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Abilità di perspective taking nel bambino: il ruolo dei caregivers

Il ruolo dei caregivers/genitori assume particolare importanza nello sviluppo delle competenze interpersonali, poiché essi sono le prime figure di identificazione e i primi modelli di risposta empatica. Vi sono inevitabilmente differenze individuali nello sviluppo del perspective taking che dipendono dalle esperienze vissute e, in particolar modo, dalla relazione tra i genitori/caregivers e il bambino.

Chiara Rabacchi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Il perspective taking: definizione

Per perspective taking si intende l’abilità di comprendere pensieri, credenze, sentimenti e prospettive proprie e altrui (Waldinger, Toth e Gerber, 2001). Tale capacità implica l’essere in grado di distinguere cosa gli individui sanno circa loro stessi in una data situazione (come pensano, sentono e si comportano) e cosa sanno degli altri in quella stessa situazione (Ziv & Frye, 2003).

Adottare il punto di vista di un’altra persona richiede: la capacità di rappresentare se stesso come distinto dagli altri, lo sviluppo di una Teoria della Mente per rendersi conto che gli altri possiedono credenze e pensieri e il riconoscimento esplicito che gli stati mentali e le percezioni altrui potrebbero essere diversi dal proprio. Lo sviluppo di tali abilità di perspective taking appare critico per l’affioramento di competenze sociali positive quali l’empatia, la cooperazione e gli atti di altruismo (Epley & Caruso, 2008).

Verso la fine del primo anno di vita, il bambino inizia a capire che gli altri sono diversi da lui e a vedere i comportamenti altrui come intenzionali. Nel periodo prescolare comincia a comprendere che ogni persona ha le proprie emozioni, i propri desideri e le proprie credenze che influenzano il modo di ragionare e, di conseguenza, i comportamenti; ma il livello più elevato di abilità di perspective taking e le strategie di negoziazione interpersonale più sofisticate continuano a migliorare e a perfezionarsi durante l’adolescenza e nella prima età adulta (Selman, Beardslee, Schultz, Krupa, e Podorefsky, 1986; Albanese & Molina, 2008).

Il progredire verso sempre più sofisticate capacità di perspective taking favorisce, nei bambini, la capacità di riflettere su se stessi e sugli altri portandoli verso una maggiore empatia e contribuendo allo sviluppo di avanzate abilità comunicative e di problem-solving (Selman & Schultz, 1990; Mendelsohn & Straker, 1999).
Nel modello di Selman (1980) la competenza interpersonale è basata sulla capacità di distinguere e integrare il punto di vista proprio e quello altrui. Quando i bambini sviluppano alti livelli di perspective taking sono in grado di adottare strategie di negoziazione interpersonale per risolvere conflitti interpersonali.

Le componenti del perspective taking

Il perspective taking è un costrutto multidimensionale, in quanto comprende diverse componenti: emotiva, cognitiva e percettiva.
Il perspective taking emotivo consiste nel fare inferenze riguardo lo stato affettivo altrui mettendosi nei panni dell’altro e basando le proprie risposte su tali inferenze. Viene inteso come l’abilità di comprendere le emozioni dell’altro e fa riferimento all’essere competenti emotivamente (Denham, 2001; Albanese & Molina, 2008).

Il perspective taking cognitivo è definito come l’abilità di comprendere i pensieri e le credenze altrui (Hinnant & O’Brien, 2007). Questo tipo di perspective taking implica il mettersi nei panni dell’altro cercando di comprendere ciò che l’altra persona percepisce e conosce riguardo un determinato stimolo, incorporando il punto di vista dell’altro nella propria esperienza.
Mentre per perspective taking percettivo si intende la capacità di comprendere che le altre persone, occupando uno spazio diverso dal proprio, vedono le cose da un’altra prospettiva e hanno quindi punti di vista differenti (Flavell, 2004).

Importanza del perspective taking nelle situazioni sociali

Il perspective taking è fondamentale per lo sviluppo della capacità degli individui di interagire in modo significativo con altre persone, e per un funzionamento sociale adeguato.
Il prevedere come comportarsi nelle situazioni sociali è favorito da tale abilità che permette di considerare le azioni degli altri dal loro punto di vista (Tversky & Hard, 2009).

Facendo riferimento alla relazione tra il linguaggio, il perspective taking e la Teoria della Mente, alcuni autori hanno messo in evidenza il fatto che il linguaggio facilita lo sviluppo della capacità di simulare il punto di vista altrui, poiché la conversazione implica un costante scambio di differenti punti di vista e favorisce nell’individuo l’immaginazione dell’assunzione del punto di vista altrui (Harris, 1996; Farrant, Fletcher e Maybery , 2006). Una conversazione ben coordinata richiede infatti di fare predizioni riguardo a cosa l’altro potrà capire, e quando le predizioni sono errate subentrano le riparazioni e i chiarimenti. Inoltre, al fine di interagire in modo efficace con gli altri è necessario essere in grado di riconoscere, comprendere e rispondere in modo coerente alle emozioni altrui, e di regolare l’espressione delle proprie emozioni (Saarni, 2008).

Il ruolo dei caregivers

Il ruolo dei caregivers/genitori assume particolare importanza nello sviluppo delle competenze interpersonali, poiché essi sono le prime figure di identificazione e i primi modelli di risposta empatica. Vi sono inevitabilmente differenze individuali nello sviluppo del perspective taking che dipendono dalle esperienze vissute e, in particolar modo, dalla relazione tra i genitori/caregivers e il bambino.

I caregivers che riconoscono e considerano i sentimenti più intimi, le intenzioni e i pensieri in relazione al comportamento e che si basano su stili disciplinari basati sulla comunicazione e negoziazione piuttosto che punitivi, forniscono ai figli modelli sociali di perspective taking e favoriscono la loro capacità di comprensione interpersonale, mentre i genitori maltrattanti rappresentano una minaccia allo sviluppo di abilità di perspective taking e i loro figli tendono ad essere più a rischio di essere rifiutati dai pari (Bolger & Patterson, 2001). Il contesto familiare di molti bambini che vivono in condizioni di maltrattamento (ad esempio, condizioni di trascuratezza, di maltrattamento fisico) è caratterizzato principalmente dalla mancanza di elementi di supporto, affetto, modelli empatici e modalità adeguate di gestione delle interazioni che sono considerate variabili importanti nello sviluppo di un coerente senso di sé e della capacità di comprendere i sentimenti e le prospettive degli altri (Burack, Flanagan, Peled, Sutton, Zygmuntowicz e Manly, 2006).

Infatti, quei genitori che crescono i loro figli in un contesto non responsivo e violento non riescono a promuovere scambi comunicativi. In questi bambini risulta limitata l’opportunità di formare un attaccamento affettivo con altre figure di riferimento e con i pari, poiché i genitori maltrattanti tendono a isolare le loro famiglie dal resto della società, privando così i figli della possibilità di creare relazioni (Bolger & Patterson, 2001). Date le caratteristiche di tali contesti, i bambini che vi vivono tendono a formare relazioni insicure e conflittuali con i genitori e rischiano di sviluppare in ritardo, rispetto ai coetanei “normotipici”, un appropriato senso di differenziazione tra sé e l’altro (Cicchetti & Carlson, 1989; Waldinger, Toth e Gerber, 2001).

Alcuni studi hanno sottolineato l’importanza dell’uso frequente di termini riferiti a stati mentali che aiuterebbe i bambini a focalizzare l’attenzione su credenze, intenzioni ed emozioni degli altri (Ruffman, Slade e Crowe, 2002). Ovverosia, l’esposizione a termini quali “pensare”, “sentire”, “credere” contribuirebbe a favorire la comprensione del loro significato e di conseguenza l’accesso a concetti astratti e non osservabili riguardanti l’attività mentale delle persone.

L’uso frequente da parte del caregiver di verbi mentali nei dialoghi (ad esempio “Io credo che Anna sia andata alla festa”) porta il bambino a individuare due elementi differenti: uno legato allo stato mentale della persona e l’altro legato alla realtà che si riferisce a tale stato mentale. Perciò, l’esposizione a queste strutture grammaticali permetterebbe al bambino di capire che le persone possono avere concezioni diverse sulla realtà e che alcune di queste possono essere false.

Inoltre, Harris (2005) analizzando aspetti della conversazione adulto-bambino riguardanti l’ambito pragmatico, ha sottolineato come l’atto stesso di conversare sia di fondamentale importanza in quanto consente di comprendere che le altre persone possono avere desideri, credenze e intenzioni talvolta diverse dalle nostre.

Lo studio di Dyer, Shatz e Wellman (2000) ha messo in luce l’importanza dei libri per l’infanzia che rappresentano per i bambini un contesto ricco e significativo per lo sviluppo della comprensione della mente, in quanto contengono termini che fanno riferimento a uno stato mentale: emotivo (triste, felice, preoccupato, dispiaciuto); cognitivo (pensare, conoscere, ricordare); desiderio e volizione (volere, desiderare); obbligo o giudizio morale (dovere, sarebbe meglio).
È proprio la presentazione dei diversi punti di vista ad essere rilevante per la comprensione degli stati mentali e delle emozioni da parte dei bambini.

Conclusioni

Possedere abilità di perspective taking è fondamentale al fine di raggiungere un funzionamento sociale adeguato. Le esperienze vissute da ognuno nel proprio contesto familiare incidono sullo sviluppo di tali abilità. Risulta pertanto importante per i caregivers tenere quanto descritto in considerazione al fine di favorire e promuovere lo sviluppo di tali abilità cognitive, emotive e percettive nei bambini. Nonostante le difficoltà che possono presentare i bambini cresciuti in contesti caratterizzati da disagio psico-sociale, è comunque importante sottolineare che un training appropriato e valutato in base alla specifica situazione consente il verificarsi di miglioramenti e permette di sviluppare quelle capacità che risultano carenti in questi bambini (Mori & Cigala, 2016).

Schofield e Beek (2005) sottolineano che la promozione delle abilità nei bambini di riflettere su se stessi e sugli altri è una dimensione chiave della genitorialità e prevede buoni progressi nel comportamento e nelle relazioni.

Il linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale nello sport

Dato che il nostro comportamento veicola molte informazioni sullo stato emotivo personale, e che esse vengono facilmente comprese dagli altri, è fondamentale, nel contesto sportivo, trarne un vantaggio competitivo. A tal proposito, comportamenti non verbali sottomessi risultano essere molto disfunzionali, poichè possono favorire un incremento della fiducia nell’avversario, con un conseguente aumento della pressione agonistica da parte di quest’ultimo.

 

I livelli della comunicazione

La comunicazione permette alle persone di trasmettere informazioni. Secondo Albert Mehrabian, che nel 1972 ha condotto una ricerca in proposito, essa si articola su tre diversi livelli:
– Verbale: le informazioni vengono trasmesse attraverso le parole. Essa costituisce il 7% della comunicazione.
– Paraverbale: si riferisce agli aspetti legati al tono, ritmo e al volume della voce. Essa costituisce il 38% della comunicazione.
Non verbale: si riferisce ai movimenti non verbali come espressioni del volto, postura, la gestualità ecc.. Essa costituisce il 55% della comunicazione.

Questa ricerca ha messo in evidenza l’importanza della comunicazione non verbale, tale per cui i nostri comportamenti forniscono, senza l’ausilio delle parole, molte informazioni circa il nostro stato interiore.

La comunicazione non verbale assume un valore, forse, ancora più importante in ambito sportivo; dunque è importante essere consapevoli del messaggio che si sta veicolando.

La ricerca

Philip Furley e Geoffrey Schweizer hanno condotto uno studio in cui ai partecipanti, bambini (4-8 anni), pre-adolescenti (9-12 anni) e adulti, sono stati mostrati dei video relativi a competizioni sportive di tennis da tavolo. Questi ultimi erano muti e il risultato delle gare era oscurato. Il compito dei partecipanti alla ricerca era quello di indicare chi, secondo loro, era in svantaggio e di quanto (molto o poco). I risultati della ricerca mostrarono alti livelli di precisione sia nei bambini che nei pre-adolescenti. I giudizi erano ancora più accurati negli adulti. Tale risultato è comprensibile alla luce di una maggiore maturazione che avviene in adolescenza.

Successivamente, nelle stesse condizioni dello studio precedente, i ricercatori hanno mostrato ai partecipanti alcuni video relativi a competizioni di pallamano. Questi ultimi hanno confrontato i giudizi di due diversi gruppi: esperti di pallamano, e non esperti. I ricercatori hanno rilevato che entrambi i gruppi mostravano un alto grado di accuratezza, riuscendo a precisare quale squadra fosse in svantaggio e di quanto, a prescindere dalle conoscenze possedute su tale sport.

Dato che il nostro comportamento veicola molte informazioni sullo stato emotivo personale, e che esse vengono facilmente comprese dagli altri, è fondamentale, nel contesto sportivo, trarne un vantaggio competitivo. A tal proposito, comportamenti non verbali sottomessi risultano essere molto disfunzionali, poichè possono favorire un incremento della fiducia nell’avversario, con un conseguente aumento della pressione agonistica da parte di quest’ultimo.

Il linguaggio del corpo che comunica le emozioni

Ulteriori ricerche hanno dimostrato come vi sia un’influenza bidirezionale tra corpo e mente. In particolare, l’assunzione di determinate posture, espressioni, è in grado di modificare l’umore, rendendolo più positivo o più negativo. Quando le persone sono tristi, o più generalmente hanno un umore negativo, tendono ad assumere posture caratterizzate da spalle curve e chiuse, testa e sguardo verso il basso ed espressioni facciali sottomesse. Al contrario, persone con un umore più positivo tendono ad assumere posture caratterizzate da spalle alte e aperte, testa e sguardo verso l’alto ed espressioni facciali di sicurezza e determinazione.

Un importante studio sulle espressioni facciali è stato svolto da Strack, Martin e Stepper. In questa ricerca il compito dei partecipanti era quello di esprimere il loro parere sull’umorismo di una serie di vignette. Mentre a un gruppo di partecipanti è stato chiesto di svolgere il compito con una penna tra i denti, all’altro gruppo è stato chiesto di svolgerlo con una penna tra le labbra. I ricercatori hanno riportato che i partecipanti che tenevano la penna tra i denti giudicavano le vignette come più divertenti rispetto ai partecipanti che tenevano la penna tra le labbra. Questi risultati portavano i ricercatori a sviluppare l’ipotesi del feedback facciale. In questo caso, le persone con la penna tra i denti sembravano sorridere; al contrario, i partecipanti con la penna tra le labbra sembravano accigliati.

I risultati di questo studio dimostrano, quindi, come non siano solo le emozioni a determinare il linguaggio non verbale, ma quest’ ultimo, a sua volta, sia in grado di influenzare positivamente o negativamente le emozioni della persona.

Suggerimenti:
1. Se durante una gara il risultato non è a vostro favore, è importante riuscire a mascherare il linguaggio del corpo sottomesso, affinché non sia percepibile all’avversario.
2. Non solo durante, ma anche prima della partita è importante assumere una postura di dominanza. Quest’ultima avrà un effetto positivo, non solo a livello mentale, ma avrà anche un importante effetto sull’avversario.

Il ruolo dell’aspettativa terapeutica dei pazienti nei percorsi di cura

L’ aspettativa terapeutica può essere intesa come ciò che il paziente pensa possa accadere a se stesso dopo un ciclo di terapie. Laddove tale aspettativa è positiva, aumenta le probabilità che il soggetto abbia beneficio dal trattamento intrapreso. 

 

L’ aspettativa terapeutica gioca un ruolo importante sia nell’ambito della salute fisica che in quello della salute mentale. L’attesa terapeutica individuale ipoteca i percorsi di cura in molte patologie.

L’aspettativa può essere intesa come una serie di pensieri orientati al futuro, che hanno come nucleo centrale l’accadimento o il non accadimento di un evento specifico o di un’esperienza. Frequentemente, l’ aspettativa terapeutica è collegata alla cognizione che la persona possiede relativa alla malattia di cui soffre. L’ aspettativa terapeutica può avere una valenza positiva o negativa. Laddove è positiva, aumenta le probabilità che il soggetto abbia beneficio da un trattamento intrapreso. Cosa che non succede nel momento in cui il paziente ha un’attesa negativa. In questo caso, si verifica più facilmente che la persona non abbia nessun giovamento dalla terapia e sovente sperimenta gli effetti avversi della cura.

Keywords: aspettativa terapeutica, pazienti, esiti terapeutici.

 

L’ aspettativa terapeutica dei pazienti e gli effetti sul percorso di cura

L’aspettativa dei pazienti nei confronti dei risultati delle prassi terapeutiche è stata oggetto di numerose ricerche negli ultimi anni. Di fatto, l’ aspettativa terapeutica gioca un ruolo importante sia nell’ambito della salute fisica che in quello della salute mentale. L’attesa terapeutica individuale ipoteca i percorsi di cura in molte patologie. A questo riguardo si sono trovate molte correlazioni fra aspettativa e risultati terapeutici in pazienti affetti da malattie cardiache (Habibovic e al., 2014), da ictus (Jones e Riazi, 2011), da cancro (Nestoriuc e al., 2016), da malattie muscoloscheletriche (van den Akker-Scheck e al., 2007), da lesioni dopo incidenti stradali (Murgatroyd e al., 2016) e da obesità (Crane e al., 2016).

I pazienti, che hanno delle aspettative ben delineate, mostrano frequentemente di avere giovamento dai trattamenti medici in numerose patologie (Laferton e al., 2017).

Relativamente al concetto di aspettativa, esso può essere inteso come una serie di pensieri orientati al futuro, che hanno come nucleo centrale l’accadimento o il non accadimento di un evento specifico o di un’esperienza. In altre parole, con il termine di aspettativa, nell’ambito della salute, si può comprendere ciò che il paziente pensa possa accadere a se stesso dopo un ciclo di terapie.

Secondo le teorie dell’apprendimento sociale (Bandura, 1997), l’ attesa terapeutica può avere due morfologie, ovvero essere orientata verso l’esterno, come quella provata da un paziente verso una terapia proposta da un medico; oppure orientata verso l’interno. In questo caso, l’ aspettativa terapeutica è fondata sulla percezione dell’autoefficacia da parte dell’individuo. In pratica, l’aspettativa verso un percorso terapeutico è basata sull’aspetto volitivo, ossia quanto il soggetto è in grado di portare a termine positivamente delle terapie intraprese o dei cambiamenti suggeriti nello stile di vita.

Frequentemente, l’ aspettativa terapeutica è collegata alla cognizione che la persona possiede relativa alla malattia di cui soffre. La percezione della patologia dipende da una serie di costrutti che il paziente struttura su di essa, ovvero che cosa l’ha causata, la sua durata, le conseguenze sulle condizioni di vita, la sintomatologia attribuibile al quadro clinico, come la malattia può essere curata attraverso i comportamenti del paziente stesso o dai trattamenti medici (Laferton e al., 2017). Oltre a questi fattori, sull’ aspettativa terapeutica intervengono altre variabili, come, ad esempio, la modalità di somministrazione del farmaco. A questo riguardo, un individuo si aspetta che un analgesico sia più efficace quando è somministrato per via intramuscolare piuttosto che quando viene assunto per via orale (de Craen e al., 2000). Altra caratteristica dell’ aspettativa terapeutica è rappresentata dalla sua forza. In altri termini, più essa è forte e più può influenzare positivamente o negativamente i reali risultati di cura (Laferton e al., 2017).

L’ aspettativa terapeutica può avere una valenza positiva o negativa. Laddove è positiva, aumenta le probabilità che il soggetto abbia beneficio da un trattamento intrapreso. Cosa che non succede nel momento in cui il paziente ha un’attesa negativa. In questo caso, si verifica più facilmente che la persona non abbia nessun giovamento dalla terapia e sovente sperimenta gli effetti avversi della cura (Colloca e Finnis, 2010).

Un sistema di emergenza inconscio: attivazione dell’amigdala per stimoli non coscientemente percepiti

Non sempre riusciamo ad avere il pieno controllo a livello percettivo delle nostre emozioni, come nel caso della paura: Joseph LeDoux scoprì che l’ amigdala aveva il ruolo fondamentale di sistema di allarme del cervello per far fronte all’emergenza. 

 

La percezione cosciente delle emozioni è una delle principali caratteristiche che contraddistingue l’essere umano dall’animale. Mentre gli animali provano le emozioni in modo più istintivo, l’uomo ha sviluppato dei circuiti neuronali che permettono di riconoscere le emozioni consapevolmente; questo meccanismo è funzionale a livello biologico perché consente di effettuare un piano d’azione in base alla situazione posta davanti.

Tuttavia non sempre riusciamo ad avere il pieno controllo a livello percettivo delle nostre emozioni. Vi è mai capitato di provare paura scambiando, in un primo momento, un cordone, un cavo o una fune per un serpente? Perché questo accade?

Nonostante ci manchino le informazioni necessarie per riconoscere visivamente uno stimolo, il nostro corpo agisce prima della nostra mente. Questi automatismi sono fondamentali per la sopravvivenza dell’essere umano, perché permettono di reagire velocemente a una situazione potenzialmente minacciosa.

Il ruolo dell’ amigdala nella paura

L’ amigdala è un raggruppamento di diversi nuclei localizzati in profondità dei lobi temporali degli emisferi cerebrali e connessi reciprocamente con l’ipotalamo, l’ippocampo e il talamo. E’ la regione cerebrale più strettamente connessa alle emozioni, essa è formata da nuclei del complesso basolaterale, un nucleo centrale e la stria terminale.

Il principale destinatario delle afferenze sensoriali che raggiungono l’ amigdala è il complesso basolaterale (nuclei basolaterali); questi ricevono informazioni che provengono da due fonti: i nuclei sensoriali del talamo e le aree sensoriali primarie della corteccia cerebrale.

Dal complesso basolaterale le informazioni vengono trasmesse al nucleo centrale, che è la principale zona efferente dell’ amigdala. Il nucleo centrale proietta all’ipotalamo laterale e alle regioni del tronco dell’encefalo che regolano le risposte del sistema nervoso autonomo agli stimoli con valenza emozionale. Tramite queste connessioni la stimolazione elettrica del nucleo centrale provoca aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della frequenza del respiro, al pari di quanto si osserva nel condizionamento della paura.

La paura è uno stato emozionale che si attiva per motivare l’organismo a fronteggiare eventi che lo minacciano (Öhman, 2000).

Il neurobiologo Joseph LeDoux, studiando l’anatomia cerebrale attraverso tecniche di neuro-formazione di immagini, scoprì che l’ amigdala aveva il ruolo fondamentale di sistema di allarme del cervello in grado di padroneggiare, nell’arco di una frazione di secondo, il lobo prefrontale (in cui ha sede la razionalità) per far fronte all’emergenza. Secondo la teoria di LeDoux, i nostri organi di senso (vista, udito, olfatto..) ricevono dall’ambiente informazioni che segnalano la presenza o la possibilità di un pericolo: ad esempio un serpente o qualcosa che gli assomiglia. Tali informazioni raggiungono l’ amigdala attraverso percorsi diretti provenienti dal talamo (strada bassa) e da percorsi che vanno dal talamo alla corteccia e dalla corteccia all’ amigdala (strada alta). La via talamo-amigdala è più breve e il sistema di trasmissione è più veloce. La strada bassa, non sfruttando l’elaborazione corticale fornisce all’ amigdala solo una rappresentazione rozza ed imprecisa dello stimolo, innescando così una risposta meramente emotiva e consentendo al cervello di cominciare a rispondere al possibile pericolo.

Questo percorso consente di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di sapere esattamente cosa siano. Come ricorda LeDoux, da un punto di vista della sopravvivenza, è meglio reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero, che non reagirvi affatto.

Tuttavia LeDoux ci avvisa che questo secondo circuito non funziona sempre correttamente: considerato che le connessioni neurali di ritorno, dalla corteccia all’ amigdala, sono molto meno sviluppate di quelle di andata, dall’ amigdala alla corteccia, è maggiore l’influenza dell’ amigdala sulla corteccia che non il contrario e, pertanto, spesso stentiamo a controllare razionalmente le nostre emozioni. L’interpretazione emotiva precede quella cognitiva-razionale: di fronte a una minaccia quindi, il primo ad avere paura è sempre il nostro corpo, non la nostra mente.

Per capire le dinamiche dell’attivazione della paura nel cervello umano, Carlsson et al. (2004)  hanno reclutato partecipanti che avevano paura di serpenti o ragni (non entrambi), per uno studio con la PET attraverso stimoli nascosti.

Durante le scansioni, i soggetti venivano esposti a ripetute presentazioni di immagini di ragni, serpenti o funghi che erano efficacemente o non efficacemente mascherati. In confronto a una condizione di controllo, dove i funghi erano efficacemente mascherati, l’ amigdala sinistra si attivava sia per stimoli spaventosi (es. serpenti), sia per stimoli paura– rilevanti ma non paurosi specifici (es. ragni). Questo implica che l’ amigdala inizialmente risponde all’impulso di potenziale minaccia invece che allo stimolo pauroso specificatamente definito.

Se il tempo di esposizione veniva prolungato, a tal punto da permettere una percezione conscia dello stimolo, nella condizione non mascherata si osservava una forte attivazione bilaterale dell’ amigdala allo stimolo spaventoso (serpente), mentre nella condizione di esposizione a uno stimolo paura-rilevante non spaventoso (chi ha paura di serpenti ed è esposto a ragni) non si notava alcuna attivazione significativa.

In supporto all’ipotesi di LeDoux (1996,2000), Morris et al. (1999) hanno esaminato un paziente con lesioni alla corteccia visiva primaria, per testare se l’ amigdala può essere attivata indipendentemente dalla corteccia, come postulato nel concetto di “via bassa” proposto da LeDoux.

Il paziente esaminato da Morris et al. (2001) non riportava sensazioni visive per oggetti presentati nell’area danneggiata. Tuttavia mostrava un’affidabile attivazione nell’ amigdala destra a facce spaventose presentate nel campo corticale cieco, un’analisi suggeriva che questa attivazione inconscia era mediata dal collicolo superiore e dal pulvinar. La visione cieca (“blindsight”) può essere mediata da una percorso visivo parallelo attraverso il collicolo superiore e il pulvinar, nucleo del talamo (Weiskrantz, 1986).

Una lesione che interessi a tutto spessore l’area visiva primaria (o V1 o area 17) può causare il prodursi, nella nostra specie e negli altri primati, di una zona di cecità assoluta detta scotoma (dal greco σχότος = oscurità). Essa può essere circoscritta come una macula del campo visivo, ignorata dal soggetto, o interessare tutta l’area striata di un emisfero, dando luogo ad emianopsia, oppure estendersi alla corteccia occipitale di entrambi gli emisferi, determinando la completa perdita della visione.

E’ possibile che la cecità causata da queste lesioni, pur essendo assoluta per la coscienza della persona colpita, consenta prestazioni superiori in compiti che richiedono il controllo visivo rispetto a quelle che avrebbe un non vedente per altre cause.

Nonostante queste lesioni, pazienti con “blindsight” presentano abilità residue nel rilevare stimoli visivi, suggerendo che l’informazione può essere ancora processata, anche se in maniera non cosciente. Morris et al. (2001) hanno usato la risonanza magnetica funzionale per dimostrare l’ attivazione aumentata dell’ amigdala in risposta a volti emozionalmente espressivi in un paziente con visione cieca.

Per concludere, grazie alle evidenze riportate dagli esperimenti in letteratura, si fa sempre più concreta l’ipotesi di un’ amigdala che si attiva per stimoli emozionalmente salienti al di fuori dell’attenzione cosciente. Conferme importanti provengono non solo da studi di laboratorio ma anche da pazienti con lesioni all’ amigdala e soprattutto  da pazienti con “blindsight”, che hanno dimostrato, nonostante una lesione alla corteccia visiva, di rispondere fisiologicamente a stimoli minacciosi presentati nell’emicampo visivo cieco. E’ rassicurante pensare che l’uomo, sebbene sia l’essere cosciente e pensante per antonomasia, conservi dei meccanismi istintivi primitivi per far fronte a delle minacce. Anche se molto spesso è possibile che lo stimolo non sia realmente pericoloso, non dobbiamo smettere di ascoltare il nostro corpo per non rischiare di perdere questi automatismi.

Perché come afferma il neuroscienziato LeDoux: “meglio trattare un bastone come un serpente, che accorgersi troppo tardi che il bastone in realtà è un serpente”.

Ricerca sull’uso di videogiochi violenti e adattamento psicosociale in età evolutiva

Una fruizione elevata di videogames violenti rappresenta un fattore di rischio che non deve essere sottovalutato a livello educativo e che richiede il coinvolgimento dei giovani in un percorso di responsabilizzazione sull’uso dei videogiochi, onde evitare di accentuare quelle aree risultate significative (problemi di pensiero e socializzazione, area del ritiro, comportamenti aggressivi e delinquenziali) che possono compromettere lo sviluppo psico-fisico di ogni ragazzo.

Davide Clerici, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

I dati relativi all’utilizzo dei videogames

Il videogioco è in breve tempo diventato una delle attività ricreative preferite dai bambini e dai ragazzi italiani di diverse generazioni, al punto che l’opinione pubblica spesso si è chiesta quali siano gli effetti educativi e, soprattutto, quelli diseducativi di un passatempo elettronico, specialmente se i contenuti sono a carattere violento.

Preoccupazioni sull’esposizione al mezzo videoludico sono maggiormente giustificate quando l’utilizzo di queste tecnologie si protrae fino a creare una sorta di dipendenza, dove il soggetto pone in atto comportamenti d’isolamento, passività fisica e psichica, estraniamento e perdita di contatto con la realtà.

Per altri aspetti, tuttavia, i videogiochi vengono considerati come un’occasione di esercizio e sviluppo di alcune capacità di pensiero, quali il problem solving, la coordinazione intermodale e sinestetica, la flessibilità cognitiva. Sono, in sintesi, amplificatori delle capacità motorie, percettive e cognitive, nonché occasioni per incrementare le proprie conoscenze “scolastiche”.

Secondo dati ISTAT (2005), ISFE (2010) e ricerche AESVI (2005,2012), la percentuale dei ragazzi videogiocatori è in costante aumento, con una crescita esponenziale anche per quanto riguarda l’avvicinamento del mondo femminile ad un campo che è per la maggior parte maschile, arrivando negli ultimi anni a raggiungere quasi la medesima percentuale.

Ricerche Eurispes (2013) evidenziano come siano aumentati i giochi da appartamento, mentre siano diminuite le occasioni di socializzazione spontanea, specialmente nella preadolescenza.

Gli effetti dell’esposizione a videogames violenti sull’adattamento psicosociale

Appare quindi interessante studiare le dinamiche che portano all’utilizzo dei videogiochi, verificando nel contempo se sia possibile identificare le dinamiche evolutive che contraddistinguono in modo particolare gli utilizzatori abituali di videogames violenti rispetto a quelli di videogiochi non violenti, e determinare quali aspetti vengono inficiati in caso di soggetti con dipendenza a livello tresholder o patologica.

La letteratura internazionale ha studiato l’effetto dell’esposizione ai videogiochi dai contenuti violenti, rilevando come i ragazzi che utilizzano maggiormente questa tipologia di videogiochi tendano a mettere in atto maggiori comportamenti aggressivi (Anderson, Gentile, Buckley, 2007). I dati di ricerca sembrerebbero configurare una correlazione diretta tra uso di videogames e comportamenti aggressivi, tuttavia vi è la necessità di considerare in modo più approfondito le interazioni tra l’utilizzo di videogames e gli altri aspetti di carattere ambientale/sociale.

Anderson e Bushman (2001), hanno potuto confermare l’ipotesi di una relazione positiva tra l’esposizione a videogames violenti e alti livelli di aggressività nei bambini e negli adulti giovani, nei maschi e nelle femmine. Interessante è il Modello Generale dell’aggressività, G.A.M. (Anderson & Bushman, 2002 ; Anderson & Carnagey, 2004) basato su parecchi precedenti modelli dell’aggressività umana (ad es. Anderson, Anderson, & Deuser, 1996; Anderson, Deuser, & De Neve, 1995; Bandura,1971,1973; Berkowitz,1993; Crick & Dodge,1994; Geen, 1990; Huesmann,1986; Lindsay & Anderson, 2000; Zillmann, 1983; Anderson, Gentile, Buckley 2007). Essi propongono un utile schema per comprendere i processi che causano l’aumento dell’aggressività in seguito all’esposizione a media violenti. Si cerca quindi di dare una risposta alla domanda: perché l’esposizione ai videogames violenti aumenta l’aggressività? Gli autori danno molta importanza alle strutture di conoscenza collegate all’aggressività (ad es. script, schemi) che vengono prima apprese e poi applicate nella produzione di un comportamento aggressivo. Le variabili input situazionali (ad es. una recente esposizione a videogames violenti) influenzano il comportamento aggressivo attraverso il loro impatto sull’attuale stato interno dell’individuo, rappresentato da variabili cognitive, affettive e di arousal (attivazione fisiologica).

Questo impatto si manifesta mostrando che i videogames violenti aumentano l’aggressività insegnando agli osservatori come aggredire, innescando cognizioni aggressive (inclusi script aggressivi precedentemente appresi e schemi percettivi aggressivi), aumentando l’arousal, o creando uno stato affettivo aggressivo.

Anche gli effetti a lungo termine coinvolgono i processi di apprendimento. Dall’infanzia si sviluppano vari tipi di strutture di conoscenza funzionali alla percezione, interpretazione, valutazione e risposta agli eventi nell’ambiente fisico e sociale. Il loro sviluppo è promosso dalle osservazioni di tutti i giorni e dalle interazioni con le altre persone, reali (come in famiglia) e immaginate (come nei media). Ogni episodio di violenza è essenzialmente un’occasione in più di apprendimento. Mentre si formano, queste strutture di conoscenza diventano più complesse, differenziate e difficili da cambiare.

Secondo la teoria GAM, gli effetti a lungo termine dell’esposizione ai videogames violenti derivano soprattutto dallo sviluppo e dalla eventuale automatizzazione delle strutture di conoscenza aggressive come gli schemi percettivi, aspettative sociali e script comportamentali.

Tutte queste variabili condizionano lo stato psichico della persona, facendone variare le cognizioni, affetti e arousal, finendo per influenzarsi a vicenda e interagendo con i processi decisionali che determinano diverse tipologie di outcomes, azioni riflessive o azioni impulsive (Anderson, Bushman, 2002). Queste azioni sono il risultato di processi decisionali condizionati da processi di appraisal e reappraisal e determinano le caratteristiche dell’incontro con l’altro: l’azione finale diverrà parte dell’input per un episodio successivo.

Una ricerca sull’utilizzo dei videogames violenti in un campione di pre-adolescenti

La ricerca effettuata da Clerici (2013) vuole approfondire le modalità abituali di utilizzo del videogioco in un campione normativo di pre-adolescenti delle scuole primarie di secondo grado per vagliare la conoscenza di alcune variabili connesse alla pratica del videogiocare. Il campione effettivo sul quale si basa la ricerca è composto da 100 soggetti frequentanti varie scuole medie inferiori di Milano, di età compresa tra i 10 e i 15 anni (età media=12,34; DS=1.08). Nel 44% dei casi i partecipanti sono di sesso femminile (N=44), e nel rimanente 56% (N=56) sono di sesso maschile. L’età media per le femmine si assesta a 12,3 (DS=0,97); mentre per i maschi è pari a 12,2 (DS=1,155).

Sono state formulate 5 ipotesi differenti sulla base delle letteratura e articoli scientifici (Anderson, Gentile, Buckely, 2007, Chambers Ascione 1986, Anderson e Ford 1987 ; Parker e Asher, 1987 ; Shuttle 1988, Cooper Mackie 1986, Irwin Gross 1995):
1) Si ipotizza che i bambini che, dalla scheda di rivelazione sui videogiochi, risultano essere utilizzatori di videogames violenti e/o utilizzatori sopra la media in termini di tempo mostrano una qualità delle relazioni interpersonali (TEST TRI) più negativa, estesa ad ogni ambito di vita, rispetto ai bambini che non fanno lo stesso utilizzo dei videogiochi.
2) Si ipotizza che i bambini utilizzatori di videogiochi violenti e sopra la media ottengano punteggi più elevati al test AFV di aggressività fisica e verbale rispetto ai bambini che non li utilizzano.
3) Si ipotizza inoltre che i bambini facciano registrare un punteggio più elevato nella scala CBCL (Child Behavior Checklist), sia per la scala di comportamento aggressivo/verbale, che in quella di esternalizzazione.
4) Si vuole verificare se anche nel campione preso in esame, il fattore tempo causi significatività importanti tra i vari ambiti indagati. Si indagano specialmente le aree di ritiro e attaccamento.
5) I bambini che utilizzano Videogiochi violenti e con tempo superiore alla media, registrano strategie di coping caratterizzate da evitamento e distrazione.

In base ai dati raccolti mediante la scheda di rilevazione sulle consuetudini d’uso dei videogiochi, i partecipanti sono stati divisi in “utilizzatori di videogiochi violenti” (N= 43) e “Utilizzatori di videogiochi non violenti (N= 53). Per quanto riguarda la media oraria, si è preso come cut-off l’ora di gioco (N=24 per chi gioca meno di un’ora; N=76 per chi supera l’ora di gioco). Per quanto riguarda la dipendenza, si è tenuto conto delle diverse fasce riscontrate col VGA.

1) Per quanto riguarda il solo contenuto violento, gli utilizzatori di videogiochi violenti mostrano di avere, rispetto ai non utilizzatori di videogames violenti, reazioni più negative in tutte le sottoscale, tranne che con i coetanei maschili, ma non vi è presente nessun livello di significatività. L’ipotesi è quindi solo parzialmente confermata; infatti, seppur le medie dei “videogiocatori violenti” siano più basse dei coetanei che non usufruiscono di quel determinato genere, non fa registrare livelli significativi. Nelle stesse analisi per differenza di genere, l’unico livello di significatività emerso è quello riguardante il rapporto con le femmine. È interessante notare come l’unica sottoscala nella quale i giocatori violenti abbiano fatto registrare un punteggio maggiore, sia quella del rapporto con i maschi. Questo si può spiegare per come la pre-adolescenza viene vista dalla maggior parte dei ragazzi, dove è il gruppo dei pari a fornire il gruppo di maggior sostegno e informazioni per quanto riguarda lo sviluppo delle conoscenze del ragazzo e sono proprio i maschi ad usare maggiormente i videogames, specialmente quelli a carattere violento poiché più “divertenti” e “di moda” presso questa fascia di popolazione.
2) L’ipotesi due è ampiamente confermata dalla letteratura. Questi dati forniscono una conferma che l’utilizzo di videogames violenti sia effettivamente connesso a punteggi più elevati nella scala AFV di aggressività fisica e verbale.
3) L’ipotesi tre è confermata solo in parte. Infatti si nota come i videogiocatori di titoli violenti facciano registrare livelli più alti nelle sottoscale di comportamento delinquenziale, comportamento aggressivo ed esternalizzazione, con valore di significatività per quanto riguarda il comportamento aggressivo.
4) Collegandosi all’ipotesi precedente, bisogna sottolineare come vi sia una significatività per quanto riguarda le aree del ritiro e dei problemi di attaccamento; a questi due dati si possono aggiungere e correlare le significatività che emergono dalla dimensione temporale dell’utilizzo sui problemi di socializzazione e della relazione disfunzionale genitore-figlio. Questi elementi confermano anche le ipotesi che un attaccamento insicuro o relazioni disfunzionali all’interno della famiglia possano provocare un “ritiro” verso il mondo videoludico da parte dei ragazzi, vedendolo come una fonte sicura , in un rapporto bidirezionale.
A questo punto però, riguardo alla scala di ritiro e internalizzazione, bisogna fare ulteriori ipotesi. Infatti si possono analizzare sia sotto l’ottica della natura solitaria, improntata a creare una sorta di “amicizia elettronica” col medium che va a sostituirsi ai pari impedendo cosi lo sviluppo di abilità interpersonali funzionali, sia nell’ottica che oramai tutti i medium elettronici presentano una connessione internet per essere costantemente connessi alla propria rete di amici, reali o meno, sulla rete virtuale e intraprendere con essi varie attività.
5) L’ipotesi per la quale i bambini che prediligono l’uso di videogames violenti mettano in atto maggiori strategie di coping di evitamento e/o distrazione non è stata confermata.

Questi risultati forniscono una conferma che l’utilizzo di videogames violenti sia effettivamente connesso con un più alto punteggio di problemi di comportamento delinquenziale ed aggressività fisica e verbale, oltre che far registrare punteggi più elevati nella scala di esternalizzazione, così come emerso in letteratura. Inoltre, i dati evidenziano come un tempo di utilizzo dei videogames maggiore alla media sembra essere strettamente associato a problemi di violenza e aggressività e dipendenza, oltre che ad eventuali problemi sociali ed essere una causa di stress maggiore per i genitori.

Da questi dati emerge inoltre come anche altri aspetti dell’ambiente di vita dei bambini, quali la qualità della relazione con i genitori e l’insieme delle relazioni interpersonali, siano strettamente connessi con un uso preferenziale per quei videogames violenti. Le relazioni col nucleo famigliare sono viste in maniera disfunzionale dagli stessi genitori.

Alla luce di quanto detto finora, una fruizione elevata di videogames violenti rappresenta un fattore di rischio che non deve essere sottovalutato a livello educativo e che richiede il coinvolgimento dei giovani in un percorso di responsabilizzazione dell’uso sui videogiochi, onde evitare di accentuare quelle aree risultate significative (problemi di pensiero e socializzazione, area del ritiro, comportamenti aggressivi e delinquenziali) che possono compromettere lo sviluppo psico-fisico di ogni ragazzo. Bisognerebbe però coinvolgere gli stessi genitori, in quanto si è notato come proprio i problemi di attaccamento e la relazione disfunzionale genitori-figlio sia significativo di un aumento delle aree problematiche sopra citate.

Si consiglia quindi ai genitori di acquisire l’abitudine di vagliare attentamente i contenuti e le caratteristiche dei videogiochi acquistati per il figlio, grazie anche alle indicazioni fornite dal PEGI, senza cedere alle pressioni dei ragazzi che richiedono il videogioco più recente e diffuso tra i compagni, cercando, tra i tanti titoli offerti dal mercato, quei videogiochi capaci di sviluppare nel bambino varie abilità importanti per il suo sviluppo emotivo-affettivo ed evitare quelli nocivi. Dato che però il mondo giovanile, soprattutto quello dei pre-adolescenti, è fortemente discriminatorio, anche all’interno dello stesso gruppo, verso quei soggetti che non sono ritenuti “alla moda”, non è tanto utile e adattivo vietare il videogioco in sé, ma spiegare al ragazzo quello che accade all’interno del mondo virtuale, in un percorso di crescita e di separazione tra le due realtà presenti.

Di maggiore importanza, assume invece, il tempo di utilizzo dei videogames, che deve essere monitorato dai genitori e negoziato con i figli se la loro età lo permette. I videogames non devono costituire l’attività prevalente nella gestione del tempo libero di bambini e ragazzi ma un’esperienza circoscritta, i cui confini sono stabiliti. Se non si riesce ad ottenere ciò, si rischia di andare incontro ad una patologia di dipendenza non tanto verso il videogioco in sé, ma verso il medium videoludico, che può variare tra console, pc, tablet,…

La dipendenza videoludica non causa un aumento di aggressività (il titolo giocato può variare di giorno in giorno a seconda di variabili di gradimento personali e sociali), ma va ad inficiare aree della sfera famigliare; abbiamo, infatti, nelle scale compilate dai genitori, alti livelli di stress totale percepito, ma soprattutto vedono il proprio figlio come “bambino difficile”. Questo perché la pre-adolescenza è un periodo di completa transizione sia per i figli che per i genitori; si cambiano completamente le dinamiche relazioni all’interno della famiglia, con i figli portati maggiormente a confrontarsi col gruppo dei pari piuttosto che tra le mura domestiche. A questo dobbiamo aggiungere come una dipendenza verso il medium elettronico porta il ragazzo a passarvi la maggior parte del tempo, togliendo cosi spazio allo studio e andando ad influenzare la propria carriera scolastica. Questo fattore può essere altra fonte di stress all’interno delle mura domestiche, oltre che portare i ragazzi patologici a registrare maggiori livelli nelle aree d’internalizzazione e di ansia/depressione.

Il ruolo dei genitori risulta anche in quest’aera quindi molto importante, non tanto ponendo restrizioni drastiche al figlio, ma facendo con lui un percorso sull’utilizzo corretto dei media elettronici, attraverso negoziazioni sul tempo (dalla analisi i ragazzi considerati patologici attraverso il VGA passano davanti allo schermo un’ora in più rispetto al campione non patologico al giorno) e sulle attività da svolgere.

Questa dipendenza porta a modificare le abitudini reali, portando i ragazzi patologici ad usare la strategia di coping di richiesta d’aiuto più di tutte le altre, tralasciando quella attiva e di evitamento. La tecnica di richiesta d’aiuto è una delle più funzionali ed usata nel mondo virtuale, bisogna far sì che il ragazzo però non confonda, come già scritto in precedenza, le due realtà; riuscendo a trovare di volta in volta la strategia più adeguata.

Sorridere induce il rilascio di ormoni del buon umore e promuove le relazioni sociali

Un nuovo studio ha rivelato l’influenza che il sorriso ha sul cervello, aiutando a spiegare come anche la risata sociale giochi un ruolo importante nelle relazioni interpersonali.

 

Anche nei momenti più difficili, la risata ha il potere di tenere vicine le persone. Un nuovo studio ha rivelato  l’influenza che il sorriso ha sul cervello, aiutando a spiegare come anche una risata banale giochi un ruolo così importante nelle relazioni sociali.

Un gruppo di ricercatori dalla Finlandia e dal Regno Unito hanno scoperto che la risata sociale è un trigger per il rilascio di endorfine – spesso chiamate “ormoni del buon umore” – nelle regioni cerebrali responsabili di arousal e delle emozioni. Le endorfine sono peptidi che interagiscono con i recettori oppioidi nel cervello per aiutare ad alleviare il dolore e generare sensazioni di piacere.

Inoltre, lo studio ha rivelato che la maggior parte dei recettori oppioidi presenti nelle regioni cerebrali associati alle  emozioni, sono quelli maggiormente coinvolti nella risata sociale.

I nostri risultati evidenziano che il rilascio di endorfina indotto da risate sociali potrebbe avere un ruolo importante nella formazione, nel rafforzamento e nel mantenimento dei legami sociali tra gli esseri umani – afferma il co-autore dello studio, Prof. Lauri Nummenmaa, del Centro PET di Turku dell’Università di Turku in Finlandia.

I ricercatori hanno recentemente riportato i loro risultati nel The Journal of Neuroscience.

La risata sociale ha incrementato il rilascio di endorfine

l Prof. Nummenmaa e colleghi hanno selezionato 12 uomini sani per il loro studio. Ai partecipanti è stato iniettato  un composto radioattivo che aderiva ai recettori oppioidi nel cervello. Utilizzando la tomografia ad emissione di positroni (PET), i ricercatori sono stati quindi in grado di monitorare il rilascio di endorfine e di altri peptidi che si legano ai recettori degli oppioidi.

I partecipanti sono stati sottoposti a scansioni PET due volte. La prima scansione è stata condotta dopo che ciascun partecipante aveva trascorso 30 minuti da solo in una stanza; la seconda scansione dopo aver trascorso 30 minuti a guardare videoclip dei loro amici intimi.

I ricercatori hanno scoperto che la condizione di risata sociale ha portato ad un significativo aumento del rilascio di endorfina nel talamo, nel nucleo caudato e nelle regioni dell’insula anteriore, regioni cerebrali che svolgono un ruolo importante nell’arousal e nella sensibilizzazione emotiva.

Inoltre, il gruppo di ricercatori ha scoperto che i partecipanti con un maggior numero di recettori oppioidi nella corteccia del cingolo e in quella  orbitofrontale del cervello, mostrano una più alta probabilità di ridere in risposta ai video clip degli amici.

La corteccia cingolare è coinvolta nella trasformazione e formazione di emozioni, mentre la corteccia orbitofrontale è coinvolta in un certo numero di processi legati all’emozione.

Le endorfine potrebbero promuovere sentimenti gruppali

I ricercatori affermano che i loro risultati indicano che il rilascio di endorfine scatenato dalla risata potrebbe svolgere un ruolo nel legame sociale.

Gli effetti piacevoli e calmanti del rilascio endorfinico potrebbero offrire senso di sicurezza e promuovere sentimenti gruppali – afferma il prof. Nummenmaa – Il rapporto tra la densità dei recettori oppioidi e il tasso di risate suggerisce anche che il sistema oppioidale possa essere alla base delle differenze individuali nella socialità.

Il co-autore dello studio Prof. Robin Dunbar, dell’Università di Oxford del Regno Unito, aggiunge che i risultati evidenziano l’importanza della comunicazione diretta a voce nel legame sociale.

Altri primati mantengono i contatti sociali attraverso la cura reciproca, che induce anche liberazione di endorfina, ma questo richiede tempi prolungati. Poiché la risata sociale porta a una risposta chimica simile nel cervello, ciò consente una significativa espansione delle reti sociali umane: la risata è altamente contagiosa e la risposta dell’endorfina può quindi facilmente diffondersi attraverso grandi gruppi che si trovano a ridere insieme.

Sicuramente ulteriori ricerche sugli effetti della risata sociale saranno necessarie per confermare questi risultati, ma lo studio suggerisce un buon consiglio: trascorrete un week-end di risate con gli amici!

 

Training autogeno: applicazioni in medicina psicosomatica e in ambito sportivo

Il training autogeno è inoltre una tecnica molto utile anche nell’ambito dello sport. Grazie a questa tecnica, infatti, si ottengono molti benefici psicofisici, migliori prestazioni sportive, maggiore resistenza fisica e un più rapido recupero delle energie (Peresson, 1977).

 

I benefici del training autogeno

Il training autogeno è attualmente uno strumento molto usato per migliorare il benessere psicofisico e per il trattamento di vari disturbi di natura psicosomatica. Permette di regolarizzare le funzioni vitali spesso variate a causa dello stress e di scaricare delle tensioni migliorando la qualità della vita (Schultz, 1986).

Schultz (1986) evidenzia come gli esercizi di training autogeno permettano di ottenere molti benefici:
– Autoinduzione di uno stato di calma, rilassamento;
– Benessere psicofisico;
– Miglioramento delle prestazioni, recupero energie;
– Diminuzione della percezione del dolore;
– Autodeterminazione, formulazione di proponimenti;
– Modificazione delle capacità mnestiche;
– Introspezione.

Il training autogeno e il trattamento di alcuni disturbi

Questa tecnica favorisce l’autoregolazione di funzioni normalmente involontarie sollecitando le funzioni del sistema nervoso parasimpatico e inibendo quelle del sistema nervoso simpatico (Schultz, 1986; Hoffman,1980).
Il Training Autogeno risulta dunque particolarmente indicato in medicina psicosomatica per il trattamento di alcuni disturbi psico-vegetativi (Schulz, 1986; Hoffman, 1980; Wallnöfer, 1993, Peresson, 1984):
– Disturbi gastro – intestinali (gastrite, colite, ulcera, stitichezza e diarrea);
– Disturbi respiratori (asma, rinite, bronchite);
– Disturbi cardio-circolatori (tachicardia e ipertensione);
– Disturbi sessuali (frigidità, impotenza, eiaculazione precoce, dispareunia);
– Disturbi della pelle (eczema e psoriasi);
– Balbuzie;
– Disturbi del sonno;
– Cefalea vasomotoria.

L’impiego del training autogeno nello sport

Il training autogeno è inoltre una tecnica molto utile anche in ambito sportivo. Grazie a questa tecnica, infatti, si ottengono molti benefici psicofisici, migliori prestazioni sportive, maggiore resistenza fisica e un più rapido recupero delle energie (Peresson, 1977). Hoffmann (1980) parla di Training Autogeno come “doping psichico naturale e consentito” per il miglioramento delle prestazioni sportive.

Uno studio di Z. Tomita con un gruppo di nuotatori che avevano appreso il Training Autogeno evidenziò (Peresson, 1977):
– Minore tendenza a sentimenti depressivi e a sentimenti di inferiorità;
– Maggiore apertura sociale;
– Maggiore obiettività nel considerare le situazioni di gara.

Nello sport, il Training Autogeno viene utilizzato in maniera diversa a seconda delle caratteristiche della particolare disciplina sportiva e degli effetti che si vogliono ottenere. Ovviamente negli sport di squadra va preferito l’apprendimento in gruppo, che consente di lavorare contemporaneamente anche sulla condivisione di esperienze e sul clima di squadra.

Grazie all’apprendimento del Training Autogeno si ottengono molteplici benefici, sia per il singolo atleta sia per la squadra (Peresson, 1977):
– può essere usato come “pausa profilattica” tra un tempo e l’altro della gara, per favorire il recupero delle energie psicofisiche;

– rappresenta un valido aiuto per contrastare l’ansia da prestazione in quanto permette di scaricare la tensione e l’emotività e di acquisire un maggior controllo su fattori emotivi che possono interferire negativamente con il buon esito di una prestazione sportiva;

– favorisce il rilassamento muscolare, riducendo così il rischio di contratture e di infortuni;

– praticato prima di una gara, favorisce una maggiore concentrazione durante la gara stessa;

Il Training Autogeno favorisce anche un miglioramento del “clima di squadra”: maggiore armonia, superamento di rivalità e antagonismi e aumento del senso di appartenenza e di coesione.

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo e Mindfulness: quale contributo nel percorso di psicoterapia

Sempre più diffuso è l’utilizzo di tecniche di Mindfulness in ambito psicopatologico in associazione ad altri modelli di intervento. Per quanto riguarda il DOC, uno studio recente (Jacobson, 2016) afferma che la maggior parte degli psicoterapeuti intervistati affianca alla propria pratica clinica con pazienti con disturbo ossessivo compulsivo tecniche di mindfulness e interventi improntati sull’accettazione.

Elisa Covini, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Doc: sintomatologia e terapia cognitivo comportamentale

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è caratterizzato da ossessioni, vale a dire pensieri, immagini o impulsi intrusivi e ricorrenti, e/o da azioni mentali o manifeste e ripetitive messe in atto allo scopo di ridurre o eliminare l’ansia o le sensazioni spiacevoli causate dai pensieri egodistonici.

Tale disturbo ha una prevalenza nella popolazione mondiale stimata sull’1-2% (APA, 2013). Le cognizioni intrusive e le ossessioni sono spesso, sebbene non sempre, la caratteristica nucleare e lo stimolo attivante di questa patologia; per questa ragione talvolta il DOC è concettualizzato come un disturbo del pensiero. Tuttavia, risulta evidente come molti pazienti ossessivi abbiano una relazione disfunzionale con la loro intera esperienza interna: percezioni sensoriali, stati emotivi, sensazioni fisiche e cognizioni. Inoltre, alcune persone con problemi ossessivi (in particolare se casi cronici e con una lunga storia di malattia) possono non avere consapevolezza delle cognizioni associate alle compulsioni, in questi casi i rituali sono diventati nel tempo comportamenti automatici senza alcun bisogno di cognizioni coscienti (Didonna, 2009).

Il DOC potrebbe quindi essere definito come uno stato di grave mindlessness (mancanza di consapevolezza) che comprende i seguenti deficit: rimuginio, bias attentivi, fusione pensiero-azione, bias di non-accettazione, auto-invalidazione percettiva, bias metacognitivi relativi agli stati interni (Giannelli – State of Mind, 2014).

La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), con particolare riferimento all’ Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP), è riconosciuta come terapia efficace per il trattamento del DOC (Menzies e De Silva, 2003). Tuttavia, l’ERP è associata ad un rischio del 25% di drop-out (Aderka et al., 2011). Inoltre, alcuni pazienti non rispondono positivamente ai protocolli standard CBT e nemmeno ai trattamenti psicofarmacologici.

La mindfulness nel trattamento del DOC

Ad oggi si sta verificando l’efficacia di interventi più meditativi ed esperienziali, portati dal cognitivismo di Terza Ondata, che tengano maggiormente in considerazione i processi di pensiero rispetto al contenuto degli stessi. La Mindfulness può essere definita come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zinn, 2003).

Sempre più diffuso è l’utilizzo di tecniche di Mindfulness in ambito psicopatologico in associazione ad altri modelli di intervento. Per quanto riguarda il DOC, uno studio recente (Jacobson, 2016) afferma che la maggior parte degli psicoterapeuti intervistati affianca alla propria pratica clinica con pazienti con disturbo ossessivo compulsivo tecniche di mindfulness e interventi improntati sull’accettazione. Tuttavia, non sono molti gli studi che indagano l’associazione di protocolli CBT, già ampiamente utilizzati e terapia di elezione per questa categoria diagnostica, a tecniche di mindfulness (Hertenstein, 2012; Kulz, 2014; Strauss, 2015).

Hertenstein e colleghi (2012), in uno studio preliminare, hanno indagato qualitativamente le esperienze soggettive di 12 pazienti con DOC che hanno partecipato ad un programma Mindfulness based cognitive therapy (MBCT). A seguito delle 8 settimane di intervento, due terzi dei partecipanti hanno riportato una diminuzione dei sintomi DOC, oltre ad un aumento dell’abilità dello stare nel presente. Lo stesso gruppo di ricerca ha adattato il programma di gruppo MBCT in otto sessioni e sta effettuando uno studio su un campione di 128 pazienti, assegnati random a due gruppi di intervento: un gruppo di intervento MBCT e un gruppo di coaching psico-educativo (OCD-EP) come condizione di controllo. Il protocollo di ricerca prevede follow up a 6 mesi e ad un anno dal trattamento (Kulz, 2014).

Strauss e colleghi (2015) hanno condotto uno studio pilota su una popolazione di pazienti con disturbo ossessivo compulsivo con lo scopo di definire i parametri per un trial definitivo che veda l’utilizzo di tecniche Mindfulness-based (MB) in associazione ad un protocollo di Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP). Gli autori hanno distribuito random i 40 partecipanti dello studio in due programmi di terapia di gruppo: 10 sessioni di ERP o 10 sessioni di MB-ERP. Dalla ricerca emerge come il programma di ERP associato alla MB abbia un effetto positivo sui parametri considerati nello studio, in particolare gli autori sostengono che MB-ERP aumenti l’efficacia dell’ERP attraverso un aumento dell’ingaggio dei pazienti alle sessioni di terapia e ai compiti della terapia. Infatti, nel protocollo di MB-ERP la terapia incoraggia i pazienti all’astensione dal giudizio verso i pensieri intrusivi, incrementa la loro accettazione nei confronti delle sensazioni fisiche correlate all’ansia e porta ad una maggiore consapevolezza dei comportamenti compulsivi.

Ora vedremo più in dettaglio come la Mindfulness possa essere uno strumento che, affiancato a psicoterapia standard, intervenga su più livelli (Didonna, 2009):

  • Ruminazione: de Silva (2003) definisce la ruminazione ossessiva come “un’attività cognitiva compulsiva che viene eseguita in risposta ad un pensiero ossessivo”. Questo processo di pensiero caratterizza diverse patologie oltre dal DOC, come il Disturbo d’Ansia Generalizzata e la Depressione Maggiore, ma ciò che caratterizza il DOC sono i contenuti egodistonici del pensiero e le finalità dell’attuare tale processo di pensiero che consistono nell’abbassare le quote di ansia e il senso di responsabilità ipertrofica. Così come accade in altre condizioni cliniche, la ruminazione invece che ridurre lo stato indesiderato, al contrario lo mantiene. Nella pratica della Mindfulness si favorisce lo spostamento dalla “modalità del fare” alla “modalità dell’essere” (Segal et al, 2002). Un concetto fondamentale della Mindfulness consiste nel differenziare il pensiero dalla realtà e nell’osservare la propria esperienza interna effettuando un “passo indietro”. In questo modo si favorisce la consapevolezza dei pensieri e del modo in cui si risponde ad essi.
  • Bias attentivi: il modo in cui focalizziamo la nostra attenzione ci aiuta a modellare direttamente la nostra mente; quando sviluppiamo una certa forma di attenzione alle nostre esperienze nel qui e ora e alla natura della nostra stessa mente, creiamo quella forma di consapevolezza che chiamiamo mindfulness (Siegel, 2009). La modalità mindful può per certi versi essere considerata l’opposto delle modalità attentive che i pazienti con DOC frequentemente attivano: le persone che soffrono di DOC spesso non riescono a portare un’attenzione consapevole alla loro esperienza interna e successivamente ai rituali che sono finalizzati a cambiare o evitare tale esperienza (Didonna, 2009).
  • Fusione pensiero-azione: per Fusione Pensiero Azione (Rachman, 1993) si intende la tendenza a considerare i normali pensieri automatici “negativi” non tanto come oggetti della mente ma come dati di realtà. Nella pratica della mindfulness i pensieri “negativi” vengono osservati e registrati come stimoli cognitivi transitori che compaiono nella mente in un determinato momento e vengono accettati come il normale e naturale comportamento della mente senza alcuna identificazione. Le tecniche di Mindfulness possono determinare un cambiamento nella prospettiva di osservazione degli stati interni e aiutare il processo di tolleranza di stati interni spiacevoli e di disimpegno dagli schemi comportamentali automatici che mantengono il DOC.
  • Bias di non-accettazione: I pazienti con DOC spesso cercano di modificare i propri stati mentali direttamente (Freeston ed al., 1993) sforzandosi di distrarsi e di allontanarli. Questa modalità di autocontrollo facilmente ha effetti controproducenti per due ragioni fondamentali: perché per controllare di non aver pensato a qualcosa bisogna inevitabilmente pensarci e perché il tentativo di soppressione avviene mentre la mente del paziente è già notevolmente impegnata sul fronte della prevenzione (Mancini, 2001). L’uso dell’accettazione per pazienti con DOC implica un abbandono cosciente e intenzionale del comportamento che funziona come un evitamento esperienziale e una disponibilità ad esperire le proprie emozioni e cognizioni nel momento in cui si presentano, senza attivare alcun processo di elaborazione secondaria, ad esempio giudizi e interpretazioni.
  • Auto-invalidazione percettiva: validare l’esperienza percettiva significa dare valore di realtà e oggettività a ciò che percepiamo, rendendo la consapevolezza di tale esperienza gerarchicamente sovraordinata nell’attivazione delle emozioni e comportamenti. Le tecniche di Mindfulness aiuterebbero i pazienti a prevenire o neutralizzare i dubbi patologici, contribuendo a stabilizzare e normalizzare i propri stati mentali e processi cognitivi.
  • Senso di responsabilità ipertrofico: Ossessioni e compulsioni sono, fondamentalmente, il tentativo di prevenire una colpa per irresponsabilità che il soggetto considera incombente, grave ed inaccettabile. Il carattere ripetitivo, persistente e frequente della attività ossessiva dipende dall’ottica prudenzial-colpevolista con la quale il paziente valuta gli esiti della propria attività preventiva e il potere di cui dispone (Mancini, 2001). In uno stato di consapevolezza il paziente con DOC è più capace di capire con chiarezza il reale suo coinvolgimento nella situazione problematica; perciò la mindfulness può intervenire allo scopo di fornire ai pazienti un significato più funzionale e realistico del senso di responsabilità.

 

Vaccinazione psicologica: un corso formativo per genitori – Intervista alla dottoressa Anna Finocchietti

Abbiamo qui proprio la Dott.ssa Anna Finocchietti, di cui ho avuto il piacere e l’onore di conoscere la sua grande competenza nel suo lavoro di psicoterapeuta e passione nel diffondere la sua conoscenza anche a giovani psicoterapeuti, con la quale faremo una chiacchierata riguardo a Vaccinazione Psicologica, per capire bene cosa sia, a chi potrebbe essere di aiuto e in che modo. Insieme a lei altre due psicoterapeute, la Dott.ssa Raffaela Massa e la Dott.ssa Margherita Ceccanti che, insieme ad Anna, hanno pensato e dato forma a questo fondamentale ausilio per tutte le persone che si prendono cura dei bambini.

 

In un periodo in cui il mestiere del genitore diventa sempre più difficile fra problemi di bullismo, alcool, dipendenza dalla rete, ecc. un valido aiuto per i genitori da parte di professionisti diventa fondamentale.

Ecco perchè un gruppo di 6 psicologhe e psicoterapeute, Caterina Borghini, Margherita Ceccanti, Irene Di Girolamo, Anna Finocchietti, Raffaela Massa e Alessandra Miraglia Raineri, “capitanate” da una mia cara collega, la Dott.ssa Anna Finocchietti ha pensato ad un vero e proprio corso per insegnare ai genitori ma anche ad altre figure che si prendono cura dell’educazione dei bambini, alcune abilità basilari per accompagnare una crescita serena e maggiormente immune dai rischi.

Quindi abbiamo qui proprio la Dott.ssa Anna Finocchietti, di cui ho avuto il piacere e l’onore di conoscere la sua grande competenza nel suo lavoro di psicoterapeuta e passione nel diffondere la sua conoscenza anche a giovani psicoterapeuti, con la quale faremo una chiacchierata riguardo a Vaccinazione Psicologica, per capire bene cosa sia, a chi potrebbe essere di aiuto e in che modo. Insieme a lei altre due psicoterapeute, la Dott.ssa Raffaela Massa e la Dott.ssa Margherita Ceccanti che, insieme ad Anna, hanno pensato e dato forma a questo fondamentale ausilio per tutte le persone che si prendono cura dei bambini.

Intervista alle dott.sse Finocchietti, Raffaela Massa e Margherita Ceccanti

1. In un periodo di forti ed accese discussioni sui vaccini avete scelto “vaccinazione psicologica” come titolo del corso, volete spiegarci la motivazione di una scelta così “coraggiosa”?

Abbiamo scelto il nome Vaccinazione Psicologica perché pensiamo che si possano creare le “difese immunitarie” psicologiche proprio come un vaccino fa con le difese del corpo. In tal senso è come se rafforzassimo gli” anticorpi” (la nostra resilienza) in modo che siano in grado di proteggerci e di affrontare “gli antigeni” cioè le situazioni difficili che la vita presenta. Tutto questo avviene attraverso un percorso di conoscenza e tolleranza delle emozioni, di mentalizzazione dell’altro e di una buona costruzione della relazione di attaccamento.

2. Mettiamoci nei panni di un genitore… perché potrei aver bisogno di questo corso e come potrei utilizzarlo nel migliore dei modi?

Un genitore potrebbe aver bisogno di questo corso formativo per molteplici motivi: consapevolezza di difficoltà relazionali con i figli, criticità nella gestione di loro comportamenti problematici, preoccupazione rispetto al proprio ruolo genitoriale…etc.
Il “segreto” della proposta di metodo in Vaccinazione Psicologica sta nell’incoraggiare il genitore a fermarsi ad osservare, riflettere e pensare ai propri stati mentali, al proprio stile comunicativo, alla relazione con il figlio. Questo richiede un “PRENDERSI TEMPO” per osservare e osservarsi, per costruire una rappresentazione del proprio figlio più aderente ai suoi reali bisogni, per sentire le proprie emozioni e quelle dell’altro, per sintonizzarsi sui propri stati mentali e su quelli del proprio figlio.

3. Perché avete pensato ad un corso? Come è strutturato e quali sono i temi trattati?

È stato pensato come percorso formativo, il cui scopo è quello di essere dei buoni “allenatori emotivi”. È un corso pragmatico, operativo, interattivo, con lo scopo di far partecipare attivamente il genitore coinvolgendo i figli da 0 a 14 anni. È adattabile e pensato per poter essere personalizzato a misura del genitore. Vaccinazione Psicologica è strutturato in 3 parti sequenziali. La prima getta le basi attraverso l’osservazione e la comprensione di emozioni, bisogni, attaccamento e comunicazione. La seconda parte si focalizza sul quotidiano, affronta situazioni concrete che possono presentarsi tutti i giorni nella vita del genitore. L’ultima parte si concentra sulle relazioni intra ed extra familiari e si completa con schede informative su alcuni possibili disagi che coinvolgono gli adolescenti (bullismo, comportamenti sessuali a rischio, identità di genere…etc).

4. Proviamo a fare un esempio pratico. Per favore scegliete un esempio esemplificativo e raccontateci come “vaccinazione psicologica” lo affronterebbe?

Immaginiamo che tuo figlio di 14 anni ti chieda per esempio di tornare più tardi la sera quando esce con gli amici. La tua risposta potrebbe essere negativa e portare ad una situazione di disaccordo e conflitto tra voi. Cosa puoi fare?
Fermati e chiediti che cosa sta esprimendo tuo figlio, quale sia il suo reale bisogno, che cosa esprime la sua rabbia di fronte al tuo diniego.
In Vaccinazione Psicologica proponiamo diverse schede operative, tra queste un esercizio che abbiamo chiamato “alleniamoci a cercare alternative”. Pensare quali altre motivazioni possono aver spinto tuo figlio a chiedere di tornare più tardi e come possa sentirsi di fronte al tuo No, aiuta ad interrompere un ciclo comunicativo disfunzionale di rabbia tua e di tuo figlio che sente ingiustamente negarsi una richiesta. E’ quindi utile ad una relazione più serena. Le alternative potrebbero essere per esempio:
1. tutti i suoi amici tornano più tardi e lui non vuole sentirsi diverso
2. la ragazza che gli piace resta fuori fino a quell’orario
3. per lui ottenere quell’ora in più è un segno di fiducia nella sua autonomia.

Questo esercizio di ricerca di alternative ti permette di:
– avere nella mente i bisogni di tuo figlio e quello che desidera;
– trovare una spiegazione che possa farti comprendere la sua richiesta;
– avvicinarti al suo mondo;
– spostare l’attenzione da te all’altro;
– aprire la strada per la ricerca di una soluzione.

5. Come questo corso può “vaccinare” da disagi adolescenziali e giovanili?

Vaccinazione psicologica ha come obiettivo la prevenzione. Aumentando la resilienza si può diminuire la vulnerabilità agli eventi critici o traumatici. Questo è possibile:
– Ponendo l’attenzione sulla qualità delle prime relazioni (attaccamento)
– Stimolando l’autoriflessività e il monitoraggio degli stati mentali
– Aumentando la consapevolezza di sé e degli altri
– Potenziando le proprie risorse
– Accettando i momenti difficili, non vivendoli come eventi catastrofici
– Imparando a mettere in atto strategie di risoluzione funzionali (mastery).

6. Qual è il contributo che l’approccio cognitivo-comportamentale può dare nel sostegno alla genitorialità?

Nel corso Vaccinazione Psicologica, abbiamo fatto riferimento a molti degli elementi caratteristici dell’approccio cognitivo-comportamentale, con alcune integrazioni con l’approccio sistemico-relazionale di una delle coautrici. La psicoeducazione delle emozioni, l’ABC nel quale il genitore viene guidato, rendendosi parte attiva del corso, attraverso momenti di osservazione, di monitoraggio e di riconoscimento delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti indicando anche modalità con cui può accompagnare il figlio in questa presa di consapevolezza. Questo corso incentiva e rafforza i processi metacognitivi del genitore e di riflesso del figlio. Per rendere tutto questo più operativo abbiamo attinto anche a tecniche più strettamente comportamentali come, per esempio, la contrattazione del graduale raggiungimento di obiettivi condivisi e di conseguenti “premi”.


Nota:

Anna Finocchietti è didatta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Firenze.  Margherita Ceccanti, Raffaela Massa e Alessandra Miraglia Raineri sono Psicoterapeute diplomate presso lo stesso istituto, la Scuola Cognitiva di Firenze.

Depressione: l’efficacia dei farmaci antidepressivi dipende anche dall’ambiente

Due studi, pubblicati sulle riviste Molecular Psychiatry e Translational Psychiatry, dimostrano come l’ambiente svolga un ruolo fondamentale nell’efficacia dei farmaci antidepressivi.

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la depressione una vera e propria emergenza sanitaria che colpisce circa 322 milioni di persone in tutto il mondo, infatti ha dedicato a questo tema la Giornata Mondiale della Salute 2017 (WHO, 2017). La depressione è inoltre la prima causa di disabilità al mondo, colpisce persone di tutte l’età e condizioni sociali. Tale emergenza è aggravata dal fatto che circa il 60-70% dei pazienti trattati in monoterapia (solo terapia con farmaci antidepressivi) con il farmaco più comunemente utilizzato nelle principali forme di depressione, ovvero gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), non guarisce e il 30-40% non mostra neanche una risposta significativa al farmaco (Trivedi et al., 2006).

Farmaci antidepressivi e ambiente

Un gruppo di ricercatori internazionali, coordinati da Igor Branchi, dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in uno studio pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry (Trivedi et al., 2006), è giunto alla seguente conclusione: l’efficacia dei trattamenti con farmaci antidepressivi serotoninergici (SSRI) dipende anche dall’ambiente (per esempio occupazione lavorativa, titolo di studio, reddito) in cui vive il paziente e, quindi, in cui i farmaci antidepressivi vengono assunti. Questo perché l’azione del farmaco consiste, almeno in parte, nell’aumentare la plasticità neurale, amplificando, in un ambiente favorevole, l’opportunità dell’individuo a ridurre o eliminare i sintomi della depressione. Conclusione che è stata confermata in uno studio gemello condotto dagli stessi autori su pazienti affetti da depressione e pubblicato sulla rivista Translational Psychiatry (Alboni et al., 2017).

I farmaci antidepressivi purtroppo non risultano sempre efficaci. Per capirne i motivi, gli autori hanno ipotizzato come l’aumento della plasticità neurale indotta dal farmaco produca un aumento della suscettibilità agli stimoli ambientali. Di conseguenza, gli autori hanno analizzato, sia in modelli sperimentali (topi) sia in pazienti, il ruolo dell’ambiente nel determinare l’efficacia del trattamento. I risultati hanno dimostrato come il trattamento con SSRI aumenti in modo dose-dipendente l’influenza delle condizioni di vita sull’umore. Ciò è stato osservato sia su parametri clinici (quali la gravità della psicopatologia), sia preclinici e molecolari (come i livelli di neutrotrofine e la neurogenesi).

Passando dal modello animale all’uomo secondo i principi della ricerca traslazionale, Branchi e collaboratori (Chiarotti, Viglione, Giuliani, Branchi, 2017) hanno valutato una sottopopolazione di 591 pazienti arruolati nello studio STAR*D (Trivedi et al., 2006) (Sequenced treatment alternatives to relieve depression) con storia clinica sovrapponibile di depressione, esaminando gli outcome di un trattamento farmacologico con una dose di 20 o 40 mg al giorno di citalopram. In quest’ultimo gruppo (40 mg al giorno), in cui gli effetti raggiungevano significatività statistica, il tasso di miglioramento più elevato era associato a una situazione lavorativa stabile, un grado più elevato di istruzione e un introito economico maggiore.

Questi studi possono contribuire a migliorare la pratica clinica, mettendo a punto strategie terapeutiche basate sulla combinazione del trattamento farmacologico con un approccio terapeutico, come la terapia cognitivo-comportamentale, che permetta, a chi soffre di depressione, di affrontare ambienti di vita avversi ed eventi stressanti con maggiore successo, aumentando l’efficacia del trattamento con farmaci antidepressivi.

Questi risultati, come afferma lo stesso Editor-in-chief della rivista Molecular Psychiatry, Julio Licinio, nel suo editoriale (Licinio, Wong, Licinio, 2017), forniscono una spiegazione potenziale per l’efficacia variabile degli SSRI, possono rappresentare un passo importante per la comprensione del meccanismo di azione di questi farmaci e possono portare allo sviluppo di strategie personalizzate volte a migliorare la loro efficacia.

L’importanza del potenziamento cognitivo nell’ invecchiamento sano

Invecchiare comporta una serie di cambiamenti nella cognizione; tuttavia studi recenti hanno dimostrato che, anche in età avanzata, il cervello è plastico e può beneficiare del potenziamento cognitivo. Con questo concetto viene superata la visione dell’ invecchiamento caratterizzata solo dal possibile declino e viene proposta l’idea che sia possibile imparare cose nuove anche in età avanzata.

Anna Dallavo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

L’importanza di un buon funzionamento cognitivo nell’anziano

Negli ultimi anni, nella letteratura scientifica e nel linguaggio quotidiano si è sentito molto parlare di funzioni cognitive o abilità mentali anche se, molto spesso, non si comprende appieno l’importanza del perfetto funzionamento di tali funzioni. Esse rappresentano processi cognitivi importanti come l’attenzione, la memoria, il linguaggio, il controllo inibitorio, il ragionamento e così via.

Sono funzioni importanti che permettono all’uomo di svolgere la maggior parte delle azioni quotidiane. In particolar modo nell’anziano, il loro perfetto funzionamento, permette di continuare a essere autonomo nella vita quotidiana. I deficit delle funzioni cognitive rappresentano la prima causa d’istituzionalizzazione.

Con l’ invecchiamento, anche nell’anziano esente da patologie, si assiste a un decremento delle prestazioni cognitive. In generale, la diminuzione delle capacità cognitive risulta di moderato impatto funzionale perché l’ anziano sano riesce a compensare in modo efficace la condizione di precarietà cognitiva.

In assenza di patologia, le modificazioni cerebrali avvengono in modo lento e graduale. L’involuzione riguarda soprattutto le abilità cognitive soggette a disuso o ipostimolazione mentre una buona efficienza si osserva per quelle esercitate di frequente. Va inoltre ricordato che esiste un’ampia variabilità individuale, in parte legata alle caratteristiche personali, e in parte al contesto ambientale.

In uno studio di ricerca longitudinale (Shaie, 1989-1995) sono state studiate per oltre trentacinque anni diverse persone documentando come, il declino cognitivo non fosse omogeneo per tutti gli individui, ma che, i cambiamenti rilevanti fossero diversi da persona a persona e non coinvolgessero le stesse funzioni per ogni individuo.

Come si modificano le funzioni cognitive durante l’ invecchiamento

Entrando nel dettaglio delle singole funzioni cognitive, diversi studi hanno cercato di definire i cambiamenti che intervengono nel corso dell’ invecchiamento.

Tra le modificazioni cognitive i maggiori deficit che si sono verificati sono:

  • Rallentamento nei tempi di reazione: i tempi di reazione degli anziani sono più lenti rispetto a quelli degli adulti. Questo comporta che l’anziano possa continuare a svolgere le sue attività normali utilizzando però un tempo maggiore.
  • Deficit dell’attenzione nelle sue varie componenti. Molti deficit di memoria lamentati dagli anziani sono in realtà imputabili a deficit dell’attenzione.
  • Deficit delle funzioni esecutive, determinati da cambiamenti a carico della corteccia prefrontale, che determinano difficoltà nelle capacità di pianificazione, avvio e monitoraggio di azioni complesse, difficoltà nel bloccare i comportamenti inadeguati, una ridotta fluenza verbale ecc.
  • La memoria: è sicuramente la funzione cognitiva più inadeguata. Con l’ invecchiamento si assiste ad un decremento di alcune funzioni mnemoniche e al relativo risparmio di altre. Nello specifico la memoria a breve termine e la memoria di lavoro risultano essere le funzioni mnesiche più compromesse, mentre sia la memoria a lungo termine che la memoria procedurale sono soggette ad un deterioramento minore nel corso dell’ invecchiamento.

Le funzioni cognitive appena descritte rappresentano abilità mentali sempre attive e controllate da strutture cerebrali che ci permettono di svolgere le nostre attività quotidiane. Il buon funzionamento di queste attività mentali è indispensabile per svolgere qualsiasi tipo di attività anche quelle più semplici come guidare la macchina, fare la spesa e pulire la casa.

I benefici del potenziamento cognitivo

Invecchiare comporta quindi una serie di cambiamenti nei differenti aspetti della cognizione; tuttavia studi recenti hanno dimostrato che, anche in età avanzata, il cervello è plastico e può beneficiare del potenziamento cognitivo. Con il concetto di plasticità cerebrale viene superata la visione dell’ invecchiamento caratterizzata solo dal possibile declino e viene proposta l’idea che sia possibile imparare cose nuove anche in età avanzata. Il concetto di plasticità cerebrale è stato proposto all’interno dell’approccio dell’arco di vita (Life-span psychology) proposto da Baltes nel 1987. Quest’approccio ipotizza che, anche in età avanzata, l’essere umano sia in grado di apprendere utilizzando le abilità e le conoscenze già in possesso dell’individuo compensando in questo modo i deficit in altre abilità compromesse.

Le ricerche scientifiche hanno dimostrato come, contrariamente a quanto si riteneva in passato anche dopo i sessantacinque anni il cervello è plastico e può incrementare il funzionamento cognitivo. È stato inoltre evidenziato che la prestazione cognitiva degli anziani è caratterizzata da una certa flessibilità, nel senso che le difficoltà in alcuni funzioni cognitive vengono compensate attraverso il reclutamento delle abilità mantenute. Gli anziani sopperiscono spontaneamente ai loro punti di debolezza affidandosi ai loro punti di forza, ossia a quelle abilità che rimangono stabilio aumentano, come ad esempio le conoscenze verbali.

Il potenziamento cognitivo

Il potenziamento cognitivo si pone come obiettivo lo sviluppo delle attività mentali disponibili nell’individuo, accrescendo le loro funzioni e migliorandone il loro utilizzo incrementando le possibilità di invecchiamento di successo, ossia accrescendo qualcosa che è già disponibile. Nell’analisi della prospettiva d’ invecchiamento di successo non va tralasciato il ruolo attivo che ogni individuo ha nella costruzione del proprio sviluppo e del proprio invecchiamento. Invecchiare comporta una serie di cambiamenti nei differenti aspetti della cognizione; tuttavia contrariamente alla visione dell’anziano come soggetto a un inevitabile declino la ricerca in psicologia ha dimostrato che il declino non è pervasivo e che accanto ad aspetti di perdita ce ne sono altri che si mantengono in età avanzata.

Nell’ambito del potenziamento cognitivo, i training cognitivi sono degli esercizi mirati, basati su teorie neuropsicologiche e cognitive per il funzionamento del cervello, per il potenziamento delle funzioni cognitive come la memoria, il ragionamento, la velocità di elaborazione delle informazioni e l’attenzione. A differenza degli esercizi generici che non seguono un approccio teorico basato sulla neuropsicologia, questi training di potenziamento cognitivo stimolano in maniera adeguata le funzioni cognitive sulla base della conoscenza del loro funzionamento; sono mirati poiché esercitano alcune funzioni per volta e sono stati validati perché basati su ricerche scientifiche.

Aspetti importanti del training cognitivo

Prima di iniziare un training cognitivo è importante valutare la persona che lo deve eseguire e considerare la sua situazione specifica.

Numerosi studi evidenziano come, durante il potenziamento cognitivo, ogni esercizio del training sia mirato ad ottenere benefici che possano essere generalizzati nei compiti della vita quotidiana (Cavanaugh & Blanchard_Fields 2010). I training devono essere ecologici in maniera tale da stimolare abilità che la persona andrà ad utilizzare nella vita reale.

Ogni esercizio deve inoltre contenere degli aspetti innovativi, poiché i compiti conosciuti e ripetitivi utilizzano sempre le stesse connessioni, mentre la presentazione di compiti nuovi e più complessi, al contrario, promuove lo sviluppo di nuove connessione tra i neuroni. Molte sono le evidenze scientifiche sul funzionamento del potenziamento cognitivo. Una ricerca ha dimostrato come questi training non influiscano solamente sul comportamento ma anche sulle connessioni tra i neuroni (McNab et al. 1999). Lo studio di McNab e collaboratori, svolto al Karolinska Instituted di Stoccolma, ha dimostrato che un training cognitivo sulla memoria di lavoro sia in grado di produrre un aumento dei recettori cerebrali per la dopamina. I ricercatori hanno dimostrato come la biochimica, non solo sia alla base dell’attività mentale, ma anche come l’attività mentale e i processi di pensiero siano in grado di modificarla.

La dopamina è un neurotrasmettitore molto importante e la disfunzione del sistema dopaminergico può danneggiare la memoria di lavoro e conseguentemente le funzioni ad essa collegate coma la capacità di ragionamento e il problem solving.  Lo studio è stato eseguito grazie alla PET (Tomografia a emissione di positroni) che ha permesso di monitorare come un training cognitivo sia in grado di produrre nel cervello un cambiamento nel numero di recettori per la dopamina.

Una ricerca recente ha documentato la possibilità di recuperare alcune funzioni cognitive anche in età avanzata, seguendo dei programmi di corretto stile di vita sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista cognitivo.

Lo studio “My Mind: gli effetti del training cognitivo per gli anziani” è stato finanziato nel 2012 dal Ministero della Salute e cofinanziato dalla Regione Marche ed è stato coordinato dall’Unità operativa di geriatria dell’Irccs Inraca _Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per anziani di Fermo. I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Rejuvenation Reserach.

Per un periodo di tre anni, trecento persone over sessantacinque sono state coinvolte in questo progetto di ricerca che si proponeva di verificare scientificamente l’effetto di un programma di training cognitivo e il mantenimento e il recupero delle abilità intellettive e di memoria. Il campione comprendeva tre differenti tipologie di utenti:

  • 100 persone over sessantacinque prive di deterioramento cognitivo
  • 100 soggetti affetti da MCI, Mild Cognitive Impairment
  • 100 malati di Alzheimer

All’interno di ogni gruppo cinquanta persone hanno eseguito il training cognitivo mentre le altre cinquanta hanno costituito il gruppo di controllo che riceveva periodicamente alcuni semplici consigli per migliorare la memoria. Il programma di potenziamento cognitivo attraverso il training comprendeva l’apprendimento di tecniche mnemoniche, esercizi di concentrazione, di orientamento e di categorizzazione. Sono state inoltre introdotte strategie per ricordare eventi e appuntamenti, per utilizzare la scrittura in modo da memorizzare più facilmente e l’utilizzo di brevi racconti per aiutare a fissare i ricordi e migliorare il linguaggio.

Sono stati introdotti nel programma anche dei passatempi come ad esempio le parole crociate, le carte e il sudoku. Ogni partecipante è stato infine istruito su come proseguire gli esercizi a casa, coinvolgendo anche i famigliari.

La rilevazione dei risultati è stata eseguita in tre tempi. Una prima rilevazione è stata compiuta al termine della partecipazione al programma di potenziamento cognitivo, una seconda trascorsi sei mesi dal termine e una terza dopo due anni.

I risultati dello studio sono molto soddisfacenti. Al termine, per circa il 70% dei pazienti con Alzheimer, è stato possibile identificare un significativo miglioramento documentabile attraverso i risultati nella batteria Adas- Alzheimer’s disease assessment scale, che valuta la gravità della malattia. Per quanto riguarda i soggetti con MCI si è osservato un miglioramento, in circa il 50% dei casi, relativamente alla fiducia nella propria memoria. Questo stesso miglioramento è stato evidenziato anche nell’81% di soggetti sani.

La maggior parte delle ricerche concorda sull’evidenza che, a proposito dell’ invecchiamento cognitivo, esistano ampie differenze individuali. Tali differenze sono imputabili principalmente allo stile di vita delle persone. È innegabile che una mente attiva, curiosa e attenta alla novità invecchia molto più lentamente di una mente meno attiva.

Molto possiamo fare a livello personale per un invecchiamento attivo. Importante, per mantenere una mente attiva è controllare l’alimentazione oltre a svolgere regolarmente un’attività fisica. La socializzazione rappresenta infine un ottimo elemento per contrastare l’ invecchiamento cerebrale perché aiuta anche a contrastare gli aspetti psicologici quale ansia e depressione.

Aaron Beck: uno dei padri fondatori della terapia cognitiva – Introduzione alla Psicologia

Aaron Temkin Beck è uno psichiatra americano e professore emerito nel dipartimento di Psichiatria dell’Università della Pennsylvania. Beck è considerato uno dei padri fondatori della terapia cognitiva. Il suo approccio terapeutico è ampiamente utilizzato nella pratica clinica.
Attualmente, Beck è il Presidente Emerito del Beck Institute, in Pennsylvania, fondato nel 1994 da lui e da sua figlia Judith.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

La vita

Aaron T. Beck  è nato a Providence, Rhode Island – USA, il 18 luglio 1921, ed è il figlio più giovane di quattro fratelli e sorelle di una coppia di immigrati ebrei. Beck si è sposato nel 1950 con Phyllis, primo giudice donna presso la corte appello della Commonwealth of Pennsylvania, da cui ha avuto quattro figli.

Beck ha frequentato la Brown University, laureandosi con lode nel 1942. Successivamente, è stato eletto membro della Phi Beta Kappa Society, ed è diventato redattore associato di The Brown Daily Herald. In seguito, Beck ha frequentato la scuola medica di Yale, dove si è laureato nel 1946.

Negli anni successivi aveva scelto di frequentare neurologia, ma vista la poca affluenza a psichiatria decise di cambiare indirizzo e fin da subito simpatizzò per la psicoanalisi. Nel 1950 Beck divenne psichiatra presso l’ Austen Riggs Center, ospedale psichiatrico privato nelle montagne di Stockbridge, Massachusetts, e vi rimase fino al 1952.

Beck, poi, si trasferì presso l’Università di Pennsylvania nel 1954 dove ha lavorato con Kenneth Ellmaker Appel, psicoanalista che fu presidente dell’Associazione Psichiatrica Americana, e contemporaneamente iniziò la formazione formale in psicoanalisi.

La prima ricerca eseguita da Beck è stata condotta con Leon Saul, psicoanalista noto per i metodi poco ortodossi applicati alla terapia. Insieme, svilupparono dei questionari per quantificare i processi dell’ego nel contenuto manifesto dei sogni.

Negli anni ’50 Beck iniziò ad alimentare una serie di dubbi nei confronti della psicoanalisi e, di conseguenza, sviluppò le prime teorie sulla depressione che cultimarono con la creazione di un test, il Beck Depression Inventory, pubblicato nel 1961 e ancora ampiamente utilizzato nella clinica e nella ricerca.
Così, nel 1962 si dedicò allo studio di schemi e di pensieri tipici della depressione e diede inizio a un nuovo approccio, la terapia cognitiva, che si basava su un importante rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti.

I primi articoli di Beck sulla teoria cognitiva della depressione mantennero, in ogni caso, una cornice psicoanalitica, nonostante fossero intrisi di pensiero empirico e scientifico alla luce del nuovo approccio cognitivista.

A metà degli anni ’60, Beck conobbe Albert Ellis e scoprì che aveva sviluppato una importante e affascinante teoria e una terapia pragmatica in cui si utilizzavano pensieri e emozioni in maniera diretta, il cui scopo finale era la disputa dei pensieri ritenuti disfunzionali.
Così nacque per Beck un processo di sviluppo e integrazione di una nuova terapia, quella cognitiva.

La terapia cognitiva di Beck

Beck, lavorando con i pazienti depressi, scoprì l’esistenza di pensieri negativi che sembravano emergere spontaneamente. Egli ha definito queste cognizioni “pensieri automatici” e il loro contenuto è ascrivibile in tre categorie: idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro tipiche della depressione.

Egli iniziò a lavorare con questi pazienti identificando i pensieri disfunzionali e scoprì che avendo atteggiamenti più realistici potevano sentirsi emotivamente meglio e potevano adottare comportamenti più funzionali. La sofferenza genera, secondo Beck, una serie di pensieri disadattivi che producono un effetto negativo sul comportamento. Inoltre, se in età precoce si è esposti a eventi critici è possibile si possano instaurare credenze disfunzionali generate da pensieri che, nel lungo periodo, diventano automatici.

Quindi, quando una persona si trova ad affrontare una situazione, lo schema acquisito consente di interpretare i dati oggettivi e di trasformarli in cognizioni. Nelle persone depresse si attiveranno, dunque, schemi non adattivi che portano a errate interpretazioni della realtà da cui si generano pensieri automatici che inducono sofferenza emotiva.

Il modello caratteristico della depressione è costituito da tre schemi che Beck chiama la triade depressiva, essi sono:
– la visione negativa di Se stessi: le persone affette da depressione si vedono come deboli e inutili.
– la visione negativa del Mondo: Si sentono socialmente sconfitti e non si percepiscono all’altezza delle esigenze proprie e altrui e, per questo, non in grado di superare gli ostacoli.
– la visione negativa sul Futuro: La persona depressa pensa che questa situazione non possa essere modificata e sarà così per sempre.

La teoria cognitiva

Per Beck, i disturbi psicologici derivano dalle distorsioni cognitive ovvero errori che si commettono nell’applicazione dei pensieri automatici e provocano stati emotivi e comportamenti inappropriati o negativi. Pertanto, queste distorsioni cognitive sono causate da credenze irrazionali apprese in età precoce che influenzano la percezione e l’interpretazione del passato, del presente e del futuro.

Gli Schemi

Secondo Beck gli eventi esterni sono percepiti da una persona in base a una serie di concetti o schemi cognitivi che ognuno possiede e che influenzano il modo in cui è percepita la realtà. Le informazioni acquisite, dunque, possono essere elaborate erroneamente in base alle credenze apprese e, per questo, si possono ottenere delle modificazioni o distorsioni nella valutazione e interpretazione dei dati che portano alle cosiddette distorsioni cognitive.

Per Beck, gli schemi sono modelli cognitivi stabili che aiutano a catalogare e interpretare la realtà. Le persone usano gli schemi per individuare, codificare, differenziare e assegnare significati alle informazioni provenienti dall’ambiente esterno.  In altre parole, gli schemi sono costrutti mentali stabili ma soggettivi, che agiscono come filtri nella percezione del mondo circostante.

Gli schemi provengono in gran parte da esperienze di apprendimento precoce e possono rimanere in sospeso fino a quando un evento esterno li attiva. Questo è uno dei concetti più importanti per la psicologia cognitiva, nonostante sia stato introdotto da Frederick Bartlett per riferirsi alla memoria e poi ripreso da Jean Piaget.

Le credenze

Le credenze sono i contenuti degli schemi e sono il risultato diretto del rapporto tra realtà e schemi stessi. Esse fungono da mappe interne che consentono di attribuire un senso al mondo. Successivamente, esse, dopo essere state costruite, sono generalizzate attraverso l’esperienza.

Beck distingue due tipi di credenze:

credenze centrali o di base o nucleari: sono presentati come proposizioni assolute, durature e globali su se stessi, gli altri e il mondo. Ad esempio, “Io sono un fallimento”. Si tratta di un’assunzione di base difficile da cambiare, poiché caratterizza l’identità dell’individuo.
credenze periferiche: sono influenzate da quelle nucleari, e sono i costrutti cognitivi e i pensieri automatici. Si tratta di atteggiamenti, regole, ipotesi che influenzano il modo di vedere la situazione, provocando un vissuto emotivo e comportamentale disadattivo.
– pensieri automatici o prodotti cognitivi.

I pensieri automatici si riferiscono ai pensieri e le immagini risultanti dall’interazione delle informazioni fornite dalla situazione, schemi e credenze e processi cognitivi. Il contenuto dei pensieri automatici è, di solito, accessibile tramite gli schemi e non attraverso i processi cognitivi.

I pensieri automatici sono, sostanzialmente, i dialoghi interiori, i pensieri o le immagini che appaiono in una data situazione, e i pazienti considerano queste affermazioni vere e non distorte. Essi mostrano una serie di caratteristiche:
– si riferiscono ad una situazione specifica;
– sono assolutamente considerati veri;
– sono appresi;
– esagerano gli aspetti negativi della situazione;
– non sono facili da rilevare o controllare.

Le distorsioni cognitive

Beck individua una serie di distorsioni cognitive derivanti dall’applicazione dei pensieri automatici. Esse sono:
– astrazione selettiva: si presta attenzione ad un aspetto o a un dettaglio della situazione. Gli aspetti positivi sono spesso ignorati a vantaggio di quelli negativi.
– pensiero dicotomico: gli eventi sono valutati in forma estrema: buono / cattivo, nero / bianco, on / off, etc.
– inferenza arbitraria: si traggono conclusioni da situazioni che non sono supportate dai fatti, anche quando l’evidenza è in contrasto con la conclusione.
– Supergeneralizzazione: comporta una conclusione generale partendo da un evento particolare.
– Ingigantire e minimizzare: la tendenza a esagerare gli aspetti negativi di una situazione, riducendo al minimo il positivo.
– Personalizzazione: si tratta di attribuzioni di caratteristiche personali a una situazione.
– Visione catastrofica: anticipare gli eventi pensando che il peggio accadrà sicuramente.
– Doverizzazione: regole rigide e severe su come le cose dovrebbero andare.
– Variabili globali: etichette generali sugli eventi che non considerano le sfumature.

Lo scopo finale della terapia di Beck consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e valutano le situazioni che si vivono. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le distorsioni cognitive per sostituirli con altri più realistici e adattivi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La scoperta di un neurone “di quartiere” che favorisce l’orientamento

Un team di ricerca internazionale, composto dai ricercatori di UvA, Jeroen Bos, Martin Vinck e Cyriel Pennartz, ha identificato un neurone che potrebbe svolgere un ruolo vitale nella capacità dell’uomo di orientarsi nel suo ambiente. Si tratta di un passo importante che aiuterebbe a capire come il cervello codifica il comportamento nell’ affrontare l’orientamento spaziale e potrebbe potenzialmente aprire nuove strategie di trattamento per le persone che presentano un orientamento topografico carente, come i pazienti affetti da Alzheimer.

 

Un neurone che consente l’orientamento spaziale

Ogni giorno, miliardi di persone in tutto il pianeta si orientano con successo negli ambienti, ad esempio quando si recano al lavoro o tornano a casa.
Tali viaggi in genere si verificano con poco sforzo e sfruttano la capacità del cervello nell’utilizzare la conoscenza generale sull’ambiente per effettuare stime sulla posizione occupata.
La capacità di realizzare valutazioni del luogo risiede nell’ippocampo, una struttura che è parte del cervello, esattamente situata nel lobo temporale. Svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nell’ orientamento spaziale.

La ricerca mostra che il preciso meccanismo di orientamento spaziale comprende appunto le cellule dell’ippocampo, e che queste aumentano o diminuiscono l’attività elettrica a seconda della propria posizione. Tuttavia, quando fanno il loro giro quotidiano, le persone non hanno bisogno di rappresentazioni molto dettagliate. Utilizzano invece questa funzione dettagliata quando si trovano in un luogo sconosciuto, ovvero quando si parla di orientamento topografico.

Sulla base delle ricerche attualmente in corso, si è studiato come la conoscenza della navigazione su larga scala sia codificata nel cervello e se questo processo si verifichi in strutture diverse all’interno del lobo temporale.

La ricerca è stata fatta orientando dei ratti ad eseguire un compito visivo guidato, in un labirinto composto da 8 figure costituito da due cicli che si sovrappongono nella corsia centrale.

Durante l’esperimento, i ricercatori hanno misurato l’attività elettrica nel cervello dei ratti usando un nuovo strumento che gli ha permesso di registrare contemporaneamente gruppi di neuroni provenienti da quattro diverse aree: la corteccia peririnale, l’ippocampo e due zone sensoriali. Le registrazioni dalla corteccia peririnale mostravano modelli di attività sostenute. Il livello di attività elettrica è aumentato e diminuito a seconda del segmento in cui i ratti si trovavano.

Abbiamo trovato una notevole differenza tra le risposte della corteccia peririnale e le risposte in altre aree del cervello“, afferma Jeroen Bos, autore e ricercatore presso l’Istituto Swammerdam di UvA per le scienze della vita.
Le unità della corteccia peririnale avevano sostenuto risposte in tutto il percorso”.

Al contrario, le risposte dalle cellule dell’ippocampo sono state date in ordine sparso durante tutto il compito nel labirinto e i loro campi sono stati molto limitati ad aree più piccole del labirinto.

Gli autori sono rimasti sorpresi di vedere come le risposte della corteccia peririnale fossero in linea con il layout del labirinto, soprattutto perché la regione è comunemente associata al riconoscimento di oggetti.
Questo sembra essere un nuovo tipo di neurone, che è stato soprannominato la “cellula di quartiere”.
Questo neurone sembra consentire al cervello di distinguere in modo specifico tra segmenti distinti (“quartieri”) dell’ambiente.

I risultati del team offrono un primo sguardo sul modo in cui il cervello è in grado di codificare il comportamento di orientamento spaziale in ampi spazi e potrebbe essere particolarmente rilevante per le persone con una capacità ridotta dell’orientamento topografico.

La codifica su larga scala della corteccia peririnale contrasta con quella più mirata dell’ippocampo.

È noto che i pazienti con malattia di Alzheimer o con danno al lobo temporale hanno grandi difficoltà a trovare la loro strada, in particolare per le lunghe distanze“, dice il ricercatore e professore di sistemi cognitivi e neuroscienze Cyriel Pennartz.

Oltre ad offrire nuove conoscenze sui meccanismi cerebrali per la navigazione spaziale a diverse scale, i risultati possono guidare i pazienti con Alzheimer o altre malattie nell’uso di altre strategie spaziali.

Provare nuove pratiche sessuali: curiosità o paura d’essere rifiutati? – Le risposte di fluIDsex

Sono una donna che partecipa a scambi di coppia, ma mi rifiuto di praticare sesso anale. Mi può dare qualche suggerimento su come provare questo tipo di pratica in quanto è risaputo che è abbastanza doloroso essendo abitualmente una zona il cui senso è sempre stato unico, mi trovo a disagio.

 

Buongiorno,

dalla sua richiesta sembrano emergere delle forze contrastanti: lei che si rifiuta, il dolore, il disagio, ma chiede qualche suggerimento per provare.

Ci tiene inoltre ad esplicitare che il contesto nel quale vorrebbe o non vorrebbe sperimentare questa pratica è una situazione di “scambi di coppia”.

Spesso, nei contesti gruppali, il timore di rimanere esclusi, se non si rispettano tutte le usanze implicite di un gruppo può portare a voler uniformare i propri comportamenti a quelli degli altri componenti del complesso, perdendo un po’ di vista i propri bisogni personali.

Anche in base al contrasto presente nella sua domanda, credo sia innanzitutto utile riflettere su quanto la voglia di provare questa pratica sia sua o quanto sia dettata dal contesto nel quale la vorrebbe provare.

Potrebbe comunque esserle utile leggere il libro di J. Morin  “Il piacere negato” (edito Feltrinelli)

 

Greta Riboli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Restringimento della pupilla e rischio di depressione a seguito di una catastrofe naturale

La pupilla è collegata a regioni cerebrali (corteccia cingolata anteriore e prefrontale dorsolaterale) coinvolte nell’elaborazione cognitiva ed emotiva degli stimoli. Il fatto che il decremento del diametro pupillare di fronte a informazioni emotive negative sia un fattore di rischio per la depressione è stato confermato sia negli adulti che nei bambini.

 

Il restringimento pupillare di fronte a stimoli negativi e il rischio di depressione

Quando le catastrofi naturali colpiscono una comunità hanno effetti sconvolgenti, pertanto costituiscono eventi di vita significativi con una forte accezione negativa.

Nonostante diverse ricerche abbiano trovato che lo stress legato ad un evento catastrofico possa predire un incremento dei sintomi depressivi (Bonanno, Brewin, Kaniasty, & La Greca, 2010), soltanto il 20-25 % delle persone con questa tipologia di esperienza sviluppa effettivamente depressione (van Praag, de Koet, & van Os, 2004). Ciò accade perché non tutti i soggetti possiedono lo stesso livello di vulnerabilità allo stress. Dunque, riuscire a capire quali siano le persone più inclini a sviluppare depressione a seguito di una catastrofe naturale può consentire di erogare interventi ad hoc su un gruppo target, piuttosto che dissipare le poche risorse esistenti sul campo.

Per comprendere quale sia il gruppo-oggetto d’intervento si può misurare la dilatazione pupillare che avviene in risposta a stimoli emotivi negativi. La pupilla è infatti collegata a regioni cerebrali (corteccia cingolata anteriore e prefrontale dorsolaterale) coinvolte nell’elaborazione cognitiva ed emotiva degli stimoli (Murphy, O’Connell, O’Sullivan, Robertson, & Balsters, 2014; Siegle, Steinhauer, Stenger, Konecky, & Carter, 2003). Il fatto che il decremento del diametro pupillare di fronte a informazioni emotive negative sia un fattore di rischio per la depressione è stato confermato sia negli adulti (Silk et al., 2007) che nei bambini (Steidtmann, Ingram, & Siegle, 2010).

A partire da queste premesse, ha origine uno studio dell’Università di Binghamton, colpita da un’alluvione nel 2011. Obiettivo della ricerca era indagare se il decremento della risposta pupillare a stimoli emotivi negativi potesse predire cambiamenti dei sintomi depressivi in soggetti sottoposti ad alti livelli di stress, come una catastrofe ambientale.

Questa ipotesi è stata verificata valutando se i livelli oggettivi di stress conseguenti l’alluvione di Binghamton potessero modulare la relazione tra risposta pupillare e prospettive di cambiamento nei sintomi depressivi. I partecipanti all’esperimento erano 51 donne colpite dall’alluvione, con storia di disturbo depressivo maggiore (DDM) e senza alcuna comorbilità con altri disturbi dell’umore del DSM-IV. Esse avevano svolto un compito al computer per valutare la riposta pupillare ad espressioni facciali emotigene e avevano riportato i loro sintomi depressivi prima e dopo l’alluvione, dopo aver verificato che tale evento avesse effettivamente provocato un alto livello di stress nelle loro vite.

I risultati hanno dimostrato che, nelle donne con alti livelli di stress correlati all’alluvione, il restringimento pupillare in risposta alle espressioni facciali emotigene predice un incremento significativo dei sintomi depressivi.

Una delle teorie alla base è che la vulnerabilità alla depressione possa essere latente fin quando non si verificano eventi talmente stressogeni da attivarle. Nello specifico, usando come marker biologico la risposta pupillare, i soggetti che presentano un suo decremento in risposta a stimoli emotigeni negativi potrebbero usare una strategia di soppressione a seguito di eventi di vita negativi. Ciò implicherebbe la mancata risposta a stimoli/esperienze salienti che seguono tali eventi determinando un rischio maggiore di manifestare sintomi depressivi.

Woody Allen e la nostalgia – Midnight in Paris

Da negazione del presente a componente identitaria importante per guardare al futuro: nostalgia storica e personale in Midnight in Paris, film Premio Oscar 2012.

 

È il momento di cambiare vita per Gil, protagonista del film Midnight in Paris: indipendentemente dal rischio che ciò comporta, il brillante sceneggiatore hollywoodiano vuole abbandonare il presente, di successo ma privo di stimoli, per un futuro da scrittore.

Un futuro che esprime passione per tutto ciò che è passato: il protagonista del suo libro è infatti proprietario di un “negozio nostalgia” (cioè un negozio che rivende articoli usati, in particolare vintage). Questa prospettiva non è condivisa dalla compagna Ines, con la quale Gil trascorre una breve vacanza nella città di Boris Vian.

Il suo spirito idealistico e nostalgico si scontra con quello pragmatico della futura sposa e con quello dell’amico di lei, Paul, che sentenzierà:

Nostalgia è negazione, negazione di un presente doloroso… Il nome di questa negazione è il pensare ad un’epoca d’oro, l’erronea nozione che vi è un periodo migliore di quello in cui si vive. È un volo nell’immaginario romantico di coloro che trovano difficile convivere con il presente

In Midnight in Paris, il pedante Paul descrive perfettamente lo stato d’animo dell’aspirante romanziere: epici sono i voli notturni nella “festa mobile” (la Parigi degli Anni Venti, come definita da Ernest Hemingway) compiuti da Gil, durante i quali egli ha la possibilità di conoscere e interagire con le più importanti personalità che in quell’epoca gravitano nella capitale, da F. Scott Fitzgerald a T.S. Eliot. Riesce a far leggere la sua bozza di racconto nientemeno che allo stesso Hemingway, per tramite della scrittrice Gertrude Stein.

Conosce inoltre Adriana, l’affascinante compagna di Picasso, con la quale nascerà un feeling proprio a partire dall’interesse comune per ciò che è passato. La surreale, reciproca attrazione è tale da mettere in crisi il rapporto tra Gil e Ines, incrinatosi anche a causa delle scorribande notturne e solitarie del nostro Gil (lei si consolerà con Paul).

Proprio nella notte in cui il viaggiatore nel tempo decide di dichiarare il proprio amore, è trascinato da Adriana nella Belle Époque: questi anni rappresentano per l’avvenente parigina la vera età dell’oro, l’epoca nella quale vale davvero la pena vivere e dove intende restare. È questo il momento in cui Gil raggiunge l’intuizione che sarà la chiave di volta della storia:

Se tu resti qui e questo diventa il tuo presente, allora molto presto comincerai a immaginare un’altra epoca che sia la tua epoca d’oro. Ecco che cos’è il presente! è un po’ insoddisfacente, perché la vita è un po’ insoddisfacente!

Rifugiarsi nel passato, presunto e irraggiungibile idillio di felicità, rappresenta in effetti un tramite per ovviare all’incapacità di sostenere la vita attuale e la sua caratteristica, fisiologica incompiutezza.

La nostalgia è, quindi, sempre negativa?

Come osservato da Krystine Batcho è possibile individuare, in Gil di Midnight in Paris, l’alternarsi di due diverse tipologie di nostalgia.

La prima, quella considerata finora e definita nostalgia storica o simulata, riguarda l’interesse per un passato non personale: nel caso di Gil, la Parigi degli Anni Venti. La seconda, meno esplicita nel film ma non meno decisiva, rappresenta la nostalgia personale o reale, riferendosi alle esperienze individuali realmente vissute (Baker, Kennedy, 1992).

Se la prima nostalgia, come già visto, accompagna un’insoddisfazione per il presente talmente grande da rendere preferibile un’altra epoca, la seconda invece aiuta a mantenere un costante senso di identità nelle esperienze traumatiche e durante i cambiamenti (gli aspetti positivi e funzionali della nostalgia sono illustrati in questo articolo).

Il nostro passato, se richiamato attraverso la nostalgia personale, è una parte di noi che ci ricorda chi siamo, i nostri sogni e aspirazioni. Gil, proprio grazie alla nostalgia, scopre che la sua vocazione non è quella di sceneggiatore seriale ma di romanziere, indipendentemente da dove la vita lo abbia portato fino a quel momento.

Allen (Allen, 2011) inserisce un ulteriore espediente che rende ancora più chiaro, pur attraverso la vena ironica della coincidenza, il legame tra nostalgia, passato e futuro. Proprio grazie a una vecchia passione musicale Gil, questa volta nella Parigi del presente, conosce Gabrielle. Guarda caso, la proprietaria di un “negozio nostalgia”.

Il vibrato del clarinetto di Sidney Bechet, la pioggia di Parigi e i lampioni lungo la Senna completano il quadro di un finale romantico e…nostalgico.

La terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento delle balbuzie

La balbuzie porta spesso a vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale, vergogna ed imbarazzo, scarsa autostima e ritiro sociale; uno dei trattamenti più efficaci per superarla è la terapia cognitivo-comportamentale.

Daniela Forgione – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La balbuzie: alcuni dati sul disturbo

La balbuzie rappresenta un disturbo che tipicamente esordisce nell’infanzia, approssimativamente attorno ai 33 mesi. L’insorgenza è graduale ed insidiosa, ma sembra in aumento il numero di casi in cui l’esordio appare improvviso, manifestandosi in modo evidente nel giro di giorni o al massimo di settimane. Il rapporto tra maschi/femmine negli adulti risulta essere di 4:1, mentre in prossimità dell’esordio non si evidenziano differenze statisticamente significative, suggerendo che il fenomeno del recupero spontaneo è più frequente nelle bambine che nei bambini.

Le ricerche recenti indicano elevate percentuali di casi in cui il recupero avviene senza che sia necessario un intervento terapeutico. Inoltre, è condiviso tra clinici e ricercatori che la predisposizione alla balbuzie è ereditata geneticamente, anche se poi la sua espressione fenotipica è condizionata dall’interazione di numerose variabili, sia individuali (cognitive, linguistiche, affettive e neurofisiologiche) che ambientali (socio-culturali, familiari, scolastiche o terapeutiche).

Infine, nella balbuzie evolutiva vi è un’alta prevalenza di disturbi di comorbilità, sia linguistici (disturbo fonologico o del linguaggio, disturbo dell’articolazione, disturbi semantici in produzione e in comprensione), sia non linguistici (disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, diverse sindromi genetiche). Numerosi sono poi gli studi che indicano come la balbuzie evolutiva sia associata nell’adulto a distress psicologico, che si manifesta già in adolescenza, principalmente con disturbi d’ansia e, in particolare, con il disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale) che è caratterizzato dalla paura marcata e intensa di una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri. Come risultato, l’esposizione a situazioni temute è tipicamente accompagnata da ansia anticipatoria, angoscia ed evitamento.

Conseguenze psicologiche della balbuzie

Storicamente la balbuzie non era ritenuta degna di attenzione sia in termini di attribuzione di finanziamenti pubblici o privati per la ricerca, sia per quanto concerne la preparazione di medici esperti che potessero offrire programmi di trattamento. Dalla fine del XX secolo fino ad oggi, si è assistito ad un cambiamento significativo sul processo di trattamento della balbuzie e, di conseguenza, sulla qualità della vita delle persone balbuzienti. I bambini e gli adolescenti che balbettano spesso esperiscono vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale, e possono anche essere meno popolari rispetto ai loro coetanei non-balbuzienti. Queste conseguenze negative hanno il potenziale per provocare vergogna ed imbarazzo, scarsa autostima, ritiro sociale e basso rendimento scolastico. Gli adulti che balbettano hanno descritto come la balbuzie possa limitare le iniziative di vita, come ad esempio le scelte della carriera, le promozioni di lavoro, la partecipazione a eventi sociali e lo sviluppo di amicizie.

Altri problemi includono lo sperimentare pensieri ed emozioni negative legate alla comunicazione, stereotipi negativi, pregiudizi e discriminazioni verso coloro che balbettano. La balbuzie tende ad aumentare significativamente quando il soggetto esperisce o anticipa ansia disfunzionale che genera un aumento dell’arousal. La balbuzie sembra infatti variare a seconda delle situazioni comunicative a elevato impatto emotivo nel soggetto, come ad esempio il numero delle persone presenti in un gruppo, la rilevanza assunta dall’interlocutore, la lettura ad alta voce, le conversazioni telefoniche, ecc.

Come definire la balbuzie?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la balbuzie come disturbo specifico dello sviluppo, un disordine nel ritmo della parola per cui il paziente sa con precisione cosa vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà (WHO, 1977).

Tuttavia, definire la balbuzie unicamente come un problema di fluenza equivale ad ignorare l’individuo, i suoi sentimenti e l’importanza che essa ha nella sua vita. Infatti la definizione proposta dall’OMS, sebbene colga le alterazioni della fluenza (sintomi primari), non tiene in considerazione quei comportamenti (sintomi secondari) che accompagnano l’eloquio della persona che balbetta e che tipicamente si manifestano con incapacità di mantenere contatto oculare, strizzamento degli occhi, bruschi movimenti del capo, smorfie del viso, ma anche interiezioni di fonemi, sillabe, parole o frasi senza funzione comunicativa utilizzati come facilitatori della fluenza. I sintomi primari e secondari, insieme, costituiscono le “caratteristiche overt” della balbuzie. Tali caratteristiche si associano spesso a “caratteristiche covert”, ossia ad uno stato di tensione o eccitazione, a emozioni negative come paura, imbarazzo, ira o simili.

Una classificazione completa, che prende in considerazione non solo le “conseguenze della malattia”, ma anche le “componenti della salute” è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF; OMS, 2004). In quanto classificazione, la ICF raggruppa in maniera sistematica diversi domini di una persona in una data condizione di salute (il funzionamento comprende tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione; la disabilità serve come termine per menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della partecipazione). La ICF elenca anche i fattori personali e ambientali che interagiscono con tutti questi costrutti e che descrivono il contesto in cui gli individui vivono.

La ICF si basa, quindi, su un modello biopsicosociale che integra tanto la dimensione corporea, declinata nelle componenti fisiologica e anatomica, quanto la dimensione di attività e partecipazione, sottolineando l’assoluta rilevanza di fattori contestuali nel determinare il funzionamento della persona. Si tratta pertanto di uno strumento di classificazione delle condizioni di salute che getta uno sguardo comprensivo sull’interazione tra la persona e il suo ambiente, che può giungere sia al funzionamento che alla disabilità, a seconda dell’effetto facilitante oppure ostacolante dei fattori contestuali. Nella sindrome balbuzie, infatti, le reazioni cognitive, emotive e comportamentali giocano un ruolo preponderante nel determinare se la persona con balbuzie (menomazione) incontrerà difficoltà nella comunicazione in situazioni di vita quotidiana (disabilità) e il grado in cui tali difficoltà si ripercuoteranno negativamente sulle scelte di vita e sulla possibilità di raggiungere i propri scopi (handicap).

La terapia cognitivo-comportamentale per la balbuzie

La terapia cognitivo-comportamentale è un intervento ampiamente riconosciuto e ben sviluppato, che permette sia di fare fronte al vissuto emotivo della persona che balbetta, sia di estinguere i comportamenti secondari di evitamento. Nel primo caso, l’obiettivo è quello di far sì che la persona che balbetta accetti la possibilità di modificare la balbuzie, controllarla e ridurla e non porsi l’obiettivo irrealistico di sconfiggerla, al fine di darsi il permesso di balbettare senza temere il giudizio dagli altri poiché questo è il solo modo per realizzarsi come individuo.

Come affermato da Ellis, all’interno del modello REBT (Terapia Comportamentale Razionale Emotiva), la reazione emotiva e il comportamento sono in gran parte influenzati dalla visione della realtà dell’individuo, cioè da come si percepisce, interpreta e valuta ciò che accade sovrastimando la probabilità degli esiti negativi nelle situazioni quotidiane. Ellis, pur enfatizzando il ruolo svolto dai processi cognitivi nel determinare le reazioni e gli stati d’animo, riconosce che pensiero, emozioni e comportamento sono aspetti dell’esperienza umana strettamente intercorrelati; utilizzando il modello ABC, si possono identificare i pensieri disfunzionali che generano emozioni nocive e che portano ad attuare comportamenti inappropriati nella persona che balbetta. In questo modo, secondo Ellis, il paziente coglie il fondamento illogico o irrealistico delle proprie affermazioni e può trasformarle e sostituirle con idee funzionali che genereranno un cambiamento emotivo e comportamentale. Sebbene l’evento che attiva il comportamento rimane invariato, la modificazione di tali idee disfunzionali permetterà una gestione emotiva più adeguata.

La maggior parte dei dati disponibili sull’efficacia delle procedure cognitive con i balbuzienti provengono da programmi in cui i partecipanti sono addestrati ad identificare e sistematicamente modificare i pensieri irrazionali legati all’ansia e di utilizzare questa “ristrutturazione cognitiva” in situazioni quotidiane.

Nel secondo caso gli interventi di terapia cognitivo-comportamentale fondamentali utilizzati per estinguere i comportamenti secondari di evitamento e di fuga includono l’esposizione, esperimenti comportali e training attentivi.

L’esposizione consiste nel sottoporre l’individuo ad una situazione che normalmente induce una notevole paura o ansia. All’individuo viene chiesto di affrontare la situazione, senza utilizzare alcuna strategia di fuga o di evitamento, e di rimanere nella situazione finché il livello di ansia comincia a diminuire. Lo scopo di tali procedure è in genere quello di praticare la costruzione della fluenza in situazioni sempre più difficili e temute. L’esposizione è specificamente finalizzata a fornire elementi di prova per contrastare aspettative di minaccia-correlata. Sessioni di esposizione iniziali dovrebbero consistere in situazioni di paura di basso livello, mentre le sessioni successive prevedono compiti più difficili. Ogni situazione temuta o fase del programma di esposizione viene ripetuta finché l’individuo può completarla con relativa facilità. Tipicamente, un programma di esposizione consisterebbe dalle 10 alle 15 situazioni che la persona ha incluso in una “gerarchia di paura” che include l’uso del telefono, parlare con la gente o con persone con più autorità, l’incontro con persone per la prima volta, l’incontro di amici o soci che l’individuo non vede da molto tempo e presentazioni di gruppo. Dopo essersi esposta ad ogni situazione, la persona che balbetta riflette sulla validità delle sue aspettative di pericolo in quella situazione, chiedendosi cioè se i timori che aveva prima di esporsi alla situazione fossero giustificati.

Le paure predominanti riportate nei compiti di esposizione riguardano sia il fatto che i partecipanti balbetteranno, sia una valutazione negativa da parte degli altri. Gli esperimenti comportamentali possono essere fondamentali nel ridurre le stime di probabilità associate alla paura che la persona sarà valutata negativamente a causa della sua balbuzie. Questi esperimenti spesso comportano situazioni sociali in cui si chiede alla persona di produrre balbuzie volontariamente, idealmente in una forma più grave di quanto più tipicamente sperimentata. Come con l’esposizione, questi esperimenti comportamentali devono essere presentati in modo gerarchico, passando da situazioni relativamente non temute verso quelle più temute. Al partecipante viene chiesto di registrare i risultati previsti della balbuzie volontaria prima di impegnarsi nella sperimentazione. I risultati degli esperimenti vengono esaminati e si formano nuove previsioni chiare ed osservabili per esperimenti futuri. Altri esperimenti comportamentali possono essere condotti senza la necessità di balbuzie volontaria. Nella terapia cognitivo-comportamentale, il partecipante è invitato a creare esperimenti per verificare una qualsiasi delle sue previsioni negative del mondo.

L’uso della mindfulness nel trattamento della balbuzie

Procedure basate sulla mindfulness (consapevolezza) sono diventate componenti sempre più popolari dei programmi di terapia cognitivo-comportamentale per l’ansia. Una procedura mindfulness semplice che può essere utilizzata è il training attenzionale, destinato a ridurre la frequenza dei pensieri intrusivi legati alle minacce. Si sostiene che questo si ottiene aumentando la capacità della persona di partecipare a obiettivi cognitivi alternativi. Cioè, per aumentare la propria capacità di controllare dove si trova l’attenzione, la persona può ridurre la propria preferenza verso aspetti negativi del contesto sociale. Nei training attenzionali i soggetti sono seduti in una posizione comoda, con gli occhi chiusi e si richiede loro di concentrarsi su un mantra di conteggio/ respirazione. Su ogni inspirazione l’individuo conta un numero nella sua mente. Su ogni espirazione l’individuo sente la parola “rilassarsi” nella sua mente. Le persone sono addestrate a completare questa semplice procedura di meditazione respirazione due volte al giorno per 5 minuti per ogni sessione. Questo processo di conteggio/respirazione permette sia alla persona di concentrarsi sulle sensazioni fisiche del respiro ad entrare ed uscire dal corpo, che possono così essere monitorate, sia a pensieri, sentimenti e sensazioni che si trovano ad andare e venire senza giudicarli o reagire ad essi, rifocalizzandosi poi sul respiro. Ciò comporta una focalizzazione consapevole su ciò che si sta facendo e l’accettazione su come ci si sente (pensieri, sentimenti, sensazioni fisiche), una focalizzazione dell’attenzione sul respiro e l’espansione dell’attenzione dal respiro al corpo nel suo complesso. Concentrarsi sul respiro è un altro modo per aumentare l’attenzione e la consapevolezza delle sensazioni corporee e fornisce una base per il monitoraggio del processo di produzione del linguaggio per le persone che balbettano.

Quest’ultima procedura rientra in quella che viene chiamata la cosiddetta “terza ondata” della terapia cognitivo-comportamentale che coinvolge gli approcci che si concentrano più sulla consapevolezza, accettazione e comprensione del contesto di pensiero, piuttosto che stimolarne e modificarne il contenuto. Infatti, la mindfulness è un processo di regolazione dell’attenzione in maniera costante rivolto all’esperienza presente, richiede la capacità di spostare intenzionalmente l’attenzione da un aspetto ad un altro di tale esperienza e una qualità di rapportarsi alla propria esperienza in un orientamento di curiosità, apertura sperimentale e accettazione. Il termine “accettazione”, in questa prospettiva, non coincide con passività o rassegnazione ma significa essere capaci di vivere pienamente ogni esperienza senza cercare di modificarne il significato, distorcendolo perché percepito come troppo negativo e senza preoccuparsi eccessivamente per esso, in modo da cogliere ogni singola sfaccettatura e farla propria.

La consapevolezza è un costrutto multiforme che comprende l’osservazione di esperienze interiori ed esteriori (per esempio notando quando il proprio stato d’animo comincia a cambiare), che agisce con la consapevolezza (ad esempio notando il vagare della mente e il diventare distratto quando si fa un’attività) e l’accettazione di fenomeni interni ed esterni (ad esempio non essere giudicante di se stessi nel momento in cui si provano emozioni negative). La mindfulness può rivelarsi uno strumento prezioso per facilitare l’accettazione della balbuzie correlata a comportamenti, pensieri e sentimenti nelle persone balbuzienti. Questa maggiore accettazione può essere correlata alle nuove capacità di coping adattive e ad una miglior qualità di vita, permettendo una minore presenza di comportamenti di evitamento. La mindfulness può essere coltivata attraverso varie forme di meditazione e pratica informale che coinvolge sia l’attenzione focalizzata su qualcosa di specifico (ad esempio il respiro o sensazioni fisiche nel corpo), o di monitoraggio aperto che è un’osservazione attenta a qualsiasi cosa (pensieri, sentimenti, sensazioni) che nasce senza attenzione esplicita su qualsiasi oggetto.

La pratica mindfulness può essere impiegata dalle persone che balbettano nella tecnica dell’esposizione comportamentale e può essere generalizzata a una varietà di situazioni perché non è dipendente dal contesto. Questo permette al soggetto di avere una percezione del controllo indipendentemente dalle circostanze particolari. Attraverso la mindfulness il soggetto osserva i pensieri e le emozioni temute in maniera non giudicante, in assenza di conseguenze negative, al fine di indebolire o estinguere la risposta di paura. Questa accettazione aperta di eventi in genere percepiti come negativi può diminuire i modelli di fuga e di evitamento, aumentando la formulazione delle strategie di coping efficaci. La mindfulness può essere impiegata anche per migliorare la regolazione emotiva, infatti i ricordi di eventi passati negativi e le anticipazioni di eventi futuri temuti sono simulazioni che spesso non vengono distinte dalle situazioni presenti che si stanno affrontando. La ruminazione contribuisce al mantenimento o all’esacerbazione di risposte affettive negative e impedisce un’efficace problem solving. La mindfulness porta alla diminuzioni della ruminazione e questo spiega la riduzione dei sintomi depressivi e ansiosi.

Le emozioni continuano ad essere vissute come si presentano, tuttavia il potenziale di queste emozioni che portano al perpetuare del ciclo di risposte comportamentali disadattative e valutazioni negative si interrompe. La mindfulness permette anche un aumento della consapevolezza metacognitiva e fornisce un meccanismo per interrompere l’interpretazione letterale delle parole e dei pensieri, osservando come questi ultimi siano “solo pensieri”, ovvero passaggi di eventi mentali, piuttosto che riflessioni del tutto accurate della realtà. Cambiare la propria relazione rispetto ai pensieri può coinvolgere diverse strategie, tra cui la visualizzazione di pensieri come immagini intermittenti su uno schermo. Gli script della mente, che si ripetono più e più volte perdono il loro potere una volta che la persona balbuziente si rende conto che un nastro mentale è in fase di riproduzione. Pertanto è opportuno che la persona che balbetta guardi i pensieri andare e venire, li visualizzi come eventi mentali, piuttosto che come fatti che devono essere agiti ora, e scriva i pensieri sulla carta in modo che l’emozione sia meno opprimente e dia il tempo per una risposta più riflessiva, invece di una reazione automatica, guardando a come il pensiero emerso non si adatti con la situazione attuale. Queste strategie possono aiutare la persona a generare pensieri differenti.

Terapia cognitivo-comportamentale per la balbuzie: uno sguardo al ruolo dell’ansia

La difficoltà a mantenere nel lungo termine la fluenza acquisita in terapia sembra essere in parte dovuta ad un marcato livello di ansia sociale che sperimentano le persone che balbettano. Nei balunzienti la presenza di pattner ansiogeni elevati è infatti predittivo degli esiti poco soddisfacenti con il solo trattamento basato sulla fluenza. Infatti, diverse ricerche hanno dimostrato che soggetti che non beneficiavano durante il trattamento di programmi atti a modificare la fluenza verbale e parallelamente a ridurre la malattitudine comunicativa, ottenevano risultati scadenti e non duraturi nel tempo. Inoltre, sembra che vivere emozioni negative come l’imbarazzo sull’utilizzo di tecniche di controllo vocale siano collegati alle recidive. Alcuni studi dimostrano che la ricaduta è meno probabile per le persone il cui trattamento aveva incluso componenti cognitive e affettive rispetto a coloro che non avevano ricevuto questo tipo di trattamento.

Pertanto, appare evidente la necessità di adottare, nel trattamento, procedure atte a ridurre e gestire l’ansia sociale, che si presenta in comorbidità con la balbuzie. L’utilizzo della terapia cognitivo-comportamentale risponde a questa necessità, poiché presuppone l’esistenza di un circuito retroattivo tra cognizione/pensieri e comportamento nel quale i processi cognitivi influenzano il comportamento e il cambiamento comportamentale a sua volta influenza le cognizioni. Nel trattamento dei disturbi d’ansia l’obiettivo diviene, pertanto, quello di modificare questo circuito attraverso l’utilizzo di tecniche quali l’esposizione graduale agli stimoli fobici e la ristrutturazione cognitiva. L’assunto, infatti, è che attraverso l’esposizione allo stimolo temuto il paziente avvertirà in breve tempo una riduzione significativa del livello di ansia e potrà confutare l’irrazionalità dei pensieri disfunzionali legati alla situazione temuta.

In conclusione, la “guarigione” nella balbuzie non si deve riferire al mero raggiungimento della fluenza, ma implica una presa di coscienza che conduce la persona balbuziente a comprendere come la balbuzie non è un fallimento e il parlare fluentemente è la cosa giusta. Inoltre, la presenza di un disturbo d’ansia sociale tra le persone che balbettano ha il potenziale per abbassare la qualità della vita, aumentando i deficit comportamentali nelle situazioni sociali, ostacolando in maniera significativa il funzionamento sociale, scolastico e professionale.

Pertanto, la valutazione ed il trattamento dell’ansia sociale nella balbuzie è di estrema importanza. In particolare gli approcci di trattamento completo sono necessari per affrontare “tutta la persona” che balbetta piuttosto che il solo difetto di pronuncia. Per questo motivo è necessario che psicologi clinici, psichiatri e logopedisti lavorino in maniera congiunta al fine di trovare un equilibrio tra la modificazione della fluenza e lo sviluppare e mantenere sentimenti e attitudini positivi sulla propria verbalità. L’approccio globale alla gestione dei balbuzienti ha il potenziale per migliorare in modo significativo l’impegno in attività sociali, educative e professionali, che a loro volta possono aumentare la qualità della vita e la capacità di creare relazioni significative e soddisfacenti.

Trauma, abuso e violenza (2017) di A. Onofri e C. La Rosa – Recensione del libro

Il libro Trauma, abuso e violenza, uscito nel 2017, è un libro che prima di tutto descrive il concetto clinico di trauma, definizione tutt’altro che scontata e semplice.

 

Antonio Onofri e Cecilia La Rosa scrivono di trauma. Il loro libro, uscito nel 2017, è Trauma, abuso e violenza. Libro che prima di tutto descrive il concetto clinico di trauma, definizione tutt’altro che scontata e semplice. Non è un mistero che per trauma si intendono non solo le situazioni estreme in cui la sopravvivenza è minacciata, ma anche il cosiddetto trauma complesso o condizione traumatica, situazione in cui episodi dolorosi si accumulano nel tempo sfociando in un’esperienza traumatica.

Questo aspetto è stato valorizzato dalla ricerca recente, che ha allargato l’area del trauma; e tuttavia è anche uno dei punti controversi dell’indubbio successo delle teorie del trauma, le quali sostengono che il trauma non sia solo connesso in modo privilegiato al disturbo post-traumatico da stress ma sembra doversi considerare un elemento trasversale di parte significativa della psicopatologia. Questa ipotesi è in parte credibile, in parte espone al rischio di un appiattimento teorico, clinico e terapeutico.

Tuttavia non è questa la sede giusta per discutere questo rischio. Qui è preferibile esporre la bontà del libro Trauma, abuso e violenza di Onofri e La Rosa, libro completo ed esaustivo. Alla sezione sulla definizione di trauma seguono i capitoli sui fattori protettivi e sui fattori di rischio al trauma e le conseguenze cliniche, comportamentali e neurologiche. Queste ultime si rifanno alla teoria polivagale di Stephen Porges.

La sezione finale del libro Trauma, abuso e violenza è dedicata alle terapie, tra le quali emergono la cognitivo-comportamentale e la cosiddetta EMDR che sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing. Questa terapia si sta affermando come trattamento di elezione per il disturbo post-traumatico da stress ed è esposta con chiarezza nei suoi principi clinici e terapeutici da Onofri e La Rosa. Come è noto, l’EMDR è una procedura clinica molto formalizzata che comprende varie fasi specifiche, composte di elementi comuni con altre terapie, come la relazione terapeutica e la psico-educazione, di elementi specifici, che sono le stimolazione tramite induzione di movimenti oculari o di altro tipo, e gli elementi provenienti da altri paradigmi clinici: l’accertamento cognitivo, la ristrutturazione cognitiva, l’esposizione comportamentale graduale, l’abreazione, le libere associazioni, le metafore e le tecniche ipnotiche.

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