suicidio rappresenterebbe un gesto sensazionale, in grado di farla uscire dall’anonimato e di proiettarla nella dimensione di notorietà tanto agognata.

Tematiche simili vengono riproposte in “Betty” (da “L’Amore e la Violenza”, 2017). La canzone, infatti, ci offre il ritratto della tipica adolescente contemporanea, la cui soggettività appare sempre più inscindibile dalle immagini e dai significati veicolati sui social network (Manda messaggi al mondo/Quando le va di uscire/Che bel profilo/E quante belle fotografie)

Sembra prendere corpo quella dimensione di “interrealtà” a cui fa riferimento sempre Riva (2010), in cui non c’è più separazione tra il mondo reale e quello virtuale dei social: secondo tale ipotesi, a differenza di quanto avveniva in passato, adolescenti e giovani adulti di oggi permarrebbero per un tempo indefinito (forse addirittura per l’intera durata della propria esistenza) in uno stato dinamico di costruzione e ri-costruzione della propria identità.

Il chiaro riferimento alla tematica dell’identità fluida descritta da Bauman (2003) si intreccia, poi, con quella dell’ “analfabetismo emotivo”: nella dimensione dell’interrealtà, infatti, le relazioni mediate dalla fisicità dei corpi sono sostituite da quelle del medium virtuale, con il risultato che vengono perse le coordinate emotive. Accade così che stati emotivi contrapposti e inconciliabili vengono espressi e comunicati nello stesso momento (Ride quando la tocchi/Finge quando sorride), perdendo ogni significato (Vive bene, vive male/Non esiste differenza/Tra la morte di una rosa/E l’adolescenza). Ciò significa che i rapporti umani reali finiscono sempre più con l’assumere le caratteristiche delle relazioni virtuali, in cui tutto è possibile ma nulla è reale. La metafora del gioco sembra pertanto riuscire a descrivere efficacemente il modo in cui ci si relaziona con l’Altro oggi (Betty è bravissima a giocare/Con l’amore e la violenza).

Per l’ennesima volta, il suicidio, come un mantra, viene evocato da Bianconi come gesto risolutivo che assume i toni di un desiderio liberatorio della ragazza rispetto ad una realtà (anzi un’interrealtà) opprimente e di cui tutti siamo divenuti ormai dipendenti (Betty ha sognato di morire/Sulla circonvallazione/prima ancora di soffrire/Era già in putrefazione/Un bellissimo mattino/Senza alcun dolore/Senza più dolore).

Gioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo: esistenza di una possibile relazione

Varie ricerche presenti in letteratura si sono occupate di indagare l’esistenza di una possibile relazione tra i comportamenti di gamblinggioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo. Ciò potrebbe generare importanti implicazioni teoriche e cliniche utili allo sviluppo e al miglioramento delle strategie di prevenzione e di trattamento delle patologie in questione. 

Elena Rizzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Nell’ambito della ricerca psicologica clinica, è sempre di notevole interesse l’indagine dell’esistenza di relazioni tra diverse manifestazioni psicopatologiche. La ragione di tale interesse risiede nella possibilità di generare importanti implicazioni teoriche e cliniche utili allo sviluppo e al miglioramento delle strategie di prevenzione e di trattamento delle patologie in questione. Varie ricerche presenti in letteratura si sono occupate di indagare l’esistenza di una possibile relazione tra i comportamenti di gambling o gioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo.

 

Gambling, shopping compulsivo e accumulo compulsivo

Il gambling, o gioco d’azzardo patologico, viene definito come un comportamento problematico persistente o ricorrente legato al gioco d’azzardo che porta a disagio o compromissione clinicamente significativi (DSM-5; APA, 2013).

Lo shopping compulsivo consiste in una “cronica, anormale forma di shopping e di spesa caratterizzata principalmente da un irresistibile, incontrollabile e ripetitivo impulso/desiderio di acquistare” (Edwards, 1992, pp. 54), il quale viene reiterato fino a determinare effetti dannosi per l’individuo e le persone che gli stanno vicine (Pani & Biolcati, 2006).

L’accumulo compulsivo è caratterizzato dalla persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni a prescindere dal loro reale valore, che comporta l’ingombro degli spazi vitali compromettendone l’uso previsto e causa disagio o compromissione del funzionamento della persona (DSM-5; APA, 2013).

Le prime due manifestazioni cliniche vengono convenzionalmente incluse nella macrocategoria delle dipendenze comportamentali, mentre la terza viene definito un disturbo correlato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

 

Cosa sono le dipendenze comportamentali?

Il concetto di dipendenza comportamentale (behavioural addiction) nasce con l’intento di classificare quei comportamenti che rispecchiano i sintomi e le conseguenze delle dipendenze correlate all’uso di sostanze, pur non prevedendo l’assunzione delle stesse.

Negli ultimi anni, la crescente attenzione di ricercatori e clinici per l’argomento è stata mossa anche dalla proposta dell’inserimento all’interno della sezione dei Disturbi correlati a sostanze del DSM-5 (APA, 2013) di una sottocategoria appositamente dedicata a questo tipo di dipendenze. Se da una parte molti autori hanno sostenuto tale la proposta, dall’altra, molto più controversa e dibattuta è stata la scelta delle patologie da inserirvi (Black, 2013). Sono stati presi in considerazione diversi comportamenti patologici tra cui: il gambling o gioco d’azzardo patologico, l’uso compulsivo del computer (compulsive computer use), il comportamento sessuale compulsivo (compulsive sexual behavior) e lo shopping compulsivo (compulsive buying) (Grant, Brewer & Potenza, 2006).

Tuttavia, con la pubblicazione del DSM-5, si osserva che la categoria delle dipendenze comportamentali (Disturbi non correlati a sostanze), per ora, include soltanto una delle patologie considerate dagli studiosi: il Gioco d’Azzardo Patologico (gambling). Il mancato raggiungimento di un punto di vista condiviso e la conseguente impossibilità di formulare criteri diagnostici univoci anche per altri comportamenti patologici (come lo shopping compulsivo), sono probabilmente dovuti alla minore presenza di studi riguardanti tali comportamenti disfunzionali (Chiri, Gorrini & Sica, 2010). Ad ogni modo, nella pratica clinica, lo shopping compulsivo viene a tutti gli effetti riconosciuto come una dipendenza comportamentale e conseguentemente trattato.

 

Cosa sono i disturbi correlati al Disturbo Ossessivo-Compulsivo?

I disturbi correlati al Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) sono quelle patologie che la ricerca ha identificato come aventi i tratti che caratterizzano i disturbi dello spettro ossessivo compulsivo, ovvero la presenza di pensieri ossessivi e comportamenti ripetuti (Mannelli, 2013). Tra di essi vi è il Disturbo d’Accumulo (Hoarding) che per la prima volta viene identificato come un’entità diagnostica a se stante e distinta dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo, al quale, in precedenza, veniva ricondotto (DSM-5; APA, 2013). Numerose ricerche, hanno infatti rilevato che un’elevata percentuale dei pazienti con una diagnosi principale di accumulo compulsivo non soddisfaceva i criteri per un’ulteriore diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e che l’Hoarding è clinicamente, neurobiologicamente e geneticamente distinto dal DOC (An et al., 2009; Frost, Steketee, Tolin & Glossner, 2010; Mataix-Cols et al., 2010; Saxena et al., 2004).

 

Comportamenti normali vs comportamenti patologici

Tutti e tre i comportamenti in esame (gambling, shopping e accumulo) sono, in realtà, presenti normalmente nella gamma di azioni compiute dagli uomini; sono abitudini diffuse, quotidiane e socialmente accettate, ben lontane dall’apparire come un sintomo clinico. In questi casi, infatti, la psicopatologia si situa all’estremità di un continuum in cui al limite opposto vi è un comportamento normale ed equilibrato, il quale, potenzialmente, può addirittura aumentare il benessere psicologico dell’individuo (Pani & Biolcati, 2006).

Le motivazioni per le quali un soggetto può decidere di intraprendere e continuare tali attività sono molteplici. Il gioco d’azzardo, ad esempio, potrebbe costituire uno spazio magico in cui fantasticare sulla ricchezza e sui conseguenti cambiamenti della propria vita; oppure un’attività con la quale riempire o cancellare momentaneamente momenti di noia, mancanza di senso, di insoddisfazione o, peggio, di depressione e solitudine; o, ancora, un’attività per provare eccitazione e piacere (Croce, 2001; Pani & Biolcati, 2006).

Nel caso dello shopping, invece, di pari passo con l’affermazione della “cultura del consumo”, l’acquisizione di beni materiali ha assunto sempre di più una posizione centrale per l’individuo in quanto influenza il suo status sociale, contribuisce alla regolazione del suo umore ed all’espressione della propria identità e del proprio sé (Dittmar, 2001).

Infine, nel caso del comportamento di accumulo, sembra che esso esista persino per una ragione evolutiva (è riscontrabile anche in alcune specie animali), con la funzione di prevenire la scarsità di cibo e beni tipica di certi periodi dell’anno o di certe annate (Frost, 2010). Traslato nella società odierna, le ragioni che spingono gli individui a “conservare” sono, ad esempio, la paura di perdere qualcosa di importante oppure l’idea che gli oggetti possano servire in futuro (Frost, Kim, Morris, Bloss, Murray-Close & Steketee, 1998).

Questi tre comportamenti, tuttavia, possono in certe condizioni essere messi in atto in  maniera problematica e disfunzionale con gravi conseguenze per la salute dell’individuo (sia mentale che fisica) e con derive dannose riscontrabili in diverse aree: sociale, familiare, occupazionale, economica e legale.

Nel comportamento di gioco d’azzardo è presente un’intrinseca pericolosità potenziale dovuta sia a fattori individuali che ambientali, tra i quali l’aumento e la diversificazione dell’offerta delle possibilità di gioco degli ultimi decenni che consente un accesso al gioco più immediato, prevede giochi caratterizzati da un maggior rischio di additività e induce sempre di più alla messa in atto del comportamento in maniera solitaria ed asociale (Croce, 2001). Per quanto riguarda lo shopping, esso può diventare un comportamento patologico quando assume il ruolo di azione compensatoria di una mancanza, non materiale ma emotiva, per esempio per alleviare o sopprimere uno stato emotivo negativo, spesso depressivo (Fiore, 2015). Il comportamento di accumulo, invece, può in certi casi sfociare in un comportamento compulsivo che rappresenta unicamente un costo in termini di accumulo piuttosto che un effettivo beneficio: la funzionalità viene surclassata dall’eccesso (Frost, 2010).

 

Esistenza di una possibile relazione tra i tre comportamenti patologici

Le indagini svolte fino ad oggi indagano principalmente l’eventuale sussistenza di una co-occorenza tra le manifestazioni cliniche. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le ricerche sono state svolte indagando alternativamente una coppia dei tre comportamenti e raramente si sono occupate dello studio dei tre comportamenti patologici in un unico campione.

 

Gambling e shopping compulsivo

I risultati disponibili in letteratura sono concordi nel rilevare la presenza di una comorbidità tra le due manifestazioni cliniche, gambling (ovvero gioco d’azzardo patologico) e shopping compulsivo (Black, Monahan, Schlosser & Repertinger, 2001; Frost, Meagher & Riskind, 2001; Kausch, 2003; Lesieur & Rosenthal, 1991; Netemeyer et al., 1998; Specker, Carlson, Christenson & Marcotte, 1995). In aggiunta alla condivisone delle peculiarità delle dipendenze comportamentali, il motivo della stretta relazione tra i due comportamenti patologici potrebbe essere la condivisione di caratteristiche di attenzione focalizzata, gratificazione monetaria e scambio di denaro (Black & Shaw, 2008; Specker et al., 1995). Esistono, inoltre, delle preliminari evidenze a sostegno di un substrato neurobiologico condiviso. È stata, infatti, proposta l’ipotesi di un’origine serotoninergica comune, supportata da una piccola indagine pilota che mostra che i due disturbi rispondono al trattamento con gli SSRI (inibitori del “reuptake” della serotonina) con miglioramenti realmente promettenti (Alexander, 1996).

 

Shopping compulsivo e accumulo compulsivo

L’accostamento dei due comportamenti patologici, shopping compulsivo e accumulo compulsivo, è meglio comprensibile e giustificabile se si considera lo shopping compulsivo come una componente dell’acquisizione compulsiva, la quale costituisce un elemento cardine del più ampio fenomeno dell’ accumulo compulsivo (DSM-5; APA, 2013; Frost & Hartl, 1996).

Dalla comparazione dei deficit e delle manifestazioni cliniche emergono, in entrambe le patologie, difetti nel processo di presa delle decisioni e un ridotto controllo sull’attività mentale (Kyrios, Steketee, Frost & Oh, 2002). Queste difficoltà possono, in entrambi i casi, derivare da un’inadeguata gestione degli stati emotivi negativi (come ansia e depressione) oppure possono essere il risultato di credenze disfunzionali (ad esempio formulate in maniera perfezionistica). Un’ulteriore caratteristica comune, che spinge gli hoarders ad accumulare e gli acquisitori compulsivi a comprare, è la preoccupazione per la perdita di un’opportunità, ovvero di un bene che potrebbe essere utile in futuro (Frost et al., 1998). La co-occorenza delle due patologie è ampiamente provata (Frost, Tolin, Steketee, Fitch, & Selbo-Bruns, 2009; Hayward & Coles, 2009). Alcuni autori, tuttavia, precisano che un’attenta analisi dei risultati disponibili sull’argomento suggerisce che quasi tutti gli hoarders mostrano in associazione anche il comportamento di acquisto compulsivo, ma anche che non tutti gli acquirenti compulsivi soffrono di accumulo compulsivo (Mueller et al., 2007).

 

Gambling e accumulo compulsivo

I dati presenti in letteratura sul legame tra gambling e accumulo compulsivo sono minori e discordanti (Hayward & Coles, 2009). Tuttavia, il fatto che alcuni autori abbiano rilevato una maggiore presenza di tratti ossessivi/compulsivi in giocatori patologici rispetto a giocatori nella norma (Blanco et al., 2009; Blaszczynski, 1999), ha spinto altri ricercatori ad avanzare ed indagare l’ipotesi che anche nel gambling o gioco d’azzardo patologico (come nello shopping compulsivo e nell’ accumulo compulsivo) vi possa essere un pensiero intrusivo o una paura ossessiva di perdere un’opportunità (Frost, Meagher & Riskind, 2001). Nel loro studio, infatti, essi rilevano che giocatori patologici ottengono punteggi significativamente più alti nelle scale misuranti l’hoarding (e in quelle misuranti l’acquisto compulsivo) rispetto ai giocatori non patologici. Gli autori, inoltre, contribuiscono a delineare un’importante differenza nella relazione tra shopping compulsivo e gambling rispetto a quella tra shopping compulsivo e hoarding: nel primo caso, infatti, esiste soltanto in relazione all’acquisto compulsivo di beni (necessariamente attraverso il denaro); mentre, nel secondo caso, è presente anche considerando l’acquisizione di beni gratuiti.

La letteratura sembrerebbe, quindi, evidenziare la presenza di una relazione tra i tre comportamenti patologici, decisamente più evidente e supportata nel caso di gambling e shopping compulsivo e nel caso di shopping compulsivo e accumulo compulsivo, meno significativa (ma anche meno indagata) nel caso di gambling e accumulo compulsivo.

I risultati ottenuti in un’indagine preliminare svolta con un campione di giocatori d’azzardo tratto dalla popolazione italiana sono in linea con queste evidenze (Rizzi, 2014). Sono state, infatti, rilevate una forte correlazione tra comportamento di gioco d’azzardo patologico e comportamento di shopping compulsivo e delle differenze significative tra giocatori non patologici e giocatori patologici negli indici inerenti all’acquisizione compulsiva (più alti nei giocatori patologici), ad eccezione degli indici relativi all’acquisizione di beni gratuiti. È stata poi evidenziata la presenza di un’importante correlazione tra shopping compulsivo e accumulo compulsivo, supportata anche dal fatto che tutti i partecipanti identificati come hoarders sono risultati essere anche acquisitori compulsivi. Anche in questa ricerca, tuttavia, non vale il contrario, ovvero non tutti gli acquisitori compulsivi sono risultati essere anche hoarders. Infine, come in letteratura, i risultati relativi alla relazione tra gambling e accumulo compulsivo sono meno chiari, poiché evidenziano la presenza di una correlazione tra i due comportamenti patologici (seppur non per tutti gli indici inerenti l’hoarding) e la presenza di una differenza negli indici dell’ accumulo compulsivo tra giocatori non patologici e giocatori patologici ma non statisticamente significativa. L’indagine compiuta rappresenta un’importante punto di partenza che tuttavia necessita di essere ampliato e integrato, al fine di confermare le evidenze emerse e colmare le lacune conoscitive.

Cosa sono le Anfetamine e i loro effetti – Introduzione alla Psicologia

Le anfetamine o amfetamine (amine simpaticomimetiche) sono sostanze di origine sintetica. Esse presentano una struttura chimica simile agli stimolanti naturali prodotti dall’ organismo, come l’ adrenalina, la noradrenalina, la dopamina e la serotonina. Le anfetamine agiscono stimolando il sistema nervoso centrale e il sistema simpatico mimando o imitando gli effetti della sostanza endogena naturalmente prodotta, da cui il nome simpaticomimetiche.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Storia

Le anfetamine furono scoperte a fine ‘800 e diede nome ad una classe di molecole simili per struttura e per azione farmacologica chiamate, appunto, anfetamine. L’ anfetamina fu sintetizzata per la prima volta nel 1887, presso l’ università di Berlino, da un chimico rumeno, Lazar Edeleanu, passato alla storia con il nome di Edeleano. La sostanza, però, inizialmente non fu utilizzata in ambito clinico.

Nel 1920 Gordon Alles utilizzò, per la prima volta, l’ anfetamina in ambito medico, viste le notevoli proprietà vasocostrittorie utili per trattare l’ asma, la febbre da fieno e la rinite. Le anfetamine, dunque, dovevano costituire un sostituto sintetico dell’efedrina, principio farmacologico naturale estratto dalla pianta Efedra, efficace nel trattamento sintomatico dell’asma, ma di difficile estrazione. Le anfetamine, fin dall’ inizio, ebbero un grosso successo commerciale, soprattutto per le loro proprietà stimolanti. Per questo, nel 1932 alcuni laboratori farmaceutici iniziarono la commercializzazione di un prodotto a base di anfetamine che si chiamava la benzedrina e nel 1959, visto il crescente uso di sostanze a base di anfetamine, fu reso disponibile il prodotto in farmacia.

L’ impiego delle anfetamine iniziò a diffondersi durante la seconda guerra mondiale, poiché era somministrata ai soldati per diminuire la loro paura e aumentare il loro grado di concentrazione. Alcuni anni più tardi si diffuse fra la popolazione studentesca che la usava per aumentare il livello di concentrazione e memoria.

Caratteristiche e differenze tra le anfetamine

Le anfetamine sono psicostimolanti sintetici molto facili da sintetizzare e tra essi troviamo: l’ anfetamina, la metanfetamina, il metilfenidato (Ritalin), il modafinil, l’ efedrina (anoressizante). I primi due sono droghe, mentre gli ultimi tre farmaci.

Modalità d’assunzione

Le anfetamine si presentano in varie forme e si assumono in vari modi: – polveri, si sniffano o si iniettano per via endovenosa; – compresse, si ingeriscono o frantumate si sniffano o si iniettano; -capsule, si ingeriscono.

Le metanfetamine possono essere: – cristalli, detti anche “ice” di varia grandezza, che si possono fumare, ingerire o iniettare; – polveri o compresse, iniettate o ingerite. Inoltre, le Anfetamine e le metanfetamine possono essere assunte anche per via anale. La modalità, dunque, d’ uso delle anfetamine dipende dalle abitudini culturali e ambientali in cui sono assunte e variano nel tempo e a seconda del diverso costume sociale.

Il metodo più usato, poiché ne aumenta la durata degli effetti, è assumere la sostanza per via orale. Lo sniffare produce un rapido effetto, ma potrebbe portare a lesioni al naso; invece, iniettare l’ anfetamina per via endovenosa aumenta i rischi di overdose dato che la sostanza raggiunge rapidamente il cervello e le impurità presenti sono introdotte direttamente nel flusso sanguigno con rischio possano presentarsi delle infezioni quali, per esempio, la setticemia.

Perché si usano

Le anfetamine si utilizzano per svariate ragioni. Ci sono persone che le assumono per sentirsi particolarmente vigili o per migliorare la performance nello sport o nel lavoro o aumentare la stima e fiducia in se stessi. Esse riducono la stanchezza, aumentano la resistenza e non fanno sentire lo stimolo della fame o della sete. Le metanfetamine, in particolare, mostrano effetti amplificati rispetto alle anfetamine poiché inducono un maggiore rilascio di dopamina. Per questo favoriscono una maggiore sensazione di benessere e buon umore. Oltre che sostanze d’ abuso, le anfetamine si utilizzano a fini terapeutici in varie patologie, a esempio la narcolessia, l’ obesità, il deficit dell’ attenzione e iperattività (ADHD) o patologie asmatiche.

Effetti

Le anfetamine sono stimolanti sintetici usati per aumentare le prestazioni fisiche (doping). Gli effetti delle anfetamine sono numerosi: a livello del sistema nervoso centrale si riduce la percezione di fatica e aumentano le capacità intellettive attraverso un incremento dell’ attenzione e della concentrazione. Di conseguenza, il soggetto avverte un notevole senso di benessere, è euforico e sprezzante del pericolo; a livello dei sistemi cardiocircolatorio e respiratorio si ha tachicardia, aumento della pressione arteriosa e incremento del ritmo della respirazione. Altri effetti sono l’ aumento del metabolismo basale, variazione dei meccanismi di termoregolazione, ipertermia, perdita dell’ appetito ecc.

Grazie ad alcuni effetti prodotti, come la riduzione del senso di fatica e la diminuzione del senso di fame, le anfetamine si utilizzano, illegalmente, sia in ambito sportivo sia in ambito dietologico. Gli effetti positivi, nel giro di poco tempo, però, diventano secondari a una serie di effetti negativi dovuti alla dipendenza e all’ assuefazione alla sostanza. Per questo, sono frequenti disordini cardiaci molto gravi, a volte mortali, causati dall’ assunzione di dosi eccessive.

Inoltre, l’ eliminazione del senso di fatica spinge il soggetto, in particolar modo in ambito sportivo, ad andare oltre i propri limiti fisici con il manifestarsi di notevoli disagi e problemi. E’ possibile riassumere gli effetti come segue:

  1. sistema nervoso centrale: senso di benessere ed euforia, minore percezione della fatica, sprezzo del pericolo, sensazione di potere e superiorità, comportamenti stravaganti, aumento delle capacità intellettive, diminuzione dell’appetito.

2. sistema cardiocircolatorio e respiratorio: incremento della pressione arteriosa, aumento della frequenza cardiaca (tachicardia), aumento del ritmo respiratorio (tachipnea).

3. metabolismo corporeo: aumento del metabolismo basale, termoregolazione, ipertermia, marcato effetto anoressizzante.

L’ abuso di queste sostanze, nel tempo, potrebbe portare al manifestarsi di molti disturbi, tra cui: Depressione, Ansia, allucinazioni, cefalea ricorrente, delirio, disturbi legati alla sfera del sonno, irrequietezza, loquacità e logorrea, midriasi frequente, secchezza delle fauci, tremori diffusi, nausea e vomito.

Quando termina l’ effetto dell’ anfetamina si ha un crollo fisico e psicologico: si percepisce spossatezza, irritabilità, depressione. In sostanza, quando termina l’ effetto della droga, si ottengono sintomi opposti a quelli avuti in precedenza. Questi stati, mentali e fisici, fungono da innesco per l’ assunzione della dose successiva previo il crollo.

L’ uso prolungato di anfetamina oltre a provocare una forte diminuzione di peso, può portare a psicosi, a manie di persecuzione, etc. Chiaramente, l’ abuso della sostanza in casi estremi può portare anche alla morte. Inoltre, l’ attivazione del sistema della ricompensa o del piacere, da parte delle anfetamine, comporta un continuo rilascio di dopamina che induce dipendenza e profonde modificazioni delle funzioni cerebrali.

Il più grave effetto dovuto all’ abuso di anfetamina è la dipendenza e l’ assuefazione: l’organismo umano si adegua all’effetto della sostanza, e per avere la stessa intensità degli effetti richiede l’ assunzione di una dose sempre maggiore. Di conseguenza, se si interrompesse l’assunzione insorgerebbe la sindrome da astinenza. Da un punto di vista psicologico si avrà la ricerca costante e attiva della sostanza attraverso la messa in atto di comportamenti (craving), volti alla ricerca della sostanza ogni qualvolta si verifica il desiderio della stessa (pensiero desiderante).

Utilizzo

In Italia le anfetamine sono ritenute illegali per legge e per questo ne è proibita la produzione e la vendita. Di conseguenza, chi ritenuto in possesso di sostanza, la produce o la vende sarà punito con la reclusione o attraverso l’ applicazione di sanzioni.

L’ uso farmacologico delle anfetamine è limitato all’ ambito medico per la cura del morbo di Parkinson, della narcolessia, dell’ ADHD e dell’ obesità.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Etero-curiosi, Bi-curiousi , Fluidi (ecc…): quando le etichette non servono – Le risposte di fluIDsex

Dato che si parla di sessualità fluida… se una persona che si è sempre ritenuta eterosessuale, ha un’esperienza – isolata – omosessuale con una persona “x”, deve iniziare ad avere dei dubbi sul proprio orientamento?

 

In medicina, in particolare negli studi sulla salute sessuale, si fa uso dei termini WSW (women who have sex with women) o MSM (men who have sex with men) o anche WSWM (women who have sex with women and men) e MSMW (men who have sex with men and women), per indicare persone che hanno avuto o continuano ad avere rapporti sessuali con individui dello stesso sesso ma non si identificano come gay o bisessuali.

Quando parliamo di identità sessuale e orientamento sessuale parliamo di etichette con cui potersi identificare e con le quali comunicare anche con gli altri. Ovviamente non tutti sentono il bisogno di far ciò, d’altronde, identificarsi come bisessuale, omosessuale, eterosessuale (…) non vuol dire smettere di avere dubbi riguardo alle attrazioni affettive o sessuali nei confronti di altre persone, a prescindere dal loro genere.

Dipende dal singolo individuo capire se un’esperienza isolata sia qualcosa che ci ha piacevolmente sorpresi o qualcosa che possa descrivere al meglio la propria identità.

Quando abbiamo dei dubbi, molto spesso ci troviamo davanti ad un bivio: continuare a percorrere la strada che abbiamo intrapreso, ammettendo che non sempre sappiamo a priori cosa può piacerci, o lasciarsi trasportare da desideri, curiosità e “vedere quant’è profonda la tana del bianconiglio”?

 

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il disturbo da gioco d’azzardo da slot-machine: uno sguardo alle più rilevanti considerazioni scientifiche recenti

Tra le varie tipologie di gioco d’azzardo, quella inerente alla slot-machine risulta essere una delle più diffuse ed è la più redditizia per lo Stato italiano. Inoltre presenta caratteristiche che facilitano lo sviluppo di un comportamento compulsivo, come: l’elevato ritmo di gioco, le numerose giocate possibili e l’immediatezza dei risultati.

 

Il Disturbo da gioco d’azzardo: una dipendenza comportamentale

Le “dipendenze comportamentali” o “nuove dipendenze”, sono definibili come forme di addiction nelle quali avviene una dedizione eccessiva ad un’abitudine o ad un comportamento che può determinare disagio, sofferenza psichica e rendere problematiche molte relazioni sociali e familiari (Gazzillo e Lingiardi, 2014). Tra le dipendenze comportamentali il “Disturbo da gioco d’azzardo” ha trovato una collocazione nosografica. Infatti, il DSM-5 (APA, 2013) considera il gioco patologico una diagnosi formale e lo annovera tra i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction, nella sottocategoria dei “disturbi non correlati a sostanze”.

Tra le varie tipologie di gioco d’azzardo, quella inerente alla slot-machine risulta essere una delle più diffuse ed è la più redditizia per lo Stato italiano (gli italiani nel 2016 hanno speso circa 4,6 miliardi di euro giocando alle slot-machine; Agipronews, 2016). Inoltre, l’attenzione dei ricercatori si è principalmente focalizzata su questa tipologia di gioco poiché presenta caratteristiche che facilitano lo sviluppo di un comportamento compulsivo, come: l’elevato ritmo di gioco, le numerose giocate possibili e l’immediatezza dei risultati.

I correlati neurali del Disturbo da gioco d’azzardo da slot-machine

Nell’insieme, i dati in letteratura indicano il coinvolgimento del sistema dopaminergico (e/o altri percorsi aminergici) nella patofisiologia del Disturbo da gioco d’azzardo (Potenza et al., 2003). Recenti studi (Van Holst et al., 2014) hanno poi mostrato che la gravità del gioco d’azzardo da slot-machine risulta essere associata ad una minore connettività tra le aree sensibili alla ricompensa (in particolare tra lo striato-ventrale destro e la corteccia cingolata anteriore). Interessanti in questo senso sono gli studi condotti nell’ambito dell’apprendimento, dato che il circuito della ricompensa assolve un ruolo fondamentale nella motivazione all’apprendimento generalmente inteso.

Nello svolgimento di un’attività la spinta motivazionale può essere legata ad uno stato di piacere di tipo endogenico, legato allo svolgimento dell’attività stessa, e ad uno di tipo esogenico, legato al raggiungimento degli obiettivi (quindi nel caso delle slot-machine alla vincita): questi stati di piacere suscitano emozioni positive che agiscono da rinforzi comportamentali, contribuendo al consolidamento dell’apprendimento. Secondo i modelli biologici contemporanei (Schultz, 2010), con il procedere dell’apprendimento l’attività dei neuroni dopaminergici nell’area tegmentale-ventrale (VTA) tende a diminuire, mentre l’attività evocata dagli stimoli che segnalano un’imminente consegna di ricompense tende ad aumentare.

In linea con questi modelli, Shao e colleghi (2013) propongono che un singolo episodio di slot-machine possa diminuire il valore positivo della ricompensa di risultati di vincita (piacere esogenico) ed incrementare il valore degli eventi di gioco (piacere endogenico) ad essi precedenti. Il dati confermano questa ipotesi e delineano come singoli episodi di gioco alle slot-machine impegnino meccanismo di rinforzo-apprendimento ben caratterizzati (mediati dal sistema dopaminergico-mesolimbico), innescando il trasferimento dei valori lontano dai risultati del gioco, verso stati anticipatori (dunque mentre i rulli della slot stanno girando).

Il gioco d’azzardo patologico è un comportamento acquisito, che si instaura e consolida nel tempo grazie alle stesse dinamiche di ogni tipo di apprendimento e ne condivide le basi neurofisiologiche. Come ben spiegato ne “La spirale del gioco. Il gioco d’azzardo da attività ludica a patologia” (Tani e Ilari, 2016) quando il gioco d’azzardo è ancora in una fase iniziale, il comportamento del giocatore è influenzato sia dalla spinta motivazionale di tipo esogenico sia da quello tipo endogenico.

A questi si aggiungono gli stimoli sensoriali: luci, suoni, colori, sensazioni tattili e così via, ovvero tutti quegli stimoli usualmente presenti nel contesto del gioco, che il giocatore impara ad associare sia al piacere esogenico che a quello di tipo endogenico (Arias-Carrion et al., 2010). Con il tempo, anche la sola presenza di quest’ultima tipologia di stimoli, è sufficiente per innescare, attraverso meccanismi di condizionamento operante, modificazioni nei livelli di rilascio di dopamina. In una fase più avanzata del decorso, gli stimoli di tipo esogenico perdono la loro forza motivazionale, mentre quelli di tipo endogenico, che hanno ormai modificato gli equilibri omeostatici del sistema dopaminergico, divengono una spinta motivazionale sempre più forte e vengono evocati anche dai semplici stimoli neutri. Gli stimoli offerti dall’attività di gioco alterano i livelli di dopamina determinandone un innalzamento anomalo, sia per durata che per intensità. Con il ripetersi degli eventi di gioco, i livelli di dopamina continuano a mantenersi alti, seppure attraverso modalità diverse e l’anomalia del sistema dopaminergico fa sì che nei giocatori patologici, al contrario di quanto accade nei non giocatori, la perdita non produca un abbassamento della gratificazione tale da disincentivare il comportamento di gioco (Clark et al., 2009).

Nonostante il ruolo svolto dalle alterazioni a carico del sistema di gratificazione, è necessario adottare un’ottica neuroscientifica, per cui tutti i disturbi psichiatrici sono da considerarsi disturbi “complessi”, cioè nella cui patogenesi sono coinvolti fattori, genetici o ambientali, che interagiscono tra loro in maniera articolata (Gazzillo e Lingiardi, 2014). Andrebbe sempre considerato che, affinché un tratto maladattivo, un sintomo o un disturbo si esprimano nell’individuo, debbano essere presenti più geni predisponenti e più fattori ambientali negativi, così come debba verificarsi un particolare modello di interazione gene-ambiente in grado di dar luogo alla specifica condizione psicopatologica.

Il rinforzo negativo nell’utilizzo patologico delle slot machine

Sogna, perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare (Jim Morrison)

Il giocatore d’azzardo cerca di fuggire da sentimenti di ansia, rabbia, colpa e depressione attraverso la dissociazione prodotta dal gioco, come indicato dal Criterio A5 del DSM-5 (per il quale il giocatore “spesso gioca d’azzardo quando si sente a disagio”). Oltre a ciò, viene fornita l’opportunità di una vincita di denaro, fattore che può fornire un senso di speranza e contribuire a ridurre sentimenti di ansia, o proprio di mancanza di speranza.

Dunque l’elemento di svago o di distrazione, unito alla percezione di una scorciatoia verso la ricchezza, sono fattori di rischio per lo sviluppo del gambling da slot-machine patologico. Recenti risultati hanno di fatti evidenziato che i giocatori di Electronic Gaming Machine (EGMs) patologici siano più motivati a giocare per sfuggire a stati emotivi negativi rispetto ai giocatori non problematici (MacLaren et al., 2012). Inoltre bisogna considerare che le slot-machine sono progettate per fornire un’esperienza lieta, divertente ed interattiva in cui potenzialmente la perdita di denaro possa essere percepita come relativamente indolore e spesso rapida (Silver, 2015).

Quello delle slot machine, essendo comunque un gioco (anche se a pagamento), fornisce la possibilità di immergersi in un “altro mondo”, dando modo di distrarsi da problemi quotidiani. A questo contribuisce anche la conformazione dei luoghi deputati al gioco d’azzardo, che spesso sono ambienti chiusi, poco illuminati, privi di finestre e di orologi alle pareti, così da favorire la perdita del senso del tempo e spingere i soggetti a giocare più a lungo di quanto essi stessi avessero previsto. Così, completamente assorbiti dal gioco e, in alcuni casi, letteralmente dissociati dalla realtà, i giocatori finiscono per non rendersi conto di quanto tempo passano effettivamente a giocare e le condizioni ambientali sopra descritte rafforzano questa perdita di contatto con la realtà che li circonda (Tani e Ilari, 2016). Inoltre, come già sottolineato, entrare in una sala slot o recarsi al casinò, porta con sé l’idea di poter vincere soldi e di poter evadere dai problemi quotidiani, rifugiandosi in un luogo ‘altro’ rispetto alla vita reale.

Il rinforzo positivo nell’utilizzo patologico delle slot machine

Come abbiamo già visto, le specifiche caratteristiche delle slot-machine sono state indicate come potenziali fattori in grado di creare dipendenza, dato che possono influenzare o interagire con le cognizioni relative al gioco d’azzardo e contribuire all’apprendimento per rinforzo e al gioco d’azzardo persistente. Anche per questo, alcuni autori considerano le slot-machine come una delle forme di gioco d’azzardo più pericolose (Schüll, 2012).

Una delle caratteristiche delle slot-machine è il fenomeno della “quasi-perdita”, un’esperienza tipicamente rilevabile nel gioco d’azzardo con le slot. I risultati di quasi-perdita si verificano quando, dopo aver fatto girare i rulli, in una linea del display vengono riportati tutti simboli corrispondenti, tranne uno (per es., AAAB). Le “quasi-perdite” sono definibili come risultati di perdita, percepiti però come “vicini” al successo, alla vincita (Reid RL, 1986). Questi risultati lasciano nel giocatore un senso di “rinforzo anticipatorio”, con il pensiero che una vincita debba essere imminente. Le ricerche indicano che i risultati di quasi-perdita, rispetto alle perdite totali, sono associate ad un aumento di attività nei circuiti di rinforzo/ricompensa e apprendimento (Van Holst et al., 2014), e che segnali di rinforzo positivo suscitati dalle quasi-perdite possono essere osservati anche in giochi di slot-machine semplificati e con un ridotto coinvolgimento del giocatore (Shao et al., 2013). Anche se il valore monetario delle quasi-perdite è equivalente ad altre perdite, questi risultati sono associati ad un incremento fisiologico dell’arousal.

Da studi di neuroimmagine, le quasi-perdite hanno mostrato l’attivazione parti del sistema di ricompensa del cervello che coincidevano con le risposte a vincite attuali, nello striato ventrale e nell’insula anteriore (Clark et al., 2009). I risultati delle ricerche che indicano che i giocatori di slot-machine patologici siano esposti ad una maggiore attività nelle regioni legate alla ricompensa dopo il verificarsi di una quasi-perdita (Habib e Dixon, 2010), suggeriscono che i risultati delle quasi-perdite possano favorire il gioco d’azzardo continuo attraverso un rinforzo positivo (pur essendo perdite monetarie). Le quasi-perdite aumentano la motivazione a giocare, e manipolarne la frequenza influenza la persistenza nel gioco d’azzardo (Clark et al., 2009). Questi risultati supportano l’ipotesi della natura “non categorica” del processo di ricompensa nel gioco d’azzardo: le quasi perdite e le perdite totali sono risultati oggettivamente identici che vengono processati differentemente (Van Holst, 2014).

Tutti i giochi d’azzardo sono strutturati intorno ad un programma di rinforzo variabile, con una media di vincite inferiore rispetto alle perdite. Il gioco d’azzardo deve essere visto come un comportamento acquisito tramite un programma variabile di rinforzo tipico delle slot-machine, in cui sia il verificarsi di una vincita, sia l’entità di essa, sono imprevedibili (MacLaren et al., 2012).

Un ulteriore risultato caratteristico delle EGMs è rappresentato dalle cosiddette “perdite mascherate da vincite” (“Losses Disguised as Wins”, LDWs), così rinominate da Dixon e colleghi (2010). Queste “perdite mascherate” consistono in quei risultati in cui viene segnalata una combinazione vincente su una o più linee di pagamento, la quale comporta la restituzione al giocatore di una somma di denaro, inferiore però rispetto a quella scommessa: nonostante questo risultato sia effettivamente una perdita monetaria, la slot-machine lo celebra come fosse una vincita. Se i giocatori dopo lo spin perdono interamente la somma scommessa, la slot-machine resta silente, sia nella sfera uditiva che visiva. Quando i giocatori effettuano lo spin e vincono di più rispetto alla loro scommessa, i giocatori ricevono feedback visivi e uditivi, che fungono da rinforzo positivo.

Vi è un netto contrasto tra i risultati vincenti colmi di feedback celebrativi ed i risultati perdenti, caratterizzati da uno stato di silenzio. In una quota considerevole di giri, le vittorie restituiranno un pagamento inferiore rispetto alla puntata dello spin, ma la slot sottolineerà comunque la vincita con simboli animati e canzoni celebrative: queste sono le cosiddette “perdite mascherate da vincite”.

Jensen (2012) ha dimostrato che i partecipanti esposti a questi risultati li categorizzavano erroneamente come vittorie. Inoltre i partecipanti, nel valutare il numero di giri in cui avevano vinto di più rispetto alla scommessa in una sessione di gioco, tendevano ad una sovrastima notevole del numero di vincite, probabilmente interpretando le LDWs come vincite, o confondendole con esse in memoria. Il suono è un importante fattore nella categorizzazione delle vincite, delle perdite e delle LDWs. Se l’informazione uditiva fornita ai partecipanti è che le LDWs siano vincite, piuttosto che perdite, ed i partecipanti dunque le categorizzano erroneamente come vincite, Dixon e collaboratori nel loro studio “Using sound to unmask Lossed Disguised as Wins in multiline slot machines” (2015) hanno ipotizzato che questo effetto potesse essere contrastato con suoni negativi di accompagnamento sia per le LDWs, che per le perdite regolari (condizione di “suono negativo”). Secondo gli autori tali accoppiamenti avrebbero potuto aumentare la somiglianza tra le perdite e le LDWs, e diminuire la somiglianza tra le vincite e le LDWs.

Effettivamente, aggiungendo suoni negativi sia alle LDWs che alle perdite, i giocatori erano stati più in grado di categorizzare le LDWs come risultati perdenti ed erano anche abili a fornire stime altamente fedeli della vittoria quando tornavano a riflettere sulla sessione di gioco. Il suono è un mezzo molto efficace per aiutare i partecipanti a rendere meno ambiguo il fatto che le LDWs siano risultati vincenti o perdenti. Quando i suoni negativi erano appaiati sia con le LDWs che con le perdite, solo una minoranza dei partecipanti era ancora ingannata dal mascheramento, mentre la maggioranza ha realizzato che le LDWs fossero di fatto delle perdite.

La drastica riduzione nella percentuale di persone ingannate dalle immagini e dai suoni rinforzanti delle LDWs nella condizione di “suono negativo” suggerisce che i partecipanti che giocano a giochi “standard” credano realmente di aver vinto, mentre in realtà hanno perso. Chiedendo ai partecipanti di stimare di ricordare il numero di volte in cui hanno vinto di più rispetto alla scommessa, nella condizione di “suono negativo” i partecipanti erano in grado di stimare accuratamente il numero di vincite reali in cui si sono imbattuti durante la sessione alle slot (mentre nella condizione “standard” si verificava una sovrastima notevole).

Avere suoni negativi che accompagnano sia le perdite normali che le LDWs è un modo pratico per portare i partecipanti a riconoscere che le LDWs sono risultati in cui perdono denaro. Questi suoni vincenti possono condizionare non solo il giocatore impegnato ad una slot-machine, ma anche gli altri partecipanti presenti nella sala, in quanto la ripetizione dei suoni vincenti delle LDWs e delle vittorie normali può dare l’impressione che le vincite si verifichino molto più spesso di quanto accade realmente. A proposito, Rockloff e colleghi (2011) hanno dimostrato che i giocatori aumentavano la velocità delle loro puntate, continuavano più a lungo e perdevano più denaro quando sentivano i suoni vincenti di altre slot-machine, rispetto a quando giocavano da soli.

Distorsioni cognitive e credenze erronee

Le cognizioni distorte risultano essere comuni tra i giocatori d’azzardo patologici (Joukhador et al, 2003) ed alcuni modelli cognitivi le considerano un elemento centrale del disturbo (come nel caso del Pathways Model of Problem and Pathological Gambling di Blaszczynski e Nower, 2002, uno dei resoconti di matrice cognitivo-comportamentale più influenti relativamente al gambling patologico). I giocatori d’azzardo patologici possono facilmente ricordare le vittorie per via di una disponibilità euristica (Tversky e Kahneman,1974), possono non riuscire a considerare ponderatamente le probabilità di vincita rispetto al rischio di perdita (Fletcher et al., 2011) e possono erroneamente attribuire le vincite ad abilità personali per via di un’illusione di controllo (Langer, 1975).

I giocatori d’azzardo patologici spesso danno spiegazioni bizzarre del gioco a cui si dedicano e del perché essi giochino. Spesso le loro cognizioni sono situazionali e singoli giocatori possono sostenere contemporaneamente credenze non logicamente coerenti (MacLaren et al., 2011). Ad esempio, un giocatore d’azzardo potrebbe continuare a scommettere dopo una serie di risultati perdenti ed accettare la “gambler’s fallacy”, cioè la credenza per cui un risultato vincente debba essere imminente, ritenendo improbabile che le precedenti serie di perdite possano continuare, anche se i risultati sono tra loro indipendenti (Tversky e Kahneman, 1974). Quanto all’illusione di controllo, le EGMs possono risultare attraenti in quanto in grado di trasmettere al giocatore la sensazione di avere un certo controllo sui risultati e che il rischio di perdita possa essere minimizzato (Haw, 2009). Questo avviene perché i giocatori possono regolare la grandezza ed il numero delle puntate simultanee per giro e questo in maniera indiretta cambia l’ampiezza media e la frequenza delle vincite.

I giocatori pratici di EGM sanno come manipolare questi risultati e questo può promuovere un’illusione di controllo sulle loro possibilità di ottenere un profitto, aumentando la frequenza e l’entità delle possibilità di vincita (MacLaren, 2015). Comunque, esercitare questo controllo implica scommettere più soldi, e la percentuale di rimborso programmata in una EGM (cioè la percentuale media di puntate che vengono restituite al giocatore come premi) è sempre inferiore al 100% ed è matematicamente indipendente dalla frequenza e dall’entità delle vincite (Harrigan et al, 2011).

Il controllo sul tasso di rinforzo permette inoltre ai giocatori di evitare lunghe strisce perdenti, il che può incoraggiare ulteriormente delle prese di decisione tramite euristiche (Harrigan et al., 2014). Bisogna aggiungere che in alcune EGMs il giocatore può esercitare una quota minima di controllo sui risultati anche premendo un pulsante per fermare il giro delle bobine al momento desiderato, influenzando così l’ottenimento di vincite o perdite. Questa infima quantità di controllo può talvolta contribuire ad un processo cognitivo irrazionale (Silver, 2015).

La progettazione delle moderne EGMs multilinea sembra appropriatamente idonea a capitalizzare sui giocatori d’azzardo problematici suscettibili alle illusioni di controllo e alla gambler’s fallacy (Goodie e Fortune, 2013). In un ampio campione di giocatori di EGM abituali, è stato mostrato come i giocatori d’azzardo problematici fossero più motivati al gioco d’azzardo come un modo per fuggire a stati emotivi negativi rispetto ai giocatori non problematici, e che avessero più distorsioni cognitive riguardo al gioco d’azzardo (Dixon et al., 2012). Le varie distorsioni cognitive possono essere il risultato di un disperato tentativo da parte dei giocatori di attribuire dei tristi risultati perdenti ed il loro comportamento incongruente a forze che possono essere comprese e, forse, controllate (MacLaren et al., 2015).

Fino ad oggi, non sembrano esistere sufficienti prove per affermare che cognizioni erronee sul gioco d’azzardo precedano e causino il gambling patologico, quanto piuttosto che contribuiscano al mantenimento del disturbo e che siano influenzate dai tratti di personalità sottostanti. In particolare, uno studio (MacLaren et al., 2012) ha dimostrato che i giocatori d’azzardo patologici non tendono intrinsecamente ad uno stile di pensiero difettoso. Fortunatamente, la mancanza di un deficit nello stile cognitivo tra i giocatori d’azzardo patologici suggerisce che gli interventi cognitivo-comportamentali non dovrebbero essere meno efficaci per i giocatori d’azzardo patologici rispetto ad altre forme di psicopatologie (ibidem).

Perdere un’illusione rende più saggi che trovare una verità (Ludwig Börne)

Il ruolo dei tratti di personalità nei giocatori d’azzardo

Una meta-analisi ha rilevato che i giocatori problematici rispetto a quelli non problematici presentano punteggi più elevati nei tratti che riflettono l’Affettività Negativa, la Disinibizione e l’Antagonismo (MacLaren et al., 2011). Un recente studio (MacLaren et al., 2015) si è occupato di identificare i meccanismi motivazionali e cognitivi attraverso cui le dimensioni basiche della personalità possano avere degli effetti indiretti sulla probabilità di problematiche nel gioco d’azzardo tra i giocatori abituali di EGMs ed ha riportato che i giocatori di slot-machine problematici tipicamente presentano tratti connessi al nevroticismo (quindi al timore, all’ansia, alla vulnerabilità emotiva) e all’impulsività (dunque ad una scarsa autoregolazione) che incrementano le problematiche del gioco d’azzardo, alimentando la “fuga” nel mondo del gioco d’azzardo e potenziando le distorsioni cognitive.

Essendo il nevroticismo un tratto associato, tra le altre cose, alla sensibilità alle punizioni, ci si potrebbe intuitivamente aspettare che la sua presenza scoraggi la persistenza nel gioco d’azzardo. Si deve però pensare che il gioco d’azzardo problematico risulta correlare positivamente con una motivazione finanziaria: i giocatori possono immaginare la vincita in denaro come una soluzione ai loro problemi finanziari, ma sono molto sensibili ai fallimenti e soffrono un turbamento emotivo di fronte a perdite ricorrenti. Come affermato precedentemente, le distorsioni cognitive possono riflettere il tentativo di attribuire risultati negativi a forze comprensibili. Alquanto paradossalmente, questi giocatori sensibili alla punizione possono impulsivamente “rincorrere” le perdite (Breen and Zuckerman, 2007), attraverso un rinnovato sforzo per fuggire alla realtà di aver perso larghe somme di denaro, vincendo di nuovo.

Questa ipotesi spiega come l’aspetto di sensibilità alla punizione del Nevroticismo, combinata con l’esperienza di risultati imprevedibili e spesso negativi, possa portare a distorsioni cognitive che mantengono ulteriormente il gioco d’azzardo. Inoltre, bisogna considerare che i giocatori possono scommettere piccole somme in un lasso di tempo esteso e regolare il numero e l’entità delle scommesse, così da controllare il rischio e la potenziale ricompensa per soddisfare la loro tolleranza immediata, anche se ciò non ha effetti sulla percentuale di pagamento. L’esperienza soggettiva di assunzione del rischio è dunque fatta percepire come meno instabile e forse anche un po’ sicura e prevedibile una volta che i giocatori imparano ad esercitare il controllo sulla frequenza e l’entità delle vincite (MacLaren, 2015).

Altri studi che hanno indagato il ruolo dei tratti di personalità coinvolti nel gambling problematico da slot machine, oltre a confermare la presenza di punteggi significativamente maggiori per il fattore Nevroticismo nei giocatori patologici, hanno indicato che riguardo agli esiti del trattamento alti punteggi nell’Impulsività emergano come predittori significativi delle ricadute e degli abbandoni. Due diversi studi, utilizzando due diversi modelli di personalità (NEO-PI R ed Alternative Five Factor Model), sono arrivati a concludere che l’impulsività sia un tratto preminente nel predire il rischio di ricadute e drop-out nei giocatori d’azzardo patologici di slot-machine. In relazione a questo, va considerato che per molti giocatori un’elevata impulsività può rendere difficoltoso beneficiare del trattamento, dato che l’eccitamento derivato dal gioco d’azzardo è immediato, mentre la ricompensa del trattamento avviene solo a lungo termine.

Fattori “macroscopici” del gioco d’azzardo legato alle slot-machine

Nel presente articolo si è cercato di riportare le principali caratteristiche del disturbo da gioco d’azzardo legato alle slot-machine, da un punto di vista prettamente psicologico, tramite l’utilizzo di ricerche svolte prevalentemente nell’ultimo decennio. La questione del gioco d’azzardo va inserita però in un contesto più ampio e necessita lo studio di altri fattori squisitamente sociali, economici e politici.

Ad un livello sociale, andrebbe approfondito il ruolo delle reti sociali in cui l’individuo è inserito e, in particolare, dalle reti di sostegno familiari e amicali. La carenza di reti sociali di sostegno, infatti, è un fenomeno strettamente legato al nostro tipo di società, nella quale anche l’istituzione della famiglia è divenuta più fragile rispetto al passato e non rappresenta più un nucleo stabile nella rete dei legami di riferimento. Le persone più vulnerabili – per età, per situazione socio-economica o perché presentano disturbi psicopatologici – sono quelle che, maggiormente, risentono di questa nuova situazione.

Ad un livello economico, va considerato che periodi di crisi economica, i quali possono comportare la perdita di un lavoro fino a poco tempo prima considerato stabile, l’incertezza del proprio futuro e di quello dei propri figli, possono avere un ruolo nel favorire l’insorgere della dipendenza da gioco d’azzardo. Per quanto concerne la politica, in Italia la gestione del gioco d’azzardo risulta essere carente su molti fronti. Uno di questi è la gestione della pubblicità, in grado di favorire l’instaurarsi della dipendenza da gioco d’azzardo. La pubblicità può avere un ruolo particolarmente rilevante e dannoso nei confronti degli adolescenti che vedono nell’immagine vincente del giocatore offerta da questi spot un tipo di identità ‘ideale’, una sorta di salvacondotto per ottenere con facilità popolarità sociale e successo economico.

Un altro fattore di notevole importanza riguarda l’estrema facilità con la quale è oggi possibile iniziare a giocare. È inevitabile che la diffusa disponibilità degli apparecchi e degli spazi di gioco attiri anche coloro che non oserebbero mai entrare in un casinò o in una bisca. Inoltre, nella maggior parte dei casi, per accedere al gioco, non è richiesta l’esibizione di alcun documento d’identità, a differenza di quanto avveniva in passato, quando la possibilità di accesso ai luoghi deputati al gioco era fortemente regolamentata (Croce, 2005). Questa deregolamentazione nell’accesso al gioco fa sì che non si percepisca che, anche se si tratta di un’attività legale e aperta a tutti, il gioco d’azzardo mantiene comunque un rischio intrinseco di sviluppare forme di dipendenza: il fatto che sia legale, infatti, non protegge dalle conseguenze che esso comporta (Tani e Ilari, 2016).

Inoltre, fatto non meno importante, lo Stato italiano ha delegato il delicato compito di condurre campagne di prevenzione per un Gioco Legale e Responsabile agli stessi concessionari dei giochi d’azzardo. In altri termini, i soggetti che devono divulgare messaggi di tipo educativo per la promozione di un gioco controllato e non eccessivo, sono gli stessi che pubblicizzano i servizi di gioco da loro erogati, in un palese conflitto di interessi.

Guardando invece alle spese dello Stato riservate al disturbo da gioco d’azzardo, con il Decreto del Ministro della salute del 6 ottobre 2016, “al fine di garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione, rivolte alle persone affette da disturbo da gioco d’azzardo”, viene ripartita tra tutte le regioni la somma di cinquanta milioni di euro annui. Vale la pena in questo contesto segnalare che durante il 2016 gli italiani hanno speso almeno diciotto miliardi e mezzo di euro in giochi ricompresi sotto la dizione usuale di “gioco d’azzardo”, a fronte di una raccolta complessiva dell’industria del gioco pari a 95 miliardi di euro (questo dato risente del meccanismo del rigioco, per cui il giocatore reimpiega le vincite ed aumenta la raccolta lorda; Agripronews, 2016).

Come brillantemente suggerito nel libro di Franca Tani e Annalisa Ilari (2016), risulta oggi essere necessaria un’azione volta ad incidere sulla ‘cultura’ del gioco, in modo da evitare atteggiamenti demonizzanti e ricondurre questa attività alle sue dimensioni più spiccatamente ludiche, di intrattenimento e di divertimento: un gioco cioè consapevole e controllato che non comporti rischi per la salute.

Nello specifico, i principali obiettivi di questo livello di prevenzione sono:

  1. Informare la popolazione sui rischi che il gioco d’azzardo può comportare per la salute psico-fisica degli individui;
  2. Fornire indicazioni utili per individuare precocemente – in se stessi, in un familiare o in un amico – segni e sintomi che possono costituire dei campanelli di allarme per lo sviluppo di una dipendenza da gioco d’azzardo;
  3. Far conoscere i punti informativi e i servizi socio-sanitari presenti sul territorio a cui potersi rivolgere in caso di necessità
  4. In ultimo ma non per ultimo, informare la popolazione rispetto alle reali probabilità di vincita dei diversi tipi di giochi d’azzardo.

Tutto ciò comporta che vi sia da parte di tutti i soggetti coinvolti un’accurata analisi degli effetti e delle conseguenze cui si può andare incontro se si modifica l’assetto del mercato legale dei giochi, con la consapevolezza che questo tipo di obiettivo non può essere realizzato in tempi brevi, né può essere attuato con provvedimenti drastici. La diffusione del gioco d’azzardo legale è infatti un processo che va avanti da più di venti anni e che coinvolge interessi di ordine economico e finanziario, numerosi operatori di settore, oltre a quelli dell’indotto che questo crea, e moltissimi lavoratori.

Inoltre, se è vero che l’accresciuta disponibilità di giochi d’azzardo e la loro facile accessibilità costituiscono dei fattori strettamente legati alla crescita del comportamento di gioco d’azzardo problematico e patologico (Potenza e Charney, 2001; Shaffer e Hall, 2001), è pur vero che il proibizionismo non costituisce un valido strumento di prevenzione. Ne è un esempio, su tutti, il fallimento della politica proibizionista sul consumo di alcool messa in atto negli anni Venti del secolo scorso dal governo degli Stati Uniti d’America.

Infine, non va trascurato il fatto che il gioco d’azzardo è fortemente radicato nella nostra cultura e che c’è, quindi, un’elevata richiesta di questo tipo di attività, per cui, eliminare qualsiasi forma di gioco d’azzardo legale equivarrebbe a riconsegnare nelle mani della criminalità organizzata tutta la gestione di questo ricco giro d’affari. F. Tani e A. Ilari (2016) sottolineano inoltre che per far fronte in modo efficace a problematiche così poliedriche come il gioco d’azzardo patologico è necessaria una riflessione collettiva, che coinvolga tutte le istituzioni che si occupano di politiche socio-sanitarie e dell’istruzione, nonché dell’assetto economico del nostro Paese. Una riflessione che consenta di procedere ad un’azione concertata che miri non solo alla prevenzione della patologia ma alla promozione di una società ‘sana’, di un ambiente ricco di stimoli positivi, di un’educazione che si ponga come obiettivo la formazione di cittadini consapevoli e in grado di impiegare tutte le proprie risorse per tutelare la salute psico-fisica non solo personale ma anche sociale.

Il processo decisionale in Tribunale: cosa guida il ragionamento del giudice?

Al di là di quello che immaginiamo debba essere il giudice e come debba mettere in atto il suo processo decisionale in Tribunale, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Giada Fratantonio

 

Essere giudice: tra il ruolo e la persona

L’etimologia della parola “giudice” è da ricercarsi nella lingua latina: iudex, iudicis, orig. ‘colui che pronuncia (da dicere) la formula religiosa di giustizia (ius, iuris)’.

Partendo da qui e pensando a quello che a tanti evoca il termine stesso, non si sbaglia se si dice che il giudice, dall’alto del suo seggio, è sempre stato percepito come portatore sano di razionalità ed imparzialità, caratteristiche che istintivamente si possono attribuire a quella giustizia, che come una formula, il giudice dovrebbe possedere ed essere in grado di restituire.

Al di là di quello che sappiamo o che immaginiamo debba essere il giudice, riflettendo sulle sue caratteristiche, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, che fa il suo ingresso nelle aule del Tribunale con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Si tratta di fattori che solitamente non si palesano, ma guidano, stando un po’ in sordina, le trame del ragionamento che sfocerà nella decisione finale.

Quando la distanza tra la verità storica e la verità processuale diventa significativa, il giudice tenderà ad affidarsi, in maniera automatica, ai propri pregiudizi, alle proprie inclinazioni personali, al proprio sistema di credenze.

È nell’esperienza di tutti noi che il prendere decisioni non è cosa semplice, dalla banalità di scegliere un capo da indossare la mattina al decidere se sposare o meno una persona, etc etc, e ci viene incontro anche la scienza, dimostrando come molto spesso dietro giudizi apparentemente razionali e ponderati, si nascondano in realtà errori cognitivi e fallacie di non facile individuazione.

Alla difficoltà propria dell’essere umano, quale appunto è il giudice, si aggiunge, all’interno del contesto giudiziario, la difficoltà connessa alla variabilità dei dati e all’estrema eterogeneità dell’ambiente in cui le decisioni devono essere prese.

Come funziona il processo decisionale del giudice

Simon, economista, psicologo e informatico statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1978, disse che il processo decisionale è un’attività cognitiva in cui vengono attivati meccanismi volti alla selezione di un corso d’azione tra quelli possibili, che consenta di ottenere un risultato soddisfacente (Simon 1956). I meccanismi coinvolti nella presa di decisione sono del tutto analoghi a quelli implicati nella soluzione dei problemi, ma in quest’ultimo caso non viene selezionata un’alternativa bensì viene generata una strategia idonea al raggiungimento dello scopo indicato dal solutore.

Secondo Simon (1976) tale processo decisionale consta di tre fasi principali. La prima è quella in cui avviene la raccolta di informazioni sul contesto del problema; la seconda fase riguarda l’esplorazione e l’analisi delle formulazioni alternative del problema; la terza consiste nella selezione della situazione problematica che dovrà essere risolta.

Più recentemente (Bonini-Rumiati 1992) sono state meglio articolate le fasi del processo decisionale. La decisione prevede una fase di diagnosi, corrispondente ad una sorta di categorizzazione del problema, una fase di strutturazione o di editing del problema decisionale, in cui il decisore si fa un’idea più precisa riguardo alle possibili azioni da intraprendere, una fase di elaborazione in cui vengono messi in atto quei processi che permettono di adottare le modalità di soluzione del problema decisionale, infine, la scelta e il controllo delle conseguenze della scelta medesima. Analisi, quindi, che ben si adatta all’esame di una situazione cognitivamente complessa come il processo penale.

Le distorsioni nel processo decisionale in tribunale: il ruolo delle euristiche

Nel volume curato da Kahneman, Slovic e Tversky (1982) “Judgment under uncertainly. Heurustics and biases”, viene posto in rilievo il fatto che le prestazioni dei decisori, siano essi ingenui o esperti, non corrispondono alle procedure formali prescritte che dovrebbero garantire un giudizio o una scelta razionali. In termini molto generali, ciò si verifica proprio per il fatto che il sistema cognitivo non consente di trattare tutte le informazioni necessarie e di aggregarle in maniera corretta.

In tal modo si osservano degli errori sistematici (biases) o “illusioni cognitive”. Gli elementi di ogni illusione cognitiva sono:

  • Una regola formale che specifica come determinare una risposta corretta ad una domanda intellettiva;
  • Un giudizio, eseguito senza l’aiuto di strumenti fisici, che risponde all’interrogativo;
  • Uno scarto sistematico tra risposta corretta e giudizio espresso.

Un esempio di trappola cognitiva è dato dall’insensibilità alla “frequenza di base”, da cui discende l’euristica della rappresentatività.

Gli individui, quando devono fare delle previsioni, possono agire in due modi: o fondano i propri giudizi a partire dalla frequenza con la quale è stato osservato l’esito critico (analisi delle serie storiche), oppure facendo ricorso ad un qualche dato specifico relativo al caso in esame (Tversky-Kahneman 1982).

Ad un’attenta analisi si può vedere come gli individui tendano ad incappare nell’euristica della rappresentatività per cui le stime di un certo evento dipendono dal grado con cui esso è simile nelle sue caratteristiche essenziali alla categoria di appartenenza oppure riflette le caratteristiche salienti da catturare l’attenzione dei soggetti da indurre questi ultimi a pensare che la testimonianza nel processo venga resa in un modo simile a quello in cui i risultati della prova del testimone sono stati generati.

Negli anni settanta del secolo scorso gli studi degli psicologi cognitivi Amos Tversky e Daniel Kahneman dimostrarono che, nell’adozione di decisioni complesse, ogni individuo fa ricorso a precise strategie, definite “euristiche”.

Un esempio di euristica, applicabile al mondo della giustizia, è stato documentato da uno studio di ricercatori dell’Università di Trento che hanno dimostrato l’esistenza di una tendenza dei giudici donna a liquidare in favore delle mogli somme maggiori, a titolo di mantenimento, rispetto a quelle liquidate ai mariti (C. Bona, B. Bazzanella, 2008).

Si è parlato della cosiddetta euristica della disponibilità che condiziona le decisioni sulla base della salienza degli eventi cioè del loro grado di rilevanza nel ricordo del soggetto. Sarebbe dunque la disponibilità di esempi nella mente del decisore a condizionare le decisioni medesime; è quindi più facile per un giudice di sesso femminile crearsi o recuperare nella memoria l’immagine di una donna in difficoltà piuttosto che non quella di un uomo.

Sistemi e stereotipi nel processo decisionale in ambito giuridico

Due diversi sistemi presiederebbero il processo decisionale degli individui: un Sistema 1 o Sistema Euristico ed un Sistema 2 o Sistema Analitico (M. Mortellini, F. Guala, 2011).

Il primo dei due opererebbe con modalità rapide, intuitive, impulsive, associative ed automatiche, difficili da controllare o modificare, non particolarmente impegnative in termini di sforzo razionale. Il secondo implicherebbe processi consapevoli più ponderati, più lenti e quindi più faticosi. Si ricorre sempre a quest’ultimo quando si affronta un calcolo matematico, quando si deve risolvere un problema che implica una serie di passaggi procedurali. Si ricorre, invece, al primo di tutti gli altri casi e ciò è particolarmente evidente nel cosiddetto ragionamento esplorativo dove si salta velocemente alle conclusioni.

Nel processo decisionale, la tendenza in tutti noi, infatti, è quella di avvalerci del Sistema Euristico, come primo approccio e questo comporta inevitabilmente più errori ed imprecisioni. Tale modalità nel decidere è pervasa dall’enorme influenza delle impressioni di natura intuitiva, inconscia ed automatica. Se lo riteniamo necessario, in un secondo momento dello stesso processo decisionale, utilizziamo il Sistema Analitico, fondato sui criteri della logica formale e destinato ad introdurre elementi più affidabili di giudizio. La maggior parte dei nostri errori decisionali infatti il prodotto dei giudizi intuitivi del Sistema 1 che non sono passati al vaglio del Sistema 2.

Nonostante il Sistema 2 cerchi di giustificare ex post la “razionalità” dei nostri comportamenti, la maggior parte di questi è determinata dal Sistema 1.

E poi ci sono gli stereotipi. Questi possono entrare facilmente in campo anche quando, in sede giudiziaria, si devono prendere delle decisioni e diventano addirittura fattori condizionanti nella valutazione delle prove e nella ricostruzione del fatto oggetto del giudizio. In particolare è stato studiato il ricordo dei dati probatori a favore o a sfavore della colpevolezza di un imputato, a seconda della sua appartenenza etnica, e l’influenza che tale ultimo fattore può avere sul modo in cui i giurati emettono il verdetto finale. Ne è dunque emerso che tutti, in modo inconsapevole, ed a prescindere da fattori di carattere ideologico, venivano condizionati dallo stereotipo come modalità di semplificazione del giudizio. Usavano lo stereotipo come fattore aggregante attorno al quale venivano verificate le prove che fossero coerenti con esso ed erano trascurate sistematicamente le evidenze processuali che lo disconfermavano (G.V. Bodenhasen, M. Lichtesnstein, 1987). Insomma una sorta di “cecità attentiva” nei confronti dei riscontri probatori che potevano falsificare il fondamento del loro pregiudizio etnico che, nello specifico, era rivolto a soggetti di origine ispanico-americana.

Il processo decisionale nel giudice

Quanto precedentemente detto per far capire come anche nel mondo della giustizia come nella realtà quotidiana, scorciatoie di pensiero piuttosto che pregiudizi o background del giudice possono influenzare prepotentemente i suoi processi di ragionamento, ma questo avviene anche per sentimenti ed emozioni.

Troviamo il magistrato analitico, il quale, relatore di un processo, mette in evidenza particolari così minuti da stupire l’avvocato più attento, ma, quando va a formulare il suo giudizio, è deviato da queste dispersioni di attenzione sui punti fulcrali. In questo caso la capacità di comprendere non può confondersi con la capacità a giudicare, proprio perché alcuni soggetti, inclini all’indagine analitica, pur arrivando all’esatta individuazione degli elementi compositori di un avvenimento, non sanno poi graduare gli stessi nella loro importanza così da comporli in un quadro armonico. L’analisi, in questi soggetti, rappresenta un fattore meccanico e superficiale di selezione degli elementi, priva di una loro valorizzazione intelligente che consenta la ricomposizione in una sintesi comprensiva delle circostanze salienti.

Vi è poi il magistrato sintetico che ha la tendenza alla generalizzazione e che è spesso portato a confondere le analogie con le identità.

Giudicare significa pervenire al convincimento attraverso due processi principali: l’analisi, con la scomposizione di tutti gli elementi che vengono assunti, e la sintesi, con l’assimilazione di questi elementi. Dalle percezioni dei fatti, degli avvenimenti, da una loro analisi, da un loro coordinamento, il giudice, attraverso un lavoro di sintesi, perviene alla sentenza.

Nel nostro sistema giuridico (sistema accusatorio) la prova si forma durante il processo. Non si tiene però conto del fatto che il Giudice d’appello comincia molto prima, fuori addirittura dalle regole del gioco processuale, a formarsi una sorta di convincimento. Nel processo d’assise poi il Giudice togato è un giudice che ha una velocità di accesso ai documenti e una possibilità di ispezione dai documenti stessi che non è in concreto, né lo può essere, uguale a quella degli altri sei giudici popolari. Quindi, non solo vi è una pre-cognizione del processo, ma vi sono tra gli stessi giudici (popolari e laici) corsie differenziate di accesso all’informazione che diventano spazi di divaricazione a forbice nella conoscenza, anche in relazione alla dimensione del processo stesso e alla lontananza del Giudice popolare d’assise d’appello dalla sede di giudizio.

C’è poi un ulteriore punto da prendere in considerazione e cioè i rapporti tra opinione pubblica e sentenza: allorquando le sentenze sono in buona consonanza con le opinioni del pubblico, la reputazione dell’amministrazione della giustizia cresce e sulle persone giudicate pesa, oltre che la stigmatizzazione del sistema, la squalifica sociale (Lanza 1988).

Al contrario, però quando il giudice perde il contatto con il popolo e non c’è più questa armonizzazione tra cultura del buon senso e decisione giudiziaria, il sistema repressivo si svilisce e i perseguiti diventano perseguitati e vittime.

Gli individui, nessuno escluso, decidono prima maturando la decisione, poi argomentandola. E così farebbe anche il magistrato del Pubblico Ministero, il quale intuitivamente decide, e poi, a posteriori, cerca di validare la fondatezza del giudizio con argomenti che spesso forzano le evidenze processuali. Il meccanismo è quasi automatico e comunque involontario.

Il magistrato del Pubblico Ministero si fa quindi già un’idea, prende dentro di se, in maniera inconscia una decisione, sentendo le dichiarazioni rilasciate dai vari individui chiamati a testimoniare e poi, va alla ricerca di elementi che possano corroborare la sua ipotesi di partenza, in maniera da poter argomentare la sua decisione.

Arriviamo al cosiddetto “bias egocentrico”, che è  determinato dalla tendenza della gente a sovrastimare le proprie abilità e conoscenze durante un processo decisionale.

Così anche i giudici spesso pensano di essere in grado di prendere decisioni meglio di quanto siano veramente in grado di farlo.

Interessante è lo studio di Guthrie, Rachlinski, Wistrich (2001) che chiedevano a dei giudici quanto ritenevano probabile il rovesciamento in appello della sentenza dagli stessi emessa.

I partecipanti nel 56% dei casi fornivano una stima che si collocava nel quartile più basso e il 31% dei casi si collocava nel secondo quartile più basso. Appena il 7,7% dei partecipanti si collocava nel secondo quartile più alto e il 4,5% al quartile più alto. Quindi circa l’87% dei giudici partecipanti manifestava il bias egocentrico.

Si capisce quindi quanto possa essere difficile scardinare un’idea iniziale per il magistrato del Pubblico Ministero, una volta che questo si è creato tale idea, magari utilizzando delle euristiche e partendo dalle prime dichiarazioni rilasciate dai teste coinvolti in un processo. Dopotutto questo è perfettamente in linea con il concetto di “risparmio cognitivo”, quel risparmio che il nostro sistema cerca sempre di mettere in atto, per il quale è più semplice cedere alle lusinghe della certezza che non arrovellarsi alla ricerca di qualcosa che mini le nostre convinzioni di partenza.

Sutherland, studioso inglese, dice che la razionalità di una decisione dipende dalla completezza del quadro conoscitivo di chi la prende (Sutherland S., 2010).

Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti durante un processo decisionale, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni.

Si apprezza, allora ed ancor di più, il valore fondamentale dell’obbligo di motivazione della decisione giudiziaria (Sutherland S., 2010).

E’ in forza della motivazione che la decisione del magistrato del Pubblico Ministero risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. E’ sempre in forza della motivazione che il giudice dà conto del suo sapere, anche solo opinabile e probabile, ma proprio per questo confutabile e controllabile non solo dall’imputato, ma anche dalla società (Forza A., 2011).

La rabbia, un’emozione intensa: l’intervento in ottica cognitivo-comportamentale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Elena Santoro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

L’emozione di rabbia: conseguenze negative e aggressività

La rabbia è una delle sette emozioni di base, un’emozione universale che appartiene all’esperienza umana comune e condivisa a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. La ricerca condotta negli ultimi tre decenni ha mostrato che essa però può essere problematica e divenire disfunzionale (Averill, 1983; Plutchik, 1980).

DiGiuseppe e Tafrate (2007) hanno definito la rabbia:

Uno stato emotivo sperimentato a livello soggettivo con un’elevata attivazione del sistema simpatico autonomo. È inizialmente suscitata dalla percezione di una minaccia, anche se può persistere dopo che la minaccia è passata. La rabbia è associata a cognizioni e pensieri di attribuzione e di valutazione che sottolineano le malefatte degli altri e motivano una risposta di antagonismo per contrastare, scacciare, ritorcere contro, o attaccare la fonte della minaccia percepita. La rabbia è comunicata attraverso la mimica facciale o posturale o inflessioni vocali, verbalizzazioni avverse e comportamento aggressivo (p. 21).

In letteratura il termine rabbia e quello di aggressività sono stati spesso utilizzati in modo interscambiabile, anche se essi non coincidono sempre.

La rabbia, come descritto sopra, è uno stato emotivo mentre l’aggressione si riferisce al comportamento messo in atto. L’aggressività coincide con l’attacco fisico e verbale mentre la rabbia con il forte sentimento di malessere rappresentando la faccia soggettiva dell’aggressività. La rabbia può esitare in comportamenti aggressivi (ad es. urlare, lanciare oggetti) e di certo aumenta la probabilità di metterli in atto (Anderson & Bushman, 2002). Questi comportamenti a loro volta possono portare a esiti negativi, come discussioni accese, distruzione di proprietà o aggressioni fisiche. Dunque, le persone che sperimentano livelli elevati di rabbia hanno una probabilità maggiore di incorrere in esiti negativi (Deffenbacher, Oetting, Lynch, & Morris., 1996).

La violenza rappresenta l’esempio più drammatico delle conseguenze negative della rabbia, la forma di gestione più distruttiva (Korn & Mùcke, 2001). Detto ciò, però, l’emozione di rabbia non sfocia sempre in azioni violente e aggressive, così come la violenza e l’aggressione possono verificarsi in assenza di rabbia (ad es. nel caso di una rapina in cui l’aggressione è puramente strumentale). Esistono infatti, azioni aggressive depurate dalla rabbia e azioni rabbiose che non possono essere definite aggressive: una persona che si arrabbia è sempre emozionata, mentre quella aggressiva può anche essere in uno stato non-emotivo o di apatia (Fein, 1993).

Averill (1983) in uno studio sulle cause e sulle conseguenze della rabbia con studenti universitari scoprì che solo il 10% delle 160 esperienze di rabbia sfociava in aggressioni o punizioni fisiche, il 49% in aggressioni verbali mentre nel 60% dei casi in risposte non aggressive (es. parlare dell’accaduto).

L’emozione di rabbia sia che sfoci in azioni aggressive e violente sia che permanga a livello soggettivo come esperienza emotiva duratura e persistente,  si associa spesso a una serie di avverse conseguenze a livello psicologico e sulla salute fisica. L’esperienza personale di rabbia è di solito descritta come sgradevole (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002) e problematica (Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005). Infatti, le persone irritate sono più propense a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002), ad esercitare una scarsa capacità di giudizio (Kassinove, Roth, Owens, & Fuller 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile (Deffenbacher, 2000).

McDermut e colleghi (2009) hanno indagato in uno studio con 1.687 pazienti l’associazione tra il tratto elevato di rabbia (HTA) e i disturbi di Asse I (SCID). Il 35,2% dei partecipanti con HTA non aveva però ricevuto alcuna diagnosi di disturbo in Asse I associato con rabbia/aggressività (PTSD, BDI, BPII- Bipolarismo II, GAD- Disturbo di ansia generalizzato) né Disturbo Borderline di Personalità (BDP) o Disturbo Antisociale di Personalità (ASPD). Nonostante ciò, la rabbia rappresentava uno degli indicatori principali della compromissione psichiatrica e del funzionamento psicopatologico dei pazienti, spiegandone una percentuale significativa di varianza.

Infine, la letteratura documenta una forte associazione tra alti livelli di rabbia e problemi di salute, in particolare ipertensione e malattia coronarica (Suls & Bunde, 2005).

La rabbia: un costrutto multi-dimensionale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Novaco (1978, 1997) e Howels (1998) descrivono la rabbia come un costrutto multi-dimensionale costituito da diversi domini: fisiologico (attivazione generale), cognitivo (pensieri automatici, credenze, immagini), fenomenologico (consapevolezza soggettiva, etichettamento) e comportamentale (il linguaggio del corpo, le espressioni facciali). Queste dimensioni interagiscono tra loro influenzando l’esperienza individuale di rabbia (o la sua assenza).

Le modificazioni fisiologiche consistono in un’accelerazione del battito cardiaco, nell’aumento della tensione muscolare, nella sensazione soggettiva di calore e irrequietezza; tali modificazioni sono dovute all’attivazione del sistema nervoso autonomo e predispongono l’individuo all’azione.

Per quanto riguarda invece la manifestazione comportamentale della rabbia a livello mimico e corporeo è simile a quella osservata negli animali. Gli studi di Ekman e Oster (1979) hanno dimostrato che l’espressione facciale della rabbia è simile e facilmente riconoscibile in persone di culture molto diverse. I cambiamenti del volto comprendono: l’aggrottare violento delle sopracciglia, lo scoprire e digrignare i denti, lo stringere le labbra mentre gli occhi appaiono lucidi.

La dimensione cognitiva gioca un ruolo prioritario nell’esperienza di rabbia, infatti i pensieri negativi che si attivano automaticamente nell’individuo in risposta a un evento/stimolo rinforzano le emozioni negative sfociando talvolta in azioni distruttive (Beck, 1999). Già Izard nel 1977 aveva identificato come possibili cause della rabbia alcuni sentimenti, pensieri ed eventi: essere trattati male, costretti a fare qualcosa contro la propria volontà, essere abbandonati, venire delusi, essere traditi, sapere di essere odiati, essere oggetto di attacchi fisici o verbali, essere criticati, sentire di aver fallito, vedere andare male i propri progetti, assistere ad azioni stupide o violente e fare qualcosa che non viene apprezzato. La variabile cognitiva è determinante nell’esperienza e nell’espressione della rabbia in quanto è una risposta emotiva ad uno stimolo che viene percepito e dunque interpretato dall’individuo come provocatorio (Novaco, 1975).

La rabbia si attiva quando l’individuo interpreta un evento come ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo o quando ritiene di aver subito immeritatamente un torto, un danno (D’Urso & Trentin, 2001). La rabbia rappresenta un segnale di allarme, indica la presenza di un ostacolo al raggiungimento degli scopi che l’individuo si prefigge o la violazione dei suoi diritti. In altri casi, la rabbia ha la funzione di avvisare della presenza di una minaccia all’autostima, all’immagine sociale e alla possibilità di essere vittima di un’ingiustizia, in modo tale da poterla affrontare ed eliminare alla fonte. Averill (1982) ritiene che le valutazioni del soggetto circa la responsabilità, intenzionalità e consapevolezza attribuite alla persona che compie l’azione ingiusta vadano ad incrementare il senso di ingiustizia e con esso l’emozione di rabbia.

La rabbia si attiva tutte le volte che si pensa di aver subito un torto ed esso è ritenuto: intenzionale, malevolo, immotivato e compiuto da una persona indesiderabile. Ci si arrabbia raramente nei confronti di oggetti e più di frequente verso le persone proprio perché attribuiamo loro la consapevolezza e la volontà di arrecare un danno (Averill, 1982). Inoltre, in linea con la teoria dell’inferenza corrispondente (Jones & Davis, 1965; Jones & Harris, 1967) e l’errore fondamentale di attribuzione (Ross, 1977) le persone tendono a rintracciare le cause del comportamento altrui (ingiusto o dannoso) nelle loro disposizioni e nelle caratteristiche di personalità, sottovalutando invece i fattori situazionali. Ciò porta le persone a compiere attribuzioni interne di colpa e responsabilità più spesso che esterne, anche quando sono evidenti le potenziali cause situazionali e contingenti.

Diversi studi empirici confermano che le persone che sperimentano elevati livelli di rabbia e aggressività in effetti, tendono a fare attribuzioni più negative e ostili rispetto alle persone non violente o non aggressive (James & Seager , 2006; Moore, Eisler & Franchina, 2000; Witte, Schroeder & Lohr, 2006).

Il trattamento della rabbia in ottica cognitivo-comportamentale

L’assunto fondamentale della psicoterapia cognitiva, postulato per la prima volta negli anni 60’ da Beck (1967) e Ellis (1962), sostiene che le rappresentazioni mentali del paziente (pensieri automatici, credenze e schemi cognitivi) spiegano il disagio psicologico e il suo perpetrarsi nel tempo. I disturbi emotivi vengono spiegati tramite l’analisi delle relazioni fra pensieri, emozioni e comportamenti. Le distorsioni di tipo cognitivo influenzano le reazioni emotive che causano sofferenza alla persona e ne perpetuano il disagio. La patologia è frutto di pensieri, schemi e processi disfunzionali (Mancini & Perdighe, 2008).

Le emozioni di base, fra cui la rabbia, sono filogeneticamente determinate, hanno una base innata e una funzione adattiva, tuttavia possono diventare causa di sofferenza quando la loro intensità è molto elevata e si protrae nel tempo. La rabbia diviene disfunzionale per la persona se la sua manifestazione ne compromette le relazioni sociali o la spinge a compiere azioni dannose verso sé, gli altri, oppure verso cose. Lo stato emotivo e la relativa sofferenza sono determinati dal significato che la persona attribuisce agli eventi, infatti, come già anticipato, la persona prova rabbia nel momento in cui percepisce e dunque interpreta un determinato evento come un torto subito o una violazione dei suoi diritti.

Alla luce di quanto detto, la psicoterapia cognitiva utilizza come strumento principale di cambiamento l’intervento sulla variabile cognitiva. Lo scopo della terapia è aiutare il paziente in primis, a riconoscere i pensieri automatici negativi e i processi cognitivi disfunzionali che si attivano in lui (maggiore consapevolezza) e poi, a modularli e modificarli. L’intervento cognitivo ha l’obiettivo di insegnare al paziente sia a riconoscere sia a disputare i pensieri, le credenze e le interpretazioni da cui hanno origine i comportamenti problematici e la sua sofferenza psicologica.

Diversi studi sul trattamento di problemi connessi alla rabbia e all’aggressività hanno confermato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) (Lipsey, 2009; Litschge, Vaughn, & McCrea, 2010; Özabaci, 2011). La CBT utilizza diverse tecniche per intervenire e modificare i processi cognitivi e i comportamenti del paziente (Beck, 2011). Queste tecniche si focalizzano sul riconoscimento delle distorsioni e dei bias cognitivi da parte del paziente, in combinazione con l’apprendimento di cognizioni adeguate (Landenberger & Lipsey, 2005). Infatti, il lavoro in terapia rinforzato dagli homework a casa sollecita il paziente a riconoscere la catena di pensieri (B) e reazioni emotive e comportamentali (C) che si attivano in situazioni diverse (A), in relazione a stimoli esterni o interni (modello A-B-C di Ellis). Il paziente è poi incoraggiato dal terapeuta a disputare i pensieri automatici negativi e disfunzionali, le credenze rigide e generalizzate con cui interpreta le situazioni e gli eventi verificandone la veridicità, la giustificabilità (confronto con i dati di realtà) e la loro utilità. La parte finale della terapia in genere comporta la generazione di credenze alternative a quelle ormai riconosciute dal paziente come disfunzionali e la loro messa in pratica nelle situazioni in cui vengono percepite delle provocazioni.

Gli interventi per la gestione della rabbia si focalizzano sul modo in cui i pazienti percepiscono le provocazioni interpersonali e spesso promuovono la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro in modo tale che non venga percepito come ostile o colpevole (Day, Howells, Mohr, Schall & Gerace, 2008). Il perspective taking è uno dei processi cognitivi centrali coinvolti nell’empatia e i deficit di perspective taking rappresentano target importanti per il trattamento di coloro che commettono atti violenti (Jolliffe & Farrington, 2004; Zechmeister & Romero, 2002).

Nello studio di Mohr et al. (2007) il perspective taking è stato identificato come predittore sia della rabbia di tratto sia della modalità di espressione e di controllo della rabbia. Coloro con maggiori capacità di perspective taking manifestavano meno la rabbia all’esterno, minori strategie di sopressione mentre facevano un maggiore uso di strategie adattative di controllo. Dunque, la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro sembra essere associata non solo ad una minore espressione delle emozioni di rabbia a livello comportamentale e ad una minore tendenza a reprimere negativamente la rabbia, ma anche a risposte più adattative per la sua risoluzione.

Spesso, a supporto del lavoro sulla dimensione cognitiva, vengono insegnate al paziente tecniche di rilassamento per controllare l’eccitazione fisiologica (DiGiuseppe & Tafrate, 2003). Le tecniche di rilassamento e/o la mindfulness associati al protocollo CBT sembrano rendere ancora più efficaci gli interventi per problemi connessi alla rabbia e all’aggressività (Deffenbacher, 2011; Pellegrino, 2012).

Inoltre, si propongono ai paziente training sulle abilità di problem solving e l’identificazione di comportamenti alternativi, ad esempio attraverso il role playing (Blake & Hamrin, 2007; Landenberger & Lipsey, 2005; Sukhodolsky, Kassinove, & Gorman, 2004).

Per concludere, la letteratura scientifica ha verificato che la terapia cognitivo-comportamentale rappresenta l’approccio di elezione per la gestione e il trattamento dei problemi connessi alla rabbia; infatti, diverse meta-analisi hanno identificato un effect size moderato (Beck & Fernandez, 1998; Del Vecchio & O’Leary, 2004; DiGiuseppe & Tafrate, 2003; Sukhodolsky, Kassinove & Gorman, 2004). Ad esempio, la meta-analisi di Beck e Fernandez (1998) sull’efficacia degli interventi di terapia cognitivo-comportamentale sulla rabbia, ha indagato 50 studi che includevano 1640 partecipanti tra detenuti, partner o mariti violenti, delinquenti giovani, persone con disabilità intellettive, ma anche studenti universitari con problemi di rabbia. La maggior parte degli studi prevedeva l’uso combinato della ristrutturazione cognitiva e di alcune tecniche finalizzate al rilassamento fisico. Gli autori hanno identificato un effect size moderato (d=0.70) ovvero, un cambiamento positivo e un miglioramento nella gestione della rabbia post-trattamento cognitivo-comportamentale.

La relazione terapeutica nella terapia cognitiva – Report dal seminario di Genova

Sabato 13 Maggio 2017 si è svolto a Genova presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il quarto e ultimo incontro del ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova”dove il dott. Sapuppo ha parlato di “la relazione terapeutica nella terapia cognitiva”.

 

Il concetto di alleanza terapeutica

L’alleanza terapeutica è l’insieme dei processi interpersonali in azione all’interno di una psicoterapia che agiscono in parallelo con le specifiche tecniche di quel particolare tipo di trattamento (Lingiardi, 2002).

Molteplici studi hanno rilevato che la “qualità” dell’alleanza terapeutica risulta essere strettamente correlata all’outcome del trattamento (Priebe & McCabe, 2006). In particolare, una buona alleanza terapeutica è associata all’esito positivo della terapia, indipendentemente dal tipo di trattamento.

Ripercorrendo storicamente il concetto di alleanza terapeutica le prime formulazioni del concetto di alleanza terapeutica possono essere rintracciate negli stessi aspetti di transfert e contro-transfert di Freud (1912). Rogers (1965) sottolinea in seguito come la percezione dell’empatia dell’analista da parte del paziente è fondamentale ai fini della promozione di un’alleanza funzionale alla terapia. Si deve però a Orlinsky e Howard (1975) la visione tridimensionale dell’alleanza: si parla di alleanza di lavoro, risonanza empatica e mutua accettazione mentre qualche anno dopo Bordin (1979) ha definito una tripartizione dell’alleanza terapeutica in obiettivo, processo e legame.

Oltre a quelle precedentemente descritte esistono numerose altre concettualizzazioni dell’alleanza terapeutica e ognuna differisce dall’altra o presenta punti in comune, in base alla teoria dell’autore di riferimento.

Le terapie di matrice psicoanalitica più tradizionali e ortodosse considerano l’interpretazione e il relativo insight come i fattori curativi più importanti o addirittura unici nel trattamento dei pazienti, specialmente di quelli con disturbi nevrotici. Tuttavia, in alcuni modelli terapeutici psicodinamici l’aspetto relazionale è stato affiancato a quello dell’insight; in particolare, i trattamenti che si basano sulle teorie della relazione oggettuale e sulla psicologia del sé hanno rivalutato la funzione della relazione terapeutica in maniera positiva. Attualmente la psicoanalisi si pone la questione circa il valore da attribuire alla relazione terapeutica: essa va considerata come presupposto affinché possa essere efficace l’interpretazione o come fattore terapeutico di per sé? (Lingiardi, 2002). Per la maggior parte degli psicoanalisti contemporanei l’alleanza è considerata importante per entrambe le motivazioni:
1) il paziente sarà maggiormente ricettivo verso le interpretazioni e con più probabilità otterrà l’insight;
2) l’esperienza di una nuova relazione oggettuale positiva può essere di per sé terapeutica.

La relazione terapeutica nella terapia cognitiva

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha attribuito un’importanza crescente al ruolo della relazione terapeutica, esplicitando la necessità di integrare, nella prassi clinica, le tecniche terapeutiche orientate alla comprensione e al cambiamento delle dinamiche interpersonali (Liotti 1987; Safran e Segal 1990; Safran 1998; Safran e Muran 2000; Gilbert 2000; Leahy 2001; Young et al. 2003; Gilbert e Leahy 2009; Cotugno e Sapuppo, 2012).

In generale, I fattori che in maggior misura determinano la qualità e la solidità della relazione terapeutica sono:
1) il legame affettivo e la collaborazione;
2) la condivisione di obiettivi e compiti;
3) la storia relazionale dei partecipanti.

Come si sviluppa la relazione terapeutica? Gilbert e Leahy (2007) identificano tre fasi principali attraverso le quali si sviluppa la relazione terapeutica:
1) Stabilire la relazione;
2) Sviluppare la relazione;
3) Mantenere la relazione.

Queste fasi devono essere considerate in modo ciclico, in quanto, per esempio, a causa della rottura della relazione potrebbe essere necessario tornare alla prima fase (stabilire la relazione).

Se si assume il fatto che la relazione terapeutica è un fattore trasversale ai vari orientamenti terapeutici, è necessario stabilire in che modo tale fattore è in relazione alle tecniche specifiche di un determinato trattamento, in quanto è proprio il tipo di attività prevista da uno specifico tipo di terapia che necessiterà di una qualità altrettanto specifica di alleanza tra paziente e terapeuta.

Gli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali devono utilizzare le proprie abilità relazionali soprattutto per introdurre, educare e guidare i propri pazienti verso il difficile ma necessario apprendimento delle tecniche cognitivo-comportamentali.
In psicoterapia psicodinamica la buona qualità della relazione terapeutica è fondamentale in particolar modo per favorire l’efficacia delle interpretazioni e, in generale, per sensibilizzare il paziente all’uso della regola fondamentale delle libere associazioni.

In base al modello di alleanza proposto sono state costruite varie scale di misurazione. Ogni scala, dunque, differisce dall’altra proprio perchè misura aspetti e dimensioni propri di quel particolare modello di alleanza.

I principali strumenti utilizzati per “misurare” l’alleanza terapeutica sono: il Penn Helping Alliance (Luborsky e coll.) utilizzato per misurare l’alleanza di tipo 1 e l’alleanza di tipo 2 o il California Psychotherapy Alliance Scales (Marmar, Marziali, Gaston, Weiss) utilizzato per misurare la capacità di lavoro e l’impegno del paziente, il consenso sulla strategia di lavoro, la comprensione e il coinvolgimento del terapeuta. Altri strumenti sono il Working Alliance Inventory (Horwath, Greenberg) che valuta il Legame (Bond), i Compiti (Task) e gli Obiettivi (Goal), il Therapeutic Bond Scales (Orlinsky, Howard, Saunder) che misura invece l’Alleanza di lavoro, la Risonanza empatica e l’Affermazione reciproca e la Vanderbilt Therapeutic Alliance Scale (Hartley, Strupp e coll.) che valuta il Contributo del terapeuta, il Contributo del paziente e l’Interazione terapeuta/paziente.

L’impatto della differenza di genere sulla relazione padre-figlio

La corteccia cerebrale dei padri si attiva in modo differente per le figlie rispetto ai figli di sesso maschile. Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista Behavioral Neuroscience, mostra che il genere di un figlio può influenzare la relazione quotidiana con il padre.

 

Come cambia l’interazione dei papà con i figli maschi e femmine

La maggior parte degli studi precedenti ha esaminato le differenze di genere dei figli in relazione al rapporto madre-figlio. Questo nuovo studio esamina il comportamento del caregiver, comparando i padri di figli e i padri di figlie in situazioni di vita quotidiana e l’attivazione neuronale in risposta alla visione di stimoli raffiguranti i propri bambini.

Jennifer Mascaro, ricercatore post-doc, professore associato di medicina familiare e preventiva presso la scuola di medicina Emory di Atlanta, GA, ha condotto questa ricerca con i collaboratori dell’Università di Emory e dell’Università dell’Arizona a Tucson. Hanno preso parte allo studio 52 padri di bambini, di cui 30 femmine e 22 maschi insieme alle loro madri. Anche se alcuni dei partecipanti avevano più di un figlio, i dati presi in esame si sono concentrati sulle loro interazioni con un figlio o una figlia.

Nella prima fase dello studio è stato richiesto alle madri di rispondere ad alcune domande mediante un questionario self-report, mentre gli sperimentatori scattavano foto ai bambini impegnati in una fase di gioco in ambiente naturale. In una sessione separata ai papà è stato consegnato un dispositivo di registrazione audio mobile, l’Electronically Activated Recorder (EAR), con l’indicazione di indossarlo, agganciandolo sulle proprie cinture, una volta nel fine settimana (domenica) e un’altra il primo giorno della settimana (lunedì). Il dispositivo registrava i suoni per 50 secondi ogni 9 minuti. È stato chiesto anche di caricare il dispositivo nella stanza del bambino in modo tale da registrare eventuali interazioni padre-figlio durante la notte. In una terza sessione è stato chiesto ai papà di compilare un questionario self-report; successivamente, all’interno dello scanner MRI, venivano mostrate loro delle sequenze di immagini: un bambino sconosciuto, un adulto sconosciuto e il proprio figlio con le varie espressioni facciali (triste, felice e neutro) al fine di rilevare la loro risposta neurale.

I risultati mostrano che rispetto ai padri con figli maschi, i padri di figlie sono stati più responsivi e attenti verso i loro bisogni mostrandosi più sensibili, in particolare, di fronte a manifestazioni emotive di tristezza, riuscendo ad utilizzare un linguaggio più aperto alle emozioni. I ricercatori affermano che questo potrebbe essere dovuto al fatto che i padri riescono ad accettare maggiormente i sentimenti delle ragazze rispetto a quelli dei ragazzi. Le immagini funzionali della corteccia evidenziano che quando i padri osservano un’espressione felice sui volti delle loro figlie, avviene una maggior attivazione cerebrale in quelle aree coinvolte nella regolazione emotiva e nella ricerca delle ricompense (corteccia orbito-frontale mediale e laterale).

Al contrario i padri dei bambini maschi impegnati in giochi di movimento, utilizzavano un linguaggio legato alla “realizzazione” per incitarli al successo e alla vittoria; inoltre, la loro risposta neuronale era più forte nella corteccia orbito-frontale mediale, di fronte alla visione di espressioni facciali neutre. Questo dato correla in maniera positiva con i giochi di movimento in cui sono impegnati i propri figli. Il risultato può essere interpretato come la possibilità che i papà vengano maggiormente influenzati, in maniera positiva o negativa, dalle espressioni facciali neutre dei loro figli maschi.

Questi risultati migliorano la comprensione delle basi neurali in relazione alla cura paterna evidenziando come i sistemi neurali rispondano in maniera differente a seconda che si tratti delle figlie o dei figli. Inoltre, l’uso dell’EAR ha rivelato differenze nel comportamento paterno e nell’uso del linguaggio che possono influenzare i risultati sociali, emozionali e cognitivi dei propri figli. La ricerca futura potrebbe impiegare questa metodologia per un’esplorazione più approfondita sull’impatto delle differenze di genere nelle risposte neurali paterne in relazione al benessere dei bambini.

La mindfulness nell’età evolutiva: l’efficacia della meditazione nei bambini

La ricerca sugli interventi mindfulness nei bambini e adolescenti è ancora agli albori. Ciononostante esistono evidenze che testimoniano l’adattabilità e l’efficacia di questo tipo d’interventi, sia in campioni clinici che non, di bambini e adolescenti (Black e collaboratori, 2009).

Elena Cristina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

I contributi della letteratura sulla mindfulness nei bambini

I più giovani hanno naturalmente motivazioni e bisogni differenti rispetto agli adulti, pertanto si rendono necessari opportuni adattamenti del protocollo MBSR (di John kabat-Zinn), specialmente nelle modalità e nei tempi. Fabbro e Muratori (2012) propongono di strutturare le sedute di meditazione in modo che siano molto brevi e che si svolgano con una routine invariata nel tempo, gli esercizi devono essere semplici, adeguati alle capacità dei destinatari, alla fine della meditazione è opportuno dedicare uno spazio per la condivisione delle esperienze e delle eventuali difficoltà. La competenza trasversale ai vari programmi di mindfulness nei bambini è il diventare consapevoli delle proprie emozioni (Fabbro e Muratori, 2012). Esistono inoltre tecniche e procedure di meditazione specifiche a seconda delle varie fasce d’età (5-8 anni, 9-12 anni, 13-18 anni) (Hooker, 2008).

Un recente contributo in letteratura è quello di Eline Snel (2015), terapeuta olandese e fondatrice dell’Academy for Mindful Teaching (AMT) con sede a Leusden (Paesi Bassi), autrice del libro “Calmo e attento come una ranocchia”(2015). La Prefazione del volume è curata dallo stesso John Kabat-Zinn che ne dichiara “un simile allenamento mentale ed emotivo non era mai stato accessibile ai bambini prima d’ora”. Il libro è una guida molto pratica per imparare cos’è la mindfulness e applicarla nella vita di tutti i giorni dei più piccoli in maniera molto giocosa; include un CD-ROM con 11 meditazioni guidate che genitori e bambini possono ascoltare ed esplorare insieme o da soli, in base alle proprie preferenze: 3 pratiche audio sono per bambini dai 5 ai 12 anni di età, 6 tracce audio vanno dai 7 ai 12 anni, 2 tracce vanno bene per bambini di qualsiasi età. La durata varia dai 4 ai 10 minuti. Le meditazioni guidate rappresentano il fulcro del programma ed insegnano ad essere più consapevoli in qualunque momento della giornata.

Le prime due tracce, n.1 Calmo e attento come una ranocchia e la n. 2, La piccola ranocchia, costituiscono la meditazione di base.
La traccia n.3, Attenzione al respiro, insegna come dirigere e spostare l’attenzione; la traccia n.4, Gli spaghetti, è un esercizio di rilassamento corporeo; la n.5, Premi il tasto Pausa, ha come obiettivo quello di imparare a non reagire impulsivamente; la n.6, Pronto Soccorso per sensazioni sgradevoli, per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni; la traccia n.7, Un posto sicuro, è un esercizio di visualizzazione; la n.8, La fabbrica dei pensieri, per calmare il turbinio mentale; la n.9, Un piccolo incoraggiamento, per quando le cose sembrano non andare bene; la n.10, Il segreto della stanza del cuore, esercizio sulla gentilezza ed infine la n.11, Dormi bene, un piccolo esercizio di accompagnamento al sonno.

Non casuale è la scelta del simbolo della rana per rappresentare l’essenza della mindfulness.

“La rana è un animale davvero straordinario. E capace di fare salti enormi, ma sa anche stare ferma, calma e immobile. Si accorge di tutto ciò che succede intorno a lei, ma non reagisce subito ogni volta. La rana rimane ferma e respira. Risparmia le energie e non si lascia trascinare da tutte le idee che le passano per la testa. Resta calma e ferma, e intanto respira. La sua pancia si solleva e si abbassa, si gonfia un po’ e poi si sgonfia. Se può farlo una rana, puoi farlo anche tu. Tutto quello che ti serve è un po’ di attenzione, attenzione al respiro, attenzione e calma”. (p. 38)

Lo stesso Suzuki Roshi, grande maestro zen giapponese, in una delle sue principali opere, “Mente Zen” (1976), scrive:

“Dovete essere come una rana. Ecco il vero zazen1. […] Se siamo come una rana, siamo sempre noi stessi. Ma persino una rana a volte perde se stessa, e allora fa una brutta smorfia. E se qualcosa le passa accanto, lo afferra e mangia. Perciò credo che una rana stia sempre a chiamarsi. E penso che anche voi dovreste farlo. Persino nello zazen può capitare che perdiate voi stessi […] Siccome perdete voi stessi, il vostro problema diverrà un vero problema per voi. Se non perdete voi stessi, anche se avete delle difficoltà, in effetti non c’è alcun problema di sorta […].
Quando voi siete voi stessi, vedete le cose così come sono, e diventate tutt’uno con ciò che vi circonda. Lì si trova il vostro vero sé. Lì possedete la vera pratica; possedete la pratica di una rana […] E’ per questo che dobbiamo sempre richiamarci a noi stessi come un medico che si ausculta”(p.66-67).

Il libro “Calmo e attento come una ranocchia” funge da filo conduttore e da approfondimento rispetto alla pratica; si articola in 10 brevi capitoli: introduzione alla mindfulness; come essere genitori più consapevoli; l’attenzione comincia dal respiro; allenare l’attenzione; dalla testa al corpo; superare la tempesta interiore; gestire le emozioni difficili; la fabbrica dei pensieri; è bello essere gentili; pazienza, fiducia e capacità di mollare la presa. Per ogni sezione vengono indicate le tracce audio con cui fare pratica formale e altri consigli pratici con cui allenare le capacità di mindfulness e compassione, quotidianamente, in maniera informale, attraverso degli espedienti ludici, da attuare in qualunque circostanza (mentre si lavano i denti, si fa la spesa, si mangia, osservando il respiro in diverse situazioni, etc.). Un esempio è la pratica dell’accorgersi della propria scortesia” in cui si utilizza un braccialetto da mettere al polso destro come promemoria, per ricordarsi di essere gentili con se stessi e con gli altri. Ogni volta che ci si comporta in maniera sgarbata, l’invito è quello di spostare il braccialetto sull’altro polso, con un sorriso. Un’altra pratica è quella del “guardare più in là” in cui ci si prende del tempo per pensare e trovare una caratteristica positiva in una persona che ci è antipatica o ci infastidisce.
“Calmo e attento come una ranocchia” è dunque un modo semplice, fantasioso e divertente per avvicinare i più piccoli alla coltivazione della presenza mentale, fisica ed emotiva e la connessione con se stessi, gli altri e il mondo.
Il contributo di Eline Snel è pensato per l’educazione e la crescita dei propri figli da parte di genitori che vogliono anch’essi diventare sempre più consapevoli.

I programmi di mindfulness nei bambini

E. Snel ha messo a punto un corso di formazione sulla mindfulness nei bambini nelle scuole, intitolato Mindfulness Matters (La consapevolezza conta), basato sul programma per adulti di JKZ. A tale programma, anch’esso di otto settimane, avevano partecipato 300 bambini e 12 insegnanti. Il corso prevedeva mezz’ora di lezione didattica (frontale) a settimana e dieci minuti di esercizi giornalieri, nei quali i bambini venivano invitati a mettere in pratica i concetti appresi in aula. Sia i bambini che gli insegnanti hanno riscontrato cambiamenti positivi: un’atmosfera più serena in classe, una maggiore concentrazione, fiducia e una maggior apertura, gentilezza ed indulgenza con se stessi e con i compagni.

Sebbene al di fuori di un setting scolastico, Lo e collaboratori (2016) hanno recentemente messo a punto un modello di disegno sperimentale che prevede l’implementazione del programma Mindfulness Matters di Eline Snel per bambini affetti da ADHD e i loro genitori, che parallelamente ricevono un training di Mindful Parenting. L’innovatività del protocollo sperimentale di Lo e colleghi consiste nel rivolgersi a bambini molto piccoli, dai 5 ai 7 anni di età, diversamente dagli studi presenti in letteratura che coinvolgono bambini sopra gli 8 anni. Secondo il loro disegno di ricerca, i bambini vengono suddivisi in piccoli gruppi di 4-6 partecipanti; le sessioni hanno durata di un’ora e durante la quarta e sesta classe sono previsti 30 minuti di attività condivisa in cui è data la possibilità ai genitori di praticare in vivo le abilità di mindfulness con i bambini, valutate da appositi ricercatori tramite apposite griglie di registrazione.

I principali obiettivi dei trattamenti mindfulness sono il miglioramento di tre aspetti fondamentali dell’attenzione nei bambini, ovvero la capacità di orientamento attentivo, l’attenzione sostenuta e le funzioni esecutive, mentre nei genitori una maggior autoregolazione, la riduzione del comportamento di “harsh parenting”, caratterizzato da ostilità e sentimenti negativi in risposta ai comportamenti di sfida dei bambini con ADHD, spesso responsabile dell’insorgenza di pattern disfunzionali di interazione alla base di disturbi oppositivi-provocatori e disturbi della condotta.

L’efficacia della mindfulness nei bambini e gli esiti positivi

La maggior parte degli interventi mindfulness-based implementati in età evolutiva sono difatti applicati al contesto scolastico, dal momento che bambini e ragazzi vi trascorrono la maggior parte del loro tempo.

Zenner e colleghi (2014) hanno condotto una meta-analisi che ha messo in luce un effetto positivo della mindfulness sia su variabili cognitive sia su variabili più prettamente psicologiche, come lo stress, le capacità di coping, la resilienza e l’accettazione. Tuttavia gli autori hanno evidenziato una serie di aspetti metodologici che impediscono di dichiararne una vera e propria efficacia: primo fra tutti, un’estrema eterogeneità dei diversi programmi analizzati, la variabilità degli strumenti di misura, l’instabilità delle misure di outcome (che in età evolutiva cambiano rapidamente), la sostanziale qualità degli studi pilota (non RCT), l’assenza di un gruppo di controllo, la bassa numerosità campionaria. A complicare ulteriormente il quadro sembrerebbero intervenire altre variabili, scarsamente controllabili, come il background socioculturale dello specifico contesto scolastico, la preparazione degli insegnanti e/o l’inserimento di eventuali esperti esterni nel corpo docenti, la possibilità di usufruire di tempi e spazi al di fuori della scuola. Pertanto sono difficilmente individuati quegli elementi (“ingredienti”) degli interventi mindfulness in grado di produrre degli effetti positivi; sembrerebbero maggiormente intervenire fattori non specifici come il supporto percepito dei pari, la novità del programma ed un generale rilassamento.

Nonostante la mancanza di omogeneità di dati, la pratica di mindfulness nei bambini produce effetti sulle funzioni cognitive ed emotive. Nello specifico, la letteratura evidenzia un effetto positivo della pratica di presenza consapevole sui bambini che mostrano difficoltà nelle funzioni esecutive, coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.

Un trattamento che si è dimostrato efficace nel miglioramento delle funzioni esecutive è il programma Inner kids di Flook et al. (2010). Anche il programma ideato da Susan Kaiser Greenland (2010), ispirato al programma MBSR di JKZ, che si propone di incrementare sia gli aspetti di attenzione che di consapevolezza e compassione, attraverso attività di gioco e movimento, specificamente pensate per i bambini in età evolutiva oltre che per il contesto scolastico, produce effetti positivi sulle variabili di metacognizione e regolazione del comportamento, misurate con il questionario Behavior Rating Inventory of Executive Function o BRIEF (Gioia et al., 2000), somministrato a genitori ed insegnanti. L’autrice ha riscontrato un miglioramento significativo in entrambe le scale, specialmente per coloro che in baseline mostravano valori più bassi, su un campione di bambini tra i 7 e i 9 anni prima e dopo la partecipazione al training di Mindfulness in età evolutiva.

Anche Saltzman e Goldin (2008), applicando il programma MBSR for children (della durata di 8 settimane) su un campione di 30 bambini, hanno ottenuto risultati incoraggianti per diverse problematiche di natura emotiva, riscontrando una minor reattività emotiva, una minore tendenza all’autocritica ed anche una maggiore compassione verso di sé e verso gli altri dopo il training di Mindfulness.

I programmi di mindfulness per adolescenti

Anche per quanto concerne la popolazione adolescente, sono stati ideati eterogenei programmi mindfulness-based applicati al contesto scolastico.

Come già illustrato da Andrea Bassanini in un articolo del 2013, “Mindulness: effetti del programma di pratica per la scuola”, praticare la mindfulness a scuola riduce i sintomi depressivi, lo stress e migliora il benessere percepito degli adolescenti. Citando lo studio di Kuyken, W., Weare et al. (2013), frutto della collaborazione tra l’università di Exeter, Oxford e Cambridge, condotto su un campione di 522 ragazzi inglesi, dai 12 ai 16 anni della scuola secondaria, i ragazzi a cui è stato inserito il Mindfulness in Schools Programme nel proprio curriculum formativo, contrariamente a chi ha mantenuto il curriculum standard, hanno riportato livelli significativamente inferiori alla scala CES-D (Center for Epidemiologic Studies Depression Scale) della depressione e al follow-up (a due e a tre mesi), livelli bassi di stress nella fase post-intervento, misurato con il Perceived Stress Scale (PSS). Inoltre, al follow-up, hanno ottenuto punteggi più alti di benessere, misurato con la scala Warwick–Edinburgh Mental Well-Being Scale (WEMWBS).

Il Mindfulness in Schools Programme, rientrando a pieno titolo nella tradizione dei protocolli mindfulness (come MBCT, MBSR e MBRP), prevede un training della durata complessiva di nove settimane, una in più del classico programma MBCT, con frequenza settimanale. Tuttavia è anche stato strutturato nel rispetto dei principi guida del lavoro con gli adolescenti: una maggior esplicitazione dei concetti, il riadattamento degli interventi in forme più brevi e quindi più fruibili dai destinatari, un forte uso dell’interazione e della componente esperienziale, il ricorso a strumenti informatici che consentissero di esportare i temi appresi durante il corso nella vita quotidiana: un libretto informatico con i temi principali, un set di pratiche di mindfulness su CD e MP3.

Dal presente studio, emerge significativa la variabile relativa al grado di pratica personale svolta dai partecipanti tra una sessione e la successiva ed una correlazione positiva tra questa e il miglioramento del benessere personale, l’abbassamento dei livelli di stress e l’abbassamento dei livelli di depressione al follow-up di tre mesi.

In un ulteriore articolo, scritto da Linda Confalonieri “Mindfulness a scuola & minor rischio depressivo negli adolescenti”, si presentava una ricerca belga di Raes e collaboratori (2013), pubblicata sulla rivista Mindfulness, su un ampio campione di studenti adolescenti (N=400) che hanno seguito un training di mindfulness a scuola (ben diverso dal classico setting clinico) e che presentavano, a termine del programma, minori probabilità di sviluppare sintomi depressivi e ansiosi nei mesi successivi, rispetto al gruppo di controllo. Tutti i partecipanti allo studio sono stati sottoposti a dei test prima dell’intervento, dopo la conclusione e a sei mesi di distanza (follow-up). Al pre-test entrambi i gruppi (sperimentale e di controllo) hanno presentato percentuali simili di sintomi depressivi (21 e 24%); al termine del programma tale percentuale si è significativamente ridotta nel gruppo sperimentale: 15% contro il 27% di soggetti con sintomi depressivi nel gruppo di controllo. Tale differenza si è mantenuta anche nel follow-up a sei mesi: 16% contro il 31% del gruppo di controllo. Il più grande limite dello studio di Raes et al., (2013) è che i ragazzi adolescenti facenti parte del gruppo di controllo non hanno ricevuto alcun tipo di trattamento; oltre alle ricadute in termini di correttezza metodologica dell’impianto di ricerca emerge anche una questione etica nel non offrire i potenziali benefici derivanti dalla partecipazione ad un programma di mindfulness.

Una soluzione a questo aspetto è stata trovata dal gruppo di ricerca di Karen Bluth e collaboratori (2015), i quali hanno formato un gruppo di controllo con i soggetti in lista d’attesa, beneficiari anch’essi dell’intervento di mindfulness ma in un tempo successivo ai soggetti sperimentali.
Lo scopo delle autrici del Nord Carolina è stato testare la praticabilità, l’accettabilità e gli outcome psicosociali preliminari dell’adattamento del programma per adulti Mindful Self-Compassion alla popolazione adolescente, ribattezzato col nome Making Friends with Yourself (MFY, acronimo)

Nella ricerca sono stati reclutati 34 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 17 anni. La maggior parte erano ragazze (26). Tutti i ragazzi provenivano da famiglie con un alto livello di scolarizzazione (laurea, master, titoli post-laurea, dottorato). Come criterio d’inclusione nello studio è stato scelto un punteggio inferiore a 13 ad una versione modificata della scala KADS (Kutcher Adolescent Depression Scale; LeBlanc et al. 2002) , con una suddivisione interna degli item riguardanti comportamenti autolesivi e comportamenti suicidari, e la risposta negativa all’item “nell’ultima settimana, solitamente hai mai avuto pensieri o compiuto azioni suicidarie?”. I partecipanti sono stati assegnati tramite randomizzazione ad un gruppo sperimentale e ad un gruppo di controllo (lista d’attesa). L’assessment è stato effettuato tramite una somministrazione online di una batteria di test prima e dopo la conclusione del programma (prima del gruppo sperimentale e poi del gruppo di controllo). La frequenza al programma e la sopravvivenza del campione sono state usate come misure della praticabilità dell’intervento; mentre le audio-registrazioni della classe, della durata di 6 settimane, sono state analizzate per determinare il grado di accettabilità per la popolazione adolescente.

I risultati mostrano come, a confronto con la lista d’attesa dei partecipanti (soggetti di controllo), il gruppo di soggetti che ha ricevuto l’intervento ha ottenuto punteggi statisticamente significativi alle misure dell’autocompassione, della soddisfazione di vita, un più basso punteggio ai test di depressione rispetto ai soggetti di controllo (lista d’attesa), in concomitanza ad una maggior capacità di mindfulness e connessione sociale, più bassi livelli di ansia.

Attraverso un’analisi congiunta dei dati ottenuti dal gruppo dei soggetti di controllo con i dati del primo gruppo di soggetti sperimentali, si evince un incremento significativo nelle capacità di mindfuness, di autocompassione e un decremento altrettanto significativo dei livelli di depressione, ansia, stress percepito e stati affettivi negativi dopo la partecipazione al programma.
Inoltre, i risultati della regressione dimostrano che l’autocompassione e la mindfulness predicono un decremento nei livelli di ansietà e di depressione, nello stress percepito, e un aumento nella soddisfazione di vita a seguito della partecipazione al programma MFY.

Il “Making Firends with Yourself” è un programma della durata di 6 settimane, con frequenza settimanale, ogni incontro della durata di 90 minuti. Similmente al programma per adulti (Neff and Germer, 2013), ogni sessione settimanale è incentrata su un tema specifico. Il 1° incontro consiste in una presentazione generale del programma, l’introduzione alla mindfulness e all’autocompassione tramite una serie di pratiche e attività che incoraggiano l’autoscoperta dei partecipanti di queste abilità. L’incontro n.2 si focalizza principalmente sulla mindfulness e introduce una serie di pratiche tradizionali come il respiro consapevole e la consapevolezza alle sensazioni fisiche del corpo. Il 3° incontro s’incentra sul cervello dei teenagers e include una presentazione didattica di come i due sistemi cerebrali (il sistema di controllo cognitivo e il sistema motivazionale) si sviluppano in stadi differenti dello sviluppo cerebrale nel corso dell’adolescenza. Il sistema di controllo cognitivo include lo sviluppo della corteccia prefrontale (pensiero logico, decision-making) mentre il sistema motivazionale implica lo sviluppo del sistema limbico e dell’amigdala (ad esempio nella regolazione delle risposte di attacco o fuga). Viene dunque incoraggiata la discussione in merito alle conseguenze di questi cambiamenti sul temperamento del ragazzo, sul suo comportamento e sui rapporti familiari. La sessione n.4 si focalizza sull’autocompassione intesa come qualcosa di diverso dall’autostima e come la prima sia un modo migliore e più efficace di rapportarsi a se stessi. A tal proposito vengono utilizzati anche strumenti video per metterne in luce le differenze tra i due costrutti. Nella 5° sessione, ci si focalizza sul sentimento di gratitudine presentato come valore nucleare dell’adolescenza e dell’intero spirito del programma.

Le differenze del programma per adolescenti, rispetto alla versione per adulti, sono la maggior brevità del trattamento, gli accorgimenti legati all’età dello sviluppo (un maggior utilizzo di attività, anche manuali, e dall’uso di meditazioni guidate più brevi) ed un affondo specifico sulla natura del cervello dell’adolescente.

Gli adolescenti sono stati gradualmente introdotti alla pratica della mindfulness, attraverso una serie di pratiche di natura sia formale sia più informale. Nel primo caso, per esempio, è stata consegnata una traccia audio per la pratica di autocompassione tramite un body-scan, invitandoli a portare calore e affetto ad ogni parte del loro corpo, semplicemente notando le sensazioni emergenti in quella zona del loro corpo. Un esempio di pratica informale è rappresentato dalla pratica “A Moment for Me”; ai ragazzi è stato insegnato come fare un gesto amorevole, ad esempio sgranchirsi le braccia o le gambe, mentre ricordano a se stessi di fare tre cose: il riconoscere la loro sofferenza nel momento in cui sta accadendo, il riconoscere che la sofferenza emotiva è universale e parte dell’essere umano, il confortare attivamente se stessi specialmente nei momenti più critici, ripetendosi fra sé e sé frasi di gentilezza amorevole. Infine, in occasione dell’ultimo incontro (6°), viene chiesto ai partecipanti un feedback rispetto al programma, alle pratiche preferite e quelle meno, alla meditazione in generale e alle loro opinioni su come rendere migliorabile il programma stesso.

Per incoraggiare la pratica durante la settimana, i ragazzi sono stati incoraggiati ad accedere ad un sito dal quale potevano scaricare materiale sia audio che video, sebbene con tracce pensate per adulti. Un sito con materiale di supporto per adolescenti non era disponibile. Prima dell’inizio di ciascuna classe, i ragazzi sono stati invitati a compilare una scheda in cui riportare il numero di giorni durante la settimana in cui hanno praticato la mindfulness e l’autocompassione sia formalmente sia informalmente.

Tutte le classi sono state audioregistrate e trascritte verbatim (poi sottoposto ad analisi tramite Atlas-ti 7.5) allo scopo di informare la comprensione degli autori circa le modalità di meditazione e di pratica della self-compassion così come di altre attività che sono efficaci e ben accettate dagli adolescenti.

Sono stati utilizzati i seguenti strumenti di misura
The Children and Adolescent Mindfulness Measure (CAMM; Greco et al. 2011) che valuta l’attenzione momento per momento e l’accettazione delle esperienze interne. I partecipanti devono indicare le loro risposte agli item su una scala Likert a 5 punti (0, “mai vero” 4, “assolutamente vero”). Punteggi più alti indicano maggiori capacità di mindfulness. Un esempio di item è il seguente “Divento sconvolto quando ho certi pensieri e cerco di scacciare via i pensieri che non mi piacciono”.
-Positive and Negative Affect per misurare con quale frequenza sperimentano affetti negativi (ostilità, senso di colpa, distress) e positivi (interesse, soddisfazione, iniziativa, etc.) (PANAS; Watson et al.1988).
-la versione breve della Self-compassion scale, short form (SCS-SF; Raes et al.2011), ad esempio: “cerco di guardare ai miei errori, fallimenti come parte della condizione umana e quando sto attraversando un periodo veramente difficile, dò a me stesso la cura e la tenerezza di cui ho bisogno”
-State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger et al. 1983)
-the Student’s Life Satisfaction Scale (Huebner, 1991) “la mia vita sta andando bene”, “la mia vita è migliore di quella della maggior parte degli altri bambini”.
-The Short Mood and Feelings Questionnaire (SMFQ; Angold et al. 1995) “mi sono sentito miserabile o infelice e ho sentito come se fosse impossibile pensare correttamente o concentrarmi”
-The Social Connectedness scale, una scala di 8 item che valuta il senso di appartenenza interpersonale e la consapevolezza soggettiva di essere in una relazione intima col mondo sociale (Lee and Robbins 1998, p. 338). Esempi di item includono “Mi sono sentito disconnesso dal resto del mondo che mi circondava e anche verso le persone attorno che conosco, mi sono sentito come se in realtà non appartenessi.”

Gli elementi preferiti del programma in generale sono le pratiche più concrete, ossia l’osservazione diretta delle sensazioni fisiche (ad esempio, il self compassion body scan, trovato dai partecipanti “molto rilassante”):

“mi sono sentito come avessi fatto un sonnellino rigenerante…quanto è durato ? 15 minuti….è sembrato durasse ore!”; “mi sentivo veramente stanco oggi, perché non ho chiuso occhio la notte scorsa ma ora mi sento decisamente meglio!”.

Lo strumento più utile è stato quello del “sassolino del qui ed ora”, come modo per lasciar andare le preoccupazioni sul futuro e sul passato portando la consapevolezza al presente, al pari della pratica di gentilezza amorevole, in combinazione con un dialogo interno gentile verso di sé o verso gli altri.
Non solo, un certo numero di partecipanti ha anche espresso la preziosa utilità dell’apprendimento della componente dell’autocompassione come parte dell’esperienza dell’umano.

“In qualunque modo tu ti possa sentire, non sei solo in questo. Qualcun altro sente quello che stai provando tu, sa da dove vieni, sebbene tu creda che nessuno possa capirti, ci sarà qualcuno che lo comprende appieno”.

Un altro partecipante ha riportato che la mindfulness lo ha aiutato a focalizzarsi e concentrarsi sui lavori scolastici.
I partecipanti hanno anche riportato alcuni suggerimenti per eventuali variazioni e adattamenti di alcuni aspetti del programma che non hanno funzionato molto bene a loro avviso. In particolare, la maggior parte di loro ha riportato aspetti legati alla pratica formale a casa; ad esempio che fosse disagevole e dispendioso accedere al sito per ascoltare le tracce guida, troppo lunghe. Al contrario la pratica dell’essere nel momento presente, applicabile in qualsiasi momento di stress (come il sassolino del qui ed ora) è stata molto apprezzata. E’ stato anche suggerito l’invio di e-mail infrasettimanali come promemoria per la pratica.

Nel corso del programma delle 6 settimane, i partecipanti hanno sviluppato una maggior comprensione del costrutto dell’auto-compassione. Diversi partecipanti hanno dichiarato di iniziare a basare la propria valutazione di sé in base a questa capacità più che al considerarsi come buoni in funzione della loro performance, ottenendo un beneficio nel ridurre la quota di ansia scolastica, maggiori risultati positivi nello stesso rendimento, la riduzione di rimuginio, maggior tolleranza verso i propri errori, una maggiore facilità ad addormentarsi, una maggior capacità nello stabilire le priorità (discernere ciò che è importante e necessario fare nell’immediato rispetto a ciò che può aspettare) e nel prendere decisioni.
Un dato interessante di questo studio, contrastante rispetto alla letteratura generale, è che il grado di pratica al di fuori del setting scolastico non sembra correlare con il miglioramento significativo delle capacità di mindfulness e autocompassione, che sembrerebbe ascrivibile alla mera frequenza della classe e ad una più generale operazione meta-riflessiva.
Il MFY risulta dunque promettente come programma per incrementare il benessere psicosociale negli adolescenti. Tuttavia, trattandosi di uno studio pilota, sono necessari ulteriori studi per sostanziare l’evidenza scientifica. Nello specifico sarebbe utile ottenere misure più a lungo termine e analizzare più in profondità i meccanismi sottesi all’efficacia clinica.

Karen Bluth e la sua équipe hanno condotto un ulteriore studio che ha coinvolto ragazzi di età compresa tra i 13 i 18 anni, fornendo maggiore sostanza empirica al costrutto dell’auto-compassione. I partecipanti sono infatti stati testati in laboratorio tramite il protocollo sperimentale Trier Social Stress Test (Kirschbaum et al., 1993) per ottenere una valutazione di baseline della risposta fisiologica di stress. Il Trier Social Stress Test ha previsto 5 minuti per la preparazione di un discorso, 5 minuti per il discorso e 5 minuti per un compito matematico (sottrarre 7 a partire da 2023) di fronte a due membri di una commissione valutativa, mentre venivano audio videoregistrati di fronte ad una telecamera.

Il protocollo sperimentale è stato opportunatamente adattato alla popolazione adolescente: il tema del discorso era incentrato sul tipo di lavoro estivo ideale e veniva data la consegna ai valutatori di non assumere un’espressione facciale totalmente neutra e fredda, dal momento che è stato riscontrato in letteratura che può indurre una maggiore vulnerabilità al pianto, specialmente nelle ragazze adolescenti. Nelle diverse fasi sperimentali sono stati misurati, ad intervalli di tempo regolari (es: ogni tre minuti), la pressione sanguigna (BP- blood pressure), la frequenza del battito cardiaco (HRV- heart rate variability) e il tasso di cortisolo tramite un campione salivare. Le stesse misure sono state raccolte in una successiva fase di riposo (recovery), della durata di 20 minuti.

Successivamente il campione di soggetti è stato suddiviso in due gruppi: il gruppo ad alta autocompassione (HSC, High Self Compassion) e il gruppo a bassa autocompassione (LSC, Low Self Compassion). Nel primo gruppo è stato riscontrato un maggior numero di soggetti maschi; questo dato è in linea con altri studi precedenti (Bluth e Blanton, 2014) secondo cui i maschi risulterebbero maggiormente autocompassionevoli rispetto alle femmine.
Tuttavia tra i due gruppi, HSC e LSC, non sono emerse differenze statisticamente significative rispetto al parametro della frequenza del battito cardiaco, sebbene si sono osservati incrementi di minor intensità nella HRV durante il test di stress (discorso e compito aritmetico) nel gruppo alta autocompassione rispetto al gruppo bassa autocompassione.

Il gruppo alta autocompassione mostra altresì un tasso globale di cortisolo più basso, indicativo di una minor intensità di risposta fisiologica di stress.
Una possibile spiegazione dell’assenza di una differenza significativa tra i due gruppi nella HRV è presumibilmente amputabile alle differenze di genere nella reattività cardiovascolare e dell’asse ipotalamo- ipofisi-surrene (più marcata nei maschi) e nella differente strategia di coping utilizzata: coloro che risultano avere una più bassa misura nell’autocompassione sembrerebbero ricorrere ad un maggior irrigidimento come modalità di autoregolazione, che quindi provoca un incremento della frequenza cardiaca, contrariamente al gruppo di soggetti con più alta autocompassione che ricorrono all’auto-rassicurazione e consolazione.

Gli autori dunque hanno fornito una prima evidenza empirica sul ruolo dell’autocompassione quale fattore protettivo in risposta ad eventi sociali stressanti. Gli adolescenti con maggior autocompassione sono più capaci di fornire supporto a se stessi, di consolarsi in momenti critici, proteggendosi dal potenziale effetto negativo di eventi stressanti quotidiani (ad esempio il non ricevere un invito ad una festa). Bluth e collaboratori suggeriscono di intendere l’autocompassione come una forma di supporto sociale interiorizzata.

Sebbene vi siano diversi limiti nello studio (bassa numerosità campionaria, sbilanciamento di genere con prevalenza di soggetti di sesso femminile, mancata considerazione di fattori quali razza, etnia, status socioeconomico, fattori culturali e tipo di educazione ricevuta), esso suggerisce l’opportunità di coltivare l’autocompassione come risorsa personale aggiuntiva in grado di promuovere un maggior benessere emotivo e ponendo le fondamenta per una sana traiettoria di sviluppo.

Nuove dipendenze: il sottile limite tra dipendenza da gioco d’azzardo e dipendenza da giochi per smartphone

Considerata la facile accessibilità dei giochi per smartphone e il crescente numero di ore dedicate a queste attività da parte, soprattutto, dei ragazzi, riteniamo che sia molto importante approfondire il tema e analizzare le caratteristiche del fenomeno della dipendenza. In questo articolo, in particolare, approfondiremo un aspetto spesso trascurato ma a nostro avviso molto insidioso: come molti dei giochi per smartphone abbiano caratteristiche assimilabili ai giochi d’azzardo.

Zamara L.*, Chiapasco E.**
*Dottore in Psicologia Clinica e di Comunità; Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino ** Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo; Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino

 

 

Le nuove dipendenze: quali sono?

Con il termine “nuove dipendenze” viene definito “un gruppo di disturbi eterogenei che implicano un coinvolgimento in un’abitudine persistente e ripetitiva, volta a modificare lo stato di coscienza dell’individuo, e che a lungo termine comportano una compromissione della sfera sociale, affettivo-relazionale e lavorativa del soggetto” (Mulè, 2008).

Tra le più studiate vi sono la dipendenza da Internet (internet addiction), la dipendenza da sesso (sex addiction), la dipendenza da lavoro (workaholism), la dipendenza da cellulare, la dipendenza da videogame (Internet gaming disorder) ed il gioco d’azzardo patologico (gambling disorder); tuttavia soltanto quest’ultimo è stato riconosciuto ufficialmente dall’APA (American Psychological Association) che, nel 2013 l’ha inserito nel DSM-5, all’interno della sezione dedicata ai “disturbi correlati alle sostanze e alle dipendenze”. La dipendenza da videogame “Internet Gaming Disorder” è invece stata inscritta nella sezione III del DSM-5 come una condizione richiedente maggiore ricerca clinica ed esperienza prima di essere considerata per l’inclusione nel manuale, come disturbo formale.

La dipendenza dai giochi per smartphone

Considerata la facile accessibilità dei giochi per smartphone e il crescente numero di ore dedicate a queste attività da parte, soprattutto, dei ragazzi, riteniamo che sia molto importante approfondire il tema e analizzare le caratteristiche del fenomeno. In questo articolo, in particolare, approfondiremo un aspetto spesso trascurato ma a nostro avviso molto insidioso: come molti dei giochi per smartphone abbiano caratteristiche assimilabili ai giochi d’azzardo.

All’interno del panorama di videogiochi per differenti tipi di console, disponibili sul mercato, vi è una categoria di questi che negli ultimi anni ha visto un enorme aumento di consumatori, i giochi per smartphone. La maggior parte di questi videogame vengono distribuiti sul mercato seguendo il modello economico freemium, per cui possono essere scaricati e installati gratuitamente sui telefoni smartphone, salvo poi non poter usufruire dei contenuti extra, a meno che non venga speso del denaro (Kingsley, 2015).

Il fatto che, tra le opzioni proposte da alcuni giochi per smartphone, vi sia la possibilità di utilizzare del denaro per incrementare le potenzialità del videogame, oppure per poter continuare a giocare senza interruzioni, è di per sé la prima grande caratteristica in comune con il gioco d’azzardo. Di seguito andremo ad esporre altri aspetti di alcuni dei giochi per smarphone più in voga del momento, che presentano grandi similitudini con uno dei giochi d’azzardo più diffusi e additivi, le slot machines.

-Il feedback: un videogioco senza un sistema di feedback non potrebbe funzionare, infatti è proprio quest’ultimo ad informare il giocatore circa i propri risultati, mettendolo a conoscenza di quanto si stia avvicinando all’obiettivo. All’interno del sistema di feedback rientrano gli aspetti grafici del gioco, i suoni, e l’eventuale presenza di voci che comunicano o guidano il giocatore. Se osserviamo l’aspetto grafico di molti dei moderni videogiochi per smartphone (per esempio Candy Crush Saga, Diamond Digger Saga, Jewel Pop Mania) notiamo che gli elementi che caratterizzano il gioco sono spesso dolcetti, caramelle, pietre preziose (gemme o diamanti), proprio come in molte slot machine. Le immagini stilizzate di frutta e caramelle inducono, secondo Sheldon (2013) ricordi d’infanzia piacevoli e, di conseguenza, una parziale dissociazione dalla realtà; il che favorirebbe l’allungarsi dei tempi di gioco.

Un’altra caratteristica in comune a slot machine e giochi per smartphone è la tendenza a complimentarsi con il giocatore. In alcuni giochi per smartphone è una voce bassa e calorosa a lodare il giocatore, mentre applausi e complimenti sono uno degli elementi di feedback tipici delle slot machine.

-Semplicità delle regole: un altro elemento comune ai due tipi di gioco è la semplicità delle regole. In molti giochi per cellulare l’unica mossa consentita è spostare gli elementi del gioco di una casella cercando di accostarne 3 dello stesso tipo, creando così una combinazione che consente di fare dei punti. Similmente il giocatore delle slot machine clicca un tasto che fa muovere i simboli sullo schermo, sperando che ne esca una combinazione fortunata, spesso composta da tre elementi. Come sostengono Croce & Rascazzo (2013), i giochi d’azzardo moderni hanno scelto la semplicità, perché questo attira un bacino di utenti molto più ampio e non richiede impegno. Molti giochi per cellulare sono facilissimi e possono giocarci anche bambini di 3 anni.

-Fortuna: a proposito di tale argomento vale la pena chiarire il significato di “variable ratio reinforcement schedule” (programma di rinforzo a rapporto variabile). Un programma di rinforzo è fondamentalmente una regola che stabilisce che un comportamento sia rinforzato, premiato. Il rapporto può essere fisso se, un determinato comportamento, viene premiato ogni qualvolta esso venga messo in atto. Un rapporto è variabile quando, al contrario, uno stesso comportamento viene rinforzato dopo un imprevedibile numero di tentativi (Fester & Skinner, 1957). Le slot machine sono un classico esempio di applicazione di tale programma. Il giocatore non sa quando vincerà (perché il rapporto è variabile), ma il numero di volte in cui trionferà è sufficiente a far sì che il comportamento venga mantenuto. Per l’andamento aleatorio dei successi questi giochi vengono definiti “d’azzardo”, ovvero basati sulla fortuna. Il giocatore non sa quando vincerà, perché il rapporto è variabile, ma vincerà abbastanza spesso da far sì che diventi difficile abbandonare il gioco. Diversi autori (Smith, 2014 e Miltenberger, 2008, sono due di loro) hanno avanzato l’ipotesi che anche molti giochi per cellulare siano stati progettati utilizzando il programma di rinforzo a rapporto variabile. Le vittorie, in questo caso, non sarebbero frutto dell’abilità dei giocatori, ma di un programma progettato per ricompensare saltuariamente i giocatori, come avviene nelle slot-machines.
La maggior parte dei giochi per smartphone, tuttavia, vengono promossi come giochi di abilità, creando nel giocatore l’illusione di poter controllare i risultati. È da notare che, proprio l’illusione di controllo, è uno dei maggiori responsabili di condotte di mantenimento del gioco d’azzardo, che possono portare alla dipendenza (Lavanco, 2001).

-Limiti: Un’altra caratteristica comune a slot machines e molti giochi per smartphone è la presenza di alcuni limiti. Nel caso delle slot machine il limite è dato dalla quantità finita di denaro che ogni giocatore può, o vuole, spendere per giocare. Nel caso di molti giochi per smartphone il limite è dato dal numero di vite a disposizione del giocatore. Nel famoso Candy Crush Saga, per esempio, quando un giocatore finisce le vite ha tre opzioni: aspettare almeno mezzora per ricevere una nuova vita, chiedere ai propri amici di facebook, anch’essi giocatori di Candy Crush Saga di donargli una vita, oppure pagare. Al giocatore, in pratica, non è data la possibilità di raggiungere quello che viene definito “adattamento edonico”, ovvero “l’abituazione ad una condizione positiva o negativa, il cui risultato è l’attenuazione degli effetti emozionali di uno stimolo” (Frederick, Loewenstein, Kahneman, Diener, & Schwarz, 1999). Non potendo giocare quanto desidera, il giocatore non satura la propria voglia, di conseguenza ci vorrà molto tempo prima che abbandoni quel videogame.
Nel caso il giocatore di mobile game decida di pagare osserviamo che il comportamento messo in atto è estremamente simile a quello del giocatore di slot machines che paga per giocare ancora, sperando di vincere ad un gioco basato sulla fortuna.

-Near-miss: Un’altra caratteristica tipica delle slot machines e della maggior parte dei videogames è l’alta frequenza di situazioni nominate “near-miss”, ovvero quelle condizioni in cui il giocatore arriva ad un passo dalla vittoria. Arrivare vicino alla vittoria in un gioco d’azzardo, tuttavia, non corrisponde matematicamente ad avercela quasi fatta; è solo un’illusione. Secondo uno dei maggiori ricercatori delle nuove dipendenze e del gioco d’azzardo, Mark Griffiths (2012), la presenza di near-miss è uno degli elementi fondamentali della maggior parte dei videogame e giochi d’azzardo presenti sul mercato. Uno studio Canadese, inoltre, ha dimostrato che, se durante l’esperienza di gioco il giocatore sperimenta una situazione di near-miss, una volta ogni tre giocate, sarà maggiormente incentivato a giocare, rispetto ad una situazione di assenza di near-miss (Cotè, Caron, Aubert, Desrochers, & Ladoucer, 2003).
Come evidenziato, giochi da’azzardo come le slot machines, e alcuni videogiochi per smartphone possiedono diverse caratteristiche in comune. Ci siamo, dunque, chiesti quali possono essere le implicazioni di tale similitudine.
a) È possibile che l’uso di videogiochi “play for free”, cioè scaricabili gratis con possibilità di fare acquisti in seguito, sia un fattore di sviluppo della dipendenza da gioco d’azzardo (Griffiths, 2013), tuttavia gli studi al riguardo non hanno ancora raggiunto un risultato univoco (Griffiths, 2015).
b) L’osservazione dei dati economici forniti dalle aziende produttrici di smartphone games (nel novembre 2015 la King.com, azienda produttrice del famoso gioco Candy Crush Saga è stata acquistata dalla Activision Blizzard per 5,9 miliardi di dollari) porta anche ad un’altra riflessione: alcuni dei moderni giochi per smartphones potrebbero funzionare esattamente come delle slot machines, salvo il fatto che vengono promossi come “giochi di abilità” e non “giochi basati sulla fortuna”. E se i giochi per smartphone sfruttassero le conoscenze del gioco d’azzardo per sviluppare giochi maggiormente additivi?

Non è nostra intenzione demonizzare i videogiochi ma ci sembra davvero importante sottolineare come di fronte a un mercato che cerca di trarre profitto dalla creazione di giochi sempre più accattivanti e coinvolgenti sia fondamentale aumentare la consapevolezza degli utilizzatori sui possibili rischi.

Genitori, insegnanti e tutto il mondo degli adulti deve attivamente vigilare affinchè l’utilizzo di questi passatempi rimanga un momento ludico e non diventi invece una compulsione che condiziona la vita reale.

Forti reazioni emotive connesse al gioco, la riduzione delle attività sociali nella vita reale, un calo del rendimento scolastico o lavorativo, la presenza del gioco anche in momenti come i pasti o la notte sono elementi da tenere in considerazione per valutare la gravità della situazione. In questi casi è meglio non aspettare a richiedere un aiuto a un esperto o a rivolgersi a un centro specializzato. Il meccanismo subdolo della dipendenza con il passare del tempo rende sempre più complicata la vita della persona coinvolta e delle persone vicine. Intervenire in tempo può evitare seri problemi futuri.

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