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Come viene considerata l’ortoressia nervosa? Il dibattito controverso sulla definizione

L’ Ortoressia Nervosa (ON) è una manifestazione patologica di origine molto recente, che si è sviluppata in concomitanza con la formazione e la diffusione sempre più consistente di filosofie di vita salutiste (per esempio il vegetarianismo, il veganismo e l’alimentazione bio), nonché con un’attenzione della nostra società sempre più forte verso il mangiare sano. Questa condizione è sempre stata difficile da definire in termini clinici: infatti non è stata ancora clinicamente riconosciuta come un disturbo alimentare, in quanto non sono ancora stati stabiliti dei criteri diagnostici validati per l’ ortoressia nervosa.

Manuela Capolongo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Ortoressia nervosa: le difficoltà legate alle definizione diagnostica

Nella letteratura viene riportata l’evidenza dell’esistenza di questa espressione patologica e sono descritte e accettate le sue caratteristiche cliniche che si riscontrano nella popolazione.

A causa di questa mancata definizione diagnostica, intorno all’ ortoressia è sempre ruotato un alone di incertezza, che ha portato gli autori ad approfondire l’argomento, anche se la letteratura esistente a riguardo non è così estesa. Questi autori avevano l’intento di comprendere meglio cosa fosse l’ ortoressia, provando a darne una definizione più specifica e a collocarla rispetto ad altri disturbi.

Il risultato di questi studi è stata la formazione di una diatriba all’interno della letteratura: nello specifico è sorto il dubbio se l’ ortoressia debba essere classificata come un disturbo alimentare distinto e indipendente dagli altri, come un’espressione dei disturbi alimentari già esistenti o un disturbo ossessivo-compulsivo.

Questa difficoltà nasce dal fatto che l’ ortoressia nervosa presenta dei sintomi che si sovrappongono a quelli di questi disturbi, rendendo i confini tra essi meno definiti.
Questa è una questione molto interessante e importante, in quanto avere chiaro come si colloca l’ ortoressia in termini diagnostici e definitori permette ai clinici di diagnosticarla più facilmente e trattarla più efficacemente.

Ortoressia: quando il consumo di cibo sano diventa una fissazione

Per analizzare le varie posizioni presenti in letteratura su questo tema, è necessario partire dall’inizio: il termine ortoressia nervosa è stato introdotto per la prima volta da Steven Bratman nel 1997 per indicare una fissazione patologica sul consumo di cibo sano, ossia una fissazione non salutare verso cibi salutari.

L’ ortoressia diventa un disturbo quando la persona che ne soffre manifesta una vera e propria ossessione verso un’alimentazione corretta e sana, tanto da diventare fortemente selettiva nella scelta di cosa mangiare, arrivando ad eliminare dalla sua dieta molti tipi di alimenti, percepiti come non sani (per esempio con coloranti, conservanti, con troppo sale o troppo zucchero), ma anche interi gruppi di alimenti (carne, latticini, cereali, ecc). La persona ortoressica passa molto tempo della sua giornata (più di tre ore) a pensare ai cibi, specificatamente alla loro ricerca, analisi e preparazione.

Nel corso del tempo un ortoressico sviluppa delle regole altamente specifiche e rigide riguardo al cibo e alla fine costringe se stesso a seguire un regime alimentare auto-imposto e limitante. Questo regime alimentare provoca delle conseguenze negative per la persona, sia sul piano fisico, sia sul piano psicologico, che sul piano sociale.

Avendo ricordato le caratteristiche di base dell’ ortoressia, è possibile affrontare il dibattito sulla sua classificazione e definizione: il DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder- IV), pubblicato dall’APA (American Psychiatric Association’S) non riconosceva l’ ortoressia nervosa come un vero disturbo indipendente da altri, e non viene inserito in questi termini neanche nella nuova edizione del DSM-5: viene collocato insieme all’anoressia inversa all’interno dell’area del Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, categoria che indica un’anomalia della nutrizione e dell’alimentazione che si esprime attraverso una persistente incapacità di assumere un giusto apporto nutrizionale e/o energetico.

Le possibili definizioni di ortoressia e gli elementi in comune con i disturbi alimentari

A fronte di questa incertezza definitoria gli autori hanno provato a dare la propria visione, supportata da studi e ricerche, della natura controversa dell’ ortoressia.

Alcuni autori considerano l’ ortoressia come una variante dei disturbi alimentari esistenti, poiché alcuni suoi sintomi si sovrappongono con quelli dei disturbi alimentari.

In particolare molti autori hanno evidenziato la somiglianza con l’anoressia: l’ ortoressia e l’anoressia condividono la mancanza di piacere per quanto concerne il mangiare e uno spostamento del controllo della propria vita sul cibo.

Inoltre altri autori, in base ad alcuni studi, suggeriscono che l’ ortoressia potrebbe essere un precursore o un residuo di un disturbo alimentare.

Una lettura interessante del legame tra ortoressia e disturbi alimentari prevede che seguire una dieta ossessivamente salutare sia un metodo più socialmente accettabile rispetto all’anoressia e alla bulimia per perdere peso: quindi è possibile che alcuni pazienti usino l’ ortoressia per mascherare l’esistenza di un disturbo alimentare, in quanto il comportamento ortoressico può essere un modo socialmente approvato per esprimere i sintomi anoressici o bulimici.

Inoltre l’ ortoressia può essere manifestazione di anoressia nervosa in quanto i pazienti possono passare dall’avere sintomi più anoressici ad altri più ortoressici, come se procedessero per fasi, quindi in questo caso l’ ortoressia sarebbe meglio considerata come variante dell’anoressia.
Alcuni sintomi dell’anoressia nervosa sembrano andare maggiormente in parallelo con quelli dell’ ortoressia, come un’elevata ansia verso alcuni alimenti e il loro evitamento, bisogno del controllo e la natura egosintonica di questi sintomi, ma questo legame non è stato empiricamente dimostrato.

Per certi versi l’ ortoressia presenta delle somiglianze anche con la bulimia, in quanto entrambe sono focalizzate sulla modalità, in entrambi i casi non corretta, di assunzione di cibo.

Un ulteriore studio di Barnes (2016) conferma la sovrapposizione di alcuni aspetti dell’ ortoressia con l’anoressia e la bulimia: la prima ha in comune con le altre due un alto livello di perfezionismo, un’attenzione forte verso l’immagine del corpo e lo stile di attaccamento.

Il perfezionismo, costrutto caratterizzante l’anoressia e la bulimia, accomuna anche le persone ortoressiche, il cui scopo è quello di avere un’alimentazione perfetta e per questo seguono regole alimentari rigorose. L’aderenza a regole alimentari molto rigide può costituire anche il legame tra perfezionismo e disturbi alimentari e rendere sovrapponibili i sintomi ortoressici con quelli bulimici e anoressici.

Una negativa immagine del corpo e un’internalizzazione dell’idea della magrezza sono aspetti centrali nei disturbi alimentari, ma sono presenti, sebbene in misura minore, anche nelle tendenze ortoressiche: difatti queste ultime sono associate ad una maggiore preoccupazione per l’apparenza (quindi come appare il proprio corpo agli occhi degli altri), e una paura di diventare persone in sovrappeso; queste due caratteristiche spiegano il fatto che soprattutto i praticanti del fitness presentano tendenze ortoressiche e mostrano un’internalizzazione del concetto di magrezza così come l’ansia sociale per il proprio fisico, associata all’insoddisfazione verso la propria immagine del corpo, tipica di un disturbo alimentare.

Nonostante esista questa attenzione alla magrezza negli ortoressici, alcuni autori sottolineano il fatto che per questo tipo di paziente è molto più importante seguire una dieta assolutamente perfetta e sana, piuttosto che dimagrire, come vedremo più avanti.

Riguardo all’ultimo aspetto, gli stili di attaccamento ansioso, evitante e disorganizzato sono implicati nello sviluppo di anoressia nervosa e bulimia nervosa e questi tipi di attaccamento, secondo alcuni studi, sono predittori anche di sintomi ortoressici.

Un ultimo aspetto da considerare è l’autostima: in realtà i pazienti ortoressici sembrano avere un’autostima più alta rispetto ai pazienti anoressici o bulimici, ma per gli ortoressici una positiva autostima appare essere finalizzata a mantenere una dieta salutare e avere il controllo su tutti i loro desideri.

Alla luce di questi studi e conclusioni si potrebbe dedurre che l’ ortoressia nervosa sia espressione dei disturbi alimentari già esistenti, ossia anoressia e bulimia, e non un disturbo indipendente, in quanto presenta diverse somiglianze e sovrapposizioni con essi.

Però bisogna specificare che questi risultati non sono del tutto condivisi dalla comunità scientifica, perciò si devono considerare con cautela: altri studi ancora infatti smentiscono l’esistenza di questi legami.

Non tutti sono d’accordo con quanto detto sopra: Bratman infatti ha spinto a considerare l’ ortoressia come disturbo indipendente da altri, e non un’espressione di un altro disturbo alimentare. L’autore afferma che esistono delle differenze fondamentali tra l’ ortoressia e gli altri disturbi alimentari, che rendono la prima un disturbo alimentare a sé: il focus dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa è sulla quantità del cibo (la quantità di cibo ingerita), il focus dell’ ortoressia è invece sulla qualità (la qualità dei cibi che si scelgono di ingerire).

Secondo questa posizione, diversamente dall’anoressia e dalla bulimia, l’ ortoressia non riguarda il desiderio di diventare magri, distaccandosi così dai due disturbi alimentari: la forza trainante sembra essere il desiderio di seguire una dieta perfettamente salutare o pura. Gli ortoressici desiderano più essere puri e sani, piuttosto che magri.

Per esempio verdura e frutta biologica possono essere considerati alimenti sani (sia per un’anoressica sia per un’ ortoressica), perché essi sono percepiti salutari e con poche calorie; ma i dolcificanti artificiali e i piatti surgelati sono generalmente accettati da un’anoressica, ma non sono altrettanto ben visti da un’ ortoressica; viceversa per l’olio d’oliva: viene rifiutato dalle ragazze anoressiche, in quanto è ritenuto grasso e quindi calorico, mentre è accettato da un’ ortoressica, perché è definito uno dei “grassi buoni” dagli esperti nutrizionisti, i quali consigliano il suo consumo controllato perché presenta diversi benefici per la salute.

Quindi secondo questa concezione l’ ortoressia è fondamentalmente diversa dagli altri disturbi del comportamento alimentare, pur presentando delle somiglianze con essi, pertanto deve essere considerata un disturbo indipendente.

Un’altra posizione sostiene che l’ ortoressia nervosa possa essere meglio concettualizzata come un disturbo d’ansia, specificatamente come una variante del Disturbo Ossessivo-Compulsivo).

Bratman considera un requisito fondamentale dell’ ortoressia l’adesione ossessiva a un regime alimentare rigido, che prevede la sensazione di essere costretti a portare i propri cibi ai pranzi, pesare e misurare attentamente tutti i cibi consumati, impegnarsi in schemi alimentari estremi, provare un senso di colpa nel caso si devii da questo schema e una generale preoccupazione per il cibo. Altri autori sottolineano invece la relazione tra l’ansia e la perfezione nell’ ortoressia nervosa, comuni elementi nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

Secondo questa concezione le auto-imposizioni di restrizioni alimentari tipiche dell’ ortoressia (compulsione), sarebbero messe in atto per ridurre l’ansia relativa al cibo (ossessione), che è guidata dall’enfasi culturale su schemi alimentari salutari da seguire alla lettera.

Nelle persone con ortoressia, la compentente ossessiva di un disturbo ossessivo-compulsivo enfatizza le abitudini a seguire un’alimentazione “pura”.
Anche in questo caso però non si è riusciti a raggiungere una decisione unanime e un accordo tra gli esperti, in quanto, nonostante le somiglianze appena elencate, l’ ortoressia non presenta tutte le caratteristiche necessarie per essere considerato un disturbo ossessivo-compulsivo (per esempio nell’ ortoressia sembrano mancare le ossessioni bizzarre che i pazienti mettono in atto con gesti ripetitivi ed eccessivi (rituali) per neutralizzare quel pensiero).

Conclusioni

Quindi, per molto tempo c’è stata non poca confusione sulla natura dell’ ortoressia: è un disturbo? Fa parte dei disturbi alimentari già esistenti? Può essere classificato come un disturbo d’ansia?

A fronte di questa incertezza diagnostica sono aumentati studi e ricerche a riguardo, con l’intento di fare chiarezza sulla questione: essa infatti non è solo un problema puramente di definizione, ma è fondamentale perché dalla sua classificazione si può iniziare a mettere a punto delle strategie più efficaci di prevenzione e terapia.

Però la letteratura esistente si è concentrata prevalentemente sul misurare la prevalenza in differenti paesi di questa condizione e ad esaminare i fattori di rischio (età, genere, BMI, ecc), producendo risultati interessanti, ma di natura aneddotica e descrittiva.

In conclusione è necessario che nella letteratura si approfondisca la natura di questa nuova patologia, a fronte della controversia riguardo alla sua difficile definizione: anche se non potrebbe essere ancora considerato come un disturbo alimentare indipendente, l’ ortoressia prevede un disturbo delle abitudini alimentari; perciò si pensa che dovrebbe essere trattato come un disturbo concernente un comportamento alimentare anormale, legato a sintomi ossessivi-compulsivi.

Capendo sempre meglio la definizione diagnostica dell’ ortoressia, si comprende sempre meglio come aiutare le persone che ne soffrono.
Rimane il fatto che la natura dell’ ortoressia rimane ancora un concetto controverso e su cui si dibatterà ancora a lungo, e proprio per questo affascinante e interessante da approfondire.

 

fMRI: predire l’autismo con l’imaging cerebrale

Secondo uno studio finanziato da Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) e dal National Institute of Mental Health (NIMH), utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è possibile identificare i pattern di attivazione delle connessioni cerebrali ai fini di una diagnosi precoce dell’ autismo.

 

Conoscere le funzioni cerebrali del bambino può essere utile per prevedere con precisione quali neonati ad alto rischio potrebbero essere diagnosticati come affetti da autismo.

Secondo uno studio finanziato da Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) e dal National Institute of Mental Health (NIMH), utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è possibile identificare i pattern di attivazione delle connessioni cerebrali ai fini di una diagnosi precoce del disturbo autistico; infatti, l’autore dello studio Emerson e colleghi, hanno potuto prevedere con maggior accuratezza se un bambino di 6 mesi avrebbe sviluppato autismo a 24 mesi di età.

Le caratteristiche dell’autismo

Il disturbo dello spettro autistico (DSA) è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da deficit nella comunicazione, nell’interazione sociale e da pattern di comportamenti, interessi o attività ristretti e ripetitivi che emergono tipicamente verso i 24 mesi di età.

L’autismo colpisce circa 1 su 68 bambini negli Stati Uniti. I fratelli dei bambini con diagnosi di autismo hanno un rischio maggiore di sviluppare tale disturbo. Anche se la diagnosi e l’intervento precoce potrebbero contribuire a migliorare i risultati a lungo termine, attualmente non esiste alcun metodo per diagnosticare la malattia prima che i bambini mostrino i sintomi comportamentali.

Come dichiarato da Diana Bianchi, Direttrice NICHD, studi precedenti hanno dimostrato che le anomalie neuroanatomiche tipiche dell’autismo si strutturano prima che emergano i sintomi comportamentali tipici, di conseguenza, se studi futuri confermeranno questi risultati, la rilevazione delle differenze cerebrali potrà consentire ai medici di diagnosticare e trattare l’autismo precocemente.

La fMRI per individuare precocemente l’autismo

In un recente studio pubblicato su Science Translational Medicine, un team di ricercatori dell’University of North Carolina a Chapel Hill e Washington University School of Medicine in St. Louis, si è concentrato sulla connettività funzionale del cervello studiando come le regioni cerebrali lavorino insieme durante lo svolgimento di diversi compiti e durante la condizione di riposo in neonati di 6 mesi ad alto rischio.
Utilizzando l’fMRI su 59 bambini di 6 mesi con un elevato rischio familiare per Disturbi dello Spettro Autistico (aventi cioè fratelli maggiori affetti da autismo) è stato possibile effettuare le scansioni cerebrali mentre i neonati erano in una condizione di riposo naturale. Essi sono stati ritenuti ad alto rischio perché avevano dei fratelli più grandi affetti da autismo.

All’età di 2 anni, 11 dei 59 neonati di questo gruppo sono stati diagnosticati con tale disturbo.

I ricercatori hanno utilizzato una tecnologia computerizzata dotata di un algoritmo basato su un “apprendimento automatico”, addestrato per separare i risultati delle immagini funzionali in due gruppi “con autismo” e “senza autismo” e per prevedere diagnosi future. Questo metodo ha identificato l’82% dei neonati che avrebbero sviluppato autismo (9 su 11) ed ha identificato correttamente tutti i neonati che non lo avrebbero sviluppato.

Un’altra analisi ha testato quanto questi risultati possano effettivamente essere applicati anche ad altri casi e l’esito raggiunto mostra che il programma automatico è in grado di prevedere diagnosi per gruppi di 10 neonati con un’accuratezza pari al 93%.

In conclusione, dallo studio i ricercatori hanno trovato 974 connessioni funzionali cerebrali in neonati di sei mesi associati a comportamenti correlati con l’autismo (comportamento sociale, linguaggio, sviluppo motorio e comportamento ripetitivo). I risultati suggeriscono che una singola scansione fMRI possa prevedere accuratamente l’autismo tra i neonati ad alto rischio.

Queste evidenze dovranno, tuttavia, essere replicate su campioni molto più ampi ma rappresentano già un passo importante verso la precoce individuazione di soggetti con autismo prima che sviluppino i caratteristici sintomi comportamentali. In futuro, le neuroimmagini potranno essere uno strumento utile a supportare la diagnosi di autismo e di conseguenza, aiutare il medico curante a valutare il rischio di sviluppare l’autismo in bambini in età precoce.

Il transfert nella psicoanalisi interpersonale

La corrente psicoanalitica di Tradizione Interpersonale deriva dal filone di studi pioneristici inaugurati da H.S. Sullivan: egli spostò l’enfasi dall’osservazione del paziente (transfert), all’osservazione del paziente e dell’analista in interazione (matrice transfert-controtransfert)

 

La corrente psicoanalitica che oggi viene rubricata sotto la definizione di Tradizione Interpersonale deriva dal filone di studi pioneristici inaugurati da H.S. Sullivan nell’America del Nord nei primi anni del novecento che trovano radicamento in Europa nel secondo dopoguerra.

Dallo schermo bianco unipersonale all’osservazione partecipe bipersonale: il ruolo del transfert

L’intuizione di Sullivan, divenuta per esperienza diretta poi consapevolezza, sulle inclinazioni partecipatorie dell’analista e dei loro usi potenziali nel processo terapeutico rappresentò una svolta paradigmatica nella psicoanalisi e determinò il passaggio dal modello dello “schermo bianco” della psicologia unipersonale al modello di analisi della “osservazione partecipe” bipersonale (Hirsch, 1995).

Come ci ricorda Hirsch (1995):

Lo scienziato come ricercatore personale inevitabilmente interagisce con i dati in studio, e quindi la conoscenza diventa contestuale. Le idee e le percezioni del ricercatore/osservatore analitico sono inestricabilmente legate alla persona osservata. L’applicazione di Sullivan di questo punto di vista ai dati della psicoanalisi, spostò l’enfasi dall’osservazione del paziente (transfert), all’osservazione del paziente e dell’analista in interazione (matrice transfert-controtransfert) (p.642).

Secondo questa prospettiva teorica il transfert viene considerato come il: “trasferimento inconscio di un’esperienza da un contesto interpersonale ad un altro”  (Fiscalini, 1995). In altre parole, le relazioni interpersonali del passato vengono rivissute in situazioni attuali.

Questa esclusività ha trovato varie obiezioni e nella grande maggioranza i teorici interpersonalisti avvertono di non porre un esclusivo focus sulle “caratteristiche ripetitive” del rapporto analitico, poiché questo potrebbe portare a trascurare il significato terapeutico del reale rapporto con l’analista.

La Thompson (1950), Cohen (1952) e Wolstein (1959), tra gli altri, hanno puntualmente e concordemente osservato che gli esseri umani, in virtù di operazioni caratteriologiche e di atteggiamenti difensivi, fanno pressioni su altri esseri umani in svariati modi non verbali per comportarsi o per reagire come gli adulti significativi nelle fasi iniziali delle loro vite. Di conseguenza: ”il vecchio modo di reagire sembra essere automaticamente ripetuto” (Thompson, 1950, p.57), quando in realtà è attivamente ricreato. Di conseguenza, nella situazione analitica, gli atteggiamenti del paziente rappresentano sempre: “un insieme di valutazioni transferali e realistiche” (Thompson, 1950, p. 100). Nella stanza di analisi, come nella vita di tutti i giorni, l’esperienza dell’individuo è sempre un complesso sistema di correlazioni transferali e non transferali.

Secondo Fiscalini (1995) è questa la principale revisione del concetto di transfert pertinente all’indirizzo interpersonalista: viene messo in discussione il tradizionale assunto che lo caratterizza come distorsione.

Seguendo l’analisi proposta da Fiscalini (1995), gli analisti interpersonali sono stati aperti storicamente ai concetti relativistici o prospettivistici di verità, significato e ai concetti democratici di autorità analitica. Sullivan (1954), primo fra tutti, parlava di “convalidazione consensuale” cioè di verità come accordo sociale o consenso, e dunque posizionò un concetto relativistico culturale ed interpersonale di verità al centro della teoria e della pratica psicoanalitica.

Critici nei confronti dei concetti autoritari dell’analista “oggettivo”,  Gill (1983), Hoffman (1983) e Levenson (1988) come molti altri interpersonalisti contemporanei, rifiutano la nozione di analista come arbitro della realtà analitica.

Come affermano Gill (1983) e Hoffman (1983), nei riguardi delle esperienze transferali, è più appropriato parlare di rigidità di percezione intesa come errata contestualizzazione dei dati analitici piuttosto che di distorsioni proiettive. Hoffman (1983) argomenta che in linea di principio il transfert opera in maniera molto simile a un “contatore geiger”, con l’esperienza passata che sensibilizza un individuo a concentrarsi o a vedere selettivamente significati che potrebbero essere elusivi o dimostrarsi di poco interesse dinamico.

Più radicale, Levenson (1988), asserisce che l’esperienza transferale che i pazienti hanno dell’analista rappresenta la percezione reale o veritiera, piuttosto che semplicemente plausibile, che questi hanno della situazione analitica. Levenson spiega che l’analista è invariabilmente “trasformato” dalla nevrosi del paziente e dunque invariabilmente replica (re-enact) la situazione originale di transfert all’interno della situazione analitica.

Sotto questo aspetto il transfert non è attribuibile a distorsioni proiettive o a costruzioni verosimili e rappresenta sempre un’interazione reale.

Psicoterapia breve per il benessere psicologico (2017) di G. A. Fava – Recensione

Durante la mia pratica psicoterapica sono stata incuriosita dal titolo di questo libro: Psicoterapia breve per il benessere psicologico. “Breve”… mi sono chiesta come può una psicoterapia definirsi “breve o “lunga”?

 

Sappiamo bene che la durata di un percorso psicoterapeutico è molto variabile; tutto dipende da vari fattori: il disagio in questione, la motivazione alla terapia, le metodologie usate dal terapeuta, la collaborazione da parte del paziente, e ancora…

Quindi mi sono interrogata su cosa intendesse Fava per psicoterapia “breve”; forse un metodo un po’ insolito per condurre il paziente verso il “benessere psicologico”?

Mi sono quindi cimentata nella lettura del libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico con gran curiosità.

Psicoterapia breve per il benessere psicologico: alla scoperta della WBT

Un libro lineare, Psicoterapia breve per il benessere psicologico, suddiviso in tre parti. Fava ci conduce e ci addestra con ordine alla sua metodologia clinica sviluppata da egli stesso in prima persona: la Well-Being Therapy (WBT).

Nella prima parte del libro Fava con gran coinvolgimento ci conduce in quella che è la sua formazione di terapeuta, raccontandoci anche il suo percorso personale che lo ha condotto verso la pratica psicoterapica.

Fava ci trasporta all’interno dei suoi casi clinici più significativi, quelli che lo hanno indotto a sperimentare una nuova metodologia volta a risanare il benessere paziente: procedere in una direzione per certi versi “opposta” a quella della classica pratica della Terapia Cognitivo Comportamentale.

Alla base della conosciuta terapia cognitiva vi è un monitorare la sofferenza del paziente, identificarne le situazione in cui si verifica per individuare un modo di pensare disfunzionale che a sua volte è alla base di emozioni sgradevoli provate.

Fava, sull’esperienza di un suo paziente che non aveva reagito bene alla TCC, sceglie di comportarsi diversamente: monitorare non più la sofferenza, bensì il benessere del paziente e i fattori che lo interrompono.

…”Andare dallo psicoterapeuta e parlare del proprio benessere, che cosa strana”, mi sono detta. Eppure i pazienti di Fava ne hanno avuto un gran beneficio; quel beneficio che gli ha consentito di andare oltre con questa pratica: validarla per applicarla a vari disturbi.

Il paziente si concentra sulle sensazioni di benessere che prova, vi ci associa i pensieri disturbanti che interrompono questo stato positivo per potervi poi intervenire come un osservatore che smentisce le idee disfunzionali.

Fava, in Psicoterapia breve per il benessere psicologico, dà una spiegazione all’esito positivo a cui erano andati incontro i suoi pazienti con la WBT: concentrarsi sul proprio malessere non sempre è funzionale, anzi potrebbe indurre il paziente a rimuginare sulla propria sofferenza scoraggiandolo e impedendogli di impegnarsi nel portare a termine la terapia.

Il focalizzarsi sui suoi (anche brevi) periodi di benessere invece motiva il paziente a far sì che quei pochi momenti positivi possano aumentare. E per raggiungere questo obiettivo il paziente dovrà metterci del suo. Assumono un ruolo fondamentale gli homework e il tenere un diario che consenta a terapeuta e paziente di monitore le sensazioni provate e ragionarci su.

Cosa si intende per psicoterapia breve?

Nella seconda parte del libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico Fava chiarisce cosa intende per “psicoterapia breve”: un percorso della durata di otto sedute poste a distanza di due settimane l’una dall’altra.

Ogni capitolo rappresenta una seduta, con al termine uno schema riassuntivo di quelli che sono gli obiettivi dell’incontro. L’autore ci conduce passo passo nella sua pratica clinica, esponendocela (talvolta con esempi da lui esperiti) e permettendoci di utilizzarla con adeguati suggerimenti e accortezze.

Ritengo che il libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico sia un’ottima guida per chiunque voglia cimentarsi in questa pratica terapeutica, applicabile a qualunque tipologia di disturbo come Fava ci illustra nella terza parte del libro.

Il quest’ultima sezione l’autore ci espone le applicazioni cliniche della Well-Being Therapy, descrivendo la sua pratica a seconda dei vari disturbi psicologici, quali depressione, oscillazioni dell’umore e disturbi d’ansia di vario tipo. Con meticolosità Fava ci conduce in ogni disagio, illustrando anche una fase di assessment del disturbo stesso e procedendo poi nell’addestrarci all’utilizzo della WBT a seconda del caso che potremmo trovarci di fronte.

In molti casi Fava abbina alla WBT delle tecniche cognitivo – comportamentali, suggerendoci anche le implicazioni cliniche a seconda dei contenuti che il paziente potrebbe portarci.

Otto sedute che potrebbero anche ridursi a quattro. L’autore infatti ci esplicita la possibilità di rendere il trattamento ancor più breve, dimezzando il tempo e proponendoci, per chi vuole, un programma articolato in soli quattro incontri.

La sensazione che si ha al termine della lettura di Psicoterapia breve per il benessere psicologico è senz’altro quella di aver appreso qualcosa di nuovo; una nuova metodologia di trattamento, che forse non tutti condivideranno, ma Fava ci lascia con la curiosità di sperimentarci in questa nuova tecnica, sicuramente utile in quei casi dove la classica terapia cognitiva non ha raggiunto gli esiti sperati, ma anche in tutti quei casi in cui il paziente desidera vedere un miglioramento in breve tempo.

Un libro completo, che espone la Well-Being Therapy senza omettere nulla, descrivendo casi concreti e offrendoci le giuste linee guida in maniera schematica. Anche il non esperto in questa pratica può sperimentarsi nella sua applicazione.

Una tecnica interessante, sia da applicare alla TCC sia da utilizzare in maniera autonoma.

Impossibile poi non notare la passione di Fava nello scrivere il suo libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico: non solo ci ha voluto mettere al corrente di come egli stesso ha sperimentato la WBT e il percorso che ha dovuto sostenere per validare la tecnica, ma ci inoltra all’interno dei suoi casi clinici facendoci vivere la terapia da un punto di vista pratico.

Gli interrogativi che mi ponevo prima di cimentarmi nella lettura hanno trovato le giuste risposte. Senz’altro posso dire di sentirmi arricchita da una nuova tecnica psicoterapica che non conoscevo, e che adesso posso definire  interessante, utile e assolutamente da applicare.

Deprivazione del sonno: un importante aiuto nella terapia dei disturbi dell’umore

I disturbi dell’umore rappresentano una classe di disturbi psichiatrici comprendente, secondo il DSM-IV TR, alcune delle patologie psichiatriche più diffuse al mondo come la depressione maggiore e il disturbo bipolare tipo I e tipo II. La deprivazione del sonno è una tecnica non molto nota ma di importante aiuto nel supportare le normali terapie di prassi che si effettuano per la cura dei disturbi dell’umore. Rientra tra quelle terapie denominate cronobiologiche.

Ileana Capozza, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO 

 

La deprivazione del sonno come trattamento per i disturbi dell’umore

In base agli studi più recenti, nella terapia dei disturbi dell’umore le tecniche di deprivazione del sonno ottengono effetti rilevanti e sostenuti, sia quando utilizzate da sole sia in combinazione con specifiche terapie farmacologiche. Di notevole importanza è il fatto che gli effetti collaterali di suddette terapie siano pressocchè marginali.

Considerando i più recenti dati al riguardo, ci si aspetta che la depressione nel 2020 diventi uno dei più grossi oneri tra i disturbi psichici. Soltanto il 50-70% dei pazienti affetti da depressione maggiore ricorrente ad esempio, risponde al primo trattamento antidepressivo, meno del 40% di essi va incontro a completa remissione di malattia.

L’utilizzo della terapia farmacologica antidepressiva viene scoraggiata spesso in alcune condizioni mediche, nonché in alcune condizioni psichiatriche quali, talvolta, gli stessi episodi depressivi .E’ importante mettere in evidenza a tal proposito il rischio che si corre prescrivendo una qualunque terapia antidepressiva con la conseguenza di trasformare, nel caso di una depressione bipolare non riconosciuta ad esempio, la fase depressiva di un paziente in una fase eccitativa, e quindi rendendone ancora più difficoltosa la stabilizzazione e peggiorandone il decorso complessivo: il viaggio del tono dell’umore verso l’euforia, l’eccitamento, la rabbia e l’agitazione può essere indotto da trattamenti antidepressivi farmacologici aggressivi in soggetti predisposti. In queste tipologie di pazienti i trattamenti cronobiologici, come la deprivazione di sonno, offrono un valido metodo sostitutivo o di supporto.

Un’altra condizione nella quale è opportuno evitare l’utilizzo della terapia farmacologica antidepressiva è durante la gravidanza, per non incidere sullo sviluppo fetale e per scongiurare la comparsa di comportamenti ansiosi nell’età adulta, conseguenti all’esposizione prenatale ai farmaci antidepressivi.

Pertanto è importante sottolineare come le terapie cronobiologiche siano state supportate da numerosi studi clinici che ne hanno appunto provato l’utilità ed efficacia. Il livello di miglioramento indotto dalla cronobiologicoterapia dopo una sola notte di deprivazione di sonno, è paragonabile a quello osservato dopo sei settimane di terapia con antidepressivi. Le risposte terapeutiche osservate sono perciò molto simili a quelle che si ottengono quando il paziente viene sottoposto a terapia farmacologica, ma con una differenza sostanziale: l’effetto terapeutico diventa clinicamente rilevante poche ore dopo l’inizio del trattamento di deprivazione del sonno (il giorno dopo nella maggior parte dei casi), facendo scomparire perciò il più o meno lungo periodo di latenza (generalmente due settimane) che si osserva dopo la somministrazione del farmaco.

Nel corso degli anni, si sono sviluppate sempre di più evidenze cliniche in supporto all’efficacia della deprivazione del sonno, soprattutto comprovate dagli studi sempre più approfonditi sui meccanismi biologici presenti alla base dell’efficacia stessa. Pertanto si può affermare che queste tecniche possano tranquillamente rientrare tra i trattamenti di prima battuta per i disturbi dell’umore.

Gli effetti antidepressivi della deprivazione del sonno si osservano in diverse sindromi depressive, osservando una maggiore efficacia nella depressione maggiore endogena, depressione reattiva, unipolare, nei disturbi bipolari, nella depressione schizoaffettiva, nella depressione precoce o secondaria alla malattia di Parkinson, alla depressione in gravidanza e nel postpartum ed infine nella sindrome disforica premestruale; la deprivazione del sonno può essere definita come il nucleo portante delle cronobiologicoterapie e consiste nell ’esposizione controllata a stimolazioni biologiche come la deprivazione di sonno, che agiscono sui ritmi biologici stessi, aventi lo scopo di ottenere effetti terapeutici. Si può affermare comunque che il suo utilizzo sia pressocchè ristretto ai disturbi dell’umore.

Per quanto concerne la depressione è stato verificato come le variazioni dell’umore nell’arco delle ore diurne influenzino la risposta alla privazione del sonno; i pazienti che mostrano la tipica fluttuazione dell’umore diurna con un miglioramento serotonino della sintomatologia, traggono maggior giovamento dal trattamento cronobiologico rispetto ad altri. Le caratteristiche intrinseche del tipo di sonno di ogni singolo paziente possono influenzare la risposta al trattamento, così come una bassa attività simpatica a livello periferico in associazione con un’alta attività noradrenergica a livello centrale la influenzano positivamente.

Come avviene la deprivazione del sonno

Ma come si svolge la deprivazione del sonno e come viene somministrata al paziente?

Vengono distinte due modalità, una detta totale ( che consiste nella somministrazione del periodo di deprivazione del sonno che comincia la mattina dopo regolare risveglio e termina 36 ore dopo fino alla sera del giorno successivo) e una detta parziale (che comincia con il risveglio nella seconda parte della notte e che include anche il giorno seguente fino alla sera).

I sintomi depressivi sono il primo obbiettivo terapeutico della deprivazione del sonno ed il rapido miglioramento che si ottiene include anche i pensieri e la pianificazione suicidaria. La deprivazione del sonno porta in tempi brevi al miglioramento della sintomatologia depressiva ed è molto utile anche nei pazienti che sono resistenti ai comuni trattamenti farmacologici. Numerosi studi clinici hanno dimostrato che gli effetti antidepressivi non possono, però, osservarsi prima del temine dell’intera notte di deprivazione e non diventano clinicamente evidenti prima dell’esposizione alla luce del giorno.

Rimane ancora dibattuto se piccoli riposi durante la notte di veglia abbiano il potere di bloccare il potere antidepressivo della deprivazione del sonno; in ogni caso dati clinici comprovati hanno dimostrato che questa eventuale influenza negativa sull’effetto antidepressivo dipenda dalle caratteristiche individuali di ogni singolo paziente sottoposto alla cura. La scelta tra l’utilizzo della TSD (total sleeep deprivation) o la PSD (partial sleep deprivation) dipende dalla gravità della sintomatologia sulla quale si intende agire.

Il trattamento generalmente viene ripetuto tre volte a settimana: si effettuano 36 h di deprivazione e durante la nottata di deprivazione vengono sottoposti a light therapy per contrastare la sonnolenza che può insorgere. I pazienti nei quali non si osserva l’effetto terapeutico dopo il primo trattamento vengono sottoposti ad un secondo ciclo. Dopo il trattamento i pazienti anticipano significativamente il momento di andare a letto e dormono maggiormente e meglio rispetto a prima del trattamento stesso (quando normalmente il loro sonno era disturbato dall’insonnia legata allo stato depressivo). Ciò che si ottiene da suddetto trattamento è un grado meno severo della sintomatologia depressiva ed un oggettivo miglioramento nell’umore che dura nel tempo. Nei giorni successivi al trattamento però i pazienti tendono a mostrare un progressivo peggioramento e la gravità del quadro depressivo ritorna ai livelli osservati prima del trattamento. Dopo il sonno di recupero, non necessariamente si osserva la ricaduta nel primo giorno dopo la deprivazione del sonno, alcuni pazienti mostrano un miglioramento atipico subito dopo il recupero invece che dopo la notte di veglia.

Ed è proprio per queste ultime considerazioni riguardo alla presenza di ricadute dopo il trattamento che risulta fondamentale, per evitarne i rischio, combinare la cronobiologicoterapia con farmaci antidepressivi e stabilizzatori dell’umore. La deprivazione del sonno affretta l’ azione antidepressiva dei farmaci. L’unica associazione non fruttuosa osservata emersa dagli studi clinici è quella con la trimipramina, mentre per quanto riguarda i disturbi bipolari il gold standard risulta l’associazione tra deprivazione del sonno e sali di litio, grazie alla quale si ottiene una eutimia stabile nel tempo senza la necessità dell’utilizzo di altre terapie farmacologiche.

Il meccanismo di azione della deprivazione del sonno

E’ stato provato che gli obiettivi della deprivazione del sonno sono i sistemi della serotonina, della norepinefrina e della dopamina, andandone a potenziare la neurotrasmissione. Ci sono dei fattori biologici come le varianti genotipiche, i livelli basali dei suddetti neurotrasmettitori e la quantità dei recettori occupati che influenzano in modo rilevante la risposta terapeutica. È stato inoltre osservato che la deprivazione del sonno aumenti i livelli circolanti di ormoni tiroidei. Ancora più importante è stata la scoperta di cambiamenti metabolici in determinate aree cerebrali osservati mediante tests di neuroimaging: si sono osservati un decremento nella perfusione nel cingolato ventrale ed amigdala ed un aumento dell’attività metabolica a carico della corteccia del cingolato anteriore e della corteccia mediale prefrontale. Più sono alti i livelli metabolici di base dell’attività glutammatergica a livello del cingolato, maggiore è il decremento di questa indotto dalla deprivazione del sonno e migliore è l’effetto terapeutico della stessa. Gli stessi risultati che vengono ottenuti in pazienti sottoposti ad un singolo ciclo di deprivazione del sonno si sono osservati nei pazienti sottoposti ad un mese di paroxetina. Pertanto si può certamente affermare che la neurotrasmissione glutammatergica può avere un ruolo nel rapido ottenimento dell’effetto antidepressivo post deprivazione del sonno, conseguentemente ad una riduzione della concentrazione corticale del glutammato, e parallelamente all’ osservazione della risposta clinica al trattamento cronobiologicoterapeutico.

È stato inoltre ipotizzato che la presenza di importanti cambiamenti nella omeostasi del sonno svolga un ruolo rilevante nell’effetto antidepressivo della cronobiologicoterapia: sono state fatte delle scoperte sull’ipotesi che ci fosse un’alterata omeostasi del sonno nei disturbi bipolari, con un alterato pattern di eccitabilità corticale durante la fase di deprivazione del sonno somministrata ai pazienti bipolari in fase depressiva.

Gli effetti collaterali e le controindicazioni della deprivazione del sonno

Si può affermare indiscutibilmente che la deprivazione del sonno abbia un ruolo stressogeno non indifferente e che rimaner svegli un’intera notte possa inaspettatamente far precipitare anche condizioni cliniche gravi.

A tal proposito è importante sottolineare le risposte terapeutiche ottenute e non ottenute quando la somministrazione del trattamento è stata effettuata in disturbi differenti dai disturbi dell’umore: nella depressione delirante la letteratura suggerisce cautela nella somministrazione della deprivazione del sonno. Infatti, durante uno studio controllato in cui è stata somministrata in associazione con dopamina, si è osservato come in alcuni pazienti affetti da depressione psicotica si sia stata una risposta terapeutica antidepressiva importante, di contro però all’acuirsi della sintomatologia positiva (con l’incremento della frequenza e gravità dei deliri) dopo il sonno di recupero. In caso di pazienti affetti da stati misti con prevalenza di sintomatologia depressiva è stato osservato che la somministrazione di deprivazione del sonno favorisce il viraggio verso lo stato maniacale con aggravamento della sintomatologia. Per quanto riguarda invece i pazienti affetti da malattia di Parkinson, la somministrazione della deprivazione del sonno è stata associata ad un miglioramento prolungato della depressione che può insorgere durante tale patologia; infatti la stessa eccessiva durata del sonno è stata associata ad un maggior rischio di sviluppare la malattia di Parkinson , probabilmente a causa dell’incremento marcato nella neurotrasmissione dopaminergica che si osserva, per l’appunto, durante la deprivazione del sonno.

È importante inoltre considerare come la deprivazione del sonno possa essere un trigger per le crisi comiziali, pertanto deve essere utilizzata con cautela nei pazienti affetti da epilessia. Nei pazienti affetti da disturbo bipolare in stato eutimico, i bruschi cambiamenti nel ciclo sonno-veglia, possono scatenare l’episodio maniacale, con incremento delle attività nelle quali questi pazienti cominciano ad affaccendarsi e con la riduzione della loro necessità di dormire; il viraggio verso la mania, dopo trattamento con deprivazione del sonno, si osserva soprattutto nei pazienti che mostrano rapidi cicli depressione-mania/ipomania. Nonostante queste osservazioni però si può affermare che la mania che può insorgere post deprivazione del sonno, risulta prevalentemente mite e moderata, infatti meno della metà di questi pazienti necessita della somministrazione di stabilizzatori dell’umore per ritornare allo stato di eutimia. Inoltre nei pazienti ospedalizzati la somministrazione di benzodiazepine per via endovenosa porta rapidamente ad una completa risoluzione del quadro maniacale. I pazienti in cui la deprivazione del sonno induce ipomania, ritornano all’eutimia attraverso la somministrazione di Sali di litio o benzodiazepine. In altri, basta il sonno di recupero per riportarli all’eutimia. Peraltro gli stati maniacali osservati post deprivazione del sonno non rientrano nel DSM-4 perché non rispondono ai criteri necessari. In questi casi, comunque, è il terapeuta stesso che sconsiglia l’utilizzo della deprivazione del sonno, quando cioè il rischio di sviluppare la sintomatologia maniacale supera di gran lunga gli effetti benefici del trattamento stesso.

Nei pazienti sottoposti a terapia neurolettica depot è stato dimostrato un effetto antidepressivo deludente post deprivazione del sonno; in questi pazienti infatti viene consigliato un completo washout del farmaco se si vuole somministrare il trattamento cronobiologico.

In generale è perciò molto importante indagare sulle condizioni cliniche di base che il paziente presenta, per evitare che queste peggiorino dopo l’inizio del trattamento cronobiologicoterapico.

Gli effetti collaterali che si riscontrano in ogni caso sono i seguenti: sonnolenza diurna ed il viraggio verso mania o ipomania nel paziente bipolare. Per quanto riguarda la prima, si può cercare di ovviare ad essa attraverso la somministrazione della light therapy durante la nottata nella quale il paziente viene deprivato del sonno e per quanto riguarda il secondo effetto collaterale citato lo si può ridurre con la concomitante somministrazione di stabilizzatori dell’umore. Un altro effetto collaterale può essere l’insorgenza di crisi di panico o ansia nel paziente bipolare che presenti comorbidità con il disturbo di panico; pertanto in questi casi è bene informare con precisione il paziente su tutta la procedura e sulla eventuale ( ma non necessariamente verificabile) insorgenza della crisi di panico durante la notte di deprivazione.

La problematica più evidente resta, comunque, la breve durata dell’effetto antidepressivo: dopo il sonno di recupero più dell’80% dei pazienti che hanno risposto alla deprivazione del sonno sviluppano però una ricaduta della patologia di base, soltanto una minoranza di pazienti mantengono nel tempo l’ottenuto miglioramento della sintomatologia. Questi ultimi pazienti però, nel corso dei giorni successivi, mostrano una tendenza al progressivo peggioramento e la gravità della loro patologia spesso ritorna ai livelli precedenti al trattamento. Sono state però studiate delle strategie per ovviare a queste problematiche e sostenere gli effetti terapeutici della deprivazione del sonno nel tempo: come già accennato è fondamentale la combinazione di più trattamenti cronobiologicoterapici tra di loro, l’uso concomitante di farmaci come stabilizzatori dell’umore, antidepressivi e Sali di litio a seconda della patologia di base. Come già detto importanti sono anche i cicli ripetuti della deprivazione del sonno in associazione con la somministrazione delle altre tecniche cronobiologiche.

Tutto questo dimostra l’importante binomio togliere il sonno per togliere la depressione attraverso la “terapia della veglia” andando ad agire sul tanto nominato orologio biologico situato sopra il chiasma ottico: esso è estremamente sensibile alla luce del giorno e all’esposizione al buio, rispondendo a queste due stimolazioni rispettivamente aumentando la secrezione di serotonina e di melatonina. Filtrando le prime luci del giorno esso fa partire tutte le funzioni fisiologiche del corpo che si esplicano nel quotidiano di ognuno. È un orologio perfetto salvo che nella depressione: toccando con le già discusse regole il ritmo del sonno si possono ottenere risultati straordinari.

 

Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli (2016) – Recensione del libro

L’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, Marie Rose Moro, guida il lettore attraverso il punto di vista degli adolescenti. Questo stimola la riflessione, introducendo i temi che poi vengono approfonditi con l’esperienza che Rose Moro ha maturato in molti anni di pratica clinica.

 

Il compito difficile cui sono chiamati i genitori è quello di essere presenti alla giusta distanza che permetta ai figli di non sentirsi controllati ma di sentirsi protetti.

 

L’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, Marie Rose Moro, guida il lettore attraverso il punto di vista degli adolescenti.

Ogni capitolo, infatti, è introdotto dalle parole che gli stessi ragazzi utilizzano per descrivere la loro esperienza. Questa modalità stimola la riflessione, introducendo i temi che poi vengono approfonditi con l’esperienza che Rose Moro ha maturato in molti anni di pratica clinica.

L’entrata in adolescenza segna l’inizio di una fase di grande cambiamento contraddistinta da una mente in fermento che cerca di rispondere a nuovi compiti evolutivi.

Secondo Rose Moro, autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, l’adolescenza è un concetto antropomorfo in quanto esiste sicuramente nelle società occidentali ma non in tutto il pianeta. Occupandoci della nostra cultura di appartenenza possiamo collocare l’inizio dell’adolescenza intorno agli 11 anni ed il tuo termine verso i 18-20 anni. Tuttavia l’uscita dall’adolescenza si sta posticipando negli ultimi decenni a causa di una tardiva uscita dei ragazzi da casa, sia per motivi economici che per motivi di studio.

Gli adolescenti si raccontano – Le due caratteristiche principali dell’adolescenza

Le due caratteristiche principali dell’adolescenza evidenziate dall’autrice sono:

  1. Separazione-individuazione: ovvero quel processo che permette all’adolescente di costruire la propria identità allargando il proprio spazio mentale. I ragazzi iniziano a costruirsi la loro autonomia e per farlo hanno bisogno di mettersi in contrapposizione ai genitori, di identificarsi con modelli diversi. In questo processo rivestono un ruolo anche le bugie che manifestano una protezione dell’intimità dei ragazzi ed i genitori dovrebbero cercare di comprendere che con esse manifestano il bisogno di “tenersi qualcosa per sé”. Cosa ben diversa è quando le bugie nascondono un comportamento rischioso, in tal caso si potrebbe creare una situazione paradossale per la quale ad es. un figlio si sente male per aver bevuto alcool e non si sente autorizzato a chiedere aiuto alla propria mamma o al proprio papà. E’ dunque importante comprendere il significato di una bugia. I figli si separano dai genitori ed è il normale processo di crescita, per questo chiudono la porta della camera, non danno accesso al profilo Facebook ecc.. In questo importante processo il compito dei genitori è quello di restare presenti senza diventare inquisitori.
  2. Il secondo cambiamento importante è rappresentato dalla sessualità: può essere molto difficile per un adolescente vedere profondamente modificato il proprio corpo e difficile accettare le nuove sensazioni. Il genitore ricopre un ruolo fondamentale nell’accettazione della maturazione sessuale, poterne parlare significa non creare un tabù, aiuta loro a vivere il passaggio dall’affettività alla sessualità in modo consapevole, sapendo cosa aspettarsi. In alcuni casi possono aver difficoltà a parlarne con un genitore ma riescono a farlo con un altro adulto.

Mentre i figli entrano in adolescenza i genitori vivono spesso un momento di smarrimento: il bambino che conoscevano non c’è più e loro, spesso, non riescono a ridefinire il loro ruolo. Può accadere che pur di restare vicini ai propri figli cercano di essere loro amici, tuttavia questo non è il giusto modo perché il genitore ha un ruolo diverso. Il ruolo genitoriale si divide in due assi principali ovvero un ruolo protettivo ed uno contenitivo: proteggerli e, allo stesso tempo, permettere ai figli di conoscere i limiti (contenerli), affinché li possano interiorizzare per sapersi regolare da soli. Due elementi cardine:

  • Un genitore può essere autoritario spiegando che le scelte sono fatte per il bene del figlio.
  • Un genitore ha il dovere di essere presente alla giusta distanza perché il proprio figlio ha bisogno di essere protetto ma anche di distanziarsi per diventare adulto.

Adolescenti e Identità

Nel libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, importanza viene data anche alla domanda: ma come fanno gli adolescenti a costruirsi la loro identità? Lo strutturarsi di una propria identità non passa solo dal distanziarsi dai genitori ma passa anche attraverso la scelta del look (capelli, abbigliamento, piercing) e l’appartenenza al gruppo dei pari. Per distanziarsi l’adolescente, infatti, si avvicina a chi -come lui- vive gli stessi turbamenti. Gli amici diventano una seconda famiglia. Se un giovane non avesse i suoi amici intorno a lui, mentre si sta “staccando” dai suoi genitori, proverebbe un sentimento di totale solitudine. Inoltre, il gruppo ha una seconda funzione ciò quella dell’identificazione. Nel suo gruppo l’adolescente può identificarsi con gli amici, avere dei punti di riferimento comuni (musica, vestiti, ecc…), può immaginare come sarà domani. L’adolescente crea per sé uno spazio che lo guiderà nel diventare un adulto. In tal senso si osserva come i ragazzi attribuiscano una profonda importanza alla scelta del look poiché esso diventa un modo di esprimere la propria identità.

Dunque, l’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, suggerisce come quando capita di discutere coi figli sul loro abbigliamento sia importante ricordare che non è una questione superficiale, ma che attraverso l’abbigliamento l’adolescente sperimenta chi vuole essere veramente. Se la critica sull’abbigliamento risulta un giudizio definitivo “vestito così sembri un drogato” lui/lei risponderanno come se fosse stata offesa la loro persona, tuttavia un parere “a me non piace molto questo abbigliamento” sarà comunque da prediligere perché fa parte del confronto che gli adolescenti devono avere coi propri genitori. L’adolescente è uno che sperimenta, cerca la propria libertà, sceglie di fare diversamente ed è parte integrante del processo di separazione/individuazione. L’influenza del gruppo spesso spaventa i genitori poiché capita che un adolescente alla ricerca di sé si faccia trascinare in una direzione non sua. E’ qui che i genitori devono essere bravi a far notare che c’è qualcosa che non va ed è importante esprimere il proprio punto di vista, come ad esempio: “so che è una festa e tutti berranno alcolici, ma vorrei che tu non bevessi”. Questo ha una funzione protettiva, anche se non è detto che l’adolescente rispetti la richiesta e, in tal senso, un genitore deve imparare a tollerare una buona dose di incertezza, anche se sembra intollerabile.

D’altro canto non tutti gli adolescenti entrano subito a far parte di un gruppo e vivono un periodo di solitudine e anche questa dimensione può far preoccupare i genitori. L’autrice ci suggerisce che la solitudine di per sé non è un problema, ma se questa nasce dalla paura di non esser accettati, da una delusione, allora è meglio dare un aiuto, sia questo dei genitori o di un professionista.

Nel libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, si ricorda che l’appartenenza al gruppo dei pari passa anche attraverso lo sport che, insieme alle altre passioni come la musica, i videogiochi ed internet, rappresenta certamente una delle passioni più sane. Lo sport, sia esso singolare o di squadra, porta i giovani ad entrare in relazione. Attraverso le esperienze motorie e corporee che procura, lo sport permette all’adolescente non solo di provare sensazioni di piacere – piacere di sentire il proprio corpo funzionare, di realizzare bei gesti o performance – ma anche di confrontarsi con dei limiti – le regole del gioco – o di superarli quando siano limiti fisici o psicologici. In questo modo lo sport rinforza la stima di sé. Grazie allo sport l’adolescente è attivo sul proprio corpo, invece di sentirsi passivo a causa dei cambiamenti che subisce con la pubertà.

Gli adolescenti e Internet: alcuni accorgimenti

Uno spazio importante, nell libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, è riservato ad internet che costituisce parte integrante del mondo degli adolescenti. I giovani di oggi crescono nell’era digitale ed il rischio è che si crei una dipendenza da internet. L’autrice suggerisce di utilizzare qualche accorgimento per gestire il rapporto tra gli adolescenti e la navigazione in rete come ad es. quello di posizionare il computer in una zona di passaggio (sala) per monitorare l’uso che ne viene fatto. Per quanto riguarda tablet e cellulari, che possono essere portati sempre con sé, è necessario stabilire delle regole in fatto di “connessione”. Questi oggetti poiché permettono ai ragazzi sia di mantenersi in contatto con gli amici che di accedere al materiale scolastico, non possono essere vietati in assoluto. Tuttavia il loro utilizzo non deve impattare negativamente nella vita familiare, sociale, sportiva, ecc. “Che nostra figlia passi due ore su facebook o che nostro figlio giochi due ore a videogiochi di ruolo (gli RPG, role playing game) non è di per sé allarmante”. Invece, secondo Rose Moro può essere preoccupante se diventa il loro unico investimento nella vita.

Adolescenti e il rischio di assumere droghe e alcool

Ma internet non è l’unico elemento a rischio di dipendenza, si sottolinea in Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli. L’attrazione per droghe e alcool è motivo di coerenti preoccupazioni da parte dei genitori. Cosa suggerisce di fare l’autrice? La ferma posizione sul NO, deve lasciar spazio al confronto -prendendo ad es. una notizia del TG- sul tema delle droghe per permettere agli adolescenti di cogliere un’apertura affinché si possano sentire liberi di chiamare i propri genitori per chiedere aiuto qualora si trovassero in difficoltà a seguito dell’uso di cannabis o alcool. D’altronde fare prevenzione coi giovani risulta scarsamente efficace, loro conoscono bene i rischi che si corrono. Non si proiettano affatto in un futuro lontano di malattia, di morte o di pelle rovinata per gli effetti della sigaretta. Sono nell’immediatezza e nella sperimentazione. Se un genitore scopre che il proprio figlio fa uso di cannabis (ad es.) deve assolutamente parlarne con lui e se è solo all’inizio del suo utilizzo, è possibile cercare insieme cosa lo abbia portato fino a lì e come fare perché possa uscirne. Come convincere un adolescente a farsi aiutare? È sicuramente l’aspetto più difficile e l’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli sostiene che bisogna affermare subito, senza esitazioni: “La soluzione che hai trovato non è buona, ma ci mostra che c’è una difficoltà” e proporre quindi sia di risolverla insieme che di consultare uno specialista.

In conclusione, Rose Moro vuole dare un messaggio molto chiaro: Genitori, donate limiti e fiducia!

Mindfulness e disturbi del comportamento alimentare: gli effetti terapeutici

Un crescente numero di ricerche suggeriscono che la Mindfulness, intesa come attenzione intenzionale al momento presente in modo non giudicante, possa essere uno strumento di primaria importanza nel trattamento dei Disturbi alimentari.

Francesca Casero, Elisa Covini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Come sottolinea Kabat-Zinn, il fondatore del primo programma di Mindfulness esplicitamente utilizzato per scopi clinici (la Mindfulness based Stress Reduction o MBSR), è curioso notare il fatto che in un mondo che va sempre più veloce, che rende necessaria una sempre maggiore specializzazione a discapito della visione d’insieme, che vede nella produttività il cardine su cui reggersi, pratiche quali la mindfulness che invitano a rallentare, a prendere maggiore contatto con l’esperienza del momento presente e a notare la profonda interconnessione che lega le diverse aree del sapere e della vita, suscitano sempre maggiore interesse. Probabilmente proprio perché il mondo sembra andare sempre più nella direzione opposta alla consapevolezza e sembra non tenere più conto dei ritmi insiti nella natura e nell’uomo stesso, l’utilizzo di pratiche volte a sviluppare la consapevolezza e a riappropriarsi del proprio spazio e dei propri ritmi appare quanto mai necessario. Altrimenti potrebbe arrivare il giorno in cui possiamo avere tutto ciò che vogliamo, ma non avere più né il tempo né la capacità di goderne.” (Chiesa, 2012).

Definizione e applicazioni cliniche della mindfulness

Con il termine Mindfulness, traduzione inglese della parola “Sati” della lingua pali, si intende essenzialmente una “modalità dell’essere, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com’è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente” (Teasdale). Jon Kabat Zinn la descrive come “consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione, momento per momento, nel qui e ora, intenzionalmente e in modo non giudicante, alla propria esperienza”, la quale comprende sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni.

La Mindfulness non è una tecnica ma uno stato attentivo della mente, uno stato di coscienza in cui i pensieri, le emozioni e le azioni vengono liberate dagli abituali e talora automatici schemi di elaborazione che possono attivare e mantenere alcune condizioni disfunzionali, o talvolta patologiche, attuando un progressivo processo di consapevolezza e di decentramento.  «Si possono usare efficacemente delle metafore che aiutano a sviluppare il decentramento, come pensieri che galleggiano sull’acqua o un secchio con dell’acqua agitata, che gradualmente si calma», spiega il dottor Didonna, psicologo e psicoterapeuta, Presidente dell’Istituto Italiano Mindfulness, curatore e autore del libro “Clinical Handbook of Mindfulness” (2009).

Vedi il mondo in maniera diversa. E’ come se tu stessi camminando attraverso una foresta di notte, portando una torcia per illuminare il sentiero. All’improvviso spegni la torcia. Non hai più il fascio di luce puntato sul percorso, ma gradualmente i tuoi occhi si abituano all’oscurità e riesci a vedere tutta la scena. Avevo sempre dato per scontato che le mie emozioni fossero me stessa. Ora invece è come se le stessi osservando mentre nascono e scorrono dentro di me. Ti rendi conto che certe cose che pensavi fossero la tua identità in effetti sono solo esperienze. Sono sensazioni che fluiscono attraverso di te. Inizi a capire che i normali modi di percepire sono solo dei possibili punti di vista fra molti altri. Ci sono altri modi di vedere. Sviluppi quello che i buddisti chiamano l’occhio del principiante, vedi il mondo come lo vede un bambino, consapevole di tutte le cose insieme, senza una selezione e un’interpretazione cosciente».  (Siegel, 2009).

Il concetto di Mindfulness deriva dagli insegnamenti del Buddismo (Meditazione Vipassana), dello Zen e dalle pratiche di meditazione Yoga, ma solo nel corso degli ultimi due decenni questo modello è stato utilizzato come paradigma autonomo in alcune discipline psicoterapeutiche occidentali, in particolare in quella cognitivo-comportamentale.  Fu utilizzata per la prima volta in un contesto sanitario (Dipartimento di Salute dell’Università del Massachusset), nei primi anni ’80, da Jon Kabat Zinn, attraverso un protocollo strutturato della durata di 8 settimane, il Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR).

Attualmente, interventi basati sulla Mindfulness si ritrovano sempre più spesso in setting ospedalieri e ambulatoriali, individuali o di gruppo, e trovano applicazioni cliniche nella prevenzione e la cura di problemi legati allo stress e alle malattie psicosomatiche, nei disturbi d’ansia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nella depressione, nell’abuso di sostanze, nei disturbi alimentari, nelle tendenze suicidarie e nel disturbo borderline, come pure nel caso di disturbi di tipo medico (oncologia, psoriasi, dolore cronico), permettendo lo sviluppo di protocolli e modelli terapeutici validati di provata efficacia tra i quali la Mindfulness-Based Cognitive Therapy, la Dialectical Behaviour Therapy, l’Acceptance and Commitment Therapy e la Compassion Focused Therapy.

La mindfulness nel trattamento dei disturbi alimentari

Anche nell’ambito dei Disturbi alimentari la Mindfulness sta trovando sempre più applicazione come terapia di “terza generazione” ed è inserita in efficaci protocolli di cura quali: Emotion Acceptance Behavior Therapy (Wildes, Ringham, & Marcus, 2010), Dialectical Behaviour Therapy (Linehan, 1993) e Mindfulness Based Eating Awareness Training (MB-EAT, Kristeller & Wolever, 2011), che integra elementi dalla terapia cognitivo comportamentale (TCC) con il protocollo MBSR.

Un crescente numero di ricerche suggeriscono che la Mindfulness, intesa come attenzione intenzionale al momento presente in modo non giudicante, possa essere uno strumento di primaria importanza nel trattamento dei Disturbi alimentari. L’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa e il Disturbo da alimentazione Incontrollata sono infatti accomunati da mancanza di consapevolezza dei propri stati interni, da esperienze di evitamento degli stessi e dal forte desiderio di mantenere un controllo sul comportamento alimentare, sui propri pensieri, emozioni e bisogni/impulsi, i quali vengono, così, evitati e negati.

In questa prospettiva, dunque, tale meccanismo di mantenimento dei sintomi è evidente nel modello della disregolazione emotiva (Linhean, 1993; Telch et al. 2001), in cui il binge eating, la fame emotiva e i comportamenti di compenso rappresenterebbero una modalità di regolazione emotiva disfunzionale che, tuttavia, fungerebbe da rinforzo, permettendo di allontanarsi da esperienze di disagio e sofferenza.

Secondo alcuni studiosi, un meccanismo simile di rinforzo varrebbe anche per il mantenimento di sintomi quali il pensiero dicotomico, l’attenzione eccessiva al controllo del peso e delle forme del corpo e il comportamento restrittivo. Nei Disturbi alimentari, inoltre, si ritrova spesso anche un deficit nel riconoscimento e nella consapevolezza emotiva. Di conseguenza, si ritiene che gli interventi basati sulla mindfulness e sull’accettazione possano avere un effetto positivo nella riduzione dei sintomi, migliorando la capacità di accogliere e gestire adeguatamente emozioni negative, ovvero riducendo i meccanismi di evitamento delle esperienze dolorose, particolarmente significativi nella insorgenza e nel mantenimento dei disturbi alimentari. Maggiore è l’attenzione, la consapevolezza e l’accettazione verso le proprie esperienze, maggiore sembra essere la capacità di sviluppare strategie adeguate di soluzione del disagio e della sofferenza (Katterman et al., 2013). Uno dei processi cognitivi ai quali la minfulness sembrerebbe dovere la sua efficacia è la «disidentificazione», ovvero il distanziamento da pensieri e meccanismi emotivi, cognitivi o comportamentali disfunzionali, che vengono osservati e accettati, ma considerati altro da sé.

Una ricerca diretta da Julien Lacaille, psicologa dell’università canadese McGill in Quebec, ha mostrato come la Mindfulness possa aiutare a ridurre il desiderio irresistibile di alcuni cibi come, ad esempio, la cioccolata (che può divenire una vera e propria dipendenza). Dopo una prima fase di presa di coscienza del proprio desiderio, segue l’accettazione non giudicante che ridimensiona gli eventuali sensi di colpa ed infine il distacco dal proprio desiderio di cioccolata, vedendolo come altro da sé (Lacaille et al., 2014).

Se la mindfulness si è dimostrata efficace nel ridurre il “craving”, la fame emotiva e il binge eating, essa non sembra possa avere un effetto diretto sulla perdita di peso. Sembrerebbe, tuttavia, che tecniche di minfulness focalizzate sull’accettazione dei propri pensieri e stati emotivi e sulla pratica del “Mindful eating” siano efficaci se combinate a strategie comportamentali tradizionali nel raggiungimento di obiettivi ponderali significativi (Forman et al., 2013; Godsey, 2013).

Nell’Anoressia e Bulimia Nervosa, inoltre, la Mindfulness potrebbe rappresentare una qualità della mente molto utile anche alla riduzione del processo cognitivo del rimuginio. Il rimuginio è considerato una strategia cognitiva di evitamento particolarmente presente nell’Anoressia Nervosa, soprattutto nei termini di preoccupazioni ossessive sull’alimentazione, il cibo, il peso, il corpo, giudizi su di sé basati su peso e forma corporea e pensiero dicotomico (cibi sì-cibi no). La mindfulness, in qualità di abilità mentale di osservare i fenomeni cognitivi, fisici ed emotivi in modo non giudicante, rappresenterebbe la controparte del rimuginio e dell’evitamento mentale. In uno studio di Cowdrey et al., (2012) è stata dimostrata l’esistenza di una relazione tra rimuginio su “alimentazione-peso-forma del corpo” e “consapevolezza”. Secondo i risultati di questo studio i soggetti che presentavano buone capacità di “prestare attenzione al momento presente in modo intenzionale e non giudicante”, attuando dunque una disidentificazione dai propri processi cognitivi, avevano minori punteggi di rimuginio su cibo, peso e forme del corpo; viceversa i soggetti con elevata difficoltà ad accettare i propri pensieri negativi avevano maggiori pensieri rimuginanti sull’alimentazione, il peso e le forme del corpo (Albert e al., 2012).

Uno dei primi protocolli basati sulla Minfulness messi a punto nell’ambito dei Disturbi alimentari è il Mindfulness Based Eating Awareness Training (MB EAT, Baer e Kristeller, 2006), un programma d’intervento per la Bulimia Nervosa e il Disturbo da Alimentazione Incontrollata basato sulla meditazione, l’accettazione e la consapevolezza. Esso integra elementi dalla terapia cognitivo comportamentale (TCC) con il protocollo MBSR. Il protocollo prevede 9 sessioni, durante le quali vengono affrontati i temi inerenti alle emozioni, alla possibilità di accettare e gestire alcune emozioni quali la rabbia e il senso di colpa; vengono svolti esercizi di meditazione consapevole sull’alimentazione, sul senso di fame e sazietà, sulla scelta degli alimenti, sulle sensazioni che possono scaturire attraverso il cibo e il gusto; alcuni temi vengono affrontati attraverso la meditazione del perdono e della saggezza. Ciascun incontro prevede una pratica meditativa, la condivisione, la discussione dei temi e l’assegnazione di compiti da svolgere in casa che riguardano per lo più la pratica formale e informale e il pasto consapevole. Gli ultimi incontri sono caratterizzati da una riflessione sulle possibili scivolate e dunque alla prevenzione delle ricadute.

I meccanismi neuropsicologici della mindfulness nei disturbi alimentari

Al fine di descrivere i meccanismi neuropsicologici della mindfulness, Malinowski ha presentato il Liverpool Mindfulness Modell (2013), che descrive minuziosamente cosa accade a livello corticale nelle differenti fasi della meditazione in riferimento per lo più alle funzioni attentive. Il modello fa riferimento a pratiche meditative caratterizzate da specifici processi neuropsicologici (Lutz et al., 2008), quali la modulazione dell’arousal, lo stato di vigilanza, l’orientamento e la selezione degli stimoli. Essi costituiscono 5 differenti ma interattivi networks cerebrali: alerting, orienting, executive, salience, default network.

E’ stato dimostrato che il default network viene attivato involontariamente dalle persone quando la mente è distratta, sogna a occhi aperti, produce pensieri ruminativi sul passato e sul futuro. Durante la pratica meditativa e in particolar modo nella fase di attenzione sostenuta si attivano le aree corticali e cerebrali dell’alerting network mentre quando l’attenzione sostenuta viene meno si attivano le aree raggruppate nel default network.

Le funzioni di monitoraggio dell’attenzione e le aree che costituiscono il salience network garantiscono il riconoscimento di tale condizione di default e dunque di abbandonare lo stato errante (executive network) e di riportare l’attenzione all’oggetto osservato e al momento presente (orienting network).

Gli studi di Luders (Luders et al., 2012) hanno evidenziato come la pratica meditativa possa favorire cambiamenti strutturali a livello corticale. In particolar modo la meditazione può aumentare il numero di girificazioni al livello della corteccia insulare, area particolarmente coinvolta nella regolazione delle emozioni. Studi recenti hanno inoltre evidenziato possibili correlazioni tra disturbi alimentari e alterazioni dell’insula (Franck et al, 2013). In uno studio condotto da Bryan Lask (2011) del Great Ormond Street Children’s Hospital (UK) su un gruppo di 8 donne affette da anoressia nervosa sono state rilevate, attraverso la scansione cerebrale per immagini, anomalie funzionali dell’insula, particolarmente coinvolta nel controllo del proprio corpo, degli stimoli della fame e della consapevolezza enterocettiva (Bryan Lask et al., 2011). Anche per quanto riguarda la bulimia nervosa sono state rilevate in pazienti affette dal tale patologia importanti anomalie morfologiche nel lato sinistro dell’insula antero ventrale. Ovvero, in tutti i soggetti affetti da disturbi dell’alimentazione è stato osservato un aumento del volume della materia grigia della corteccia orbito-frontale mediale e dell’insula (Frank G. et al., 2013). È’ stato dimostrato inoltre che i soggetti con anoressia nervosa presentano una diminuzione della sensitività e della consapevolezza enterocettiva.

Seppur lo stato della ricerca a proposito necessiti di ulteriori approfondimenti, tali studi sembrano supportare il ruolo della mindfulness come strategia terapeutica utile al trattamento dei Disturbi alimentari, facilitando lo sviluppo di un atteggiamento mentale volto alla consapevolezza e di un maggiore senso di padronanza e autoefficacia nei confronti dei propri processi emotivi, cognitivi e di comportamento.

La stimolazione magnetica transcranica (TMS) – Introduzione alla Psicologia

La stimolazione magnetica transcranica, o TMS, è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Introduzione: cos’è la stimolazione magnetica transcranica?

La stimolazione magnetica transcranica, o TMS, è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello.

La stimolazione magnetica transcranica comporta la stimolazione profonda ma non invasiva e indolore del cervello, allo scopo di ottenere risposte in relazione all’area cerebrale stimolata e per modificarne l’eccitabilità e la plasticità.

La stimolazione magnetica transcranica è largamente utilizzata a scopo di ricerca, ma di recente sono stati osservati benefici in ambito clinico, dove è utilizzata per trattare disturbi psichiatrici e neurologici quali la depressione, le allucinazioni, la malattia di Parkinson.

L’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) per essere utilizzata nel trattamento dell’emicrania. Mentre, l’utilizzo della TMS ripetuta (rTMS) è consentito nel trattamento della depressione resistente ad altri trattamenti, sia terapeutici sia farmacologici.

Storia della stimolazione magnetica transcranica

Prima della stimolazione magnetica transcranica si era soliti usare la stimolazione elettrica, attraverso al quale si stimolavano i nervi e i muscoli. La stimolazione elettrica è stata utilizzata per la prima volta nel 1790 da Galvani e Volta. Tramite questa tecnica è possibile rendere le membrane eccitabili: la corrente elettrica iniettata nel corpo tramite superfici o elettrodi impiantati depolarizza le cellule e facilita la comunicazione intracellulare. La stimolazione elettrica si attua, ancora oggi, per misurare la velocità di conduzione dei potenziali di azione dei neuroni e per stimolare i muscoli i cui legami neurali sono stati compromessi e, quindi, se stimolati riescono a produrre contrazioni funzionalmente utili. I parametri tipici di impulso usati per stimolare i nervi superficiali tramite elettrodi di superficie sono di 20mA per 100μsec, e possono raggiungere i 250 volt necessari per guidare la corrente elettrica attraverso la pelle.

Malgrado questa tecnica sia efficace in molte ambiti, la stimolazione elettrica presenta alcuni svantaggi:

  1. può essere dolorosa, poiché durante il passaggio della corrente si avverte una sensazione di fastidio.
  2. è difficile stimolare strutture profonde del cervello umano
  3. parti del cervello mostrano elevata resistenza elettrica, quindi non possono essere trattati adeguatamente.

Di conseguenza, fu ideato un approccio alternativo alla corrente elettrica, pensato per indurre corrente nel corpo utilizzando campi magnetici a tempo variabile. I principi dell’induzione elettromagnetica furono scoperti da Michael Faraday nel 1831 e furono utilizzati per stimolare i nervi e il cervello nel XX secolo.

Questi primi tentativi di stimolazione cerebrale non riuscirono, perché la tecnologia all’epoca disponibile non era in grado di produrre campi magnetici di grandi dimensioni che, al tempo stesso, erano rapidamente mutevoli.

Nel 1976 è stato avviato un progetto nel Regno Unito, presso l’Ospedale Royal Hallamshire e l’Università, con l’obiettivo specifico di stimolare i nervi usando le correnti indotte da impulsi di campo magnetico di breve durata in modo che la risposta elettrofisiologica risultante potesse essere rilevata e consentisse la stimolazione dei nervi periferici.

Nel 1985 Sheffield e il suo gruppo hanno presentato per la prima volta la stimolazione magnetica transcranica. Da allora la TMS si utilizzò sia in ambiti diagnostici sia terapeutici.

La stimolazione magnetica transcranica utilizza un breve ma intenso impulso magnetico per indurre campi elettrici (lesioni), quindi correnti nel corpo, proporzionali al tasso di variazione del campo magnetico.

Se queste correnti sono di adeguata ampiezza, durata e orientamento, allora potranno stimolare le strutture eccitabili con lo stesso meccanismo delle correnti iniettate nel corpo attraverso gli elettrodi impiantati o superficiali. Quindi chiamare questa tecnica “magnetica” non è corretto, poiché il meccanismo su cui si basa è elettrico, ma determina la formazione di un campo magnetico sulla testa del paziente.

La stimolazione magnetica transcranica ha il grande vantaggio, rispetto alla stimolazione elettrica, di essere in grado di stimolare il cervello umano e i nervi periferici senza causare dolore. Il cranio non presenta alcuna barriera perché i campi magnetici relativamente bassi (in genere pochi kHz) lo attraversano senza attenuazione. La stimolazione magnetica è sostanzialmente indolore perché la corrente indotta non passa attraverso la pelle, dove si trovano gran parte delle terminazioni nervose della fibra. Inoltre, le correnti indotte dalla stimolazione magnetica sono relativamente diffuse e di conseguenza non si verificano correnti elevate che, al contrario, si hanno nella stimolazione elettrica. Questa mancanza di disagio consente di essere facilmente utilizzata anche su pazienti e volontari per esperimenti scientifici.

Come funziona la stimolazione magnetica transcranica

La stimolazione magnetica transcranica consta di una serie di coil o elettrodi che si posizionano sulla testa. Il coil fornisce energia elettrica che genera un campo magnetico a livello cerebrale per un breve periodo di tempo (lesione transitoria), che inibisce le funzioni cognitive dell’area stimolata.

Il campo magnetico prodotto riesce a oltrepassare lo scalpo e raggiungere l’encefalo e le strutture cerebrali sottostanti inibendone il loro funzionamento.

Il coil si posiziona sul capo in corrispondenza della regione del cervello di interesse. La variazione del campo magnetico (2,5 Tesla di intensità di 200 μs e durata di 1 ms) evoca un flusso di corrente elettrica che interferisce sulla normale attività cerebrale causando una depolarizzazione dei neuroni. Lo stimolo magnetico produce una risposta sonora, simile ad una serie di clic e una sensazione tipo formicolio sulla cuoio capelluto. La depolarizzazione neuronale può portare all’attivazione di gruppi di neuroni sia prossimi che distanti dall’area direttamente stimolata.

La stimolazione dell’area, inoltre, avviene per via transinaptica, ovvero partendo dalle fibre più sottili per poi raggiungere quelle più grosse dei primi strati della corteccia.

Le strutture più profonde possono anche essere stimolate usando bobine relativamente grandi. Tuttavia i campi elettrici indotti sono sempre più alti quando più vicino è la bobina all’area di interesse

I parametri tipici dell’impulso del campo magnetico necessari per depolarizzare dei nervi includono un tempo di innalzamento dell’ordine di 100μsec, un di picco dell’ordine 1 Tesla e l’energia del campo magnetico di diverse centinaia di joule. I circuiti utilizzati per generare gli impulsi del campo magnetico sono di solito basati su un sistema di scarico di condensatori con correnti tipiche della bobina, con un picco nell’intervallo di parecchi chilowatt e tensioni di scarico fino a pochi chilovolt. La tensione relativamente elevata è necessaria per dare il rapido aumento della corrente desiderato nell’induttanza della bobina stimolante.

Aree terapeutiche della stimolazione magnetica transcranica

La stimolazione magnetica transcranica è usata in ambito neuroscientifico per studiare le funzioni sottese da determinate aree cerebrali. Ai soggetti, partecipanti all’esperimento, è chiesto di eseguire un compito cognitivo e contemporaneamente un coil, posizionato su una determinata area cerebrale, inibisce la funzionalità dell’area in oggetto. In questo modo, si registrano le performance ottenute sapendo che saranno deficitarie, a conferma della funzione cognitiva svolta dall’area stimolata.

Inoltre, la stimolazione magnetica transcranica è utilizzata in ambito clinico. Infatti, essa consente, in generale, il miglioramento della circolazione cerebrale e delle funzioni cognitive.

Verso la metà degli anni novanta è stato riscontrato, in modo del tutto accidentale, come pazienti affetti da patologia neurologica che erano sottoposti a TMS ripetitiva (rTMS) a fini diagnostici, e che presentavano associato un disturbo del tono dell’umore, potessero presentare un miglioramento del quadro depressivo. Queste osservazioni hanno dato l’avvio all’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica come trattamento terapeutico in ambito neuropsichiatrico. Infatti, la TMS, se utilizzata in modo ripetitivo ad alte o basse frequenze, appunto definita rTMS, può indurre e modulare i fenomeni di riorganizzazione neuronale, ed è in grado di facilitare o inibire in maniera determinante i circuiti neuronali responsabili di una determinata funzione o di un determinato sintomo. La stimolazione magnetica transcranica, ancora, ha permesso di aumentare le informazioni sulla patofisiologia dell’ADHD. La stimolazione con stimolazione magnetica transcranica del circuito fronto-striato-cerebellare unitamente al training cognitivo consente di ottenere un miglioramento delle capacità cognitive e una riduzione della sintomatologia

La stimolazione magnetica transcranica è usata in Psichiatria per la cura della depressione e di una serie di sintomi legati all’ansia e all’alimentazione (Bersani, Minichino, Enticott, 2013); in Neurologia è utile per la riabilitazione cognitiva post stroke o trauma cranico, cefalea muscolo tensiva, Parkinson e Tinnitus (Acufene) (Rossi, Hallett, Rossini, Pascual-Leone, 2009).

Per i disturbi sopra indicati si utilizzano dei protocolli di somministrazione in cui la stimolazione magnetica transcranica si applica più volte nel tempo in aggiunta alla psicoterapia. In ogni caso, alla lunga sono stati riscontrati effetti collaterali e transitori come le cefalee o le emicranie.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La (meta)cognizione sociale nel disturbo depressivo maggiore: una review sulle basi neurali – Riccione, 2017

La (meta)cognizione sociale nel disturbo depressivo maggiore: una review sulle basi neurali

E. Mellina, S. Righini, F. Turchi – Scuola cognitiva Firenze, Centro Studi Cognitivi Firenze

 

La cognizione sociale comprende diversi domini e processi alla base dell’interazione umana i cui elementi principali sono: la comprensione emotiva; la percezione sociale; la teoria della mente (ToM); lo stile di attribuzione e l’empatia. La ricerca suggerisce come il Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) sia associato a specifiche alterazioni nella cognizione sociale, presenti soprattutto durante le fasi acute di malattia, in particolare per quanto riguarda la comprensione emotiva. Risulta invece più dibattuta la questione riguardante la presenza o la gravità della compromissione delle abilità socio-cognitive durante le fasi interepisodiche del disturbo.

Un complesso network di aree cerebrali implicate in processi cognitivo-affettivi costituisce la base neurale della cognizione sociale in soggetti sani. In questo circuito fondamentali sono i lobi frontali, in particolare la corteccia prefrontale ventro-mediale (vmPFC), area implicata nella regolazione delle emozioni e nella valutazione della ricompensa, la corteccia prefrontale dorso-laterale (dlPFC) e la corteccia orbito-frontale (OFC), coinvolta nei processi cognitivi superiori e nella regolazione emotiva. Inoltre, è stata rilevata una partecipazione della corteccia cingolata anteriore (ACC) nel monitoraggio del conflitto e nell’integrazione dell’informazione per motivare il comportamento, mentre sono specificatamente reclutati nella percezione delle espressioni facciali anche il giro fusiforme ed il solco temporale superiore. Studi recenti di neuroimmagine hanno esaminato uno dei principali domini della cognizione sociale, la comprensione delle emozioni, in pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore, nel tentativo di individuarne il possibile substrato neurobiologico.

In questo lavoro ci siamo proposti di verificare l’attendibilità dell’ipotesi secondo la quale i deficit di comprensione emotiva sarebbero alla base della compromissione della cognizione sociale e del funzionamento interpersonale presente nei pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore, attraverso la selezione e revisione di articoli pubblicati fino a Agosto 2016 indicizzati su PubMed e PsycINFO abbinando alcune parole chiave.

Dall’analisi è emerso come in fase acuta di malattia sia presente un’iperreattività dell’amigdala di fronte a stimoli negativi la quale potrebbe essere associata a bias negativi durante le fasi automatiche dell’elaborazione emotiva, incluso il riconoscimento delle emozioni, specialmente della tristezza. Al contrario, l’iporesponsività dell’amigdala riscontrata in risposta a stimoli positivi potrebbe derivare da un diminuito coinvolgimento di risorse cognitive nell’elaborare tali stimoli (“effetto mood congruent”). Per quanto riguarda la fase eutimica, i soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore in fase di remissione, rispetto ai controlli sani, mostrano un’aumentata attivazione della dlPFC in risposta a facce spaventate. L’aumentato livello di attivazione della regione dorsolaterale prefrontale è stato interpretato come un meccanismo di controllo corticale volto a compensare le alterazioni a carico delle regioni limbiche, compresa l’amigdala. Alcuni autori hanno evidenziato la presenza di una relazione positiva fra la durata dell’eutimia e l’aumento dell’attivazione della dlPFC destra.

Questi risultati supportano l’ipotesi di un’alterazione nel funzionamento nella OFC sinistra e della dlPFC nel rispondere a stimoli emozionali negativi in fase eutimica che potrebbero costituire un marcatore di tratto della patologia o addirittura rappresentare una vera e propria “cicatrice” dovuta ai precedenti episodi depressivi. Il recupero dell’equilibrio eutimico potrebbe inoltre essere associato ad un maggior funzionamento a scopo compensatorio da parte della dlPCF destra. Anche in studi di resting state (situazione in cui i soggetti non svolgevano nessun compito) o con altri paradigmi sono state confermate le anomalie nelle regioni fronto-limbiche, talvolta persistenti anche dopo la remissione sintomatologica. Inoltre, sia soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore che i loro fratelli sani presentano incremento dell’attivazione nel giro mediale frontale sinistro rispetto ai sani, elemento che potrebbe costituire un tratto endofenotipico di vulnerabilità alla patologia. In aggiunta, dagli studi che hanno confrontato pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore e pazienti con disturbo bipolare è emerso come le alterazioni neurali riscontrate nei pazienti depressi sembrino riconducibili ad un’attivazione disfunzionale di tipo top down, piuttosto che ad una compromissione principalmente sottocorticale, come invece è stato rilevato nei pazienti bipolari.

Complessivamente dunque, i risultati sopra esposti tendono ad evidenziare nei soggetti depressi la presenza di anomalie neurali, funzionali e strutturali, che si manifestano nelle difficoltà a carico della comprensione emotiva e nella tendenza ad interpretare negativamente eventi a valenza neutra o positiva. Queste compromissioni dei processi mentali, fondamentali nella capacità metacognitiva e nella gestione delle dinamiche interpersonali, sono verosimilmente alla base di una deficitaria cognizione sociale nei soggetti depressi. La propensione a leggere in chiave negativa emozioni ed eventi esterni fin dall’infanzia, probabilmente rappresenta a sua volta un fattore di vulnerabilità capace di incidere negativamente sul decorso di malattia, favorendo l’insorgenza di nuovi episodi in età adulta, come ipotizzato ad esempio da Beck a proposito del concetto di “cognitive vulnerability’’.

 

Le terapie solidali: il racconto di un supervisore sulle terapie solidali offerte dalla Scuola Cognitiva di Firenze

La Scuola Cognitiva di Firenze presso il proprio Centro di Cognitivismo Clinico ha organizzato le “psicoterapie solidali” che hanno delle caratteristiche peculiari per migliorare la formazione professionale degli specializzandi e per consentire l’accesso alla terapia a pazienti bisognosi di aiuto e in cerca di un prodotto serio e ben supervisionato.

 

Si tratta, infatti, di psicoterapie offerte a prezzi agevolati di 25 euro condotte da psicoterapeuti in formazione del terzo e quarto anno e supervisionate ogni settimana dai didatti esperti della Scuola. Oltre alla supervisione obbligatoria settimanale gli studenti devono aggiornare costantemente la cartella clinica di quel singolo paziente, anch’essa monitorata dal didatta e conservata nel Centro in cui vengono inseriti i dati relativi al processo terapeutico ed il diario clinico delle sedute.

Quella appena descritta è la fase della “terapia solidale” in cui sono descritti i compiti del terapeuta in formazione ma precedentemente vi è una fase di assessment iniziale anch’essa molto importante che vede il contributo di altri colleghi già formati. Al paziente che ha contattato il Centro per la “terapia solidale” viene fissato, infatti, un colloquio condotto da un terapeuta esperto della Scuola con lo scopo di valutare la problematica psichica e psicopatologica e se essa possa essere gestita da un terapeuta in formazione. Successivamente viene condotta una valutazione diagnostica, da una equipe di colleghi esperti, che sarà finalizzata ad una relazione in cui verranno raccolti i dati emersi nella prima visita, i risultati della valutazione diagnostica ed un orientamento terapeutico.

Queste appena descritte sono le varie fasi della “terapia solidale” che sono vincolanti alla stessa e verso i quali il terapeuta in formazione deve necessariamente attenersi.

 

La supervisione dei terapeuti in formazione

Poi però c’è la supervisione, settimanale, e descriverne alcuni aspetti è per me molto stimolante essendo uno dei supervisori ormai da qualche mese. Il confronto con le difficoltà che ogni terapeuta in formazione incontra sono tante, come è normale che sia, spesso gestite attraverso un utilizzo delle tecniche in un momento in cui ancora non si ha in testa il problema ed il funzionamento del paziente e su cui è mio obiettivo riflettere insieme al terapeuta in formazione. Il ruolo, cioè, del controllo come strategia per gestire la propria ansia che portiamo nella relazione col paziente e come questo emerga chiaramente riflettendoci insieme, aiutando il terapeuta in formazione a decentrarsi rispetto alla situazione problematica in seduta.

Lo stesso modello cognitivo-comportamentale viene visto come una mappa all’interno della quale inserire i vari elementi che emergono dalle sedute con lo scopo di poter giungere ad una più chiara concettualizzazione del funzionamento del paziente, elemento centrale su cui costruire il progetto terapeutico. Questa maggior attenzione su ciò che sta accadendo in terapia emerge durante la supervisione molto chiaramente quando la scelta di una specifica tecnica è conseguenza di una riflessione sul funzionamento del paziente e non staccata da essa. Tecnica che il terapeuta in formazione impara così ad applicare in un setting clinico e per poterla, in seguito, padroneggiare.

La ricerca della novità nel sesso – Le risposte di FluIDsex

Perché siamo sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo nel sesso? (Lee)

 

Caro Lee,

l’essere umano per indole è alla continua ricerca di stimoli nuovi, diversi da quelli che è solito sperimentare. Quando si parla di sesso, si parla di un atto fisico finalizzato al raggiungimento del piacere.

Il conseguimento del piacere può dunque essere così importante per l’individuo da spingerlo verso una continua ricerca della novità in ambito sessuale? Il piacere ha sicuramente un ruolo centrale per quel che riguarda il mantenimento dell’equilibrio psico-fisico dell’organismo, ci basta pensare che a livello neurobiologico esiste un sistema preposto al controllo della sensazione di piacere. È il sistema dopaminergico che, rilasciando il neurotrasmettitore dopamina in risposta ad uno stimolo di ricompensa, come appunto il sesso, permette di raggiungere un elevato tono dell’umore e conseguente sensazione di benessere.

A volte si tende ad etichettare il “nuovo” nel sesso come il trasgressivo o il proibito, condizionati dagli usi e i costumi della società in cui si è immersi. La ricerca della novità in ambito sessuale è invece un possibile modo che abbiamo per soddisfare curiosità e desideri e per sperimentare uno stato di benessere psicologico e fisico.

 

Valentina Orlandi

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Studio dell’effetto di differenti fattori sulla stima della probabilità

Nei processi decisionali intervengono alcuni fattori di cui non siamo sempre pienamente consci ed ai quali non prestiamo sovente attenzione: l’intenzione dei due esperimenti descritti di seguito è quella di verificare l’esistenza di un effetto in grado di modificare la stima della probabilità nei processi decisionali.

Centonze Simone – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Nei processi decisionali intervengono alcuni fattori di cui non siamo sempre pienamente consci ed ai quali non prestiamo sovente attenzione.

L’intenzione dei due esperimenti descritti di seguito è quella di verificare l’esistenza di un effetto in grado di modificare la percezione di una probabilità nei processi decisionali.

Questo effetto rende le proporzioni presentate con un fattore 1/N, per esempio 1/10, percepibili come più facilmente realizzabili – e quindi più probabili – rispetto ad una proporzione matematicamente equivalente, ma presentata con fattori diversi, per esempio 10/100.

In letteratura è possibile individuare altre indagini volte ad individuare questo effetto, (Pighin S., Savadori L., Barilli E., 2011), ed esse lo identificano e lo battezzano effetto “1 su X”; sono proprio questi studi ad aver costituito il nostro punto di partenza.

I numerosi esperimenti riportati in letteratura mirano a comprendere il perché una proporzione venga percepita diversamente qualora si modifichi il modo in cui essa viene presentata; ciò rende necessario capire cosa succede se la proporzione in esame non viene presentata direttamente e sono i partecipanti stessi ad estrapolarla dalle informazioni che gli vengono fornite.

Stima della probabilità nei processi decisionali: esperimento

L’intenzione principale di questo primo esperimento è quella di verificare l’esistenza dell’effetto “1 su x” in un processo che non prevede la descrizione della probabilità da parte dello sperimentatore; i soggetti dovranno infatti estrapolare tale probabilità in maniera autonoma rispetto alle informazioni fornite loro.

L’esperimento assume le fattezze di una stima di una probabilità presentata ai partecipanti sotto forma di un lancio di dado, lancio il cui esito è legato ad un evento emotivamente carico; nel caso specifico, ottenendo come risultato il numero 1 con un dado a dieci facce o un risultato compreso tra il numero 1 e il numero 10 con un dado a cento facce, a seconda del gruppo sperimentale, il soggetto perde i soldi che altrimenti avrebbe ottenuto per la partecipazione alla ricerca (ciò, ovviamente, risulta essere un evento negativo dal punto di vista emotivo ed economico).

Questo aspetto rende i risultati dell’esperimento paragonabili a quelli emersi da altre ricerche effettuate sullo stesso fattore (Pighin S., Savadori L., Barilli E., 2011).

L’esperimento, nella sua prima parte, è stato svolto per intero nel dipartimento di Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento, ed in particolare all’interno delle strutture di ricerca DiSCoF.

Metodo

Si sono offerti volontariamente per prendere parte a questo esperimento 60 soggetti (44 femmine, 16 maschi, con età media di 21 anni), la maggior parte dei quali sono studenti della facoltà di Scienze Cognitive.

Ogni soggetto viene assegnato in maniera casuale ad un gruppo sperimentale: il gruppo 1 svolge l’esperimento con un dado a 10 facce, mentre il gruppo 2 con un dado a 100 facce.

Le prime istruzioni fornite ai soggetti sono la seguenti: “Questo è il dado che dovrai lanciare e questi sono i 5 euro che potresti ricevere per la partecipazione a questo esperimento. Per averli dovrai tirare il dado. Se uscirà [il numero 1( se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 1)/ un numero compreso tra 1 e 10 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 2)] non riceverai i 5 euro“.

L’esperimento prosegue con la richiesta esplicita ai partecipanti di stimare la probabilità di perdere i soldi in palio per l’esperimento, prima di lanciare il dado e constatare quindi il reale esito; questa stima della probabilità avviene mediante la marcatura di un punto su un asse di 10 cm.

I soggetti sono tenuti a delimitare il segmento che rappresenta, secondo loro, la probabilità in questione.

Il dato che possiamo ricavare da queste informazioni è la diretta stima della probabilità, prodotta dal soggetto attraverso le informazioni che gli vengono fornite, e la sua analisi numerica.

La misura ricavata è frutto della rilevazione della distanza fra il punto indicato dal soggetto e il margine sinistro – per convenzione adottato come punto zero – della barra che rappresenta il 100% della probabilità.

Dopo aver lanciato il dado ed aver verificato l’esito del proprio lancio, vengono fornite, solamente ai soggetti che non hanno perso i soldi, delle nuove indicazioni inerenti ad una situazione ipotetica: “In questa seconda parte dell’esperimento ti chiedo di fare una scelta ipotetica. Immagina di poter scommettere l’intera somma di 5 euro o solo parte di essa (es.1 Euro, 2 Euro). La scommessa consiste nel tirare di nuovo il dado, se uscirà [il numero 1 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale1)/ un numero compreso tra 1 e 10 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 2)] perderai quanto hai scommesso, se non uscirà [il numero 1 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 1)/ un numero compreso tra 1 e 10 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 2)] vincerai il doppio di quello che hai scommesso. Quanto scommetteresti?“.

Dalla risposta al quesito sopra riportato, otteniamo una stima della probabilità indiretta che i soggetti ci forniscono tramite l’intenzione di scommettere una certa quantità di denaro: tanto più elevata sarà questa cifra, tanto meno probabile sarà la percezione del rischio legato alla probabilità di un esito negativo del lancio del dado.

Infine viene richiesto ad ogni partecipante di compilare un questionario: The Berlin numeracy test (Cokely E.T., Galesic M., Schulz E., 2012); gli esiti del questionario forniranno indicazioni sulle abilità numeriche, la capacità di visualizzare vividamente le immagini mentali, e la preferenza nell’utilizzo di un canale immaginativo visivo o immaginativo spaziale-verbale di ogni partecipante.

Sarà poi possibile individuare eventuali correlazioni fra queste caratteristiche dei soggetti e le scelte fatte durante la stima di probabilità.

Risultati

I risultati mostrano che, per quanto concerne la probabilità percepita, non ci sono differenze significative tra la condizione 1 o “1 su 10” (M=17.07±11.43) e la condizione 2 o “10 su 100” (M=19.07±10.57), da cui t(55)= -.686, p=.496 .

Anche per quanto riguarda la misura dell’ipotetica scommessa, intenzione comportamentale, non si ottiene una differenza significativa fra la condizione “1 su 10” (M=3.39±1.27) e la condizione “10 su 100” (M=3.83±1.23) t(44)=- 1.18, p=.245.

E’ possibile che non tutta la popolazione venga influenzata dall’effetto che stiamo indagando. Come evinciamo dalla ricerca di settore, infatti, le capacità numeriche influenzano i processi decisionali quando si opera nel mondo dei numeri (Peters E., Västfjäll D., Mazzocco K. 2006).

Per capire se l’effetto “1 su x” è riscontrabile solamente in una popolazione “sensibile” a questo tipo di errore cognitivo, abbiamo provato a verificare se esiste una correlazione tra le capacità di analisi e utilizzo dei numeri e la stima della probabilità; per fare ciò siamo partiti dai risultati del B.N.T: punteggio medio 1.47, deviazione standard 1.15, posizione mediana 1; in seguito abbiamo suddiviso i partecipanti in due gruppi in funzione del risultato ottenuto nella misura della numeracy, rispetto alla mediana dell’intera popolazione: partecipanti con bassa numeracy e partecipanti con alta numeracy.

I partecipanti che abbiano totalizzato un punteggio di 1 o 0 al Berlin Numeracy Test vengono inclusi nella categoria dei soggetti con bassa numeracy, mentre i partecipanti che abbiano totalizzato, nello stesso test, un punteggio da 2 a 4 risultano fare parte della categoria soggetti con alta numeracy. In questo modo otteniamo una divisione della popolazione in due parti, basata sul punteggio al test della numeracy ed un’ulteriore suddivisione del campione in funzione del gruppo sperimentale; la popolazione è frazionata quindi in quattro sottogruppi.

Partendo da una numerosità di sessanta partecipanti, otteniamo un numero di soggetti per ogni gruppo purtroppo molto ridotto: questo sarà uno dei punti di riflessione nella progettazione dell’esperimento 2.

I dati che otteniamo dall’ulteriore suddivisione della popolazione in funzione del punteggio di numeracy sono i seguenti:

  • Nella categoria con bassa numeracy, composta da 31 soggetti, di cui 15 nella condizione “1 su 10” e 16 nella condizione “10 su 100”, non otteniamo differenza significativa nella probabilità percepita fra condizione “1 su 10″( M=21.93±13.98) e condizione “10 su 100” (M=20.56±12.94), t(29)=.284, p=.778.
  • Non otteniamo differenze statisticamente significative nemmeno nell’intenzione comportamentale, condizione “1 so 10” (M=3.29±1.33), condizione “10 su 100” (M=4.00±1.24), t(26)=-1.47, p=.153 .
  • Nella categoria con alta numeracy, composta da 26 soggetti di cui 14 con condizione “1 su 10” e 12 con la condizione “10 su 100”, è significativa la differenza nella probabilità percepita nella  condizione “1 su 10” (M=11.86±3.80) rispetto alla condizione “10 su 100” (M=17.08±6.32), t(24)=-2.6 p=.016.
  • Probabilmente, tuttavia, questo dato è frutto del caso, giacché il numero di soggetti è troppo basso per fornire alcuna certezza. Se, però, ciò non fosse frutto del caso, nell’esperimento 2 ritroveremmo la presenza di questo effetto; l’intenzione comportamentale nella condizione “1 su 10” (M=3.56±1.24) e nella condizione “10 su 100” (M=3.56±1.24), in questa popolazione non presenta differenza alcuna t(16)=.000 p=1.00 .

Discussione

Contrariamente a quanto ci saremmo aspettati, osservando i dati raccolti si comprende facilmente che non viene riscontrata una differenza significativa nella stima della probabilità nelle due categorie; ne consegue che il fattore di presentazione della probabilità non ha influenzato la capacità di stima dei partecipanti, come invece succede in altri esperimenti, dove la probabilità viene descritta dallo sperimentatore ed il soggetto non deve produrla in maniera autonoma, ma solamente elaborarla per poterla valutare. E’ quindi possibile che l’effetto “1 su x” intervenga solamente nell’interpretazione di un probabilità ma non nella produzione/estrapolazione della stessa.

Progettazione del secondo esperimento

Dopo un’ attenta analisi della procedura sperimentale utilizzata nell’esperimento 1, abbiamo cercato di perfezionare alcuni aspetti che, a nostro avviso, avrebbero potuto impedire all’effetto “1 su x” di farci riscontrare la differenza attesa.

La prima variazione che abbiamo inserito nella seconda indagine è la modifica della scala che i soggetti devono utilizzare per stimare la probabilità; nella prima raccolta dati, infatti, abbiamo fornito ai partecipanti una scala formata unicamente da una barra lunga 10 cm, e, come descritto sopra, i partecipanti dovevano segnare il punto che rappresentava la loro stima della probabilità in esame; nel secondo esperimento la scala da utilizzare è una scala Likert con sette gradi, ognuno dei quali corrisponde un etichetta verbale in grado di definire l’evento in analisi.

Ogni soggetto marca dunque il quadratino corrispondente all’etichetta che secondo lui è più adatta a descrivere l’evento in esame. Il valore che possiamo estrapolare dalla scelta del soggetto è quindi assimilabile alla posizione del quadretto lungo la scala, partendo da un 1 per una valutazione estremamente bassa ed arrivando fino a 7 per una valutazione estremamente alta.

Questa modifica del paradigma sperimentale dovrebbe fare in modo che le persone non cerchino una corrispondenza numerica diretta tra il rapporto possibilità di vincere/numero di facce del dado e la lunghezza sulla scala analogica da dieci centimetri (soluzione frequentemente adottata durante la prima fase di laboratorio dai partecipanti, e favorita dal numero di facce dei dadi scelti per l’esperimento); la scala analogica, per i suoi dieci cm di lunghezza, era infatti direttamente sovrapponibile alla proporzione da stimare.

Per questo stesso motivo era nostra intenzione modificare anche il tipo di dado utilizzato nell’esperimento, optando per un dado a sei facce; opzione poi scartata per due ordini di motivi.

Il primo: l’impossibilità di rapportare l’effetto “1 su 6” in un dado a cento facce, mantenendo numericamente uguale la probabilità da stimare.

Il secondo: utilizzando un dado con un grado di familiarità più elevato per i soggetti, non avremmo potuto escludere dai fattori che influenzano un’eventuale differenza fra le stime di probabilità, quali un effetto di affettività o di familiarità legato alla conoscenza pregressa, esperienza del dado (cose che con un dado a dieci facce risultavano molto meno probabili).

La terza ed ultima variazione che abbiamo predisposto per l’esperimento riguarda l’esito del lancio del dado: nel primo esperimento i partecipanti, qualora ottengano un esito di 1, od un numero compreso tra 1 e 10, a seconda del gruppo sperimentale di appartenenza, incassano un esito negativo, cioè perdono i soldi che avrebbero guadagnato per aver partecipato all’indagine.

Nella seconda parte della ricerca, invece, se i partecipanti ottengono come risultato dal lancio del dado il numero 1 o un numero compreso tra 1 e 10, vincono la possibilità di essere estratti in una lotteria con in palio 150 Euro: ciò rappresenta un evento positivo, non più un evento negativo come avviene per il primo esperimento.

Vista la naturale tendenza, osservata nei partecipanti al primo esperimento, a riflettere in termini di possibilità di vincere i soldi o la ricompensa in palio, dovremmo, con questa variazione, incentivare i partecipanti a pensare, durante la stima della probabilità, a una proporzione del tipo 1 su 10 probabilità di vincere, e non, come succedeva nella prima parte, 9 su 10 di vincere.

Risultati

Dai risultati ottenuti dall’esperimento numero 2 otteniamo che non è riscontrabile una differenza statisticamente significativa fra i gruppi sperimentali “1 su 10” (M=2.59±.746) e “10 su 100” (M=2.67±.735), con un risultato al t test di t(115)=-.579 p=.564.

Il campione è dunque così composto:117 risultati esaminati, 59 in condizione “1 su 10” e 58 in condizione “10 su 100”.

Non è stata riscontrata nessuna differenza significativa nemmeno nell’intenzione comportamentale di scommessa: condizione “1 su 10” (M=4.09±3.50), condizione “10 su 100” (M=3.95±2.86), risultato t test t(117)=.245 p=.807 .

Suddividendo la popolazione come nell’ esperimento 1, in base al risultato ottenuto al B.N.T., e quindi al livello misurato di numercy, otteniamo la spartizione dei soggetti nelle fasce di popolazione con bassa numeracy e popolazione con alta numeracy, da qui procediamo per individuare eventuali differenze nelle due popolazioni; risultati B.N.T. :punteggio medio 1.37, deviazione standard 1.11, posizione mediana 1.

Nel gruppo di soggetti a bassa numeracy non otteniamo differenze significative nella stima della probabilità fra condizione “1 su 10” (M=2.51±.790) e condizione “10 su 100″(M=2.73±), t(70)=-1,12 p=.269 ; nemmeno per quanto riguarda l’intenzione comportamentale nella scommessa condizione “1 su 10” 20(M=4.22±3.58) e condizione “10 su 100” (M=4.33±3.08) presentano differenze  statisticamente significative t(70)=-.145 p=.885 .

Neppure all’interno della popolazione con un’ alta numeracy abbiamo differenze significative fra la condizione “1 su 10” (M=2.75±.639) e la condizione “10 su 100” (M=2.60±.577), t(43)=.826 p=.413 per la stima della probabilità e nemmeno per l’intenzione comportamentale nella scommessa, condizione “1 su 10” (M=3.85±3.42), condizione “10 su 100” (M=3.44±2.52), t(43)=.463 p=.646 .

Discussione

Dai dati si evince che non ci sono differenze significative né nelle stime di probabilità dirette, né in quelle indirette (intenzione comportamentale) dovute all’effetto “1 su X” nella produzione di probabilità. Il risultato ottenuto nel secondo esperimento porta a due possibili conclusioni.

La prima: l’effetto “1 su X” non viene attivato da un processo di produzione della probabilità, come invece avviene per un processo di descrizione.

Questo punto, per essere verificato, richiederebbe un’ulteriore indagine, in cui lo stesso paradigma utilizzato in questa ricerca venisse riformulato in chiave descrittiva, cioè fornendo le probabilità ai partecipanti; se l’effetto “1 su X” fosse riscontrato in questa condizione, allora si potrebbe consolidare la teoria dell’esistenza di tale fattore nell’interpretazione di una probabilità solo se descritta, e non se prodotta, come una tesi attendibile.

La seconda possibile conclusione a cui conducono i risultati della nostra ricerca è che l’effetto in questione non agisce nella nostra ricerca perché il paradigma ne impedisce l’azione; potrebbe darsi che il metodo utilizzato per l’indagine blocchi l’insorgere dell’errore di stima dovuto all’effetto “1 su X”; nello specifico, potrebbe accadere che la domanda posta ai soggetti sia indebitamente riferita alla loro percezione della fortuna di ottenere in quel momento il risultato sperato con il lancio del dado, e, di conseguenza, la risposta che noi assumiamo come stima della probabilità potrebbe essere errata.

In entrambi i casi questo è il punto di partenza per la modifica del paradigma di ricerca, in quanto per ottenere dei risultati certi ed affidabili sarebbe opportuno vagliare entrambe le opportunità suggeriteci dalle conclusioni.

Decision from self description

L’aspetto che, a chi scrive, preme maggiormente sottolineare, è che l’esperimento da Noi proposto chiede ai soggetti di estrapolare la probabilità del verificarsi di un evento definito solamente con termini non direttamente riconducibili a tale probabilità; che essi devono quindi estrapolare attraverso la loro esperienza di utilizzo dei dadi; questo processo si colloca esattamente al centro della differenza fra “decison from experience” e “decision from description”, e può essere definito come un processo di “decision from self- description”, in quanto qui non è lo sperimentatore a definire i termini della proporzione, ma è il soggetto stesso ad estrapolarli dalla situazione che si trova di fronte.

Rientrare in uno schema cognitivo di decisione basato sull’esperienza comporta una stima della probabilità differente di quegli eventi che possiamo definire come rari, mentre se il meccanismo applicato nella decisione si basa sulla descrizione dell’evento, allora assisteremo ad una sovra stima della probabilità di eventi che si possono verificare raramente; nel nostro caso, poiché la decisione si basa su uno stile cognitivo che abbiamo definito di auto descrizione, ovvero, una sorta di posizione mediana fra le due modalità di pensiero, come vengono stimati gli eventi rari come una probabilità di 1 su 10?

In letteratura troviamo numerosissimi esempi di studi che, utilizzando due metodologie differenti, individuano la differenza descrizione-esperienza, ma ancora nessun paradigma è parso in grado a creare una condizione simile a quella descritta nell’esperimento dal quale è partita questa riflessione, ragion per cui non sarebbe corretto affermare che il risultato ottenuto individua un formato di presentazione delle probabilità immune dai vari bias cognitivi degli altri due formati in questione; sicuramente possiamo dire che non sono stati riscontrati elementi di distorsione della probabilità come ratiobias, ma nemmeno l’elemento che ha stimolato la ricerca stessa: l’effetto “1 su x”.

Disturbo da Tic con esordio in età evolutiva: tipologie, eziologia e trattamenti

Il disturbo da tic costituisce uno dei disturbi neuropsichiatrici più frequenti in età evolutiva. Con la denominazione tic si intende tutti quei movimenti stereotipati, a-finalistici, che l’individuo compie senza averne il controllo; i tic possono essere transitori oppure cronici.

Alessandra Epis – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena 

 

I disturbi da tic costituiscono uno dei disturbi neuropsichiatrici più frequenti in età evolutiva, si stima infatti che oltre il 10% della popolazione manifesti dei tic nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza (Verdellen C. et al., 2016).

Il tic è un comportamento convulso e involontario ed è considerato un’anomalia che rientra nei disordini del movimento. Con la denominazione tic si intende tutti quei movimenti stereotipati, a-finalistici, che l’individuo compie senza averne il controllo; i tic possono essere transitori (Disturbo transitorio da Tic) oppure cronici (Disturbo persistente da Tic motori o vocali); si possono manifestare in diversi modi e coinvolgere uno o più elementi corporei: gli occhi, la voce o addirittura il comportamento.

 

Diverse tipologie di tic

I tic motori comprendono per esempio smorfie del viso, movimenti del collo, colpi di tosse, ammiccamenti; fanno parte di questa tipologia anche i tic vocali (emissioni di suoni non voluti) che includono per esempio il raschiarsi la gola e lo sbuffare. Quelli appena elencati sono considerati tic motori e vocali semplici perché coinvolgono solo alcuni elementi corporei e sono costituiti da movimenti brevi.

I tic motori possono essere anche complessi quando coinvolgono più elementi corporei e sono costituiti da sequenze di movimenti; ne sono un esempio il battere i piedi, effettuare movimenti mimici, saltare, toccare, odorare un oggetto. Anche i tic vocali possono essere complessi o definiti anche tic comportamentali; ne sono un esempio l’ecolalia (la ripetizione come un’eco di frasi parole o suoni sentiti per ultimi) e la coprolalia (comportamento compulsivo patologico che provoca la necessità esplosiva di pronunciare parole o frasi dal contenuto osceno e/o volgare). Oltre a queste principali tipologie esistono anche i tic distonici (movimenti coordinati consecutivi con un fine inesistente ma presunto), i tic sensitivi (scatenati da una stimolazione esterna, frequentemente riscontrato nelle persone con Sindrome di Tourette) e i tic transitori, riscontrabili più frequentemente in età infantile (DSM-5).

I tic persistenti esordiscono in genere tra i 4 e i 7 anni, raggiungono un picco di intensità in pre-adolescenza, per poi attenuarsi e sparire nella maggioranza dei casi in tarda adolescenza o nella prima età adulta (Verdellen C. et al., 2016).

 

L’eziologia del Disturbo da tic

Alcuni soggetti sembrano essere maggiormente predisposti rispetto ad altri a sviluppare il Disturbo da Tic per via di un’alterazione del gene SLTRK1 nel cromosoma 13; tuttavia non è matematico che a predisposizione genetica segua sempre la manifestazione di un tic nervoso. In altri casi vi possono essere disfunzioni cerebrali e del sistema nervoso centrale che incidono su due neurotrasmettitori: la dopamina e la serotonina, coinvolte nei meccanismi cerebrali di movimento volontario e nella regolazione dell’umore.

Tra le cause di un tic nervoso vi possono anche essere disagi psicologici ossessivo-compulsivi che cercano di contrastare l’ansia verso una situazione determinata oppure ancora vi possono essere implicazioni di carattere neurologico riferite principalmente ai gangli della base (formazioni dell’encefalo che svolgono un importante ruolo nel controllo dei movimenti volontari e non ma anche di alcune funzioni cognitive) (Bear et al., 2007).

I tic causati da malattie neurologiche prendono il nome di discinesie (alterazioni di un movimento), queste possono essere una conseguenza di un danno cerebrale alla nascita, di un trauma al capo, dell’uso di farmaci antiemetici oppure di farmaci utilizzati per trattare problemi psichiatrici (Segen J., 2006).

 

La Sindrome di Tourette

Tra le patologie meglio conosciute caratterizzate da movimenti involontari ed esordio nell’infanzia vi è la Sindrome di Tourette (Disturbo neurologico che prende il nome da George Gilles de la Tourette, il neurologo francese che l’ha descritta per primo nel 1885). Questa Sindrome è caratterizzata da tic facciali, movimenti involontari multipli del corpo, ecolalia e coprolalia; la gravità dei tic può variare da lievi a invalidanti ed il 43% dei pazienti presentano alcune comorbilità come il Disturbo da Deficit d’attenzione e iperattività (ADHD) e il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC); queste condizioni sono spesso secondarie al peggioramento del quadro clinico del paziente ed è fondamentale identificarle e trattarle (Du J.C. et al., 2010).

Le cause della sindrome non sono ancora certe, vi sono fattori genetici e ambientali e si ipotizza esservi un metabolismo anormale della dopamina 4 volte più frequente nel maschio.

I tic di questa Sindrome iniziano durante l’infanzia, l’età più comune di insorgenza è tra i cinque e i sette anni e raggiunge la massima severità intorno ai 10 anni (Leckman J.F. et al., 2006).

In adolescenza i tic si riducono o scompaiono in circa un quarto dei bambini; per quasi la metà di essi i tic si riducono ad una forma lieve, per meno di un quarto di loro invece i tic persistono. Gli adulti invece presentano un peggioramento dei tic rispetto all’età pediatrica in percentuale compresa tra il 5% e il 14% (Du J.C. et al., 2010).

La probabilità di trasmettere il disturbo alla prole è del 50% (Zinner S.H., 2000); solo una piccola percentuale di bambini portatori di geni sviluppano sintomi tanto severi da richiedere cure mediche.

Resta dibattuta l’ipotesi autoimmune che prende il nome di PANDAS (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorders Associated with Streptococcal infections) una sindrome neuropsichiatrica infantile innescata da ripetute infezioni da streptococco non adeguatamente curate che presentano diversi sintomi neuropsichiatrici tra i quali: disturbi del movimento, tic vocali, disturbo ossessivo-compulsivo (pandasitalia.it).

A differenza degli altri disturbi del movimento, i tic di Tourette sono sopprimibili per periodi limitati di tempo e sono spesso preceduti da un impulso premonitore non desiderato di cui i bambini sono meno consapevoli.

Alcuni esempi di impulso premonitore possono essere: la sensazione di avere qualcosa in gola o un disagio localizzato nelle spalle, che portano alla necessità di schiarirsi la gola o di alzare le spalle. Il tic può essere sentito come un modo per alleviare questa tensione o sensazione, simile alla sensazione che si ha dopo essersi grattati per un prurito.

Per via di questi impulsi premonitori i tic della Sindrome di Tourette sono descritti come semi-volontari; le descrizioni pubblicate sui tic identificano i fenomeni sensoriali di Tourette come il sintomo principale della sindrome, anche se esse non sono incluse nei criteri diagnostici (Miguel E.C. et al., 2000).

L’intervento psicoeducativo in aggiunta a quello farmacologico è spesso necessario per aiutare il nucleo familiare e il paziente stesso ad affrontare i sintomi della sindrome.

La prognosi è positiva, solo una minoranza di bambini con la sindrome presentano una serie di gravi sintomi che persistono in età adulta; al momento della diagnosi i tic potrebbero essere al livello massimo di gravità e spesso migliorano in seguito. Indipendentemente dai sintomi le persone con la sindrome di Tourette hanno una durata di vita normale, la condizione non è degenerativa, il quoziente intellettivo non viene direttamente intaccato dalla sindrome, vi possono essere però difficoltà d’apprendimento (Singer H.S., 2005).

 

Fattori ambientali nel Disturbo da Tic

Negli ultimi decenni rispetto all’eziologia del Disturbo da Tic sono stati individuati fattori e condizionamenti ambientali come per esempio un’educazione particolarmente repressiva e rigida che possono portare l’individuo a trattenere tutto quello che prova all’interno di sé in una continua sfida di controllo ed a percepire un senso di insicurezza e inadeguatezza (Verdellen C. et al., 2016).

Quando in comorbilità al Disturbo da Tic vi è anche un Disturbo Ossessivo Compulsivo o Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, è fondamentale intervenire anche su questi aspetti con interventi psicologici ed eventualmente farmacologici così da migliorare la qualità della vita del paziente, ridurre l’incidenza del tic e dei danni correlati.

 

Disturbo da Tic: l’ intervento farmacologico

Per il trattamento farmacologico dei tic semplici e complessi vengono utilizzati generalmente tre categorie di psicofarmaci: le benzodiazepine, gli ansiolitici non benzodiazepinici e i neurolettici, ma in alcuni casi possono essere utilizzati anche gli antidepressivi (Porta M., 1996).

I farmaci più efficaci sono i neurolettici classici come l’aloperidolo ma per i loro effetti collaterali a carico del sistema extrapiramidale vengono spesso preferiti i neurolettici di nuova generazione anch’essi antidopaminergici come il risperidone  o la sulpiride.

Il trattamento farmacologico non “guarisce” i tic ma aiuta la persona a controllarli.

 

Disturbo da Tic: l intervento psicologico

I Disturbi da Tic vengono trattati principalmente utilizzando la tecnica dell’esposizione e della prevenzione della risposta con lo scopo di estinguere i pensieri e i rituali che il soggetto mette in atto per contenere l’ansia e di modificare le credenze disfunzionali e le interpretazioni della persona sulle possibili conseguenze che possono essere scatenate dalle situazioni-problema (Verdellen C. et al., 2016).

Dopo che la persona avrà imparato a conoscere e riconoscere i sintomi del disturbo, ne verrà valutata la frequenza e tipologia anche attraverso questionari auto-valutativi e strumenti standardizzati, verrà poi stabilito un ordine gerarchico delle situazioni che scatenano i sintomi ed i comportamenti disfunzionali. Seguirà poi il trattamento che consiste nell’esporre il paziente ad alcune situazioni ansiogene presentate in maniera crescente sia nel setting terapeutico che nel contesto quotidiano e che lo portano a mettere in atto una serie di rituali. L’obiettivo è quello di portare il paziente ad apprendere che l’ansia gradualmente diminuisce anche senza condotte di evitamento e rituali e che le conseguenze che aveva previsto possono anche non verificarsi; questa ristrutturazione delle interpretazioni delle situazioni-problema e delle conseguenze porta ad una modificazione comportamentale.

Nel caso di pazienti con disturbo da tic in età evolutiva è fondamentale il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare con l’obiettivo di favorire la comprensione dei comportamenti del bambino, fornire strategie per la loro gestione e modificazione e porre attenzione sugli atteggiamenti dei componenti familiari in merito al disturbo ed al soggetto stesso. Risulta controproducente sgridare o spazientirsi in seguito alla manifestazione dei tic perché come in un vortice questo aumenta l’ansia e di conseguenza gli stessi tic. Indispensabile risulta anche nel contesto familiare il monitoraggio delle situazioni in cui i tic si manifestano così da poterle prevedere e quando possibile evitare.

Vi sono due principali modelli di terapia comportamentale utilizzati per trattare il Disturbo da Tic: il trattamento HRT (habit reversal therapy) e la tecnica ERP (Exposure and response prevention).

L’Habit Reversal Training, spesso tradotto come addestramento per la regressione delle abitudini disfunzionali, è ad oggi l’intervento considerato più efficace secondo le ricerche internazionali.

Nell’Habit Reversal Training si affronta separatamente ogni tic, prima prendendone coscienza, poi imparando una risposta competitiva che lo previene.

La tecnica ERP: exposure and response prevention utilizzata principalmente nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo ha come target tutti i tic in una volta e prevede il contatto o esposizione graduale o prolungata con lo stimolo o la situazione che generalmente innesca i sintomi e la prevenzione della risposta, ossia l’interruzione dei comportamenti messi in atto dopo il contatto con lo stimolo o la situazione, per un tempo maggiore di quello generalmente tollerato. Sconfiggendo i tic per un significativo periodo di tempo, il bambino può abituarsi alla sgradevole sensazione premonitrice (allarme-tic), che spesso precede un tic e si placa una volta che si manifesta il tic (Verdellen C. et al., 2016).

Una significativa riduzione dei tic è stata osservata sia con l’Exposure and Response Prevention che con l’Habit Reversal Training. Uno studio controllato ha mostrato che non ci sono differenze fra i due metodi (Verdellen et al., 2004). I risultati hanno suggerito che l’Exposure and Response Prevention è più efficace quando sono coinvolti più tic come nella Sindrome di Tourette, quando invece il bambino ha un solo tic o pochi tic diversi, l’ Habit Reversal Training risulta più appropriato. È consigliabile provare l’altro metodo se quello precedentemente utilizzato non ha portato ad una sufficiente riduzione dei tic (Verdellen C. et al., 2016).

Il gruppo e lo stile genitoriale: comportamenti antisociali in adolescenza

Nel corso dell’ adolescenza si formano spesso gruppi di giovani che mettono in atto comportamenti antisociali o trasgressivi, come l’uso di sostanze psicoattive o la guida spericolata, e azioni violente, contro l’autorità o altri giovani.

 

L’ adolescenza è un periodo complesso a causa dei compiti evolutivi da affrontare, come la costruzione dell’immagine corporea, che non si addice più alla corporatura di un bambino, i rapporti che cambiano all’interno della famiglia, le prime relazioni sentimentali e l’inserimento nel gruppo dei pari.

Nel corso dell’ adolescenza si formano spesso gruppi di giovani che mettono in atto comportamenti trasgressivi, come l’uso di sostanze psicoattive o la guida spericolata, e azioni violente, contro l’autorità o altri giovani. Nel mettere in atto comportamenti antisociali e violenti, il gruppo dei pari gioca un ruolo fondamentale.

Adolescenza e comportamenti antisociali: alcuni fattori scatenanti

In particolare, Fritz Redl sostiene che, durante l’ adolescenza, i leader del gruppo, non sono coloro che possiedono abilità sociali particolarmente rilevanti, ma sono adolescenti che hanno un minore senso di colpa rispetto ai coetanei, cosa che consente di mettere in atto determinati comportamenti antisociali o violenti, facendo da apripista per gli altri membri del gruppo (funzione iniziatoria).

Altri due fenomeni rilevanti all’interno del gruppo per la messa in atto di comportamenti antisociali sono la diffusione della responsabilità e della deindividuazione. In particolare, la diffusione della responsabilità si riferisce a un atteggiamento di un individuo, all’interno di un gruppo, che, a seguito di una condotta trasgressiva o violenta, si sente personalmente meno responsabile. Con il termine deindividuazione si intende quel processo per cui un individuo che agisce in gruppo tende a non considerarsi come singolo, ma come un membro del gruppo relativamente anonimo. Tale fenomeno conduce gli individui a considerarsi meno identificabili e meno responsabili per il proprio comportamento.

Comportamenti antisociali in adolescenza: il ruolo della famiglia e dello stile genitoriale

Questi fenomeni giocano un ruolo fondamentale nella messa in atto di comportamenti antisociali. E’ importante evidenziare come, in adolescenza, il legame con il gruppo sia tanto più esclusivo quanto più ci sono problemi in famiglia, in quanto l’adolescente cerca nel gruppo quel tipo di supporto che non riesce a trovare in famiglia.

Per “stile genitoriale” si intende la modalità educativa con cui i genitori svolgono le funzioni genitoriali e, in generale, si rapportano ai propri figli. In particolare, gli stili genitoriali si distinguono in autorevole, permissivo, autoritario, trascurante/rifiutante. Le dimensioni per le quali questi stili si differenziano tra di loro sono il grado di accettazione/supporto e il grado di controllo/richieste.

  • Stile autorevole: è caratterizzato da un’elevata accettazione e da un elevato controllo. Questi genitori hanno ben chiaro il tipo di disciplina da impartire ai propri figli, verso cui si dimostrano rispettosi ed emotivamente supportivi. Lo stile autorevole rappresenta un importante fattore di protezione, non solo per la messa in atto di comportamenti antisociali, ma anche verso l’esordio di psicopatologie.
  • Stile permissivo: è caratterizzato da un’elevata accettazione e da uno scarso controllo. I genitori permissivi sono disponibili e affettuosi nei confronti dei propri figli, ma sono caratterizzati da uno scarso senso di responsabilità circa le decisioni e le condotte dei figli, fornendo loro poche regole o talvolta nessuna.
  • Stile autoritario: è caratterizzato da una bassa accettazione e da un elevato senso di controllo. I genitori autoritari pretendono obbedienza dai propri figli, senza fornire loro alcuna spiegazione. E’ freddo e distaccato nei confronti dei figli, verso cui adotta uno stile punitivo. Vieno sostiene che lo stile autoritario può avere due conseguenze sui figli: può favorire la messa in atto di comportamenti antisociali e trasgressivi oppure può favorire un ruolo di vittimizzazione tipico di coloro che subiscono atti di bullismo.
  • Stile trascurante/rifiutante: è caratterizzato da una scarsa accettazione e da uno scarso controllo. Questi genitori mostrano un totale disimpegno rispetto alla relazione educativa: forniscono ai figli pochi strumenti di comprensione del mondo e non è emotivamente supportivo nei confronti dei propri figli.

Bobic sostiene che le famiglie che rappresentano un fattore di rischio per la messa in atto di condotte antisociali presentino alcune caratteristiche:

  • Un insufficiente controllo educativo, tipico di uno stile trascurante/rifiutante e permissivo. Queste famiglie pongono pochi o nessun limite, per cui i figli tendono a porsi precocemente in maniera conflittuale.
  • Famiglie iperprotettive, in cui i genitori hanno difficoltà a riconoscere la crescente autonomia dei figli.
  • Episodi ricorrenti di violenza domestica nella coppia genitoriale favoriscono una predisposizione alla violenza, che può essere concepita dai figli come una forma accettata di risoluzione dei conflitti interpersonali.

In generale, per scoraggiare la messa in atto di comportamenti antisociali, assumono un ruolo fondamentale gli interventi di prevenzione condotti, non solo all’interno delle scuole, ma anche nei confronti delle famiglie che si configurano come potenzialmente a rischio.

 

I test neuropsicologici per l’individuazione precoce dell’ Alzheimer

Recentemente un nuovo studio condotto dal neuropsicologo Duke Han, professore associato di medicina presso la Keck School of Medicine dell’Università della South California, suggerisce che i test cognitivi siano anche in grado di rilevare i primi segni di Alzheimer in persone ancora asintomatiche.

 

I cambiamenti biologici sottostanti la malattia di Alzheimer

Molto prima che i sintomi della malattia di Alzheimer diventino evidenti ai pazienti e alle loro famiglie, i cambiamenti biologici legati a tale patologia si verificano all’interno del cervello.

Le placche di amiloidi, che sono raggruppamenti di frammenti di proteine, insieme alle proteine note come tau, si formano nel cervello e crescono, arrivando infine a influenzare e intaccare la funzionalità cerebrale.

La proteina chiamata tau presiede all’eliminazione delle sostanze potenzialmente tossiche all’interno dei neuroni. Se non funziona correttamente, alcune proteine dannose restano all’interno della cellula, facendola degenerare e poi morire.

Questi cambiamenti biologici possono essere rilevati all’inizio del corso della malattia di Alzheimer attraverso la tomografia a emissione di positroni (PET) o l’analisi del fluido cerebrospinale.

Recentemente un nuovo studio condotto dal neuropsicologo Duke Han, professore associato di medicina presso la Keck School of Medicine dell’Università della South California suggerisce che i test cognitivi siano anche in grado di rilevare i primi segni di Alzheimer in persone ancora asintomatiche.

I test neuropsicologici possono individuare precocemente l’Alzheimer

Han e i suoi colleghi hanno condotto una meta-analisi di 61 studi per esplorare se i test neuropsicologici possano identificare la malattia di Alzheimer precoce negli adulti oltre i 50 anni con un funzionamento cognitivo normale.

Lo studio – pubblicato su Neuropsychology Review – ha rilevato che le persone con placche amiloidi presentavano prestazioni peggiori nelle prove neuropsicologiche (nello specifico nella funzione cognitiva globale, nella memoria, nella capacità visuospaziale, nella velocità di elaborazione e nelle funzioni esecutive) rispetto a persone che non presentavano placche amiloidi.

Le placche di amiloidi e la patologia tau sono state verificate da analisi PET o analisi del fluido cerebrospinale.
Lo studio ha anche scoperto che le persone con patologia tau o neurodegenerazione peggioravano nei test di memoria rispetto alle persone con placche amiloidi.

I risultati di questo studio sono rilevanti in quanto a livello applicativo aprono riflessioni in merito all’inclusione di test cognitivi e valutazioni di base neuropsicologiche per il monitoraggio e l’individuazione precoce della malattia di Alzheimer.

Curare i casi complessi. Un seminario di studi con il Dr. Antonino Carcione – Palermo, 7 Giugno 2017

Curare i casi complessi: già dal titolo il seminario condotto a Palermo lo scorso 7 giugno dal Dr. Antonino Carcione, psichiatra, psicoterapeuta, fondatore e direttore scientifico del Terzocentro di psicoterapia cognitiva di Roma, si prospettava fonte di spunti operativi per gli addetti ai lavori che si scontrano quotidianamente con richieste di crescente difficoltà in relazione al buon esito degli interventi terapeutici.

 

L’apertura dei lavori, con la disamina di un caso clinico introdotto dal relatore, delinea fin da subito i temi centrali dell’intero intervento formativo: la diagnosi del disturbo borderline di personalità, lo specifico deficit della metacognizione riscontrabile nel disturbo e i principi su cui si fonda la Terapia Metacognitiva Interpersonale (T.M.I.).

Porre una diagnosi di disturbo borderline di personalità significa indagare due aspetti principali: la dimensione dell’identità e la variabile interpersonale – spiega Carcione – La prima dimensione riguarda l’accurata valutazione di se stessi, la capacità di regolare le esperienze emotive e l’auto-direzionalità ovvero la capacità di mettere in moto piani di azione finalizzati a un obiettivo; la seconda riguarda la capacità di interazione con gli altri, la reciprocità sociale. Per diagnosticare il disturbo, secondo il DSM V, le due dimensioni devono essere moderatamente gravi, rendendo il disagio relativamente stabile e pervasivo. Un disturbo invalidante che spesso si associa ad altri disturbi di personalità, e nel 35% dei casi ad almeno un secondo disturbo.

Identità, autodirezionalità e relazioni interpersonali valide: costrutti che introducono al concetto chiave di metacognizione.

Deficit o assenza di metacognizione, ovvero l’abilità di riconoscere i propri stati mentali e riflettere su di essi, conducono a una varietà di problemi interpersonali: per esempio quando si chiede un cambio turno in maniera violenta è facile vedere confermate le aspettative negative di rifiuto. In generale ciò denota un’incapacità di comprendere gli effetti del proprio comportamento sugli altri.

Curare i casi complessi - Report dal Seminario di studi con il Dr. Antonino Carcione

Il Dr. Antonino Carcione durante il Seminario “Curare i casi complessi”

Analizzare la metacognizione attraverso un buon assessment è fondamentale per impostare un buon trattamento considerata anche la correlazione tra metacognizione e gravità della psicopatologia.

La T.M.I., fondandosi sull’idea che le disfunzioni metacognitive ostacolano la capacità di padroneggiare e gestire la sofferenza psicologica e le relazioni interpersonali, si propone come approccio costruito sulla base dell’integrazione di tecniche differenti, con un chiaro focus sui deficit metacognitivi. La terapia si focalizza sul miglioramento della metacognizione attraverso cinque passaggi fondamentali e l’utilizzo di interventi individuali e di gruppo – continua il relatore.

Cinque passaggi che corrispondono, nel loro declinarsi, all’acquisizione o miglioramento delle capacità di riconoscimento, monitoraggio e integrazione dei propri stati mentali, in modo da aumentare il benessere personale e relazionale, in cui la relazione terapeutica funge da “strumento privilegiato” per le emozioni messe in gioco, le stesse che il paziente mette in atto nelle relazioni quotidiane.

La T.M.I. prevede due livelli di intervento: il primo riguarda la regolazione dell’alleanza terapeutica, la cui solidità è a fondamento del successo di ogni terapia, attraverso per esempio l’uso del contratto terapeutico, mentre il secondo riguarda le strategie volte a ridurre le disfunzioni metacognitive – spiega ancora Carcione – Focalizzando l’attenzione sul secondo livello e i cinque passi che lo contraddistinguono, il terapeuta porterà il paziente a riconoscere innanzitutto le emozioni primarie (il come si sente), quindi paziente e terapeuta procederanno con il secondo passo che consiste nell’individuazione degli stati mentali e del passaggio da uno stato all’altro, concentrandosi su cosa determina tale shift. A questo punto ci si muoverà verso il terzo passo, volto a riconoscere la soggettività del proprio punto di vista per giungere alla promozione del decentramento, ovvero ad aumentare la consapevolezza del proprio ruolo nel determinare i processi interpersonali disfunzionali, e in cui il controtransfert gioca un ruolo importante: ciò permetterà di aumentare le probabilità di ricevere risposte positive dagli altri. La finalità ultima della terapia è promuovere un senso di self agency, ovvero il senso di autodeterminazione rispetto alle scelte di vita.

Una finalità importante, che sancisce l’importanza di superare una visione pessimistica delle relazioni umane e del futuro, un fatalismo e una tendenza alla vittimizzazione basati sulla convinzione di vivere in mondo ingrato e pieno di gratuite ingiustizie.

Cosa fare (e cosa evitare) per essere più creativi

Le personalità creative hanno un dono innato o la creatività si può sviluppare? Studi scientifici evidenziano come i creativi siano, in media, persone normali: tutti noi, quindi, possiamo impegnarci per aumentare la nostra creatività. Ecco come.

 

Gli stereotipi più diffusi, alimentati da alcuni personaggi del mondo dell’arte e dello spettacolo, attribuiscono alle personalità creative tratti stravaganti, bizzarri, al limite della patologia. La creatività è quindi spesso accostata alla nevrosi, all’introversione, al disadattamento. È davvero necessario possedere personalità insolite per essere creativi? La risposta, secondo la scienza, è no.

Personalità creative: chi sono davvero i creativi?

Recenti studi condotti sulle personalità creative evidenziano caratteristiche distanti dallo stereotipo comune.

Anzitutto i creativi, pur essendo in genere anticonvenzionali e indipendenti, possiedono personalità generalmente nella norma (Coon, Mitterer, 2016). Ciò che li caratterizza è l’interesse per la realtà simbolica e per i concetti astratti (come bellezza e verità), mentre non sono particolarmente motivati da obiettivi quali fama e successo: la creatività possiede per loro un valore intrinseco (Sternberg, Lubart, 1995). Le persone con personalità creativa, inoltre, coltivano un numero di interessi maggiore rispetto alla media e sono in grado di connettere le proprie conoscenze non solo per mezzo della combinazione di queste, ma anche usando l’immaginazione e la metafora (Riquelme, 2002). Alla numerosità di interessi coltivati corrisponde un elevato grado di apertura mentale, non solo verso le nuove esperienze (compresi gli stati alterati di coscienza, come le esperienze mistiche) ma anche nell’accettare i pensieri irrazionali e nel mettere in discussione quelli precostituiti e le barriere mentali (Ayers, Beaton, Hunt, 1999). Infine, esiste una scarsa correlazione tra l’aumento del quoziente intellettivo e la creatività: a parità di intelligenza, le persone possono essere più o meno creative (Preckel, Holling, Wiese, 2006).

Come appare evidente, le personalità creative possiedono particolari attitudini ma sono tendenzialmente nella norma (per completezza, il discusso rapporto tra creatività e patologia è approfondito in questo articolo). Anche se non diventeremo mai degli artisti, quindi, tutti noi possediamo un potenziale da sviluppare per essere più creativi.

Come potenziare la propria creatività

Secondo Baer (Baer, 1993), la creatività può essere sviluppata impegnandosi a cercare nuovi o insoliti collegamenti tra le idee, attività che può essere ricondotta al processo di sviluppo del pensiero divergente. Il pensiero divergente è caratterizzato da tre elementi:

  • Fluidità – corrisponde al totale dei suggerimenti che riusciamo a immaginare per la risoluzione di un problema
  • Flessibilità – si identifica come la capacità di spaziare, relativamente all’utilizzo di un oggetto, da una gamma di usi possibili (anche fantasiosi) a un’altra
  • Originalità – rappresenta la misura in cui le idee generate possono essere considerate nuove o inconsuete.

In sintesi, se nel pensiero convergente esiste una sola, migliore soluzione a un problema, il pensiero divergente o creativo è aperto alle novità e alle possibilità, senza che una di queste escluda o pregiudichi un’altra (la differenza tra pensiero convergente e divergente è approfondita in questo articolo).

Lo studioso Mihalyi Csikszentmihalyi (1997) ha inoltre messo a punto una serie di suggerimenti volti a incentivare lo sviluppo del pensiero creativo. Tra questi troviamo:

  • Sorprendere e sorprendersi – possibilmente ogni giorno, siamo invitati a riscoprire la capacità di fare sorprese agli altri e trovare qualcosa che possa sorprendere noi stessi
  • Approfondire e appassionarsi – se scopriamo l’interesse per qualcosa, dovremmo perseguirlo e cercare di approfondire l’argomento. Inoltre, dovremmo dedicare più tempo a fare ciò che è in linea con le nostre aspirazioni e meno a quello che non amiamo
  • Impegnarsi e cercare sfide – se intraprendiamo un progetto, dovremmo cercare di portarlo avanti nel miglior modo possibile: è importante fare bene le cose e avere sempre nuovi stimoli
  • Rilassarsi – dedicare il giusto tempo al rilassamento e alla riflessione
  • Aprire la mente, cercando di considerare uno stesso problema dal maggior numero possibile di punti di vista.

Il pensiero creativo è fortemente connesso con la motivazione intrinseca, cioè la voglia di fare qualcosa per il semplice piacere di farlo (può accadere con una passione, ad esempio per la fotografia o per la musica). Ciò significa che, anche in ambito lavorativo, la creatività è più stimolata quando svolgiamo attività che riteniamo interessanti e non quando siamo motivati esclusivamente da fattori estrinseci quali il denaro. Da cosa dovremmo stare alla larga, quindi, per essere più creativi?

I freni della creatività sul lavoro

Come appena introdotto, le personalità creative e la creatività possono essere in alcuni casi inibite. Amabile (Amabile, Hadley, Kramer, 2002) ha individuato alcuni ingredienti deleteri per questa in ambito lavorativo, tra i quali ritroviamo:

  • Il lavoro sotto sorveglianza o sotto pressione (ad esempio, di scadenze troppo ravvicinate)
  • Attività lavorative svolte in presenza di regole stringenti o che limitano fortemente l’autonomia di scelta
  • Lavorare solo per migliorare la valutazione che ne conseguirà
  • Lavorare con l’obiettivo principale di incrementare il proprio reddito.

Soprattutto nei lavori in cui si richiede creatività, è importante quindi che i manager considerino che conoscere e supportare gli interessi, le passioni e le aspirazioni dei propri collaboratori può essere efficace quanto un aumento di stipendio.

Creatività a portata di mente!

Abbiamo visto come le personalità creative siano personalità appassionate, affascinate dai simboli, interessate, aperte: qualità lontane dall’atipicità e dall’eccentricità di solito attribuite dagli stereotipi.

Tutto questo è interessante perché riconosce a tutti la possibilità di essere più creativi. La ricetta è complessa, ma realizzabile: occorrono sorprese (per sé e per gli altri), interessi autentici e coltivati, passioni, sfide costanti, impegno, rilassamento e apertura mentale. Dovremmo inoltre evitare di lavorare sotto pressione, oppressi da troppe regole, con il solo scopo di essere riconosciuti nel nostro valore. Da ultimo, è il caso di ricordare che i soldi non fanno la…creatività!

Riflessioni sulla memoria a partire dalla visione del film Moglie e Marito (2017)

Moglie e Marito è il titolo di un film di Simone Giordano, recentemente nelle sale: la visione del film è un ottima occasione per riflettere sul ruolo della memoria nelle nostre vite.

 

Moglie e Marito è il titolo del film di Simone Giordano, uscito recentemente nelle sale e che vede protagonisti Sofia (Kasia Smutniak) e Andrea (Pierfrancesco Favino), sposati da dieci anni con due figli piccoli. Lui è un neurochirurgo impegnato in una ricerca sperimentale, un macchinario in grado di collegare due cervelli con obiettivo la trasmissione di immagini da una mente all’altra. Lei un opinionista, presentatrice televisiva .

La felicità dei primi anni ha però lasciato posto ad una vita cadenzata da ritmi frenetici, incomprensioni e frustrazioni, tanto che i due non riescono più a comunicare e il film evidenzia la cosa aprendo con i due alla prima, e si fa intendere anche l’ultima, seduta di terapia di coppia. Sarà il progetto di Andrea a smuovere gli animi invece, infatti senza intenzione questo macchinario trasporterà l’uno nei panni dell’altra o meglio, sovrapporrà la memoria di uno sulla memoria dell’altro.

Moglie e Marito: come le esperienze passate modellano il presente

Siamo abituati a pensare, ma soprattutto a considerare la memoria, come un fenomeno che, per realizzarsi, ha bisogno della partecipazione cosciente della nostra mente. In realtà̀, la maggior parte degli avvenimenti, delle esperienze, degli eventi che hanno plasmato la nostra mente sono per lo più inconsci. Le nostre esperienze precoci modellano la mente e ciò̀ che siamo, il nostro modo di comportarci ed in maniera decisiva, le nostre relazioni. Di tutto questo, spesso non siamo in grado di rievocare l’origine, non ne possiamo avere un ricordo consapevole, poiché́ fino a circa due anni di età̀, non si sono ancora sviluppate nel nostro cervello quelle strutture come l’ipotalamo e l’amigdala che presiedono alla formazione dei ricordi coscienti.

La memoria dunque, non è solo la possibilità̀ di ricordare il nostro passato in modo consapevole, ma è anche l’insieme dei processi in base ai quali gli eventi accaduti in un tempo anche molto lontano, influenzano le nostre risposte future.

Gli elementi del nostro passato determinano il nostro modo di leggere ed interpretare la realtà attuale, condizionano le nostre relazioni, si ripercuotono sul presente. A partire dai primissimi momenti della vita, anche quella intrauterina, il nostro cervello è in grado di rispondere alle esperienze, interne ed esterne all’organismo stesso, e di modificare attivamente i collegamenti tra i neuroni cambiandone la struttura. Queste connessioni neuronali rappresentano “l’impalcatura del cervello” e si ritiene siano la base che ci permetterà̀ di ricordare le esperienze. Non solo. Queste connessioni svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo della mente che sarà̀ essenziale per l’evoluzione del cervello stesso il quale, per tutta la vita, continuerà̀ a cambiare e a modificarsi.

Sono dunque le esperienze che generano la complessa rete di connessioni neuronali unica e tipica di ciascun individuo. In questo modo sono le esperienze e la memoria che incameriamo di esse e definiscono ciò̀ che siamo.

La memoria è quindi un insieme di cambiamenti che avvengono all’interno della complessa rete di connessioni neuronali che, quando vengono attivate contemporaneamente, creano legami tra loro di tipo associativo.

L’esperienza cosi intesa provoca l’attivazione di meccanismi genetici che generano nel cervello modificazioni sostanziali della sua rete di connessioni interne, ovvero, la memoria.

In questo senso appare inutile distinguere la “natura” e la “cultura” come responsabili separatamente dello sviluppo del cervello umano; memoria e sviluppo sono due processi sovrapposti, le esperienze contribuiscono a plasmare le strutture cerebrali che, alla nascita, sono presenti ma in via di maturazione. Il patrimonio genetico di cui ogni individuo è dotato, è in parte responsabile di come i neuroni si collegheranno tra loro, ma è altrettanto vero che, attivando i geni, le esperienze determinano ed influenzano il modo in cui queste cellule si assoceranno.

Per tutta la vita noi continuiamo ad imparare ed a ricordare. Per tutta la vita il nostro cervello è in continuo sviluppo.

Le modalità̀ con cui il processo della memoria si attiva, o meglio si attivano questi circuiti neuronali, sono alterazioni biochimiche, segnali chimici quindi, attraverso i quali si rafforzano le associazioni tra neuroni per la registrazione a breve termine delle informazioni. Stessa cosa accade per l’immagazzinamento dei ricordi a lungo termine. Ciò̀ che viene “archiviato” dal cervello e nel cervello, non sono “cose” reali, bensì̀ attivazioni di diversi profili neurali. La memoria non è un’entità̀ statica ma è il risultato di una serie di processi rappresentazionali attivi e dinamici.

Memoria esplicita e memoria implicita

Non possediamo un unico tipo di memoria; sono due sostanzialmente le forme di memoria che possediamo, una memoria implicita ed una memoria esplicita.

La memoria implicita dà vita a delle connessioni neuronali coinvolte nella creazione delle emozioni, nella generazione di risposte comportamentali, di sensazioni somatiche. Si tratta di una forma di memoria presente alla nascita, precoce, non verbale che non è associata all’esperienza soggettiva interna di “ricordare qualcosa”. In questo tipo di memoria, i processi di registrazione non richiedono un’attenzione conscia, non abbiamo la sensazione né la consapevolezza di vivere un’esperienza che trova origine negli avvenimenti del passato. Accade che emozioni, percezioni comportamenti, sensazioni fisiche legate a modelli mentali inconsci, possono condizionare ed influenzare il nostro modo di vivere nell’attuale, influire sulle nostre scelte, determinare le nostre esperienze del presente senza renderci conto di ciò̀ che le ha generate.

L’influenza del nostro passato torna prepotentemente a condizionare il presente senza che il nostro cervello abbia la benché́ minima consapevolezza dei meccanismi impliciti che sottendono la registrazione di ricordi ed esperienze vissute.

Con il trascorrere del tempo e l’accumularsi delle esperienze, il cervello del bambino acquisisce progressivamente la capacità di riconoscere differenze e somiglianze e, attraverso progressive generalizzazioni, la sua mente è in grado di costruire dei “modelli mentali” o “schemi” che serviranno per interpretare il presente e prevedere il futuro. Sulla base di questi schemi, la nostra mente organizza gli eventi attribuendo rapidamente dei significati alle cose che ci accadono.

La possibilità̀ di valutare velocemente le situazioni ed intuire ciò̀ che ci riserva l’immediato futuro, protegge l’individuo e preserva la specie.

In ogni momento il nostro cervello valuta, analizza ed elabora il mondo esterno come anche quello interno al soggetto stesso.

Attraverso la memoria, possiamo “ricapitolare” e ricondurre gli eventi attuali a quelli del passato ed in questo modo provare a classificarli attribuendo loro un significato. Attiviamo i nostri schemi mentali per comprendere le esperienze, la possibilità̀ di prevedere quelli che saranno gli avvenimenti immediatamente successivi, ci permette di reagire con maggiore sollecitudine e, parallelamente, ci aiuta ad organizzare prontamente le risposte più̀ adeguate per affrontare le situazioni.

La capacità di anticipare cosa accadrà̀ in futuro, di prevedere e di fare programmi può̀ essere considerata una componente essenziale della memoria esplicita.

A partire dal secondo anno di vita si sviluppa nel cervello una regione chiamata ippocampo, associata alla formazione di specifici nuovi circuiti neuronali che creano una seconda forma di memoria, quella chiamata “memoria esplicita”. Questa forma di memoria si divide a sua volta in altre due forme denominate “memoria semantica”, che include la conoscenza di parole, dati e simboli, e “memoria autobiografica” che riguarda il senso di sé e del tempo.

Perché́ questa memoria si sviluppi, c’è bisogno che il cervello ed in particolar modo la corteccia prefrontale e l’ippocampo siano arrivati ad una sufficiente maturazione. Questa memoria, inoltre, è ovviamente associata all’esperienza soggettiva interna di “ricordare qualcosa” ed i processi di registrazione degli eventi e delle informazioni richiedono un’attenzione cosciente.

Dimenticare è importante, tanto quanto ricordare… a tale proposito, si racconta che Pico della Mirandola (citato per la sua portentosa memoria, sembra infatti sapesse recitare la divina commedia dall’ultimo verso al contrario) sostenesse di “voler conoscere il segreto per poter dimenticare”.

La possibilità̀ di dimenticare è un aspetto determinante della memoria esplicita, poiché́ se dovessimo ricordare tutte le parole, i fatti, le situazioni, i dati che stimolano la nostra mente ogni secondo della nostra vita, la memoria verrebbe sommersa e le sue funzioni certamente compromesse.

Soltanto le esperienze accompagnate da un coinvolgimento emotivo e che risultano essere significative per il soggetto o di una qualche utilità̀, vengono trattenute e trasferite dalla “memoria di lavoro” (memoria a breve termine) alla memoria a lungo termine come tracce consolidate. Queste informazioni, catalogate come importanti, hanno quindi una buona probabilità̀ di essere richiamate e rievocate nel momento in cui ne dovessimo aver bisogno.

Ecco allora, ancora una volta, che sono le emozioni, questo complesso stato della mente, che tornano protagoniste della nostra vita mentale. Soltanto quando siamo coinvolti in un elevato stato emozionale e la nostra attenzione è massima che possiamo ricordare le informazioni che giungono al nostro cervello.

Il cervello, infatti, valuta in molti modi il significato degli stimoli, pensiamo però che esperienze eccessivamente emozionanti, come per esempio situazioni terrorizzanti, possono stimolare meccanismi contrari e potare ad un’inibizione dei processi di memorizzazione bloccando l’immagazzinamento e la conseguente possibilità̀ di rievocazione del ricordo.

Quando questioni del passato non sono state elaborate e risolte e pertanto rimangono in sospeso nella nostra mente, tenderanno a tornare in modo intrusivo nella nostra vita attuale esercitando un’influenza profondamente disorganizzante sia nella nostra vita interiore come anche nelle nostre relazioni, soprattutto quelle maggiormente significative.

Quando l’individuo diventa adulto senza aver avuto la possibilità̀ di elaborare le esperienze infantili che hanno indotto paura, terrore, stress ed ansia, potrà̀ da questi ricordi essere profondamente condizionato; questi continueranno a riemergere e ad interferire significativamente con la sua vita e compromettere a volte irrimediabilmente, il suo rapporto con gli altri.

Le questioni lasciate in sospeso, mai o quasi mai, perdono la loro valenza emozionale, in particolar modo quelle scaturite da esperienze negative o dolorose.

Le persone che non riescono a chiarire l’origine di determinate reazioni emotive a fronte di specifici loro comportamenti e non possono comprendere, dunque, l’origine di certe loro reazioni, possono restare “imprigionate” in modelli e schemi mentali rigidi e inefficaci.

Quando i nostri ricordi ci rievocano questioni del passato lasciate irrisolte, perdiamo la possibilità̀ scegliere la vita che vogliamo vivere. Possiamo solo sperimentare come il passato torna prepotentemente a condizionare il presente senza che noi riusciamo ad arginarne gli effetti.

Le esperienze del presente sono plasmate dai nostri ricordi ed il nostro futuro compromesso dalla impossibilità di organizzare liberamente le nostre azioni ed i nostri pensieri. La sceneggiatura del film apparentemente può sembrare un piatto riscaldato ma in effetti pone la sua base su qualcosa di reale, la sovrapposizione delle memorie, perché come spiega Andrea alla fine del film “è la memoria che fa di noi ciò che siamo”.

 

Moglie e Marito (Trailer):

 

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