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Psicoterapia per l’ insonnia? Efficace quanto i farmaci

La psicoterapia per l’ insonnia è efficace quanto il trattamento farmacologico e a differenza di quest’ultimo ha effetti benefici anche a lungo termine.

 

A sostenerlo è la British Association for Psychopharmacology (2010), una delle più importanti associazioni scientifiche sul tema, che sottolinea l’importanza di trattare l’ insonnia perché si tratta di una condizione che diminuisce la qualità della vita ed è associata ad un maggiore rischio di depressione, di ansia e probabilmente di malattia cardiovascolari.

 

Insonnia: manifestazioni e conseguenze

L’insonnia è un disturbo del sonno molto diffuso, che colpisce le donne più degli uomini e per entrambi aumenta con l’età.

Molte possono essere le manifestazioni: difficoltà ad addormentarsi, risvegli continui, scarsa qualità del sonno. Tale condizione rende difficili le normali attività della vita quotidiana tanto da spingere gli esperti a considerare la gravità dei sintomi diurni (sonnolenza, affaticamento, mal di testa) parte integrante del quadro clinico. Gli studi di Edinger et al. (2008) e Altena et al. (2008) dimostrano difficoltà in compiti psicomotori e cognitivi complessi in chi soffre di insonnia, soprattutto quando essi coinvolgono la capacità attentive.

I costi dell’ insonnia possono essere alti anche dal punto di vista economico in termini di assenza dal lavoro o scarso rendimento.

Inoltre, l’ insonnia è correlata con emozioni negative e può innescare o aggravare sintoni ansiosi e depressivi.

 

La psicoterapia per l’ insonnia: perché è consigliabile?

Escludendo le cause fisiche (dolore, malattie polmonari, ecc), l’ insonnia di solito inizia con uno specifico problema, per esempio un evento stressante come la perdita del lavoro, un lutto, un cambiamento importante. In altri casi è ricollegabile ad un evento o ad una situazione che cambia i ritmi del sonno: la nascita di un bambino o un lavoro che richiede turni. In molti casi, le persone attraversano un periodo di adattamento e risolvono in tempi relativamente brevi il disturbo.

Per alcuni, invece il problema si cronicizza. I fattori coinvolti nella cronicizzazione sono molti: abitudini che poco favoriscono l’igiene del sonno, la persistenza della causa di stress, la presenza di sindromi ansiose o depressive preesistenti o concomitanti.

La psicoterapia è stata riconosciuta dalle linee guida del BAP (2010) come trattamento efficace e raccomandato.

L’ipnosi può essere efficacemente integrata nei percorsi di psicoterapia per l’ insonnia, potenziandone gli e velocizzandone gli effetti. Con l’ipnosi si raggiunge uno stato di coscienza diverso dalla veglia comune detto trance ipnotica. In questo stato l’attenzione del soggetto diventa estremamente focalizzata e rivolta verso l’interno. Si tratta di uno stato naturale che emerge spontaneamente più volte al giorno, ma che può essere consapevolmente sfruttato, durante percorsi di psicoterapia per l’ insonnia e non solo, per recuperare energie, rielaborare le esperienze vissute, gestire ansia e stress. Gli studi dimostrano che l’ipnosi migliora la qualità e la quantità del sonno (Becker, 2015), risultando efficace anche nei casi di insonnia grave e cronica. Nei percorsi di psicoterapia per l’ insonnia, con l’ipnosi e l’autoipnosi infatti è possibile intervenire su tutte le problematiche legate al sonno: fatica ad addormentarsi, risvegli continui, incubi ricorrenti.

Va inoltre aggiunto che gli interventi ipnotici con bambini o adolescenti sono generalmente più rapidi che quelli rivolti agli adulti e sono totalmente privi di effetti collaterali.

Dopo l’amore (2016) – Riflessioni psicologiche sul film

Marie e Boris, arroccati sulle rispettive posizioni, sembrano aver dimenticato il loro amore, il sentimento che li aveva visti profondamente uniti.
Il com’eravamo ha lasciato spazio a un come siamo permeato di amarezza, tristezza, rabbia.
E’ una storia tremendamente realistica quella raccontata in Dopo l’amore, che sviluppa una tensione crescente all’interno di una routine brutalmente credibile.

 

Info:

Titolo originale: “L’économie du couple”.
Un film di Joachim Lafosse.
Con: Bérénice Bejo, Cédric Kahn, Marthe Keller, Jade Soentjens, Margaux Soentiens, Catherine Salée, Tibo Vandenborre, Philippe Jeusette, Annick Johnson, Pascal Rogard, Arian Rousseau.
Drammatico – Francia, Belgio 2016

Trama del film Dopo l’amore

Dopo quindici anni di matrimonio e due figlie gemelle, Marie e Boris decidono di porre fine a una relazione ormai logorata da incomprensioni e recriminazioni.
In attesa del divorzio i due sono costretti alla coabitazione, sia per ragioni economiche (Boris è attualmente disoccupato), sia perché incapaci di trovare un accordo sulla casa, acquistata dalla moglie ma ristrutturata dal marito.
Marie appare quella insofferente che detta le regole, Boris quello che non si vuole rassegnare e che continuamente deve contestare e contraddire le direttive date dalla donna. Rancori, dispetti e ripicche: la tensione è palpabile e si attacca allo spettatore fin dal primo momento.
In un’escalation di liti, discorsi ripetuti a oltranza, incomprensioni e sfiducia reciproca, i due finiranno per perdere di vista il loro bene più prezioso: le figlie.
Ed è a questo punto, fuori dalla loro casa, che riusciranno finalmente a raggiungere un compromesso.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Motivi di interesse:

Marie e Boris, arroccati sulle rispettive posizioni, sembrano aver dimenticato il loro amore, il sentimento che li aveva visti profondamente uniti.
Il com’eravamo ha lasciato spazio a un come siamo permeato di amarezza, tristezza, rabbia.
E’ una storia tremendamente realistica quella raccontata in “Dopo l’amore”, che sviluppa una tensione crescente all’interno di una routine brutalmente credibile.

I sentimenti, i dubbi, le paure, le ambivalenze – caratterizzate da saltuarie tenerezze e rancori persistenti – sono descritti dal regista senza ricorrere all’ utilizzo di stereotipi o retorica.
Il ritratto dei due protagonisti è spietato, ne rileva i limiti senza mai schierarsi.

Marie non sopporta più l’uomo che le è stato accanto e dice, confidandosi agli amici: “Dopo 15 anni è come se lo vedessi per la prima volta”. Boris non accetta che lei voglia lasciarlo e mette continuamente in atto comportamenti infantili.
Anche durante un tentativo di rassicurare le figlie – spaventate e rattristate dai continui litigi dei genitori – non potranno fare a meno di evidenziare il loro totale disallineamento.

Il denaro ha un ruolo fondamentale (il titolo originale del film è in effetti “l’economie du couple – l’economia della coppia”): rappresenta lo strumento per esercitare il proprio potere e per fare pagare letteralmente all’altro il fallimento della relazione di cui nessuno dei due si vuole fare carico.

Lafosse è molto abile nel mostrare quella dimora coniugale, come l’elemento su cui litigare, ma non la vera ragione del conflitto che risiede altrove, in qualcosa di estremamente più profondo.

Boris e Marie sono stati felici e si sono amati ed è proprio la passione di allora che alimenta il rancore di oggi. Da quello spazio che si dividono e di cui si contendono ogni millimetro, oggi non riescono a uscire a causa per la paura di ammettere e affrontare la propria parte di responsabilità nel fallimento della relazione.
Troveranno la soluzione al di fuori di quella casa, perché riusciranno finalmente a decentrarsi e guardarsi dall’esterno.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il regista mantiene per tutto il film uno sguardo neutrale e imparziale sulle dinamiche individuali e di coppia. Esattamente come un “terzo occhio”osserva i protagonisti attraverso uno sguardo super partes. Può essere utile per aiutare l’individuo (o la coppia) a diventare più consapevoli e a guardarsi dall’esterno.

Il ruolo dell’Omega-3 nella prevenzione della malattia di Alzheimer: uno studio con la SPECT

Un recente studio dimostra che vi sarebbe un aumento del flusso sanguigno nelle regioni del cervello associate con la memoria e l’apprendimento in persone con alti livelli di omega-3.

 

L’incidenza della malattia di Alzheimer è in continuo aumento e, ad oggi, non è stata trovata alcuna cura. Recentemente l’interesse dei ricercatori si è rivolto verso l’approccio dietetico come fattore di prevenzione nel decadimento cognitivo. In particolare, gli acidi grassi dell’omega-3 hanno mostrato un’azione anti-amiloide, anti-tau e anti-infiammatoria nel cervello animale.

In un articolo pubblicato su Journal of Alzheimer’s Disease, i ricercatori hanno trovato che in pazienti con alti livelli di omega-3, avviene un aumento del flusso sanguigno in specifiche aree del cervello.

Il professore di biologia George Perry dell’University of Texas-San Antonio e redattore capo del Journal of Alzheimer’s Disease afferma:

Questo studio è un importante passo avanti nel dimostrare come i valori nutrizionali siano importanti per la salute del nostro cervello, come dimostrato anche dalle recenti immagini cerebrali mediante Tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT).

La SPECT può misurare la perfusione sanguigna nel cervello. Le immagini acquisite dai soggetti durante l’esecuzione di vari compiti cognitivi hanno mostrato un aumento del flusso di sangue in specifiche regioni cerebrali. Quando queste immagini sono state comparate con la misura della concentrazione nel sangue di due acidi grassi dell’omega-3, acido eicosapentaenoico (EPA) e acido docosaesaenoico (DHA), i ricercatori hanno trovato una correlazione statisticamente significativa tra alti livelli di flusso sanguigno in tali aree e alti livelli di omega-3. In aggiunta, in questi soggetti, sono state valutate le funzioni neuropsicologiche ed è stato trovato, utilizzando una batteria di test standardizzata, che i livelli di omega-3 correlano anche con diversi aspetti psicologici.

Per questo studio è stato reclutato, presso una clinica psichiatrica, un campione casuale di 166 soggetti di cui erano disponibili gli indici omega-3. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno con alti livelli di concentrazione EPA+DHA (>50° percentile), l’altro con livelli bassi (<50° percentile). L’analisi quantitativa delle immagini SPECT è stata effettuata su 128 regioni e ogni partecipante ha completato il test computerizzato inerente il proprio stato neurocognitivo.

I risultati hanno evidenziato relazioni statisticamente significative tra gli indici Omega-3, i test neurocognitivi e la perfusione regionale, tramite SPECT, in aree coinvolte nella memoria. In generale, lo studio mostra relazioni positive tra la condizione di Omega-3 e EPA+DHA, la perfusione cerebrale e la cognizione. L’autore principale Daniel G. Amen, medico dell’Amen Clinics Inc., aggiunge:

Questa ricerca è molto importante perché mostra una correlazione tra bassi livelli di acidi grassi omega-3 e riduzione di flusso sanguigno nelle regioni coinvolte nell’apprendimento, nella memoria, nella depressione e nella demenza.

Il coautore Williams S. Harris, Dottore di ricerca dell’University of South Dakota School di Medicina, afferma:

Anche se abbiamo prove evidenti che alti livelli di omega-3 sono associati con una miglior salute cardiovascolare, sta prendendo piede l’esplorazione anche del ruolo di questi acidi grassi nella salute mentale e nella fisiologia della circolazione cerebrale.

Questo studio dimostra come cambiamenti dietetici relativamente semplici possano influire favorevolmente sulla funzionamento cognitivo.

Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione: quali trattamenti psicologici sono raccomandati?

Il National Institute for Clinical Excellence (NICE) ha pubblicato il 23 maggio 2017 un aggiornamento completo linee guida NICE CG9 del gennaio 2004; le linee guida NICE [NG69] forniscono raccomandazioni per identificare, valutare, monitorare, trattare i bambini (0-12 anni), i giovani adulti (13-17 anni) e gli adulti (più di 18 anni) con disturbi dell’alimentazione.  

 

In questo articolo è riportata una sintesi dei trattamenti psicologici raccomandati dalle nuove linee guida NICE per i disturbi dell’alimentazione. Le linee guida complete si possono scaricare dal sito https://www.nice.org.uk/guidance/ng69

 

Linee guida NICE per l’ anoressia nervosa

Per l’ anoressia nervosa negli adulti le linee guida NICE raccomandano di considerate la terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED), il Maudsley Anorexia Nervosa Treatment for Adults (MANTRA) e lo 
specialist supportive clinical management (SSCM). Se questi tre trattamenti non sono accettati, sono controindicati o inefficaci, può essere considerata la terapia psicodinamica focale (FPT).

Per l’ anoressia nervosa nei bambini e giovani adulti è raccomandato come intervento di prima scelta il trattamento basato sulla famiglia per l’ anoressia nervosa (FT-AN). Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED o la psicoterapia focalizzata per gli adolescenti (AFP-AN).

La consulenza dietetica dovrebbe essere offerta solo come parte di un approccio multidisciplinare. Le persone con anoressia nervosa dovrebbero prendere un supplemento multivitaminico e multiminerale appropriato per la loro età fino a che la loro dieta soddisferà i valori dietetici di riferimento. I familiari dovrebbero essere inclusi nell’educazione dietetica o nella pianificazione dei pasti dei bambini e giovani adulti che ricevono un trattamento individuale. Vanno anche forniti consigli dietetici aggiuntivi per affrontare le necessità di crescita e sviluppo, in particolare durante la pubertà.

Non dovrebbero mai essere offerti i farmaci come unico trattamento per l’ anoressia nervosa.

 

Le linee guida NICE per il trattamento della bulimia nervosa

Per gli adulti con bulimia nervosa va considerato come intervento di prima scelta l’auto-aiuto guidato (GSH) basato sulla CBT. Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED.

Per la bulimia nervosa nei bambini e giovani adulti è raccomandato come intervento di prima scelta il trattamento basato sulla famiglia per la bulimia nervosa (FT-BN). Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED.

Non dovrebbero mai essere offerti i farmaci come unico trattamento per la bulimia nervosa.

 

Disturbo da binge-eating

Per gli adulti con disturbo da binge-eating va considerato come intervento di prima scelta l’auto-aiuto guidato (GSH) basato sulla CBT. Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED di gruppo. Se la CBT-ED di gruppo non è disponibile o la persona la rifiuta, va considerata la CBT-ED individuale.

Per il disturbo da binge-eating nei bambini e giovani adulti sono fornite le stesse indicazioni degli adulti.

Non dovrebbero mai essere offerti i farmaci come unico trattamento per la bulimia nervosa.

 

Altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione con specificazione (OSFED)

Si raccomanda di usare i trattamenti per il disturbo dell’alimentazione che più assomiglia all’OSFED.

 

Le indicazioni delle nuove linee guida NICE: il commento dell’autore

Dalle nuove linee guida NICE emerge che la CBT-ED è il solo trattamento raccomandato per tutti i disturbi dell’alimentazione e per tutte le età (vedi tabella). La FB-AN e BN è invece raccomanda solo per gli adolescenti con anoressia nervosa, mentre altri interventi psicologici, come il MANTRA, il SSCN per gli adulti con anoressia nervosa. È anche da sottolineare che la CBT-ED per i bambini e i giovani adulti, sviluppata Villa Garda e valutata da due studi di coorte eseguiti in Italia, è stata inclusa dalle NG69 come intervento alternativo alla FT-AN e alla FT-BN.

È auspicabile che queste nuove raccomandazioni stimolino gli stakeholder della salute a predisporre delle azioni per implementare nei centri clinici italiani dei disturbi dell’alimentazione i trattamenti psicologici raccomandati dalle nuove linee guida NICE, per permettere ai pazienti di tutte le età di avere accesso a questi interventi la cui efficacia è stata dimostrata da rigorosi studi clinici. È anche augurabile che le scuole di psicoterapia recepiscano l’importanza di includere dei corsi di formazione sui trattamenti psicologici raccomandati dalle linee guida NICE per riuscire a formare un numero adeguato di psicoterapeuti che sia in grado di trattare con i migliori interventi disponibili le persone affette da disturbi dell’alimentazione.

 

Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione quali trattamenti psicologici sono raccomandati

Tabella. Sintesi di trattamenti psicologici per i disturbi dell’alimentazione raccomandati dalle NG69 del maggio 2017 (AFP-AN = Adolescent- Focused Psychotherapy for Anorexia Nervosa; CBT-ED = Cognitive Behaviour Therapy for Eating Disorders; GSH = Guided Self-Help; FPT= Focal psychodynamic therapy: MANTRA = Maudsley Anorexia Nervosa Treatment for Adults; OSFED = other specied feeding and eating disorders; SSCN = Specialist Supportive Clinical Management)

 

 

Il Re è nudo: studio pilota su vergogna e umiliazione in psicopatologia – Riccione, 2017

Il Re è nudo: studio pilota su vergogna e umiliazione in psicopatologia

S. Marinari, G. A. Aldi, I. Puppi, C. Gugliermetti, M. Lustrati, M. E. Maisano – Scuola Cognitiva di Firenze (SCF)

 

La vergogna è un’emozione sociale associata al timore di evocare o suscitare valutazioni negative negli altri, solitamente ritenuti superiori (Del Rosso et al., 2014). Ha origine nel confronto interpersonale e si attiva nel momento in cui gli individui giudicano se stessi come imperfetti, brutti o inferiori favorendo una bassa autostima e un senso di inferiorità e impotenza (Doran e Lewis, 2011).

Nonostante numerosi studi ne abbiano evidenziato il ruolo sia in relazione allo sviluppo e al mantenimento di vari disturbi psicopatologici, sia in relazione alle esperienze precoci e alle credenze patogene, tuttavia in letteratura la vergogna è spesso confusa e sovrapposta ad emozioni simili, tra cui l’umiliazione. Questa difficoltà di discernimento deriva dalla mancanza di una definizione empirica dell’umiliazione che porta erroneamente ad assimilare i vissuti delle due emozioni. Ma qual è la linea sottile che distingue la vergogna dall’umiliazione? Quale vissuto esperisce il protagonista della fiaba di Hans Christian Andersen quando, camminando tra la folla, viene smascherato dal bambino che grida “Il Re è nudo?”

Una prima differenza che possiamo cogliere è che se nella vergogna l’attenzione dell’individuo è rivolta su di sé, nell’umiliazione il focus attentivo si sposta sul danno recato al sé dagli altri dei quali si temono le possibili reazioni di rabbia o i comportamenti di vendetta. Nell’umiliazione si verifica una violazione all’interno della relazione che porterebbe l’individuo a sperimentare la sensazione di essere svalutato, ridicolizzato e degradato, con conseguenze potenzialmente diverse rispetto a quelle comunemente associate alla vergogna. Un’altra differenza consisterebbe nel fatto che la vergogna, a differenza dell’esperienza di umiliazione, può avere anche aspetti adattivi (Hartling et al., 2000).

Alla luce di queste premesse e in seguito alla scarsità di studi che mettono in relazione le due emozioni, l’obiettivo della nostra ricerca è quello di indagare i vissuti di vergogna e umiliazione e la loro interazione in soggetti con differenti livelli di tratti psicopatologici, in particolare Fobia Sociale, Disturbo Evitante di Personalità e Narcisismo Overt e Covert. Trattandosi di una fase esplorativa abbiamo utilizzato un campione non clinico con l’obiettivo di ampliarlo e coinvolgere una popolazione clinica nelle fasi successive dello studio.

 

Ansia Scolastica: sintomatologia, manifestazioni e trattamento

L’ ansia scolastica nasce dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati e ridicolizzati. Essa racchiude la paura dell’insuccesso, del giudizio negativo, il timore di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

 

 

Agire sull’ Ansia Scolastica è possibile. Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva a Genova propone un percorso di intervento psicoterapeutico per i disturbi d’ansia in età evolutiva ed adolescenza partendo dal modello cognitivo dell’ansia, in cui il disagio emotivo che accompagna l’ansia, dipende dal contenuto dei pensieri negativi e catastrofici sulle sensazioni fisiche, a cui i bambini reagiscono con strategie e condotte disfunzionali, più avanti verranno descritte le principali tecniche cognitivo-comportamentali utilizzate per il trattamento dei disturbi d’ansia presso il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva a Genova.

 

Che cos’è l’ ansia scolastica: una breve introduzione

Molti bambini e adolescenti giungono in terapia perché hanno la paura o l’ansia di andare a scuola, questo fenomeno riguarda un numero sempre maggiore di bambini e ragazzi in età scolare e raggiunge dei picchi in alcuni momenti cruciali del percorso scolastico:
– Tra i 5 e i 7 anni, all’inizio della scuola primaria.
– Tra i 10 e gli 11 anni con l’inizio della scuola secondaria di I°grado.
– Tra i 13 e i 14 anni con l’inizio della scuola secondaria di II° grado.

L’ ansia scolastica nasce dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati e ridicolizzati. Essa racchiude la paura dell’insuccesso, del giudizio negativo, il timore di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

Parlando di disturbi d’ansia in età evolutiva, è necessario fare una premessa, i bambini hanno molte paure fisiologiche che sono “normali”, ne cito alcuni:
– L’ansia da separazione;
– La paura del buio;
– La paura degli animali;
– L’ansia da prestazione.

La paura si differenzia dall’ansia e dalle fobie sulla base dell’obiettività: se c’è un motivo condiviso per avere timore (esempio una macchina che sta sbandando o un animale pericoloso che attacca) siamo nel dominio della paura, invece se la condivisione non c’è, stiamo parlando di ansia o di fobia.
Nei bambini però questa distinzione diventa problematica in quanto il loro livello di sviluppo cognitivo non permette di differenziare facilmente il reale dall’immaginario.

La distinzione tra ansia patologica e paura “normale” dell’infanzia si deve basare sui criteri di intensità, frequenza e durata (Lambruschi 2004): quando la reazione d’ansia del bambino è molto intensa, appare frequentemente e dura a lungo, possiamo parlare di ansia patologica.

Il DSM 5 descrive i disturbi d’ansia in una categoria specifica e lungo il continuum del ciclo di vita: le medesime categorie sono riferite all’infanzia, all’adolescenza, e all’età adulta. I disturbi d’ansia rappresentano la patologia psichiatrica più comune in età evolutiva (Merikangas et al., 2010; Kessler, Avenevoli, Costello 2012) e si stima che un terzo degli adolescenti soddisferà i criteri per un disturbo d’ansia all’età di 18 anni (Merikangas et al. 2010). Molte ricerche dimostrano che i disturbi d’ansia nell’infanzia sono associati a disturbi d’ansia nell’età adulta, disturbi depressivi e uso di sostanze psicoattive (Langley, BerGman, McCracken & Piacentini 2004).

 

Come si manifesta l’ ansia scolastica?

Come nell’adulto l’ansia è associata a manifestazioni somatiche, i segnali più diffusi sono:
– Mal di testa;
– Pianti, tremori, mente offuscata;
– Male allo stomaco o tensione muscolare, che spesso portano i bambini a chiedere di non andare a scuola o di uscire prima;
– Difficoltà ad addormentarsi, in questo caso a volte il lettone di mamma e papà è spesso la soluzione a cui si ricorre per trovare la serenità e potersi addormentare tranquilli;
– Talvolta vomito e febbre;
– Crisi di panico prima di varcare l’ingresso della classe, ma a volte si manifesta già a casa prima di partire per andare a scuola.

Spesso vengono considerati capricci, una sorta di ribellione, ma in realtà possono nascondere un disagio più profondo che colpisce bambini e ragazzi, dalle prime classi fino al liceo.
Le cause principali dell’ ansia scolastica sono:
– L’ansia da separazione nei più piccoli
– Paura di episodi di bullismo
– Timore del’insegnante
– Timore di avere brutti voti
– Timore di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori.

L’ ansia scolastica, a volte una vera e propria angoscia caratterizzata da un forte senso di preoccupazione, aspettativa del peggio, apprensione, si manifesta anche in situazioni di per sé aspecifiche e neutrali.
Il bambino ha come la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, sia essa una disgrazia o una malattia, che possa colpire lui o le persone a lui più care (quasi sempre i genitori). Il bambino ha difficoltà a descrivere ciò che realmente pensa o prova e per questo avverte sempre più angoscia andando così a creare un circolo vizioso dell’ansia (Fig.1) che in alcuni casi può portare anche ad una sofferenza intensa.

Il circolo vizioso dell’ansia

ciclo-ansia

Fig. 1 “Il Circolo vizioso dell’ansia”.

Il bambino si sente perciò irritabile, insicuro, sempre alla ricerca di rassicurazioni, di gratificazioni oppure proverà a gestire questa sua angoscia tendendo alla perfezione in ogni cosa che fa o ad evitare situazioni o luoghi. L’elemento attivante è la paura dell’evento che porta con sé pensieri negativi quali la paura del Giudizio, la paura di deludere gli altri, il timore di essere ridicolizzato in classe ecc…

Agendo su questi pensieri negativi e riducendoli, si interrompe il circolo dell’ansia.
Ad esempio,una prestazione imperfetta non solo allontana dall’obiettivo che si voleva raggiungere ma espone alla critica, alla svalutazione e alla eccessiva preoccupazione per le conseguenze di quell’evento e quindi aumento dell’ansia.

Le preoccupazioni non sono altro che pensieri riguardanti il possibile verificarsi di eventi futuri negativi. Solitamente si manifestano sotto forma di domande che iniziano con la formula “E se…”.

Ecco di seguito alcuni esempi:
– E se il compito di Italiano andasse male? Potrei non riuscire mai a imparare queste cose. Tutti i miei amici si prenderanno gioco di me. Potrei non voler più andare a scuola. Se non andrò più a scuola sarò bocciato. Dovrò ripetere l’anno. Non avrò più i miei compagni di classe, dovrei trovare nuovi amici. E se nella nuova classe non mi accettassero? Sarò un fallimento!
– E se sbagliassi un esercizio? Il professore potrebbe dirmi che ho fatto un cattivo lavoro. E se lo dicesse davanti a tutta a classe? Gli altri riderebbero di me

Come si manifesta l’ ansia scolastica a scuola?

  • Eccessiva preoccupazione e ansia per le verifiche.
  • Abbassamento del rendimento scolastico.
  • Perdita di interesse verso materie che prima piacevano.
  • Ripetuta ricerca di approvazione dell’insegnante.
  • Difficoltà a parlare di fronte alla classe.
  • Difficoltà a entrare in classe la mattina.
  • Ritardi nell’ingresso a scuola.
  • Bassa autostima.
  • Difficoltà di concentrazione a causa di preoccupazioni persistenti.
  • Irritabilità.
  • A volte aggressivo verso i suoi compagni di classe.
  • Intolleranza alla frustrazione.
  • Tendenza a evitare le difficoltà.
  • Difficoltà a terminare i compiti assegnati.

Come si manifesta l’ ansia scolastica a casa?

  • Preoccupazioni riguardanti le prestazioni scolastiche.
  • Preoccupazioni riguardo la puntualità.
  • Perfezionismo e paura di sbagliare.
  • Impiegare troppo tempo nel fare i compiti.
  • Mancanza di fiducia in se stessi.
  • Continue richieste di approvazione.
  • Richieste di rassicurazione.
  • Presenza di sintomi fisici come mal di testa, mal di stomaco, stanchezza e dolori muscolari.
  • Disturbi del sonno.
  • Riferita sensazione d’ irrequietezza.
  • Irritabilità
  • Paura delle critiche e dei giudizi negativi riguardo le loro capacità.

 

Il trattamento dell’ansia

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova propone la terapia cognitivo-comportamentale come trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia in età evolutiva.

Durante la terapia è di fondamentale importanza il supporto e la collaborazione attiva dei genitori, ovviamente il grado di coinvolgimento dei genitori varia in base all’età del bambino o dei ragazzi.

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova utilizza con i bambini, strumenti terapeutici che una volta appresi e utilizzati con regolarità, favoriscono il superamento del disturbo/disagio ed evitano che si ripresenti in futuro.

L’idea di base sulla quale il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova si avvale è che il lavoro con i bambini o ragazzi, non consiste unicamente nell’eliminare i loro pensieri irrazionali, ma anche nel rafforzare le credenze razionali, che difficilmente nascono in maniera spontanea specialmente nel caso di bambini, che sono inseriti in un sistema in cui altri adulti significativi, con i loro pensieri disfunzionali, hanno molta influenza.

Le principali tecniche utilizzate dai professionisti che operano nel centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova, sono:

La Psicoeducazione, con l’obiettivo di aumentare il vocabolario emotivo del bambino, condividendo con il paziente un numero più ampio di termini per definire le emozioni e introducendo il concetto di intensità e durata di un’ emozione. Prerogativa fondamentale della terapia è imparare a saper riconoscere le emozioni e poi riprodurle. L’intensità dell’emozione può essere misurata attraverso uno strumento chiamato “Il Termometro delle Emozioni” (Lambruschi 2004; Di Pietro, Dacomo 2007, Fig.1), in cui viene chiesto al bambini di raccontare qualche episodio in cui ha sperimentato emozioni con diversa intensità e insieme decidono dove posizionarle nel termometro.

il termometro delle emozioni

Altro strumento utilizzato è il “Fiore delle Emozioni di Plutchik” (Fig.2) in cui è ben visibile come emozioni diverse facciano parte della stessa categoria, al bambino viene così mostrato come le emozioni che prova si possono collocare lungo un continuum coerente in cui ad esempio , il fastidio fa parte della stessa famiglia della rabbia e la preoccupazione di quella della paura. Il fiore di Plutchik, utilizzato assieme al termometro delle emozioni, permette al terapeuta di rendere evidente al bambino come un’emozione che vive come intensa molte volte non compare dal nulla, ma sia preceduta da altri stati emotivi “consoni”. Questo passaggio è cruciale per la terapia in quanto, spesso il bambino, o la famiglia, fa riferimento a una grande rabbia o a una forte ansia, come se questa fosse comparsa dal nulla.

il fiore di pluthcik

Fig.1 “Il Termometro delle Emozioni” Fig.2 “Il Fiore delle Emozioni di Plutchik”

L’individuazione e la modificazione dei pensieri disfunzionali attraverso il modello ABC (Fig.3).
Ai bambini o ai ragazzi viene insegnato a individuare i pensieri disfunzionali legati agli eventi temuti. Successivamente si insegnerà a valutare le situazioni con maggiore oggettività, in modo da poterle affrontare con pensieri più funzionali e realistici. Al paziente viene spiegato che, così come per le malattie fisiche ci sono i virus che causano i vari sintomi, si può pensare che ci siano alcuni “virus mentali” che causano emozioni o comportamenti inadeguati. Non sono le emozioni negative il problema, ma l’intensità delle stesse, e che queste estremizzazioni sono causate dai pensieri disfunzionali. (Di Pietro, Dacomo, 2007).

Modello-ABC

Fig. 3 “Il modello ABC”

L’esposizione. Questa tecnica consiste nel provare gradualmente ad affrontare le situazioni temute. L’esposizione alle situazioni temute permetterà al bambino o all’adolescente di verificare che queste non comportano un reale pericolo, imparando inoltre che è possibile gestire l’ansia.

Il rinforzo. Ogni comportamento avuto dal bambino, a casa, a scuola o in terapia e che si avvicina all’obiettivo prefissato, verrà premiato al fine di renderne più probabile la ricompensa.

Il modellamento. Si basa sull’utilizzo dell’adulto come modello funzionale di comportamento nell’affrontare le situazioni temute.

Le tecniche di rilassamento e di Mindfulness. Queste tecniche vengono utilizzate per ridurre lo stress del bambino e di conseguenza per abbassare i suoi livelli di ansia. Secondo le preferenze e le caratteristiche dei singoli bambini o adolescenti, possono essere utilizzate diverse tecniche di rilassamento tra cui il rilassamento progressivo muscolare, la respirazione diaframmatica, la tecnica del respiro lento, e il rilassamento per immagini.

La costruzione della resilienza. Viene insegnato ai bambini e ai ragazzi che, pur non potendo controllare gli eventi, è possibile modificare l’impatto che essi hanno su di loro. L’utilizzo delle tecniche apprese durante la terapia permetterà di affrontare i momenti di difficoltà, superarli e di trarre degli insegnamenti utili per il futuro.

Il parent training. Il coinvolgimento dei genitori durante la terapia è di fondamentale importanza. Il terapeuta insegnerà loro come rispondere alle richieste e ai comportamenti dei bambini o dei ragazzi, in modo da non rinforzare le loro paure e di conseguenza il loro disturbo.

Empowerment nello sport e disabilità: come favorire lo sviluppo e la crescita personale

In uno studio di ricerca di Pensgaard e Sorensen si esaminano alcuni aspetti dello sport, nell’ottica di potenziamento del contesto per chi partecipa, con una speciale enfasi sugli atleti con disabilità. Vi è una tendenza nel mondo occidentale a promuovere l’integrazione delle persone con disabilità fisica, anche nello sport. Lo sport, dunque, è stato considerato un insegnamento di valori positivi, come la costruzione di un carattere e di un fisico più forte e più maturo.

Federica Liso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Il concetto di empowerment

Chiamano disabili, atleti che fanno i 50 all’ora in bici, i 100 metri in 11”, saltano in alto 2 metri, corrono la maratona da non vedenti in 2h35’, lascio a voi valutare chi è il disabile nella vita comune.” Fabrizio Tacchino (Allenatore)

Tra le parole straniere ormai di uso corrente, “empowerment” è una delle poche a non avere ancora un preciso corrispettivo nella lingua italiana. Il termine deriva dal verbo inglese “to empower” che in italiano viene comunemente tradotto con “conferire poteri”, “mettere in grado di”. Letteralmente questo termine significa “potenziamento”, “responsabilizzazione”, “aumentare il proprio potere interno”, anche se empowerment è un concetto talmente complesso di cui è difficile dare una definizione unica ed esaustiva, perché, più che una categoria chiusa, esso è una costellazione di elementi collegati tra loro. Anche se la definizione è ancora un po’ troppo vaga, il termine trova una sua specificazione se applicato in alcuni degli ambiti in cui, sin dagli anni Sessanta, il concetto di empowerment è presente, come la politica, la psicologia, la medicina, l’organizzazione aziendale, la formazione.

Per l’essere umano, avere potere su se stesso, sentirsi ed essere efficace, avere la consapevolezza di poter incidere sugli eventi, godere di una buona autostima, considerare gli insuccessi come momento di apprendimento, sono parte di una condizione psicologica ben specifica. Tale condizione, però, non è data una volta per tutte, ma rappresenta un cammino che favorisce la speranza nel futuro e che permette di percepirsi come persone capaci di cimentarsi e riuscirci. E’ una persona capace di affrontare la vita e le sue sfide, capace di attraversare successi e insuccessi mantenendo saldo il potere su se stesso e arricchendo quotidianamente il suo “potere con l’altro”.

Un’ottica basata sull’empowerment prevede interventi di sostegno e di proposta di nuove opportunità sociali, secondo tre direzioni:
– generare alternative in modo immediato;
– far conoscere come e dove avere accesso alle risorse;
– incrementare l’autostima e la motivazione.

Un filone importante di studi è stato sviluppato nell’area della psicologia della comunità, ben rappresentata dalle ricerche di Zimmermann, che definisce il concetto di empowerment come il passaggio, per un individuo, dalla condizione di “learned helplessness” (impotenza appresa) a quella di “learned hopefulness” (percezione appresa di essere capaci), acquisito mediante la partecipazione attiva all’interno della comunità in cui è inserito.

Si evidenziano due principali differenti prospettive: una psico – sociologica ed una socio – organizzativa. Nel primo approccio, il principio guida è che, per produrre empowerment organizzativo, è necessario operare contestualmente sulle dimensioni individuali ed organizzative, dove le persone dipendenti e senza “potere” nell’organizzazione, possano sviluppare contemporaneamente un sentimento del proprio valore ed un maggior controllo sulla situazione lavorativa. Il secondo approccio (socio – organizzativo), considera due livelli, uno micro – organizzativo e uno macro – organizzativo, rilevando la determinante funzione ed interazione tra valori ed etica che concorrono a formare e rendere visibile la cultura di un’organizzazione.

L’empowerment nello sport e la disabilità

L’empowerment è visto, dunque, come un processo progressivo di adattamento, che non implica necessariamente una situazione iniziale di disagio o svantaggio. In altri termini, l’empowerment aumenta la qualità organizzativa nella misura in cui aumenta l’interazione sociale, intesa come il processo di apprendimento e di negoziazione di significati che intercorre tra gli attori sociali, tramite le loro reciproche azioni.

In particolare, il Comitato Paralimpico Internazionale dello Sport, ha definito l’empowerment come un tema di ricerca prioritario all’interno del settore della disabilità sportiva: “il processo attraverso il quale gli individui sviluppano le competenze e le capacità di ottenere il controllo sulla propria vita e di intervenire per migliorare la loro situazione di vita”.

In uno studio di ricerca di Pensgaard e Sorensen si esaminano alcuni aspetti dello sport, nell’ottica di potenziamento del contesto per chi partecipa, con una speciale enfasi sugli atleti con disabilità. Vi è una tendenza nel mondo occidentale a promuovere l’integrazione delle persone con disabilità fisica, anche nello sport. Lo sport, dunque, è stato considerato un insegnamento di valori positivi, come la costruzione di un carattere e di un fisico più forte e più maturo. D’altra parte, lo sport è stato, anche, criticato per essere troppo concentrato sul miglioramento delle prestazioni e di essere indifferente, sia al ruolo dello sport come cultura pratica, fisica e psicosociale, sia alle conseguenze degli atleti con disabilità. La questione è definire quali aspetti siano positivi o negativi e quali siano in grado di influenzare l’esperienza sportiva per le persone con disabilità fisica o psicologica.

Il disabile convive con pesanti modificazioni della propriocezione, della esterocezione, delle sensazioni relative al dolore/piacere; alcuni piaceri gli sono preclusi, alcuni dolori diventano abituali o comunque più frequenti della norma e alcune sensazioni muscolari sono assenti dalla nascita o sono improvvisamente sparite. Il quadro affettivo legato alla propria immagine psichica risente sia dei connotati negativi risultanti dalla propria figura riflessa nello specchio, che del giudizio degli altri. Nell’affrontare un contesto sociale c’è dunque una inibizione determinata dalla coscienza di disporre di un corpo imperfetto. Queste sono le premesse fondamentali dinnanzi alle quali si trovano sia il disabile che vuole intraprendere l’attività sportiva, sia il tecnico che insieme a lui deve affrontare un percorso complesso e a volte difficile.

Si fonda tutto sull’integrazione di questi atleti e come ciò potrebbe modificare il proprio livello di empowerment. Si tratta, dunque, di capire se gli atleti con disabilità perdono il loro “potere” oppure riescono, attraverso l’integrazione, a diventare atleti qualificati. Un aspetto importante consiste nel saper fronteggiare sia gli aspetti tecnici della disciplina, sia le dinamiche che si sviluppano nella relazione.

In base a quanto espresso finora si può comprendere come il disabile rappresenti una sfida ancor più ardua per il tecnico che si trova a lavorare con lui. Infatti, nel caso della disabilità fisica si assiste ad una compromissione del piano corporeo/motorio e, conseguentemente, di quello emotivo, invece nel caso della disabilità mentale la compromissione investe anche il piano cognitivo. Ciò comporta una grande difficoltà, a seconda del grado di disabilità, rispetto alla capacità di percepire e pensare di se stessi e degli altri; elaborare i propri ed altrui stati emotivi; saper contenere i propri stati emotivi; comunicare con il mondo esterno; essere attenti; saper apprendere e memorizzare; essere motivati.

Per un disabile la pratica regolare dell’attività sportiva riveste i seguenti vantaggi:
– rispetto ad un piano cognitivo migliora la conoscenza del proprio corpo, dello spazio, del tempo e della velocità;
– rispetto ad un piano fisico, incrementa la forza muscolare, la capacità di equilibrio, la cinestesia e la coordinazione motoria, grazie alle ripetizioni consapevoli e finalizzate degli atti motori;
– rispetto ad un piano sportivo, acquisisce le conoscenze tecniche delle varie discipline sportive.

La pratica sportiva produce uno stato di soddisfazione generale, favorisce la disciplina e l’allenamento che, di conseguenza, portano al contenimento degli stati emotivi incrementando la capacità di autocontrollo, in modo da avere la possibilità di aumentare la propria autonomia.

Nella metodologia d’insegnamento proposta, il tecnico deve tener conto delle tappe dello sviluppo psicofisico dell’allievo, in quanto la sua capacità di ricezione ed assimilazione di contenuti e proposte pratiche è strettamente correlata alla sua maturazione psicofisica. Secondo il principio dell’individualizzazione, si considerano le differenze individuali nei ritmi cinetici, nell’efficienza e nell’efficacia causate dal deficit motorio. Il tecnico deve saper apprendere e riconoscere questi diversi aspetti, poiché in base a questi sarà possibile una buona programmazione didattica. La funzione socio – educativa dell’attività motoria aiuta l’individuo a sviluppare al massimo le sue potenzialità, evidenziando ciò che egli è già in grado di fare.

L’individuo disabile, dunque, prima conoscerà se stesso, il suo corpo, in seguito sperimenterà la motricità altrui, imparando ad osservarla, interpretarla e riconoscendone il suo valore espressivo.

Lo sport capovolge la situazione in cui si trova il disabile, egli infatti si trova ad aumentare le proprie attività, ampliando il proprio volume di azione e allargando gli orizzonti fisici. L’allenamento rappresenta la chiave del successo e per la sua programmazione, la relazione tra l’allenatore e l’atleta gioca un ruolo decisivo.

Concludendo, si può constatare come il disabile, spesso per i suoi deficit cognitivi, presenti una difficoltà nell’elaborazione mentale dell’azione da compiere che a volte risulta rigida e poco adattiva. Sarà premura del tecnico fare in modo di riuscire ad evidenziare le potenzialità dell’atleta, mettendolo nelle condizioni più favorevoli per “vincere”.

La Competenza a Curare di Emilio Fava e del Gruppo Zoe (2016) – Recensione

Emilio Fava e il gruppo Zoe nel libro “La Competenza a Curare” riesaminano il campo della ricerca empirica in psicoterapia e poi mettono a disposizione un loro modello di psicoterapia empiricamente fondata.

Il contributo della ricerca secondo l’orientamento psicodinamico

L’orientamento di Fava è psicodinamico e fondato sulla  ricerca empirica, quella ricerca che ha dimostrato l’importanza soprattutto dei fattori comuni di tipo relazionale e che Fava e il suo gruppo declinano in termini psicodinamici, ovvero di transfert e controtransfert. Nel modello di Fava sono importanti poi le resistenze e al cosiddetta diagnosi psicodinamica dimensionale.

I capitoli iniziali del libro sono una rassegna completa dello stato della ricerca sui fattori terapeutici. Seguono i capitoli dedicati agli elementi del modello di Fava e del gruppo Zoe: resistenze, relazione, diagnosi psicodinamica.

Una parte molto ricca del libro è quella dedicata agli strumenti di ricerca messi a punto da Fava e coerenti con il suo modello: il metodo per la diagnosi psicodinamica operazionalizzata, detto OPD, e uno strumento di valutazione dell’indicazione alla psicoterapia, strumento chiamato APP.

L’esposizione del metodo di somministrazione e dei dati psicometrici di validità degli strumenti proposti è chiara ed esaustiva e questa è sicuramente la parte più interessante per chi volesse incrementare il proprio repertorio tecnico e strumentale. I capitoli finali sono dedicati alla formazione, alla supervisione e al rapporto tra psichiatria e psicoterapia.

Una buona lettura.

Effetti del trauma su regolazione emotiva e metacognizione – Riccione, 2017

Effetti del trauma su regolazione emotiva e metacognizione

Martina Torresi, Valentina Carloni, Federica Di Francesco, Marika Di Egidio, Fiammetta Monte, Michela Grandori, Tiziana Ciccioli, Chiara Caruso, Clarice Mezzaluna

Studi Cognitivi, Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, Milano, sede di San Benedetto del Tronto (AP)

Introduzione

Il trauma psicologico può produrre reazioni emotive e corporee importanti che non sempre il cervello riesce a elaborare.

La letteratura evidenzia un ruolo centrale della regolazione emotiva nello sviluppo del trauma: deficit in tal senso determinano maggior monitoraggio della minaccia, ridotte capacità di coping e risposte emotive più intense agli stressor traumatici (Bardeen et al., 2013).

Nel modello metacognitivo di Wells (Wells, 2012) la regolazione emotiva è una delle componenti principali del CAS, una serie di processi cognitivi disfunzionali che interferiscono con la reazione di adattamento e con il ripristino dei normali processi di elaborazione cognitiva (Mazloom et al., 2015).

L’obiettivo dello studio è quello di analizzare la relazione tra esposizione a eventi traumatici, disregolazione emotiva e funzionamento metacognitivo.

Ipotesi:

1) L’esposizione a eventi traumatici determina minori capacità di regolazione emotiva.

2) L’esposizione a eventi traumatici determina un peggior funzionamento delle funzioni metacognitive.

3) La disregolazione emotiva media la relazione tra esposizione a eventi traumatici e funzionamento metacognitivo.

Il dilemma del trolley: il rango elevato rende più liberi dal Not Play God?

Sembra che se ci si riconosce un rango elevato, allora ci si sente più liberi di decidere, cioè meno vincolati dal rispetto per la autorità morale.

Daniela Pulsinelli e Francesco Mancini (1)
Università Marconi, Roma.

 

Il dilemma del trolley: Not play God o scelta umanitaria?

Il rango elevato rende più liberi dal Not Play God?

Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato il Dilemma del Trolley (Edmond, 2014).

Il Dilemma del Trolley è un paradigma sperimentale utile per studiare come le differenze tra individui e tra condizioni influenzino le scelte morali. Ne esistono diverse versioni. In quella basica si chiede ai soggetti di immaginare un vagone che procede completamente fuori controllo lungo un binario sul quale sono bloccate cinque persone che, inevitabilmente, saranno travolte e uccise. Ai soggetti, poi, è chiesto se muoverebbero la leva di uno scambio, deviando così il treno su un binario dove, però, si trova una persona che sicuramente non avrà scampo.

Questo dilemma è particolarmente interessante ai nostri fini perché contrappone un principio umanitario/altruistico al principio deontologico basico che è il Not Play God, o per i laici Not Tamper with Nature. Per il primo una scelta è moralmente buona se implica conseguenze buone per la maggior parte delle altre persone. Il Not Play God è una norma intuitiva secondo la quale, invece, nessuno ha il diritto di mettersi nei panni di Dio e nessuno, dunque, ha l’autorevolezza per modificare quello che appare il corso naturale degli eventi, vale a dire ciò che Dio, la Natura o il Destino hanno deciso.

La decisione di muovere lo scambio, e dunque di salvare cinque vite al costo della perdita di una sola persona, è dettata dal rispetto del principio umanitario mentre la scelta opposta è dettata dal principio Not Play God. Questa scelta, contrariamente alla prima, comporta non prendersi la responsabilità di un’azione che interferisca con l’ordine naturale, lasciando dunque al destino la decisione di lasciar morire cinque persone piuttosto che una sola.

 

Appartenenza al rango elevato: rende liberi dal Not play God?

Il peso morale del Not Play God influenza l’omission bias, vale a dire la tendenza a giudicare le omissioni moralmente meno gravi delle azioni, a condizione, ovviamente, che azioni e omissioni siano equivalenti per valore dell’esito, per la consapevolezza delle conseguenze e per l’intenzionalità dell’agente. Le omissioni, al contrario delle azioni, non interferiscono con l’ordine naturale e dunque non violano il principio Not Play God e di conseguenza sono moralmente meno reprensibili.

Tuttavia da alcune ricerche (Haidt & Baron, 1996) risulta che il peso morale del Not Play God diminuisce, se si giudica un individuo al quale si riconosce autorità e autorevolezza. Il comandante di una nave risponde tanto delle omissioni quanto delle azioni. Essendo “secondo solo a Dio”, gli si riconosce il diritto-dovere di utilizzare margini decisionali più ampi di quelli riservati alle persone comuni e dunque le sue omissioni sono meno scusate. Ma chi ricopre il ruolo di comandante è influenzato anche nelle proprie scelte e nei giudizi su di sè? Cioè si sente lui stesso meno legato dal rispetto del Not Play God? Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato la versione basica del dilemma del trolley. L’ipotesi era che chi si identificava in un ruolo di autorità sarebbe stato meno condizionato dal rispetto del Not Play God e dunque avrebbe mosso lo scambio, più di quanto avrebbe fatto chi si identificava in un ruolo non di autorità ma di persona qualunque. Con l’aumentare del rango, e dunque del grado di autorità auto-attribuita, l’individuo si sente meno vincolato dal principio Not Play God, e pertanto, meno propenso alle omissioni.

Per mettere alla prova la nostra ipotesi abbiamo realizzato tre varianti del dilemma del trolley, in cui i soggetti si immaginavano in una emergenza, dove dovevano decidere se lasciare tre persone al loro tragico destino o se, invece, cambiare gli eventi in corso, direzionando il pericolo mortale verso altre due persone. La questione, in sintesi, era: è giusto prendersi la responsabilità di interferire con il destino per salvare tre persone e farne morire due (2)? Al campione di controllo era chiesto di immaginarsi come dei passanti che si trovavano casualmente nella situazione di emergenza. Al campione sperimentale era chiesto di immaginarsi in un ruolo di autorità rilevante nel contesto in cui si stava svolgendo la tragedia. Il capostazione nel contesto ferroviario in cui occorreva scegliere se deviare o meno un treno da tre verso due persone, il comandante dei vigili del fuoco nella condizione in cui era divampato un incendio, o ancora il direttore di un ospedale nel caso di una fuga di gas in una struttura sanitaria. Al campione sperimentale era sottolineato che erano gli unici responsabili in grado di poter decidere come agire in tale condizione.

In sostanziale accordo con l’ipotesi, il gruppo sperimentale (ruolo di autorità) sceglieva le omissioni meno del gruppo di controllo (passanti). Nel gruppo autorità si riscontravano inoltre meno omissioni nel dilemma 2 rispetto ai dilemmi 1 e 3. Tale risultato è spiegabile dal diverso ruolo di autorità percepita nei tre dilemmi. In altre parole, al comandante dei vigili del fuoco potrebbe essere riconosciuta una autorità maggiore del capostazione e del dirigente di un ospedale, per lo meno rispetto alla gestione della emergenza descritta nelle vignette sperimentali.

Per questo motivo, probabilmente, si osservano maggiori scelte d’azione nelle vesti del comandante dei vigili del fuoco. In conclusione, sembra che se ci si riconosce un rango elevato, allora ci si sente più liberi di decidere, cioè meno vincolati dal rispetto per la autorità morale.

Note:

  1. La ricerca alla quale si fa riferimento è nella tesi triennale in Scienza della Formazione e Tecniche Psicologiche che Daniela Pulsinelli ha svolto presso la Università Marconi, relatore prof. Francesco Mancini: “La responsabilità di ruolo nei dilemmi morali”.
  2. Abbiamo utilizzato la proporzione tre verso due e non quella tradizionale, cinque verso uno, per evitare un effetto soglia.

I sogni e la psicoterapia cognitivo comportamentale

Inizialmente la psicoterapia cognitivo-comportamentale prediligeva la strada neuropsicologica secondo la quale i sogni erano solo un rumore di fondo prodotto dal cervello. Oggi invece la ha sviluppato diversi modelli di lavoro sul materiale onirico.

Cristina Ferrari – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Nella storia della psicologia si è molto parlato di sogni e del loro significato, e questo non solo nell’ambito psicoanalitico. Ovviamente colui che diede particolare interesse al tema fu chiaramente Freud: chi non ha mai sentito parlare dell’Interpretazione dei sogni?!

Infatti è noto come per la psicoanalisi il sogno fosse la via che portava alla lettura dell’inconscio dei pazienti, oltre alla convinzione che i sogni son desideri (come cantava anche Cenerentola… ma questa è un’altra storia).

Freud infatti parla di una doppia funzione dei sogni (Freud, 1953): da una parte è espressione di desideri inconsci del paziente, che vengono repressi perché spesso dal contenuto sessuale e amorale, dall’altra il sogno ha una funzione protettiva per il sognatore. Infatti, visto il contenuto poco morale dei desideri inconsci, il sogno rende accettabile il significato, mostrando solo parzialmente la sua espressione.

Ma non solo la psicoanalisi si è occupata dello studio e dell’analisi dei contenuti onirici: infatti, dall’altra parte, troviamo studi della neuropsicologia che cercano di dare una risposta scientifica al fenomeno onirico. Infatti le prime teorie neuropsicologiche parlano dei sogni come prodotti fisiologici, senza significati intrinsechi: si parla di scariche casuali di alcune aree del tronco encefalico che attivano a loro volta aree della corteccia producendo così immagini o emozioni (Bear et al., 2007).

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale e i sogni: seguire la psicoanalisi o la tesi neuropsicologica?

Ovviamente qui ho esposto brevemente quelle che sono le due teorie psicologiche più estreme che troviamo su un continuum di teorie e studi che sono stati elaborati sul tema. Proprio grazie a questi studi l’utilizzo dei sogni in psicoterapia è cambiato nel corso degli anni: sopratutto per quanto riguarda la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Infatti inizialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale era molto condizionata dalla poca scientificità dell’utilizzo dei sogni come ne parlava Freud, una grossa parte dei terapeuti cognitivo-comportamentali prediligeva la strada neuropsicologica secondo la quale i sogni erano solo un rumore di fondo prodotto dal cervello, dovuto alla sua costante attività (Hill, 1996).

Con il tempo parte del mondo cognitivo sentiva però la necessità di studiare maggiormente il fenomeno, nonostante la difficoltà di dover studiare un oggetto che non potesse essere replicato nel tempo: infatti il significato che si attribuisce al sogno ha proprio la caratteristica di essere strettamente personale. Negli anni però, l’importanza che le persone danno ai propri sogni e all’impatto emotivo che spesso hanno sulla veglia, ha portato i cognitivisti a buttarsi nello studio più specifico di questo fenomeno. Già Beck propose diversi studi per poter valutare il legame tra lo stato depressivo dei pazienti e il contenuto dei loro sogni (Beck, 1971): difatti Beck ipotizzò come il sogno potesse essere un indicatore del cambiamento emotivo del paziente durante un episodio depressivo (Beck e Hurvich, 1959; Beck e Ward, 1961), ricollegandosi così a come i sogni potessero riflettere l’idea che il paziente ha di sé, del mondo e del suo futuro. Nonostante le teorie elaborate da Beck tra gli anni ’60/’70, la psicoterapia cognitivo-comportamentale non fa grande uso del materiale onirico nei trattamenti fino agli anni 2000.

 

I sogni nella psicoterapia costruttivista

I primi, negli anni 2000, a interessarsi al campo onirico sono stati i costruttivisti, infatti molto importante è nel mondo costruttivista la narrativa del paziente, quindi la capacità di narrarsi per poter trovare la costruzione di significato: per questo uno strumento come il sogno potrebbe essere utilizzabile come materiale narrativo di tipo emozionale (Rezzonico & Liccione, 2004).

Come esposto dal dottor Bara durante il congresso SITCC 2014 il mondo costruttivista propone una modalità di lavoro sul materiale onirico basandosi sull’ipotesi che i sogni siano determinati da emozioni attive. Infatti lo scopo delle nuove tecniche costruttiviste in questo campo sarebbero rivolte non alla narrazione della trama del sogno, ma al recupero consapevole dello stato onirico, cioè alla conoscenza del vissuto emozionale nel presente.

L’approccio costruttivista al lavoro onirico segue alcune linee guida introdotte da Rezzonico, con l’obiettivo generale di utilizzare i sogni per poter far emergere alcuni significati personali al fine di raggiungere una maggiore consapevolezza da parte del paziente. Per poter giungere a questo obiettivo il sogno può essere utilizzato in qualsiasi momento della terapia, senza uno schema o un input preciso: i sogni potranno essere introdotti dal paziente come dal terapeuta. Nella prospettiva costruttivista il significato del sogno consiste in un lavoro di co-costruzione tra paziente e terapeuta: sarà il paziente a scegliere il livello di analisi del sogno, il terapeuta cercherà di porre attenzione alle emozioni riportate e alle possibili discrepanze emotive tra ciò che il paziente ha sognato e l’emozione provata durante l’attività onirica. Infine sarà il paziente a riconoscere la validità del significato di quel sogno.

 

I sogni in psicoterapia secondo la prospettiva razionalista

Nel mondo cognitivista troviamo però anche un altro approccio all’utilizzo dei sogni in terapia che si distingue dall’approccio costruttivista: la prospettiva razionalista.

Nonostante alcune caratteristiche comuni dei due approcci, come l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali alla base della scoperta del sogno, ci sono molti punti di lavoro differenti tra loro.

L’obiettivo del lavoro onirico nella prospettiva razionalista è quello di trovare distorsioni cognitive che ci possono essere in comune tra il sogno e la veglia, al fine di poter agevolare una ristrutturazione cognitiva. In questo caso però i sogni vengono utilizzati solo se portati dal paziente, quindi non viene proposto direttamente dal terapeuta a meno che la terapia si trovi in un momento di stallo. Nel momento in cui si fa riferimento a contenuti onirici durante il lavoro terapeutico sarà il terapeuta a guidare il paziente per poter costruire il significato del sogno.

É importante quindi notare come le due prospettive, nonostante una base comune, abbiano obiettivi e strategie molto diverse nell’utilizzo del materiale onirico in terapia.

 

Psicoterapia cognitivo-comportamentale e analisi dei sogni: il modello DMR

Oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha sviluppato diversi modelli di lavoro sul materiale onirico, tra i più noti citiamo il modello di Freeman e White, il modello di Clara Hill e infine il modello DMR di Jacques Montangero.

In particolare illustreremo quest’ultimo modello, che è anche il più recente. Il modello DMR (Description, Memory sources and Reformulation), secondo l’autore, è particolarmente sistematico al fine di produrre diverso materiale onirico per portare il paziente alla sua interpretazione del sogno. Il processo è diviso in tre differenti fasi (Montangero, 2009):

  • Description

Durante la prima fase viene chiesto al paziente di immergersi nel racconto del sogno, al fine di ritrovare fonti e significati. Questo è possibile farlo anche attraverso tecniche della psicoterapia cognitivo-comportamentale come l’ABC. Il racconto del sogno permette al paziente la condivisione con il terapeuta dell’esperienza. Quest’ultimo prende nota della descrizione assegnando un numero ad ogni evento o cambiamento presente nel sogno. È importante che il paziente riesca a descrivere ciò che è stato visto, sentito o provato in ogni evento numerato.

  • Memory Sources

Nella seconda fase il terapeuta accompagna il paziente alla ricerca di memorie autobiografiche che possono essere collegate agli eventi avvenuti nel sogno. Quindi il terapeuta chiederà: quali memorie può associare a questo elemento del sogno? Cercando di seguire sempre lo schema numerato degli eventi fatto in fase uno. È importante inoltre chiedere al paziente che valore attribuisce al ricordo e il grado di piacevolezza legato ad esso.

  • Reformulation

L’obiettivo dell’ultima fase sarà quello di far ridescrivere il contenuto del sogno al paziente, non come un evento specifico e concreto, ma ricollegando i significati più ampi e generali, trovati in fase II. Questo passaggio permette di far emergere le preoccupazioni e gli obiettivi del paziente.

I terapisti che vogliono usare questo metodo possono già riferire al paziente a inizio terapia che potrebbe essere utile riportare in terapia contenuti dei sogni così come episodi di vita come materiale per le sedute. Infatti la ricostruzione dei significati dei sogni non deve essere l’obiettivo terapeutico, ma può essere uno strumento per poter aiutare il paziente a ricostruire i propri schemi, non solo attraverso eventi reali.

Quindi in psicoterapia cognitivo-comportamentale l’utilizzo dei sogni è possibile all’interno di alcune modalità guidate, al fine di far riconoscere al paziente la propria modalità di funzionamento, utilizzando diversi materiali, e infine può aiutare il terapeuta nel processo di riconoscimento delle distorsioni cognitive e quindi per la loro ristrutturazione cognitiva.

Gli aspetti psicologici connessi all’attività sportiva

Nello sport vi possono essere diversi tipi di stressor: ad esempio, la prestazione, il rapporto con l’allenatore e i compagni, i segnali del proprio corpo. Tuttavia essi possono essere interpretati come stimoli positivi e non come fonti di disagio. Per affrontarli nel modo giusto, la persona deve ricorrere alle proprie capacità, in termini sia di fattori interni come la motivazione che lo ha spinto ad intraprendere l’attività e l’autoefficacia, sia a fattori esterni come le tecniche di gestione efficace dello stress e dell’ansia.

Elena Fiabane, Gloria Tosi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Lo stress e l’approccio cognitivo

Nella quotidianità e nella società attuale si parla molto di stress, generalmente con un’accezione negativa, in termini di senso di tensione, ansia, preoccupazione, senso di malessere diffuso, associati a conseguenze negative per l’organismo e per lo stato emotivo e mentale dell’individuo. Lo stress, quindi, sarebbe visto come qualcosa di negativo da eliminare totalmente. In realtà, già negli anni ’40, uno dei massimi studiosi del fenomeno, Hans Selye, diceva che senza stress c’è la morte. Cosa intendeva dire l’esperto con quella frase?

Lo stress è una sollecitazione che ci proviene dall’ambiente esterno, una richiesta da parte dell’ambiente volta all’attivazione delle risorse del nostro organismo. Non tutte le sollecitazioni esterne sono nocive e vanno eliminate. Pensiamo ad un esame universitario da affrontare: si tratta di una richiesta da parte dell’ambiente che implica una percezione di stress e di attivazione dell’organismo; tale sollecitazione risulta però molto utile perché permette all’individuo di mobilitare le risorse e le capacità individuali, di impegnarsi al fine di raggiungere un obiettivo importante per la crescita individuale e di aumentare il senso di autoefficacia.

Probabilmente, se non si percepisse alcun tipo di stress, non ci si impegnerebbe allo stesso modo e anche la sensazione di benessere correlata al raggiungimento dei propri obiettivi non sarebbe significativa e gratificante. Dunque, lo stress “buono”, definito “eustress”, è importante per la vita di ciascun individuo e non deve essere eliminato in quanto favorisce lo sviluppo e la crescita personali. I risultati delle ricerche mostrano, infatti, che le persone che hanno sperimentato precocemente situazioni di stress, da adulti si adattano meglio e più facilmente a contesti e situazioni nuove e stressanti. Affrontare situazioni di stress sembra favorire la costruzione di maggiori risorse psicologiche, permettendo di affrontare lo stress in maniera più efficace.

Quindi, quando lo stress non è più utile ma diventa nocivo per la salute, l’individuo ritiene di non possedere le risorse e/o capacità sufficienti per fronteggiare l’evento stressante; in altri termini, la persona percepisce una discrepanza tra le richieste dell’ambiente e le risorse individuali.

I primi approcci teorici consideravano lo stress come la risposta biologica aspecifica del corpo a qualsiasi richiesta ambientale e gli stressor erano i vari tipi di stimoli agenti che suscitavano tale reazione. La risposta biologica del corpo, aspecifica, detta anche sindrome generale di adattamento, si compone di tre fasi distinte: fase di allarme (attivazione del sistema nervoso simpatico con mobilitazione delle energie difensive, innalzamento della frequenza, della pressione cardiaca, della tensione muscolare, diminuzione della secrezione salivare, aumento liberazione di cortisolo); fase di resistenza (l’organismo tenta di adattarsi alla situazione e gli indici fisiologici tendono a normalizzarsi, anche se lo sforzo per raggiungere l’equilibrio è intenso); fase di esaurimento (se la condizione stressante si prolunga, oppure risulta troppo intensa, si entra in una fase di esaurimento in cui l’organismo non riesce più a difendersi e la naturale capacità di adattarsi viene a mancare).

Gli studi più recenti hanno invece riconosciuto il ruolo chiave dell’interpretazione cognitiva e della percezione soggettiva quali fattori in grado di influenzare l’esperienza e la conseguente gestione dello stress.

Nell’approccio cognitivo, Lazarus e Folkman (1987) descrivono invece lo stress come frutto degli stimoli dell’ambiente sulla persona, in cui la percezione che il soggetto ha della richiesta ambientale e delle proprie risorse per farvi fronte è la variabile di mediazione critica.
In effetti, ciò è quanto solitamente accade a tutte le persone nella vita di tutti i giorni, e la risposta di ogni individuo è singolare e specifica, in base alle caratteristiche dello stressor e, soprattutto, del soggetto stesso.

Nello sport vi possono essere diversi tipi di stressor: ad esempio, la prestazione, il rapporto con l’allenatore e i compagni, i segnali del proprio corpo.
Tuttavia essi possono essere interpretati come stimoli positivi e non come fonti di disagio.
Per affrontarli nel modo giusto, la persona deve ricorrere alle proprie capacità, in termini sia di fattori interni come la motivazione che lo ha spinto ad intraprendere l’attività e l’autoefficacia, sia a fattori esterni come le tecniche di gestione efficace dello stress e dell’ansia.

Le fonti di stress nello sport

Janke (1976) individua 5 categorie di stressor relativi all’ambito sportivo:
1. Stressor esterni: legati all’ambiente (es. sport acquatici; sport in ambienti estremi); alla deprivazione sensoriale (es. cuffie nel tiro a volo); al rischio di infortuni (nella ginnastica artistica ad esempio, nell’esecuzione corretta degli esercizi);
2. Stressor dovuti alla deprivazione dei bisogni primari (es. fuso orario può disturbare il sonno; condizioni climatiche non ottimali);
3. Stressor da prestazione: eccessiva pressione fisica e psichica; eccessiva monotonia e ripetitività degli allenamenti; gli insuccessi;
4. Stressor sociali: i conflitti (es con gli allenatori, i compagni, i genitori, altre figure di riferimento o con la scuola); l’isolamento sociale (es. continui viaggi, molti impegni possono portare a trascurare gli affetti);
5. Altri stressor: processi decisionali difficili; incertezze sul proprio futuro agonistico, etc.

Una delle risposte psicologiche suscitata dalla maggior parte degli stressor è l’ansia.
Molte delle modalità di fronteggiamento dello stress sono mirate proprio a ridurre l’ansia che può essere tanto intensa da divenire a sua volta una fonte di stress.
L’ansia non è altro che la reazione psicologica di paura verso eventi percepiti come stressanti e minacciosi. Tale meccanismo fa parte di una particolare risposta automatica ai pericoli fisici, la cosiddetta risposta di “attacco o fuga”, presente in tutti gli animali.
Questa risposta determina modificazioni fisiologiche in modo da preparare l’animale a poter fuggire dal pericolo o a lottare contro di esso.

Ecco le principali modificazioni fisiologiche scatenate dalla risposta di attacco o fuga:
– La mente diventa vigile
– La frequenta cardiaca aumenta
– Il ritmo del respiro aumenta per fornire più ossigeno al sangue
– Aumenta la sudorazione per evitare il surriscaldamento del corpo
– I muscoli si tendono, pronti all’azione
– La digestione si “ferma” e può dar luogo ad una sensazione di nausea o di “nodo allo stomaco”
– La salivazione diminuisce e la bocca si secca
– Il fegato libera lo zucchero per fornire velocemente più energia.

Queste modificazioni sono causate dal rilascio nel sangue di diversi ormoni, il più importante dei quali è l’adrenalina.
Di per sé, la risposta di attacco o fuga si sviluppa immediatamente dopo che si è recepito un pericolo ed è di breve durata, perché non appena il pericolo cessa gli ormoni rilasciati sono rapidamente metabolizzati (distrutti).
Pensiamo, ad esempio, a che cosa succede quando ci si salva in una situazione di grave pericolo, ad esempio in un incidente di macchina. Che cosa è successo quando si realizza che si è salvi? Probabilmente si continua a tremare per qualche minuto, ma poi tutto torna normale.

La risposta di attacco fuga può essere istintiva, ad esempio negli esseri umani sono istintive le paure per i serpenti e per i luoghi alti. Ma gli animali, compreso ovviamente l’uomo, possono anche imparare ad avere paura di altre situazioni che vengono collegate alla percezione di una minaccia e al sentirsi ansiosi. Per gli uomini non tutti i pericoli sono di tipo fisico.
Possiamo sentirci in ansia anche se temiamo di subire una perdita grave, o meglio grave per noi.

Non ha importanza quanto il pericolo sia obiettivamente reale e grave, conta la percezione soggettiva della probabilità dell’evento temuto e della gravità delle sue conseguenze.
Si parla di disturbo d’ansia quando la risposta di attacco o fuga viene scatenata regolarmente da stimoli o situazioni poco pericolose e che non rappresentano certo una minaccia per la sopravvivenza. La risposta di attacco o fuga è una risposta automatica alla percezione di una grave minaccia e non può essere modificata. Si può invece modificare il modo di interpretare situazioni ed eventi.

L’allenamento della mente

L’Aspetto psicologico è determinante per un atleta, perché chi si mette in gioco è prima di tutto la persona. Giocano un ruolo fondamentale diversi elementi, quali motivazione, autostima, emozioni come ansia da prestazione, stress e tecniche di gestione (mental training, controllo arousal, self talk, goal setting, imagery…).

Gli obiettivi principali del mental training possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
– il potenziamento delle proprie competenze
– la conoscenza ed il superamento dei propri limiti
– un’ottimale gestione dell’ansia e dello stress legati alla gara
– un approccio positivo agli allenamenti
– una efficace comunicazione con l’allenatore, con se stessi e con il proprio corpo.

Nelle attività sportive e motorie l’allenamento è il fulcro per il raggiungimento di ogni target che ci si prefigga, e spesso all’allenamento si associa solo l’attività fisica ripetuta con regolarità, costanza e metodo. Ma lo sport non è solo il rendimento del corpo, anzi, si raggiunge la prestazione massimale solo quando mente e corpo sono coordinati, sono tutt’uno. È necessario che essi vadano di pari passo in un percorso di miglioramento della performance. Se, infatti, è vero che ogni sport ed attività fisica richiedono un corpo che funzioni al meglio e che sia abituato (allenato) a rispondere in maniera adeguata agli stimoli, è anche vero che ogni sport e ogni attività motoria richiedono spiccate capacità di concentrarsi, di gestire le proprie emozioni, di evitare le distrazioni, di tollerare la frustrazione e l’ansia, di riprendersi da una sconfitta e di saper gestire il momento decisivo.

Attraverso lo sport, lo sportivo riesce a potenziare alcune aree fondamentali che hanno un impatto positivo e migliorativo sulla performance. Alcune di esse riguardano:
– Fattori cognitivi:
Capacità di concentrazione e attenzione;
Autoconsapevolezza del proprio corpo e dei pensieri.
– Fattori fisiologici:
Livello di attivazione fisiologica;
Coping;
Gestione dell’ansia e dello stress attraverso tecniche di rilassamento;
Recupero dell’infortunio;
– Fattori personali interni:
Autostima;
Autoefficacia;
Motivazione.

Tecniche di gestione dello stress e dell’ansia

Gli strumenti principali utilizzati per gestire lo stress e le emozioni in maniera più funzionale sono riconducibili principalmente alle strategie cognitivo-comportamentali, tra le quali le più usate sono il goal setting, le tecniche di imagery e self-talk, le metodiche di autoregolazione dell’arousal, l’allenamento della concentrazione e gestione dello stress.

Queste tecniche impostano un vero e proprio programma di allenamento della mente dell’atleta, che impara progressivamente a conoscere se stesso, a gestire ed ottimizzare le proprie abilità e caratteristiche. In questo senso si definiscono il mental training e lo sport coaching, che rappresentano un vero e proprio allenamento mentale che aiuta l’atleta a potenziare le proprie capacità, nell’assoluto rispetto dell’integrità fisica. È importante tuttavia lavorare non solo per sfruttare al meglio i punti di forza, ma soprattutto per individuare i propri limiti.

Le strategie cognitivo comportamentali sviluppate negli anni ’70 e tuttora pienamente utilizzate, mirano a far acquisire all’atleta le abilità di controllare e comprendere i propri processi mentali ed emotivi, partendo dal presupposto che la gestione o modifica dei processi cognitivi e degli stati emotivi negativi può contribuire al miglioramento della performance. Per realizzare i suoi obiettivi il Mental Training interviene sulle funzioni psicologiche determinanti la pratica motoria basandosi sull’elenco delle abilità mentali di base individuate da Martens, nel 1988:

  • Goal setting (formulazione degli obiettivi): molte volte gli insuccessi degli atleti sono dovuti ad una inadeguata scala degli obiettivi da perseguire durante il periodo di allenamento, e questa scarsa capacità di pianificare specifici standard di abilità da raggiungere in un compito può compromettere l’esito della stagione agonistica. Il Mental training aiuta lo sportivo a scomporre i grandi obiettivi in sub-obiettivi a breve, medio e lungo termine, sufficientemente difficili (e quindi allenanti) ma raggiungibili, mirati al miglioramento graduale della prestazione più che al risultato (spesso imprevedibile).
  • Imagery (capacità di creare e controllare immagini mentali): gli atleti vengono progressivamente allenati alla rappresentazione mentale della propria performance, aiutandosi con stimoli immaginativi che coinvolgono tutti i sensi e favorendo in questo modo un coinvolgimento emotivo e cognitivo. La tecnica dell’imagery preceduta sempre da una breve seduta di rilassamento viene anche utilizzata prima della gara come momento di concentrazione e di visualizzazione del percorso.
  • Self-talk (monologo interiore): formulare obiettivi e inserirli in un dialogo con se stessi che escluda l’intervento di pensieri intrusivi e distraenti.
  • Controllo dell’Arousal (controllo dell’attivazione): con il termine arousal in psicofisiologia è indicata l‘intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale dell’organismo. Quando il nostro corpo deve effettuare una prestazione deve attivarsi, cioè mettere in moto una serie di processi caratteristici dello stato di arousal quali l’aumento della vigilanza e dell’attenzione, l’attività dei muscoli che si preparano allo sforzo ed il cuore e i polmoni che si preparano al dispendio di energia. È di fondamentale importanza per un atleta saper raggiungere e mantenere il livello ottimale di attivazione psicofisiologica richiesto dalla performance, allenandosi con delle semplici tecniche di attivazione o disattivazione secondo le esigenze.
  • Abilità attentive (anticipazione e concentrazione): con il termine attenzione si fa riferimento a diverse componenti del funzionamento cognitivo. Tra queste alcune maggiormente coinvolte e determinanti per la performance dell’atleta sono: capacità di anticipazione, capacità di elaborazione dei dati da parte del sistema nervoso, capacità di filtrare le informazioni per trattenere solo quelle rilevanti, capacità di gestire le emozioni, capacità di dirigere l’attenzione all’interno ed all’esterno di sé. In sintesi la concentrazione è la capacità di focalizzare l’attenzione su un compito per un determinato periodo di tempo, senza che essa venga distolta da fattori distraenti interni (ad esempio pensieri negativi) o esterni (il rumore della folla). In questo caso si parla di Focusing. Parlando di attenzione non può essere tralasciato il concetto di “preparazione all’azione” (Holender, 1980) ben distinto dalla concentrazione. Il concetto di anticipazione e gli studi che lo hanno riguardato sostengono che lo scopo di un’azione determina la struttura dell’atto motorio. Qualunque azione motoria è anticipata dalla preparazione cognitiva. Questa competenza anticipatoria è una delle tante capacità che fanno parte dello stile attentivo di una persona.
  • Gestione dello stress (gestione delle emozioni sotto stress): lo stato di stress si verifica quando l’atleta percepisce una discrepanza tra la richiesta ambientale (sfida) e le risorse che egli percepisce di avere a disposizione per affrontare la sfida (livello di abilità) ovvero, quanto la persona si ritiene capace di…; quando le risorse non sembrano bastare l’atleta metterà in gioco strategie di coping non adeguate che non gli permetteranno di superare la sfida. Anche l’allenatore può essere sottoposto a stress ed essere ipo o iper attivato come i suoi atleti; si renderà quindi necessario adottare strategie per abbassare o incrementare il livello di attivazione (o arousal) per permettere un’analisi coerente e veritiera delle richieste stressanti e delle competenze in possesso degli sportivi.
  • Fra le tecniche di gestione dello stress annoveriamo lo Stress Inoculation Training, la desensibilizzazione sistematica e la ristrutturazione cognitiva che si occupa di individuare e correggere le distorsioni del pensiero che sono la causa di emozioni disfunzionali.
  • Rilassamento: le tecniche di rilassamento come il Training Autogeno o il Rilassamento Progressivo di Jacobson, vengono utilizzate per prendere consapevolezza della tensione muscolare a riposo e in attività, per gestire situazioni ansiogene o stressanti, sono preparatorie a qualsiasi attività immaginativa e rappresentano già esse stesse un primo passaggio di allenamento delle competenze attentive. Inoltre nello specifico la tecnica del training autogeno ha il potenziale di funzionare come metafora che permette di sperimentare quanto una giusta focalizzazione sulla performance aiuti ad ottenere il risultato che ci si prefigge.

Quando usare il mental training?

L’allenamento mentale di un atleta è quindi una componente essenziale dell’allenamento sportivo. Senza dubbio si può affermare che un atleta che alleni solo la parte fisica delle sue competenze di performance raggiungerà risultati parziali.
Questo il presupposto che fa del mental training un pilastro irrinunciabile dell’allenamento motorio dell’atleta che vuole realmente migliorare la sua performance.
Esiste una casistica che evidenzia come al mental training si rivolgano di solito allenatori di un club o di una squadra, lo staff dirigenziale o il singolo atleta.

Le motivazioni più frequenti per cui è richiesto sono relative ad una posizione in classifica non soddisfacente, difficoltà di attenzione e concentrazione, alla riabilitazione psicofisica del disabile, a rilevanti e controproducenti sintomi riconducibili ad ansia e stress, a problemi di relazione con l’allenatore, o di burn out, di depressione o sintomi psicosomatici dell’atleta, alla vigilia di un importante avvenimento sportivo o ad un semplice desiderio di completare l’allenamento fisico con l’allenamento mentale.

Il compito del mental training in tutti questi casi è sostenere l’individuo e il gruppo nella gestione delle richieste situazionali dello sport, aiutandolo a fronteggiare i problemi sfruttando il proprio bagaglio di conoscenze che possono contribuire al miglioramento della performance e della promozione del benessere della persona, in una visione integrata di essa.

La gestione dell’ansia pre-agonistica

La prevenzione ed il trattamento dell’ansia costituiscono uno dei principali problemi e dei maggiori obiettivi della psicologia dello sport. L’ansia preagonistica è legata all’imminenza di una competizione particolarmente impegnativa e temuta.

Un pensiero negativo e quindi disfunzionale alla prestazione è dato dal seguente rapporto:

Probabilità percepita della minaccia x Gravità e costi percepiti della minaccia
___________________________________________________________
Capacità percepita di fronteggiare il pericolo x Capacità percepita di tollerare

(Equazione dell’ansia, Beck Emery & Greenberg, 1985).

Le tecniche di gestione dell’ansia pre-agonistica maggiormente usate sono, ad esempio, il rilassamento e la desensibilizzazione sistematica, da apprendere sotto la guida dello psicologo e poi da esercitare autonomamente e regolarmente.

Il senso di autoefficacia e lo sport

Per senso di autoefficacia si intende “la percezione e l’insieme delle convinzioni e aspettative riferite alle proprie capacità di organizzare e realizzare azioni necessarie alla gestione delle situazioni in un particolare contesto” (Bandura, 1977).

Le aspettative di auto-efficacia determinano in quale misura e per quanto tempo gli sforzi saranno mantenuti indipendentemente dagli ostacoli e dalle esperienze negative.

In generale un individuo mantiene il suo impegno in una attività nuova (e difficile) se ha fiducia nella sua capacità di condurla a termine in modo positivo e se è motivato a raggiungere un determinato obiettivo. Quindi in termini operativi essa è la fiducia che una persona ripone nelle proprie capacità di affrontare un compito specifico (Bandura, 1986). È il giudizio che ogni persona possiede circa le proprie capacità personali di agire.

Essa rappresenta una dimensione della personalità davvero fondamentale. Tant’è vero che vengono utilizzate scale cliniche, questionari e interviste qualitative che mirano ad indagare questo item, per poi mettere in atto training di potenziamento veri e propri tarati sulla persona, ad hoc, tenendo conto dei limiti e delle potenzialità.

Lo studio dell’auto-efficacia nello sport è centrale poiché consente di:
– Comprendere alcuni processi cognitivi legati allo sviluppo di attività sportive e atletiche
– Conoscere e migliorare metodi di apprendimento motorio
– Comprendere il contributo del senso di auto-efficacia sull’acquisizione di abilità motorie
– Analizzare alcuni processi cognitivi che regolano la prestazione atletica
– Importanza dell’auto efficacia nella scelta degli obiettivi (goal setting)
– Ruolo nella gestione dello stress e dell’ansia connessi alle competizioni.

Conclusioni

Il mental training viene utilizzato come percorso che favorisce, a tutte quelle persone che ne sentano il bisogno, il raggiungimento di benessere fisico, psichico ed emotivo riscoprendo un contatto nuovo con se stessi. La figura dello psicologo interviene con le proprie metodologie, i propri strumenti, aiutando l’atleta ad allenare le diverse funzioni, i processi, ed opera sulle conseguenze mentali dello sport svolto in contesti competitivi, educativi, ricreativi, preventivi o riabilitativi. Con l’obiettivo di migliorare la strada verso il conseguimento del benessere e della salute, e favorire così l’incremento della prestazione sportiva.

“..prendere coscienza dei meccanismi mentali che ci tengono prigionieri facendoci ostinare a seguire chimere impossibili – essenzialmente, avere sempre pensieri ed emozioni positive e mai negativi – e a recuperare la nostra libertà di scegliere e di agire come riteniamo meglio per noi! Sviluppando cosi la flessibilità psicologica che consente di superare i momenti critici e di vivere pienamente il presente muovendosi nella direzione tracciata dai propri valori” (tratto da Trappola della felicità, di Russ Harris).

 

Effetti negativi, a lungo termine, in bambini esposti a violenza domestica psicologica

L’esposizione dei minori alla dimensione psicologica degli abusi domestici è quella che ha un impatto negativo più rilevante sul loro benessere psicologico. Invece, l’esposizione alla dimensione fisica non ha avuto alcun effetto negativo aggiuntivo su tale benessere.

 

Recentemente è stata pubblicata su Journal of Interpersonal Violence una ricerca scientifica dell’Università di Limerick (UL), in Irlanda, svolta da Catherine Naughton, Aisling O’Donnell e Orla Muldoon.

Per lo studio sono state prese in considerazione due ipotesi di ricerca: la prima atta ad indagare se l’esposizione alle dinamiche di violenza domestica e abuso (DVA) includano due distinti fattori; la seconda per verificare se l’esposizione alla violenza domestica fisica (DF) e l’esposizione all’ abuso domestico psicologico siano correlati con:

a) il benessere psicologico

b) con la soddisfazione del sostegno sociale (soddisfazione percepita con il supporto emotivo).

Hanno preso parte allo studio studenti tra i 17-25 anni (N = 465) di cui il 70% femmine. I ragazzi hanno riportato le loro esperienze di DVA come perpetrate dai loro genitori o tutori ed è stato valutato il benessere psicologico e la soddisfazione del sostegno sociale mediante un sondaggio online.

La ricerca di Naughton ha esaminato come l’esposizione dei bambini alla violenza domestica e agli abusi possa provocare effetti a lungo termine. L’abuso psicologico può includere: intimidazione, insulti, isolamento, manipolazione e controllo; mentre l’abuso fisico può comprendere: colpi, pugni, calci e uso di un’arma.

Esposizione alla violenza psicologica: i risultati della ricerca

I risultati hanno evidenziato come crescere in un ambiente caratterizzato dalla costante presenza di violenza domestica e abuso, abbia degli effetti dannosi a lungo termine sul benessere dei bambini. Sono state segnalate due diverse esperienze dai ragazzi rispetto alla loro esposizione alle dinamiche di violenza domestica e abuso. Questi due fattori distinti, tuttavia correlati, possono essere considerati come dimensioni fisiche e psicologiche della DVA.

Utilizzando l’analisi fattoriale confermativa (CFA), è stata verificata la presenza di un modello a due fattori (DVA fisico e psicologico). L’analisi della regressione gerarchica ha dimostrato l’impatto differente tra questi due fattori: in particolare, l’esposizione alla DVA psicologica (abuso domestico) era correlato con una riduzione del benessere psicologico mentre non si è evidenziato nessun effetto significativo con l’esposizione alla DVA fisica. Dunque, uno degli aspetti interessanti di questa ricerca è la dimostrazione che l’esposizione dei ragazzi alla dimensione psicologica degli abusi domestici è quella che ha un impatto negativo più rilevante sul loro benessere psicologico. Invece, l’esposizione alla dimensione fisica non ha avuto alcun effetto negativo aggiuntivo su tale benessere.

Naughton afferma:

“Sappiamo che il sostegno sociale è importante per il recupero dei traumi infantili, ma i nostri risultati dimostrano che l’esposizione ad alti livelli di abuso domestico psicologico è associato ad una diminuzione della soddisfazione dei ragazzi per il loro supporto sociale. D’altro canto, abbiamo anche scoperto che l’esposizione ad elevati livelli di violenza domestica fisica ha un effetto protettivo, in termini di soddisfazione per il sostegno sociale, per coloro che sono altresì esposti a elevati livelli di abuso psicologico intra-parentale. Quando i bambini sono esposti alla violenza fisica in casa, così come all’abuso domestico psicologico, hanno maggiori probabilità di essere in qualche modo più felici per il sostegno sociale a cui possono accedere. L’abuso domestico psicologico quando si verifica da solo sembra essere più dannoso, forse perché le persone non sono in grado di riconoscerlo e di parlare di esso “.

Questa ricerca esamina l’impatto degli abusi psicologici domestici sulla crescita dei bambini irlandesi, ma mostra anche la necessità di svolgere ulteriori ricerche per valutare gli impatti dell’esposizione a tutti i vari tipi di violenza domestica e degli abusi sui ragazzi.

Competenze genitoriali: la Funzione Riflessiva nei casi di separazione

La Funzione Riflessiva spesso risulta essere fortemente compromessa nelle situazioni familiari altamente conflittuali, ad esempio nelle situazioni di separazione e divorzio, in cui spesso la rabbia e il rancore dei coniugi si riversano sul rapporto con i figli.

Giorgia Zecchino

 

Statistiche recenti evidenziano un numero crescente di casi di separazione e divorzio nella nostra società. Ciò ha portato alla conseguente necessità di occuparsi di questi eventi avvalendosi di approcci multidisciplinari: sociali, giuridici e psicologici.

Spesso la separazione è caratterizzata da alti livelli di conflittualità, così da inserire il minore in processi familiari disfunzionali e di triangolazione che potrebbero mettere a rischio il suo sviluppo psicofisico e sociale.

Spesso i coniugi essendo invischiati in dinamiche di rabbia, astio e rancore non riescono a giungere ad un accordo in merito alla divisione dei beni e all’ affidamento dei figli. Si parla quindi in questi casi di separazione giudiziale, in cui il giudice, con l’ausilio della consulenza tecnica, si trova a fare una valutazione dei fattori di rischio e di protezione connessi alle competenze genitoriali per decidere sulle migliori condizioni di affidamento dei figli.

La Consulenza Tecnica in casi di separazione si pone l’obiettivo di verificare l’idoneità genitoriale attraverso alcuni criteri scientifici tra cui il Criterio della Riflessività: ovvero la capacità, in entrambi i genitori, di attivare riflessioni ed elaborazioni di significati relative agli stati mentali dei loro figli, alle loro esigenze evolutive e alle relazioni familiari che li coinvolgono, in rapporto ai reciproci pattern di attaccamento. (Camerini, Volpini, Lopez, 2011)

Lo studio della Funzione Riflessiva nei casi di separazione

La valutazione di questo criterio avviene attraverso lo studio della c.d. Funzione Riflessiva, concetto proposto da Fonagy, il quale fa riferimento a quell’insieme di processi psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare (Fonagy, Steele, Steele, Target, 1998), intesa anche come capacità di astrazione e di consapevolezza riflessiva, la quale si pone al centro di molte formulazioni psicoanalitiche e della psicologia cognitiva e dello sviluppo.

La Funzione Riflessiva è descritta da Fonagy come:

La funzione mentale che organizza il nostro e altrui comportamento in termini di costrutti dello stato mentale. […] Riguarda la conoscenza della natura di quelle esperienze che danno origine a certe credenze ed emozioni, dei possibili comportamenti che permettono di conoscere credenze e desideri, delle relazioni prevedibili tra credenze ed emozioni e dei sentimenti caratteristici di particolare fasi dello sviluppo o relazioni. (Fonagy, Target, 2001, p. 103)

La Funzione Riflessiva è dunque definibile come quella funzione mentale che organizza il nostro comportamento e di quello altrui. Si tratta di un’acquisizione evolutiva che permette al bambino di rispondere non solo al comportamento degli altri, ma anche alla sua concezione dei loro sentimenti, credenze e aspettative. Attribuendo stati mentali, il bambino rende in questo modo significativo e prevedibile il comportamento degli altri e sarà in grado di mettere in atto, in modo flessibile, il comportamento più appropriato, tale da poter rispondere in modo adattivo ai vari scambi interpersonali. Questo, grazie anche ai vari modelli rappresentazionali sé-altro, costruiti in base alle precedenti esperienze relazionali.

La Funzione Riflessiva e la solidità di questa capacità determina non solo la natura della realtà psichica dell’individuo, ma anche la qualità e la coerenza della parte riflessiva del Sé, che si ritiene ne costituisca il nucleo strutturale. Genitori che non riescono a riflettere in maniera comprensiva sull’esperienza interna dei figli e non sanno rispondere adeguatamente, negano al bambino una struttura psicologica centrale indispensabile per costruire un vitale senso di Sé. Per Fonagy, il fattore determinante è la capacita della madre di contenere mentalmente il bambino e di rispondergli (Ammaniti, Dazzi, 1999).

Secondo Fonagy (2001) infatti, il primo ambiente relazionale è fondamentale; egli sostiene che la sicurezza dell’attaccamento alla madre è un buon indice predittivo concorrente della capacità riflessiva del bambino.

La carenza della Funzione Riflessiva sembra essere quindi fortemente legata al fallimento della Funzione Riflessiva genitoriale e alla disfunzione del sistema relazionale familiare (Boldoni, 2008) e in questi casi al bambino non viene permesso di crearsi un Sé riflessivo e per questo potrebbe mettere in atto comportamenti di evitamento e aggressività (Concato, 2006).

Dalle suddette osservazioni è evidente quindi come lo sviluppo di una mente mentalizzante può risentire in modo negativo dell’influenza esercitata da un ambiente familiare ostile e/o carente.

In questo modo i soggetti traumatizzati dall’ambiente familiare sono vulnerabili sia in termini di effetti maladattivi a lungo termine, sia in termini di ridotta capacità di recupero di fronte a questi fatti. Tale atteggiamento “non mentalizzante”, messo in atto in queste circostanze, crea serie difficoltà al soggetto con il conseguente rischio di compromettere anche le relazioni interpersonali. Nello specifico, l’idea di trattare la Funzione Riflessiva in questa sede nasce dal fatto che essa spesso risulta essere fortemente compromessa nelle situazioni familiari altamente conflittuali, ad esempio nelle situazioni di separazione e divorzio.

In queste situazioni le competenze genitoriali subiscono un duro attacco creando conseguentemente delle ripercussioni sullo sviluppo del Sé del bambino se non affrontate in modo adeguato. Si tratta di casi caratterizzati da altissimi livelli di rabbia, tali da far mettere in atto tra i coniugi uno stile comunicativo con conseguenze prettamente distruttive che portano ad una chiusura emotiva della persona. Ciò amplifica le difficoltà nella coppia a mettere in atto strategie risolutive costruttive (Ardone, Chiarolanza, 2007).

La separazione, infatti, se non affrontata in modo adeguato, è un evento che mina fortemente la percezione della propria identità; per questo motivo, quindi, il conflitto tra le due parti, nei contesti giudiziari, tende a trasformarsi come momento di rivalsa verso l’ex coniuge, mettendo in secondo piano il benessere psicologico dei figli e affrontando purtroppo la separazione in un modo assolutamente non riflessivo.

Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)

Uno spettro si aggira per il mondo della psicoterapia, ed è lo spettro del trauma. Lo diciamo scherzosamente, ma anche seriamente. Il ruolo del trauma nella sofferenza emotiva ha una storia lunga e complessa. Questo concetto entra ed esce dai vari modelli teorici e terapeutici, ora rifiutato e definito ininfluente, ora posto al centro del processo patologico. E questo accade in tutti gli orientamenti. È accaduto nella psicoanalisi e ora sta accadendo nel cognitivismo clinico, in particolare italiano.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Il trauma: dal primo Freud alla teoria degli stati dissociativi

Tutti sappiamo che il primo modello freudiano era traumatico. Un’esperienza traumatica reale e sessuale era, per Freud, alla base della sofferenza delle isteriche che arrivavano nel suo studio viennese.

Poi Freud cambiò idea e tutto diventò pulsione e fantasia. La pulsione sessuale mal governata diventò la base della sofferenza mentale e i traumi non furono più reali ma frutto di fantasie, sostanzialmente falsi ricordi. Insomma il ricordo del trauma era la conseguenza e non più la causa di impulsi sessuali non controllati dalla coscienza.

Il trauma finì per rifugiarsi nella psicologia francese, quella che da Pierre Janet in poi ha generato la teoria degli stati dissociativi su base traumatica. È una storia interessante. La teoria della dissociazione fu messa da parte ma in qualche modo continuò a operare e a crescere grazie a autori sottovalutati, non solo Janet ma ancor prima il neurologo John Hughlings Jackson alla fine dell’ottocento, per proseguire con Henry Ey nel secolo scorso e più recentemente con Stephen Porges, Dan Siegel e, in Italia, Gianni Liotti e Benedetto Farina.

Tutti questi modelli sottolineano la complessità del sistema nervoso, la difficoltà che ha la mente nel compiere operazioni integrative di livello sempre più alto, dai semplici archi riflessi percettivi motori fino alle funzioni autoriflessive e metacognitive più sofisticate, in cui la mente rappresenta se stessa nell’atto stesso di pensare e di integrare le informazioni. Per tutti questi autori queste operazioni integrative complesse sono sempre ad alto rischio di rottura, di disintegrazione ed è questa disintegrazione che poi porta alla sofferenza emotiva.

E da cosa dipende questa rottura, questa disintegrazione? Dagli eventi traumatici, da quegli eventi in cui la persona affronta una situazione di pericolo estremo nella quale il suo senso di integrità, sicurezza e identità sono messe seriamente in discussione. Un evento del genere ferma il processo di crescita mentale e impedisce la possibilità che le funzioni integrative superiori maturino.

Questi modelli sono indubbiamente utili e spiegano gli stati di sofferenza che conseguono a situazioni estreme. Il caso migliore è il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

 

Trauma cumulativo, trauma piccolo… quando un modello specifico è posto a chiave di lettura universale

Il problema è, come al solito, quando un modello smette di limitarsi a spiegare solo alcuni disturbi e aspira a una spiegazione universale dell’intera sofferenza emotiva.

Ecco quindi che il significato di trauma tende a estendersi sempre di più. Si passa dal trauma incontrovertibile, quello in cui la stessa sopravvivenza fisica è stata messa in pericolo, al trauma cumulativo, il susseguirsi di eventi dolorosi, nessuno di loro in sé traumatico ma che lo diventano appunto per accumulo. Oppure il neglect, la trascuratezza, la freddezza e la deprivazione emotiva. Insomma, una serie di circostanze che vanno sotto il nome di “trauma piccolo”.

Non che non esistano anche queste condizioni di trauma piccolo e ripetuto, potenzialmente altrettanto devastanti di un unico episodio estremo. Solo che questo tipo di trauma è comunque meno facilmente definibile e distinguibile da una più comune esperienza di sofferenza umana ed esistenziale. Esplorare questo tipo di trauma minore è un ottimo obiettivo scientifico, ma può anche prestarsi a scorrettezze cliniche e anche pratiche.

 

Il ritorno del trauma nella riflessione clinica

Insomma, per varie ragioni stiamo assistendo a un ritorno del trauma nella riflessione clinica. L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress.

Esageriamo? Noi non crediamo. La credenza, che si sta diffondendo, che per il trauma la terapia cognitiva non sia più il trattamento di elezione è quanto meno prematura. L’esaustiva rassegna di Nathan e Gorman (“A Guide to Treatments that Work”) riporta che mentre nessun trattamento si è ancora affermato come chiaramente efficace, molti però hanno ottenuto delle conferme parziali e tutte da verificare. E tra questi c’è ancora una volta la terapia cognitivo-comportamentale, e anche la principale terapia focalizzata su trauma e dissociazione, ovvero l’EMDR, (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). L’EMDR, tuttavia, nell’aura del trauma non risulta essere superiore alla terapia cognitivo-comportamentale. E al di fuori del trauma è meno efficace.

 

Il successo delle terapie per il trauma

E allora perché questi crescente successo? A nostro parere per varie ragioni, alcune culturali e altre pratiche.

Le ragioni culturali risiedono nella visione naif che abbiamo tutti noi della psicologia. Al cinema e in letteratura trauma e psicologia vanno a braccetto. Anche nella nozione popolare molti sono convinti che la psicoanalisi sia ancora una teoria del trauma mentre l’enfasi sulle fantasie soggettive è sempre stata poco capita dal grande pubblico. Il termine “rimozione” tende a far pensare al profano che si tratti di un qualche trauma rimosso, mentre a essere precisi per Freud ciò che era rimosso era il desiderio sessuale.

La terapia cognitiva nasce lasciando poco spazio al trauma, forse davvero troppo poco. Questo difetto iniziale forse spiega anche la recente ondata di interesse per il trauma negli ambienti della terapia cognitiva. In Beck e in Ellis l’eccesso di disinteresse per la storia personale con o senza trauma del paziente ha finito per pesare. Prima in Italia con Guidano e Liotti e poi all’estero con Jeffrey Young si è cercato di rimediare a questa trascuratezza. Tuttavia, soprattutto in Liotti e in Young, ci sembra che l’interesse per la storia personale del paziente abbia generato uno scompenso nella direzione del trauma.

La storia personale è finita per diventare una storia per definizione traumatica. E la terapia è diventata sempre più emotiva, relazionale e difficile da definire e replicare in procedure protocollari.

 

EMDR e Sensorimotor: tecniche fisiche, corporee, riproducibili

Questa fumosità dell’intervento relazionale ed emotivo stava già per causare la crisi del modello dissociativo, quando sono emerse nuove terapie che sono riuscite a superare il vicolo cieco del relazionalismo, movimento in cui le procedure sono troppo poco riducili in protocolli. Le nuove terapie, come ad esempio la Sensorimotor Psychotherapy (Ogden & Fisher, 2015) o la Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Shapiro, 2001) hanno puntato su procedure di tipo fisico, corporeo ed esperienziale riproducibili.

In questo modo ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinate ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico. Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile. Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione.

Non è così per le tecniche senso-motorie o EMDR. Questa potrebbe essere la ragione definitiva che sta dando forza e popolarità al trauma come concetto centrale di un nuovo paesaggio psicopatologico. In fondo i protocolli cognitivi sono sempre stati difficili da eseguire, con la loro enfasi sull’intervento verbale. Parlando, è sempre facile perdersi dietro ai racconti del paziente.

Un intervento di tipo fisico, invece, lascia molto più controllo nelle mani del clinico. Un esercizio sensorimotor o EMDR non può essere modificato  a piacimento dal paziente o sottilmente boicottato menando il can per l’aia e tantomeno interrotto. Le interruzioni e le digressioni operate dal paziente che ci fanno uscire dai protocolli cognitivi spesso sono invece date per scontate, sottovalutate e temute. Abbiamo paura di rovinare la relazione terapeutica (sempre lei!) se le bloccassimo. Invece nel non verbale comandiamo noi terapisti con maggiore naturalezza.

Benvenuta quindi questa nuova attenzione alle procedure di tipo esperienziale e corporeo che ci portano queste nuove terapie per il trauma. Benvenute se ci insegnano più attenzione ai protocolli. Attenzione però a non perdere definitivamente un patrimonio di tecniche verbali non sempre ben padroneggiate e ora a rischio definitivo di deterioramento, fino all’oblio.

 


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017
  10. Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio – 24 Luglio 2017

Gravità dei disturbi di personalità e funzionamento metacognitivo e interpersonale – Riccione, 2017

Gravità dei disturbi di personalità e funzionamento metacognitivo e interpersonale

Biagiolini M., Cataldi S., Fabbri C., Miraglia Raineri A., Guerra R., Taddei S., La Mela C.

 

Il presente lavoro nasce con l’obiettivo di indagare la relazione fra gravità dei disturbi di personalità (DP) e funzionamento metacognitivo e interpersonale.

La gravità dei disturbi di personalità è stata concettualizzata da alcuni autori secondo un criterio quantitativo, ovvero in base al numero di tratti presenti (Dimaggio et al. 2013 ; Yang et al 2010), mentre da altri autori è stata definita in relazione alla co-occorrenza di tratti di personalità appartenenti a cluster diversi (Tyrer,2005).

Poiché, in letteratura, non vi sono chiare evidenze circa il rapporto tra gravità del disturbo di personalità (intesa come co-occorenza di tratti) e funzionamento metacognitivo, così come non è ancora stato messo in luce il rapporto esistente tra co-occorenza di tratti appartenenti a cluster diversi e funzionamento metacognitivo ed interpersonale, l’obiettivo della nostra ricerca è indagare la relazione tra gravità del disturbo di personalità definita dalla co-occorrenza di tratti appartenenti a cluster diversi e il funzionamento metacognitivo ed interpersonale.

La variabile gravità è stata operativizzata considerando il grado di co-occorrenza di tratti afferenti a cluster diversi. Il grado di co-occorrenza è stato distinto in tre livelli: “assente” quando erano presenti tratti afferenti ad un solo cluster; “moderata” quando erano presenti tratti afferenti a due cluster e “alta” quando erano presenti tratti afferenti a tre cluster.

Lo studio è stato condotto su un gruppo di 32 soggetti, afferenti al Centro Clinico della Scuola Cognitiva di Firenze (SCF), affetti da Disturbo di Personalità ai quali è stata somministrata una batteria di strumenti per la valutazione dei disturbi di personalità, del funzionamento metacognitivo ed interpersonale.

Dai risultati del presente lavoro emerge che i pazienti che presentano una più alta co-occorenza di tratti di personalità su cluster diversi, hanno un peggior funzionamento metacognitivo nella comprensione della mente altrui, presentando una maggiore difficoltà ad identificare le emozioni e i pensieri dell’altro. Questo studio esplorativo ha evidenziato, inoltre, un trend della relazione tra alto grado di co-occorrenza e peggior funzionamento interpersonale, pur non riportando con quest’ultimo, una relazione statisticamente significativa.

Da questo studio pilota emerge l’importanza di approfondire e valutare se il grado di co-occorrenza possa essere considerato un indicatore di gravità dei disturbi di personalità: esso potrebbe rappresentare un importante fattore prognostico per quanto riguarda la risposta al trattamento e il tasso di drop-out e permettere dunque al clinico, di elaborare piani di trattamento maggiormente specifici e adeguati, tenendo in considerazione il possibile scadimento delle funzioni meta cognitive e del funzionamento interpersonale all’aumentare della gravità del disturbo di personalità.

To do list: do a list! – Dare un ordine ai compiti da svolgere ci rende più produttivi?

Diversi studi hanno dimostrato che scrivere una lista delle cose da fare aumenta le probabilità di eseguirle, incidendo positivamente sulla produttività. Ma perché la lista si rivela uno strumento efficace?

 

Come ha notato Louise Chunn, la maggior parte di noi combatte ogni giorno una piccola battaglia con le innumerevoli cose da fare, lasciandosi spesso sopraffare dal solo pensiero di ciò che ci aspetta. Soluzione migliore sarebbe la cosiddetta “to do list”, una lista scritta delle cose da fare. Si tratta di un sistema che consente di organizzare il tempo a disposizione e che prevede diversi step funzionali: scrivere i compiti, eseguirli e, volta per volta, eliminarli dalla lista.

Un principale sostenitore di questa idea è lo psicologo David Cohen, il quale afferma in un suo articolo che la “to do list” lo ha aiutato a dare un senso al caos della vita quotidiana. Le ragioni per le quali la lista funzionerebbe sono tre: riduce l’ansia originata dal pensiero di ciò che bisogna fare, fornisce uno schema organizzativo da seguire e si configura come una prova inconfutabile di quanto realizzato quel giorno, mese o anno.

E’ stata la psicologa russa Bluma Zeigarnik ad interessarsi circa l’ossessione del cervello per le cose da fare. Dai suoi studi sull’argomento deriva il famoso “effetto Zeigarnik”, ovvero la tendenza a ricordare maggiormente le cose che sappiamo di dover fare rispetto a quelle che abbiamo già svolto. La psicologa ha notato la presenza di tale effetto in camerieri che ricordavano un ordine soltanto fin quando servivano i piatti, spazzandone via il ricordo subito dopo: il cervello era pronto per ricevere un altro ordine!

Per quanto riguarda le ricerche più recenti, uno studio di Baumeister e Masicampo, professori dell’università Wake Forest, ha dimostrato che elaborare un piano dei compiti da svolgere ci rende meno preoccupati rispetto a quando non abbiamo un programma definito da seguire. Infatti, i partecipanti all’esperimento riuscivano a svolgere adeguatamente la loro performance soltanto se avevano pianificato concretamente come portare a termine l’attività preparatoria precedente.

Il semplice fatto di scrivere una lista ci renderebbe più efficienti; tuttavia alcune persone ritengono che questo sistema ostacoli le proprie creatività e flessibilità. Ciò è in contrasto con quanto ritiene David Allen, esperto di management e famoso per il suo libro sulla produttività priva di stress. Non basta scarabocchiare parole-chiave su un post-it, c’è bisogno di informazioni dettagliate, chiare e precise. Oltre ai dettagli, è importante considerare il tempo necessario a svolgere ogni attività e quanto si è suscettibili alle distrazioni, in modo tale da ideare una lista realistica. Un errore commesso da molti è quello di evitare di svolgere i compiti più impegnativi e consistenti; errore evitabile suddividendo il compito in blocchi più piccoli. Per esempio, prefiggersi di scrivere in un giorno il primo capitolo di un romanzo piuttosto che il romanzo intero aumenta le probabilità di raggiungere l’obiettivo.

Nonostante l’importanza della “to do list” sostenuta fermamente da Cohen, l’autore non ha sempre tenuto fede al patto di pianificare ed eseguire ogni attività giorno per giorno. Il solo fatto di aver scritto 35 libri sui temi più svariati, però, ci suggerisce che scrivere liste dà sicuramente ottimi risultati!

 

 

 

La tomografia a emissione di positroni (PET) – Introduzione alla Psicologia

La tomografia a emissione di positroni, nota con l’acronimo PET, dall’inglese “Positron Emission Tomography“, è uno degli strumenti di neuroimaging più innovativi, e può essere applicato in diversi ambiti diagnostici e di ricerca. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La PET e SPECT (tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli, single photon emission computed tomography), sono largamente impiegate nella pratica clinica specialmente in neurologia, poiché consentono una dettagliata analisi a livello dell’attività metabolica del sistema nervoso centrale, e di conseguenza una accurata diagnosi precoce di molte importanti patologie.

A differenza della radiografia, della TAC e della risonanza magnetica strutturale, strumenti che restituiscono immagini prettamente anatomiche di alterazioni morfologiche sul distretto cellulare analizzato, la PET fornisce informazioni di tipo funzionale, ovvero determina quali zone del corpo metabolizzano maggiormente un tracciante, sostanza che permette di rilevare con maggiore precisione un’area che funziona di più rispetto ad altre. Per alcuni aspetti la PET è simile alla Risonanza Magnetica funzionale, ma le informazioni fornite sono più dettagliate e accurate.

 

Le procedure della PET

La procedura inizia con l’iniezione di un radiofarmaco al paziente a cui è chiesto di attendere il verificarsi dell’effetto dello stesso. Durante l’attesa, si raccomanda al paziente di stare fermo e di non parlare, per evitare fattori confondenti dovuti alla intercettazione del tracciante da parte degli organi corporei. Al paziente è chiesto, successivamente, di bere molta acqua e di urinare, al fine di eliminare il tracciante iniettato.

Successivamente, si procede al posizionamento del paziente sul lettino all’interno dello scanner PET. Da questo momento in poi la procedura è simile a quella di un esame TAC o RM: il paziente è sdraiato supino, con le braccia sopra il capo, per permettere una migliore visualizzazione di fegato e polmoni.

Nella PET, solitamente, l’acquisizione avviene dalla testa ai piedi, ma nella pratica clinica tutte queste modalità possono essere modificate a seconda del tipo di indagine da realizzare.

Le immagini acquisite sono successivamente ricostruite tramite un software che consente l’ottenimento della tridimensionalità.
Il tempo necessario all’espletamento delle acquisizioni delle immagini varia dai 20 ai 40 minuti.

 

Il Meccanismo di funzionamento della Pet

Durante la PET al paziente è somministrato per via endovenosa un radio-isotopo emettente positroni (radiofarmaci e/o traccianti, ovvero sostanze radioattive) che rilasciano, dunque, particelle chiamate positroni.

Lo scopo è indagare le caratteristiche funzionali degli organi e degli apparati nei quali il radiofarmaco si localizza. Quindi, dopo essere stato somministrato, il radiofarmaco si distribuisce nel corpo del paziente permettendo di ottenere delle immagini dettagliate della regione di interesse.
I radiofarmaci sono molecole che contengono al loro interno un atomo radioattivo e possono essere utilizzati sia a scopo diagnostico sia terapeutico. Un radiofarmaco è formato da due componenti: il carrier, ossia una molecola con funzioni biologiche di trasporto, ed il nuclide radioattivo: il primo consente di condurre il radionuclide fino all’organo o all’apparato di interesse, mentre il secondo permette la distribuzione nell’organismo del radiofarmaco.

Il radiofarmaco ha un’emivita breve e si lega chimicamente a una molecola che si mostra più attiva a livello metabolico (vettore). Uno dei radiofarmaci più utilizzato è il fluorodesossiglucosio (glucosio radioattivo o marcato), che, dopo essere stato introdotto nell’organismo, ha la caratteristica di essere assunto dalle cellule allo stesso modo del glucosio. La maggior parte dei processi biologici che richiedono energia utilizzano il glucosio e per questo tale sostanza è considerata un ottimo marcatore di tutti i processi cellulari in attiva proliferazione, in particolar modo nel cervello.

Dopo un tempo di attesa, durante il quale la molecola del fluorodesossiglucosio raggiunge una determinata concentrazione all’interno dei tessuti organici da analizzare, il soggetto viene posizionato nello scanner. Di conseguenza, la sostanza iniettata dopo pochi secondi decade, emettendo un positrone. Dopo un percorso, che può raggiungere al massimo pochi millimetri, il positrone si annichila con un elettrone, producendo una coppia di fotoni gamma  emessi in direzioni opposte tra loro (fotoni “back to back”).

Questi fotoni sono rilevati dalla macchina nel momento in cui raggiungono uno scintillatore, presente nel dispositivo di scansione della PET, dove creano un campo luminoso, rilevato attraverso dei tubi fotomoltiplicatori.
Il fulcro della PET è la rilevazione simultanea di fotoni in una determinata area ovvero quella più attiva a livello metabolico.
Lo scanner rileva attraverso delle immagini di sezioni, generalmente trasverse, separate fra loro e grandi 5 mm circa, l’area oggetto di studio. Si ottiene, in questo modo una mappa che rappresenta i tessuti in cui la molecola radioattiva si è maggiormente concentrata.

 

Limiti e rischi della PET

Il limite principale della PET è l’incapacità di intercettare aree in cui si ha una scarsa attività metabolica, quindi lesioni molto piccole non possono essere rilevate.
Un altro limite è la scarsa risoluzione spaziale, problema superato di recente con l’introduzione delle PET-CT, cioè l’associazione di alcune scansioni TAC all’esame PET, al fine di migliorare l’accuratezza delle immagini.
La PET, chiaramente, è un esame che espone a delle radiazioni ionizzanti, emesse dal tracciante e per questo, è un esame che dovrebbe essere eseguito solo in caso di un fondato sospetto clinico, visto l’elevato costo biologico, in termini di radiazioni ionizzanti. Inoltri, i costi del macchinario e dell’esame stesso sono molto elevati.

 

Applicazioni cliniche e di ricerca della PET

La PET consente di distinguere, in maniera estremamente precisa, la presenza di evidenti lesioni in tutto il corpo e in particolare nell’encefalo.
In ambito di patologia cerebrovascolare la PET consente di eseguire il monitoraggio in vivo dei fenomeni che dall’ischemia portano all’infarto cerebrale con necrosi tessutale, di individuare schemi dell’attività metabolica correlabili alla malattia di Alzheimer, alla depressione, alla malattia di Parkinson, e ai deficit cognitivi.

Inoltre, la PET è utilizzata anche nella ricerca poiché permette di ottenere misure fisiopatologiche in vivo. La possibilità di studiare aspetti funzionali quali il flusso ematico cerebrale, il consumo di ossigeno, ha consentito notevoli progressi nel campo delle neuroscienze.
Con l’impiego di traccianti a breve emivita è anche possibile studiare l’attivazione di specifiche aree cerebrali durante l’esecuzione di precisi compiti cognitivi. Si identifica, in questo modo, l’anatomia funzionale dei processi a carico di aree imputate al linguaggio, all’attenzione, alla visione, alla memoria e alla programmazione del movimento.

Tutto questo, consente di acquisire nuove conoscenze in termini operativi e funzionali rispetto alle modalità attuate dal cervello su come avviene il processamento e l’elaborazione dell’informazione in entrata e in uscita.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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