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Effetti negativi, a lungo termine, in bambini esposti a violenza domestica psicologica

L’esposizione dei minori alla dimensione psicologica degli abusi domestici è quella che ha un impatto negativo più rilevante sul loro benessere psicologico. Invece, l’esposizione alla dimensione fisica non ha avuto alcun effetto negativo aggiuntivo su tale benessere.

 

Recentemente è stata pubblicata su Journal of Interpersonal Violence una ricerca scientifica dell’Università di Limerick (UL), in Irlanda, svolta da Catherine Naughton, Aisling O’Donnell e Orla Muldoon.

Per lo studio sono state prese in considerazione due ipotesi di ricerca: la prima atta ad indagare se l’esposizione alle dinamiche di violenza domestica e abuso (DVA) includano due distinti fattori; la seconda per verificare se l’esposizione alla violenza domestica fisica (DF) e l’esposizione all’ abuso domestico psicologico siano correlati con:

a) il benessere psicologico

b) con la soddisfazione del sostegno sociale (soddisfazione percepita con il supporto emotivo).

Hanno preso parte allo studio studenti tra i 17-25 anni (N = 465) di cui il 70% femmine. I ragazzi hanno riportato le loro esperienze di DVA come perpetrate dai loro genitori o tutori ed è stato valutato il benessere psicologico e la soddisfazione del sostegno sociale mediante un sondaggio online.

La ricerca di Naughton ha esaminato come l’esposizione dei bambini alla violenza domestica e agli abusi possa provocare effetti a lungo termine. L’abuso psicologico può includere: intimidazione, insulti, isolamento, manipolazione e controllo; mentre l’abuso fisico può comprendere: colpi, pugni, calci e uso di un’arma.

Esposizione alla violenza psicologica: i risultati della ricerca

I risultati hanno evidenziato come crescere in un ambiente caratterizzato dalla costante presenza di violenza domestica e abuso, abbia degli effetti dannosi a lungo termine sul benessere dei bambini. Sono state segnalate due diverse esperienze dai ragazzi rispetto alla loro esposizione alle dinamiche di violenza domestica e abuso. Questi due fattori distinti, tuttavia correlati, possono essere considerati come dimensioni fisiche e psicologiche della DVA.

Utilizzando l’analisi fattoriale confermativa (CFA), è stata verificata la presenza di un modello a due fattori (DVA fisico e psicologico). L’analisi della regressione gerarchica ha dimostrato l’impatto differente tra questi due fattori: in particolare, l’esposizione alla DVA psicologica (abuso domestico) era correlato con una riduzione del benessere psicologico mentre non si è evidenziato nessun effetto significativo con l’esposizione alla DVA fisica. Dunque, uno degli aspetti interessanti di questa ricerca è la dimostrazione che l’esposizione dei ragazzi alla dimensione psicologica degli abusi domestici è quella che ha un impatto negativo più rilevante sul loro benessere psicologico. Invece, l’esposizione alla dimensione fisica non ha avuto alcun effetto negativo aggiuntivo su tale benessere.

Naughton afferma:

“Sappiamo che il sostegno sociale è importante per il recupero dei traumi infantili, ma i nostri risultati dimostrano che l’esposizione ad alti livelli di abuso domestico psicologico è associato ad una diminuzione della soddisfazione dei ragazzi per il loro supporto sociale. D’altro canto, abbiamo anche scoperto che l’esposizione ad elevati livelli di violenza domestica fisica ha un effetto protettivo, in termini di soddisfazione per il sostegno sociale, per coloro che sono altresì esposti a elevati livelli di abuso psicologico intra-parentale. Quando i bambini sono esposti alla violenza fisica in casa, così come all’abuso domestico psicologico, hanno maggiori probabilità di essere in qualche modo più felici per il sostegno sociale a cui possono accedere. L’abuso domestico psicologico quando si verifica da solo sembra essere più dannoso, forse perché le persone non sono in grado di riconoscerlo e di parlare di esso “.

Questa ricerca esamina l’impatto degli abusi psicologici domestici sulla crescita dei bambini irlandesi, ma mostra anche la necessità di svolgere ulteriori ricerche per valutare gli impatti dell’esposizione a tutti i vari tipi di violenza domestica e degli abusi sui ragazzi.

Competenze genitoriali: la Funzione Riflessiva nei casi di separazione

La Funzione Riflessiva spesso risulta essere fortemente compromessa nelle situazioni familiari altamente conflittuali, ad esempio nelle situazioni di separazione e divorzio, in cui spesso la rabbia e il rancore dei coniugi si riversano sul rapporto con i figli.

Giorgia Zecchino

 

Statistiche recenti evidenziano un numero crescente di casi di separazione e divorzio nella nostra società. Ciò ha portato alla conseguente necessità di occuparsi di questi eventi avvalendosi di approcci multidisciplinari: sociali, giuridici e psicologici.

Spesso la separazione è caratterizzata da alti livelli di conflittualità, così da inserire il minore in processi familiari disfunzionali e di triangolazione che potrebbero mettere a rischio il suo sviluppo psicofisico e sociale.

Spesso i coniugi essendo invischiati in dinamiche di rabbia, astio e rancore non riescono a giungere ad un accordo in merito alla divisione dei beni e all’ affidamento dei figli. Si parla quindi in questi casi di separazione giudiziale, in cui il giudice, con l’ausilio della consulenza tecnica, si trova a fare una valutazione dei fattori di rischio e di protezione connessi alle competenze genitoriali per decidere sulle migliori condizioni di affidamento dei figli.

La Consulenza Tecnica in casi di separazione si pone l’obiettivo di verificare l’idoneità genitoriale attraverso alcuni criteri scientifici tra cui il Criterio della Riflessività: ovvero la capacità, in entrambi i genitori, di attivare riflessioni ed elaborazioni di significati relative agli stati mentali dei loro figli, alle loro esigenze evolutive e alle relazioni familiari che li coinvolgono, in rapporto ai reciproci pattern di attaccamento. (Camerini, Volpini, Lopez, 2011)

Lo studio della Funzione Riflessiva nei casi di separazione

La valutazione di questo criterio avviene attraverso lo studio della c.d. Funzione Riflessiva, concetto proposto da Fonagy, il quale fa riferimento a quell’insieme di processi psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare (Fonagy, Steele, Steele, Target, 1998), intesa anche come capacità di astrazione e di consapevolezza riflessiva, la quale si pone al centro di molte formulazioni psicoanalitiche e della psicologia cognitiva e dello sviluppo.

La Funzione Riflessiva è descritta da Fonagy come:

La funzione mentale che organizza il nostro e altrui comportamento in termini di costrutti dello stato mentale. […] Riguarda la conoscenza della natura di quelle esperienze che danno origine a certe credenze ed emozioni, dei possibili comportamenti che permettono di conoscere credenze e desideri, delle relazioni prevedibili tra credenze ed emozioni e dei sentimenti caratteristici di particolare fasi dello sviluppo o relazioni. (Fonagy, Target, 2001, p. 103)

La Funzione Riflessiva è dunque definibile come quella funzione mentale che organizza il nostro comportamento e di quello altrui. Si tratta di un’acquisizione evolutiva che permette al bambino di rispondere non solo al comportamento degli altri, ma anche alla sua concezione dei loro sentimenti, credenze e aspettative. Attribuendo stati mentali, il bambino rende in questo modo significativo e prevedibile il comportamento degli altri e sarà in grado di mettere in atto, in modo flessibile, il comportamento più appropriato, tale da poter rispondere in modo adattivo ai vari scambi interpersonali. Questo, grazie anche ai vari modelli rappresentazionali sé-altro, costruiti in base alle precedenti esperienze relazionali.

La Funzione Riflessiva e la solidità di questa capacità determina non solo la natura della realtà psichica dell’individuo, ma anche la qualità e la coerenza della parte riflessiva del Sé, che si ritiene ne costituisca il nucleo strutturale. Genitori che non riescono a riflettere in maniera comprensiva sull’esperienza interna dei figli e non sanno rispondere adeguatamente, negano al bambino una struttura psicologica centrale indispensabile per costruire un vitale senso di Sé. Per Fonagy, il fattore determinante è la capacita della madre di contenere mentalmente il bambino e di rispondergli (Ammaniti, Dazzi, 1999).

Secondo Fonagy (2001) infatti, il primo ambiente relazionale è fondamentale; egli sostiene che la sicurezza dell’attaccamento alla madre è un buon indice predittivo concorrente della capacità riflessiva del bambino.

La carenza della Funzione Riflessiva sembra essere quindi fortemente legata al fallimento della Funzione Riflessiva genitoriale e alla disfunzione del sistema relazionale familiare (Boldoni, 2008) e in questi casi al bambino non viene permesso di crearsi un Sé riflessivo e per questo potrebbe mettere in atto comportamenti di evitamento e aggressività (Concato, 2006).

Dalle suddette osservazioni è evidente quindi come lo sviluppo di una mente mentalizzante può risentire in modo negativo dell’influenza esercitata da un ambiente familiare ostile e/o carente.

In questo modo i soggetti traumatizzati dall’ambiente familiare sono vulnerabili sia in termini di effetti maladattivi a lungo termine, sia in termini di ridotta capacità di recupero di fronte a questi fatti. Tale atteggiamento “non mentalizzante”, messo in atto in queste circostanze, crea serie difficoltà al soggetto con il conseguente rischio di compromettere anche le relazioni interpersonali. Nello specifico, l’idea di trattare la Funzione Riflessiva in questa sede nasce dal fatto che essa spesso risulta essere fortemente compromessa nelle situazioni familiari altamente conflittuali, ad esempio nelle situazioni di separazione e divorzio.

In queste situazioni le competenze genitoriali subiscono un duro attacco creando conseguentemente delle ripercussioni sullo sviluppo del Sé del bambino se non affrontate in modo adeguato. Si tratta di casi caratterizzati da altissimi livelli di rabbia, tali da far mettere in atto tra i coniugi uno stile comunicativo con conseguenze prettamente distruttive che portano ad una chiusura emotiva della persona. Ciò amplifica le difficoltà nella coppia a mettere in atto strategie risolutive costruttive (Ardone, Chiarolanza, 2007).

La separazione, infatti, se non affrontata in modo adeguato, è un evento che mina fortemente la percezione della propria identità; per questo motivo, quindi, il conflitto tra le due parti, nei contesti giudiziari, tende a trasformarsi come momento di rivalsa verso l’ex coniuge, mettendo in secondo piano il benessere psicologico dei figli e affrontando purtroppo la separazione in un modo assolutamente non riflessivo.

Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)

Uno spettro si aggira per il mondo della psicoterapia, ed è lo spettro del trauma. Lo diciamo scherzosamente, ma anche seriamente. Il ruolo del trauma nella sofferenza emotiva ha una storia lunga e complessa. Questo concetto entra ed esce dai vari modelli teorici e terapeutici, ora rifiutato e definito ininfluente, ora posto al centro del processo patologico. E questo accade in tutti gli orientamenti. È accaduto nella psicoanalisi e ora sta accadendo nel cognitivismo clinico, in particolare italiano.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Il trauma: dal primo Freud alla teoria degli stati dissociativi

Tutti sappiamo che il primo modello freudiano era traumatico. Un’esperienza traumatica reale e sessuale era, per Freud, alla base della sofferenza delle isteriche che arrivavano nel suo studio viennese.

Poi Freud cambiò idea e tutto diventò pulsione e fantasia. La pulsione sessuale mal governata diventò la base della sofferenza mentale e i traumi non furono più reali ma frutto di fantasie, sostanzialmente falsi ricordi. Insomma il ricordo del trauma era la conseguenza e non più la causa di impulsi sessuali non controllati dalla coscienza.

Il trauma finì per rifugiarsi nella psicologia francese, quella che da Pierre Janet in poi ha generato la teoria degli stati dissociativi su base traumatica. È una storia interessante. La teoria della dissociazione fu messa da parte ma in qualche modo continuò a operare e a crescere grazie a autori sottovalutati, non solo Janet ma ancor prima il neurologo John Hughlings Jackson alla fine dell’ottocento, per proseguire con Henry Ey nel secolo scorso e più recentemente con Stephen Porges, Dan Siegel e, in Italia, Gianni Liotti e Benedetto Farina.

Tutti questi modelli sottolineano la complessità del sistema nervoso, la difficoltà che ha la mente nel compiere operazioni integrative di livello sempre più alto, dai semplici archi riflessi percettivi motori fino alle funzioni autoriflessive e metacognitive più sofisticate, in cui la mente rappresenta se stessa nell’atto stesso di pensare e di integrare le informazioni. Per tutti questi autori queste operazioni integrative complesse sono sempre ad alto rischio di rottura, di disintegrazione ed è questa disintegrazione che poi porta alla sofferenza emotiva.

E da cosa dipende questa rottura, questa disintegrazione? Dagli eventi traumatici, da quegli eventi in cui la persona affronta una situazione di pericolo estremo nella quale il suo senso di integrità, sicurezza e identità sono messe seriamente in discussione. Un evento del genere ferma il processo di crescita mentale e impedisce la possibilità che le funzioni integrative superiori maturino.

Questi modelli sono indubbiamente utili e spiegano gli stati di sofferenza che conseguono a situazioni estreme. Il caso migliore è il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

 

Trauma cumulativo, trauma piccolo… quando un modello specifico è posto a chiave di lettura universale

Il problema è, come al solito, quando un modello smette di limitarsi a spiegare solo alcuni disturbi e aspira a una spiegazione universale dell’intera sofferenza emotiva.

Ecco quindi che il significato di trauma tende a estendersi sempre di più. Si passa dal trauma incontrovertibile, quello in cui la stessa sopravvivenza fisica è stata messa in pericolo, al trauma cumulativo, il susseguirsi di eventi dolorosi, nessuno di loro in sé traumatico ma che lo diventano appunto per accumulo. Oppure il neglect, la trascuratezza, la freddezza e la deprivazione emotiva. Insomma, una serie di circostanze che vanno sotto il nome di “trauma piccolo”.

Non che non esistano anche queste condizioni di trauma piccolo e ripetuto, potenzialmente altrettanto devastanti di un unico episodio estremo. Solo che questo tipo di trauma è comunque meno facilmente definibile e distinguibile da una più comune esperienza di sofferenza umana ed esistenziale. Esplorare questo tipo di trauma minore è un ottimo obiettivo scientifico, ma può anche prestarsi a scorrettezze cliniche e anche pratiche.

 

Il ritorno del trauma nella riflessione clinica

Insomma, per varie ragioni stiamo assistendo a un ritorno del trauma nella riflessione clinica. L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress.

Esageriamo? Noi non crediamo. La credenza, che si sta diffondendo, che per il trauma la terapia cognitiva non sia più il trattamento di elezione è quanto meno prematura. L’esaustiva rassegna di Nathan e Gorman (“A Guide to Treatments that Work”) riporta che mentre nessun trattamento si è ancora affermato come chiaramente efficace, molti però hanno ottenuto delle conferme parziali e tutte da verificare. E tra questi c’è ancora una volta la terapia cognitivo-comportamentale, e anche la principale terapia focalizzata su trauma e dissociazione, ovvero l’EMDR, (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). L’EMDR, tuttavia, nell’aura del trauma non risulta essere superiore alla terapia cognitivo-comportamentale. E al di fuori del trauma è meno efficace.

 

Il successo delle terapie per il trauma

E allora perché questi crescente successo? A nostro parere per varie ragioni, alcune culturali e altre pratiche.

Le ragioni culturali risiedono nella visione naif che abbiamo tutti noi della psicologia. Al cinema e in letteratura trauma e psicologia vanno a braccetto. Anche nella nozione popolare molti sono convinti che la psicoanalisi sia ancora una teoria del trauma mentre l’enfasi sulle fantasie soggettive è sempre stata poco capita dal grande pubblico. Il termine “rimozione” tende a far pensare al profano che si tratti di un qualche trauma rimosso, mentre a essere precisi per Freud ciò che era rimosso era il desiderio sessuale.

La terapia cognitiva nasce lasciando poco spazio al trauma, forse davvero troppo poco. Questo difetto iniziale forse spiega anche la recente ondata di interesse per il trauma negli ambienti della terapia cognitiva. In Beck e in Ellis l’eccesso di disinteresse per la storia personale con o senza trauma del paziente ha finito per pesare. Prima in Italia con Guidano e Liotti e poi all’estero con Jeffrey Young si è cercato di rimediare a questa trascuratezza. Tuttavia, soprattutto in Liotti e in Young, ci sembra che l’interesse per la storia personale del paziente abbia generato uno scompenso nella direzione del trauma.

La storia personale è finita per diventare una storia per definizione traumatica. E la terapia è diventata sempre più emotiva, relazionale e difficile da definire e replicare in procedure protocollari.

 

EMDR e Sensorimotor: tecniche fisiche, corporee, riproducibili

Questa fumosità dell’intervento relazionale ed emotivo stava già per causare la crisi del modello dissociativo, quando sono emerse nuove terapie che sono riuscite a superare il vicolo cieco del relazionalismo, movimento in cui le procedure sono troppo poco riducili in protocolli. Le nuove terapie, come ad esempio la Sensorimotor Psychotherapy (Ogden & Fisher, 2015) o la Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Shapiro, 2001) hanno puntato su procedure di tipo fisico, corporeo ed esperienziale riproducibili.

In questo modo ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinate ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico. Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile. Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione.

Non è così per le tecniche senso-motorie o EMDR. Questa potrebbe essere la ragione definitiva che sta dando forza e popolarità al trauma come concetto centrale di un nuovo paesaggio psicopatologico. In fondo i protocolli cognitivi sono sempre stati difficili da eseguire, con la loro enfasi sull’intervento verbale. Parlando, è sempre facile perdersi dietro ai racconti del paziente.

Un intervento di tipo fisico, invece, lascia molto più controllo nelle mani del clinico. Un esercizio sensorimotor o EMDR non può essere modificato  a piacimento dal paziente o sottilmente boicottato menando il can per l’aia e tantomeno interrotto. Le interruzioni e le digressioni operate dal paziente che ci fanno uscire dai protocolli cognitivi spesso sono invece date per scontate, sottovalutate e temute. Abbiamo paura di rovinare la relazione terapeutica (sempre lei!) se le bloccassimo. Invece nel non verbale comandiamo noi terapisti con maggiore naturalezza.

Benvenuta quindi questa nuova attenzione alle procedure di tipo esperienziale e corporeo che ci portano queste nuove terapie per il trauma. Benvenute se ci insegnano più attenzione ai protocolli. Attenzione però a non perdere definitivamente un patrimonio di tecniche verbali non sempre ben padroneggiate e ora a rischio definitivo di deterioramento, fino all’oblio.

 


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017
  10. Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio – 24 Luglio 2017

Gravità dei disturbi di personalità e funzionamento metacognitivo e interpersonale – Riccione, 2017

Gravità dei disturbi di personalità e funzionamento metacognitivo e interpersonale

Biagiolini M., Cataldi S., Fabbri C., Miraglia Raineri A., Guerra R., Taddei S., La Mela C.

 

Il presente lavoro nasce con l’obiettivo di indagare la relazione fra gravità dei disturbi di personalità (DP) e funzionamento metacognitivo e interpersonale.

La gravità dei disturbi di personalità è stata concettualizzata da alcuni autori secondo un criterio quantitativo, ovvero in base al numero di tratti presenti (Dimaggio et al. 2013 ; Yang et al 2010), mentre da altri autori è stata definita in relazione alla co-occorrenza di tratti di personalità appartenenti a cluster diversi (Tyrer,2005).

Poiché, in letteratura, non vi sono chiare evidenze circa il rapporto tra gravità del disturbo di personalità (intesa come co-occorenza di tratti) e funzionamento metacognitivo, così come non è ancora stato messo in luce il rapporto esistente tra co-occorenza di tratti appartenenti a cluster diversi e funzionamento metacognitivo ed interpersonale, l’obiettivo della nostra ricerca è indagare la relazione tra gravità del disturbo di personalità definita dalla co-occorrenza di tratti appartenenti a cluster diversi e il funzionamento metacognitivo ed interpersonale.

La variabile gravità è stata operativizzata considerando il grado di co-occorrenza di tratti afferenti a cluster diversi. Il grado di co-occorrenza è stato distinto in tre livelli: “assente” quando erano presenti tratti afferenti ad un solo cluster; “moderata” quando erano presenti tratti afferenti a due cluster e “alta” quando erano presenti tratti afferenti a tre cluster.

Lo studio è stato condotto su un gruppo di 32 soggetti, afferenti al Centro Clinico della Scuola Cognitiva di Firenze (SCF), affetti da Disturbo di Personalità ai quali è stata somministrata una batteria di strumenti per la valutazione dei disturbi di personalità, del funzionamento metacognitivo ed interpersonale.

Dai risultati del presente lavoro emerge che i pazienti che presentano una più alta co-occorenza di tratti di personalità su cluster diversi, hanno un peggior funzionamento metacognitivo nella comprensione della mente altrui, presentando una maggiore difficoltà ad identificare le emozioni e i pensieri dell’altro. Questo studio esplorativo ha evidenziato, inoltre, un trend della relazione tra alto grado di co-occorrenza e peggior funzionamento interpersonale, pur non riportando con quest’ultimo, una relazione statisticamente significativa.

Da questo studio pilota emerge l’importanza di approfondire e valutare se il grado di co-occorrenza possa essere considerato un indicatore di gravità dei disturbi di personalità: esso potrebbe rappresentare un importante fattore prognostico per quanto riguarda la risposta al trattamento e il tasso di drop-out e permettere dunque al clinico, di elaborare piani di trattamento maggiormente specifici e adeguati, tenendo in considerazione il possibile scadimento delle funzioni meta cognitive e del funzionamento interpersonale all’aumentare della gravità del disturbo di personalità.

To do list: do a list! – Dare un ordine ai compiti da svolgere ci rende più produttivi?

Diversi studi hanno dimostrato che scrivere una lista delle cose da fare aumenta le probabilità di eseguirle, incidendo positivamente sulla produttività. Ma perché la lista si rivela uno strumento efficace?

 

Come ha notato Louise Chunn, la maggior parte di noi combatte ogni giorno una piccola battaglia con le innumerevoli cose da fare, lasciandosi spesso sopraffare dal solo pensiero di ciò che ci aspetta. Soluzione migliore sarebbe la cosiddetta “to do list”, una lista scritta delle cose da fare. Si tratta di un sistema che consente di organizzare il tempo a disposizione e che prevede diversi step funzionali: scrivere i compiti, eseguirli e, volta per volta, eliminarli dalla lista.

Un principale sostenitore di questa idea è lo psicologo David Cohen, il quale afferma in un suo articolo che la “to do list” lo ha aiutato a dare un senso al caos della vita quotidiana. Le ragioni per le quali la lista funzionerebbe sono tre: riduce l’ansia originata dal pensiero di ciò che bisogna fare, fornisce uno schema organizzativo da seguire e si configura come una prova inconfutabile di quanto realizzato quel giorno, mese o anno.

E’ stata la psicologa russa Bluma Zeigarnik ad interessarsi circa l’ossessione del cervello per le cose da fare. Dai suoi studi sull’argomento deriva il famoso “effetto Zeigarnik”, ovvero la tendenza a ricordare maggiormente le cose che sappiamo di dover fare rispetto a quelle che abbiamo già svolto. La psicologa ha notato la presenza di tale effetto in camerieri che ricordavano un ordine soltanto fin quando servivano i piatti, spazzandone via il ricordo subito dopo: il cervello era pronto per ricevere un altro ordine!

Per quanto riguarda le ricerche più recenti, uno studio di Baumeister e Masicampo, professori dell’università Wake Forest, ha dimostrato che elaborare un piano dei compiti da svolgere ci rende meno preoccupati rispetto a quando non abbiamo un programma definito da seguire. Infatti, i partecipanti all’esperimento riuscivano a svolgere adeguatamente la loro performance soltanto se avevano pianificato concretamente come portare a termine l’attività preparatoria precedente.

Il semplice fatto di scrivere una lista ci renderebbe più efficienti; tuttavia alcune persone ritengono che questo sistema ostacoli le proprie creatività e flessibilità. Ciò è in contrasto con quanto ritiene David Allen, esperto di management e famoso per il suo libro sulla produttività priva di stress. Non basta scarabocchiare parole-chiave su un post-it, c’è bisogno di informazioni dettagliate, chiare e precise. Oltre ai dettagli, è importante considerare il tempo necessario a svolgere ogni attività e quanto si è suscettibili alle distrazioni, in modo tale da ideare una lista realistica. Un errore commesso da molti è quello di evitare di svolgere i compiti più impegnativi e consistenti; errore evitabile suddividendo il compito in blocchi più piccoli. Per esempio, prefiggersi di scrivere in un giorno il primo capitolo di un romanzo piuttosto che il romanzo intero aumenta le probabilità di raggiungere l’obiettivo.

Nonostante l’importanza della “to do list” sostenuta fermamente da Cohen, l’autore non ha sempre tenuto fede al patto di pianificare ed eseguire ogni attività giorno per giorno. Il solo fatto di aver scritto 35 libri sui temi più svariati, però, ci suggerisce che scrivere liste dà sicuramente ottimi risultati!

 

 

 

La tomografia a emissione di positroni (PET) – Introduzione alla Psicologia

La tomografia a emissione di positroni, nota con l’acronimo PET, dall’inglese “Positron Emission Tomography“, è uno degli strumenti di neuroimaging più innovativi, e può essere applicato in diversi ambiti diagnostici e di ricerca. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La PET e SPECT (tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli, single photon emission computed tomography), sono largamente impiegate nella pratica clinica specialmente in neurologia, poiché consentono una dettagliata analisi a livello dell’attività metabolica del sistema nervoso centrale, e di conseguenza una accurata diagnosi precoce di molte importanti patologie.

A differenza della radiografia, della TAC e della risonanza magnetica strutturale, strumenti che restituiscono immagini prettamente anatomiche di alterazioni morfologiche sul distretto cellulare analizzato, la PET fornisce informazioni di tipo funzionale, ovvero determina quali zone del corpo metabolizzano maggiormente un tracciante, sostanza che permette di rilevare con maggiore precisione un’area che funziona di più rispetto ad altre. Per alcuni aspetti la PET è simile alla Risonanza Magnetica funzionale, ma le informazioni fornite sono più dettagliate e accurate.

 

Le procedure della PET

La procedura inizia con l’iniezione di un radiofarmaco al paziente a cui è chiesto di attendere il verificarsi dell’effetto dello stesso. Durante l’attesa, si raccomanda al paziente di stare fermo e di non parlare, per evitare fattori confondenti dovuti alla intercettazione del tracciante da parte degli organi corporei. Al paziente è chiesto, successivamente, di bere molta acqua e di urinare, al fine di eliminare il tracciante iniettato.

Successivamente, si procede al posizionamento del paziente sul lettino all’interno dello scanner PET. Da questo momento in poi la procedura è simile a quella di un esame TAC o RM: il paziente è sdraiato supino, con le braccia sopra il capo, per permettere una migliore visualizzazione di fegato e polmoni.

Nella PET, solitamente, l’acquisizione avviene dalla testa ai piedi, ma nella pratica clinica tutte queste modalità possono essere modificate a seconda del tipo di indagine da realizzare.

Le immagini acquisite sono successivamente ricostruite tramite un software che consente l’ottenimento della tridimensionalità.
Il tempo necessario all’espletamento delle acquisizioni delle immagini varia dai 20 ai 40 minuti.

 

Il Meccanismo di funzionamento della Pet

Durante la PET al paziente è somministrato per via endovenosa un radio-isotopo emettente positroni (radiofarmaci e/o traccianti, ovvero sostanze radioattive) che rilasciano, dunque, particelle chiamate positroni.

Lo scopo è indagare le caratteristiche funzionali degli organi e degli apparati nei quali il radiofarmaco si localizza. Quindi, dopo essere stato somministrato, il radiofarmaco si distribuisce nel corpo del paziente permettendo di ottenere delle immagini dettagliate della regione di interesse.
I radiofarmaci sono molecole che contengono al loro interno un atomo radioattivo e possono essere utilizzati sia a scopo diagnostico sia terapeutico. Un radiofarmaco è formato da due componenti: il carrier, ossia una molecola con funzioni biologiche di trasporto, ed il nuclide radioattivo: il primo consente di condurre il radionuclide fino all’organo o all’apparato di interesse, mentre il secondo permette la distribuzione nell’organismo del radiofarmaco.

Il radiofarmaco ha un’emivita breve e si lega chimicamente a una molecola che si mostra più attiva a livello metabolico (vettore). Uno dei radiofarmaci più utilizzato è il fluorodesossiglucosio (glucosio radioattivo o marcato), che, dopo essere stato introdotto nell’organismo, ha la caratteristica di essere assunto dalle cellule allo stesso modo del glucosio. La maggior parte dei processi biologici che richiedono energia utilizzano il glucosio e per questo tale sostanza è considerata un ottimo marcatore di tutti i processi cellulari in attiva proliferazione, in particolar modo nel cervello.

Dopo un tempo di attesa, durante il quale la molecola del fluorodesossiglucosio raggiunge una determinata concentrazione all’interno dei tessuti organici da analizzare, il soggetto viene posizionato nello scanner. Di conseguenza, la sostanza iniettata dopo pochi secondi decade, emettendo un positrone. Dopo un percorso, che può raggiungere al massimo pochi millimetri, il positrone si annichila con un elettrone, producendo una coppia di fotoni gamma  emessi in direzioni opposte tra loro (fotoni “back to back”).

Questi fotoni sono rilevati dalla macchina nel momento in cui raggiungono uno scintillatore, presente nel dispositivo di scansione della PET, dove creano un campo luminoso, rilevato attraverso dei tubi fotomoltiplicatori.
Il fulcro della PET è la rilevazione simultanea di fotoni in una determinata area ovvero quella più attiva a livello metabolico.
Lo scanner rileva attraverso delle immagini di sezioni, generalmente trasverse, separate fra loro e grandi 5 mm circa, l’area oggetto di studio. Si ottiene, in questo modo una mappa che rappresenta i tessuti in cui la molecola radioattiva si è maggiormente concentrata.

 

Limiti e rischi della PET

Il limite principale della PET è l’incapacità di intercettare aree in cui si ha una scarsa attività metabolica, quindi lesioni molto piccole non possono essere rilevate.
Un altro limite è la scarsa risoluzione spaziale, problema superato di recente con l’introduzione delle PET-CT, cioè l’associazione di alcune scansioni TAC all’esame PET, al fine di migliorare l’accuratezza delle immagini.
La PET, chiaramente, è un esame che espone a delle radiazioni ionizzanti, emesse dal tracciante e per questo, è un esame che dovrebbe essere eseguito solo in caso di un fondato sospetto clinico, visto l’elevato costo biologico, in termini di radiazioni ionizzanti. Inoltri, i costi del macchinario e dell’esame stesso sono molto elevati.

 

Applicazioni cliniche e di ricerca della PET

La PET consente di distinguere, in maniera estremamente precisa, la presenza di evidenti lesioni in tutto il corpo e in particolare nell’encefalo.
In ambito di patologia cerebrovascolare la PET consente di eseguire il monitoraggio in vivo dei fenomeni che dall’ischemia portano all’infarto cerebrale con necrosi tessutale, di individuare schemi dell’attività metabolica correlabili alla malattia di Alzheimer, alla depressione, alla malattia di Parkinson, e ai deficit cognitivi.

Inoltre, la PET è utilizzata anche nella ricerca poiché permette di ottenere misure fisiopatologiche in vivo. La possibilità di studiare aspetti funzionali quali il flusso ematico cerebrale, il consumo di ossigeno, ha consentito notevoli progressi nel campo delle neuroscienze.
Con l’impiego di traccianti a breve emivita è anche possibile studiare l’attivazione di specifiche aree cerebrali durante l’esecuzione di precisi compiti cognitivi. Si identifica, in questo modo, l’anatomia funzionale dei processi a carico di aree imputate al linguaggio, all’attenzione, alla visione, alla memoria e alla programmazione del movimento.

Tutto questo, consente di acquisire nuove conoscenze in termini operativi e funzionali rispetto alle modalità attuate dal cervello su come avviene il processamento e l’elaborazione dell’informazione in entrata e in uscita.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Processi metacognitivi nel narcisismo overt e covert – Riccione, 2017

Processi metacognitivi nel narcisismo overt e covert

A.L. Bitonti, C. Corbelli, D. Damiani, F. Fiorilli, S.H. Garzo, L. Salvadori

 

Introduzione

Negli ultimi anni sono state studiate dettagliatamente le caratteristiche personologiche alla base del narcisismo, ponendo attenzione agli aspetti metacognitivi e alle dinamiche interpersonali.

Wink nel 1991 ha identificato due forme di narcisismo definite “narcisismo overt” (NO) e “narcisismo covert” (NC). Quando è manifesta, la grandiosità narcisistica porta a un’espressione diretta di esibizionismo e di autoesaltazione e ad una forte preoccupazione per l’attenzione e l’ammirazione da parte degli altri. La seconda forma di narcisismo, il narcisismo covert, è caratterizzato da sentimenti celati di grandezza che però si manifestano come mancanza di fiducia in se stessi e d’iniziativa e sentimenti di depressione. Il narcisista covert sembra essere ipersensibile, ansioso, timido e insicuro, ma se osservato da vicino sorprende con le sue fantasie grandiose.

Studi recenti (Given-Wilson e coll., 2011), analizzando le dimensioni metacognitive e interpersonali che caratterizzano il quadro narcisistico, hanno confermato l’esistenza di queste due forme di narcisismo statisticamente indipendenti, le quali si differenziano per quanto riguarda i pattern di disregolazione emotiva, empatia e difficoltà interpersonali.

E’ di notevole rilevanza, sia psicodiagnostica sia clinica e dunque di intervento, esaminare i profili del Narcisismo Overt  e del Narcisismo Covert, approfondendone gli aspetti metacognitivi che li caratterizzano.

Pertanto, gli obiettivi del presente studio sono:
– Studiare i profili metacognitivi delle due forme di narcisismo.
– Analizzare le differenze tra Narcisismo Overt e Narcisismo Covert per quanto riguarda i processi metacognitivi; in particolare metacredenze, efficienza metacognitiva, bisogno di controllo dei propri pensieri, autoconsapevolezza cognitiva e ruminazione rabbiosa.

 

Biglietto a/r destinazione: mamma – Alla scoperta dell’attaccamento e del comportamento materno tra le diverse specie animali

In questo articolo verranno illustrati gli aspetti neurochimici del comportamento materno: saranno analizzate le variazioni che la risposta materna ha subito nel corso dell’evoluzione, a partire dai mammiferi small-brained, nei quali il controllo neuroendocrino esercita un ruolo quasi esclusivo sul comportamento materno, fino ad arrivare ai mammiferi large-brained, nei quali si riscontra un coinvolgimento sempre maggiore della neocorteccia.

Valeria Fiocco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Inoltre, il comportamento affiliativo fa parte di un elaborato sistema che prevede l’interazione tra diversi neuropeptidi, come dopamina, ossitocina e oppiacei endogeni. In particolare, il circuito del reward, mediato dalla dopamina, costituisce un sistema motivazionale aspecifico particolarmente importante che interagisce con un sistema motivazionale specifico per il comportamento materno, il quale a sua volta coinvolge regioni cerebrali e neurotrasmettitori specifici.

 

Il sistema di attaccamento materno

Nei mammiferi, la sopravvivenza della specie dipende dall’esteso repertorio di comportamenti sociali e parentali che inizialmente assicurano il soddisfacimento dei bisogni primari del neonato e successivamente ne plasmano il comportamento fornendo le prime esperienze sociali.

Per quanto riguarda nello specifico il genere umano, l’attuale psicologia dello sviluppo pone le sue radici nella teoria dell’ attaccamento di Bowlby (1969-1973), formulata a partire dallo studio delle associazioni tra la deprivazione materna e la delinquenza giovanile. Bowlby postula l’esistenza di un bisogno umano universale che consiste nella formazione di legami sociali, a partire dalla relazione con la madre o, in generale, con una figura di attaccamento. La sua prospettiva evoluzionistica ed etologica (che deriva, in un primo momento, dall’analisi degli studi di Darwin e dalla lettura degli scritti di Lorenz, oltre che dalla forte collaborazione con Hinde e, successivamente, dall’accesso all’opera di Tinbergen e ai costrutti neodarwiniani, che costituiscono la cornice entro cui interpretare la teoria di Bowlby) lo porta a sostenere che l’ attaccamento sia un sistema biologico innato che promuove la ricerca della prossimità con una figura di attaccamento specifica e che aumenta le probabilità del piccolo di sopravvivere e di riprodursi.

Le caratteristiche del legame di attaccamento con il caregiver determinano lo stile di attaccamento futuro del bambino: lo stile “sicuro” deriva da un caregiver disponibile, sensibile e responsivo rispetto ai bisogni fisici ed emotivi del bambino; al contrario, se gli interventi del caregiver sono caotici, imprevedibili o inadeguati, si sviluppa un attaccamento insicuro, che si declina in modo diverso a seconda del tipo di relazione tra la figura di attaccamento e il bambino (attaccamento insicuro/evitante, ansioso, disorganizzato).

 

Evoluzione del rapporto madre-figlio nei mammiferi non umani

Ruolo del sistema neuroendocrino nel comportamento materno dei mammiferi “small-brained”

Con l’evoluzione dei mammiferi, in particolare dei vivipari, tre processi acquisiscono un’importanza fondamentale: la formazione della placenta, lo sviluppo del feto all’interno dell’organismo materno e le cure fornite dopo il parto per assicurare la sopravvivenza del neonato fino al raggiungimento dell’età riproduttiva. Il genitore presente alla nascita, che investe tempo ed energia durante lo sviluppo in utero del feto e che è in grado di provvedere immediatamente dopo il parto al nutrimento attraverso la lattazione, è la madre: per questo motivo, tra il piccolo e il caregiver si instaura un legame sociale molto forte. In molte specie, le femmine non mostrano un comportamento materno spontaneo in assenza degli ormoni prodotti durante la gravidanza e il parto. Le cellule della placenta producono steroidi e altri ormoni che promuovono non solo lo sviluppo stesso della placenta, ma anche l’adattamento fisico, metabolico e comportamentale della futura madre. La risposta neuroendocrina ha il compito di sincronizzare la nascita con la produzione di latte e con il manifestarsi delle prime cure materne, che promuovono lo sviluppo di un legame sociale fondamentale per la sopravvivenza .

Tutte le relazioni sociali hanno tre aspetti in comune, anche se in percentuali diverse: la regolazione ormonale, il coinvolgimento dei meccanismi di reward e il riconoscimento sensoriale (Broad et al., 2006).

Il comportamento sociale di maschi e femmine riflette le diverse strategie che entrambi i sessi adottano per assicurarsi il successo riproduttivo: la coalizzazione tra soggetti di sesso maschile è tipicamente gerarchica e basata sull’aggressività piuttosto che sull’affiliazione. Le strategie riproduttive femminili sono completamente diverse: la maggior parte dei mammiferi “large-brained” è in grado di mettere al mondo un numero relativamente esiguo di piccoli, pertanto le madri investono molto su ognuno di loro e la loro sopravvivenza dipende dalla qualità delle cure fornite.

Le femmine instaurano, quindi, forti legami sociali con i propri piccoli e con altre femmine , che si basano sull’affiliazione e sulla collaborazione nell’assistenza verso la prole. Solo in una piccola minoranza di mammiferi (5%), l’ambiente rende svantaggiose le strategie maschili basate sulla promiscuità, pertanto il maschio è portato a legarsi in modo preferenziale ad una sola femmina, a difenderla dagli altri maschi e a partecipare alla cura dei piccoli (Broad et al., 2006).

La maggior parte dei mammiferi sono “small-brained”, avendo un maggior numero di strutture limbiche sottocorticali rispetto alle strutture corticali. La regolazione delle relazioni sociali richiede il riconoscimento degli stimoli olfattivi tra individui, soprattutto in corrispondenza di eventi di vita biologicamente rilevanti come l’accoppiamento e il parto. I cambiamenti ormonali che accompagnano questi stadi inducono variazioni nell’espressione di diversi neuropeptidi: fattori rilascianti la corticotropina (CRF), ossitocina (OT) e vasopressina (VP); questi sono importanti nella modulazione delle interazioni sociali, in particolare del comportamento materno.

L’ossitocina è un neuropeptide fondamentale che agisce a livello centrale promuovendo il maternal care e a livello periferico stimolando le contrazioni uterine durante il parto e la produzione di latte (Kendrick, 2000). Durante la tarda gravidanza, i recettori per OT sono regolati sia a livello cerebrale che in utero dagli elevati livelli di estrogeni presenti nel sangue. L’OT viene rilasciata nel cervello al momento del parto per facilitare il riconoscimento olfattivo del piccolo e il manifestarsi del comportamento materno, che si mantiene durante il periodo dell’allattamento attraverso l’azione coordinata di OT, prolattina e dopamina (Broad et al., 2006).

L’OT prodotta durante altri eventi di vita biologicamente rilevanti (ad esempio, durante il periodo dell’accoppiamento) mantiene la funzione di facilitare le interazioni sociali e di creare delle memorie olfattive che permettono il riconoscimento dei conspecifici (Dluzen et al., 2000; Ferguson et al., 2000-2001; Winslow and Insel, 2002). L’ossitocina ha un ruolo importante anche nel superamento della paura nei confronti degli stimoli nuovi e nel controllo dei livelli di ansia (Mantella et al., 2003; Amico et al., 2004).

Sia la gravidanza che l’estro promuovono, attraverso le variazioni ormonali che le caratterizzano, la sintesi di OT e degli stessi recettori OT. Gli estrogeni hanno due tipi di recettori, ERalfa e ERbeta. I recettori ERbeta sono presenti nei neuroni ipotalamici che sintetizzano OT, mentre i recettori ERalfa sono richiesti per la sintesi dei recettori OT nell’amigdala (Patisaul et al., 2003). I topi knockout per entrambi i recettori ER mostrano gravi difficoltà nei test di riconoscimento sociale, come i topi knockout per il gene che codifica per OT (Choleris et al., 2003, 2004). Quindi, durante la gravidanza, il cervello materno subisce una radicale riorganizzazione rispetto alla sintesi di ossitocina e all’attivazione dei recettori ossitonergici; le aree cerebrali coinvolte in questa riorganizzazione sono quelle associate al riconoscimento sociale: il bulbo olfattivo, ricco di recettori OT è coinvolto nella formazione di memorie olfattive, l’amigdala (AMY) e il nucleo accumbes (NA) (Choleris et al., 2004; Kavalieris et al., 2004; Young and Wang, 2004). AMY e NA sono reciprocamente interconnesse; nel ratto entrambe mostrano un’attivazione significativa durante l’esposizione a stimoli olfattivi biologicamente rilevanti (Moncho-Bogani et al., 2005); il rilascio di OT e vasopressina (VP) nell’amigdala centrale provoca la risposta automatica di paura nei confronti di stimoli nuovi (Huber et al, 2005). Anche NA è ricco di recettori per OT: lesioni in quest’area compromettono il comportamento di retrieval e l’esperienza gratificante che normalmente deriva dall’interazione madre-figlio (Numan et al., 2005).

L’olfatto è, nei mammiferi small-brained, la più importante modalità sensoriale che coordina il comportamento sociale; gli stimoli olfattivi vengono processati da due sistemi: il sistema olfattivo accessorio e il sistema olfattivo principale. Il sistema accessorio contiene l’organo vomeronasale VNO, che riceve e invia i segnali olfattivi non volativi (ferormoni) direttamente verso l’ipotalamo e il sistema limbico. I ferormoni sono in grado di modificare l’assetto ormonale (ad esempio, inducendo l’estro) e di regolare il comportamento sessuale e il comportamento materno -genitoriale (Keverne, 2004).

Il sistema principale risponde ad un ampio range di odori, molti dei quali non hanno un intrinseco significato sociale: tuttavia, attraverso questo sistema, gli odori possono acquisire un significato sociale specifico se percepiti in contesti biologicamente rilevanti o legati al reward (Kippin et al., 2003). Ad esempio, durante il parto, gli stimoli olfattivi percepiti per mezzo del sistema principale diventano importanti segnali di riconoscimento della prole e quindi acquisiscono valore sociale (Broad et al., 2006). Il cervello conferisce significato agli stimoli olfattivi associandoli ad altre informazioni sensoriali che hanno un significato biologico intrinseco, in genere in contesti legati alla motivazione e al reward. Infatti, il circuito neuronale che traduce i ferormoni ha accesso al circuito mesolimbico, in particolare al NA, attraverso l’amigdala. Anche le proiezioni del sistema principale raggiungono l’amigdala passando dal bulbo olfattivo e dalla corteccia piriforme, che si connette alla corteccia frontale attraverso i nuclei medio-dorsali del talamo. Dalla corteccia frontale le proiezioni del sistema principale raggiungono, infine, il NA.

 

Ruolo della neocorteccia nel comportamento materno dei mammiferi “large brained”

Con l’espansione della corteccia, a partire dai primati non umani, si verifica un aumento della complessità delle relazioni sociali e una minore dipendenza dagli stimoli olfattivi nella comunicazione interpersonale. Si ha, inoltre, una parziale emancipazione del comportamento materno dall’influenza ormonale: il comportamento materno, infatti, si manifesta anche in assenza degli ormoni legati alla gravidanza e l’attività sessuale si presenta anche al di fuori del periodo fertile in quanto non ha più uno scopo unicamente riproduttivo. Gli imput olfattivi alle aree coinvolte nel reward vengono in parte sostituiti dagli imput alla neocorteccia, soprattutto per quanto riguarda gli stimoli sensoriali multimodali, la programmazione di azioni complesse e la regolazione delle emozioni (Schultz et al.,2000; Chiba et al., 2001). Lo sviluppo di nuove strategie comportamentali ha avuto un impatto significativo sull’evoluzione dell’organizzazione sociale.

Nei primati, gli ormoni della gravidanza, del parto e dell’allattamento non sono necessari per il manifestarsi del comportamento materno : risulta maggiormente importante, a questo scopo, il sistema degli oppiacei endogeni.

L’attivazione di questo sistema promuove l’emergere di sensazioni piacevoli durante l’allattamento e sopprime il dolore durante il parto. Il trattamento con Naloxone (oppiaceo-antagonista) nel periodo postpartum riduce il comportamento materno di caregiving: le madri sono maggiormente predisposte al neglect infantile, mostrano minori comportamenti di retrieval e di pup-grooming e, pur non rifiutandosi di allattare, lasciano che sia il piccolo a prendere l’iniziativa in ogni situazione; inoltre, la protezione e la possessività nei confronti del proprio piccolo vengono meno. Lo stesso si verifica nelle madri che fanno regolarmente uso di eroina, la quale agisce sugli stessi recettori oppiacei determinando gravi conseguenze sullo sviluppo dell’attaccamento materno. Il sistema oppiaceo endogeno nei primati large brained agisce anche sui recettori localizzati nello striato ventrale (Broad et al., 2006).

Il sistema olfattivo nei primati non ha più un ruolo esclusivo nella regolazione del comportamento sociale, soprattutto il sistema vomeronasale. Lo stile di vita prevalentemente diurno, al contrario di molte specie small-brained notturne, porta ad attribuire maggiore importanza agli stimoli visivi piuttosto che a quelli olfattivi; inoltre, i primati accudiscono la propria prole per molto più tempo rispetto alle altre specie, pertanto devono essere in grado, per riconoscere il proprio figlio, di registrare ogni cambiamento fisico e comportamentale nel corso del suo sviluppo.

Questo updating degli stimoli visivi coinvolge il circuito prefrontale-striato ventrale che è connesso all’amigdala, la quale media la risposta emozionale. In questo modo la corteccia visiva subisce una rapida espansione e le aree visive associative diventano più complesse; inoltre, emergono aree specializzate nella processazione di stimoli visivi particolari, come le espressioni facciali. Il circuito corteccia prefrontale-striato ventrale è parzialmente indipendente dalle modificazioni ormonali che intervengono durante la gravidanza: l’evoluzione ha fatto in modo che il controllo endocrino lasciasse spazio all’azione di importanti sistemi neuronali (OT , DA, oppiacei endogeni) nella determinazione del comportamento umano (Broad et al., 2006).

Questi sistemi spesso rendono l’individuo vulnerabile a varie forme psicopatologiche, come l’abuso di sostanze e il disturbo ossessivo compulsivo (DOC), nel quale sono coinvolte aree cerebrali come la corteccia orbitofrontale, il nucleo caudato, lo striato ventrale e il cingolo anteriore. Sappiamo, infatti, che il DOC è più comune nelle donne e che il periodo postpartum è un momento critico per l’insorgenza dei sintomi; lo stesso decorso della malattia è notevolmente influenzato dall’assetto ormonale (Broad et al., 2006).

Nei mammiferi large brained, la mPFC ha acquisito un’importanza fondamentale nella regolazione del comportamento sociale (Broad et al., 2006): le cortecce associative polimodali mandano informazioni alla mPFC, la quale proietta al cingolo anteriore, che è connesso allo striato ventrale. Se lo stimolo è rilevante dal punto di vista emotivo (ad esempio, il pianto del proprio figlio), si ha il rilascio di dopamina nello striato ventrale, mediato dall’interazione con i neuroni ossitonergici, il sistema oppiaceo endogeno e l’assetto ormonale. Winslow e colleghi nel 2003 hanno dimostrato che lo sviluppo della corteccia prefrontale risente degli stimoli sociali ricevuti durante i primi anni di vita: la deprivazione materna nelle scimmie riduce la secrezione di OT , aumenta l’aggressività e porta alla comparsa di comportamenti stereotipati: la compromissione delle funzioni della corteccia frontale risultano nell’incapacità di inibire risposte emotivo-comportamentali inadeguate.

 

Il controllo neurochimico sul comportamento materno umano

Ruolo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel comportamento materno

Il periodo intorno alla nascita è accompagnato da adattamenti fisiologici e comportamentali del cervello materno che assicurano le funzioni riproduttive, le cure materne e la sopravvivenza del bambino. Inoltre, profondi cambiamenti neurobiologici sono stati descritti rispetto alla risposta allo stress dal punto di vista neuroendocrino e comportamentale nei roditori e nelle madri umane: la risposta ormonale dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e la risposta del sistema nervoso simpatico agli agenti stressanti fisici ed emozionali risultano notevolmente attenuate. In questo modo, il comportamento materno ansioso e la risposta emozionale agli stimoli stressanti sono ridotti e ne deriva uno stato generale di calma (Slattery and Neumann, 2008).

Questi complessi adattamenti del cervello materno sembrano essere la conseguenza di una aumentata attività dei sistemi neurali che hanno effetti inibitori sull’asse HPA, come il sistema ossitonergico e il sistema della prolattina, e di una minore attività dei circuiti eccitatori mediati dalla noradrenalina, dai fattori rilascianti la corticotropina (CRH) e dagli oppiacei endogeni. La manipolazione sperimentale di questi sistemi usando approcci complementari dimostra la loro importanza per quanto riguarda gli adattamenti del cervello materno che si osservano durante la gravidanza. Tali adattamenti non solo sono importanti per uno sviluppo prenatale sano del bambino prevenendo un eccessivo rilascio di glucocorticoidi e nel promuovere il comportamento materno dopo il parto, ma sono anche fondamentali per il benessere materno e per la sua salute psicofisica (Slattery and Neumann, 2008).

Tutti i mammiferi mostrano cambiamenti fisiologici e comportamentali durante la gravidanza allo scopo di preparare la madre al parto. In particolare, si osservano profonde alterazioni durante la gravidanza e l’allattamento rispetto allo stile di coping nei confronti degli eventi stressanti, con una riduzione significativa dell’attività dell’asse HPA (Stern et al., 1973; Neumann et al., 1998b; Russel et al., 1999; Lightman et al., 2001; Kammerer et al., 2002; de Weerth and Buitelaar, 2005).

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) è primariamente coinvolto nella risposta dell’organismo allo stress. Attraverso l’azione coordinata di ipotalamo, ipofisi e ghiandola surrenale, l’asse HPA attiva e organizza la risposta agli stimoli stressanti ricevendo e interpretando informazioni che provengono da altre aree cerebrali, come amigdala e ippocampo, e dal SNA (Holsboer, 2001). La cascata ormonale ha inizio in risposta allo stimolo stressante con il rilascio di CRH da parte dell’ipotalamo, che stimola il rilascio di ACTH (ormone adrenocorticotropo) da parte dell’ipofisi. ACTH, a sua volta, stimola la produzione dei glucocorticoidi, i quali, una volta immessi nel circolo sanguigno, agiscono attraverso un feedback retroattivo a livello dell’ipotalamo, dell’ipofisi e dell’ippocampo, bloccando la risposta nei confronti dello stimolo stressante.

L’asse HPA è quindi responsabile di un meccanismo adattivo che mira a mantenere l’omeostasi dell’organismo anche a fronte di eventi stressanti (Shea et al., 2004). Nonostante queste risposte abbiano un’importante funzione protettiva nelle situazioni stressanti acute, vedremo come possano risultare dannose se gli ormoni vengono prodotti in quantità troppo elevate o per un periodo di tempo eccessivamente lungo (McEwen, 2002). Negli umani il cortisolo è il principale glucocorticoide che regola l’attività dell’asse HPA; esso agisce attraverso un feedback negativo inibendo il rilascio di CRH e ACTH.

Diversi sistemi neurali giocano un ruolo importante nel modulare l’attività dell’asse HPA attraverso input inibitori o eccitatori:

  • I neuroni ossitonergici rispondono agli agenti stressanti con un elevato rilascio di OT da parte della neuroipofisi nel circolo sanguigno (Neumann et al., 1993a, 1995, 1998a; Douglas et al., 1998; Wotjak et al., 1998; Neumann, 2002; Landgraf and Neumann, 2004) e, localmente, a livello dell’ipotalamo (Wigger and Neumann, 2002; Bosch et al., 2004) e dell’amigdala (Bosch et al., 2004, 2005); Gli effetti di OT dipendono dalla regione cerebrale in cui OT agisce (PVN, amigdala o regione del setto) e in base alla condizione sperimentale (Numann et al., 2001). L’infusione di OT nel cervello di femmine di ratto vergini attenua la risposta neuroendocrina allo stress (Windle et al., 2004); tuttavia, è stato osservato che il blocco dei recettori OT nelle femmine in gravidanza non determina una disinibizione dell’asse HPA come accade nelle femmine vergini (Neumann et al., 2000b,c): probabilmente, esistono altri fattori inibitori , tra cui il sistema degli oppiacei endogeni e la prolattina, che insieme ad OT attenuano la risposta dell’asse HPA allo stress nel periodo intorno al parto.
  • Si verifica un incremento dei livelli plasmatici di prolattina verso la fine della gravidanza (Grattan, 2001) e durante l’allattamento (Torner et al., 2004). PRL viene rilasciata localmente dai neuroni ipotalamici nelle femmine di ratto in lattazione in risposta alla suzione. La somministrazione continua di PRL attenua la risposta nei confronti di stimoli stressanti (Donner et al., 2007): PRL è quindi un fattore inibitorio importante dell’asse HPA durante l’allattamento (Torner et al., 2001).
  • L’aumento della produzione di vasopressina (VP) a livello dei neuroni parvocellulari (Walker et al., 2001), accompagnata da un aumento della sensibilità degli stessi neuroni parvocellulari alla VP (Toufexis et al., 1999b) contribuisce a modificare l’attività basale dell’asse HPA durante l’allattamento: infatti, si osserva un aumento cronico del livello di corticosteroidi nel plasma durante la lattazione (Stern et al., 1973; Walker et al., 1995; Windle et al., 1997b). È stato dimostrato in diverse specie che la responsività dell’asse HPA ad un ampio range di stimoli fisici o psicologici risulta attenuata a partire dalla seconda metà della gravidanza fino alla fine del periodo dell’allattamento (Stern et al., 1973; Walker et al., 1995; Windle et al., 1997b; Neumann et al., 1998b; Shanks et al., 1999; Johnstone et al., 2000; Lightman et al., 2001; Neumann, 2001; Brunton and Russell, 2003).
  • L’espressione dei fattori rilascianti la corticotropina (CRH) nel nucleo parvocellulare dell’ipotalamo è ridotta durante la gravidanza e l’allattamento, forse a causa degli elevati livelli di glucocorticoidi nel plasma che hanno un effetto inibitorio sull’espressione di CRH (Douglas and Russell, 1994; Johnstone et al., 2000; da Costa et al., 2001). La riduzione nell’espressione di CRH durante l’allattamento è stata descritta anche a livello dei nuclei centrali dell’amigdala, importanti non solo per la regolazione dell’asse HPA, ma anche per la processazione delle emozioni (Davis and Whalen, 2001). Se il sistema CRH è il maggior sistema eccitatorio dell’asse HPA, una sua minore attività contribuisce ad attenuare la produzione di ACTH e corticosterone, come avviene durante la gravidanza e l’allattamento. Quindi, una riduzione dell’attività del sistema CRH è associata a determinate modificazioni comportamentali che includono una riduzione dell’ansia (Hard and Hansen, 1985; Windle et al., 1997b; Toufexis et al., 1998; Neumann, 2003) e un aumento dei comportamenti tipicamente materni, come l’aggressività volta a proteggere la prole (Pedersen et al., 1991; Gammie et al., 2004).
  • L’azione eccitatoria sull’asse HPA risulta notevolmente ridotta: la noradrenalina a livello centrale agisce come neurotrasmettitore e durante la gravidanza i nuclei PVN dell’ipotalamo risultano meno sensibili alla sua azione (Toufexis et al., 1998; Douglas et al., 2005). È stata rilevata una minore espressione dei recettori adrenergici e noradrenergici nei nuclei magno e parvocellulari dell’ipotalamo del ratto durante la gravidanza (Douglas et al., 2005).
  • Un altro input eccitatorio sull’asse HPA attenuato in gravidanza è il sistema degli oppiacei endogeni (Douglas et al., 1998; Kammerer et al., 2002; Kofman, 2002). Al contrario, gli effetti degli oppiacei endogeni appaiono ribaltati durante il parto, quando inibiscono, invece che stimolare, l’asse HPA (Wigger et al., 1999). Inoltre, l’azione degli oppiacei endogeni sui neuroni OT a livello dei nuclei PVN ipotalamici è diversa nelle femmine di ratto vergini e nelle femmine gravide (Douglas et al., 1995; Wigger and Neumann, 2002). Gli effetti inibitori degli oppiacei endogeni sul rilascio intra-PVN di OT nelle femmine vergini e gli effetti eccitatori che invece si osservano nelle femmine gravide sono interessanti nel contesto dei meccanismi che regolano l’adattamento della risposta allo stress durante la gravidanza e l’allattamento.

Negli umani, in accordo con i risultati ottenuti dagli studi animali, si osserva un’attenuazione della risposta allo stress da parte dell’asse HPA nelle donne in gravidanza e durante il periodo dell’allattamento (Nisell et al., 1985; Sculte et al., 1990; Altemus et al., 1995; Kammerer et al., 2002); di conseguenza, si verifica un aumento dello stato di calma e del tono dell’umore positivo e una riduzione della risposta emotiva agli eventi di vita stressanti (Carter et al., 2002; Heinrichs et al., 2001; Glynn et al., 2004). Questi cambiamenti, che avranno un notevole impatto sul comportamento materno, possono essere ricondotti ad una minore attività del sistema CRH; inoltre, Heinrichs e collaboratori nel 2001 hanno dimostrato che l’attivazione del sistema OT e PRL contribuisce alla riduzione della risposta dell’asse HPA allo stress e al mantenimento del tono dell’umore positivo.

Riassumendo, la riduzione della risposta allo stress osservata durante la gravidanza e l’allattamento può essere in parte spiegata dall’aumentata attività del sistema OT e dalla maggiore produzione di PRL (Slattery and Neumann, 2008). Avendo un ruolo neuromodulatorio a livello centrale, OT e PRL esercitano un effetto significativo sul comportamento materno (Pedersen and Prange, 1979; Neumann and Landgraf, 1989; Neumann et al., 1993b, 1994 a,b; Bridges et al., 2001; Torner et al., 2002); ad esempio, è stato dimostrato che OT e PRL hanno importanti proprietà ansiolitiche, soprattutto durante la gravidanza e il periodo postpartum (Neumann et al., 2000b; Torner et al., 2002). È possibile osservare gli effetti ansiolitici di OT attraverso l’infusione diretta a livello di amigdala (Bale et al., 2001) e PVN: il rilascio di OT a livello di queste aree risulta inversamente correlato al livello di aggressività materna che si osserva nelle femmine in lattazione (Bosch et al., 2005).

 

Implicazioni dei sistemi ossitonergico, serotoninergico e dopaminergico nell’attaccamento materno umano

Abbiamo visto che il comportamento affiliativo fa parte di un elaborato sistema che prevede l’interazione tra i meccanismi implicati nel reward, i sistemi motivazionali, i sistemi emozionali e la reattività dell’organismo allo stress. Questo sistema complesso implica l’interazione tra diversi neurotrasmettitori, come dopamina (DA), ossitocina (OT) e oppiacei endogeni, oltre ad un notevole controllo ormonale.

Il paragrafo precedente ha messo in luce il ruolo fondamentale che il sistema ossitonergico riveste nel comportamento materno umano: il rilascio di OT periferica aumenta durante e dopo il parto e anche durante l’esposizione a stimoli uditivi e visivi legati al proprio figlio; infatti, il sistema ossitonergico è importante nella formazione delle memorie sociali, nel comportamento affiliativo e nella regolazione delle emozioni (Ferguson, Young and Insel, 2002). Le aree cerebrali coinvolte nel comportamento materno e sociale, come i nuclei ipotalamici paraventricolari, l’amigdala, VTA, BNST e la regione del setto sono ricche di recettori per l’ossitocina.

A sua volta, il sistema serotoninergico è importante in quanto modula il tono dell’umore e il rilascio stesso di ossitocina. Nello studio di Bakermans e collaboratori del 2008 si valuta il ruolo dei geni che regolano i recettori ossitonergici (OXTR) e serotoninergici (5-HTT) in madri di bambini a rischio di esternalizzare problemi comportamentali, tenendo conto del livello scolastico materno, di eventuali episodi depressivi e della qualità della relazione con il partner. I risultati indicano che i genitori con una variante meno efficiente di questi geni mostrano bassi livelli di responsività e di sensibilità nei confronti dei propri figli.

La dopamina modula direttamente il sistema ossitonergico e ha un ruolo importante nella formazione dei legami sociali (Young, Murphy and Hammock, 2005). È il neurotrasmettitore principale coinvolto nei circuiti del reward e una sua regolazione disfunzionale può interferire in modo significativo con il comportamento materno e la formazione del legame madre-figlio. Pensiamo alle madri che fanno regolarmente uso di cocaina: il sistema ossitonergico risente particolarmente dell’esposizione a questa sostanza (Johns et al., 2005) in quanto essa agisce negativamente sul sistema mesocorticolimbico.

A fronte dell’importanza che i sistemi ossitonergico e dopaminergico rivestono nella formazione e nel mantenimento del legame di attaccamento umano, Strathearn e collaboratori nel 2009 hanno condotto uno studio particolarmente interessante che mette in relazione lo stile di attaccamento adulto con l’attivazione di determinate aree cerebrali in risposta ai cues infantili. Lo studio esamina trenta donne primipare, sottoposte durante la gravidanza all’Adult Attachment Interview, un questionario creato da Mary Main per determinare differenze negli stili di attaccamento adulto; circa sette mesi dopo il parto le madri osservano in fMRI alcuni videoclips che riproducono il volto triste o sorridente dei loro figli; inoltre, viene rilevata la produzione di ossitocina periferica in risposta al volto infantile mentre le madri interagiscono fisicamente con il proprio figlio.

I risultati mostrano che le madri con un attaccamento di tipo sicuro hanno un’attivazione maggiore della via mesocorticolimbica nel vedere il viso sorridente del proprio figlio; in particolare, si attivano lo striato ventrale e la corteccia prefrontale mediale. Anche in risposta al volto triste del proprio figlio si attiva lo striato ventrale destro.

Questi dati suggeriscono che qualsiasi cues infantile, sia positivo che negativo, ha una funzione di rinforzo e di motivazione per il comportamento materno di care-taking e quindi attivano il circuito responsabile del reward in modo specifico per l’attaccamento materno. Inoltre, le stesse madri mostrano un aumento della produzione di ossitocina a livello periferico mentre interagiscono con il proprio figlio, che implica l’attivazione a livello centrale del sistema ossitonergico (ipotalamo-ipofisi/striato ventrale) e dopaminergico. Le madri con uno stile di attaccamento insicuro/evitante mostrano, invece, una minore attivazione dello striato ventrale in risposta al volto sorridente; inoltre, si rileva l’attivazione dell’insula anteriore, associata alle emozioni negative, e della corteccia prefrontale dorsolaterale, che indica un controllo cognitivo sugli stimoli emozionali, in risposta al volto triste del proprio figlio. Questi dati concordano con il “modello dell’organizzazione corticale del sistema di attaccamento” di Strathearn (2006) e Crittenden (2008), in base al quale gli individui con un attaccamento insicuro/evitante tendono a inibire le risposte affettive negative a causa di un bias a livello della processazione delle informazioni cognitive dello stimolo.

Abbiamo visto che l’attivazione dello striato è inversamente correlata ai punteggi elevati di attaccamento insicuro; anche la produzione di ossitocina periferica è minore rispetto alle madri con attaccamento sicuro. Studi recenti mostrano una riduzione della risposta ossitonergica periferica nelle madri esposte al consumo di cocaina e nelle donne gravide con bassi livelli di attaccamento nei confronti del feto. L’aumento della produzione di ossitocina nelle madri sicure si associa all’esperienza gratificante che deriva dagli stimoli infantili e contribuisce ad incrementare l’abilità materna nel prendersi cura del proprio figlio. Le differenze individuali nello stile di attaccamento adulto possono quindi essere ricondotte al funzionamento dei sistemi ossitonergico e dopaminergico: questa correlazione può essere utile per comprendere meglio come lo stile di attaccamento materno, sicuro o insicuro, influisce sullo sviluppo del bambino e sul suo stile di attaccamento adulto, mettendo in luce i meccanismi che regolano la trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento.

 

Una fondamentale componente emotiva del comportamento materno: l’empatia

La sensibilità e la responsività sono caratteristiche materne universali che garantiscono la sicurezza del bambino e il suo sviluppo socio-emotivo. La motivazione a prendersi cura del proprio figlio ha una forte base biologica: la prontezza a fornire cure, infatti, trova corrispondenza nell’anatomia e nella fisiologia della madre; il cervello femminile è programmato in modo tale da subire grandi cambiamenti durante la gravidanza: ad esempio, si rileva una maggiore attivazione a livello di specifiche aree cerebrali, come quelle appartenenti al sistema dei neuroni specchio, e ciò consente una migliore comprensione degli stati emotivi del figlio (Ellison, 2006).

Per studiare le basi biologiche dell’ attaccamento umano, l’attività cerebrale può essere misurata durante compiti che attivano il sistema dell’ attaccamento in soggetti adulti: questo è un approccio innovativo che valuta gli aspetti dell’attaccamento adulto in fMRI. Un esempio è lo studio pilota di Buchheim et al. (2006), in cui ad undici donne vengono presentati degli stimoli particolari (prevalentemente a valenza emotiva negativa) allo scopo di attivare il sistema dell’ attaccamento, dopo essere state classificate in base al loro stile di attaccamento adulto. I soggetti con un attaccamento sicuro mostrano una maggiore attività a livello dell’amigdala destra, dell’ippocampo sinistro e del giro frontale inferiore destro, aree che si ipotizza siano importanti nel sistema dell’ attaccamento. Recentemente alcuni ricercatori (Pelphrey, Morris, Michelich, Allison and McCarthy, 2005; Saxe, 2006b) stanno indagando le basi cerebrali del processo di “mentalization” (capacità di rappresentarsi lo stato mentale degli altri): queste ricerche innovative suggeriscono che regioni specifiche a livello della corteccia prefrontale mediale e della corteccia temporale mediano gli aspetti emotivi del comportamento, compreso il comportamento materno, come l’empatia.

 

Le basi neurobiologiche dell’empatia

L’empatia, definita come la capacità di percepire e rispondere in modo adeguato alle emozioni di un’altra persona, oltre alla capacità di comprenderle e di immedesimarsi con esse, è un aspetto fondamentale della relazione tra il bambino e il caregiver, soprattutto quando la comunicazione è totalmente o prevalentemente non verbale (Swain et al., 2007). Il network cerebrale che media le risposte empatiche si sovrappone al sistema dei neuroni mirror (Gallese, Keysers and Rizzolatti, 2004). Diversi studi condotti in ambito neuroscientifico mostrano che nel confronto con le emozioni espresse dai loro figli si attivano, nelle madri, i neuroni specchio in aree del cervello simili a quelle in cui si attivano i neuroni delle persone innamorate. Tale attivazione porta la madre a provare empatia per ciò che prova il figlio e le permette di intervenire con prontezza per proteggerlo (Leckmann and Mayes, 1999; Bartles and Zeki, 2004).

Due regioni primariamente coinvolte nella risposta empatica sono il cingolo e l’insula. In uno studio che si occupa di indagare la neuroanatomia dell’empatia usando la fMRI, Singer e collaboratori (2004) hanno misurato l’attività cerebrale in soggetti sottoposti a stimoli dolorosi ai quali viene successivamente detto che anche la persona amata sta vivendo la stessa esperienza; in questo modo hanno scoperto che regioni come il cingolo anteriore rostrale e l’insula anteriore si attivano in modo specifico se il soggetto immagina che sia la persona amata a provare dolore.

Il cingolo anteriore è coinvolto nella processazione dei cues emotivi che caratterizzano le proprie esperienze e quelle degli altri, nello spostamento dell’attenzione, nel decision making, nella rievocazione mnestica, nella regolazione del tono dell’umore e nell’organizzazione del comportamento volontario (Swain et al., 2007). Il cingolo anteriore, nell’esperimento di Singer e colleghi, sembra influenzare la dimensione affettiva del processo del dolore e gli aspetti motivazionali che orientano la selezione della risposta (C. Trentini, 2008).

Lo studio di L. Carr e collaboratori (2003) ha dimostrato che quando ai soggetti viene chiesto di osservare o imitare espressioni facciali corrispondenti a diverse categorie emozionali si rileva una maggiore attività a livello del solco temporale superiore (STS), nelle aree della corteccia premotoria in cui sono rappresentate le diverse configurazioni facciali e, soprattutto durante il compito imitativo, a livello dell’insula e dell’amigdala.

L’insula è un sito di integrazione delle informazioni emozionali ed è connessa alle aree che fanno parte del sistema mirror (corteccia parietale posteriore, frontale inferiore e temporale superiore). L’imitazione delle espressioni facciali delle emozioni produce una forte attivazione delle aree fronto-temporali che fanno parte del “mirror network” e che includono la “premotor face area”, la corteccia frontale inferiore e il solco temporale superiore. L’insula mette quindi in connessione la corteccia frontale e la corteccia temporale (aree deputate alla rappresentazione dell’azione, una componente cognitiva fondamentale per l’empatia) e le strutture profonde appartenenti al sistema limbico (coinvolte nella processazione emotiva). L’insula interviene nel tradurre le espressioni facciali nel loro significato affettivo, dando “colore emotivo” al processo cognitivo che permette la discriminazione delle emozioni altrui (C. Trentini, 2008).

Adolphs e collaboratori nel 2000 hanno dimostrato che un danno a livello della corteccia somatosensoriale destra, che include le aree somatosensoriali primarie e secondarie e l’insula, limita la capacità degli individui di identificare lo stato emotivo degli altri, a partire dall’osservazione della loro mimica facciale. Tali risultati avvalorano l’ipotesi in base alla quale il riconoscimento delle emozioni altrui richiede all’osservatore di ricostruire o simulare le immagini delle componenti somatiche e motorie normalmente associate all’esperienza soggettiva di quelle stesse emozioni.

Recentemente il gruppo di ricerca guidato da C. Trentini ha esplorato gli aspetti neurobiologici coinvolti nei processi empatici del comportamento materno durante il primo anno di vita del bambino. Sedici madri sono state sottoposte a fMRI durante la presentazione di immagini dei propri figli e di bambini sconosciuti della stessa età e dello stesso sesso, ritratti con diverse espressioni facciali (gioia, distress, neutralità, ambiguità). I compiti sperimentali prevedevano o l’imitazione delle espressioni facciali o l’ “osservazione/empatia”.

Durante la sessione di fMRI di “imitazione” sono state rilevate attivazioni significative nel circuito neuroni specchio – insula – sistema limbico, localizzate soprattutto a destra (corteccia premotoria ventrale destra, STS e amigdala bilaterale); in questo compito non sono state evidenziate differenze significative tra le attivazioni indotte dall’imitazione delle espressioni del proprio bambino e le attivazioni rilevate durante l’imitazione del bambino sconosciuto. Anche durante il compito “osservazione/empatia” sono state evidenziate attivazioni significative del circuito neuroni specchio – insula – sistema limbico, in particolare a livello del STS e, bilateralmente, nel lobo parietale inferiore e nell’amigdala. In particolare, quando alle madri è stato richiesto di empatizzare con le espressioni emotive dei propri bambini, sono state osservate attivazioni maggiori nel sistema dei neuroni specchio, bilateralmente, e nel giro frontale inferiore, nel lobo parietale inferiore, in STS e nell’insula anteriore prevalentemente a destra.

Le attivazioni evidenziate in questo studio riflettono il possibile substrato neurobiologico della capacità materna di recepire i segnali affettivi provenienti dal comportamento dei propri figli al fine di rispondervi in modo congruo. Queste competenze dipendono dalla capacità delle madri di riflettere sulle intenzioni, pensieri e stati affettivi del proprio figlio e queste abilità costitutive dell’empatia materna giocano un ruolo fondamentale soprattutto nel corso del primo anno di vita del bambino, quando non si sono ancora instaurate modalità comunicative più sofisticate, come il linguaggio (C. Trentini, 2008).

Second Life, L’Avatar Therapy e l’effetto Proteus

L’ avatar therapy si basa sull’utilizzo della personalità traslata del paziente attraverso una realtà virtuale; i pazienti, infatti, vengono accolti in studi virtuali dagli alterego dei loro terapeuti.

Second Life

Second Life è un mondo virtuale tridimensionale creato nel 2003 dalla società californiana Linden Lab con l’obiettivo di creare un modo innovativo di condividere esperienze. Benchè oggi sia passato un po’ di moda e con un numero di utenti inferiori rispetto al suo lancio avvenuto nel 2003, in Second Life si combinano insieme sia gli elementi di una chat (che rappresenta la modalità di comunicazione base con la quale si interagisce), sia gli elementi di un gioco di ruolo, ossia la capacità di muoversi in questo determinato cyberspazio tramite un personaggio che ci rappresenta. Ognuno può far entrare in gioco la propria immaginazione e costruire il proprio business, la propria abitazione e la propria immagine ed entrare in veri e propri ambienti tridimensionali. La struttura di questo mondo virtuale è quella di un vasto arcipelago di isole di proprietà dei residenti, plasmabili secondo le proprie esigenze.

A loro disposizione trovano strumenti indispensabili quali la possibilità di condividere video anche in streaming, musica e programmi radiofonici, parlare tra di loro attraverso non solo la chat, ma anche la voce.

L’opportunità alternativa concessa da questo nuovo strumento capace di fare evadere dalla realtà, parte dall’idea di dare all’individuo la possibilità di potersi creare il proprio aspetto esteriore, quello che può essere più adatto alla propria “seconda vita”. Gli utenti infatti possono decidere come apparirà il loro Io digitale (avatar). Il sistema mette a disposizione dell’utente un’ampia gamma di caratteristiche somatiche e di abiti. L’identità reale è celata dietro un Nickname, che può essere fantasioso oppure essere attinto da una lista fornita dai programmatori, prima di effettuare il primo accesso in Second Life. L’immersione in questo mondo comporta quindi l’assunzione di un’identità diversa e quindi anche il comportarsi di conseguenza. Significa lasciarsi alle spalle la propria immagine, appartenente alla vita reale, per diventare chi si desidera essere, o per essere semplicemente se stessi. Ma ciò che distingue Second Life dai comuni giochi 3D sta nel fatto che questo mondo virtuale non solo è popolato, ma è anche costruito dagli utenti stessi che lo modificano secondo le loro preferenze, progettando case o addirittura, interi quartieri. Ad oggi Second Life è ancora attivo, nonostante il calo vistoso degli utenti. E, secondo quanto dichiarato da Linden Lab, Second Life non chiuderà ancora. Inoltre, per chi non lo sapesse, la società californiana ha annunciato che aprirà un nuovo mondo virtuale il cui nome sarà “Sansar”, che significa “universo”. Sansar, la cui apertura pare sia stata fissata a metà del 2017, sarà appositamente pensato per la realtà virtuale e molte delle sue caratteristiche saranno simili a quelle di Second Life.

Avatar Therapy

La e-therapy, conosciuta anche come cybertherapy o net-therapy è la consulenza psicologica che si avvale della Rete come strumento di interazione tra paziente e professionista. Si usano a questo fine le e-mail, i programmi di instant messaging, le chat testuali, skype e così via. ll cliente si rivolge ad un professionista qualificato per ricevere aiuto nel risolvere i suoi problemi psicologici, per porre domande o dubbi, restando  comodamente nella propria casa e, qualora lo volesse, nel più completo anonimato. Nonostante la e-therapy si presenti come espediente senz’altro “innovativo”, esiste però uno strumento di consulenza psicologica e psicoterapico forse ancora più inedito. Il suo nome? L’ avatar therapy. L’ avatar therapy si basa sull’utilizzo della personalità traslata del paziente attraverso una VR, i pazienti infatti vengono accolti in studi virtuali dagli alterego dei loro terapeuti.Il dottor D. Craig Kerley (D. Craig Kerley, Psy.D. Georgia Licensed Psychologist), è uno psicologo che, con il nickname di Craig Kamenev, ha aperto in Second Life il Center for Positive Mental Health. Questo centro, primo caso di avatar therapy in America, è composto da uno studio professionale, un’ampia camera con i cuscini in terra per gli incontri di gruppo e una confortevole sala d’attesa. Il Dottor Kerley, impersonato mirabilmente dal suo avatar, tiene in Second Life sessioni di terapia di 50 minuti, regolarmente prenotate e pagate. Al posto del dialogo in prima persona c’è il dialogo in chat, mentre al posto del lettino reale compare invece quello virtuale. Per meglio comprendere l’attività del collega americano tenuta in Second Life, ho deciso di riportare l’intero contenuto della sua intervista comparsa sul quotidiano La Stampa del 30/08/2006:

Dottor Kerley, come funziona una seduta di terapia psicologica in Second Life?

«Si svolge più o meno come una sessione di chat terapeutica, ma in questo caso l’ambiente in realtà virtuale di Second Life offre indicazioni aggiuntive che non sarebbero disponibili in chat. Il paziente, e il terapista, forniscono indirettamente un gran numero di informazioni sulla loro personalità, in base al design del loro avatar, al nome scelto e agli abiti. Inoltre, l’uso di gesti introduce la possibilità di ricevere piccole informazioni non-verbali aggiuntive durante la terapia».

Quali sono i vantaggi di questo tipo di terapia?

«Il vantaggio primario della avatar therapy è la possibilità, per chiunque abbia un accesso limitato ai servizi psicologici, di usufruirne ugualmente. Nello specifico, chi ha gravi problemi fisici o soffre di fobia sociale debilitante o, ancora, di agorafobia spesso non è in grado di rivolgersi a un servizio specializzato. Ho scoperto che moltissime persone in queste condizioni usano Second Life come forma primaria di interazione sociale. Un altro vantaggio è proprio la natura virtuale: quando il problema è la fobia sociale, il paziente può sfruttare il gioco per svolgere un’interazione in un ambiente più “sicuro” rispetto alla vita reale. Queste sessioni di pratica possono poi essere gradualmente trasferite nella vita reale, quando il paziente prende fiducia nei propri mezzi. Gli stessi principi si applicano al trattamento della depressione, degli stati di collera e di problemi relativi all’ansia, come il disordine ossessivo-compulsivo e i deficit sociali collegati alla sindrome di Asperger».

Come nasce l’ avatar therapy? Ci sono altri psicologi che la praticano?

«Non conosco altri terapisti che conducono l’ avatar therapy in questo momento. Nei mondi virtuali, tuttavia, ci sono spesso gruppi di mutuo supporto, nei quali persone con problemi simili si riuniscono per discuterli. L’unico riferimento riguardo l’ avatar therapy è il libro online di John Suler “The Psychology of Cyberspace”».

Come hanno reagito gli abitanti di Second Life all’esperimento?

«Inizialmente con diffidenza. Molti degli abitanti di vecchia data non erano sicuri se il Center for Positive Mental Health fosse una simulazione o qualcosa di reale. Quando le persone hanno cominciato a capire che i nostri gruppi di discussione erano veri, hanno partecipato in numero sempre maggiore. Ora il gruppo di Second Life conta su 120 partecipanti e fino a 30 persone partecipano alle singole sessioni”».

Nonostante l’intervista sia affascinante e curiosa, lo scetticismo su queste forme di interazione terapeutica è largamente condiviso da molti professionisti della salute mentale. Non c’è dubbio che un’interazione via avatar, piuttosto che via chat, renda più pregnante e realistica la comunicazione fra due individui, ma resta la grande incognita della corporeità assente. In altre parole si possono eliminare gli elementi di fisicità senza snaturare il rapporto umano, vero agente terapeutico? A questa domanda risponderà la ricerca clinica e nel caso che la risposta sia confortante l’ avatar therapy ha dei vantaggi assolutamente indiscutibili, primi fra tutti il superamento di barriere geografiche e spaziali e la più semplice accessibilità per coloro che trovano troppo impegnativo un approccio tradizionale.

 

L’effetto Proteus

Nick Yee e Jeremy Bailenson, entrambi ricercatori della Stanford University, hanno condotto diversi studi sulla possibilità che gli avatar virtuali possano avere qualche effetto sul comportamento che l’utente adotterà nell’ambiente virtuale nel quale agisce. Essi hanno ad esempio assegnato a due gruppi di studenti un avatar per ciascuno. E’ stato dato loro meno di un minuto per esaminare le loro nuove “anime”(in una sorta di specchio virtuale) e poi sono stati “sospinti” in una stanza virtuale in compagnia di un altro avatar, controllato da un aiutante all’oscuro delle finalità dell’esperimento. Indipendentemente dalla loro altezza nella vita reale alcuni soggetti del primo gruppo hanno avuto in sorte avatar più alti dell’altro personaggio nella stanza, altri si son dovuti accontentare di avatar più bassi.

Nel secondo gruppo di studenti metà degli avatar assegnati rappresentavano volti più attraenti di quelli della controparte, l’altra metà erano invece meno attraenti. Il compito affidato a tutti era quello di accordarsi con l’altro personaggio nella stanza per dividere una somma di denaro. Hanno così riscontrato che le persone a cui era stato dato un avatar virtuale più alto erano negoziatori più aggressivi, mentre quelli con l’avatar più basso erano più inclini a scendere a compromessi anche quando questo non era proprio nel loro interesse. Coloro che avevano un avatar meno attraente inoltre, mentre parlavano con l’altro personaggio, si fermavano mediamente un metro più lontano da lui di quanto facessero quelli a cui era stato assegnato un avatar attraente. Queste influenze dell’avatar sui comportamenti degli utenti sono state chiamate effetto Proteus dal nome del dio greco del mare Proteo che, restio a raccontare ciò che vedeva con i suoi poteri di divinazione, sfuggiva alle domande assumendo forme sempre diverse.

In un altro studio, gli stessi ricercatori hanno potuto verificare che gli atteggiamenti stereotipici e i pregiudizi possono essere minimizzati se un individuo viene inserito nel corpo virtuale di un altro. Per esempio quando i partecipanti erano rappresentati in ambiente virtuale con l’avatar di persone anziane, gli stereotipi negativi verso gli anziani diminuivano sensibilmente.

In un altro studio, condotto da Sophia Grundnig e colleghi, ci si poneva questa domanda: che succede se un uomo entra e agisce in un ambiente virtuale con un avatar da donna e viceversa?

In questo nuovo studio non si è trattato soltanto di fingersi una donna per chattare con le donne, ma si è trattato di assumerne le sembianze, di muoversi col suo corpo, di indossare i suoi abiti, di avere le sue caratteristiche.

La stessa cosa naturalmente è accaduta per utenti femminili che hanno vissuto la loro esperienza virtuale sperimentale con un avatar maschile. Un altro gruppo di soggetti ha invece giocato con un avatar congruente col proprio sesso biologico. Entrati nell’ambiente virtuale di World of Warcraft (WoW) tutti i partecipanti allo studio sono stati coinvolti in due situazioni comunicative. Nella prima situazione gli uomini – donna sono stati contattati da un avatar donna per parlare di vestiti e di moda, mentre le donne – uomini sono state contattate da avatar uomini per parlare di “cose da maschi” (lotte e armi). Nella seconda situazione un avatar di sesso opposto a quello dell’avatar del partecipante cominciava a flirtare con lui, realizzando, negli utenti con gender-switching, un approccio omosessuale. Dopo l’interazione on line, i partecipanti hanno compilato un questionario sul concetto di sé.

I risultati hanno evidenziato che gli uomini –> donna giudicavano più criticamente il proprio aspetto fisico, rispetto agli uomini con avatar congruente con il loro sesso, mentre le donne–>uomini giudicavano meglio le loro abilità verbali rispetto alle donne rappresentate con avatar congruenti con il loro sesso. Questo suggerisce che il fatto stesso di aver messo piede in ambiente virtuale con un avatar del sesso opposto al proprio ha effetti misurabili sul concetto di sé, anche se, probabilmente, temporanei. In particolare il gender switching sembra avere un effetto negativo negli uomini sul giudizio che essi danno sulla propria gradevolezza estetica e un effetto positivo nelle donne sul giudizio che esse danno sulle proprie abilità verbali. L’effetto Proteus sembra quindi realizzarsi non solo con riferimento a comportamenti e attitudini, ma anche rispetto al concetto di sé. In generale tutti questi studi ci informano di un’intensa plasmabilità psicologica delle persone quando “diventano” avatar in ambienti virtuali, e danno conto anche del successo di ambientazioni come World of Warcraft. Se le persone tendono ad adattare il proprio concetto di sè in accordo con l’aspetto del proprio avatar, giochi di tale calibro sono capaci di trasformare letteralmente persone ordinarie in eroi, elfi, folletti o maghi. Quanto detto finora ci porta a una profonda conclusione: non si possono più ridurre i cybermondi a meri spazi ludici e sociali, ma bisogna tenere conto delle partite “psicologiche” profonde che vi prendono piede, senza però demonizzarli.

ADHD: strategie didattiche e consigli per gli insegnanti

Non di rado accade che di fronte una diagnosi di ADHD a scuola gli insegnanti si trovino spaesati e immersi in un mondo che non capiscono e non sanno gestire. I comportamenti dei bambini con ADHD, d’altra parte, non sono facili da comprendere se non si ha un’opportuna formazione ed adeguare la didattica alla sintomatologia spesso non è agevole. La premessa per una buona didattica con questi bambini è la conoscenza.

 

Bisogna comprendere che il bambino non è volontariamente “disattento” o “distratto”, ma non ha capacità di autoregolazione per cui non riesce a gestire i propri comportamenti e le emozioni, non colpevolizzarlo e cercare di attrarre la sua attenzione con metodologie adatte. Non accettare il bambino ed il suo problema equivale ad alimentare i vissuti di impotenza e incapacità con conseguente frustrazione che verrà sfogata, inevitabilmente, sul bambino.

 

Cos’è l’ADHD?

ADHD è l’acronimo di Attention Deficit Hyperactivity Disorder, tradotto in italiano come Disturbo di Deficit d’attenzione e/o iperattività e si configura come uno dei disturbi con una maggiore diffusione negli ultimi anni. Si tratta di un quadro patologico di difficile identificazione, in quanto il quadro si presenta sempre come molto eterogeneo con sintomi di disattenzione, iperattività o una commistione dei due. Tuttavia rilevarne la presenza è di estrema rilevanza per l’individuo in quanto tale disturbo si protrae fino all’età adulta e compromette significativamente le aree di vita più importanti. In questi soggetti spesso di verificano fenomeni di abbandono scolastico; le relazioni sociali non sono adeguate e le prestazioni scolastiche sono compromesse.

Si parla di ADHD con disattenzione predominante quando il problema centrale del bambino è proprio il deficit attentivo. L’attenzione selettiva e l’attenzione sostenuta risultano essere le più compromesse in questa tipologia di ADHD, ma anche le funzioni esecutive, in particolar modo la pianificazione e la memoria di lavoro, sono deficitarie. Questa discontinuità dell’attenzione compromette l’apprendimento, non permette lo sviluppo di abilità cognitive come il problem solving e di strategie comportamentali adeguate ad instaurare relazioni soddisfacenti con gli adulti ed i compagni.

Si parla di ADHD con impulsività e iperattività predominante, invece, quando la funzionalità attentiva risulta lievemente compromessa, mentre il focus del disturbo risiede nel comportamento ipercinetico e nella mancanza di autoregolazione. Questi deficit si traducono in un’attivazione motoria spropositata ed inappropriata, eloquio eccessivo, difficoltà di inibizione delle risposte e difficoltà nel rispettare regole e turni. Infine il tipo ADHD combinato presenta entrambe le classi di sintomi.

 

Come si comporta un alunno con ADHD a scuola?

E’ probabile che l’alunno con ADHD metta in atto alcuni comportamenti in conseguenza del suo quadro diagnostico. In base alla sintomatologia prevalente potrebbe, ad esempio, essere molto lento nell’iniziare le attività (prevalenza disattentiva) o, al contrario, essere impulsivo e precipitoso (prevalenza iperattiva) per cui ogni caso dev’essere valutato individualmente.

E’ inoltre doveroso specificare che molti bambini presentano comportamenti simili, ma nel caso di alunni con ADHD si tratta di una disfunzione regolativa a base neurobiologica per cui non assimilabile per frequenza e intensità ad alunni svogliati o demotivati. Se avete dubbi in merito potrete segnalare la questione ai genitori che potranno rivolgersi ad uno specialista di competenza (Neuropsichiatra Infantile e Psicologo) per una valutazione.

Dopo queste doverose premesse adesso proveremo a fare alcuni esempi di situazioni che potrebbero verificarsi a scuola con un bambino con ADHD:
– Tendenza a dimenticare a casa i materiali per la scuola;
– Comportamenti da “buffone della classe”;
– Tendenza a dimenticare di fare i compiti per casa;
– Richiede continui richiami per svolgere anche attività semplici;
– Spesso “spara” le risposte a caso;
– Infrange le regole dei giochi;
– Non è in grado di spiegare come ha svolto un’attività e se ha trovato difficoltà;
– Spesso il suo banco è un caos di oggetti non inerenti all’attività che sta svolgendo;
– Non riesce a pensare a soluzioni alternative alla propria nei problemi di matematica;
– Consegna i compiti senza averli riletti e commette errori di distrazione;
– Ha difficoltà nel ricordare nessi causa-effetto in una narrazione;
– Risponde prima che la domanda sia stata completata;
– Dimostra povertà lessicale nella produzione di testi scritti;
– Procede per prove ed errori.

Questi sono solo alcune delle situazioni che potrebbe dover affrontare un insegnante a scuola con un alunno ADHD in classe. Punizioni e rimproveri, come ben saprà chi ha dovuto affrontare questi momenti, non sono deterrenti e non hanno alcun tipo di effetto. Ciò accade perchè, come abbiamo detto precedentemente, il bambino non attua queste condotte volontariamente, ma esse sono frutto di una disfunzione regolativa. Dunque come affrontare questa situazione?

 

Consigli pratici per insegnanti

Prima di entrare nel vivo della didattica speciale per ADHD è utile sapere che secondo la normativa scolastica italiana i casi di ADHD rientrano nella recente normativa sui BES (Bisogni Educativi Speciali) per cui, in caso di diagnosi certificata, se il Consiglio di Classe lo ritiene opportuno (non è quindi obbligatorio), è possibile redigere un Piano Didattico Personalizzato. Riporto di seguito la nota n. 2563/2013 p.2: “Non è compito della scuola certificare gli alunni con bisogni educativi speciali, ma individuare quelli per i quali è opportuna e necessaria l’adozione di particolari strategie didattiche”.

Segnalo, inoltre, la possibilità di avvalersi di specifici teacher training, condotti da specialisti, per i casi di più difficile gestione.
Dopo queste doverose precisazioni ecco alcuni utili suggerimenti per la didattica con bambini con ADHD:

  • Strategie per il mantenimento dell’attenzione:
    Assicurarsi che non ci siano fonti di rumore che possano distrarre il bambino;
    Dare consegne brevi e di facile comprensione;
    Cambiare spesso il tono della voce;
    Utilizzare immagini, storie e video durante la spiegazione;
    Evitare i rimproveri e/o i richiami generici, prediligere modalità alternative per generare curiosità nei bambini e dunque attrarne l’attenzione;
    Utilizzare i gessi colorati alla lavagna;
    Utilizzare esempi pratici dell’attività che si andrà a svolgere evitando le astrazioni;
    Fare ripetere le consegne per assicurarsi la corretta comprensione del compito;
    Usare il contatto oculare durante le spiegazioni;
    Programmare la lezione in modo tale da non richiedere lo stesso livello d’attenzione per tutto il tempo.

 

  • Strategie per gestire l’iperattività:
    Evitare lavori ripetitivi e particolarmente lunghi, anche se semplici;
    Concordare preventivamente con il bambino le fasi del lavoro che si andranno a svolgere (compreso il controllo finale);
    Assicurarsi che il bambino abbia compreso con chiarezza cosa deve fare;
    Dare delle piccole ricompense che permettano lo sfogo fisico dell’energia (ad esempio: se ricontrolli quello che hai scritto puoi andare a prendere una merendina al distributore);
    Dargli modo di uscire dalla classe in modo strutturato così da evitare “evasioni” (ad esempio: tu sei l’addetto alle fotocopie, quando serviranno andrai a farle tu);
    Evitare di spiegare le consegne degli esercizi tutte insieme;
    Creare delle routines di classe.

Chiaramente essere l’insegnante di un bambino con ADHD non è un’impresa facile, ma imparare a capire il loro funzionamento è la chiave per instaurare con loro un rapporto costruttivo che non sia fonte di stress per entrambi.

Tecnologia organoide: un nuovo metodo per il rilevamento di malfunzionamenti cerebrali. Lo studio degli organoidi cerebrali

In una recente pubblicazione della rivista Nature Methods i ricercatori hanno introdotto un metodo per controllare sistematicamente lo sviluppo e le differenze tra gli organoidi cerebrali.

 

Lo studio sui malfunzionamenti cerebrali e il metodo per rilevarli

Nel 2013 alcuni ricercatori, guidati dallo scienziato Jürgen Knoblich dell’Institute of Molecular Biotechnology (IMBA), hanno sottoposto all’attenzione della comunità scientifica un’idea innovativa che può far luce sul funzionamento e la crescita neuronale.

Partendo da cellule staminali umane, i ricercatori sono stati in grado di riprodurre, in laboratorio, dei modelli tridimensionali viventi di piccole unità di cervello umano. Questi vengono chiamati organoidi cerebrali, possiedono alcune caratteristiche del cervello umano nel suo primo trimestre di sviluppo, lobi e corteccia inclusi. Questo tipo di coltura cellulare permette la crescita delle cellule staminali in 3D. Si presentano, dunque, come un modello ad alto potenziale di impiego all’interno della medicina. Infatti, grazie a questa scoperta, gli scienziati possono esaminare come le connessioni cerebrali, in vivo, si sviluppano e funzionano e, inoltre, come diversi farmaci o modifiche genetiche influiscono su di esse. Per diversi anni, Knoblich e colleghi, hanno lavorato intensamente per mettere insieme la complessa organizzazione delle diverse regioni cerebrali al fine di utilizzare questa tecnologia per indagare altresì cellule biologiche più sofisticate che potrebbero essere alla base dei disturbi neurologici.

In una recente pubblicazione della rivista Nature Methods i ricercatori hanno introdotto un metodo per controllare sistematicamente lo sviluppo e le differenze tra gli organoidi cerebrali. L’autore principale, Joshua Bagley, ricercatore post-doc dell’IMBA, spiega: “Nella nostra pubblicazione descriviamo un metodo per combinare i differenti tessuti cerebrali, a scelta. A tale scopo, lasciamo crescere insieme due diversi blocchi costitutivi della regione anteriore del cervello, ovvero, la parte dorsale e la parte ventrale. Questa cosiddetta tecnica di fusione di organoidi, ci permette di osservare interazioni complesse come, ad esempio, la migrazione cellulare e la crescita assonale tra le diverse regioni del cervello in via di sviluppo”. Gli scienziati potrebbero rendere visibile e analizzare la migrazione degli interneuroni GABAergici inibitori.

Questi interneuroni svolgono un ruolo essenziale al fine di una corretta elaborazione dell’attività cerebrale. I malfunzionamenti di queste unità regolatrici sono associate all’epilessia, alla schizofrenia e all’autismo. Ad esempio, gli interneuroni inibitori controllano il livello di attività nei circuiti locali del cervello e assicurano che non avvenga un’eccessiva emissione di segnali elettrici. Una perdita di tale inibizione, probabilmente a causa di una migrazione cellulare difettosa, può portare ad un’attività eccitatoria anormale che provoca crisi epilettiche.

Nel corso dello sviluppo cerebrale, gli interneuroni che vengono generati nella zona ventrale del cervello umano, migrano a lunga distanza per raggiungere le regioni corticali dorsali mediante effetto di segnali chimici. Daniel Reumann, dottorando dell’IMBA e co-autore dello studio dice: “È affascinante come si possa osservare il vagare degli interneuroni dalle regioni ventrali a quelle dorsali. Questi tipi di cellule si orientano mediante un processo chiamato chemotaxis, utile per il raggiungimento della loro regione target. Se questi segnali chimici vengono disturbati, gli interneuroni si confondono, perdono la traccia e potrebbero non arrivare nella giusta regione per controllare gli altri neuroni vicini comportando, come diretta conseguenza, l’insorgere di crisi epilettiche”.

Una proteina chiamata CXCR4 svolge un ruolo fondamentale nella migrazione degli interneuroni. I ricercatori sono riusciti a rendere inattivo questo segnale molecolare mediante un farmaco chiamato AMD3100, che inibisce CXCR4 evidenziando così la compromissione della migrazione degli interneuroni. Questo malfunzionamento potrebbe giocare un ruolo fondamentale nelle crisi epilettiche ma, probabilmente, anche in altri disturbi neurologici come ad esempio la schizofrenia.

Jürgen Knoblich afferma: “Fino a pochi anni fa gli scienziati non avevano la possibilità di comprendere in maniera sufficiente le varie cause della malattia neurologica. Le fusioni organoidi potrebbero rappresentare un cambiamento di paradigma, poiché questo nuovo metodo ci fornisce un ambiente controllato che permette l’esplorazione dei meccanismi sottostanti all’epilessia e ad altre malattie del sistema nervoso. Speriamo che il nostro lavoro contribuisca a una migliore comprensione dei malfunzionamenti che si verificano durante il complesso sviluppo del nostro cervello e di aprire la strada per potenziali trattamenti”.

Prolonged grief disorder, stili di attaccamento e burden in caregiver di pazienti affetti da demenza – Riccione, 2017

Prolonged grief disorder, stili di attaccamento e burden in caregiver di pazienti affetti da demenza

Elena Del Rio, Silvia Baraldi, Sara Bocchicchio, Maddalena De Matteis  Studi Cognitivi, Modena

 

La perdita di una persona cara si configura come uno degli eventi più traumatici nella vita di una persona e si caratterizza per un intenso e prolungato periodo di adattamento. Nella riflessione di relazione che cambia, il caregiver deve sottrarsi dalla percezione di un lutto costantemente vissuto nel presente.

Benché sia difficile definire un tempo prefissato per la risoluzione del lutto, dopo un certo periodo si assiste ad un progressivo cambiamento, con una riduzione del distress psicologico e dei sintomi fisici.

In alcuni casi tuttavia i soggetti colpiti possono presentare Prolonged Grief Disorder (PGD) (Prigerson, 2004). Lo sviluppo di problematiche psicopatologiche, specialmente di tipo depressivo, sembra essere legato in particolar modo alla durata dell’assistenza alla persona malata, ai livelli di ansia e depressione del caregiver e al costo emozionale prima del decesso. Tali caregiver presentano originariamente un problema di attaccamento insicuro che impedisce loro di affrontare la perdita e il lutto.

L’intento del presente studio è stato in primo luogo quello di valutare all’interno di un campione di caregivers di familiari con malattia di Alzheimer (AD), o altro tipo di demenza, l’incidenza di Prolonged Grief Disorder (PGD) in assenza di una perdita reale, e verificare l’associazione tra PGD e burden del caregiver. Si è cercato quindi di andare a verificare come il PGD possa associarsi sia alla presenza di stili di attaccamento insicuro, sia ad una diversa manifestazione dei livelli di burden (Stroebe et al. 2005).

 

Mindfulness: conoscere la verità del sentire-percepire – Report dal Seminario, Genova 22 Aprile 2017

Sabato 22 aprile si è svolto a Genova presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il secondo incontro del ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova 2017″ dove la Dott.ssa Renzoni ha condotto l’incontro dal titolo “ Mindfulness: conoscere la verità del sentire-percepire

 

Il corpo ci parla, la mente anche ma si va avanti ignorando, ignoranti; annebbiati, continuiamo a “spingere”  fino a volte a perdere il contatto con noi stessi, gli altri, le cose. Non basta guardare, serve vedere “in modo chiaro” .

 

La mindfulness è presenza mentale, pienezza della mente ovvero significa vivere intenzionalmente nella consapevolezza del momento presente. Secondo la definizione di Jon Kabat-Zinn, mindfulness significa proprio “porre attenzione al momento presente in un modo intenzionale, partecipatorio e non giudicante”. La pratica della Mindfulness, infatti, non è una tecnica di rilassamento ma, piuttosto, un modo utile per divenire consapevoli dei propri meccanismi abitudinari e automatici e agire nella quotidianità aprendo la strada ai comportamenti scelti in modo appunto più consapevole.

Si può scegliere di fermarsi per un tempo sufficiente Qui ed Ora, portare l’Attenzione all’esperienza del momento presente e semplicemente con accettazione, apertura, disponibilità, attenzione, ricettività attraverso i cinque sensi, energia e impegno, disciplina e fiducia, dedizione e gentilezza ma sempre senza modificare nulla, senza giudicare o rifiutare il momento presente attraverso un atteggiamento che non è né di avversione/ostilità né di desiderio/attaccamento poiché quest’ultimo comporta un attaccarsi al momento presente. Di qui le abilità nucleari della mindfulness ovvero Osservare, Descrivere e Partecipare, senza giudizio, momento dopo momento con disponibilità e fiducia nella sensazione che qualcosa di nuovo possa accadere.

L’atteggiamento con cui ci si avvicina alla pratica mindfulness, insegna Kabat Zinn, determina in buona misura i benefici che si possono avere.

I sette pilastri della meditazione sono proprio questi: descrivono un atteggiamento mentale, un insieme di attitudini alla consapevolezza.

Sono atteggiamenti che vanno coltivati deliberatamente, con intenzione, anche perché sono molto lontani dal modo con cui di solito ci si approccia alle esperienze: spesso infatti sono proprio l’esatto contrario di quello che si è abituati a pensare. I pilastri della meditazione e dell’atteggiamento mindfulness sono il non giudizio, la pazienza, la mente del principiante, la fiducia, il non cercare risultati, l’accettazione, il lasciar andare.

 

Primo pilastro della Mindfulness: il Non giudizio

La nostra mente valuta di continuo quello che succede dentro e fuori di noi. È l’attività normale dei pensieri.

Il problema è determinato da due fattori:

  1. questi giudizi vengono espressi in modo immediato e se ne è in larga parte inconsapevoli;
  2. questi giudizi, immediati e inconsapevoli, innescano delle reazioni del tutto automatiche.

E’ importante imparare a riconoscere questa attività giudicante della mente. L’obiettivo è esserne consapevoli e capire che la mente funziona in questo modo.

 

Il secondo pilastro: la Pazienza

La pazienza, dice Kabat Zinn, è una forma di saggezza: nasce dal comprendere e accettare che le cose hanno un loro naturale tempo di maturazione.

Con la mindfulness si può coltivare la pazienza imparando prima di tutto a essere pazienti con sè stessi.

 

Terzo pilastro: la mente del principiante

La mente del principiante è limpida e senza pregiudizi. L’esperto sa, e quindi immediatamente classifica la realtà in base alle sue conoscenze. Il principiante non sa niente, guarda le cose per la prima volta, non ha esperienze precedenti e non ha aspettative.

L’atteggiamento del principiante, dice Jon Kabat Zinn, è particolarmente importante nel praticare non solo all’inizio, ma sempre. Nessun momento è uguale a un altro: ciascun momento è unico e contiene possibilità uniche. La mente del principiante ricorda questa semplice verità.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Mindfulness conoscere la verità del sentire-percepire - Report dal Convegno - IMM1

La Dott.ssa Renzoni durante l’incontro “Mindfulness: conoscere la verità del sentire-percepire”

 

Quarto pilastro della mindfulness: la Fiducia

Con la mindfulness si può provare a entrare in sintonia con se stessi attraverso la fiducia nelle proprie sensazioni, nelle proprie intuizioni, e nel proprio corpo.

Praticare la mindfulness significa anche assumersi una precisa responsabilità: imparare a essere se stessi e a fidarsi.

 

Quinto pilastro: non cercare risultati

Kabat Zinn riferisce che se si pratica la mindfulness inseguendo un particolare risultato si potrebbe ottenere l’effetto contrario. Occorre concentrare l’attenzione sul vedere e accettare le cose così come sono, momento per momento. I risultati, i benefici, arriveranno da sé, con la pazienza e la pratica regolare.

 

Sesto pilastro: Accettazione

Viene come conseguenza: se quando mediti non cerchi risultati e non chiedi niente a te stesso (se non di meditare) vuol dire che stai praticando l’accettazione. Accettare non ha niente a che vedere con la rassegnazione. Vuol dire invece vedere chiaramente le cose così come sono. E questa è la base di ogni miglioramento.

Ogni cambiamento passa in primo luogo dall’accettazione di sé stesso così come si è ora. Non si può accettarsi domani, quando si è diventati quello che si vuole essere. Domani non esiste. L’unico momento in cui si può amarsi è ora.

 

Settimo pilastro: lasciare andare

Quando si inizia a praticare la mindfulness ci si accorge che ci sono pensieri che la propria mente cerca di trattenere, e altri che al contrario cerca di respingere.

Con la mindfulness ci si allena a mettere da parte la tendenza della mente ad attaccarsi a certe esperienze e a respingerne altre. L’idea è di lasciare andare, di essere semplici spettatori di tutto quello che accade nel teatro dei nostri pensieri.

Così facendo, dice Kabat Zinn si può imparare molte cose sui propri attaccamenti e sul loro effetto nella nostra vita.

La pratica della Mindfulness favorisce la possibilità di essere in relazione con se stessi e sviluppare consapevolezza su come il proprio mondo interno sia in rapporto con il mondo in cui siamo immersi, momento dopo momento. In altre parole, la pratica di consapevolezza permette di fare esperienza e di rimanervi in contatto, mentre essa avviene. Permette, inoltre, di coltivare una modalità differente, consapevole appunto, nei confronti della propria sofferenza e disagio, fisico e psicologico.

Qualsiasi persona che desideri utilizzare tale pratica deve affrontare un training personale, dal momento che solo la dimensione di esperienza personale di pratica apre la strada ai benefici della pratica stessa.

Non c’è nessun luogo dove è necessario andare, nulla che bisogna fare, nulla che è indispensabile ottenere.

Il ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova” è proseguito con il terzo incontro dal titolo “La riabilitazione dei DSA si fa APPetibile” condotto dalla dott.ssa Della Morte, svoltosi sabato 29 Aprile 2017 ore 10-13 presso il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva.

Trattamento del disturbo da deficit di attenzione/ iperattività (ADHD) tramite Neurofeedback Training

Vi sono ancora molti dubbi e critiche per quanto riguarda il trattamento utilizzabile in casi di ADHD, uno dei trattamenti meno conosciuti, fruibile anche in aggiunta al trattamento farmacologico e psicologico, è il Neurofeedback Training.

Flavia Costantino – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

 

La diagnosi del disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (ADHD) è spesso considerata controversa e vi sono associati ancora molti dubbi e critiche anche per quanto riguarda il trattamento utilizzabile. Uno dei trattamenti meno conosciuti, fruibile anche in aggiunta al trattamento farmacologico e psicologico, è il Neurofeedback Training.

Per comprendere come funziona e come agisce questo tipo di intervento, innanzitutto, è necessaria una breve descrizione del disturbo.

L’ ADHD è un disturbo che coinvolge due diversi ambiti (DSM-5, 2013):

  • Disattenzione;
  • Iperattività e Impulsività

Vi sono altre difficoltà ad esse associate, tra le quali la pianificazione, l’organizzazione, lo spostamento attentivo connesso ad un’iperfocalizzazione e all’incapacità d’inibizione, la difficoltà di regolazione emotiva e la bassa tolleranza alla frustrazione.

La prevalenza di ADHD riscontrata nella popolazione, secondo le ultime indicazioni del DSM-5, è del 5% in età infantile e nel 2,5% in età adulta.

Il decorso di tale disturbo prevede che vi sia una maggiore evidenza della sintomatologia in età scolare, periodo nel quale iniziano le prime richieste di autonomia e di organizzazione, aumenta la necessità di mantenere l’attenzione per lunghi periodi e la complessità dei compiti da eseguire.

A seconda delle caratteristiche individuali della persona che soffre di ADHD e del contesto nel quale è inserita, le problematiche, nel corso dell’adolescenza, posso mantenersi relativamente stabili ma, se non prese in considerazione, a tali difficoltà possono sommarsi problematiche comportamentali e relazionali. L’iperattività motoria solitamente diminuisce con la crescita, i sintomi permangono invece sotto forma di un senso di irrequietezza interiore, persistono le difficoltà organizzative e di attenzione (DSM-5, 2013), difficoltà che il paziente con ADHD può imparare a gestire tramite l’uso di strategie.

Il grado di severità della sintomatologia varia da persona a persona lungo un continuum, sulla base del grado di compromissione della qualità di vita del soggetto, da una sintomatologia più facilmente gestibile ad una di complessità maggiore. Anche il livello di disregolazione all’interno delle diverse aree coinvolte nel disturbo è variabile tra gli individui, configurando diverse sottocategorie diagnostiche: a prevalenza disattentiva, a prevalenza iperattiva/impulsiva, o in combinazione (attentiva e iperattiva/impulsiva) (DSM-5, 2013).

Per diminuire i fattori di rischio nell’andamento del decorso dell’ ADHD è bene effettuare una diagnosi il più possibile precoce ed iniziare il trattamento della sintomatologia, tramite psico-educazione ed eventuale trattamento farmacologico e psicoterapico.

 

Il Neurofeedback

Oltre ai trattamenti più comuni appena citati, alcuni studi hanno evidenziato dei miglioramenti prestazionali in seguito all’utilizzo dell’elettroencefallogramma (EEG) biofeedback, meglio conosciuto come Neurofeedback. Si tratta di uno strumento che permette di rilevare l’attività elettrica cerebrale e presentarla visivamente ed in tempo reale al paziente tramite uno schermo, basandosi sul fatto che ad ogni attività corticale corrisponde una diversa tipologie di onde cerebrali. Tramite il feedback osservato sul monitor l’individuo potrà imparare a conoscere “il comportamento cerebrale” e successivamente provare a modificare la propria attività elettroencefalica ricercando lo stato cognitivo voluto (www.neurofeedback-italia.it; Masterpasqua & Healey, 2003). L’individuo acquisisce in questo modo una strategia di autoregolazione.

Il Neurofeedback rileva, tramite l’utilizzo di elettrodi posizionati sul capo, l’attività elettroencefalica, acquisendo frequenza e ampiezza delle onde cerebrali relative all’attività svolta. I dati rilevati vengono trasmessi ad un computer che li trasforma in un formato visualizzabile sul monitor e quindi codificabile dall’utente. In questo modo il soggetto che si sottopone a tale trattamento potrà osservare e successivamente imparare a “gestire” il feedback relativo all’attività cognitiva e raggiungere volontariamente gli stati desiderati.

Solitamente vengono previste diverse sedute, gli studi indicano un trattamento che varia dalle 20 alle 40 sedute con caduta bi- o trisettimanale, a seconda del centro che lo propone. Si tratta quindi di un percorso impegnativo che richiede costanza e motivazione.

Le sedute prevedono livelli a complessità crescente che varieranno in parallelo all’acquisizione della metodologia e alla capacità di auto-regolazione della persona. Al raggiungimento della soglia di concentrazione e di rilassamento richiesta corrisponde l’attivazione delle immagini visualizzate sul monitor che saranno il feedback del raggiungimento dell’obiettivo.

 

Attivazione elettrica rilevata con il Neurofeedback

L’attivazione elettroencefalica si suddivide in quattro categorie di onde, che variano per la loro diversa frequenza. Le onde theta (4 – 7 Hz) corrispondono allo stato di pre- e post-addormentamento, ossia ad uno stato di rilassamento profondo; le onde delta (1 – 3 Hz) sono connesse al sonno profondo; le onde alpha (8 -13 Hz) sono maggiormente attive durante lo stato di veglia rilassata, mentre i processi di focalizzazione e processamento cognitivo (concentrazione su un compito e sua esecuzione) sono connesse ad un incremento dell’attività beta (14 – 30 Hz) nelle aree cerebrali frontali (Deilami et al. 2016).

Proprio queste aree frontali, insieme alle aree centrali, sono le aree indicate in alcuni studi, nell’avere una differente tipologia di attivazione elettrica in individui con ADHD, rispetto a coloro senza tale diagnosi (Loo & Barkley, 2005).

 

Neurofeedback e ADHD

Un elemento non diagnostico esplicitato nel DSM-5, evidenzia la maggior presenza delle onde lente theta in soggetti con ADHD e una carenza di onde beta, rispetto ai coetanei senza tale diagnosi. Tale dato che si collegherebbe alla diminuzione della capacità di rimanere concentrati su un determinato compito, per la carenza di onde beta nel corso del processamento cognitivo (Wangler et al., 2011), mentre, le onde theta, sarebbero associate a disattenzione e pensiero decentralizzato come sottolineato da Lubar (2003).

Sulla base di tali dati l’obiettivo del training con Neurofeedback, sarà quello di modificare l’attività cerebrale al fine di migliorare le performance cognitive e comportamentali dell’individuo (Becerra et al., 2006).

Un recente studio effettuato nel 2014, su 144 pazienti ADHD in età scolare, ha evidenziato miglioramenti prestazionali in seguito a training con Neurofeedback, in alcuni casi in aggiunta al trattamento farmacologico. Il dato è stato valutato attraverso la somministrazione di una batteria di test che ne rilevasse le variazioni nelle performance inerenti la sintomatologia ADHD comparate precedentemente e successivamente al trattamento (Holtmann et al., 2014).

Un ulteriore studio di Deilami del 2016 ha riportato le medesime differenze prestazionali nei risultati ottenuti da soggetti tra i 5 e i 12 anni sottoposti al training, confermando il miglioramento rilevato in precedenti studi (Fox, Tharp, & Fox, 2005).

Il dato principale nell’ottenere il miglioramento della sintomatologia tramite training con Neurofeedback consisterebbe nella costanza della sua applicazione, necessaria all’acquisizione graduale della metodologia da parte dell’utente.

Diversi studi hanno sottolineato l’efficacia del neurofeedback come rientrante all’interno delle linee guida cliniche delineate dall’APA (American Psychological Association). In particolare, Monastra effettuò un’analisi delle ricerche effettuate in quest’ambito dagli anni ’80 ai primi anni del nuovo secolo, rilevando un livello 3, in una scala di 5 livelli, di “efficacia probabile”, per indicare gli effetti positivi rilevati in più studi.

Nel portale statunitense CHADD The National Resource on ADHD il livello di efficacia raggiunto corrisponde al grado di “efficacia possibile” (livello 2) per le carenze metodologiche a loro avviso presenti negli studi scientifici effettuati, come indicato anche da Loo e Barkley (2005), che riportano l’incompletezza dei dati, ad esempio nel campione di controllo selezionato con il quale sono state confrontate le prestazioni dei soggetti analizzati, nel numero di pazienti coinvolti, nelle variabili considerate.

Altri limiti osservati riguardano l’impossibilità di comprovare l’efficacia del trattamento come connessa esclusivamente allo stesso (Lansbergen et al., 2011; Perreau- Linck et al., 2010).

Nel 2005 Hirshberg et al., indicarono come tale metodologia osservasse invece le “linee guida cliniche” di “forte evidenza empirica e/o con forte consenso clinico” dell’AACAP (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry) nel trattamento dell’ ADHD.

 

Conclusioni

I risultati qui osservati riportano pareri contrastanti. Gli studi più recenti sull’efficacia del trattamento dell’ ADHD con Neurofeedback sembrano esserne a favore (Deilami et al., 2016), come anche l’utilizzo di tale metodologia da parte di diversi centri sul territorio italiano, tuttavia appare necessario effettuare ulteriori approfondimenti per dimostrarne l’effettiva efficacia.

Inoltre sembra che il trattamento sia indirizzato maggiormente ad aumentare le capacità prestazionali nell’eseguire un’attività specifica, tenendo meno in considerazione le altre difficoltà dell’individuo con ADHD, come le capacità organizzative e di pianificazione. Ciò nonostante l’aumento delle capacità attentive potrebbe comunque avere effetti trasversali positivi anche sugli altri ambiti e migliorare le prestazioni individuali.

Importante sarà quindi non sottovalutare la complessità del disturbo, considerando all’interno della possibile efficacia del trattamento anche il grado di gravità della sintomatologia, la motivazione e la capacità individuale nel tollerare la frustrazione.

E se il “Dio delle Piccole Cose” fosse il terapeuta? – Commento alla canzone di M. Gazzè, D. Silvestri, N. Fabi

Una semplice canzone come Il Dio delle Piccole Cose può aprirti orizzonti particolari, per me (e forse non solo) questo Dio ha le sfumature di un Terapeuta e proprio per lui sembrano scritte le parole.

 

Ascolti tante canzoni, magari la stessa più volte ma basta un attimo in cui qualcosa cambia e vibrano quelle parole portatrici di un significato speciale.

Dammi un momento quella conchiglia là, ecco questa non è né più né meno che una raccolta di storie diverse e molto belle. Prodotto di milioni di passi, di modulazioni successive. Essa ha la forma che si può evolvere attraverso una serie di passi. E proprio come te e come me, anch’essa è fatta di ripetizioni di parti e di ripetizioni di parti di parti. Una storia che parla di una chiocciola o di un albero è anche una storia che parla di me e allo stesso tempo una storia che parla di te

(Bateson G.1989).

In virtù di ciò e di tanto altro ancora, una semplice canzone Il Dio delle Piccole Cose può aprirti orizzonti particolari, per me (e forse non solo) questo Dio ha le sfumature di un Terapeuta e proprio per lui sembrano scritte queste parole.

Chissà se qualcuno ha raccolto quei baci mai dati, i gesti invisibili come bottoni smarriti…Chissà se qualcuno ha raccolto quell’attimo in cui le impazziva il cuore

E noi ne raccogliamo tanti, di baci e di carezze ormai spenti e smarriti nelle coppie che, nelle loro guerre li trasformano in proiettili dolorosi. Dobbiamo essere in grado di sintonizzarci sui nostri bisogni più profondi e tramutarli in segnali chiari che aiutino il nostro partner a risponderci. Riconoscere che la “la fame emotiva” (Johnson S. 2011) è una realtà, l’amore necessita di continue attenzioni, e così in stanza di terapia proviamo a ritrovare quei baci, quegli abbracci, a farli tornare presenti e caldi per le coppie e le famiglie.

Ci vuole fortuna, magia, un prestigiatore

Queste parole de Il Dio delle Piccole Cose lasciano pensare che in ogni medico esiste un ferito, in ogni paziente e in ogni essere umano che soffre dimora un potente guaritore interiore. E ce lo ricorda il mito di Chirone che ha vissuto per sempre con la sua ferita, rappresentando l’archetipo del guaritore ferito. Ogni paziente offre all’analista una possibilità assolutamente nuova di entrare nel rapporto (Carotenuto A.1977). Ed in tutti gli approcci terapeutici è in questa relazione “magica” che avviene la cura.

Io spero che esista anche un Dio delle Piccole Cose…Che sappia i silenzi mai diventati parole…Quel nome che hai proprio lì sulla lingua e non viene

Quanti silenzi in stanza, quanto è importante imparare a rispettare quei momenti, cercando di suggerire ai miei pazienti (individui, coppie, famiglie) parole per uscire da quell’imbarazzo, che a volte è anche quello del terapeuta. Eppure la realtà dell’altro non è in ciò che ti rivela, ma in quel che non può rivelarti, perciò se vuoi capirlo non ascoltare le parole che dice, ma quelle che non dice (Kahil G. 1999).

Dio mostrale passi di danza che aveva sbagliato…

Da terapeuti sistemici relazionali ciò che osserviamo è proprio la danza della famiglia, quando arriva da noi c’è di sicuro qualche passo di danza sbagliato, quello che poi si trasforma in sintomo. Ciò che muta durante il percorso sono i modelli transazionali disfunzionali (Minuchin S. 1976), avviene una ristrutturazione del sistema familiare, un nuovo modo in cui le persone si pongono in relazione l’una con l’altra, ed ecco che si può tornare a danzare con un ritmo più equilibrato.

Conserva le foto in cui s’era trovata per caso, Raccogli le briciole perse di ogni esistenza, I respiri sui vetri, di treni in partenza

Spesso, come dice questo verso de Il Dio delle Piccole Cose, ci troviamo a raccogliere delle briciole di varie esistenze che hanno danzato attorno a quella delle persone che ci chiedono aiuto. Rintracciare gli “script familiari” intesi come aspettative condivise dalla famiglia di come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti (Byng-Hall J. 1998). L’analisi approfondita di questi script diventa fondamentale per capire quale sia la loro influenza sulle altre generazioni. In questi momenti tante foto sbiadite, altre strappate ma pur sempre pezzi di vita che congiungiamo in un puzzle familiare.

Chissà se qualcuno sa dire i cognomi dei suoi compagni di scuola, Poesie che non è mai riuscita a imparare a memoria, Se ha letto i romanzi che poi non abbiamo finito…Se sa le preghiere e i fantasmi di noi da bambini..

Quanti sono gli adolescenti e gli adulti che da piccoli non sono riusciti ad imparare a memoria le lunghe poesie, a scrivere correttamente un dettato…quanti di notte hanno bagnato quel lettino coccolati forse solo da quel cattivo fantasma che nessuno riusciva a vedere, e quindi a cacciar via. Come afferma Cancrini L. (2012) i giovani e i meno giovani, i bambini non curati e non ascoltati se li portano dentro, finché un lavoro terapeutico non riesce a raggiungerli, perché quelli che curiamo anche curando pazienti adulti, alla fine, sono i bambini feriti che piangono ancora dentro di loro.

Il Dio delle Piccole Cose aspetta la fine del cammino, con un sacco sgualcito dal tempo ed un piccolo inchino, chissà se ci ridà indietro le vite che abbiamo in sospeso

Che dire, queste ultime righe della canzone non hanno bisogno di commenti, aspettiamo la fine del cammino accanto a loro, e sarà quell’ultima stretta di mano così diversa da tutte quelle date nell’arco delle sedute, con cui ci si saluta per l’ultima volta. Il nostro sacco invecchiato sicuramente dagli anni, ma ricco, ricchissimo delle loro vite, dei loro dolori, delle loro lacrime, dei loro sintomi…li congediamo facendo un inchino per averceli donati.

 

ASCOLTA LA CANZONE “IL DIO DELLE PICCOLE COSE”:

Essere motivati è sufficiente a raggiungere lo scopo?

La domanda è: sentirsi motivati o desiderare qualcosa, è sufficiente a raggiungere lo scopo? La realtà è che la motivazione, da sola, non è sufficiente. Spesso le persone si sentono motivate a raggiungere uno scopo, ma non costruiscono un piano specifico di azione per il suo raggiungimento.

 

La motivazione e gli step da seguire per il cambiamento

Le persone utilizzano spesso il termine “motivazione” in riferimento a diversi ambiti di vita, ad esempio: al proprio aspetto fisico (“Mi sento motivato a perdere peso”), all’ambito lavorativo (“Mi sento motivato per questo nuovo incarico”), e ancora nel contesto sportivo, accademico ecc.. Accade spesso che le persone utilizzino in maniera intercambiabile i termini motivazione e desiderio. In genere, il desiderio, al contrario della motivazione, indica un obiettivo più astratto e più a lungo termine, ad esempio: “Vorrei guadagnare di più”, “Desidero relazioni più stabili” ecc..

La domanda è: sentirsi motivati o desiderare qualcosa, è sufficiente a raggiungere lo scopo? La realtà è che la motivazione, da sola, non è sufficiente. Spesso le persone si sentono motivate a raggiungere uno scopo, ma non costruiscono un piano specifico di azione per il suo raggiungimento. La motivazione rappresenta sicuramente il primo step fondamentale affinché venga affrontato un cambiamento; tuttavia, se quest’ultima non è seguita da azioni strategiche, non risulterà sufficiente al raggiungimento dello scopo.

Quando le persone sentono di essere motivate per il raggiungimento di un obiettivo, ad esempio “Voglio perdere peso”, è opportuno stabilire un piano d’azione concreto e realizzabile, o meglio dei sotto-obiettivi (a breve termine), che permettano, successivamente, di raggiungere l’obiettivo prefissato (a lungo termine). In questo caso, dei sotto-obiettivi potrebbero essere: “Non mangerò al fast food”, “Inizierò a fare attività fisica”, “Acquisterò più verdure”, “Preparo il cibo a casa per evitare di utilizzare il distributore automatico”.

Stabilire degli obiettivi specifici, da seguire giornalmente, permette alle persone un più attento monitoraggio del proprio andamento, e soprattutto che tali comportamenti diventino delle abitudini. Una volta che i comportamenti specifici, dettati dai sotto-obiettivi, sono stati spesso ripetuti, diventano delle abitudini. Queste ultime, al contrario dei comportamenti iniziali, non necessitano più di motivazione, ma sono delle azioni automatiche.

Step verso il cambiamento:
1. Motivazione: sentirsi motivati rappresenta la base per affrontare qualunque cambiamento con successo.
2. Piano d’azione: s’intende il passaggio all’azione. Stabilire dei sotto-obiettivi giornalieri è fondamentale affinché sia possibile raggiungere l’obiettivo prefissato.
3. Mantenere il cambiamento: forse, quello che più mette alla prova le persone che vogliono attuare un cambiamento è il mantenimento dei comportamenti nel tempo, affinché questi diventino un’abitudine.

Lavorare sulla motivazione è molto importante per apportare determinati cambiamenti nel proprio stile di vita. Nel contesto terapeutico, l’intervento motivazionale rappresenta spesso uno degli obiettivi principali, ad esempio nei disturbi correlati a sostanze, disturbi dell’alimentazione ecc..

Gelosia e invidia: le somiglianze e le differenze

Gelosia e invidia possono essere definite come emozioni complesse di derivazione sociale. Vi sono ampie aree di sovrapposizione tra le due, poichè ciò che risulta determinante per l’insorgere di queste emozioni è la percezione di un confronto sfavorevole in un campo rilevante per l’individuo che ha esiti negativi per l’autostima del soggetto. Vi è in comune un danno psicologico in termini di crisi di autostima all’interno di un confronto sociale.

 

La gelosia

Da sempre la gelosia ha rivestito un ruolo importante nella vita degli esseri umani. Essa infatti è parte integrante della vita dell’uomo, lo accompagna sin dalla prima infanzia e viene provocata da situazioni via via diverse durante la sua crescita: dalla gelosia verso le proprie figure genitoriali, passando dalla gelosia verso alcuni oggetti particolarmente significativi e quella che nasce in determinati contesti sociali quali l’ambiente scolastico o di lavoro (caratterizzata per lo più da competizione), fino ad arrivare alla gelosia provocata da eventi che minacciano la propria vita di coppia.

La gelosia è un’emozione complessa e molto frequente che può essere definita come un modo di reagire alla percezione che un’importante relazione interpersonale oppure un oggetto sia minacciata/o da altri. Infatti, oltre alla gelosia relativa alle relazione, vi è anche una gelosia nei confronti di beni, oggetti o posizioni in cui è centrale la paura che il loro possesso o esclusività vengano messe a repentaglio (D’Urso, 2013). Quando si prova gelosia si esperisce uno spiacevole stato di allerta e di minaccia di perdita di qualcosa o qualcuno; nelle sue forme più acute è accompagnata da tipiche attivazioni fisiologiche e tipici comportamenti; come vedremo in seguito, la gelosia può impattare in modo significativo sui processi cognitivi e sulla memoria. Come le altre emozioni, anche la gelosia può essere attivata da pensieri inerenti circostanze esterne e/o immagini mentali e ricordi.

 

La gelosia romantica

La gelosia per una persona che si ama e che si teme di perdere è chiamata in letteratura gelosia romantica. La dinamica della gelosia romantica si sviluppa in un triangolo composto da tre elementi fondamentali: il Sé (la persona gelosa), la Persona Amata e il Rivale.

La dinamica della gelosia amorosa, secondo D’Urso (2013) e’ costituita da:

1) La convinzione che alcune relazioni si configurino come oggetto di possesso e diano il diritto di richiedere o vietare determinati comportamenti (persino di vietare, in modo paradossale, sentimenti e desideri);
2) Il timore che il Rivale voglia o possa insidiare il possesso e il godimento della Persona Amata provocandone la perdita parziale o completa;
3) La previsione che se ciò dovesse accadere la persona gelosa ne avrebbe un danno, una sofferenza per la perdita dell’oggetto d’amore o della sua esclusività, e una ferita all’immagine di sè.

Questo tipo di gelosia è caratterizzata da un forte sentimento di possessività nei confronti della persona amata e quindi dalla convinzione di avere il diritto di vietare o imporre determinati comportamenti al proprio partner. Tuttavia a volte si può essere gelosi anche di persone quasi sconosciute, il che esclude la presenza assoluta nella dinamica della gelosia della possessività. Nella gelosia è a volte presente il timore di perdere la persona amata per causa del rivale, timore tuttavia presente anche se in realtà la reale minaccia di un terzo incomodo nella relazione di coppia è del tutto assente (D’Urso, 1995). Altro elemento importante in questo tipo di gelosia è l’aspettarsi di un possibile danno qualora la persona amata dovesse tradire, danno che porterebbe a una forte perdita dell’autostima. E’ quindi facile comprendere come le situazioni che provocano gelosia possano avere delle reali fondamenta ma possano anche essere causate da paure infondate proiettate dalla persona gelosa all’interno della coppia oppure da comportamenti di poco conto che semplicemente adombrano il rischio o il sospetto di infedeltà (D’Urso, 2013). Per quanto riguarda il Rivale, alcuni autori (Schmitt, 1988) evidenziano che il Rilave più temuto è colui che possiede le caratteristiche positive che si avvicinano al proprio Se’ ideale, piuttosto che all’ideale della persona amata.

La gelosia amorosa è spesso accompagnata da paura, rabbia, tristezza e vergogna, nonchè da una diminuzione dell’autostima. Secondo gli studi di Desteno, Valdesolo e Bartlett (2006) questo stato emotivo determina una grave perdita di autostima e induce come reazione un aumento dell’aggressività. Dal punto di vista comportamentale, quando si è gelosi si sviluppa una forte ambivalenza nei confronti della persona amata: l’atteggiamento può essere imprevedibile ed estremo in termini di eteroaggressività, sia verso la persona amata che verso il Rivale, nei confronti del quale sono dominanti i sentimenti di odio e il desiderio di annullamento.

E’ interessante riflettere sulle alterazioni cognitive che sono copresenti e conseguenti all’emozione della gelosia. In primo luogo, è presente il fenomeno dell’attenzione selettiva: l’attenzione si accentra minuziosamente su ciò che riguarda la persona amata e il Rivale e relativi atteggiamenti e comportamenti. Analogamente, anche i processi di memoria vengono influenzati dalla gelosia poichè vengono richiamati ricordi interpretati e valutati come coerenti con tale emozione e a conferma dei propri sospetti. Si accompagnano alla gelosia rimuginio e ruminazione che mantengono in modo disfunzionale tale emozione. Dunque i processi cognitivi sono di tipo investigativo, con attenzione allertata e ruminazioni che interferiscono con il normale corso dei pensieri e del funzionamento cognitivo, con inferenze e deduzioni che confermano e riconducono alla radice della minaccia.

Possiamo dire che si verifica un fenomeno che somiglia – anche se superficialmente- al delirio di riferimento osservato in casi psicopatologici: moltissimi eventi e situazioni della propria quotidianità vengono cognitivamente interpretati coerentemente ai pensieri specifici della gelosia e confermanti i sospetti e le minacce della gelosia.

Giancarlo Dimaggio identifica due radici della gelosia. La prima è il senso di vulnerabilità, inferiorità. Le azioni del geloso (controllo, investigazioni, aggressioni e vendette) nascono da lì, dal proprio senso di inferiorità. Costruire grandi case in mura di orgoglio e intonare inni al proprio valore servono ad allontanare la vulnerabilità. Se c’è qualcuno da accusare, il geloso scaccia l’idea strisciante di appartenere ad una genia di reietti. Gode del vigore che dà il combattere il nemico invece di sentirsi una nullità.

La seconda radice è più vicina a una forma di relazione oggettuale, il modo in cui nella mente si prevede andranno i rapporti. Di solito funziona così: si brama l’amato ma si teme di non essere alla sua altezza e che qualcuno più potente lo conquisterà. L’angoscia è insostenibile. La vita affettiva si plasma intorno al bisogno di controllare la perdita temuta.

La gelosia romantica ha conseguenze sulle persone che giocano i ruoli fondamentali della sua dinamica: sulla persona amata, sul rivale ma in primo luogo sul Sé. Accade infatti spesso che la persona gelosa soffra sia per la gelosia in se stessa, sia per il fatto di provare con tale intensità questo sentimento di sofferenza.

Nel caso in cui la gelosia insorga in seguito ad un fatto compiuto e innegabile, l’ansia quasi scompare e lascia il posto ad emozioni differenti: nel caso in cui la persona tradita si concentri sulla perdita, vi sarà la predominanza del range delle emozioni legate alla tristezza e alla disperazione; se invece il focus è sulla menzogna e sull’infedeltà emergeranno emozioni di rabbia e odio nei confronti del partner e del rivale. Chiaramente, se nei confronti del rivale vi saranno emozioni a valenza negativa tra cui anche invidia, nei confronti del partner vi potrà essere una costellazione emotiva più ambivalente.

 

Altri tipi di gelosia

Oltre alla gelosia romantica, è utile citare anche la gelosia da competizione sociale, descrivibile come il desiderio di ottenere un bene o una condizione/status che non si ha, accompagnato dal timore di fallire per la presenza di altri contendenti che ugualmente desiderano e perseguono lo stesso bene o condizione (Tagney e Salovey, 2010). Spesso questo tipo di gelosia è legato a situazioni competitive di tipo sociale e ad esiti o prestazioni pubbliche, quando bisogna mostrare e misurare le proprie abilità confrontandosi con gli altri. Secondo Salovey e Rodin (1984) la caratteristica specifica della gelosia da confronto sociale, che consente di differenziarla dalla gelosia romantica, risiede nell’oggetto del desiderio che non è una persona ma un bene o una condizione.

Esistono poi casi di gelosia in relazioni altre caratterizzate da altri tipi di affetto, ad esempio filiale e amicale. La gelosia dell’infanzia, in particolare tra bambini appartenenti alla stessa famiglia, è stata studiata da diverse ricerche (Dunn e Kendrick, 1982). La forma più comune di gelosia in famiglia è probabilmente quella che insorge nel primogenito all’arrivo del secondogenito (secondo Dunn e Kendrick nel 93% dei casi da loro esaminati). Forme di antagonismo legato alla gelosia tra fratelli o sorelle possono permanere anche negli anni successivi all’arrivo del secondogenito/terzogenito, ma spesso si accompagnano anche ad altre manifestazioni di affetto e generosità. Inoltre non tutti i conflitti tra fratelli vanno attributi all’emozione della gelosia.

Infine, una situazione che può rendere molto gelosi è legata ai rapporti di amicizia. Se pensiamo ad esempio all’adolescenza, quando generalmente si creano delle amicizie che vengono vissute come esclusive, un allontamento o un interesse verso altri amici, possono provocare nella persona che prova gelosia amicale un forte grado di sofferenza: l’allontanamento è vissuto come un tradimento secondo una dinamica simile a quella della gelosia amorosa.

 

L’invidia

L’invidia, pur non essendo annoverata tra le emozioni fondamentali, riveste una grande rilevanza nella vita affettiva degli individui. L’invidia è un’emozione complessa che fa riferimento ai valori e all’immagine di sè. In particolare, alla base dell’invidia si riscontrano sentimenti di mancanza, di rivalità e senso di inferiorità. Il trigger da cui ha origine è il desiderio di possesso di un bene, di una qualità o di una condizione che impone un confronto tra il soggetto, frustrato nel suo desiderio, e chi invece lo possiede (D’Urso, 2013). L’invidia è quindi un sentimento di malanimo nei confronti di un’altra persona, o un gruppo di persone, che chi invidia crede possiedano qualcosa che lui crede di non possedere. Per malanimo qui si intende il sentimento che si prova nei confronti di colui al quale si attribuisce il fatto di non riuscire a raggiungere i propri scopi.

Vi è una differenza fondamentale tra il semplice desiderare e l’invidiare perchè nell’invidia è essenziale la componente emotiva di rivalità con l’altro: l’esistenza di un bene/condizione posseduto/a da altri ingenerano un senso di mancanza, di inferiorità e di inadeguatezza nel soggetto (Frijda, 1986). Dunque, la base dell’invidia è una mancanza, o meglio anche dire la percezione di una mancanza, resa evidente da un confronto sociale; tale mancanza è spesso attribuita a proprie carenze personali oppure può indebolire la propria immagine di sè, e di conseguenza aumentare il senso di inferiorità. Inoltre l’invidia chiama in gioco criteri morali, in quanto può essere sostenuta da un’idea di ingiustizia e di indegnità verso la persona che gode di un bene, qualità o condizione desiderata dal sè.

In letteratura vi è accordo tra gli studiosi rispetto alla dinamica di rivalità e mancanza dell’invidia: come già scritto sopra, si invidia qualcosa e/o qualcuno perchè si vorrebbero possedere oggetti, qualità o condizioni che mancano; tuttavia vi è discordanza rispetto alla funzione dell’invidia. Ovvero: tale emozione è da intendersi come completamente negativa perchè motiva ad azioni ostili e aggressive verso gli altri e se stessi oppure vi sono aspetti benevoli che possono sfociare in atteggiamenti utili rispetto agli scopi dell’individuo?

Secondo Castelfranchi Miceli e Parisi (1988) l’invidia ha come fulcro l’ostilità: chi non consegue uno scopo desiderato soffre vedendo che gli altri invece sono in grado di raggiungerlo e prova ostilità per chi gli causa questa sofferenza; un’altra ragione di ostilità risiede nella constatazione che l’invidiato presenta una meta come raggiungibile, e questa presa di consapevolezza di realizzabilità di uno scopo da parte di altri ma non da parte del sè, porta ad una autosvalutazione della propria idea di sè, che esce perdente dal confronto sociale.

L’invidia è frequentemente associata ad emozioni e sentimenti quali rabbia, disprezzo, ammirazione, indignazione, svalutazione di sè e vergogna. In termini di tendenza all’azione e al comportamento, l’invidia può indurre ad azioni aggressive espressamente dirette a danneggiare la persona invidiata. Viceversa, vi può anche essere un atteggiamento passivo in cui si rinuncia a lottare per il bene invidiato e prevale un generale senso di sfiducia in se stessi e di autocommiserazione.

In generale, l’emozione dell’invidia è qualcosa che non si ammette volentieri e tende ad essere negata da chi la prova. Diversi autori (Girotti, Marchetti e Antonietti, 1992) hanno confermato, nel contesto culturale italiano, la bassa accettazione sociale dell’invidia: l’invidia risulta essere l’emozione coscientemente più rifiutata, le persone negano di provarla e di parlarne, mentre attribuiscono notevolemente agli altri tale emozione.

Le ragioni di questa accezione negativa e dello stigma legato all’invidia si ritrovano già nelle nostre antiche radici filosofiche: Aristotele nella Retorica definiva l’invidia come “un dolore causato da una buona fortuna che appare presso presone simili a noi” e come “passione disonesta e propria delle persone disoneste”. In generale, si nega l’invidia perchè non si vuole apparire come perdenti in un confronto nè come persone che spendono energie e risorse per danneggiare l’altro al posto che per raggiungere una meta desiderata.

Tuttavia, secondo altri autori vi sarebbero accezioni positive dell’invidia, un’ invidia “buona” che porterebbe la persona ad automigliorarsi a seguito della percezione della propria mancanza nel confronto con l’altro. Nell’invidia buona vi è l’esistenza di alcuni meccanismi positivi che portano l’individuo a confrontarsi con l’altro al fine di raggiungere i propri scopi in ottica migliorativa. In tal senso può esserci un’identificazione positiva con l’altro. In tal caso, il sentimento speculare e copresente all’invidia è l’ammirazione, nel momento in cui accanto al riconoscimento di meriti e qualità altrui non vi è la propria autosvalutazione e la sensazione di inferiorità. Inoltre, l’ammirazione è un sentimento senza remore che afferma la giustizia del possesso di un bene o di una qualità, mentre nell’invidia è spesso presente disprezzo e indegnità di chi gode della condizione invidiata.

 

Differenze e somiglianze tra gelosia e invidia

Gelosia e invidia possono essere definite come emozioni complesse di derivazione sociale. Vi sono ampie aree di sovrapposizione tra l’emozione della gelosia e dell’invidia, poichè ciò che risulta determinante per l’insogere di queste due emozioni è la percezione di un confronto sfavorevole in un campo rilevante per l’individuo che ha esiti negativi per l’autostima del soggetto. Vi è in comune un danno psicologico in termini di crisi di autostima all’interno di un confronto sociale.

Sul piano della valenza emotiva, entrambe sono emozioni spiacevoli, a tratti penosi che come già visto, implicano una diminuzione dell’autostima. A livello cognitivo, sia nella gelosia che nell’invidia si attivano generalmente processi cognitivi che mantengono in modo disfunzionale l’attivazione emotiva, quali l’attenzione selettiva, il rimuginio e la ruminazione.

Gelosia e invidia si differenziano per diversi aspetti:
La gelosia è più frequente quando nel confronto sociale una nostra qualità viene minacciata; l’invidia è più frequente quando l’individuo si confronta con chi possiede in maggiore grado una qualit, un bene o una condizione rilevante per l’individuo stesso;
La gelosia nasce nell’ambito dei rapporti affettivi, essenzialmente per timore di perdere la totalità o l’esclusività di un legame affettivo, mentre l’invidia riguarda prevalentemente il rapporto con i beni o con determinate condizioni (di successo, di potere, di status);
La gelosia è spesso accompagnata da stati mentali di sospettosità, sfiducia, autosvalutazione, paura, ansia e rabbia, ipersensibilità alle frustrazioni ma anche amore e desiderio verso la persona di cui si è gelosi; l’invidia nasce dalla percezione di una mancanza nei confronti dell’altro, ed è spesso accompagnata da senso di inferiorità, acuto senso di possesso, desiderio di danneggiare l’altro, anche se può essere presente ammirazione e una spinta positiva a emulare chi si invidia.

 

Quando gelosia e invidia diventano patologiche

Gelosia e invidia sono due fenomeni emotivi ampiamente diffusi e impattanti le relazioni affettive interpersonali, che si collocano su un continuum tra normalità e patologia: il che significa che provare gelosia e invidia è un fenomeno comune, e che solo in certe condizioni può divenire patologico. Maggiore è la rigidità, la pervasività e l’immodificabilità dei contenuti e dei processi cognitivi, nonchè dei correlati comportamentali legati a tali emozioni, maggiore sarà la probabilità di riscontrare un quadro di gelosia o invidia patologica.

 

La gelosia patologica

Allo scopo di comprendere le differenze individuali Marrazziti e collaboratori (2010) hanno recentemente sviluppato un questionario inerente al tema della gelosia, con lo scopo di classificare le manifestazioni di gelosia nella popolazione non patologica, sulla base di quattro ipotetici profili: gelosia ossessiva, depressiva, associata ad ansia da separazione e paranoide. Le tipologie di gelosia si caratterizzano per i seguenti aspetti: nella forma ossessiva, sono presenti sentimenti egodistonici ed intrusivi di gelosia che la persona non riesce a far cessare; nella forma depressiva, la persona prova un senso di inadeguatezza rispetto al partner, aumentando il rischio percepito di tradimento; nella forma con associata ansia da separazione, la prospettiva di una perdita del partner appare intollerabile, e vi è un rapporto di dipendenza e di continua ricerca di vicinanza; nella forma paranoide, vi è un’estrema diffidenza e sospettosità, con comportamenti controllanti ed interpretativi. Tale strumento rappresenta un utile collegamento tra normalità e patologia, ed ha lo scopo di portare luce su un fenomeno molto diffuso, sebbene poco studiato, e fonte di disagio psicologico in un’ampia parte della popolazione.

Affrontando quindi il tema del continuum tra normalità e patologia, presentiamo brevemente la descrizione di gelosia normale e patologica. Si parla di gelosia normale quando è inseparabile dall’amore per il partner e mostra livelli di attivazione fisiologica accettabili. Non vi è rigidità e pervsasività dei pensieri e nelle credenze legate alla sospettosità e minaccia di perdita del partner; non vi sono dilaganti comportamenti compulsivi di controllo, di investigazione ne’ comportamenti aggressivi e coercitivi. Invece, la gelosia patologica si genera da comportamenti che non trovano riscontro nella realtà, da azioni infondate, e deriva, sostanzialmente, da un’angoscia che prende forma nella mente senza nessun riscontro oggettivo. Quest’angoscia produce delle vere e proprie rappresentazioni mentali in cui si costruiscono ad hoc lo scenario, il rivale e, più di tutto, le prove dell’infedeltà. Quindi, la realtà viene erroneamente interpretata e tutto può essere frainteso. Questo, può portare a dei veri e propri deliri di gelosia che in alcuni casi sono all’origine di delitti passionali. Si tratta, dunque, di autentico delirio florido, esattamente come affermava Freud anni or sono, e rappresenta la parte più patologica della gelosia. Nei casi più estremi infatti non è raro che vi siano deliri di riferimento specifici definiti “deliri di gelosia”.

Questa forma di gelosia si manifesta con le seguenti caratteristiche:
paura irrazionale dell’abbandono e tristezza per la possibile perdita;
sospettosità per ogni comportamento relazionale del partner verso persone dell’altro sesso;
controllo di ogni comportamento dell’ altro;
invidia ed aggressività verso i possibili rivali;
aggressività persecutoria verso il partner;
sensazione d’ inadeguatezza e scarsa autostima di noi stessi.

Sostanzialmente, è una sintomatologia affine a quella della dipendenza affettiva. La gelosia, dunque, potrebbe essere la manifestazione di una condizione patologica di dipendenza affettiva. Si può affermare che la gelosia e la dipendenza affettiva sono due facce di una stessa medaglia: se è presente l’una è molto probabile sia presente anche l’altra . Infatti, il dipendente affettivo agisce sulla scia di un bisogno: non voglio rimanere solo. Di conseguenza, nel momento in cui si assume che l’oggetto d’amore, senza un dato di realtà, possa venir meno, si manifesta questa strana sensazione di estrema vulnerabilità in cui iniziano i comportamenti investigativi e di controllo, nonchè gesti disperati nel tentativo di tenere legato a sé l’oggetto d’amore. La gelosia patologica può riscontrarsi ad esempio nei disturbi della personalità, oppure in tratti di personalità sottosoglia, ad esempio nel disturbo dipendente, borderline, paranoide, narcisistico, antisociale, etc.

A livello comportamentale, capita spesso che persone che soffrono di gelosia patologica possano controllare o spiare la persona amata e, in alcuni casi, possono persino esercitare forme di controllo molto aggressive sul partner per prevenire l’infedeltà (usare violenza verbale, fisica o addirittura imprigionare chi si teme di perdere). L’intensità della gelosia è direttamente proporzionale alle dimensioni immaginarie della catastrofe della perdita della relazione e dell’amato intollerabile.

Tra le conseguenze della gelosia sulla persona amata, possono a volte essere presenti veri e propri comportamenti distruttivi nei suoi confronti, come provare odio o abusarne fisicamente, fino a considerare la persona che si ama disturbante quanto il rivale: basti pensare ai numerosi casi di aggressioni fisiche, violenze efferate e omicidi a sfondo passionale. Anche verso il rivale ci si comporta proiettando su di esso quasi esclusivamente sentimenti di annullamento e odio.

 

L’invidia patologica

Come già esposto nei precedenti paragrafi, l’invidia è un’emozione altamente stigmatizzata nella nostra cultura, è l’emozione di cui si parla meno e di cui si è meno consapevoli. La psicoanalisi ha dedicato grande spazio all’invidia, nelle sue teorizzazioni sullo sviluppo infantile. Già Freud parlava del ‘complesso di evirazione’ tale per cui la bambina nell’infanzia prova l’ ‘invidia del pene’ quando viene a conoscenza del sesso maschile. Secondo Melanie Klein l’invidia è un’emozione fondamentale per il successivo sviluppo emotivo-affettivo del bambino. Nell’infanzia, se l’invidia non è eccessiva ed é adeguatamente supportata ed elaborata può essere superata e ben integrata nell’Io attraverso sentimenti di gratitudine.

Nel momento in cui questa emozione è negata e non riconosciuta può indurre emozioni disfunzionali secondarie (ansia, colpa, frustrazione) che aumentano il livello di sofferenza e di disagio psicologico. In generale l’invidia può divenire patologica nel momento in cui i contenuti e i processi cognitivi disfunzionali sono rigidi e perseveranti: il confronto con l’altro innesca pensieri e credenze di autosvalutazione e senso di inferiorità, che spingono l’individuo verso comportamenti distruttivi e aggressivi, verso l’altro o verso se stesso; mentre in taluni casi prevale un quadro di evitamento e passività, in cui sono presenti stati di impotenza e autocommiserazione.

L’invidia patologica è caratterizzata da una elevata quota di rancore e astio, al punto che la persona oggetto dell’invidia è deumanizzata e odiata; spesso sono presenti esperienze infantili traumatiche, in termini di abuso, umiliazione, denigrazione, criticismo, biasimo e sabotaggio del valore personale. Nelle persone che presentano invidia patologica è copresente una acuta emozione di vergogna e senso di inadeguatezza del sè. A livello comportamentale e cognitivo possono attuarsi modalità di relazione evitanti, defilate e schive caratterizzate da diffidenza nei confronti dell’altro; in alternativa, la vittima di invidia patologica può identificarsi con l’aggressore (ad esempio un caregiver umiliante) e perpetrare il ciclo dell’abuso attraverso la denigrazione e la svalutazione dell’altro attraverso agiti intenzionalmente diretti a danneggiare l’altro. In entrambi i casi è presente una marcata sensazione di inferiorità e inadeguatezza del sè.

Spesso possono accompagnarsi all’invidia patologica, patologie legate alla sfera dei disturbi depressivi, in cui è centrale l’autosvalutazione del sè e l’autocommiserazione, così come in alcuni casi di disturbi della personalità, come ad esempio nel caso del disturbo di personalità narcisistico.

Superare le difficoltà psicologiche è un (video)gioco da ragazzi! Fare Play Therapy attraverso i videogames

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Grazie alla Play Therapy,  il gioco fornisce una distanza psicologica sicura dai loro problemi dei bambini e consente l’espressione di pensieri e sentimenti appropriati al loro sviluppo

Marco Lazzeri, Lorenza Diato

 

Che cos’è la Play Therapy

Anche se non diffusa in maniera uniforme in tutto il mondo la Play Therapy è comunque una pratica conosciuta ed applicata in molti Paesi (in particolare modo in Nord America, Nord Europa, Corea del Sud e Giappone). Sul sito www.playtherapy.it troviamo, per chi fosse all’oscuro o a digiuno di tale argomento, una notevole mole di informazioni che ci possono aiutare a capire meglio che cos’è la tale metodologia applicativa.

L’Association for Play Therapy United States (APT) definisce la Play Therapy come:

l’uso sistematico di un modello teorico per stabilire un processo interpersonale dove un professionista della salute mentale formato in Play Therapy (Play Therapist) utilizza i poteri terapeutici del gioco per aiutare i clienti a prevenire o risolvere difficoltà psicosociali e a raggiungere un livello ottimale di crescita e sviluppo.

Attraverso il gioco i bambini imparano a comunicare con gli altri, a esprimere i sentimenti, a modificare comportamenti, a sviluppare abilità nel risolvere situazioni problematiche e ad apprendere una varietà di modalità attraverso le quali relazionarsi con gli altri. Tuttavia, questa metodologia d’intervento si realizza quando il gioco è utilizzato come processo terapeutico e non solo come momento ludico. In tal senso si può dire che “il gioco” fornisce quindi una distanza psicologica sicura dai loro problemi e consente l’espressione di pensieri e sentimenti appropriati al loro sviluppo.

Le attività pratiche di Play Therapy variano molto in base sia alla preparazione del Play Therapist, sia in base alle esigenze del cliente. Nell’articolo del Dott. Claudio Mochi (psicologo esperto di Play Therapy nonché Play Therapy Supervisor) del 2009 dal titolo “La Play Therapy: il gioco come comunicazione” , ci viene spiegato come vi siano tre diverse modalità di intervento d’uso della terapia del gioco. Secondo quanto sostiene lo psicologo:

Negli interventi che vengono ricondotti al settore denominato non direttivo, il Play Therapist seleziona con attenzione i giocattoli nella stanza dei giochi per aiutare i bambini ad esprimere una varietà di sentimenti e problemi. Sarà poi il bambino a scegliere quali giocattoli utilizzare ed anche il modo con cui intende giocarvi. Il Play Therapist segue empaticamente l’iniziativa del bambino unendosi a giochi di finzione e immaginazione quando invitato dal bambino e fornisce nei momenti opportuni i limiti per tutelarne l’integrità fisica e favorire l’esercizio e lo sviluppo dell’autocontrollo. L’intero lavoro del Play Therapist è rivolto a creare un’atmosfera sicura nel quale il bambino si senta libero di esprimere se stesso, provare cose nuove, apprendere regole e restrizioni sociali, affrontare ed elaborare i propri problemi. Nell’ampio settore dei modelli direttivi è invece il Play Therapist a proporre, di volta in volta, le attività di gioco in base al piano terapeutico che ha formulato.

Un’altra forma di Play Therapy è quella Familiare. In questa tipologia di interventi è l’intera famiglia ad essere coinvolta in giochi e attività ludiche. Una forma particolare di intervento Familiare è la Filial Therapy. In questa modalità estremamente efficace, i genitori divengono gli agenti principali nel trattamento dei propri figli, in quanto vengono formati dal Play Therapist ad attuare delle sessioni di gioco non direttivo (centrate sul bambino) con i propri figli. Ogni attività è comunque adattata al livello di sviluppo del bambino per cui con il crescere dell’età e l’ulteriore sviluppo del linguaggio e delle capacità cognitive si utilizzano modalità di Play Therapy adeguate, in cui il linguaggio assume progressivamente una proporzione maggiore rispetto al gioco.

I principi terapeutici della Play Therapy sono assimilabili non soltanto ai classici giochi, ma anche ai videogiochi, ai giochi online e ad alcuni mondi virtuali. Eccone spiegati alcuni:

  • Abreazione: le persone tramite il gioco o la Realtà Virtuale rivivono determinate esperienze traumatiche, questo permette, in maniera graduale, di avere un maggior controllo su di esse.
  • Addestramento comportamentale: il gioco permette di modellare determinati comportamenti di vita rendendoli più adattivi. Ciò è permesso dall’ambiente sicuro del gioco, dove si possono sviluppare comportamenti socialmente più accettabili.
  • Catarsi: il rilascio emotivo è quasi universalmente riconosciuto come un elemento essenziale in ogni forma di psicoterapia. Coinvolge quelle forme emozionali in precedenza interrotte, piangere, colpire, ecc…La persona può esprimere queste emozioni colpendo un pupazzo gonfiabile, dei palloni, o qualunque altro mezzo sciogliendo così le tensioni fisiologiche e psicologiche accumulate e represse.
  • Contro-condizionamento: alcuni condizioni emotive interne si escludono reciprocamente, pertanto alcune situazioni di giocosità possono essere utilizzate come contropartita per situazioni spiacevoli. Ad esempio se si riesce a far giocare a nascondino un bambino, che ha paura del buio, in una stanza buia, questo lo porterebbe ad affrontare meglio le sue paure.
  • Potere e controllo: alcuni adulti nella vita reale credono di avere poche possibilità di controllo sugli eventi, nel gioco si può fare accadere quello che vuole, sentirsi potente e tenere la situazione sotto controllo permettendo di sviluppare un locus of control interno.

 

La Play therapy e i videogiochi

A livello internazionale le aziende che investono nel campo dei videogiochi a livello sanitario sono molteplici, e molte iniziano ad essere le applicazioni ludiche presenti in campo “mobile” per smartphone e tablet.

Facendo una ricerca su Pubmed Central con parole chiave come “Wii” o “Playstation” notiamo come esistono diversi studi sugli sviluppi di piattaforme create per attività che coinvolgono le due piattaforme. La cosa interessante che notiamo, dando una prima lettura veloce, è come i due dispositivi ludici siano stati utilizzati in molti campi diversi, dalla riabilitazione dall’ictus alla riabilitazione cognitivo-comportamentale. Si è notato a tal proposito che cercando solo la parola Wii sono emersi ben 2643 articoli su PubMed Central.

Il grande beneficio dei videogiochi sta nella capacità di unire la componente ludica all’esercizio motorio, al contrario delle terapie tradizionali, che richiedono esercizi monotoni e ripetitivi. Il videogioco tiene il morale alto senza far perdere la motivazione. La Playstation, la Nintendo Wii o perché no anche l’Xbox, non sono solo degli strumenti ludici, ma anche delle valide strumentazioni per la terapia del recupero motorio dei casi di ictus. Citando alcuni esempi tratti dal libro “Game therapy. L’uso dei mondi virtuali in campo sanitario” di Claudio Pensieri (2013), troviamo:

  1. EbaViR (Easy Balance Virtual Rehabilitation) – EbaVir è un sistema basato sulla tecnologia della Wii Balance Board Nintendo. È stato progettato dai terapisti clinici per migliorare, attraverso esercizi motivazionali e adattivi, l’equilibrio in piedi e la postura dei pazienti con ABI (ovvero lesioni celebrali acquisite). Il sistema EbaVIR non utilizza nessun software commerciale. Gli esercizi sono stati programmati con l’ausilio di un programma per la creazione di applicazioni 2D e 3D ed è stato progettato con l’aiuto di specialisti clinici della riabilitazione dell’equilibrio. Il sistema è stato sviluppato puntando a tre obiettivi: 1) ottenere un sistema valido per il recupero dell’equilibrio dei pazienti, 2) realizzazione di un sistema che rafforzasse la motivazione dei pazienti durante il processo riabilitativo, 3) realizzare un sistema che fornisse ai terapisti dei dati oggettivi sull’evoluzione dei pazienti
  2. EVREST  – EVREST è il primo trial randomizzato controllato in parallelo ed è stato ideato per valutare la fattibilità, la sicurezza e l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale offerta da un gioco della Nintendo Wii rispetto alla tradizionale terapia di riabilitazione per migliorare il recupero e il riacquisto delle funzionalità del braccio in pazienti colpiti da ictus. I software utlizzati erano software di sport (ad esempio la compilation di giochi sportive Wii Sports) e Cooking Mama.
  3. Wii Sports – Nella popolazione anziana la depressione subsindromica è molto diffusa. Essa è associata a una notevole sofferenza, disabilità funzionale, maggiore utilizzo di costosi servizi sanitari e una maggiore mortalità. In uno studio dove sono stati campionati 22 individui (di età compresa tra 63 a 94 anni) e 19 di essi hanno completato le 12 settimane di studio con il gioco Wii Sports (contenente cinque giochi: tennis, bowling, baseball, golf e pugilato). I partecipanti hanno giocato alla Wii nella loro struttura residenziale o nel loro centro anziani per 35 minuti in tre sedute settimanali. L’indagine pilota di 12 settimane con questi videogiochi ha suggerito un alto tasso di adesione (84%), con un significativo miglioramento dei sintomi depressivi, del funzionamento cognitivo e senza grandi eventi avversi.

 

La Computer Game Therapy e Pokémon Go

Altri esempi riconducibili a pieno titolo alla Play Therapy, oltre a quelli appena citati, fanno riferimento alla metodologia riabilitativa sviluppata dal Dott. Antonio Consorti (e conosciuta al pubblico come Computer Game Therapy) nonché all’applicazione per dispositivi mobile Pokémon Go.

Procediamo con ordine. La Computer Game Therapy metodo Vi.Re.Dis. è una metodologia terapeutica che si avvale dell’uso dei videogames e delle consolle video-ludiche di ultima generazione per la riabilitazione delle patologie del pensiero, del linguaggio e della relazione. La Computer Game Therapy poggia i suoi pilastri sull’ampio sfondo teorico-scientifico sull’Intelligenza Emotiva e sul Quoziente Emotivo, ovvero sulla capacità di relazionarsi emotivamente in modo dinamico alle sollecitazioni sensoriali o emotive provenienti dall’esterno. Grande attenzione viene riposta nella scelta degli strumenti da usare nei laboratori: sia l’elemento video, sia la componente audio hanno fondamentale importanza nello simulazione virtuale poiché allenano i soggetti disabili al riconoscimento di suoni e rumori dell’ambiente di vita quotidiana. La terapia si svolge in gruppo, da un minimo di 3 a un massimo di 6 partecipanti, diversi per età, patologia e livello comunicativo, ed è gestita da tre terapisti.

Le sperimentazioni effettuate in ambito scolastico nelle scuole del 7° Circolo Didattico di Verona, ad esempio, hanno evidenziato come l’uso dei videogames in questo ambito abbia stimolato i bambini all’apprendimento, li abbia portati a migliorare le loro capacità di relazione sociale e a sperimentarsi in modo consapevole all’interno di un gruppo, riducendo le dissimmetrie comunicative dovute a difficoltà relazionali tra i membri delle classi.

E per quanto concerne Pokemon Go cosa possiamo dire? Nell’articolo “Beyond the playful: pokemon go among captology, positive technology and emotional intelligence” spiegai i benefici di questo videogioco. Un articolo apparso su Panorama.it del 14 luglio 2016 riporta una riflessione del dottor John Grohol, esperto nello studio dell’impatto della tecnologia sul comportamento umano, sulla salute mentale e fondatore del fondato Psych Central, il più grande network su Internet che contiene ricerche, spunti materiale di supporto sui disturbi psichici. Ecco uno stralcio di quanto viene riportato:

La sfida, per chi è depresso, è aumentare i livelli motivazionali per uscire di casa, fino a quel momento inesistenti. Ci sarebbe bisogno di andare fuori e respirare un po’ di aria pulita, magari farsi una doccia o un bagno. Sembrano cose stupide ma sono estremamente difficili da affrontare per chi è ansioso o è depresso. Per questo credo che l’impatto del gioco possa davvero portare a notevoli benefici – Continua ancora lo stesso Grohol – La scienza è molto chiara su questo punto: più si fa attività fisica più scendono i livelli di depressione. Si tratta di uno strumento molto potente, con un effetto notevole

Ma in che modo quindi Pokémon Go può aiutare a uscire da uno stato mentale di apatia e scoraggiamento? Prima di tutto l’applicazione punta molto sull’interazione con il mondo esterno più che concentrandosi solo sul personaggio che si comanda. In questo modo si incoraggia verso la conoscenza di edifici e monumenti storici (i cosiddetti “Pokéstop”) e il contatto con gli altri giocatori sulla mappa. Il solo fatto di dover poi uscire allo scoperto per avanzare nel gioco è già un primo passo verso l’apertura allo sconosciuto, all’esterno, a quel mondo che fa così tanta paura. Certo, non è possibile e corretto considerare questo gioco come la cura per l’ansia e la depressione, ma è sicuramente un valido strumento per dare uno slancio. L’utilità positiva di Pokemon Go tuttavia non si ferma qui. Un altro esempio della sua funzionalità, in quanto tecnologia positiva, ci viene fornito dalla vicenda del C.S. Mott Children’s Hospital – Stati Uniti.

In questo ospedale pediatrico del Michigan, è in uso una terapia veramente speciale, avente a che fare con la popolarissima applicazione dei Pokemon. Pokémon GO viene difatti utilizzato come terapia in un ospedale pediatrico! Bambini con una vasta gamma di condizioni mediche differenti (malati di cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc ..) hanno l’opportunità di usufruire di Pokémon GO, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti! L’utilizzo della stessa, sebbene in condizioni alquanto singolari, è volto a migliorare le condizioni dei bambini: grazie a Pokémon GO possono muoversi dal proprio letto e socializzare più facilmente! Il movimento, dice un membro del personale, aiuta i bambini dal punto di vista fisico, non lasciando atrofizzare gli arti, mentre il socializzare con gli altri li fa sentire meno soli.

 

Un potenziale inespresso

Arrivati a questo punto, si potrebbe pensare che basti utilizzare la tecnologia in modo appropriato per veder migliorare le condizioni di vita di una persona. La realtà però, è più complicata e suggerisce altre considerazioni. Tra la disponibilità di questo potenziale e il suo effettivo dispiegamento nella vita delle persone, possono frapporsi degli ostacoli che rischiano di farlo rimanere inespresso. Oltre che a impedimenti di carattere oggettivo, legati al contesto in cui si vive, si aggiungono anche motivazioni di altro genere. Nel libro “DigitAbili” di Luca Spaziani (2016) vengono riportati una serie di fattori che possono impedire o limitare il supporto offerto dalle tecnologie alle persone. Ne riporto alcune:

  • Ignoranza: non si adotta un ausilio o non ci si avvale di un servizio per il semplice motivo che non lo si conosce;
  • Formazione insufficiente: non basta dotarsi di un ausilio perché offra un supporto, ma è necessario saperlo utilizzare per sfruttarne al massimo le potenzialità.
  • Inadeguatezza all’ambiente: affinché un ausilio informatico non resti una “cattedrale nel deserto”, è necessario che anche l’ambiente nel quale viene utilizzato sia sufficientemente tecnologico.
  • Scarsa attenzione nei confronti delle tecnologie: se la responsabilità di conoscere le tecnologie e i loro benefici è prerogativa di pochi, è innegabile che una maggior conoscenza da parte della società in genere, consentirebbe di sfruttarne maggiormente i benefici. Proprio in quanto strumento e non fine, la tecnologia è in grado di aiutare la persona, non di modificarne il contesto di riferimento. Le nuove tecnologie come si sa comportano scelte coraggiose, offrendo tante sfide e occasioni nuove, ma non per questo bisogna averne paura.  Bisogna solo avere buon senso nell’usarle.
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