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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’ansia e l’intolleranza dell’incertezza sono visibili a livello cerebrale?

La ricerca di riferimento è stata pubblicata dall’American Psychological Association (APA) e ha rivelato che le persone particolarmente preoccupate per l’incertezza del futuro e le sue potenziali minacce potrebbero presentare uno striato più grande rispetto alla norma.

 

La relazione tra intolleranza all’incertezza e ansia

L’intolleranza dell’incertezza, come affermato nel modello cognitivo teorico dell’ansia (Sassaroli & Ruggiero, 2002), è tra le credenze centrali dell’assetto di soggetti ansiosi. Essa è caratterizzata da un’eccessiva preoccupazione per ciò che è imprevedibile, incontrollabile e senza possibilità univoche d’interpretazione. Si tratta di una distorsione cognitiva legata all’idea di pericolo, che comporta il rimuginio a scopo previsionale. In particolare, le relazioni di causa-effetto avvengono rispettivamente in quest’ordine: intolleranza dell’incertezza, rimuginio e stato ansioso.

Tale credenza, inoltre, implica come conseguenza logica la catastrofizzazione, incidendo negativamente e pervasivamente nella vita quotidiana. Dunque, essa necessita di una ristrutturazione cognitiva della credenza “se il mondo è incerto, allora esso è pericoloso”, attraverso la constatazione che l’incerto non significhi necessariamente esito negativo (Ruggiero, 2012).

L’intolleranza all’incertezza e i correlati cerebrali

Alla luce di ciò, si rivela interessante uno studio che consentirebbe di individuare soggetti caratterizzati da intolleranza dell’incertezza attraverso la valutazione del volume dello striato, area cerebrale già associata da tempo al disturbo d’ansia generalizzato (DAG), consentendo di delineare nuovi trattamenti preventivi di tale disturbo.

La ricerca di riferimento è stata pubblicata dall’American Psychological Association (APA) e ha rivelato proprio che le persone particolarmente preoccupate per l’incertezza del futuro e le sue potenziali minacce potrebbero presentare uno striato più grande rispetto alla norma.

Lo studio, condotto da Justin Kim, coinvolgeva 61 studenti che avevano scansionato con MRI il loro cervello dopo aver compilato un questionario per misurare la loro abilità di tollerare l’incertezza di potenziali eventi futuri negativi. Confrontando le scansioni MRI con i punteggi di tolleranza dell’incertezza, è emersa una correlazione positiva tra quest’ultima e il volume di materia grigia dello striato, cosa che non si manifestava per altre aree cerebrali.

Nonostante lo striato fosse stato già associato al disturbo d’ansia generalizzato o a quello ossessivo compulsivo (DOC), nessuna ricerca precedente aveva rintracciato un’associazione tra quest’area e l’intolleranza dell’incertezza in soggetti sani. A partire da questi risultati, tale regione potrebbe considerarsi un marker biologico del bisogno di predicibilità di un evento; infatti, oltre a un ruolo nelle funzioni motorie, essa codifica l’attesa di una ricompensa per un determinato comportamento mentre si apprende un compito nuovo. Dunque, in quest’ottica, l’intolleranza dell’incertezza si configurerebbe come il desiderio di maggiore predicibilità.

I punti forti di questa ricerca sono principalmente due: offrire una nuova tipologia di trattamento per i sintomi di DAG o OCD monitorando l’attività e il volume dello striato nel corso della terapia; e identificare, in fase preventiva, i soggetti sani a rischio di sviluppare le psicopatologie appena citate.

6° Corso internazionale Nuove frontiere nella cura del trauma, Venezia, 2017 – Intervista a Dolores Mosquera

L’istituto Canossiano di Venezia ha ospitato dal 19 al 21 Maggio 2017 la VI edizione del corso “Nuove Frontiere nella cura del trauma” organizzato da associazione AreaTrauma e ha visto la partecipazione di Dolores Mosquera, Natalia Seijo e Giovanni Tagliavini.

 

Come intervenire sulle memorie traumatiche

Questo corso di alta formazione si colloca senza soluzione di continuità con quanto emerso nei cinque corsi precedenti e per la prima volta quest’anno viene trattata la fase II del trattamento: l’elaborazione delle memorie traumatiche nel PTSD complesso e nei disturbi dissociativi.

Giovanni Tagliavini presenta il seminario e le docenti provenienti dal centro specialistico INTRA TP, operante in Spagna.

Si percepisce la presenza di una rete internazionale in costante scambio e aggiornamento, ma nello stesso tempo si respira un’atmosfera familiare. Sin dai primi interventi il gruppo si presenta composto da persone con orientamenti, aree di lavoro e background diversi, pronte a sviluppare ed integrare le loro conoscenze nell’ambito del trauma complesso.

Dolores Mosquera, molto apprezzata nelle edizioni precedenti per la sua capacità di condividere attraverso la sua esperienza clinica concetti complessi e sempre in evoluzione, presenterà quest’anno la parte principale del corso. Esordisce collocando l’elaborazione dei ricordi traumatici al centro del suo approccio progressivo trifasico, già descritto in precedenti contributi sul tema, ma ribadendo come questo modello possa risultare artificioso se accettato rigidamente. Sostiene infatti come nella pratica questi processi debbano essere sempre contemporaneamente in divenire e simultanei. Già dall’inizio (fase I di riduzione dei sintomi e di stabilizzazione) alcune domande del terapeuta, infatti, insegnano al paziente a guardarsi dentro affrontando e regolando la tipica reazione fobica (fase III di integrazione e riabilitazione della personalità). Nella fase finale del trattamento sarà da potenziare ulteriormente l’integrazione, nonostante molti tendano in questo momento a lasciare la terapia perché stanno meglio e riescono a regolarsi.

Basandosi sull’idea oramai condivisa di Dissociazione Strutturale, ci propone il modello dell’elaborazione adattiva (AIP) come cornice teorica per comprendere quali elementi siano adattivi e quali no: Il comportamento dissociativo, risorsa che permette di sopravvivere mantenendo distante il dolore, diventa un problema perché il conflitto interno tra le parti dissociate nel tempo cresce sempre più di complessità.

Vengono proposte alcune specifiche tecniche da lei ideate che, seguendo questa base teorica, possono venire integrate in diversi approcci e strumenti utilizzati nell’elaborazione delle informazioni immagazzinate in maniera disfunzionale. Esse possono essere sia generate dall’esterno, che dall’interno: è proprio questo conflitto che si crea tra le diverse parti dell’individuo, con tutte le emozioni che ne conseguono e che non comunicano tra loro in maniera adeguata rispetto ai propri bisogni e scopi, che manda l’intero sistema in “cortocircuito”, creando confusione e blocco.

Quando il paziente riesce ad autoregolarsi ed a tollerare le proprie sensazioni fisiche, per lo meno in seduta grazie all’attenzione condivisa sul qui e ora con il terapeuta, sarà quest’ultimo a dover superare le proprie di paure “è troppo presto, è ancora fragile, lo sovraccarico e potrei farlo stare ancora peggio..” agendo sulle esperienze disturbanti e tenendo sempre in considerazione come si è organizzato il sistema di conseguenza. Dietro ad ogni suo intervento c’è la costante convinzione che non si debba interpretare, bensì comprendere insieme alla persona cosa le stia accadendo, quale funzione possa avere qualunque sua reazione apparentemente insensata e nociva e soprattutto se sia positivo per lei continuare in quella sessione o sia preferibile fermarsi. Sarà proprio la possibilità di poter condividere con qualcuno che rimane calmo di fronte a qualunque evento, che si impegna ad affrontarlo insieme rispettando il fatto che non ne voglia parlare in quel momento, l’esperienza correttiva principale. Per fare ciò il terapeuta deve sempre comunicare con l’intero sistema, deve costruire un’alleanza con tutte le parti, con quelle più problematiche, deve essere sufficientemente buona così che “ascoltino” e permettano di lavorare su tematiche più dolorose. Deve anche insegnare al paziente a dialogare con tutte le parti, in modo da potenziare l’integrazione dell’intero sistema.

Nell’ affrontare le memorie traumatiche, il compito del terapeuta sarà quindi quello di comunicare con l’intero sistema e di incoraggiare il paziente a fare lo stesso. Insegnandogli ad ascoltarsi interamente e a verificare che ogni sua parte sia d’accordo con quello che sta accadendo in seduta.

Il trauma e i disturbi alimentari

Natalia Seijo arricchisce ulteriormente il quadro ponendo l’attenzione sulla caoticità dell’esperienza interna spesso presente in persone affette da disturbi alimentari. Il legame tra queste problematiche, traumi, attaccamento e dissociazione è reso chiaro attraverso coinvolgenti esempi di sedute, dove si comprende come diverse esperienze traumatiche infantili avvengano spesso in ambienti che tendono a non proteggere e trascurare i bambini. E’ proprio questa mancanza di figure di riferimento in grado di dare sicurezza che spinge il bambino a cercare una qualche forma di “base emotiva” alternativa. Ecco che il cibo si trasforma in un elemento dissociativo, nel senso che diventa una scappatoia da una realtà dolorosa.

Le persone che soffrono di disturbi alimentari risultano così difficili da trattare perché sin da piccole hanno imparato ad innalzare molte difese (ad esempio autocriticandosi in maniera patologica così da imparare a non farsi scalfire dalle critiche esterne) che proteggono le proprie parti emotive più dolorose e temute (ad esempio “il/la bambino/a che non hai mai potuto essere a causa delle eccessive responsabilità richieste dall’ambiente circostante). Proprio per questo è importantissimo con questi pazienti validare la loro esperienza quando le difese si abbassano un po’ lasciandoci avvicinare a queste parti così fragili e nascoste, è importante infatti che quando ciò avviene loro si sentano finalmente capiti. Si propone in seduta l’occasione per integrare questa nuova esperienza emotiva condivisa: la regolazione emotiva che avviene tramite la relazione terapeutica permette al paziente di percepire, accettare e verbalizzare le proprie sensazioni somatiche e integrarle in una visione di sé più funzionale.

Le tre giornate, seppur impegnative e ricche di nozioni, esercitazioni e riflessioni, scorrono piacevolmente. Aumentano le conoscenze e la rete di persone che si interessa e si applica in quest’ambito così intuitivo da una parte, ma anche complesso e sorprendente dall’altra.
I lavori in piccoli gruppi, da citare un confronto molto interessante coordinato da Giovanni Tagliavini sulle sovrapposizioni e distinzioni tra disturbi dissociativi e psicotici, permettono un atteggiamento propositivo e curioso nei partecipanti, base per potenziali ulteriori sviluppi nel lavoro clinico e nelle prossime edizioni di questo incontro primaverile a Venezia.

L’intervista a Dolores Mosquera

Di seguito l’intervista a Dolores Mosquera, esperta di trauma complesso, disturbi dissociativi, disturbi borderline e antisociali di personalità, che racconta la sua esperienza clinica. Dagli inizi ad un approccio sempre più integrato, la formazione del centro clinico INTRA – TP a la Coruña (Spagna) e il confronto continuo con la ricerca e la clinica internazionale.

  • Quali pensi siano le caratteristiche necessarie di uno psicoterapeuta che lavora con pazienti così complessi?

DM: L’interesse innanzitutto. E’ necessario essere sempre curiosi e avere voglia continua voglia di imparare. Penso poi che la capacità di lavoro di squadra sia cruciale, se un clinico non ne è in grado tutto diventa molto complicato. Bisogna poi saper tollerare la frustrazione, riuscire ad accettare di poter commettere errori ed essere pronti ad imparare da essi. Per me è importantissimo essere in grado di non rimanere attaccato alla tua idea se questa non è più adeguata.
Il terapeuta deve cercare di mantenere l’attenzione duale verso la propria capacità di autoregolazione e contemporaneamente verso ciò che sta accadendo nel paziente. Bisogna seguire i suoi bisogni e non i propri, per fare ciò non bisogna ritrovarsi “contagiati emotivamente”, lo stesso si fa separando bene la nostra storia personale da ciò che sta accadendo in loro. Quindi possono esserci problematiche personali che si possono mettere in mezzo, a quel punto penso sia anche importante permettersi di affrontarle.

  • Qual è la tua idea di un centro clinico integrato? Pensando alle tue idee iniziali e da quello che hai imparato, che consigli daresti dalla tua esperienza?

DM: Quando ho iniziato a lavorare non avevo molto supporto dai miei colleghi che lavoravano nell’area dei disturbi di personalità, ma penso che negli ultimi anni ci sia stata una grande evoluzione in questo ambito. All’inizio cercavo semplicemente qualcuno interessato a lavorare con quei pazienti che nessuno voleva trattare. Abbiamo iniziato in tre, ma gli altri hanno presto iniziato a pensare che fossi matta! Dicevano che era troppo complesso e non se la sentivano di lavorare con i miei casi. A me piacevano tanto, a loro no. Quindi ho iniziato a cercare qualcuno con i miei stessi interessi. Volevo persone curiose, disposte a lavorare insieme senza il bisogno di competere e capaci di supportarsi a vicenda.
Poi nel tempo mi sono resa conto che lavorando da sola mi ritrovavo spesso a gestire pazienti che, seppur non giovanissimi, vivevano ancora in famiglia e dalla quale dipendevano. Non so se sia lo stesso in Italia. Comunque per me era difficile gestire tutto; accadeva spesso che passassi la maggior parte della seduta a parlare con i familiari, spesso disperati nei casi di gravi disturbi di personalità, e mi rendevo conto che era una parte del lavoro molto importante. Ho cercato quindi un terapeuta familiare, così da potermi focalizzare sui bisogni dei pazienti, ma allo stesso tempo dando alla famiglia una possibilità di essere supportata. A volte i familiari interferiscono nel nostro lavoro più che aiutare, ma loro stanno cercando di essere utili. Quando capiscono come fare sono sorprendenti, la famiglia è una risorsa enorme. Poi prima di terminare la seduta noi terapeuti facevamo una piccola pausa e ci confrontavamo, cercando i punti positivi comuni da rinforzare e quelli dove chiedere da entrambe le parti un piccolo cambiamento. Questa idea si è sviluppata negli anni, ora è così che lavoriamo quando abbiamo la fortuna di poter coinvolgere anche i genitori.
Per me ora un team che funziona è composto da persone che si sostengano tra loro. Noi lavoriamo in questa maniera: se qualcuno ha bisogno può chiedere aiuto, ma quello che a noi capita frequentemente è che prima ancora che qualcuno chieda l’altro già l’abbia colto e chieda “che succede? Ti serve qualcosa?” e questo è ciò che ci protegge dal burnout. E il senso dell’umorismo ovviamente, a volte anche un po’ “nero”.

  • Quando utilizzi la parola integrazione, cosa intendi esattamente?

DM: Cosa intendo con la parola integrazione? Credo che dovrei pensarci! Ma la prima cosa che mi viene in mente è un funzionamento sufficiente in ogni senso. Quando il sistema è in grado di adattarsi a ciò che succede con sufficiente stabilità senza crollare. Si, è un processo ininterrotto: un percorso, non un risultato. Quando io e Kathy Steele utilizziamo questo termine in senso generale, intendiamo un’integrazione “sufficientemente buona” per funzionare al meglio nel presente, incorporando il nostro passato, presente e potenziale futuro in ciò che siamo e in ciò che facciamo.

  • E dal punto di vista dell’approccio clinico? Cosa significa per te lavorare in modo integrato?

DM: Sai, io mi sono formata in diversi approcci. Ho iniziato come psicoterapeuta cognitivo comportamentale, prendendo alcuni spunti dalla Dialectical Behaviour therapy (D.B.T.), dalla terapia basata sulla Mentalizzazione e studiando diversi autori psicodinamici sui gravi disturbi di personalità come Kernberg, Gunderson e altri. Poi mi sono formata in EMDR e in Terapia Senzomotoria, ma devo dire che per me il modello AIP dell’EMDR è molto utile per integrare tutto quello che imparo. A mio parere questa prospettiva può spiegare la complessità in maniera molto semplice. Poi il training sull’attaccamento, le teorie di Giovanni Liotti e la formazione sulla dissociazione sono stati cruciali, senza di questi non sarei riuscita a mettere tutto insieme. Per avere un approccio integrato per me è basilare confrontarsi continuamente con altri colleghi, poter avere come ho detto una squadra con cui condividere idee e poter comunicare ed aggiornarsi costantemente creando anche una rete internazionale.

  • Quale pensi sia qualche interessante direzione futura della ricerca?

DM: Credo veramente che sia necessaria più ricerca nell’ambito dei disturbi dissociativi e del trauma complesso. Per molti miei colleghi il trauma complesso è qualcosa che ancora non viene riconosciuto, rischia di essere confuso per altro e di conseguenza il trattamento non va al punto. Credo che sia una chiave di lettura in grado di aprire la visuale del terapeuta, perciò più evidenza scientifica porterebbe sicuramente ad un maggiore interesse e approfondimento da parte di più persone.

I fidget spinner sono solo un capriccio o combattono davvero ansia e stress?

Il fenomeno del “fidgeting”, ovvero l’atto di compiere piccoli movimenti involontari quando si è agitati, non nasce con la moda del fidget spinner ma è rintracciabile già in movimenti come cliccare continuamente la sfera di una penna o muovere ripetutamente una gamba. A fronte di ciò, una ricerca ha indagato quali siano le caratteristiche del fidget spinner che inducono una sensazione di relax in chi lo utilizza.

 

Il successo del fidget spinner

Il fidget spinner è uno dei dieci giochi più venduti su Amazon. Si tratta di un piccolo oggetto che le persone si divertono a maneggiare e far roteare. Il suo uso è diventato una vera e propria mania, soprattutto tra bambini e adolescenti.

Lo stesso successo era stato raggiunto con il fidget cube, un altro gioco anti-stress predecessore del fidget spinner, la cui campagna di raccolta fondi on-line “Kickstarter” aveva totalizzato 6,4 milioni di dollari con la sua vendita. Nonostante l’indiscusso successo raggiunto da entrambi, gli insegnanti stanno vietando il loro utilizzo nelle classi e gli esperti stanno combattendo contro l’idea che siano la soluzione per chi soffre d’ansia o di ADHD.

Il fenomeno del “fidgeting”, ovvero l’atto di compiere piccoli movimenti involontari quando si è agitati, non nasce con la moda del fidget spinner ma è rintracciabile già in movimenti come cliccare continuamente la sfera di una penna o muovere ripetutamente una gamba.

 

Come il fidget spinner riduce lo stress

A fronte di ciò, una ricerca ha indagato quali siano le caratteristiche del fidget spinner che inducono una sensazione di relax in chi lo utilizza. In tal senso nell’ambito della ricerca e’ stato somministrato ai partecipanti un questionario sul quale indicare quali fossero le caratteristiche che apprezzavano del fidgeting e in quale particolare momento queste fossero utili a tranquillizzarli. La maggior parte dei partecipanti sosteneva che avere un oggetto tra le mani aiutasse a restare focalizzati su un compito lungo o a mantenere l’attenzione quando si era seduti per lungo tempo durante un meeting. Tra gli esempi più comuni, l’utilizzo di oggetti facilmente reperibili in ogni momento come penne, chiavette USB, cuffie, nastri adesivi o altri oggetti personali che aiutano ad ottenere uno stato di relax aumentando la concentrazione.

Alcuni psicologi riferendosi al fenomeno del “sensation seeking”, affermano che ogni persona cerca di modificare le proprie esperienze o l’ambiente circostante per avere un livello di stimolazione ottimale. Ogni persona funziona bene in condizioni diverse: alcuni si concentrano in un ambiente silenzioso, altri in uno rumoroso e stimolante. La stimolazione esterna, però, varia non solo tra le persone ma anche per la stessa persona a seconda dell’attività che si trova a svolgere.

 

Gli effetti di fidgeting sui bambini

Per quanto riguarda l’effetto del fidgeting sui bambini, le ricerche mostrano che tale attività influisce positivamente su ansia e attenzione, migliorando la concentrazione e quindi l’apprendimento.

Lo studio più rilevante è quello della professoressa Julie Schweitzer sull’effetto del fidget in bambini con ADHD durante l’esecuzione di un compito (flanker task). Effettivamente, compiere piccoli movimenti aiutava i bambini ad avere performance migliori.

Ciò che non va sottovalutato riguarda le caratteristiche che i diversi oggetti devono avere per considerarsi efficaci nella regolazione dell’attenzione. I terapeuti sostengono che la stimolazione primaria debba essere tattile, cosa che il fidget spinner integra con una coordinazione visiva. Per usarlo, infatti, è necessario tenere il centro del gioco con pollice e indice e utilizzare le altre dita per farlo roteare. La coordinazione vista-tatto è forse ciò che spinge gli insegnanti a bandire questi giochi dalle classi, perché inevitabilmente gli allievi non prestano visivamente attenzione all’insegnante a differenza di quanto accade con semplici palline anti-stress o con il fidget cube.

In conclusione, è necessario effettuare ulteriori ricerche per stabilire i presupposti teorici del fidgeting e per identificare ulteriori caratteristiche utili alla creazione di oggetti fidget potenzialmente utili per la regolazione dell’attenzione.

Per chi fosse curioso sui vari modi di usare un fidget spinner, ecco le istruzioni per l’uso!

Telefilm addicted e binge watching: vera e propria dipendenza o un fenomeno sociale?

Il Binge watching potrebbe configurarsi come una dipendenza, che non comprende unicamente comportamenti potenzialmente dannosi per la vita del soggetto, ma comportamenti caratterizzati comunque da perdita di controllo, che però si configurano come soddisfacenti per chi li attua.

Emma Tidei – OPEN SCHOOL, II anno Studi Cognitivi 

 

Il fenomeno del binge watching

Italiansubaddicted, Maniaci seriali, Telefilm addicted, sono solo alcuni dei nomi più conosciuti e cercati in rete da chi vuole scaricare sottotitoli di serie tv o trovare link per poter vedere la puntata della propria serie preferita direttamente on line, attraverso il canale streaming.

Questo è un fenomeno sempre più frequente in Italia, dato che le maggiori serie televisive sono statunitensi o comunque anglofone e l’utenza ricerca un modo per seguire in real time gli episodi, senza aspettare la programmazione italiana, da sempre fanalino di coda in questo settore, per questione di diritti televisivi.

Lo streaming ovvia a questa problematica, così anche la creazione di piattaforme come Skybox o Netflix, dove intere stagioni vengono caricate e sono a disposizione degli spettatori. Tutto ciò porta i consumatori ad una fruizione del prodotto televisivo differente dall’”appointment viewing”, letteralmente appuntamento televisivo, e porta alla nascita, sia nel nostro paese che oltre oceano e oltre Manica, di un fenomeno noto come binge watching.

Il termine “binge watching” è stato definito anche dall’Oxford Dictionarie, come ”guardare più episodi di un programma televisivo in rapida successione, di solito attraverso DVD o usando lo streaming” (Oxford Dictionarie, 2013) e, è giusto aggiungere, tutti nello stesso luogo. Una definizione di binge watching più nostrana viene data dal dizionario Treccani e recita: “visione ininterrotta di una grande quantità di episodi appartenenti a una serie televisiva, che è interamente disponibile in rete o in cofanetti di dvd”, si può arrivare fino a 10-15 episodi di 40-50 minuti ciascuno.

 

Binge watching: uno sguardo ai numeri

Alcuni numeri possono dare il polso della situazione: da un sondaggio commissionato da Netflix su 1500 streamers, si evidenzia che circa il 61% ha praticato binge watching almeno una volta alla settimana; altri dati pubblicati da MarketCast rivelano come il 67% degli Americani tra i 13 e i 49 praticano maratone televisive. Il binge televisivo è personale e del tutto accidentale, praticato in casa e in solitudine dal 98% dei bingers. Come suggerivano i nomi sopracitati, con termini come “addicted”, anche la parola “binge” lascia sottintendere una dipendenza.

Una dipendenza non comprende unicamente comportamenti che includono eccesso e che sono potenzialmente dannosi per la vita del soggetto, come quella da alcool o sostanze, ma anche comportamenti caratterizzati comunque da perdita di controllo, che però si configurano come soddisfacenti per chi li attua.

La dipendenza da televisione, insieme a quella da internet, si inserisce in quest’ultimo tipo di comportamenti in quanto la persona percepisce il desiderio soggettivo di guardare la tv come un modo per raggiungere una soddisfazione, ma può poi diventare senza controllo: si inizia con una puntata, poi due, poi tre…fino a passare il fine settimana difronte allo schermo del pc o della televisione.

 

Caratteristiche del comportamento binge

Secondo uno studio recente condotto da Pattison, Dombrowski e Presseau nel gennaio 2016, il binge watching appare collegato sia all’impulsività che alla riflessività in un campione di 86 partecipanti che hanno compilato dei questionari su auto-efficacia, aspettative di risultato e automaticità. Inizialmente, quando ci si appresta a vedere la televisione, gioca il fattore riflessivo, si segue uno scopo, poi, durante la visione, subentra un’impulsività, all’interno di un meccanismo di rinforzo contingente.

Un comportamento che si caratterizza come “binge” ha comunque anche una connotazione negativa: lo ritroviamo nelle condotte alimentari compulsive come il binge eating, con il quale la visione di programmi televisivi, al pari dei conflitti familiari, pare avere una correlazione secondo uno studio condotto da Harris e Bargh della Yale University. Nel binge watching rientra comunque anche la pericolosità dei comportamenti di dipendenza, poiché può portare a isolamento, disordini alimentari e problemi nel sonno. (Harris & Bargh, 2010; Wheeler, 2015) I comportamentibinge” sono generalmente accompagnati da sensi di colpa, mentre il binge watcher lo vive maggiormente come una sorta di piacere colpevole.

Uno studio dell’University of Siracuse condotto da Lena ha investigato l’effetto del binge watching sulla fruizione dello spettacolo da parte degli spettatori. Questo appare essere consistente dipendentemente dal tipo di show (ad esempio se è ben recitato e ha una buona storyline) e non vale per qualsiasi serie tv in maniera generalizzata. Lo studio di Lena mostra anche una significatività del binge watching legata alla gratificazione che lo spettatore ottiene dalla visione di più puntate dello show preferito. I dati che emergono mettono in luce il fatto che chi pratica il binge watching, piuttosto che l’appuntamento settimanale con un programma, ricerca una fuga ed è invece meno orientato ad ottenere una vera e propria gratificazione materiale.

 

Quando la serie finisce: i vissuti dei binge watchers

«Iniziare a guardare una serie TV che potrebbe durare anni non è una decisione da prendere alla leggera» dice saggiamente Sheldon Cooper, personaggio della sit-com “The Big Bang Theory”. Ed è un’osservazione che molti appassionati di serie tv certamente sottoscriverebbero. Significa sapere di dover scendere prima o poi a patti col fatto che la serie finirà e ci sarà un season finale, un episodio a cui non ne seguiranno altri. Quando una serie finisce per molti di essi la sensazione è quella traumatica di un vero e proprio lutto, accompagnato dalla sensazione che qualcuno li abbia abbandonati.

Secondo la psicologa Emily Moyer-Guse della Ohio State University, la fine di una serie tv può portare sintomi depressivi e un senso di angoscia e smarrimento, manifestazioni che possono ricorrere anche tra la fine di una stagione e l’altra, del tutto simili a quelle derivanti dalla fine di una storia d’amore. Sì, perché i personaggi ai quali ci si affeziona diventano come amici; una relazione, quella di teleamicizia (Joshua Meyrowitz), che rende un personaggio carnale, fa seguire le sue vicende con passione sempre maggiore. La precedente generazione vedeva nei protagonisti di film passati alla storia o nei personaggi di romanzi classici dei modelli; oggi le nuove generazioni vedono nei personaggi delle serie tv dei compagni, individui che crescono, sbagliano, rimediano, cambiano, proprio come può succedere a loro. In 3-4 stagioni di 20-23 episodi ciascuna c’è tempo per cadere e rialzarsi, per sbagliare e rimediare, il tempo scorre similmente alla vita e non è legato alla pellicola di 90 minuti.

Fondamentale in tutto ciò è, quindi, la ricerca di emozioni. Lo studio statunitense ha esaminato come gli spettatori – tutti universitari – reagiscono davanti alla fine del proprio programma preferito, chiedendo loro quanto spesso guardavano la televisione e i motivi che li spingevano a farlo, e quanto fosse importante per loro. Dai risultati è emerso che i ragazzi che affermavano di sentirsi in “forte relazione” con i personaggi erano coloro che si sentivano più a disagio quando i telefilm interrompevano le programmazioni: i rapporti con i personaggi televisivi possono essere paragonati ai rapporti reali, ma con un’intensità minore. “Il disagio percepito è reale”, ma l’intensità dell’angoscia che si prova, spiega la ricercatrice, “non è paragonabile a quella che si prova nella realtà” (Moyer-Guse).

 

Binge watching: la causa nella paura dei rapporti sociali?

La creazione di questi rapporti parasociali può avere origini nella storia di vita degli individui che arrivano poi a praticare il binge watching. A questo proposito uno studio descrittivo della Georgia Southern University, condotto da Katherine Wheeler, ha evidenziato come i partecipanti, studenti del college, che ottenevano alti punteggi nella scala di attaccamento ansioso della scala Experiences in Close Relationships Revised (ECR-R; Fraley, Waller, & Brennan, 2000), erano quelli che più frequentemente ricorrevano al binge watching come comportamento.

Questo dato potrebbe spiegarsi pensando al fatto che questi soggetti hanno spesso preoccupazioni eccessive riguardo alla pericolosità della vicinanza nelle relazioni e paura dell’abbandono e di conseguenza ricercano nella serie tv dei rapporti parasociali, surrogati di quelli che non riescono a gestire, e vengono gratificati dalla fuga da questi ultimi. Magari di fondo ci può essere una struttura di personalità di tipo evitante o schizoide che favorisce quel ritiro, in quanto vivendo con difficoltà l’interazione sociale, trovano un rifugio ideale e una modalità di esperire determinate emozioni.

In conclusione, molta ricerca si è concentrata negli Stati Uniti, ma anche qui nel nostro paese il fenomeno del binge watching è ormai diventato presente e per tale preoccupante. È auspicabile uno studio di settore che dia il polso della situazione anche in Italia, dove la nascita dei gruppi di ragazzi che si ritrovano in piattaforme on line, come quelle citate all’inizio dell’articolo, per caricare i sottotitoli delle più amate serie tv ci mostra il grado di partecipazione e coinvolgimento per questo fenomeno che porta ragazzi, spesso universitari o studenti liceali a spendere svariate ore e parte importante del proprio tempo libero a tradurre, sincronizzare e commentare intere puntate, per poi metterle a servizio di un utenza sempre più ampia.

Si può effettivamente parlare di dipendenza? O siamo di fronte ad un fenomeno sociale di massa? È quello che si chiedono anche nei forum nati per la condivisione della passione per i telefilm tra i giovani, anche nel nostro paese. A mio avviso è un fenomeno che va controllato, poiché da quanto emerge dai vari studi, il rischio di un comportamento come il binge watching sul well-being è reale e se non è il fenomeno sociale a portare la dipendenza, potrebbe essere la dipendenza a portare il fenomeno sociale, crescendo individui sempre meno capaci socialmente.

Nel suo saggio “Cattiva maestra televisione” il filosofo Karl Popper mette in guardia dal prodotto scadente dell’industria televisiva; direi che ora dobbiamo essere messi in guardia da quello ottimo, che oscura la vita reale, che non termina dopo 40 minuti e può non darci tutto quel concentrato emotivo, ma è naturale, spontanea. Il binge watcher ha paura di fronte ai rapporti sociali, proprio per le emozioni spiacevoli che possono comportare, così lascia che siano altri a decidere quali emozioni proverà; facendo così, paradossalmente, rinuncia a quello che lo attira verso la serie tv: il proprio vissuto emotivo.

Fine vita e dignità umana – IL PREMIO “CITTA’ DI COMO”

 

PREMIO CITTA’ DI COMO – INCONTRI CULTURALI

 

 

Venerdì 9 giugno, 20.30

Biblioteca comunale, Como

Piazzetta Venosto Lucati, 1

 

 

Fine vita e dignità umana

 

Intervengono

Edoardo Boncinelli, Beppino Englaro e Mina Welby

 

Contributo di

Don Vincent Nagle, Cappellano Fondazione Grassi di Milano

 

Introducono e moderano

Giorgio Albonico e Marcello Iantorno

 

Ingresso libero

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“Fine vita e dignità umana”. Saranno questi i temi al centro del nuovo incontro culturale organizzato nell’ambito del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como in collaborazione con l’Associazione Giustizia e Democrazia (AGeD), che si terrà venerdì 9 giugno alle 20.30 presso la Biblioteca comunale di Como.

Partendo dalla riflessione contenuta nell’ultimo libro di Edoardo BoncinelliIo e lei. Oltre la vita” (Guanda, 2017) – saggio nel quale lo scienziato e scrittore regala una meditazione sulla morte con una serenità di animo e una profondità di analisi che restituisce a questo evento la sua naturalità, privandolo degli aspetti negativi – il dibattito si allargherà al fine vita, al valore della persona e della vita, e alla scelta di poter morire con dignità.

Il dibattito-confronto vedrà la partecipazione di Edoardo Boncinelli, Beppino Englaro, Mina Welby, con il contributo di Don Vincent Nagle, Cappellano della Fondazione Grassi di Milano.

Introducono e moderano Giorgio Albonico, organizzatore del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como, e l’avvocato Marcello Iantorno, Responsabile A.G.eD.

 

 

Ingresso libero.

 

 

La partecipazione all’iniziativa dà diritto a 3 crediti formativi riconosciuti dall’Ordine Avvocati di Como.

 

 

 

Edoardo Boncinelli

Genetista, è stato professore di Biologia e Genetica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Collabora a Le Scienze e al Corriere della Sera. Ha pubblicato, tra gli altri, “Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà” (con Giulio Giorello, BUR, Rizzoli, 2009) e “Perché non possiamo non dirci darwinisti” (Rizzoli, 2009). Sempre con Giorello ha scritto “Noi che abbiamo l’animo libero” (Longanesi, 2014) e “L’incanto e il disinganno: Leopardi” (Guanda, 2016).

 

Mina Welby

Wilhelmine Schett (chiamata Mina Welby) ha insegnato per qualche anno a Merano nelle scuole medie. Trasferitasi a Roma ha sposato Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, e ha insegnato in scuole private la lingua tedesca. Dal 2003 è iscritta nell’Associazione Luca Coscioni e a Radicali Italiani. Dal 2008 ha incarico di Delega per i diritti civili al X° Municipio di Roma. Insieme al giornalista Pino Giannini ha scritto il libro-intervista “L’ultimo gesto d’amore” (Marotta e Cafiero, 2016) e ha collaborato alla realizzazione del libro postumo di Piergiorgio Welby “Ocean terminal” (Castelvecchi, 2009).

 

Beppino Englaro

Beppino Englaro, padre di Eluana e socio della Consulta di Bioetica di Milano, si batte da circa venticinque anni per la libertà di cura e terapia da quando nel 1992 a seguito di un incidente stradale la giovane figlia Eluana si è trovata a vivere in stato vegetativo fino alla morte naturale avvenuta nel 2009 . Nel 2008 è uscito per Rizzoli il suo libro “Eluana, la libertà e la vita” (con Elena Nave) e nel 2009, sempre per Rizzoli, “La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno Stato di diritto” con Adriana Pannitteri.

 

Don Vincent Nagle

Sacerdote della fraternità missionaria san Carlo Borromeo è Cappellano della Fondazione Grassi di Milano. Tra i suoi libri, “Nella terra di Dio” (Lindau, 2010) e “Sulle frontiere dell’umano. Un prete fra i malati” (Rubbettino, 2004).

 

 

“Io e lei. Oltre la vita” – Il libro di Edoardo Boncinelli

Occuparci della nostra nascita per noi è impossibile, il prima ci è sconosciuto. Ma di certo, da vivi, possiamo riflettere sulla nostra morte, anche se il poi ci è ignoto. Nel libro “Io e lei. Oltre la vita” (Guanda, 2017) Edoardo Boncinelli racconta di avere avuto consapevolezza della morte da bambino, mentre nell’immediato dopoguerra, ospite di un centro profughi allestito alla meglio, parlava con la mamma di persone che non c’erano più.

Da scienziato e pensatore Boncinelli ne indaga tutti gli aspetti e le possibili interpretazioni. Discute le consolazioni della religione, dai miti delle origini al paradiso cristiano, alle credenze più diffuse. Esamina con passione e generosità divulgativa le risorse della scienza, fino a metterci a parte delle ultime ricerche della genetica e della biologia. Infine affronta l’autentico mistero dell’universo, la coscienza, nostra assoluta unicità, sintetizzando così il suo sentimento: «Verrà la morte e non chiuderò i miei occhi».

 

 

 

 

IL PREMIO “CITTA’ DI COMO”

 

Ideato da Giorgio Albonico nel 2014, il Premio Città di Como riconosce e valorizza gli autori meritevoli, promuove la scrittura, la letteratura e le opere prime e dà voce alle idee.

È un Premio in costante crescita – come dimostrano i numeri delle edizioni passate, con quasi duemila partecipanti solo nella scorsa edizione e la presenza di molte case editrici nazionali – e che quest’anno apre anche ai giornalisti, con la sezione “Reportage”, e ai video. Queste due nuove categorie vanno così ad affiancarsi alla prosa, alla poesia, alla saggistica e alla fotografia. Una particolare attenzione sarà dedicata anche alle opere prime e ai giovani scrittori dai 13 ai 19 anni, alla cui migliore opera prima sarà assegnato un premio speciale.

Per decretare i vincitori di questa quarta edizione entrano per la prima volta a far parte della giuria tecnica lo scienziato e scrittore Edoardo Boncinelli, la scrittrice Dacia Maraini e il giornalista del Corriere della Sera Pierluigi Panza, che vanno ad affiancare lo scrittore Andrea Vitali, presidente di giuria, Milo De Angelis, poeta e critico, il fotografo Giovanni Gastel, Francesca Giorzi, produttrice prosa Rsi e Presidente ASSI (Associazione degli Scrittori della Svizzera Italiana), Armando Massarenti, direttore dell’inserto domenicale de Il Sole 24 ore, Flavio Santi, scrittore e docente all’Università degli Studi dell’Insubria, la editor Laura Scarpelli e Mario Schiani, responsabile delle pagine culturali del quotidiano La Provincia di Como.

Tra i vincitori delle scorse edizioni Camilla Baresani, Armando Massarenti, Franco Di Mare, Tiziano Broggiato, Mario Santagostini, Alessandro Ceni, Lorenzo Marone e i premi speciali alla carriera assegnati a Ferruccio De Bortoli ed Edoardo Boncinelli.

 

Le domande di partecipazione scadono il 15 giugno 2017.

Bando completo, regolamento e tutte le informazioni al sito www.premiocittadicomo.it.

 

Il Premio Internazionale di Letteratura Città di Como è organizzato con il contributo e il patrocinio del Comune di Como.

Con il patrocinio di Regione Lombardia, Provincia di Como, Comune di Erba, Camera di Commercio di Como, Università degli Studi dell’Insubria, Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Como, Fondazione Provinciale della Comunità Comasca.

In collaborazione con La Provincia, Associazione Italiana di Cultura Classica, Amici di Como, Centro Studi Casnati, Ubik Como, Parolario, Espansione Tv, Hotel Metropole Suisse, Alberto Terminus Como, Concorsifotografici.com, Gli amanti dei libri, Tessabit, Associazione italiana per l’Aforisma, Palace Hotel, Sheraton Lake Como Hotel, Hotel Barchetta Excelsior, Best VistoinTv.

Sponsor tecnici: Comolake.com, Partners, Como Città Medioevale, B&B on Lake Como.

 

 

 

 

Per informazioni

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Libet e schema therapy per conoscere i futuri psicoterapeuti – Riccione, 2017

Libet e Schema Therapy per conoscere i futuri psicoterapeuti

Temi dolorosi, Piani e Schemi Maladattivi Disfunzionali Precoci (SMP) in un  campione di studenti in formazione

Nicoletta Serra, Maria Elena Maisano,  Maria Chiara Di Lieto, Camilla Freccioni, Luca Calzolari, Sara Mori, Carmelo La Mela,

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva -Scuola Cognitiva di Firenze

 

Un precedente studio (Sansone et al 2011) ha indagato le caratteristiche di personalità di psicoterapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale in formazione e l’evoluzione dei loro Schemi Maladattivi Precoci nel tempo (SMP), rispetto ad un gruppo di controllo. Dallo studio era emerso che l’andamento degli schemi tendeva all’oblatività coatta, in linea con la letteratura precedente. Ad un anno di distanza, non erano state rilevate differenze significative.

Il focus della presente ricerca è indagare come gli stati mentali e le strategie cognitive di funzionamento di psicoterapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale in formazione siano in relazione con i loro Schemi Maladattivi Precoci (SMP), rispetto ad un gruppo di controllo. A tale scopo, si é scelto di utilizzare il modello di concettualizzazione cognitiva LIBET (Life theme and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and a Treatment), ideato e strutturato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi. LIBET é un modello attenzionale, metacognitivo ed evolutivo che descrive la sofferenza secondo due coordinate: i Temi e i Piani.

Il Tema (minaccia terrifica, disamore, inadeguatezza, indegnità) é uno stato mentale doloroso emotivamente intenso, evolutivamente appreso nella storia di vita personale, rigido, inflessibile e giudicato intollerabile. La persona gestisce il proprio tema doloroso attraverso Piani semi-funzionali (prudenziale, prescrittivo, immunizzante), cioè strategie precocemente acquisite, che hanno funzionato nel tempo per non entrare in contatto con il proprio tema doloroso e hanno, in parte, permesso un ritorno alla dimensione di sicurezza.

L’obiettivo a breve termine dello studio é stato indagare i temi dolorosi e i piani secondo il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (Ruggiero M.G., Sassaroli S., 2013) e la correlazione con gli schemi maladattivi precoci, in un gruppo di studenti della Scuola Cognitiva di Firenze  rispetto a un gruppo di controllo.  L’ obiettivo a lungo termine sarà valutare  nel corso degli anni di specializzazione l’evoluzione dei temi dolorosi, dei piani e degli schemi maladattivi precoci.

 

Reagiamo bene, anche se non sappiamo bene perché: le reazioni al terrorismo

Probabilmente ha ragione il Direttore de Linkiesta: questa volta ha vinto il terrore. Questa volta è più difficile reagire con calma e stoica noncuranza. Altro è rimanere tranquilli senza cedere alla violenza spontanea, altro è andare a dire alle proprie figlie adolescenti che la migliore reazione è non far nulla, non perdere la testa e mantenere la calma. I terroristi hanno scelto l’obiettivo con fredda strategia: giovani ragazze adolescenti. Quelle che, pur già femministe, guardano ancora a un padre protettivo. Che poi ci sia questo padre, è un altro paio di maniche.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 27 maggio 2017

 

 

Oppure no, in realtà sarà facile reagire anche questa volta al solito modo. Forse è vero che abbiamo vinto noi che amiamo la vita ed è vero che si tratta di una guerra intestina all’islam. Diremo alle nostre figlie che non dobbiamo cedere alla tentazione della violenza, che dobbiamo continuate ad andare ai concerti e che la reazione violenta è proprio quello che vogliono i terroristi. Non avremo fegato di aggiungere che poi nemmeno sapremmo bene come attuarla, questa protezione.

Malgrado ciò, non potremmo anche non sentirci un po’ ridicoli e impotenti, o almeno disorientati. E soprattutto deludenti agli occhi di queste figlie. Che poi magari si affretteranno al prossimo concerto per niente deluse di noi confusi genitori, che rimaniamo a casa in apprensione, non si sa bene se di un incidente di auto causato dall’amico brillo o se di un attentato. Forse faremo tutto questo in silenzio, senza troppe chiacchiere, anche perché questi continui richiami al non concedere loro il nostro odio stanno diventando risaputi e obsoleti quasi come un’invettiva razzista.

Loro chi, poi? L’avversario è più che mai sfuggente. Va bene non dargli un nome, che i nomi sono pregiudizi. Ma anche questo eterno esercizio di saggio silenzio alla lunga ci imbambola in un’ attesa non si sa bene di cosa. Va a finire che il Godot che attendiamo è proprio il terrorismo, un qualcosa di cui nulla si sa e del quale possiamo dire solo cosa non è.

Per non parlare poi della confusione che regna anche nel campo sovranista e conservatore, per non dire reazionario. Riscoprire l’identità, ma quale? L’identità in psicologia è in crisi da tempo, ed è sempre più messa in discussione. L’identità individuale come concetto scientifico appare sopravvalutata. Sopravvive in sociologia e nella psicologia dei gruppi.

E quale sarebbe la nostra identità? Giudaico-cristiana, giudaica ma non cristiana, cristiana ma non giudaica, laico-illuminista e cristiana oppure non cristiana, laica ma romantica e anti-illuminista, liberale e liberista o sovranista e neo-nazionalista, filo-europea o viceversa, strapaesana o stracittadina? Il dibattito, soprattutto su Facebook è oltremodo confuso e ben presto si preferisce tacere. La minoranza chiassosa dei commentatori si rivela sempre più una minoranza ma sempre più chiassosa. E poi il sospetto è che ci divertiamo molto di più criticando i nostri politici, da Hollande a Renzi, in attesa che tocchi a Macron. Per non parlare di Trump, che se non ci fosse dovrebbe inventarselo. L’identità occidentale, intesa come desiderio di prendersela con se stessi, è più forte e confusa che mai.

Quindi continueremo a reagire bene, almeno per ora. Purtroppo non si sa se per saggezza o per stanchezza. O meglio, siamo approdati a un preoccupante stadio in cui stanchezza e saggezza coincidono e forse l’una si traveste nell’altra, senza mai rivelare sul serio la propria vera natura. Come accade nella vecchiaia.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: la riabilitazione dei DSA – Report dal seminario di Genova

Sabato 29 Aprile presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova si è tenuto il quarto incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova 2017”, dal titolo “Disturbi Specifici dell’Apprendimento: la riabilitazione dei DSA ” tenuto dalla dott.ssa Sara Della Morte.

Che cosa sono i Disturbi Specifici dell’ Apprendimento?

Nella parte introduttiva dell’intervento si fornisce la definizione di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), intendendoli come una categoria diagnostica, relativa ai Disturbi Evolutivi Specifici di Apprendimento che appartengono ai disturbi del neurosviluppo (DSM-5, 2014), che riguarda i disturbi delle abilità scolastiche, ossia Dislessia, Disortografia, Disgrafia e Discalculia (CC-2007).

La Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità (Cc-ISS, 2011) definisce i DSA “Disturbi che coinvolgono uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici.
Sulla base del deficit funzionale vengono comunemente distinte le seguenti condizioni cliniche:
Dislessia, cioè disturbo nella lettura (intesa come abilità di decodifica del testo)
Disortografia, cioè disturbo nella scrittura (intesa come abilità di codifica fonografica e competenza ortografica)
Disgrafia, cioè disturbo nella grafia (intesa come abilità grafo-motoria)
Discalculia, cioè disturbo nelle abilità di numero e di calcolo (intese come capacità di comprendere e operare con i numeri).

E’ importante sottolineare che i bambini con DSA hanno un’intelligenza nella norma e/o superiore alla norma, essi riescono facilmente ad avere una visione d’insieme, a percepire un’immagine nel suo complesso.
Sono in grado di cogliere gli elementi fondamentali di un discorso o di una situazione, ragionando in modo dinamico e creando connessioni inusuali che altri difficilmente riescono a sviluppare.

Apprendono facilmente dall’esperienza e ricordano maggiormente i fatti non in modo astratto ma come esperienze di vita, racconti ed esempi. Pensano soprattutto per immagini, visualizzando le parole e i concetti in modo tridimensionale, per questo memorizzano molto più facilmente per immagini.

Sono capaci di vedere le cose da diverse prospettive e processano le informazioni in modo globale invece che in sequenza.
Le principali caratteristiche che contraddistinguono i DSA riguardano:
– Le inattese e importanti difficoltà nella letto-scrittura e/o nei numeri e nel calcolo;
– Le difficoltà nella consapevolezza fonologica (difficoltà nel riconoscere quanti, quali e in che ordine sono i suoni di una parola);
– La lentezza nell’automatizzazione di diverse abilità.

Alcuni bambini con DSA possono anche avere difficoltà di coordinazione, di motricità fine, nelle abilità di organizzazione e di sequenza e difficoltà nell’acquisizione delle sequenze temporali (ore, giorni, stagioni, ecc.).

Dall’analisi della letteratura i disturbi che più frequentemente si riscontrano in comorbilità con i DSA sono: il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD) e i Disturbi Specifici del Linguaggio (DSL).
La Consensus Conference (2007) ha evidenziato che nella pratica clinica si riscontra un’alta presenza di comorbilità sia fra i disturbi specifici dell’apprendimento stessi, sia fra DSA ed altri disturbi (disprassie, disturbi del comportamento e dell’umore, disturbi d’ansia, ecc.).
L’elevata comorbilità determina la marcata eterogeneità dei profili funzionali e di espressività con cui i DSA si manifestano e comporta significative ricadute sul versante dell’indagine diagnostica (CC-2007).

L’importanza di un Intervento Globale (Bambino-Scuola-Famiglia)

L’intervento procede mostrando l’importanza di un intervento specialistico riabilitativo di tipo clinico, poiché essendo i DSA disturbi di natura neurobiologica complessi non possono essere gestiti unicamente della scuola con interventi di potenziamento didattico.
Quindi è importante costruire una rete che coinvolga bambino, famiglia e scuola.

IL BAMBINO

Con il bambino bisogna instaurare un trattamento diretto, la diagnosi deve essere precoce così come l’intervento abilitativo specialistico.
Inoltre è importante che il bambino venga supportato psicologicamente, deve sapere qual è il problema, così da poterlo elaborare e mentalizzare al fine di poter continuare ad investire sugli apprendimenti.

LA SCUOLA

Per quanto concerne la scuola, il compito dell’insegnante cambia molto a seconda della fase in cui opera con gli allievi. E’ importante che si instauri una collaborazione tra scuola e intervento terapeutico con l’utilizzo di misure compensative e dispensative. Lo scopo è sviluppare e mantenere un buon rapporto scuola/insegnanti/genitori. Sollecitare un buon rapporto insegnante/allievo: mostrare comprensione, premura ed interesse verso di lui.
Rendere consapevoli gli insegnanti che il bambino apprende, ma in modo diverso (consigliare ad esempio misure per l’autonomia). E’ di fondamentale importanza fornire conoscenza del problema attraverso formazione specifica.

LA FAMIGLIA

Per quanto riguarda invece la famiglia, essa deve:
Considerare la possibilità di consultare uno specialista e di avviare un percorso diagnostico.
Rendersi disponibile al confronto con gli insegnanti.
Sostenere il bambino nel percorso abilitativo.
Non colpevolizzare se stessi e tantomeno il bambino per le difficoltà che presenta.
Non eccedere in richieste, ma nemmeno sostituirsi interamente a lui nei compiti.

Molto spesso le famiglie con bambini con DSA si trovano di fronte a varie difficoltà come:
– diagnostica fine e lunga da costruire;
– lunghi periodi di riabilitazione;
– concentrazione;
– tempo dedicato;
– risorse economiche e personali.

L’utilizzo delle APP nella riabilitazione dei DSA: il servizio Ridinet di Anastasis

Ci si concentra poi sull’introduzione del servizio Ridinet nella riabilitazione dei DSA, in cui si propongono una serie di percorsi personalizzabili in base alla diagnosi, che si presentano sotto forma di App all’interno della quale l’utente può costruire un proprio profilo personalizzato con tanto di avatar.
Queste App sono caratterizzate da esercizi basati su specifici modelli riabilitativi, con una grafica accattivante e con costanti feedback sonori sull’andamento della propria prestazione.

READING TRAINER 2 – è un esercizio di lettura basato sulla sillabazione, che offre al clinico la possibilità di assegnare testi da far leggere al paziente a casa con la supervisione di un adulto. Scelto il brano da un’ampia libreria, si ha la possibilità di modificare le modalità di somministrazione dell’esercizio, tarandole quindi sulle specifiche caratteristiche del bambino. Il programma fornisce inoltre un feedback su accuratezza e velocità di lettura.

LINEA DEI NUMERI – è un programma pensato per favorire la rappresentazione mentale della quantità e del calcolo: il bambino deve collocare un numero sulla linea, valutando visivamente dove si trovi tra 1 e 10. Questa App è basata sull’ipotesi secondo cui dopo una fase precoce in cui la rappresentazione della quantità fa riferimento alle dita delle mani, la rappresentazione mentale più evoluta della quantità è una linea orizzontale. Anch’essa prevede aiuti visivi (indicazione di altri numeri) e feedback sonori variegati e divertenti.

TACHISTOSCOPIO RAPWORDS – è un programma per esercitare e migliorare la velocità e la correttezza nella lettura di parole rivolto a bambini e ragazzi con prestazioni di lettura non ottimali. L’esercizio intende stimolare una lettura globale delle parole, favorendo un migliore utilizzo/sviluppo del lessico ortografico: presenta infatti parole singole con un tempo di esposizione inferiore a quello per iniziare un movimento oculare (o saccade). In questo modo, il bambino è spinto a cercare di leggere la parola come una sola unità. La presentazione di liste di parole che variano per frequenza d’uso o lunghezza consente di adattare l’esercizio rispetto alle specifiche difficoltà del bambino.

CLOZE – è un software per la comprensione del testo scritto che mira specificatamente al recupero dei processi di inferenza lessicale e semantica. Ad ogni seduta di lavoro il bambino lavora su testi scritti a cui mancano delle parole e deve completare gli spazi vuoti scegliendo l’alternativa corretta tra quelle proposte automaticamente affinché il testo sia congruente. Il programma propone inizialmente una fase di taratura che consente di determinare il livello di partenza delle attività per ogni bambino, ed è personalizzabile anche rispetto alla tipologia dei cloze con i quali il bambino dovrà lavorare (casuali, prevalentemente funtori, prevalentemente tempi verbali, prevalentemente nomi e aggettivi).

SILLABE – è un programma di rieducazione della lettura, che favorisce lo sviluppo della capacità di decifrazione senza supporto lessicale, attraverso il riconoscimento rapido di sillabe o gruppi di lettere (subcomponenti delle parole). L’App controlla anche i tempi di elaborazione degli stimoli, attraverso un intervallo, anch’esso autoregolato, tra uno stimolo e l’altro. Il programma propone un test di ingresso che determina il livello ottimale di lavoro per ciascun paziente e il percorso, strutturato su 116 livelli, prosegue in modo automatico sulla base del risultato di ogni singola esecuzione di batteria.

RUN THE RAN – è un programma finalizzato al potenziamento dei processi di denominazione rapida. L’ esercizio di RAN (Rapid Automatized Naming) prevede la denominazione temporizzata di stimoli sequenziali: il bambino deve denominare sempre più velocemente ad alta voce tutti gli stimoli visivi (colori e figure) presentati in matrici, corrispondenti a parole di differente struttura sillabica, frequenza d’uso e lunghezza. Le figure, appositamente create in bianco e nero, sono inserite in librerie divise per tipologia di stimolo, e vengono presentate in matrici che richiedono l’esplorazione da sinistra a destra, come nella lettura di un testo, aiutando il bambino ad automatizzare anche il processo di scansione visiva e pianificazione dei movimenti oculari (e quindi del focus attentivo).

DAL SUONO AL SEGNO – è un programma che intende stimolare la discriminazione di suoni simili, la conversione del suono nel segno grafico corrispondente, il riconoscimento di raddoppiamenti, il recupero lessicale del vocabolo. In breve, le abilità definite dallo stadio alfabetico ed ortografico-lessicale della scrittura. Gli esercizi sono stati costruiti con l’intento di proporre ai bambini attività mirate alle diverse problematiche fonologiche della scrittura. Sono prese in esame, inoltre, le principali difficoltà fonetiche (doppie e accenti), e sono previsti, nelle fasi conclusive del programma, esercizi di tipo lessicale.

Il clinico può inserire i dati dei pazienti e i punteggi riportati nelle varie prove, ottenendo in automatico grafici relativi all’andamento del percorso per ciascun bambino, il che facilita molto la valutazione in itinere. Fondamentale inoltre è il fatto che quasi tutte le App prevedano la proposta di esercizi dalle caratteristiche tarate in base al livello iniziale di competenze del bambino e ai risultati da esso riportati di prova in prova.

Si conclude con una riflessione riguardo gli effetti positivi che questo sistema favorisce sulla motivazione e sul mantenimento dell’attenzione. In quanto i frequenti feedback sulla prestazione stimolano le competenze metacognitive del bambino, il suo senso di autoefficacia e sulla sua autostima.

Ipnosi e rilassamento: le differenze tra le due tecniche

Questo articolo si propone di comprendere benefici e limiti delle due “tecniche” (se le inquadriamo come tali), le caratteristiche accomunanti e le distonie proprie dei costrutti di ipnosi e di rilassamento. Non si vuole fare una digressione storico-culturale.

Alessandro Failo 

Le difficoltà nel differenziare l’ ipnosi da altri trattamenti non ipnotici può essere spiegata dal fatto che entrambe le tecniche mirano a focalizzare l’attenzione su un qualcosa di specifico (l’ ipnosi stessa, ma anche l’immaginazione guidata, il training autogeno, la meditazione, la mindfulness) e prevedono anche componenti specifiche di rilassamento. Così, ci si chiede se questi tipi di tecniche siano in generale solo variazioni del processo di rilassamento oppure se vi sia un qualcosa di diverso, tanto più che si tende ad accomunare o a sostituire termini e nomi con la convinzione (o presunta tale) che nella pratica, queste differenze non sussistano (Gay et al., 2002).

Elementi comuni tra ipnosi e rilassamento

Quando parliamo di ipnosi e rilassamento è più corretto definirle “gruppi di tecniche” perchè presentano declinazioni diverse a seconda degli approcci e delle preferenze del clinico.

Queste tecniche funzionano solo quando il cliente è disposto ad impegnarsi nell’esperienza ed è in grado di lasciarsi assorbire dalle possibilità suggerite dal terapeuta.

Se pensiamo a quando stiamo attraversando un periodo di ansia o di stress, il proposito di rilassarsi può essere visto come quando tentiamo di addormentarci a tutti i costi. Lo sforzo compromette l’obiettivo proposto.

Anche nell’ ipnosi ci sono persone più o meno suscettibili all’induzione e, senza il reale coinvolgimento di chi si accinge ad affrontare la seduta è impossibile superare questo passaggio. È ancora più evidente quando si fa l’ auto-induzione nell’auto-ipnosi.

L’induzione ipnotica eseguita correttamente (strutturata ed esplicitamente definita come tale), è un processo che assorbe e concentra l’attenzione, indirizzandola per esempio su un’idea, una voce o un’esperienza interna, ma sempre su qualcosa” (Yapko, 2015 p.35). Come nel rilassamento vi è un rallentamento delle funzioni fisiologiche di base (respirazione, battito cardiaco….) ed uno stato di benessere generalizzato, utile per ridurre stress e malessere.

Sia l’ ipnosi, sia le varie tecniche di rilassamento, molto spesso, convengono sull’uso della visualizzazione (o imagery) per convogliare l’induzione in uno stato di calma/rilassamento, seguito dallo sviluppo di immagini mentali, ad esempio una scena piacevole che aumenta questo senso di benessere. Queste immagini possono essere generate autonomamente dal paziente oppure suggerite dal terapeuta.
Il principio comune, all’interno di un contesto ambientale confortevole, è quello di immaginare se stessi nel far fronte in modo più efficace ai fattori di stress presenti nella propria vita.

Ipnosi: definizione e disaccordi

Nell’ultima definizione della APA Division 30: Society of Psychological Hypnosis “L’ ipnosi è uno stato di coscienza che coinvolge l’attenzione focalizzata con una ridotta consapevolezza periferica caratterizzata da una migliore capacità di risposta alle suggestioni” (Elkins et al., 2015)
Probabilmente, visto che si tratta di una definizione largamente condivisa da una comunità scientifica come quella dell’ American Psychological Association può essere considerata come ben ponderata e chiara.

Nell’ultimo documento di rivisitazione dell’APA (Elkins et al., 2015) i principali “disaccordi” nelle definizioni risiedono in due ragioni: la prima è che la natura e i meccanismi sottesi all’ ipnosi non sono ancora completamente conosciuti; la seconda è che i bias interpretativi (è una procedura o il prodotto di una procedura) condizionano inevitabilmente l’accuratezza della definizione. A tal proposito Yapko nel suo ultimo libro (2015) afferma che la questione non è tuttora chiara perchè vi è uno specifico elemento di confusione: è una terapia o uno strumento terapeutico? Gli ipnoterapeuti la considerano una modalità di trattamento con un suo carattere distinto e ben definito, come ad esempio la terapia comportamentale. L’altra posizione è quella che vede l’ ipnosi non come metodo autosufficiente ma utilizzabile come strumento di promozione di altre più definite modalità di intervento, per esempio la terapia cognitiva.

Ipnosi e principi sottesi

Credo sia utile capire quali “scuole di pensiero” guidano i due principali gruppi di tecniche ipnotiche: quella di Milton Erickson e quella dell’italiano Franco Granone.
Per Erickson l’ ipnosi è uno stato modificato di coscienza altamente motivato e diretto a sviluppare risorse potenziali dell’individuo attraverso l’apprendimento inconscio (Erickson, 1984). Possiamo considerarlo il capostipite dell’ ipnosi conversazionale, l’ ipnosi “classica”, ancor oggi la più conosciuta ed utilizzata.

L’altro filone è probabilmente quello definito come “ipnosi medica”, ambito sviluppato dal prof. Granone, è un tipo di ipnosi più direttiva e rapida nell’approccio rispetto a quella maggiormente dialogica, disseminata di metafore di Milton Erickson. Per Granone l’ ipnosi è un particolare stato psicofisico che influisce sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali del paziente (Granone, 1983).
Semplificando al massimo il processo ipnotico si sviluppa su tre punti essenziali:
– fase di preparazione o pre-induzione
– fase di induzione o trance ipnotica
– fase di post-induzione e valutazione.

Quali sono le evidenze dell’ ipnosi?

Come detto precedentemente vi sono posizioni differenti riguardo a cosa sia esattamente l’ ipnosi. Se però la domanda diventa “l’ ipnosi funziona?” ecco che le posizioni tendono ad uniformarsi perchè quando interviene nel processo terapeutico, essa ne aumenta generalmente gli effetti benefici, contribuendo a migliorare i risultati del trattamento.

Vi sono molti studi che dimostrano quanto l’ ipnosi possa essere utilizzata in campi di applicazione davvero vasti.
Sicuramente uno dei principali è quello del trattamento del dolore: può essere utilizzata durante il parto (Williamson, 2015), per la gestione delle coliche (Gonsalkorale, Toner, Whorwell, 2004), nel dolore da cancro (Kravits, 2013), per il dolore acuto (Landolt & Milling, 2011) e per il dolore cronico (Elkins, Jensen, Patterson, 2007; Soelb et al., 2009).

Uno degli ambiti più discussi in termini di efficacia è proprio quello dell’uso delle tecniche ipnotiche durante il travaglio. Infatti una recente metanalisi Cochrane (Madden et al., 2016) ha evidenziato come la ricerca sull’ ipnosi non abbia finora definitivamente dimostrato i benefici dichiarati in quest’ambito di trattamento.
Altre problematiche trattabili con l’ ipnosi sono la depressione (Alladin, 2012) e l’ansia (Golden, 2012; Hammond, 2010).

In generale quindi, l’evidenza suggerisce che l’ ipnosi è efficace. Un recente studio (Jensen et al., 2015) ha cercato di riassumere i risultati in letteratura delle associazioni tra fattori specifici con i domini psicologico, sociale e biologico. Ebbene:
– nessun singolo fattore appare primario;
– diversi fattori possono contribuire più o meno a risultati in diversi sottogruppi di individui o per diverse condizioni;
– modelli completi di ipnosi che incorporano i fattori da tutti e 3 i domini possono in definitiva rivelarsi più utili rispetto a quelli più restrittivi che si concentrano su uno o pochissimi fattori.

Preconcetti e luoghi comuni riguardo l’ ipnosi

Nel largo pubblico e probabilmente anche tra alcuni clinici vi sono altre ulteriori complicazioni che ingenerano tanti problemi e misteri attorno a questa pratica, quasi fosse un qualcosa di magico/esoterico.

Per esempio, Vickers & Zollman (1999) descrivono l’ ipnosi come l’induzione del soggetto in uno stato profondamente rilassato per aumentarne la suggestionabilità e la sospensione delle facoltà critiche. E qui nasce un primo dubbio di interpretazione che suscita molte mistificazioni: cosa significa sospensione delle facoltà critiche? Che il terapeuta può manipolare la coscienza del soggetto? Niente di più fourviante. Infatti per Erickson (1985) l’ ipnosi è un processo psicologico che porta il paziente ad utilizzare le proprie associazioni mentali, ricordi e potenzialità per raggiungere un determinato fine terapeutico. Quindi è la comunicazione terapeuta-paziente a creare un cambiamento passando per lo stato di trance e non una sospensione delle facoltà critiche.

Nell’ ipnosi si è sempre rilassati: non sempre è vero. Generalmente l’ ipnosi è accompagnata dal rilassamento per migliorare la capacità di risposta. Tuttavia il rilassamento non è una componente indispensabile per lo stato ipnotico (Kirsch & Council, 1992; Yapko, 2015). Per esempio “nell’ ipnosi vigile il soggetto a occhi aperti è concentrato sull’esecuzione di un compito e la consapevolezza conscia è ancora più marcata” (Yapko, 2015 p.36)
L’ ipnosi cura i problemi psichici: “di per sè non cura niente. È ciò che accade nello stato ipnotico che ha un potenziale terapeutico”, “non è altro che un mettere meglio a fuoco le cose” (Yapko, 2015 p.26 e p.7).

Il rilassamento: dove si colloca?

Tralasciando la meditazione che appartiene più ad una filosofia di vita che ad una tecnica a sè stante, una delle prime forme di rilassamento è senz’altro il rilassamento progressivo di Jacobson (RPM) (Conrad & Roth, 2007). Il principio di fondo è che lo stress ci induce tensione muscolare e mentale, quindi la riduzione della tensione muscolare potrebbe essere un buon metodo per la prevenzione e la cura. Il fine del rilassamento è produrre uno stato di calma emozionale e si può ottenere attraverso l’esercizio costante, in grado di consentire alla persona di sviluppare un “senso” muscolare tale, da permettergli un più razionale utilizzo delle energie (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003). Generalmente il rilassamento è un programma che viene pianificato, non sviluppabile lungo una singola seduta e con una durata che può arrivare ai 2 mesi nella versione originale di Jacobson (per un’ora al giorno) o ridotta nelle versioni più brevi ad un paio di settimane (cinque-sei sedute con il terapeuta) (Wolpe, 1984; Cei, 1986). In forme più complete sono previste come coaudiuvanti all’effetto di rilassamento anche delle tecniche di visualizzazione e imagery. Esse coinvolgono l’induzione di uno stato di rilassamento, seguito dallo sviluppo di un’immagine visiva, ad esempio una scena piacevole, aumentandone così il senso di rilassamento. Queste immagini possono essere generate dal paziente o suggerite dal terapeuta. Nel contesto di un ambiente rilassante, i pazienti possono anche scegliere di immaginare se stessi far fronte in modo più efficace con i fattori di stress nella loro vita (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003).

Il rilassamento: come funziona e per chi?

Una seduta tipo si può riassumere così: la persona si sdraia o si siede comodamente in una stanza silenziosa. Si inizia a creare una tensione in progressione su un gruppo muscolare (es il braccio) inspirando, si mantiene la contrazione per 10-15 secondi, poi la si rilascia durante l’espirazione.

Dopo un breve riposo, questa sequenza viene ripetuta con un altro gruppo di muscoli. In modo sistematico, i principali gruppi muscolari sono così contratti e successivamente rilassati. A poco a poco, diversi muscoli vengono tra loro combinati. Lo scopo finale è quello di percepire le differenze tra tensione e rilassamento (Vickers et al, 2001).

Le fasi per raggiungere questa finalità sono (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003):
– Percezione della tensione e della distensione muscolare con esercizi di tensione, localizzazione della tensione, distensione e apprezzamento della tensione.
– Allenamento al senso muscolare, cioè verso quelle sensazioni che emergono quando i muscoli non sono nè completamente tesi nè rilassati.
– Sentire la tensione e la distensione mentale.

Non vi sono limiti di età, può essere fatta anche sotto i cinque anni (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003; Vopel, 2000). Con il bambino il rilassamento si può proporre in forma di gioco, senza le classiche istruzioni “cerca di sentirti rilassato” ma con la constatazione che i giochi di rilassamento si rivolgono “non soltanto alla coscienza dei bambini, bensì anche al loro inconscio, alla loro intuizione, alla loro fantasia, a tutto ciò che essi nella loro vita hanno imparato e immagazzinato (….)”(Vopel, 2000, p.6). Per i bambini tra i 3 e i 7 anni si suggeriscono giochi semplici, concreti, basati sulla fantasia, mentre dagli 8 ai 12 i bambini preferiscono strutture più complesse e drammatizzate. Questi giochi si basano su diverse fonti: Folclore, Tai Chi, Kum Nye, Gestalt, Fantasia e Psicoimmaginazione, Meditazione, Massaggio, New Games (Vopel, 2000).

Il rilassamento: accordi e limiti

Come detto, un esempio ben noto di rilassamento è il rilassamento progressivo muscolare (o sistematico) di Jacobson nato attorno agli anni ’30. Da allora sono stati sviluppati molti metodi abbreviati di rilassamento muscolare progressivo. Questi metodi sono stati utilizzati sia come trattamenti completi (come affermava lo stesso Jacobson) sia come componenti di un approccio terapeutico più ampio come ad esempio nella desensibilizzazione sistemica di Wolpe dove i momenti specifici di analisi e di modificazione del comportamento sono: colloquio, rilassamento, presentazione delle gerarchie comprendenti gli stimoli ansiogeni (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003).

Comunemente si inquadra il rilassamento come tecnica comportamentale (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003) ma non manca chi l’ ha analizzato sotto la veste dell’approccio psicodinamico (Sapir, 1980) quale metodo attivo e catartico.
Conrad & Roth (2007) affermano che, nonostante siano stati fatti molti studi sperimentali attestanti l’efficacia clinica delle terapie abbreviate con il rilassamento muscolare (per diverse condizioni mediche e disturbi psichiatrici), solo pochi di essi hanno valutato la tensione muscolare tra pazienti e soggetti sani prima del trattamento o hanno dimostrato che la terapia di rilassamento muscolare (MRT) modifica i parametri fisiologici di tensione o di attivazione generale.

Quali evidenze per il rilassamento?

Il rilassamento, nelle sue due forme più canoniche ovvero RMP di Jacobson (di cui abbiamo parlato) e Training Autogeno di Schultz, trova applicazioni nelll’ansia e nel distress legate all’ospedalizzazione (Neeru et al., 2015), alla depressione (Klainin-Yobas et al., 2015), allo stress scolastico (Dolbier & Rush, 2012), alla gestione del dolore in combinazione con altre tecniche (Finlay & Rogers, 2015), all’emicrania (Feuille & Pargament, 2015).

Una recente ricerca (Chellew, 2015) ha concluso che la riduzione dei livelli di stress rilevati tramite la secrezione di cortisolo è limitata, anche se la percezione della diminuzione di stress è sentita come significativa dai partecipanti. Un altro studio (Chen et al., 2015) atto a verificare le correlazioni tra le tecniche “mind-body” e le relative attivazioni cerebrali conclude che il rilassamento può discliplinare l’attività della corteccia prefrontale e le connessioni con le altre cortecce: quindi potenzialmente può aiutare le persone a modulare l’attività cerebrale in più sistemi di elaborazione cosciente delle emozioni.

Ma allora quale scegliere tra ipnosi e rilassamento?

Viene da dare subito la risposta: in base alla complessità del problema da trattare.
Il rilassamento costituisce solo un trampolino per facilitare esperienze ipnotiche più complesse, come la regressione ad altre età precedenti (memoria esperienziale) o l’anestesia. Nessuno immagina che possa bastare un esercizio di rilassamento per affrontare un intervento chirurgico senza dolore.

L’ ipnosi implica una ristrutturazione intenzionale di esperienze e la letteratura dimostra che i benefici nell’ambito della terapia del dolore e del trattamento dell’ansia durano almeno 6 mesi (Yapko, 2015, Davis, 2015).

Alla luce delle ricerche recenti, possiamo rilevare quale maggior differenza tra le tecniche ipnotiche e quelle di rilassamento due punti essenziali:
– la durata dell’effetto,
– la profondità dello stato di benessere.

Entrambe le differenze sono a favore del trattamento ipnotico, con la sola limitazione dovuta al tempo necessario per apprendere la tecnica per il paziente e nell’ottenere un’adeguata formazione negli specifici ambiti per il terapeuta. Permangono inoltre preconcetti e luoghi comuni che rendono l’ipnosi più relegata a contesti dove, dopo aver provato altre strade canoniche, si decide di fare quest’ultimo tentativo per gestire un problema/difficoltà. C’è da chiedersi se non si poteva tentare prima.

Albert Ellis: alla scoperta del padre della REBT – Introduzione alla Psicologia

Nel 1955 Albert Ellis rinunciò alla psicoanalisi e si concentrò su come poter cambiare il comportamento delle persone partendo da una serie di credenze irrazionali per trasformarle in credenze razionali. In questo anno pubblicò il saggio “New approches to psychotherapy techniques” e denominò il suo nuovo approccio Rational Therapy (RT).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Albert Ellis: la vita

 Albert Ellis è nato a Pittsburgh nel 1913 e cresciuto a New York City. Albert Ellis ha vissuto un’infanzia difficile da cui ha appreso la determinazione e testardaggine che gli hanno consentito di raggiungere mete sempre più alte nella vita.

Egli dedicò, in giovane età, la maggior parte del suo tempo alla scrittura di racconti, opere teatrali, romanzi, poesie, saggi di fumetti e libri di saggistica. Già a 28 anni, aveva scritto due dozzine di manoscritti e ben presto si dedicò alla sex- family revolution, che trattò in un libro: “The Case for Sexual Liberty”. Di conseguenza, in molti dopo la pubblicazione di questo libro lo considerarono un esperto in materia e per questo iniziarono a chiedergli consigli su come comportarsi. Così, in Ellis si consolidò l’interesse e la passione nel dare consulenza agli altri.

Nel 1943 conseguì la laurea in psicologia clinica alla Columbia University e iniziò a lavorare in uno studio privato part-time occupandosi di consulenza familiare e sessuale.

Nel 1947 conseguì il dottorato e in quegli anni credeva che la psicoanalisi fosse la forma più efficace di terapia, per questo intraprese gli studi in ambito psicoanalitico e iniziò a praticarla.

Successivamente, la fede di Albert Ellis nella psicoanalisi si sgretolò quando intuì che i clienti visti solo una o due volte alla settimana, progredivano allo stesso modo di quelli visti tutti i giorni. Per questo decise di diventare parte attiva nella relazione terapeutica, intervenendo con consigli e interpretazioni dirette. In questo modo i clienti sembravano migliorare più rapidamente rispetto a quando utilizzava le procedure psicoanalitici passive.

Nel 1955 Albert Ellis rinunciò totalmente alla psicoanalisi e si concentrò su come poter cambiare il comportamento delle persone partendo da una serie di credenze irrazionali o non adattive per trasformarle in credenze razionali. In questo anno pubblicò il saggio “New approches to psychotherapy techniques” e denominò il suo nuovo approccio Rational Therapy (RT).

Nel 1957 pubblicò il suo primo libro : “Come vivere con un nevrotico”, e nel 1959 fondò l’Institute for Rational Living, divenuto in seguito l’Institute for Rational Emotive Therapy e infine l’ Albert Ellis Institute, dove si insegnavano e si insegnano i principi della REBT.

Nel 1960, a Chicago, Ellis presentò uno studio sulla sua terapia al convegno dell’Associazione Psicologi Americani, suscitando scarso interesse perché la sua forte enfasi cognitiva disturbò quasi tutti, con la possibile eccezione dei seguaci di Alfred Adler. Conseguentemente egli fu spesso accolto con ostilità alle conferenze professionali e dall’editoria.

Albert Ellis si sposò due volte, la prima relazione durò 37 anni con Janet Wolfe, che ha ricoperto per oltre 25 anni la carica di Direttore Esecutivo dell’ Albert Ellis Institute, e la seconda con Debbie Joffe che sposò negli ultimi anni.

Ellis scomparse il 24 luglio 2007 per cause naturali all’età di 93 anni.

 

La Teoria di Albert Ellis

Albert Ellis fondò la terapia razionale emotiva (RET), che successivamente divenne terapia comportamentale razionale-emotiva (rational-emotive behavior therapy/REBT), perché lavora sull’interazione reciproca tra cognizioni, emozioni e comportamento.  La REBT si basa su principi semplici, efficaci e facilmente trasmissibili.

Ellis partì dal presupposto secondo il quale se si riuscisse a pensare in modo razionale allora la forza traumatica di qualunque evento si svuota del suo contenuto ansiogeno. Infatti, varie forme di disagio psicologico ed emotivo non sono determinate dalle caratteristiche dell’evento attivante in sé, ma dai pensieri, spesso distorti e irrazionali, per mezzo dei quali sono interpretati gli eventi e ai quali è attribuito un significato disturbante.

Gli assunti principali della REBT si possono sintetizzare nei seguenti punti:

  • il modo in cui ci sentiamo (emotivamente) e il modo in cui ci comportiamo derivano da quello che pensiamo;
  • un modo di pensare illogico, distorto, irrazionale genera problemi emotivi e comportamentali;
  • i problemi emotivi e comportamentali possono essere superati sostituendo i pensieri irrazionali con pensieri razionali.

Albert Ellis, ha ideato uno schema che permette di individuare le idee irrazionali da cui deriva la sofferenza. Lo schema da lui proposto si chiama ABC ed è così suddiviso:

  • A (Adversities e Activating Experiences, avversità ed esperienze attivanti): tutto ciò che interagisce (negativamente o meno) con il raggiungimento dei nostri obiettivi. Per esempio: essere lasciati dal partner, essere licenziati, farsi male ecc.
  • B (Beliefs, credenze o critical beliefs): le idee che le persone sviluppano rispetto alla situazione che si è verificata e possono essere:
    • Razionali: di solito soluzioni che si riassumono in preferenze e desideri che gli A non avvengano. Per esempio: “se ci tengo a questa relazione, occorre modificare alcuni comportamenti”; “sarebbe opportuno non essere licenziati e anche se avvenisse sono in grado di individuare delle soluzioni”, “dovrei curare maggiormente la mia salute”.
    • Irrazionali: sono pretese che gli A non debbano assolutamente accadere. Per esempio: “nessuno può permettersi di lasciarmi, se il mio compagno/a lo facesse significa che è una brutta persona”, “non devo essere licenziato e, se accadesse, significa che sono una persona che non vale nulla”, “Mi piace fumare, quindi per me è intollerabile per me smettere di farlo”.
  • C (Consequences, conseguenze): sono le conseguenze dei B e possono essere:
    • Sane: si tratta di comportamenti e di emozioni che derivano da B razionali. Per esempio: “se la mia relazione è finita significa che non eravamo compatibili, quindi trovo qualcosa di diverso per me”; “mi spiace essere stato licenziato, mi adopero a cercare altro”, “dovrò curare meglio il mio stile di vita per migliorare la mia salute”.
    • Patologiche: sono comportamenti e sentimenti che derivano da B irrazionali. Per esempio: “sono stato lasciato, la deve pagare!”; “sono stato licenziato quindi sono una nullità”, “fumo e non posso farci nulla”.

Nel modello REBT le emozioni, derivanti dai B disfunzionali, si distinguono tra funzionali e disfunzionali, non esiste solo una differenza quantitativa ma anche qualitativa. Lo scopo non è eliminare l’emozione negativa o sostituirla con una diversa, ma ottenere un’emozione che sia quantitativamente meno intensa e quindi tollerabile, a esempio è possibile ottenere preoccupazione al posto di ansia o frustrazione al posto di rabbia.

 

Dalle idee irrazionali alle alternative razionali

Secondo la REBT il focus della sofferenza emotiva è determinata dalle pretese irrazionali, e possono essere riassunte come segue:

  1. Doverizzazioni (devo essere bravo);
  1. Valutazione globale del valore personale, proprio e altrui (non valgo/non valgono);
  1. Terribilizzazioni/ Catastrofizzazioni (è terribile se andasse in questo modo);
  1. Intolleranza alla frustrazione (è intollerabile pensare di smettere)

Non si tratta di errori logici, ma di valutazioni negative della realtà che generano sofferenza non perché errate, anzi, possono essere corrette, e nemmeno perché negative, per Albert Ellis un pensiero può essere tollerabilmente negativo e quindi non patologico, ma per essere percepite come intollerabili e di conseguenza rigidissime (doverizzazioni). In sostanza, sono asserzioni su come dovrebbe andare la realtà, sia esterna che interiore.

È importante sottolineare che queste valutazioni sono pensieri pragmaticamente dannosi perché generano sofferenza emotiva e paralisi dell’azione vitale

Secondo Ellis la soluzione terapeutica consiste nel rendere consapevoli i clienti che sono i pensieri a generare sofferenza e non le situazioni e per questo è necessario metterli in discussione attraverso il Disputing, ovvero disputa, in cui si sostituiscono i B irrazionali con dei B razionali da cui derivano dei C funzionali.

Nella REBT, dunque, non si disputano i pensieri automatici ma i pensieri irrazionali. I pensieri automatici sono generati dai pensieri irrazionali (sono un fallimento perché DOVREI fare sempre tutto alla perfezione e non riesco). Quindi, si indagano prima i B irrazionali e si disputano e poi si modificano i pensieri automatici.

Esistono tre diverse dispute:

  1. Logica: in cui si sottolinea l’illogicità dei suoi pensieri (solo perché una cosa è desiderabile non è logico pensare che accada)
  2. Empirica: si verifica la coerenza con la realtà empirica
  3. Pragmatica: si induce il cliente a prendere in considerazione il valore edonico o pragmatico dei suoi pensieri

Alla fine, per ottenere un cambiamento è necessario sostituire i B irrazionali con B funzionali.

Quindi, non basta sostituire una pretesa con una preferenza, ma si chiede al cliente di abbandonare un pensiero che non lo aiuta nella sua realizzazione con un altro funzionale al raggiungimento dello scopo.

 

Albert Ellis: perché è importante

Albert Ellis insieme ad Aaron T. Beck furono considerati i primi grandi esponenti della terapia cognitiva, che negli anni ’70 influenzò molti esponenti della terapia comportamentale, come Albert Bandura, Arnold Lazarus, Cesare De Silvestri, Donald Meichenbaum e Michael Mahoney, agevolando la nascita della psicoterapia cognitivo-comportamentale.

La REBT è un metodo diretto ed efficace di risoluzione dei problemi che consente di confrontarsi con i clienti circa le loro convinzioni e dire loro ciò che è razionale e ciò che non lo è.

La REBT a tutt’oggi costituisce un importante approccio terapeutico alla sofferenza del paziente e l’ABC una tecnica che consente di individuare immediatamente il focus su cui agire a livello terapeutico.

Lo scopo finale di questa terapia è l’accettazione della paura più grande posseduta e imparare a convivere gestendola senza criticarla o rifiutarla.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbi dell’alimentazione: uno nessuno e centomila? Un tentativo di sintesi – Riccione, 2017

Disturbi dell’alimentazione: uno nessuno e centomila? un tentativo di sintesi

C. Iannaco, M. Cavalletti, E. Moretti, G. Sonetti, S. Caini, S. Lucarelli – Scuola Cognitiva di Firenze

 

Secondo la prospettiva transdiagnostica di Fairburn i Disturbi dell’Alimentazione (DA) condividerebbero il medesimo nucleo psicopatologico: un’ eccessiva importanza attribuita al peso, alla forma del corpo e al controllo dell’alimentazione. Studi longitudinali evidenziano l’instabilità diagnostica dei DA e la loro migrazione da una categoria all’altra, suggerendo che le categorie diagnostiche dei DA nel DSM-5 non descrivano adeguatamente la realtà clinica. In tale prospettiva i DA vengono considerati come un’unica categoria, mantenuta da meccanismi comuni quali bassa autostima e perfezionismo (Fairburn et al., 2003). Altri studi (Sassaroli et al., 2007; Sassaroli, Gallucci e Ruggiero, 2008) hanno evidenziato come anche il rimuginio e il controllo costituiscano importanti fattori di  mantenimento per i DA. In particolare, i soggetti con DA mostrerebbero una maggiore tendenza a preoccuparsi per gli errori (perfezionismo patologico), un minor senso di autostima, misure più elevate di rimuginio ed una scarsa percezione di controllo sugli eventi esterni e sugli stati emotivi interni, rispetto ai soggetti non patologici.

Partendo da tali premesse, obiettivo del presente studio è stato quello di delineare specifici profili cognitivi dei DA, sulla base del nucleo psicopatologico e dei fattori di mantenimento, valutando l’ipotesi di un approccio diagnostico dimensionale, anziché categoriale.

Sono stati reclutati 140 pazienti con diagnosi di Anoressia Nervosa (età: 25,5 ± 10,3), 95 con diagnosi di Bulimia Nervosa (età: 26,6 ± 10,3) e 146 con diagnosi di Binge Eating Disorder (età: 40,0 ± 13,6), afferenti al Servizio per la cura dei Disturbi dell”Alimentazione, presso l’Azienda USL 11 di Empoli. Ad ogni paziente è stata somministrata, durante la fase di assessment, una batteria di test composta dai seguenti strumenti: Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q),  Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES), Multidimensional Perfectionism Scale (MPS), Anxiety Control Questionnaire (ACQ), Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS), Body Uneasiness Test (BUT), Body Attitude Test (BAT), Penn State Worry Questionnaire (PSWQ), Dissociative Questionnaire (DIS-Q), State Trait Anxiety Inventory (STAI), Beck Depression Inventory (BDI).

La distribuzione delle scale MPS, RSES, PSWQ e ACQ  è stata confrontata, utilizzando i cut-off clinici, attraverso il test Chi-square al fine di riscontrare l’esistenza di differenze statisticamente significative tra i vari gruppi di DA per tali variabili. Successivamente il campione è stato suddiviso in cluster mutuamente esclusivi e collettivamente esaustivi, utilizzando un algoritmo k-means con n cluster=2 ed i valori ai test RSES, MPS Tot, ACQ Tot e PSWQ, sono stati usati come variabili di clusterizzazione. La distribuzione nei cluster dei pazienti affetti da AN, BN e BED è stata poi confrontata utilizzando il test Chi-square.

Dai risultati del presente lavoro emergerebbe che i soggetti AN e BN mostrano profili leggermente più simili tra loro rispetto ai soggetti BED, i quali presentano un po’ più spesso perfezionismo normale o subclinico e un po’ meno spesso forte rimuginio (mentre sia per il controllo che per l’autostima  si collocano, al pari di AN e BN, più frequentemente all’interno del range di bassa autostima e riportano una bassa percezione di controllo). Tali differenze sono comunque modeste e, con l’eccezione di alcune sottoscale del test MPS (timore degli errori, obiettivi personali, dubbi sulle azioni e organizzazione), non raggiungono la significatività statistica. I dati confermano il ruolo delle variabili perfezionismo, bassa autostima, rimuginio e controllo nel delineare un profilo cognitivo comune a tutti i DA, indipendentemente dalla diagnosi categoriale. Considerando che il campione reclutato è completamente clinico, le differenze  riscontrate tra i gruppi AN e BN, rispetto al gruppo BED, si collocano in un range che è comunque “patologico”. Il confronto con un campione di controllo, non clinico, probabilmente produrrebbe una riduzione di tali differenze, accrescendo invece quelle intercorrenti tra il gruppo clinico (AN, BN e BED) e quello di controllo. Tale aspetto rappresenta pertanto, congiuntamente alla valutazione della possibilità di tracciare anche un profilo emotivo dei DA, l’obiettivo futuro verso cui sarà indirizzata la presente ricerca.

 

Siblings: fratelli e sorelle superspeciali di bambini speciali

Questo filone di ricerca si è dedicato allo studio dei siblings, termine che nel mondo anglosassone indica semplicemente un legame di fraternità, mentre nel panorama italiano, fa riferimento nello specifico a fratelli e sorelle di bambini con disabilità.

Federica Rossi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Carico pesante avere un fratello speciale come Giovanni.
Tu sei un fratello super speciale.
Ammiro la tua infinita pazienza.
Bisogno di visi sorridenti hai.
Di momenti senza di lui.
Giovanni è agitato.
Non riesce a controllare troppi stimoli.
Accettalo. Sei grande.”
(lettera da Andrea Ervas, ragazzo affetto da autismo, al fratello di un suo amico)

 

Siblings: i fratelli di bambini con disabilità

I bambini con Bisogni Speciali, così come vengono chiamati nel contesto americano e anglosassone, sono affetti da malattie croniche o acute, problemi mentali, disabilità fisiche o intellettive (Meyer e Vadasy, 2008). Esempi di condizioni patologiche sono il diabete, la spina bifida, il cancro, così come condizioni mentali come depressione o problemi comportamentali, disturbi del neurosviluppo, come sindromi genetiche, ritardo mentale e disturbi dello spettro autistico. Qualunque sia il bisogno speciale, avere un bambino con una qualsiasi di queste condizioni quasi sempre cambia le dinamiche nella famiglia.

Per diversi decenni lo studio degli effetti all’interno delle famiglie della presenza di bambini con queste difficoltà si è concentrato sui genitori, in particolare sulla madre, principale caregiver del bambino con bisogni speciali. Dagli anni Ottanta tuttavia la ricerca scientifica ha concentrato l’attenzione anche sui fratelli e le sorelle, esplorando le conseguenze della presenza del bambino fragile sullo sviluppo del fratello con sviluppo tipico (Seligman, 1983, Rodger, 1985).

Questo filone di ricerca si è dedicato quindi allo studio dei “siblings”, termine che nel mondo anglosassone indica semplicemente un legame di fraternità, mentre nel panorama italiano, fa riferimento nello specifico a fratelli e sorelle di bambini con disabilità.

Le prime ricerche avviate in questo campo hanno utilizzato un approccio quantitativo, avvalendosi di strumenti standardizzati per individuare dimensioni che rappresentano l’esperienza dell’essere sibling. Tali studi sono nati per colmare le lacune conoscitive in un campo inesplorato, con il presupposto che ci siano caratteristiche comuni e generalizzabili. Queste ricerche hanno portato tuttavia a risultati contraddittori e inconcludenti rispetto agli effetti dell’essere un sibling.

Si è dunque ipotizzato che i siblings “medi” siano solo una creazione statistica, poiché le esperienze di ogni fratello sono uniche e differenti in base a diverse variabili. L’impatto dell’avere un fratello con fragilità dipende infatti da aspetti legati alla condizione patologica, come la presenza di un handicap congenito o acquisito, cronico o transitorio, psichico o fisico, lieve o grave. Importanti si sono rivelati anche il genere del sibling, l’ ordine di genitura e il contesto socioeconomico della famiglia, dipingendo quindi un quadro di estrema complessità. Da queste considerazioni è stato possibile il passaggio a un approccio più qualitativo, basato più sull’esplorazione che sull’indagine, aperto a nuove scoperte piuttosto che a conferme di ipotesi fatte a priori. Sono dunque cambiati gli strumenti, con colloqui ed interviste libere effettuate in setting domestici, utilizzando una visione più sistemica e meno individuale. La raccolta delle esperienze individuali dei sibling ha così cambiato il costrutto indagato, concentrandosi più sulla dimensione di fraternità che di patologia; molti dei racconti erano infatti contraddistinti da questa considerazione: “Io non vedo mio fratello come disabile, ma semplicemente come mio fratello”.

 

Come si modifica nel tempo la relazione fraterna tra il sibling e il fratello con bisogni speciali

La relazione fraterna, come ogni altro legame, subisce cambiamenti nell’arco della vita di una persona e così accade anche al rapporto tra il sibling e il fratello/sorella con bisogni speciali. Nella prima infanzia e nell’età scolare i bambini sono naturalmente portati a offrire aiuto e protezione ai loro fratelli vulnerabili, sebbene l’accudimento sia effettuato per lo più dai genitori (Seligman, 2007; Gardou, 2012); in questa fascia d’età spesso non si rendono conto delle difficoltà del fratello, oppure ne hanno solo una comprensione limitata.

A un certo punto della vita del sibling, soprattutto nel caso in cui il fratello con bisogni speciali sia affetto da disabilità intellettiva, l’ordine di nascita sembra perdere la sua importanza e la categoria maggiore/minore è sostituita da capace/non capace; è l’inizio del processo del role cross- over, ossia lo scambio di ruoli che avviene tra fratelli quando il minore con sviluppo tipico uguaglia e sorpassa le competenze cognitive del fratello con bisogni speciali. E’ questo il momento della consapevolezza delle difficoltà del fratello /sorella con bisogni speciali e di solito avviene tra i 6 e 10 anni, anche a seguito del confronto con amici e compagni di scuola.

Nell’adolescenza diventa invece maggiore il bisogno di conoscere il significato e le implicazioni per la propria vita della diagnosi del fratello; il legame fraterno si affievolisce e se lo sviluppo è sano, i siblings si sottraggono dagli impegni familiari di accudimento, per il processo naturale di emancipazione dalla famiglia e aggregazione con i pari. Tuttavia se i coetanei scherniscono il ragazzo oppure non mostrano di comprendere le sue difficoltà, il sibling può sperimentare un sentimento di isolamento ed estraneità dal gruppo dei pari; in questa situazione avere altri fratelli con cui parlare delle proprie emozioni è protettivo (Coppola, 2007). Alcuni adolescenti arrivano persino a nascondere agli amici l’esistenza del proprio fratello con bisogni speciali, come accade nella storia “Mio fratello rincorre i dinosauri” (Mazzaiarol, 2016). Altri invece, che hanno trovato un tessuto sociale positivo possono invece affrontare le difficoltà del fratello con serenità e ottimismo.

 

I vissuti emotivi dei siblings

Sebbene, come detto in precedenza, non si possa generalizzare, in quanto l’esperienza di ogni fratello è unica, sulla base delle esperienze individuali dei siblings si sono individuati alcuni vissuti che possono essere provati nel corso dell’esistenza nei confronti del fratello con bisogni speciali:
– La paura dovuta all’identificazione con il fratello e al timore di condividere con lui nel futuro la stessa disabilità, che di solito diminuisce quando ricevono informazioni chiare sulla fragilità dell’altro;
– La sensazione di perdita nei confronti delle attenzioni dei genitori;
– La solitudine e l’esclusione, sia come effetto dell’isolamento della famiglia o dalla comunità, sia come conseguenza del senso di esclusione dal gruppo dei pari, con cui non possono condividere le preoccupazioni legate al fratello con disabilità;
– La vergogna, in quanto ritengono che la propria famiglia sia marchiata per sempre;
– L’imbarazzo, in quanto i comportamenti inadeguati attirano lo sguardo delle altre persone oppure devono rispondere a domande di amici e conoscenti che possono mettere in difficoltà;
– Sensazione di essere invisibili o non visti, perché danno poco “fastidio” rispetto al fratello con disabilità;
– Il senso di colpa, in quanto soprattutto da piccoli, pensano che la disabilità sia una punizione o conseguenza di qualcosa che hanno fatto o detto. Questa emozione può anche ritrovarsi sottoforma di sindrome del sopravvissuto (perché io si e lui no) o dal conflitto tra il sentimento di vergogna e l’amore che provano per il proprio congiunto;
– L’eccessiva responsabilizzazione, soprattutto se i siblings sono primogeniti, sono sorelle o fanno parte di una famiglia poco numerosa; questo, unito al senso di colpa, li porta a diventare bambini iperadattati, che sentono di avere il dovere di non dare ulteriori problemi ai genitori, già così preoccupati per la situazione del fratello;
– La rabbia, quando i genitori tendono a difendere o proteggere troppo il fratello con disabilità o dedicargli troppe risorse emotive e finanziarie; spesso questa emozione è seguita dal senso di colpa, perché non ci si sente legittimati a provare queste emozioni verso un bambino con disabilità;
– L’ansia legata all’eccessiva richiesta di prestazione, o come richiesta implicita per compensare il fallimento sperimentato con il figlio con disabilità o perché i siblings spontaneamente sentono di dover essere molto esigenti con loro stessi;
– La preoccupazione per il futuro, il “dopo i genitori”; questi bambini vengono spesso implicitamente caricati dall’aspettativa che dopo la perdita dei genitori loro diventeranno i caregiver dei fratelli, a livello fisico, affettivo, economico.

Tutti questi vissuti, di per sé sani e comprensibili in un qualunque fratello di un bambino con bisogni speciali, se non adeguatamente riconosciuti, compresi, espressi, legittimati, e accolti dai genitori e dalla rete sociale, possono diventare problematici nel tempo.

Le evidenze riguardo il funzionamento psicosociale dei siblings di bambini con disturbi dello sviluppo è variegato (Stoneman, 2005); tuttavia è comunque emerso che almeno alcuni siblings sono a rischio per difficoltà comportamentali (Verte et al., 2003) o problemi internalizzanti ( Gold, 1993) o sociali (Constantino et al., 2006). Dagli studi in letteratura sembrerebbe che soprattutto le sorelle maggiori (Olsen et al., 1999) siano più coinvolte nell’accudimento che i fratelli (Dyson, 2010) e che questa responsabilità sia pressochè permanente (Lobato, 1990). Le sorelle a causa di questo coinvolgimento esprimono maggiormente preoccupazioni sul benessere del fratello/sorella con bisogni speciali (Guse et al., 2010) e alcuni studi hanno ipotizzato che occuparsi del fratello/sorella sia uno stressor significativo (Olsen et., 1999). Questo potrebbe portare a problemi di adattamento e psicosociali sia a breve termine che a lungo termine (Thompson, Curtner et al., 1994) . Va sottolineato però che più numerosa è la fratria, più facile sembra essere il raggiungimento di un buon livello di adattamento, tranne nel caso in cui la famiglia debba affrontare difficoltà economiche. Alcuni studi sembrano sostenere che la condizione di siblings non costituisca di per sé una condizione patologica, ma potrebbe esacerbare problemi emotivi e comportamentali in presenza di altri fattori di rischio demografici o familiari.

Alcuni studi hanno riscontrato per esempio che più alti livelli di stress genitoriale (Giallo et al., 2006) e status socio economico basso (Macks et al., 2007) predicono una maggiore probabilità di problemi di adattamento nei siblings. Un’altra ricerca recente ha trovato inoltre che la depressione materna media l’associazione tra la gravità dei sintomi del fratello con bisogni speciali e i problemi di adattamento del sibling (Meyer et al, 2011).

 

Come vengono gestiti i vissuti emotivi dei siblings dalla famiglia?

Quando si indagano le difficoltà di adattamento di un sibling bisogna sempre considerare l’importanza che assumono le dinamiche messe in atto dai genitori nel gestire il rapporto tra il fratello con sviluppo tipico e il fratello con bisogni speciali. I problemi emotivi e comportamentali di un sibling possono essere spiegati infatti da una mancanza di conoscenza o da una comunicazione inefficiente tra genitori e figlio sui disturbi del bambino disabile, da sentimenti di isolamento fisico o emotivo dai genitori e da limitate abilità genitoriali di offrire supporto sociale ed emotivo al sibling.

Inoltre si è osservato che le strategie di coping da parte del sibling sono collegate con il grado in cui le madri esprimono le emozioni verso di loro, considerano la loro prospettiva e comunicano e riconoscono al sibling l’importanza delle cure e delle attenzioni che ha per il fratello con bisogni speciali, valorizzandolo nella sua esperienza (O’Kane, Grissom & Borkowski, 2002). E’ fondamentale che i siblings si sentano autorizzati dai genitori ad esprimere i dubbi, la sofferenza e le difficoltà che provano nella relazione con il fratello vulnerabile. Spesso infatti i genitori temono che il figlio con disabilità non venga amato dal fratello e valorizzano solo le dinamiche affettuose, condannando quelle rifiutanti o di gelosia. Questo contesto obbliga il sibling ad amare l’altro non per ciò che è, ma in virtù della sua fragilità. Quando i fratelli sono invece lasciati liberi di scegliere i legami che possono e vogliono intrattenere reciprocamente, la fratria può svilupparsi in modo sano, determinando la costruzione della personalità dei soggetti e del loro ruolo nella vita familiare (Farinella, 2015).

 

La resilienza dei siblings

Negli anni Novanta si è giunti quindi alla conclusione che la relazione fraterna con un ragazzo con bisogni speciali non è per sua stessa natura negativa e patogena (Valtolina et al., 2007), in quanto, nonostante ci possano essere difficoltà d’adattamento, quest’ultimo è possibile e può avere anche esito positivo. I membri della fratria non sono necessariamente vittime della patologia che tocca uno di loro (Scelles, 2010; Valtolina, 2007): attraverso l’attivazione di processi di difesa e disimpegno, di identificazione separazione, possono sviluppare determinate competenze di resilienza (Gardou, 2012). Un recente studio di Schuntermann del 2007 ha individuato alcuni fattori che contribuiscono a potenziare la resilienza di un sibling: fattori individuali (la competenza sociale, buone capacità di giudizio ed intelligenza, abilità di autocontrollo), punti di forza familiari (comunicazioni efficaci, legami di vicinanza, regole coerenti) e supporto della comunità (amici, scuola, famiglia estesa).

In presenza di questi fattori si forma un terreno favorevole affinchè l’ esperienza dell’avere un fratello/sorella con bisogni speciali sia utilizzata per sviluppare potenzialità e risorse: tolleranza, compassione, empatia, affidabilità, lealtà, pazienza, orgoglio nei confronti dei successi dei fratelli, maggior sensibilizzazione verso i diritti dei disabili, competenza sociale e altre abilità utili nel corso di tutta la vita del sibling.

L’acquisizione di queste abilità e la maturità dovuta al contatto quotidiano con una realtà complessa rappresentata dai bisogni speciali del fratello porta i siblings ad essere un passo più avanti dei loro coetanei in termini di interessi e di responsabilità. Questo spiccato senso di responsabilità, ma allo stesso tempo anche di sensibilità alla sofferenza dell’altro, permane nell’età adulta, andando a costituire uno dei fulcri dell’immagine di sé; questo aspetto è testimoniato anche dalla nota casistica di siblings che sceglie di dedicarsi alle professioni di aiuto in vari campi, dimostrando una propensione all’utilizzo della relazione come strumento di benessere” (Valtolina, 2004). Il compito sociale, infatti, conferisce un senso di utilità che permette di sentirsi valorizzati e di riscattarsi dal vissuto di impotenza o dal senso di colpa provato in passato.

Si può affermare che nell’esperienza di essere siblings ci siano fattori immodificabili come l’ordine di nascita, il sesso, il temperamento individuale e quello del fratello, il tipo e il grado di disabilità. Non meno importanti però sono anche gli aspetti modificabili tramite interventi psicologici, come le interazioni tra il sibling e i suoi genitori o con suo fratello, il supporto ricevuto dai nonni e altre figure parentali, i legami con i pari e la prospettiva individuale con cui il bambino guarda la sua situazione familiare. Gli studi hanno notato che ci sono diversi modi attraverso cui è possibile favorire l’adattamento dei fratelli di bambini con bisogni speciali (Naylor et al., 2004, Sloper, 2000). Nello studio di Sloper è stato chiesto ai siblings di pazienti con cancro quali risorse e strategie sono state utili per il loro adattamento. Sono state riportate dai siblings tre aree: relazioni, informazione e avere proprie attività ed interessi. Otto siblings su dieci hanno riferito che le relazioni li hanno aiutati a parlare della loro situazione, a dar loro sostegno e supporto, oltre che dar loro un focus fuori dalla malattia del fratello. Avere informazioni sulla diagnosi, sull’eziopatogenesi e sul decorso della malattia è stato utile per dare un senso alla situazione, comprendendo meglio perché le loro vite sono così diverse da quelle degli altri, e li ha fatti sentire parte della famiglia. Inoltre avere propri interessi e attività è stato utile per permetter loro di distrarsi dalle preoccupazioni, aiutarli a mantenere una normalità nelle loro vite e dar loro un ruolo al di là di quello familiare.

 

Gli interventi per i siblings

Alla luce di queste considerazioni sono nati negli ultimi decenni nel mondo anglosassone alcuni interventi specifici incentrati sulle strategie di aiuto riportate dai siblings. Il programma più diffuso nel mondo, conosciuto in molti paesi, è quello dei Sibshops (Meyer, Vadasy, 1994), ossia dei workshops per i siblings, cioè incontri per fratelli e sorelle di bambini con bisogni speciali che hanno il fine di ottenere supporto e favorire la socializzazione in un contesto ricreativo (Meyer e Vadasy, 2008).

Sarebbe interessante nelle prospettive future esplorare l’impatto di avere un fratello neurotipico per un bambino con bisogni speciali e comprendere come quest’ultimo si adatti alla vita del fratello con sviluppo tipico, se ne sia geloso, oppure se sia aggressivo nei suoi confronti, in quanto la relazione fraterna è per sua definizione bidirezionale. Inoltre avere un fratello con sviluppo tipico permette al bambino con bisogni speciali di allenare le sue abilità sociali in un laboratorio protetto e familiare. In particolare questa considerazione è molto importante per i bambini con disturbi dello spettro autistico. Uno studio ha rilevato che le interazioni di gioco con i siblings sono migliori per quantità e qualità rispetto a quelle con i pari (Knott, Lewis, & Williams, 1995). I siblings sono infatti maggiormente familiari e condividono background ed esperienze con il fratello con bisogni speciali; il gioco con i pari è per lo più ugualitario, quello con i siblings è asimmetrico e permette al bambino con autismo di ingaggiarsi nel gioco senza essere responsabile dell’iniziativa nell’interazione. I siblings inoltre sono più motivati a giocare con il fratello rispetto ai pari, incoraggiati ed educati anche dai genitori.

Il lavoro psicologico con i siblings è un ambito di ricerca in costante espansione, con progetti attivi in diverse regioni di Italia. Tali realtà hanno riconosciuto l’importanza del coinvolgimento di questi fratelli e sorelle in programmi specializzati che favoriscano l’adattamento a un evento stressante che perdura nel tempo, come quello di avere un fratello con bisogni speciali. Possiamo ipotizzare che vissuti così complessi come quelli che si ritrova ad affrontare un sibling, se non hanno trovato uno spazio di ascolto e di elaborazione in precedenza, possano determinare in età adulta problematiche sia sul versante individuale sia interpersonale. E’ da sottolineare quindi che gli interventi psicologici rivolti ai siblings agiscono sia in un’ottica di promozione del benessere infantile sia di prevenzione di possibili problematiche psicopatologiche in età adulta. Perché come sosteneva lo scrittore Frederick Douglass, “è’ più facile creare bambini forti che riparare uomini rotti”.

Piromania: quale spiegazione si nasconde dietro la provocazione intenzionale di un incendio?

Spesso un incendio può venir provocato in maniera del tutto intenzionale, colui che appicca il fuoco in modo doloso viene da sempre definito un piromane: piromania è un termine che viene dal greco e sta ad indicare un’ossessione verso il fuoco, le fiamme e i loro effetti.

 

Si sente una sirena; una camionetta dei vigili del fuoco corre. Corre verso un bosco o un vigneto dove si stanno propagando le fiamme di un incendio.

Uno scenario comune quello di un incendio, il quale potrebbe verificarsi per svariate ragioni: ad esempio potrebbe aver luogo per cause naturali, come ad esempio un fulmine; altre volte un incendio si verifica accidentalmente, per via di un incidente.

Non bisogna però dimenticare che spesso un incendio viene provocato in maniera del tutto intenzionale. E colui che appicca il fuoco in modo doloso viene da sempre definito un piromane.

Piromania è un termine che viene dal greco (fuoco – mania), e sta ad indicare un’ossessione verso il fuoco, le fiamme e  i loro effetti.

Il DSM V annovera la piromania tra i disturbi del controllo degli impulsi e della condotta, e sembrerebbe che alla base vi sia un’intensa ossessione per il fuoco, le fiamme e i loro effetti.

Pare che chi soffre di piromania senta il ricorrente bisogno di appiccare un incendio in quanto l’atto stesso induce in lui euforia, piacere, sollievo.

Il DSM si limita a questo, sostenendo che dietro il comportamento antisociale non vi sia altro che attrazione, ossessione ed eccitazione provocate dalle fiamme di un incendio.

 

Uno sguardo più approfondito alla piromania

Però i frequenti incendi provocati in maniera dolosa che si sono osservati negli ultimi anni hanno indotto ricercatori ed autorità ad indagare meglio il fenomeno della piromania.

Finora gli studi più approfonditi e completi nel campo del crimine collegato al fuoco sono stati svolti negli Stati Uniti, dalle unità dell’FBI appositamente allestite per investigare su questi crimini. Essi hanno definito “incendiario” chiunque appicca un fuoco intenzionalmente.

Sono stati delineati una serie di possibili profili psicologici – comportamentali nascosti dietro la piromania e la provocazione intenzionale di incendi (Cannavicci, 2005):

  • Incendiario per vandalismo. Si tratta di soggetti che (solitamente in gruppo) appiccano incendi per noia o per divertimento.
  • Incendiario per profitto. Agisce con l’intenzione di ricavarne un guadagno personale. Ad esempio potrebbe provocare l’incendio al fine di rendere inutilizzabile un terreno utilizzato per coltivarci, affinché venga poi venduto per esser poi utilizzato in altri modi.
  • Incendiario per vendetta. Mira alla distruzione di beni altrui come risarcimento personale.
  • Incendiario per terrorismo politico. Agisce con lo scopo di esercitare una pressione sull’autorità pubblica. Il tentativo è quello di realizzare un grave danno per lo Stato al fine di condizionarne le decisioni.
  • Incendiario per altro crimine. In questo caso il fuoco viene utilizzato per cancellare le prove lasciate per un crimine differente, e quindi sviare le indagini.

Tutti le ricerche sulla piromania, effettuate sia in ambito psicopatologico che in ambito criminologico, concordano nell’asserire che alla base di questa condotta via sia un’attrazione forte per il fuoco (Bisi, 2008).

Si pensa che sia il piromane a far nascere l’incendio, ma non è esattamente così. È l’incendio a creare il piromane, questo a causa delle forti e piacevoli emozioni che la vista del fuoco che brucia è in grado di suscitare nel soggetto.

Si tratta di emozioni intense e piacevoli, le quali appagano e il soggetto desidera viverle; di conseguenza passa in secondo piano la gravità del reato commesso.

È proprio questa eccitazione e gratificazione emotiva, difficilmente controllabile, a rendere la piromania una categoria psichiatrica, quasi una sorta di “dipendenza” dal  fuoco.

È da tener presente che, come evidenziato da Ermentini in un suo lavoro, la smisurata attrazione per il fuoco e tutto ciò ad esso collegato non si esprime solo nell’accendere il fuoco, ma è seguita dall’appagamento di assistere a tutte le fasi successive allo spegnimento dell’incendio, compreso ascoltare a posteriori i notiziari che narrano dell’evento e delle sue conseguenze (Ermentini, Gulotta, 1971).

Non sono indifferenti le conseguenze che un incendio porta con sé: distruzione, annientamento, paura, morte. Tutti effetti che il piromane non considera adeguatamente, vedendo nell’incendio solo conseguenze a lui positive: eccitazione, euforia, appagamento dato dal fascino per il fuoco e per le fiamme, con conseguenti emozioni piacevoli. Senza dimenticare che l’aver provocato in prima persona l’incendio, ed essendo quindi stato l’artefice del tutto, gratifica ancor di più il piromane, il quale si sente protagonista attivo dello “spettacolo”.

A quanto pare gli studi mettono in luce che dietro la condotta della piromania vi è un movente, che sia profitto, vendetta, vandalismo, eccitazione o mancato controllo degli impulsi.

Provocare un incendio intenzionalmente è un reato, ma bisogna tener presente che dietro questa condotta potrebbe esservi un problema psicologico – comportamentale.

Sia le autorità giudiziali che la figure psicologiche o psichiatriche hanno finora cercato di delineare le condotte, gli stimoli, i modus operandi dei soggetti coinvolti in questo crimine. Tutto ciò al fine di anticipare le azioni di piromania e fermarle, intervenendo efficacemente e tentando così di porre i giusti rimedi a tutti gli scenari catastrofici generati da un incendio.

Rinfacciarsi tutto, come vecchi amanti: baruffe tra giornalisti

Nelle relazioni speculari e rancorose, segnate dall’eterno rinfacciarsi delle scambievoli mancanze e goffaggini, ci si specchia nell’altro e proprio per questo non ci si capisce, pur parlandosi molto. Come tra vecchi amanti che si sono troppe volte delusi a vicenda, a volte ci si comincia a capirsi tacendo.

 

Una baruffa di questi giorni tra giornalisti

Breve cronaca di psicologia delle relazioni umane: una baruffa tra giornalisti che forse potrebbe interessare tutti noi. Vediamo i fatti. Domenica 14 maggio in uno dei suoi lunghi articoli su Repubblica Eugenio Scalfari lascia cadere un breve commento sprezzante verso altri giornali di opposto orientamento politico e ideale, tacciandoli di scarso spessore culturale.

Risponde due giorni dopo il direttore di uno dei quotidiani sprezzati da Scalfari, Claudio Cerasa del Foglio. La risposta è lunga e articolata ma apparentemente poco centrata sul contenuto sdegnoso del commento di Scalfari. Cerasa non perde tempo nel rivendicare a sè e al suo giornale spessore culturale. Semmai rinfaccia qualcosa d’altro a Scalfari, qualcosa che somiglia a un: “certo che anche voi quanto a profondità culturale lasciate a desiderare”. E cosa rinfaccia Cerasa a Scalfari? Di avere nutrito un certo tipo di populismo che oggi ci tormenta, la sfiducia crescente verso la classe politica ritenuta incurabilmente corrotta e inetta, in nome di una moralità rigida che rischia sempre più di sfociare in un facile moralismo e qualunquismo che deresponsabilizza i cittadini, rendendoli proni a derive autoritarie.

Sarà vero? Sarà falso? Non importa, seguiamo invece i rimpalli, che possono essere rivelatori. Come nel coro del Conte di Carmagnola, dopo che si è sentito a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo emesso da Michele Serra il 18 maggio, adagiato nella sua amaca. Adagiato ma nervoso, Serra rinfaccia a sua volta a Cerasa, o meglio a Giuliano Ferrara, una sorta di immoralismo compiaciuto, un cattivismo altrettanto poseur e fastidioso del buonismo attribuito alla sinistra.

Chiude infine per ora la diatriba Luca Sofri che nota malinconicamente come sia difficile trovare un luogo di incontro tra queste diverse anime politiche, tutte chiuse in un reciproco rinfacciarsi su chi ha cominciato per primo a provocare l’altro.

Il meccanismo è psicologicamente abbastanza tipico e ricorrente, e va incontro a vari nomi nelle varie branche della psicologia. Gli psicoanalisti parlerebbero di transfert e identificazione proiettiva, i cognitivisti di cicli interpersonali e i sistemici di doppio legame. Parole che tutte esprimono questo reciproco legarsi degli individui in ruoli irrigiditi che si incancreniscono proprio quando entrano in vicendevole contatto.

È una melanconica osservazione che non sempre il dialogo crei comprensione, anzi. E nemmeno la ricerca di ciò che si ha in comune. Anzi, a volte sono le somiglianze che creano incomprensioni e dissapori. A ben vedere, Repubblica e il Foglio, buonismo e cattivismo, Scalfari e Cerasa e soprattutto Serra e Ferrara sono separati più dalle radici comuni che dalle differenze. Sbaglierebbe in parte chi porrebbe Il Foglio e Ferrara a destra.

Non si tratta solo delle origini comuniste di Ferrara, è proprio il profumo che si sente a volte nel Foglio. Quella molto leninista e togliattiana e perfino un po’ gramsciana familiarità con il potere. Quell’idealismo estremo che si converte nel disperato machiavellismo così tipico dei comunisti disillusi, rivoluzionari di professione troppo induriti dalle rudezze della conquista del potere. Quella convergenza così russa e dostoevskiana tra il santo e il criminale che Ferrara avrà assorbito nella sua infanzia sovietica.

Però poi ci sono le differenze. Michele Serra è di una generazione successiva rispetto a Ferrara. La generazione di Berlinguer, per troppo tempo reclusa all’opposizione, mai davvero arrivata ad alcun potere a differenza dei togliattiani. E quindi mai capace di superare la propria linea d’ombra, sempre rinchiusa in un moralismo puro quanto purtroppo sterile. Non ha del tutto torto il Direttore del Foglio quando nota come un moralismo così puro possa generare un qualunquismo già pentastellato. In fondo Grillo faceva parte dell’ambiente satirico cresciuto intorno a Serra.

Nelle relazioni speculari e rancorose, segnate dall’eterno rinfacciarsi delle scambievoli mancanze e goffaggini, ci si specchia nell’altro e proprio per questo non ci si capisce, pur parlandosi molto. Come tra vecchi amanti che si sono troppe volte delusi a vicenda, a volte ci si comincia a capirsi tacendo.

Hikikomori e disturbo narcisistico di personalità: un caso trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale

Michela ha 20 anni ed è in reclusione volontaria da 3. A sedici anni abbandona la scuola e decide di rinchiudersi nella sua stanza, dedicandosi interamente a giochi online, chat e visione di cartoni animati in completa inversione del ritmo sonno veglia. La madre nel corso degli anni ha tentato invano svariati approcci per contrastare la reclusione della figlia.

Sonia Agata Sofia, Giancarlo Dimaggio

 

Il termine Hikikomori è stato formulato dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki, per riferirsi al fenomeno di persone che hanno scelto una condizione di autoreclusione permanente al fine di ritirarsi dalla vita sociale.

Il ministero giapponese della salute definisce Hikikomori gli individui che rifiutano di uscire dalla casa dei genitori, isolandosi nella propria stanza per periodi superiori ai 6 mesi, con la possibilità che la permanenza in autoreclusione si prolunghi per anni, in una condizione di stabile dipendenza economica dalla famiglia. Essi sono soliti pranzare e cenare nella propria stanza con un vassoio passato dal genitore attraverso la porta socchiusa e si recano in bagno con percorsi che, per tacita intesa familiare, restano poco frequentati. Si interrompe ogni rapporto con il mondo della scuola o del lavoro.

Gli unici contatti con “il di fuori”, se avvengono, sono via internet, nei blog, nelle chat.

Gli Hikikomori sono, di solito, giovani maschi, ma la presenza femminile pare in aumento. Tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, ad addormentarsi al mattino dopo ore trascorse a guardare la tv, a leggere, a giocare ai videogames o a chattare on line.

Da un punto di vista sociologico, si sono indagati i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo ed un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali basate sull’estremo perfezionismo. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza di disturbi psicopatologici associati come il Disturbo Depressivo Maggiore ed alcuni disturbi di personalità come profili schizotipico, evitante e narcisistico (il cosiddetto Narcisismo del Sol Levante).

Si punta, come fa Ogino Tatsushi, a sottolineare forti complessi d’inferiorità, i sofferenti non possono stabilire relazioni, non possono avere esperienze socializzanti, in quanto avvertono la gente attorno come nemica e hanno la certezza che nessuno li possa capire.

Hikikomori è una svolta inaspettata in un sentiero diventato insidioso ma qui non si cerca la morte bensì un luogo di difesa dove tenere nascosto il proprio sé stanco ed inadeguato […].

Ciò che si portano addosso questi giovani Hikikomori è paura, rabbia e vergogna. Attraverso un apparente rifiuto della vita essi compiono il loro atto di difesa dal mondo che sta fuori. Per il giovane la stanza è il suo mondo e non vuole che nessuno lo invada, è l’unico riparo e intende difenderlo a tutti i costi.

Ci sono alcuni stati d’animo e atteggiamenti che il giovane Hikikomori percepisce nei confronti della propria vita, che durante l’assessment emergono in maniera prorompente: ansia, rabbia e senso di colpa.

Molti adolescenti si trovano a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio sé, con aspettative enormi ed ideali di perfezione. La tendenza all’autoreclusione dei giovani maschi sta varcando i limiti geografici che l’hanno fino ad ora contenuta. Si diffonde in Corea e Cina ed è arrivata negli Stati Uniti [Block, 2008].

Anche in Italia, si riferiscono casi che per molti aspetti rispondono alle caratteristiche richieste: ritiro sociale da almeno 6 mesi, fobia scolare precedente, talvolta internet addiction con inversione del ritmo circadiano.

Un elemento accomuna la cultura giapponese a quella de giovani occidentali contemporanei: il sentimento profondo e straziante della vergogna narcisistica [Pietropoli Charmet, 2003].

Non sembra proprio che l’esistenza di internet e lo sviluppo tecnologico siano la causa di questa sindrome, sembra piuttosto che questi costituiscano un ritrovato tecnologico perfettamente funzionale rispetto all’esperienza della segregazione.

Da questo punto di vista l’accesso alla rete sembra funzionare almeno in 3 modi: da un lato consente la messa in atto di pratiche ludiche che hanno lo scopo di permettere una occupazione del tempo senza che il senso di vuoto sia troppo incombente. Da un altro lato, internet consente l’assunzione di personalità fasulle senza che esse corrano il rischio di essere sottoposte a svergognamento da parte di nessuno.

Infine, in terzo luogo la rete consente di conservare una parvenza di parola là dove essa rischia di essere esclusa e perciò di mantenere l’esperienza Hikikomori ancora all’interno di una dimensione immaginaria narcisistica. La rete non è perciò né il sintomo né la malattia, piuttosto è la membrana immaginaria nella quale il soggetto si colloca in bilico tra un sé non accettato e la sua perdita.

Accettando il concetto di timidezza, potremmo dedurne che coloro che sono particolarmente timidi ed introversi sono più esposti al rischio di Hikikomori, manca però una chiave di accesso che sembra rappresentata da una sorta di narcisismo che porta gli uomini a sentirsi feriti nell’orgoglio anche rispetto a situazioni che in uno stato emotivo normale risulterebbero sopportabili; la timidezza si amplifica in vergogna da cui prende corpo la paura verso gli altri (Saito Satoru, 2001).

C’è chi si fissa di avere un brutto volto e vuole ricorrere alla chirurgia plastica obbligando i genitori ad occuparsi di tutto, l’esito non è mai quello sperato e la clausura continua, alimentata da un ulteriore senso di fallimento.

Comune a tutti è l’inversione del ritmo giorno-notte, lo fanno l’81% di cui il 61% fa ricorso anche ai sonniferi. Questo fatto implica diversi elementi sia di carattere biologico che psicologico: l’aspetto biologico deriva dal fatto che l’equilibrio interno dell’organismo è sostenuto anche dalla luce solare ed una vita in condizione di Hikikomori ne riduce notevolmente l’esposizione determinando uno squilibrio che, anche se non crea un vero deficit, non è immune da effetti collaterali.

Circa il 46% dei casi presenta un desiderio di morte e pianifica il suicidio; in realtà anche se esiste il progetto, il suicidio non viene quasi mai realizzato: il ragazzo in Hikikomori vuole vivere.

Dimaggio (2016) nel suo ultimo volume “L’illusione del narcisista” associa la condizione di ritiro sociale al disturbo narcisistico di personalità:

Nelle mie memorie si affacciano piloti, manager, architetti, una sfilza di studenti universitari e una sequenza marciante di ragazzi pieni di fantasie che realizzavano solo dietro l’anonimato di un fake su Facebook, o che conquistano il titolo di campioni di World of Warcraft, ma incapaci di parlare seduti al tavolo di una pizzeria in mezzo ad un gruppo che ride.

Dimaggio offre una nota di speranza: la terapia è possibile.

Siamo convinti che il segreto per la cura dei narcisisti sia quello di ridargli il diritto di vivere. La strada della terapia è la ricerca del contatto con la propria natura, lo scavo per trovare le proprie inclinazioni, preferenze e passioni. Si può dire che sia una rieducazione alla ricerca di sé.

Il modello è la Terapia Metacognitiva Interpersonale, caratterizzata da procedure passo- dopo- passo manualizzate e strutturate in due macrofasi, definite da marcatori chiari di avanzamento.

Il primo passo consiste nell’elicitare ricordi autobiografici dettagliati promuovendo la capacità del paziente di riconoscere i propri stati mentali sottostanti gli episodi narrativi. Lo scopo è di ricostruire il mondo interiore del paziente proprio a partire dagli episodi raccontati. E’ possibile lavorare con gli stimoli emotivi ed i sentimenti che i pazienti provano già nelle relazioni online.

E’ necessario raccogliere una serie di ricordi autobiografici associati per poter riconoscere l’esistenza di schemi rigidi per le relazioni interpersonali.

A questo punto è possibile promuovere progressivamente una consapevolezza condivisa dei modelli di interpretazione delle relazioni interpersonali. E’ chiaro che il lavoro di promozione delle abilità metacognitive superiori quali comprendere il punto di vista dell’altro (che può essere visto come ostile e dannoso), va realizzata solo dopo che il paziente è giunto a comprendere di essere guidato da schemi rigidi.

Hikikomori e disturbo narcisistico di personalita un caso clinico trattato con la TMILa seconda parte, denominata promozione del cambiamento comprende l’accesso alle parti sane di sé e promuove nuovi comportamenti sperimentali ed esplorativi che siano in sintonia con i desideri più intimi dei pazienti. In questa fase i pazienti sono aiutati a prendere distanza critica dai loro schemi, a costruire un repertorio più ampio di rappresentazioni di sé con gli altri ed acquisire proprietà di problem solving più sofisticate. E’ in fase avanzata che il paziente può infine riconoscere la propria responsabilità nelle interazioni problematiche ed il proprio coinvolgimento nei cicli interpersonali.

Durante tutto il corso della terapia, il terapeuta adotta un atteggiamento di costante validazione, regola la relazione terapeutica allo scopo di prevenire o riparare le rotture e la usa come luogo dove sperimentare nuove modalità di relazione.

 

Michela: un caso complesso

Michela ha 20 anni ed è in reclusione volontaria da 3. A sedici anni abbandona la scuola e decide di rinchiudersi nella sua stanza, dedicandosi interamente a giochi online, chat e visione di cartoni animati in completa inversione del ritmo sonno veglia. La madre nel corso degli anni ha tentato invano svariati approcci per contrastare la reclusione della figlia.

La sua è una famiglia del Sud con problemi economici ed in passato anche con la giustizia. Il padre, tirannico e violento, è una “presenza-assente” incapace di comunicare.

Al primo appuntamento Michela non è puntuale. Ricevo una telefonata della madre in forte agitazione. Si scusa perché la figlia ha deciso di saltare la seduta. Le chiedo di parlare telefonicamente con Michela. La ragazza mi spiega che vorrebbe venire ma che si è accorta solo adesso che i suoi trucchi, che non usava da tempo, sono inutilizzabili e che impiegherebbe troppo tempo per acquistarne altri e truccarsi. Le spiego che sono disposta ad aspettarla e che anch’io sono struccata. Lei mi risponde: –Allora arrivo subito. Il tempo della strada!

All’arrivo è tesa e tremante: le sue parole sono forti e decise ma il tono di voce rivela agitazione. Usa la borsa quasi fosse uno scudo per il suo corpo, frapponendola tra lei e me e allontana il suo sguardo dal mio. Si scusa per il ritardo dicendomi che lo è sempre precisandomi anzi che è la norma per lei. Quasi si autocompiace raccontandomi che la gente non la sopporta e si annoia ad aspettarla.

–  Insomma, sono grassa, senza titolo di studio, senza amici, senza ricordi, perché dovrebbero amarmi?

La guardo, Michela non è grassa come dice di essere, e sarebbe pure carina se si prendesse cura di lei.

So di avere davanti un caso complesso: da tre anni Michela ha interrotto ogni rapporto con il mondo della scuola e del lavoro, vive praticamente reclusa nella sua stanza, dormendo di giorno anziché la notte, e gli unici contatti con “il di fuori” li coltiva via internet, nei blog, nelle chat.

– Internet, ti dà un legame senza tristezza e profondità – mi spiega- posso scegliermi le compagnie ed i contatti, posso scegliermi anche l’identità.

Internet mi dà motivazioni, scopi. So che devo arrivare al livello successivo del gioco: questo mi dà lo stimolo per alzarmi dal letto. La mia vita è lì, ferma, immobile a guardarmi, e invece il videogioco è un mare che mi trascina e io non mi fermo. Mi dà impatto, senza prendere i rischi della vita, senza quella paura legata al corpo. La paura di una vita di insuccessi.

Le chiedo in che modo posso aiutarla. Lei mi risponde che è cosciente di avere dei problemi ma che le persone non possono aiutarla. – Nessuno deve toccarmi il computer e poi quando ti chiedo di allontanare lo sguardo per me è importante che mi ascolti. Non sono più abituata a due occhi che mi guardano.-  dice sfidandomi.

Vengo da te perché ho problemi con la rabbia. Divento una cattiva persona. Perdo il controllo.

Le chiedo di narrarmi degli episodi in cui si presenta la rabbia all’interno delle sue relazioni virtuali e lei ne sciorina una lunga serie durante i quali si è lasciata andare a insultare i compagni di gioco, se non seguono le regole da lei dettate.

Sono una brutta persona– conclude con amarezza- ieri l’ho fatto anche con Aldo, il mio fedele compagno di giochi. È il mio socio su League of Legends, lui mi ha detto che doveva occuparsi di sua madre perché stava male e io l’ho accusato di essere un coglione.  Esco dalla stanza solo la notte per mangiare un budino e mi tengo attiva con la coca cola. Per dormire uso lo Xanax di mia madre. Capita che quando sei troppo eccitata non ti addormenti più. Io sono al Diamond e devo raggiungere il Master che è semplicemente la sala d’attesa del Challenger, praticamente sei già un campione. Ho bisogno di raggiungere quel livello, sarà una rivincita verso tutti, verso mio padre, la scuola, le mie cugine… nessuno mi guarderà più come una comparsa, un fantoccio, un fantasma. Perché è questo quello che sono adesso. A casa hanno finalmente capito che non devono cercarmi, prima mi stressavano perché pranzassi con loro ma io non vado e non li faccio neanche più entrare nella mia stanza. Permetto un unico accesso, quello della mia sorellina di 6 anni, la riconosco dal suo bussare gentile. Apro un spiraglio e mostro la mia testa, senza parlare. Lei non mi chiede nulla e non mi giudica. Solo mi accarezza i capelli. Vedi questo è l’amore Assoluto.

Il primo mese della terapia cerco di iniziare un “Hikikomori time a due”, entrando nel mondo di Michela. Mi sorprendono le sue capacità relazionali online, il numero di contatti e la sua abilità nel dare consigli. Michela scrive in tutte le lingue, anche in giapponese, lo ha appreso studiando da Internet. Ha contatti in tutti i paesi del mondo e ottime capacità di gestione dei gruppi. In effetti, è lei che tiene la squadra di uomini di League of Legends.

In seduta porterà Manga e Anime su mia richiesta (le spiego che da tempo leggo solo Dylan Dog e sono curiosa delle sue letture e dei suoi cartoni) e porta anche i suoi ritratti e fumetti rivelando spiccate qualità artistiche.

Quando mio padre mi vedeva i fumetti manga diceva a mia madre che era il caso di cominciare a sbrigare tutta la documentazione per farmi dichiarare scema e prendersi la pensione, così con me poteva almeno guadagnare in soldi, dato che non servo a niente. Invece tu sei interessata a miei stessi fumetti e non mi dici che sono pazza. Addirittura mi stimi per le mie capacità su Internet. Io comincio a sentire una sensazione positiva nel corpo e non voglio che se ne vada. A volte vorrei che questa seduta non finisse mai, penso che vorrei tornare a casa a piedi per prolungare questa sensazione positiva, invece con la macchina arrivo subito a casa e tutto è di nuovo come prima. Ma io non vedo l’ora di tornare qui.- dichiara al termine del primo mese di terapia.

A questo punto la relazione terapeutica è salda, ed è possibile stabilire l’alleanza di lavoro.

Durante le sedute con Michela il tema dell’essere scartata e umiliata ritorna sempre. Lo stesso accade nelle sue relazioni online. Gliene chiedo il motivo e lei mi risponde che risale all’infanzia, a quando per essere accettata alle feste, occorreva l’intervento della madre. Questo, mi spiega, non può avvenire nel Team Speak (una chat che permette ai videogiocatori online di comunicare tra loro durante il gioco). Lì ha il controllo.

Mi confessa pure di non avere il ciclo da 3 anni.

Mi sto trasformando anche fisicamente – dice – ho un nickname maschile e gestisco squadre di uomini, ma io non sono un uomo e a me piacciono gli uomini. Mi chiedo se sarò mai presentabile, adesso faccio proprio schifo!

Il desiderio di riprendere possesso delle sua vita e dei suoi sogni è frenato dalla paura dello sguardo giudicante del mondo esterno. Le spiego che lo stile di vita alterato dal ritmo sonno/veglia, i digiuni e le notti insonni davanti ad uno schermo comportano ripercussioni fisiche ed ormonali oltre che psicologiche.

Le chiedo di capire insieme cosa possiamo fare per “smettere di fare schifo.”

Michela inizia a condividere alcuni pasti con i familiari, si mostra ai parenti e va al cinema per la prima volta dopo tre anni. L’aspetto fisico la ossessiona, vorrebbe sottoporsi alla chirurgia bariatrica per ridurre il peso.

Comincia ad esserci qualche progresso, mi confessa che le piacerebbe andare alla mostra dei fumetti a Lucca ad ottobre, conoscere gli amici del web: “Ma io ho sempre avuto delle regole online ed ho sempre fatto di tutto per rispettarle. Non posso permettermi d’innamorarmi né di mischiare la vita reale con quella virtuale. Io sono solo un fantoccio”.

Le chiedo come pensi di riappropriarsi della sua identità, ma lei non risponde e la settimana dopo, al nostro incontro, è aggressiva. Mi accusa di avere avuto una vita facile, piena di amore, mentre lei si è dovuta confrontare con un padre violento che la riempiva di botte. Per questo si è rifugiata in internet; per riprendersi la spensieratezza ed evitare i pericoli.

Ma adesso tu mi vedi, tu mi credi… non sono più una maschera. Ma è così difficile farlo anche fuori ed io ho tanta paura… ti prego, stammi vicino.

Nel corso delle sedute costruiamo insieme la descrizione degli schemi attraverso altri numerosi episodi autobiografici e pianifichiamo il cambiamento ma la preoccupazione per la sua salute mi induce a indirizzarla dapprima dall’ endocrinologo per i problemi legati al ciclo mestruale. Questo si rivela un episodio che permette a Michela delle riflessioni.

Questo professore mi guardava come se fossi un aliena, mi chiedeva  “Come ti sei ridotta così? Da quanto tempo non esci da casa? La tua psicologa lo sa che sei grave?” … Gli specializzandi guardavano me e mia madre sghignazzando. Volevo scappare, tornare a casa davanti al computer… In macchina mia madre piangeva e io ero arrabbiata con te. Non avresti dovuto espormi così presto.

Durante la seduta mi scuso, lei si calma e inaspettatamente dice che le è stato utile.

Tu hai sbagliato per eccessivo amore, il professore per presunzione. Le persone non sono tutte uguali e dannose. L’endocrinologo può aiutarmi a sbloccarmi, mentre a te posso aprire il mio cuore.

La domenica Michela comincia a partecipare alle scampagnate di famiglia, si sveglia un po’ prima, mostra di trovare i parenti simpatici.

Anche sul web la rabbia è ridotta, riesce a rispettare le persone senza insultarle. Inizia ad apprezzare la luce del giorno, ad essere attiva.

Quegli orari mi stavano uccidendo, – dice- avevo la testa ovattata. Adesso dormo, niente più Xanax, mi addormento con le poesie di Bukowski e la “Desiderata” di Ehrmann.

Un altro tema a lei molto caro è la ricerca di perfezione negli altri.

Io merito di essere amata dalla persona perfetta… Intorno ai 16 anni avevo un fidanzato. Mi aspettavo che mi difendesse da mio padre, che mi consolasse, insomma mi amasse. Ma lui pretendeva troppo da me. Un giorno gli dissi che non ero disposta ad ascoltarlo e lui rispose che mio padre faceva bene a picchiarmi. Ci rimasi malissimo.

Ho capito che i rapporti online sono troppo fugaci, voglio staccare la connessione ADSL anche se sono molto spaventata, soprattutto per League of Legend ma la mia famiglia mi sta accanto, mio padre è contento di questa mia scelta, mi ha fatto i primi complimenti della mia vita!

Michela inizia un lavoro estivo in un panificio, vuole mettere da parte una somma per raggiungere gli amici a Lucca. A settembre inizia la scuola, desidera diplomarsi e iscriversi all’università.

Vorrei aiutare tutti quei ragazzi prigionieri della rete, fargli capire che si stanno distruggendo… Sono numerosissimi e conosco i loro cuori. Vorrei un lavoro che mi permettesse di restituire loro la speranza e la voglia di vivere. Insomma… C’ho la testa piena di sogni.

Il lavoro la soddisfa: il giorno in cui entra una cliente inglese e lei è l’unica a poter comunicare con la donna, riceve i complimenti della titolare.

Non è vero che gli altri ti giudicano e non è detto che se ti giudicano ti condannano per sempre! Stare chiusa in una stanza stava trasformando ogni granello di sabbia in un deserto del Sahara! Ricordi l’immagine che ti mandai allora? Il fuoco era il computer, intorno il BUIO.  Poi ho sentito la tua voce calda  dietro il muro, e ho capito che potevo farcela. E’ difficile, c’ho una paura fottuta, posso anche cadere… ma tu mi chiami e il buio è scomparso. Non è sempre facile, l’altra sera, per esempio ricevo un messaggio su FB, una vecchia conoscenza di League of Legends che mi dice di aver  raggiunto il livello Master. Ecco, ho pensato, un’altra persona mi ha superato mentre io sono rimasta la solita nullità. Per fortuna lo sconforto è durato poco, poi  il piacere d’impastare, sporcarmi le mani, infornare torte e biscotti mi ha invasa insieme al profumo che si diffonde in tutto il negozio. Sono cambiata. Penso che il mio valore personale non dipende più dal livello raggiunto sul gioco, che le persone non mi amano perché sono una campionessa ma semplicemente perché sono Michela, quella senza trucco.

C’è un’altra cosa che vorrei analizzare con te: la velocità.

A volte anche al lavoro vorrei essere la prima, ma sento che mi allontana dai miei desideri. Vorrei innamorarmi, non m’importa più se l’altro non corrisponde o se l’amore finisce. Vorrei poter pensare che non sarà tempo sprecato. Vorrei innamorarmi per poter dedicare all’altro il mio Tempo e la mia Lentezza.

Dopo un anno e mezzo di terapia, Michela si è fidanzata. Frequenta con costanza e successo le lezioni scolastiche e si diplomerà l’anno prossimo. Ora sogna di fare l’architetto e viaggiare. Con entusiasmo mi racconta del suo primo giro in motorino quando per proteggersi dal gelo di un pomeriggio invernale affonda le sue mani infreddolite nelle tasche del giubbotto del suo fidanzato che guida: “… mi accorgo che posso trovare calore nelle tasche di un altro senza avere paura e capisco che è straordinario stare bene ed avere vent’anni!”.

L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e sull’intenzione al bere – Riccione, 2017

L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e

sull’intenzione al bere

Beltrami, D., Ferrari, C., Gemelli, A., Caselli, G. – Studi Cognitivi Modena

 

Recenti studi sulla dipendenza da uso di alcol si sono focalizzati su alcuni costrutti specifici come craving, urge e pensiero desiderante (PD). Il craving è definito come una potente esperienza soggettiva che spinge il soggetto a cercare l’oggetto del proprio desiderio e si differenzia dall’urge, che è l’intenzione di consumare la sostanza; infine, il PD è uno stile di pensiero che riguarda attività, oggetti e stati specifici, orienta l’individuo a prefigurarsi immagini, informazioni o ricordi relativi ad esperienze positive collegate al target in questione, ed è uno dei maggiori elementi di mantenimento del craving.

Due sono gli scopi della ricerca: standardizzare un questionario di valutazione dei segnali corporei o contestuali che spingono l’individuo ad assumere effettivamente la sostanza (Start Signal Questionnaire – SSQ) e capire se la tendenza al PD, in individui con Disturbo da Uso di Alcol (DEPENDENT) e altri che consumano la sostanza ma non soddisfano i requisiti per tal diagnosi (SOCIAL), oltre che mantenere i soggetti in stato di craving, produce questo tipo di segnale e di urge.

I due campioni sono stati sottoposti ad una batteria di test sul consumo di alcol e ad una registrazione audio composta da item neutri (DS) o correlati al consumo d’alcol (PD). A causa della scarsa numerosità del campione non è stato possibile procedere alla standardizzazione dell’SSQ e i dati sono stati analizzati preliminarmente. I risultati indicano che l’induzione al PD non porta ad un aumento del craving né dell’urge. L’induzione DS, invece, è associata ad una diminuzione significativa dell’urge.

 

La depressione che spegne la passione: uso di antidepressivi e disfunzioni sessuali

I sintomi della depressione in molti casi possono ostacolare la relazione di coppia: il paziente tende all’isolamento relazionale e il partner può provare frustrazione; non c’è da stupirsi quindi che la depressione abbia un impatto negativo anche sulla sessualità, fino alla manifestazione, a volte, di disfunzioni sessuali dovute all’assunzione di antidepressivi.

Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

In Italia la depressione colpisce più del 10% della popolazione ed è considerata la seconda patologia invalidante dopo i disturbi cardiovascolari.

Il disturbo Depressivo Maggiore è caratterizzato, oltre che da abbassamento del tono dell’umore e mancanza di energia, da perdita di interesse per la maggior parte delle attività, alterazioni del sonno, alterazioni dell’appetito, sentimenti di colpa e autosvalutazione.

Questi sintomi in molti casi possono ostacolare la relazione di coppia: il paziente affetto da depressione tende all’isolamento relazionale e il progredire dei sintomi può provocare nel partner sano sentimenti di impotenza e rassegnazione fino ad arrivare alla frustrazione e, in certi casi, alla rabbia.

Non c’è da stupirsi quindi che la depressione abbia un impatto negativo anche sulla sessualità. In particolare, sembra ormai chiara la natura bidirezionale di tale influenza.

Una meta-analisi del 2012 condotta su 12 studi, conferma l’associazione bidirezionale tra depressione e disfunzioni sessuali: i pazienti affetti da depressione mostrano un rischio di sviluppare una disfunzione sessuale del 50-70% in più rispetto alla popolazione sana, viceversa i pazienti affetti da una disfunzione sessuale hanno un rischio di sviluppare depressione del 130-210% in più rispetto alla popolazione sana. I meccanismi di tale legame non sono ancora del tutto chiari data la natura eterogenea di entrambe le tipologie di Disturbo.

 

Depressione e sessualità: l’impatto del trattamento con antidepressivi

La situazione si complica quando a tale quadro si aggiunge la presenza degli antidepressivi, i quali possono causare problematiche aggiuntive al ciclo della risposta sessuale.

Gli antidepressivi sono considerati il trattamento d’elezione per la Depressione Maggiore ma in ambito psichiatrico vengono prescritti anche per i Disturbi d’ansia e per i Disturbi del Comportamento Alimentare. Negli ultimi anni si è assistito all’estensione del loro utilizzo anche in altre situazioni patologiche, come nella terapia del dolore, nei disturbi del sonno e in alcune forme di cefalea.

Una recente analisi italiana mostra come dal 2003 al 2009 l’uso degli antidepressivi sia aumentato dal 7,4% al 13%, primi tra tutti gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI).

Le ragioni di tale incremento nell’uso di antidepressivi possono essere correlate all’aumento dell’incidenza delle patologie psichiatriche sopracitate, alla riduzione della soglia prescrittiva, alla maggiore aderenza alle linee guida di trattamento o ancora, alla maggiore compliance dei pazienti.

La percentuale stimata di individui che affermano di avere delle disfunzioni sessuali correlate al trattamento con SSRI va dal 25% al 40%; tale variabilità è dovuta all’eterogeneità del metodo usato per la raccolta dei dati e dal fatto che difficilmente i pazienti che assumono antidepressivi riportano spontaneamente al medico curante di avere problemi sessuali, è necessario che sia chiesto loro in modo esplicito.

Le disfunzioni sessuali che emergono durante il trattamento con antidepressivi sono spesso causa della scarsa adesione alla farmacoterapia.

I meccanismi attraverso cui gli antidepressivi determinano disfunzioni sessuali non sono completamente chiariti, anche se sembra che sia proprio il loro meccanismo di azione la chiave che li spiega. In generale nell’effetto farmacologico degli antidepressivi sono coinvolti meccanismi che bloccano la ricaptazione a livello presinaptico di alcuni neurotrasmettitori come la serotonina e la noradrenalina, implicati nella regolazione dello stato d’animo, dell’irritabilità e della motivazione. In questo modo si genera una maggior disponibilità di tali neurotrasmettitori a livello sinaptico. Si pensa che l’aumento dei livelli di serotonina interferisca negativamente con alcuni aspetti della sessualità; in particolare determinando una riduzione dei livelli di dopamina, la quale svolge un ruolo primario nei meccanismi di attivazione dell’interesse sessuale e questo determinerebbe un calo della libido.

 

Disfunzioni sessuali correlate all’uso di antidepressivi

Il desiderio sessuale ipoattivo sembra essere il disturbo più frequente durante il trattamento con antidepressivi, ma i pazienti possono presentare anche disturbi dell’eccitazione e dell’orgasmo.

Può verificarsi una diminuzione dell’eccitazione sia a livello centrale che periferico: a livello centrale il diminuito tono dopaminergico agisce sui meccanismi di ricompensa e piacere, determinando un calo nella sensazione soggettiva di piacere; a livello periferico sia l’erezione che la vasocongestione clitoridea sono riflessi mediati dall’azione simpatica e parasimpatica e possono essere inibiti dal surplus serotoninergico. In particolare la paroxetina inibisce l’ossido nitrico-sintetasi, importante nei meccanismi vascolari che determinano l’erezione e la vasocongestione.

Calo della libido e disturbi dell’erezione fanno parte del corteo sintomatologico della depressione, pertanto risulta difficile stabilire l’esatta natura di tali sintomi. In molti casi può essere utile osservare cosa accade con la riduzione o la sospensione del farmaco.

Orgasmo ed eiaculazione richiedono anch’essi attività noradrenergica e dopaminergica, sistemi la cui attività viene ridotta per l’aumento dei livelli di serotonina. Questo può provocare orgasmo ed eiaculazione ritardata o anche anorgasmia.

Questi disturbi sessuali non appartengono al bagaglio sintomatologico della depressione, quindi difficilmente pongono problemi di diagnosi differenziale. Insorgono a seguito dell’assunzione degli antidepressivi e si manifestano sia durante il coito che durante la masturbazione.

Paradossalmente l’aumento della latenza di risposta agli stimoli eccitatori può essere usato a vantaggio da chi soffre di eiaculazione precoce: la Dapoxetina (SSRI) è un farmaco oggi indicato per il trattamento dell’eiaculazione precoce da assumere 1-3 ore prima dell’attività sessuale.

Vari fattori possono determinare disfunzioni sessuali e non sempre sono attribuibili agli effetti della farmacoterapia con antidepressivi. Potrebbero essere una componente della sintomatologia depressiva, potrebbero essere causate da una patologia medica concomitante (il diabete mellito ad esempio influenza la funzionalità erettile) o potrebbero rappresentare un disturbo sessuale primario.

Nel determinare l’eziologia di questi disturbi è necessaria prudenza e un’esperta valutazione della storia psicosessuale dell’individuo.

Identificare una disfunzione sessuale indotta da antidepressivi può rivelarsi molto difficoltoso: che tipo di disturbo è presente? È un disturbo solo o una combinazione di più disturbi? È generalizzato o situazionale? È il risultato dell’assunzione di farmaci o è primario? Quali sono le reazioni del paziente?

Informare preventivamente il paziente circa gli effetti collaterali dell’antidepressivo sulla sessualità sembrerebbe risultare problematico.

Alcuni clinici preferiscono non discutere delle possibili problematiche sessuali o accennarle solo genericamente per non scoraggiare i pazienti. Inoltre per alcuni medici l’eventualità di un disturbo sessuale indotto dalla farmacoterapia è irrilevante di fronte alla priorità di trattare la psicopatologia primaria; in altre parole, secondo chi pone le disfunzioni sessuali ad un grado inferiore della “gerarchia dei disturbi”, desiderio sessuale ipoattivo, anorgasmia e disfunzione erettile sono rischi tollerabili in virtù del curare la depressione.

Trattamento delle disfunzioni sessuali indotte da antidepressivi

Una volta che è stata posta la diagnosi di disfunzione sessuale indotta da antidepressivi, i clinici dovrebbero considerare attentamente le opzioni di trattamento e discuterne con i loro pazienti.

Tuttavia spesso queste disfunzioni secondarie sono poco trattate. Lo studio ELIXIR ha esaminato le strategie di trattamento delle disfunzioni sessuali indotte da SSRI in 4557 pazienti e ha trovato che circa il 42% attendeva passivamente la remissione spontanea dei sintomi e al 39% era stato sostituito l’antidepressivo.

Trattamenti aggiuntivi o le cosiddette “drug holidays” raramente venivano prescritti.

Attendere la remissione spontanea è una strategia altamente discutibile, se è vero che come accade per altri effetti collaterali dei farmaci la remissione è possibile, è altrettanto vero che potrebbero volerci molte settimane o mesi e questo potrebbe essere un periodo troppo lungo per i pazienti.

 

Riduzione del dosaggio

Questo approccio può essere utile ma è rischioso in quanto la dose in cui compaiono i sintomi sessuali è considerata la dose minima da prescrivere per alleviare i sintomi depressivi.

Alcuni autori hanno suggerito che la fluoxetina si presta efficacemente a questa strategia perché hanno trovato un dosaggio minimo che migliora la funzionalità sessuale senza incrementare i sintomi depressivi.

In ogni caso questo metodo è preferibile quando il paziente sta rispondendo bene alla farmacoterapia e quando medico e paziente prestano attenzione continuativamente ad eventuali segnali di ricaduta.

 

“Drug Holidays” o sospensione del farmaco

Si parla di “drug holidays” per riferirsi ad una temporanea sospensione del farmaco 2-3 giorni prima dell’attività sessuale. Il successo di questa strategia dipende da un accurato piano terapeutico e da una buona alleanza medico-paziente.

Probabilmente questa soluzione risulta maggiormente efficace con antidepressivi che hanno una breve emivita, come paroxetina e sertralina, poco con la fluoxetina che ha una lunga emivita.

Inoltre il peggioramento della sintomatologia depressiva potrebbe ostacolare il trattamento alternativo delle disfunzioni sessuali.

 

Sostituzione dell’antidepressivo

In letteratura troviamo vari studi che descrivono sostituzioni di un antidepressivo con un altro che hanno avuto successo sul miglioramento delle disfunzioni sessuali.

In particolare quando si sostituisce un SSRI con un farmaco a diverso meccanismo di azione come il bupropione, il nefazodone e la mirtazapina.

Uno studio del 2015 ha comparato l’effetto dell’escitalopram con quello della vortioxetina dimostrando come la sostituzione della farmacoterapia antidepressiva con vortioxetina possa essere una valida alternativa per quei pazienti che riportano difficoltà sessuali con la terapia tradizionale con SSRI.

 

Farmaci aggiuntivi

Un’ulteriore opzione nel trattamento dei disturbi sessuali conseguenti all’uso di antidepressivi è l’aggiunto di una terapia farmacologica specifica per il disturbo accusato.

Gli studi disponibili riguardano soprattutto l’uso del sildenafil per trattare la disfunzionalità erettile e del testosterone per trattare il disturbo da desiderio sessuale ipoattivo nella donna.

Vi sono però poche evidenze sperimentali che supportino tali dati.

In conclusione è importante sottolineare l’importanza dell’informazione preventiva circa i possibili effetti degli antidepressivi sulla sessualità, sia ai fini della compliance terapeutica sia per salvaguardare il benessere della persona. Altrettanto importante risultano essere una corretta diagnosi di eventuali disturbi sessuali secondari e un efficace intervento su questi ultimi.

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