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Un enzima metabolico capace di influenzare i ricordi

I ricercatori della Scuola di medicina di Perelman dell’Università della Pennsylvania hanno scoperto, nel cervello del topo, che un enzima metabolico chiave agisce direttamente dall’interno del nucleo dei neuroni per attivare o disattivare i geni quando vengono creati nuovi ricordi.

 

Cosa avviene nel cervello quando si creano nuovi ricordi

Comprendere come i ricordi si formano, vengono recuperati e, alla fine, come sbiadiscono col tempo è oggetto di studio da molti anni. In un recente studio è stato scoperto, nel cervello del topo, che un importante enzima lavora direttamente all’interno del nucleo dei neuroni per attivare o disattivare i geni quando vengono creati nuovi ricordi. I ricercatori ipotizzano che la registrazione di un nuovo ricordo e la memorizzazione di uno vecchio implichino lo sviluppo di proteine nello spazio, o la creazione di nuove sinapsi, dove un neurone incontra un altro neurone. Ma la formazione di questi ricordi richiede anche un’espressione genica nuova nel nucleo cellulare, dove il DNA viene immagazzinato e i geni vengono decodificati per stabilire le funzioni specifiche delle cellule.

Recentemente, i ricercatori della Scuola di medicina di Perelman dell’Università della Pennsylvania hanno scoperto, nel cervello del topo, che un enzima metabolico chiave agisce direttamente dall’interno del nucleo dei neuroni per attivare o disattivare i geni quando vengono creati nuovi ricordi. Questo enzima, chiamato acetil-CoA sintetasi 2 (ACSS2), alimenta un’intera macchina di espressione genica in loco nel nucleo delle cellule nervose per attivare i geni chiave della memoria dopo l’apprendimento.

L’enzima acetil-CoA sintetasi 2 e la compromissione della memoria nei disturbi neurodegenerativi

Questo studio fornisce un nuovo target per i disturbi neuropsichiatrici, come l’ansia e la depressione, in cui i meccanismi neuroepigenetici sono fondamentali. L’ipotesi è che ACSS2 possa avere un ruolo nella compromissione della memoria nei disturbi neurodegenerativi.
La formazione delle memorie prevede la ristrutturazione delle sinapsi, che si basa sull’espressione coordinata di un gruppo di geni della memoria. L’aggiunta di un gruppo chimico, un processo chiamato acetilazione, su punti specifici del genoma nei neuroni, destabilizza la struttura del DNA interferendo con la “lettura” dei geni coinvolti nella formazione della memoria.

I meccanismi epigenetici aiutano a capire maggiormente come l’aggiunta o la sottrazione di gruppi chimici, che influenzano l’espressione genica, siano essenziali nella regolazione delle diverse funzioni neuronali. In questo studio, il team di Penn ha scoperto che l’enzima metabolico acetil-CoA sintetasi 2 si lega ai geni della memoria nei neuroni per regolare direttamente e alimentare la loro acetilazione, che in ultima analisi regola la memoria spaziale nei topi.

I ricercatori hanno trovato che in un modello di coltura cellulare neuronale, l’ACSS2 aumenta nei nuclei dei neuroni differenziali e localizza i “geni neuronali upregolated” in prossimità dei siti ad elevata acetilazione istonica. Allo stesso tempo, una riduzione di ACSS2 riduce l’acetilazione e i livelli di acetil-CoA nel nucleo con conseguente diminuzione dell’espressione dei geni della memoria.

Successivamente, lo studio ha evidenziato che se l’espressione ACSS2 degli animali era bloccata, la memoria a lungo termine era compromessa, come dimostrato dall’inabilità dei topi di ricercare degli oggetti che erano stati collocati in una camera. Infatti, in un trial di due giorni, questi topi non sono andati alla ricerca dell’oggetto spostato il secondo giorno, mentre i topi del gruppo di controllo lo hanno fatto. Questo perché, senza ACSS2, i topi non avevano a disposizione alcun path molecolare per coinvolgere i geni della memoria affinché potessero memorizzare la posizione degli oggetti. A sua volta, questa diminuzione dell’ACSS2, in regioni cerebrali specifiche, compromette la “lettura” dei geni fondamentali implicati nella formazione delle nuove memorie o per l’aggiornamento di quelle vecchie.

Gli autori sperano di poter applicare in futuro questa nuova scoperta sulla memoria per impedire la formazione di ricordi traumatici, o addirittura per cancellarli, in persone che soffrono di disturbi post-traumatici, bloccando l’ACSS2 nella regione del cervello che elabora la memoria a lungo termine, l’ippocampo.

Riflessioni psicologiche sul fenomeno dei robot del sesso

I robot del sesso sono bambole dall’aspetto femminile create per impersonare la donna “perfetta”: rispettano i canoni estetici e caratteriali desiderati dall’acquirente, che per averla paga una cospicua somma di denaro e saluta, illusoriamente, i problemi di approccio, i diverbi e i contrasti, gli abbandoni e i rifiuti che ipoteticamente si incontrano in una relazione reale.

 

Con i robot del sesso la bambola gonfiabile si evolve, si raffina e acquisisce le sembianze di una pornostar con un corpo estremamente curato e sessualizzante, pronuncia le parole giuste al momento giusto, esattamente ciò che vorrebbe sentirsi dire l’uomo interessato a godere della sua compagnia.

Robot del sesso: addio alla reciprocità e all’incontro tra identità

Non può ancora camminare, ma in compenso è sufficientemente snodata per un rapporto sessuale, condivide gli interessi dell’aspirante partner, possiede ogni tratto somatico da lui desiderato, non invecchia mai e promette una fedeltà garantita e sicura e, al contrario di una donna reale, è letteralmente nelle mani di un uomo cui non può sottrarsi: il robot del sesso non va a lavoro, non frequenta le amiche, non nutre passioni oltre a quelle contemplate dal suo “padrone”, non riflette sotto ottiche differenti, non discute, non si esprime, non cambia look, non ha gli occhi azzurri anziché verdi, non indosserà mai un abito o un trucco sgradito, e con il trascorrere del tempo non si riempirà di rughe, né ingrasserà o dimagrirà.

Non solo il rapporto manca di reciprocità, gradualità e spontaneità, ma anche dell’incontro di due identità perché il robot del sesso, non essendo umano, non è dotato di questo tratto tipico dell’uomo: la bambola non attraversa l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e l’anzianità, non è in grado di selezionare il partner in base alle esigenze e tratti personali, si limiterà solamente a funzionare come un giocattolo maneggiabile per il cliente che finalmente dichiara di aver trovato una sostituta alla ragazza in carne ed ossa.

Una creatura artificiale, il robot del sesso, che è quindi l’antitesi della donna reale, che come essere umano è dotata di un’unicità, tratteggiata dalle componenti estetiche e identitarie: la bambola è una riproduzione, una copia ricostruita ad hoc che può somigliare ad una persona reale e irraggiungibile, come la star cinematografica preferita, oppure avvicinarsi ad un prototipo mentale dalle peculiarità somatiche e personologiche specifiche. C’è chi la desidera orientale, chi occidentale, chi mora con gli occhi marroni o bionda con gli occhi verdi, chi spiritosa, chi pacata, comunque in costante adorazione e accondiscendenza del partner.

Le reazioni alla diffusione dei robot del sesso

La diffusione del fenomeno robot del sesso ha scatenato ben presto reazioni contrastanti; dai movimenti contrari a queste nuove creazioni nate prevalentemente su imitazione del sesso femminile che viene deriso, umiliato e oggettivato, fino all’entusiasmo di chi finalmente potrà costruire la compagna ideale senza neanche impegnarsi a rendersi desiderabile per lei. Se da un lato il robot del sesso suscita scalpore e indignazione, dall’altro si afferma come un sogno finalmente realizzato: la ricerca dell’amante perfetta, irreale, totalmente pertinente ai bisogni maschili è presente ormai da secoli e ora, con l’avanzamento tecnologico, si concretizza in un prodotto ottenibile ad un prezzo elevato in termini sia economici che psicologici.

Optare per la frequentazione di un robot progettato sulla base di ciò che si pretende dalla partner, sottolinea un dato rilevante nell’identità e nelle relazioni interpersonali: infatti nel rapporto maturato con un essere umano o robotico entrano in gioco i significati personali che definiscono il modo di rappresentare se stessi, gli individui e gli eventi, pertanto la scelta della compagna è indicativa delle necessità inconsapevoli che confermano le interpretazioni soggettive. Pensare di essere inadeguati nelle relazioni interpersonali ad esempio, è una delle tante possibili credenze che conducono alla selezione di un partner robotico che, in tale frangente, confermerebbe l’idea di partenza in un circolo vizioso, difficile da individuare senza un aiuto terapeutico.

I significati personali prevalenti nel funzionamento soggettivo sono quindi punti di partenza per riflettere sulle motivazioni che spingerebbero gli uomini a stringere “legami” duraturi e occasionali con una bambola parlante: lo slogan dell’azienda produttrice proclama l’importanza dei bisogni del cliente e il robot del sesso, così com’è stato progettato, sembra rivestire la necessità di controllo su una donna ridotta ad un oggetto manovrabile, docile, sottomessa, incapace di replicare e autodeterminarsi. Non sarebbe casuale, infatti, se gli uomini interessati ad un prodotto simile adottassero con maggior frequenza atteggiamenti ipercritici sul corpo femminile che per essere esteticamente appetibile deve conformarsi a canoni estetici faticosi, innaturali e irraggiungibili, fino a ridursi ad un oggetto in costante auto-osservazione e modificazione.

Di conseguenza la  donna “perfetta” non può essere altro che una bambola programmata per appagare la sessualità, del tutto priva della personalità, del calore e dell’intelligenza degli esseri umani: la partner ideale, non è pensata secondo gli aspetti identitari che si rispecchiano negli interessi, nel modo di gestire le relazioni o nella concezione di sé e dell’esterno, bensì è enfatizzata principalmente per le componenti estetiche che assumono una rilevanza cruciale.

Robot del sesso: una risposta alla solitudine?

Stando all’opinione dei programmatori, però, tale invenzione è finalizzata a sopperire il vuoto interiore degli acquirenti, soli e insoddisfatti. Una soluzione del genere, tuttavia, potrebbe alleviare la sofferenza in un primo momento, immediatamente dopo l’acquisto, per poi rafforzare e peggiorare con il tempo il malessere, in un circolo vizio disfunzionale: rifiutare il rapporto con gli esseri umani significa accantonare l’eventualità di “fare esperienza” di emozioni, pensieri e sensazioni che nascono dall’interazione, e quindi di gioire e soffrire insieme, subire un abbandono o un rifiuto, deludere ed essere delusi, confrontarsi con le discrepanze che rendono le persone uniche in quanto tali e consentono una potenziale crescita.

Tutto ciò, infatti, non si verifica con la bambola, con la quale cambia anche la concezione della coppia: la costruzione di una storia affettiva con una persona, infatti, richiede varie fasi che attraversano l’innamoramento e l’amore, dall’idealizzazione di sé e dell’altro in cui si sovrastimano le risorse reciproche, al confronto tra pregi e difetti che portano alla decisione dell’impegno in un progetto di coppia duraturo, fino all’ipotetica rottura e all’elaborazione del lutto che, intrapresa costruttivamente, consente di incrementare una conoscenza di sé e dell’altro, una migliore gestione emotiva, un’integrazione di molteplici punti di vista, e quindi un arricchimento in termini di maturazione personale.

La presenza di un altro umano è perciò fondamentale per comprendere la propria e l’altrui mente, formulare ipotesi e riflettere su pensieri, intenzioni e comportamenti, ad esempio, al fine di conoscere se stessi e l’esterno. Passioni divergenti, piccole incomprensioni e incompatibilità caratteriali, delusioni e percezioni di fallimenti non sono rare eccezioni e influiscono sull’andamento relazionale fin dai primi incontri, pertanto si può dedurre che la ricerca di un robot del sesso, dalle frasi limitate e compiacenti costituisca una soluzione illusoria alla difficoltà di venire incontro all’altro ma anche di mettersi in discussione e integrare nuovi modi di vedere la realtà.

Di conseguenza nasce spontanea la domanda sulla profondità del rapporto con un robot del sesso: come diventerà a lungo termine? L’interazione con una compagna robotica che non possiede interessi, intelligenza e personalità ed è per di più priva di espressioni facciali, imperfezioni estetiche, movimenti corporei, odore, tatto, e in sostanza di tutte le esperienze pregresse e attuali solleva numerosi interrogativi sulla qualità relazionale spogliata della comunicazione non verbale: diversamente da un volto che con i suoi tratti distintivi, mutevoli e imperfetti, reattivi agli stimoli interni ed esterni avvia importanti messaggi, la bambola resta imperturbabile, statica, innaturale, non possiede pertanto la componente espressiva che trasmette un effetto emotivo in chi la osserva.

Perché esiste allora? La bambola è programmata per colmare la solitudine e le altre lacune emotive non elaborate che costituiscono una condizione di malessere iniziale o un problema destinato a radicarsi, specialmente se ad utilizzarla sono i giovani con poca esperienza nelle relazioni sentimentali: il rischio del robot del sesso è quindi di aumentare le insicurezze nell’incontro con l’altro sesso, evitare le paure, le responsabilità ed eventuali apprendimenti che permettono di propendersi al futuro con maggior consapevolezza e crescita. Una relazione con un essere umano, seppur impegnativa e talvolta scottante, avvia un’esperienza potenzialmente produttiva per conoscere se stessi e gli altri e quindi sentire la sofferenza e il piacere, migliorare i punti di forza e fronteggiare gli elementi di debolezza, cosa che non sembra verificarsi in un rapporto con un robot. Analizzare l’ambito delle relazioni sentimentali e i significati correlati diventa, pertanto, un punto di partenza percorribile per comprendere le motivazioni che spingono determinati soggetti a selezionare un partner robotico e a scartare un essere umano.

Life is strange: un videogioco che riproduce temi adolescenziali

Life is Strange non è un videogame, è un manifesto generazionale dei Millennials. La sua narrazione, che tocca con rara sensibilità temi attuali e terribili come il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza, è stata premiata con i più alti riconoscimenti di settore.

 

Prima di iniziare la lettura dell’articolo, voglio farvi una domanda…Secondo voi, i videogiochi fanno male? Mi rendo conto che la domanda potrebbe essere alquanto scontata e ovvia per alcuni, ma prima di rispondere vorrei invitarvi a riflettere sul videogioco di cui vi parlerò. Qualcuno di voi, ha mai sentito parlare o ha mai giocato a Life is Strange? Life is Strange, titolo dall’enorme successo nato dalla Dontnod Entertainment e pubblicato dalla Square Enix nel 2015, è un’avventura grafica strutturata in cinque episodi disponibile per le principali consolle oltre che per PC.

Life is strange: alcune recensioni sul videogioco

Spaziogames ed Everyeye con le loro recensioni forniscono un quadro davvero completo di questo videogioco delineando, sebbene in maniera non approfondita, anche alcuni aspetti psicologici. Senza anticiparvi la trama, poichè vi consiglio caldamente di giocarvi, vi riporto un estratto della recensione di Lorenzo Mosna tratta da Spaziogames che dice:

Ci sono giochi che ci fanno capire quanto il videogame sia uno straordinario strumento per raccontare delle storie. Giochi che riescono a immergerti in un mondo, a fartelo vivere e sentire, e a creare un legame speciale con i personaggi che vivono al suo interno. Life is Strange, titolo nato dalla mente dei Dontnod, è uno di questi: un gioco che ci ha conquistati sin dalle sue prime immagini e che ci ha coinvolti in un crescendo emotivo lasciandoci una splendida sensazione. In Life is Strange, ogni azione ha le proprie ripercussioni sul mondo del gioco, e le scelte compiute dalla protagonista nelle fasi di dialogo e negli avvenimenti più importanti della vicenda possono stravolgerne l’esito. Piccole cose, come la rimozione di una scritta da una lavagna o un semplice atto di gentilezza o negligenza plasmano il continuum spazio temporale, dando luogo a risultati spesso imprevedibili, o addirittura sospesi e indecifrabili nell’immediato, e grazie al potere di Max vi è sempre la possibilità di riavvolgere il tempo e ritornare sui propri passi. Come nella metafora dell’effetto farfalla, un’azione apparentemente innocua può portare a grandi conseguenze, che né il giocatore né la protagonista possono comprendere. L’aspetto che rende Life is Strange particolarmente interessante è costituito dal costante dubbio in cui il giocatore si trova immerso: anche se abbiamo la possibilità di riavvolgere il tempo e cambiare le nostre decisioni, l’esito di queste si concretizza molto più avanti ed è impossibile per il giocatore capire anzitempo di avere compiuto la scelta giusta o sbagliata. Il legame empatico che si stringe tra il giocatore e la protagonista ha una forza dirompente, e bastano pochi minuti per amare il mondo di Max e di chi le sta attorno. Ogni personaggio è caratterizzato in maniera eccellente, e le varie personalità emergono con veemenza dopo pochi minuti. I dialoghi sono scritti con maestria, e il mondo dei teenager americani è ritratto senza troppi filtri: l’uso del turpiloquio costante, i vizi e le virtù dei giovani si mostrano senza edulcorazioni, e anche quei personaggi che incarnano un archetipo banale riescono a trasmettere un senso di verosimiglianza. Dontnod, da questo punto di vista, ha compiuto un lavoro straordinario che raramente si vede nel mondo dei videogiochi.”

Federico Ercole invece descrive: “Succede raramente in un videogioco, spesso invece nei grandi romanzi, di stabilire un’identificazione così immediata e travolgente con un personaggio fittizio e di dialogare con la sua anima numerica come se fosse una parte di noi, una eco della nostra coscienza. Life is Strange è indimenticabile e i suoi personaggi, con le loro storie, risultano tatuati nella memoria. Se i luoghi che visitiamo durante il gioco non sono molti, sebbene variati dal contesto imposto dalla sceneggiatura, tornarvi dopo poco arricchisce la loro dimensione quotidiana trasformando posti come la camera di Chloe, quella di Max e il campus in spazi intimamente familiari e “veri”. Da qui comincia uno struggente poema elettronico sull’infanzia bruciata troppo presto, sull’ingiustizia, sull’amicizia, sulla prepotenza verso i più deboli, sul pregiudizio e su molto altro: l’universo inquieto (forse ormai dimenticato e incomprensibile per chi ha superato i venti anni) di una gioventù che prova per la prima volta sentimenti che risultano devastanti e dominanti, l’anima di una generazione rappresentata con una gamma cromatica delle emozioni dalla varietà e profondità rare nell’intrattenimento elettronico. Life is Strange è un’opera romantica in maniera universale e pura, incorrotta dal cattivo gusto e dalla superficialità, assolutamente femminea. In essa vi è la lotta dell’essere umano contro la crudeltà di un fato perentorio e lo struggimento che deriva dal potere di condizionare il destino, che è un mostro difficile da ingannare. Non dovrebbe essere giocato solo da chiunque ami i videogiochi ma soprattutto dai disinteressati o da chi li ignora, poiché potrebbe infine innamorarsene perdutamente o almeno capirne la grandezza.

Life is strange: il trailer

 

Life is strange: un manifesto dell’ età adolescenziale

Queste due recensioni introducono alcuni elementi di Life is Strange molto interessanti che cercherò di condividere insieme a voi e, nel farlo, cercherò di essere il più chiaro e sintetico possibile. Il primo elemento di cui vorrei parlarvi è forse uno degli aspetti che vi porterà a rispondere: “Si, I videogiochi fanno male” al quesito posto all’inizio di questo mio articolo, ma non per questo dobbiamo partire prevenuti e generalizzare. Non voglio fare con questo cattiva pubblicità al videogames, ma è un aspetto da tenere in considerazione (e forse, molti di voi non ne sono a conoscenza).

Come riporta Alessandro Contin nell’articolo del 31/05/2016 sul sito La Stampa, Life is Strange: “non è un videogame, è un manifesto generazionale dei Millennials. La sua narrazione, che tocca con rara sensibilità temi attuali e terribili come il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza, è stata premiata con i più alti riconoscimenti di settore… “ Nell’intervistare poi Raoul Barbet (Co-Game Director), Michel Koch (Co-Game Director e Art Director) e Luc Baghadoust (Produttore Esecutivo del gioco), il giornalista pone alcune domande particolari:
Come Donnie Darko, o forse ancor di più, Life is Strange è un manifesto delle inquietudini dell’adolescenza. È difficile immaginare un gruppo di sviluppatori confrontarsi con paure e aspettative tipiche di quell’età. Da dove avete iniziato?

Raoul Barbet / Michel Koch. «L’idea di poter riavvolgere il tempo, andare nel passato e mettere in discussione le scelte fatte e le conseguenze di queste decisioni è stata la nostra base di partenza. Inoltre abbiamo rielaborato l’idea di Memory Remix già presente nel nostro videogioco Remember Me. Ci siamo domandati cosa realmente avremmo voluto raccontare, quali personaggi, quale mondo… il nostro obiettivo era realizzare un gioco con una componente narrativa importante. Ambientarlo in un universo studentesco è stata una buona scelta, perché è il passaggio tra l’adolescenza e la consapevolezza dell’essere adulti, con scelte importanti, che avranno un’eco per il resto della vita. Il potere di Max, e di conseguenza del giocatore, la costringe a ripensare il rapporto che ha con gli altri, la mette a confronto con le conseguenze delle sue azioni, moltiplica i suoi dubbi. Volevamo mostrare l’importanza di operare scelte guardando al futuro e non al passato. E molti giocatori l’hanno fatto, hanno finito il gioco assumendosi la responsabilità delle proprie decisioni senza tornare indietro. Senza riavvolgere il tempo. Abbiamo notato che le decisioni più ardue, quelle che mettevano in difficoltà il giocatore, corrispondevano sempre a questioni sociali reali».

Il rapporto tra adolescenti e social network è un tema complesso. Cyberbullismo e l’ossessione per l’immagine possono distruggere una ragazza anche se vive nella virtuale Arcadia Bay?
Michel / Raoul / Luc Baghadoust. «Life Is Strange approccia temi difficili come il bullismo in ambiente scolastico. Abbiamo cercato di affrontare questo argomento con maggior tatto possibile, usando il personaggio Kate. Abbiamo inscenato la sofferenza che continue vessazioni psico-fisiche causano, abbiamo mostrato l’incapacità di parlare. Siamo arrivati a palesare le scelte drammatiche che alcuni adolescenti compiono per uscire da queste terribili situazioni. E molti giocatori, per il loro passato, per il loro vissuto, per la loro sensibilità personale, hanno provato un forte coinvolgimento emotivo».

Gli aspetti quali il forte coinvolgimento emotivo, il rappresentare la sofferenza provocata da continue vessazioni psico-fisiche e la scelta di certi temi sensibili da affrontare nell’arco dei cinque episodi (come ad esempio il suicidio di Kate nel terzo episodio) hanno comportato, come logica conseguenza, il manifestarsi di alcune problematiche di natura psicologica che potrebbero comparire in chi vi gioca. Sebbene non mi sia dato sapere se vi siano stati dei casi reali in cui il giocare a Life is Strange abbia scatenato disagi psicologici, ideazione suicidaria o dei tentativi di suicidio, ho notato però la presenza (sul sito web del gioco in questione) di una sezione chiamata “Talk to someone”. In questa sezione, per diversi Stati, sono presenti dei numeri di telefono e indirizzi web da consultare qualora volessimo avere un aiuto o parlare con qualcuno dopo aver giocato con il gioco elettronico.

 

Life is strange
Fig 1: Ingrandimento della sezione “Talk to someone

La componente narrativa di Life is strange

Life is Strange è, e rimane, un gioco dall’enorme potenziale. Vi sono altri aspetti da tenere in considerazione che potrebbero, ma questa è soltanto una mia convinzione, essere correlati tra loro. Come già spiegato negli estratti delle interviste riportate nell’articolo, Life is Strange si basa molto sulla componente narrativa. La Dott.ssa María Ximena López Campino, nella sua tesi di dottorato del 2009 dal titolo “Videogiochiamo dunque impariamo? Un modello per l’analisi educativa dei videogiochi”, spiega l’importanza dell’elemento narrativo come strategia di apprendimento. Ecco quanto riporta:

Se in un primo momento la trama costituiva un elemento secondario, o puramente un abbellimento al gioco, senza relazione con il gameplay, la creazione di nuove dinamiche di gioco (e.g. giochi di avventura e di ruolo) ha portato all’integrazione di una narrativa che si svolgesse accanto alla performance nel gioco. La narratività che si stabilisce nell’attività videoludica è, per alcuni teorici, uno dei principali elementi educativi dei videogiochi. Bruner afferma che gli umani hanno una propensione per la narrativa, la quale ci permette di organizzare l’esperienza e costruire significati condivisi… La mente umana ha bisogno di storie che permettano di raccontarsi agli altri, per poter condividere e comunicare con se stessi e con le altre persone, per costruire un’identità e per dare un significato alle proprie azioni. La narrativa è dunque una strategia e un modo di conoscere. Tuttavia, la narrazione videoludica presenta alcune caratteristiche che la contraddistinguono della narrazione canonica. La narrativa presente in un libro o in un film segue una logica sequenziale, in cui il lettore o spettatore sa di essere l’osservatore di una dinamica stabilita altrui. Nel caso dell’attività videoludica, invece, il giocatore non è assolutamente un osservatore esterno, ma è il soggetto stesso che compie l’azione. La sua partecipazione è in sé una parte della storia, e dunque, senza la sua attività, la narrazione non avrebbe forma. Dunque, la narrazione nel videogioco esiste grazie alla sua natura interattiva e ipertestuale, in cui il dialogo tra il giocatore e il gioco permette la co-costruzione della storia. Nel rendere possibile lo sviluppo di un racconto, che non è un racconto qualsiasi, ma un racconto vissuto, interattivo e attuato, si apre la strada a un apprendimento esperienziale, costituito dai vissuti emotivi e dagli eventi mentali dei giocatori. La costruzione del sapere videoludico usufruisce così dell’investimento cognitivo e affettivo attivato da una narrativa intrecciata alla propria esperienza, più potente e più significativa”.

Quindi, come può la narrativa presente in Life is Strange esserci utile? Devo ammettere che dare una risposta a questa domanda può non sembrare facile. Tuttavia dopo averci giocato, e con questo mi accingo a introdurre il secondo elemento interessante, posso dire questo: “Life is Strange, con la sua storia e il suo gameplay insegna non solo il valore dell’empatia, ma anche ad essere empatici”. Nell’uso comune, l’empatia è l’attitudine a offrire la propria attenzione per un’altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. Uno dei primi Autori ad usare il termine empatia è stato  Carl Rogers che, tra l’altro, ha evidenziato come questa sia importante e necessaria nelle relazioni umane. Per lui l’Empatia è la capacità di mettersi  nei panni altrui soprattutto per quanto riguarda il sentire/percepire il vissuto emozionale dell’altro. Immedesimarsi nelle emozioni  (paura, amore, rabbia etc.) dell’altra persona senza giungere ad una completa identificazione, rimanendo adeguatamente presente a se stesso  e riuscendo a gestire – nel contempo – le reciproche sensazioni ed emozioni. L’empatia quindi facilita la comprensione della sfera emozionale dell’altro che viene accettato sotto ogni aspetto ed ogni sentimento (espresso e non espresso) poiché ha una funzione di completa apertura verso l’interlocutore, senza riserve, senza pregiudizi ed  allo scopo di ottenere un’evoluzione autentica nella relazione tra due persone. L’empatia può essere rappresentata, come una sorta di piramide costituita da tre livelli sovrapposti, corrispondenti a tre relazioni sempre più ricche e condivise con un numero sempre più ridotto di persone. Il primo livello è l’empatia di base. Segue poi l’empatia reciproca ed infine l’intersoggetività.

Empatia di base

L’empatia di base corrisponde a quella che generalmente si chiama identificazione, ovvero la possibilità di cambiare punto di vista su di una situazione senza perdersi. Questa qualità si distingue in una componente emotiva, ovvero la capacità di distinguere sé dall’altro – competenza che emerge presto nel bambino – ed una cognitiva, ovvero la capacità di assumere il punto di vista dell’altro – competenza che emerge intorno ai 4 anni e mezzo. Tale empatia riguarda quindi la possibilità di immaginarsi cosa si potrebbe provare a pensare al posto dell’altro. A tal fine non è indispensabile nemmeno che l’altro sia riconosciuto come un essere umano: ci si può benissimo identificare con un essere immaginario, come il protagonista di un romanzo o di un cartone animato.

D’altra parte è possibile identificarsi con qualcuno senza neppure vederlo o senza che l’altro se ne accorga. L’empatia così definita alimenta la reciprocità, supportando la solidarietà e il mutuo soccorso.

Empatia reciproca

Alla capacità di rappresentarsi il mondo dell’altro, in questo caso, si aggiunge il desiderio di un mutuo riconoscimento: non solo mi identifico con l’altro ma gli riconosco anche il diritto di identificarsi con me, ovvero di mettersi al mio posto e di avere così accesso alla mia realtà psichica, di comprendere quello che comprendo e di provare quello che provo.

Questa esperienza rimanda a quella dello specchio e implica un contatto diretto con la persona, oltre a tutti i gesti espressivi: mimica del volto, sorriso, incrocio degli sguardi, gesti espressivi.

Negare questa mediazione espressiva nega l’esistenza dell’empatia reciproca. Questo mutuo riconoscimento ha tre aspetti: riconoscere all’altro la possibilità di avere stima di sé come io ce l’ho di me stesso (componente narcisistica); riconoscergli la possibilità di amare e di essere amato (componente delle relazioni oggettuali); riconoscergli la qualità di soggetto del diritto (componente della relazione di gruppo)

Intersoggettività

A questo livello l’empatia consiste nel riconoscere all’altro la possibilità di chiarire aspetti di me stesso che ignoro. È il caso, ovviamente, di chi si rivolge a un terapeuta, ma fortunatamente è una situazione che si può ritrovare anche nell’amicizia e nei rapporti d’amore, dove cadono le barriere.
È quello che Tisseron (2001), psichiatra e psicoanalista francese, chiama “empatia estimizzante” ricollegandola al concetto di estimità, concetto sviluppato come contraltare dell’intimità, ovvero l’esporre ad un pubblico più o meno vasto frammenti di sé fino a quel momento protetti dagli sguardi estranei, cioè mantenuti intimi, per farne riconoscere il valore e ottenere così una validazione.
In questo caso non si tratta più di identificarsi nell’altro, né di riconoscere all’altro la capacità di identificarsi con me accettando di condividere con lui le mie paure, ma di scoprirmi, attraverso l’altro, diverso da come credevo di essere e di lasciarmi trasformare da questa scoperta. In questo momento le somiglianze contano più delle differenze ed i due percorsi di vita degli interlocutori sono un arricchimento per entrambi.

Come Life is Strange puo’ promuovere l’ empatia? Vi ricordate le parole di Raoul Barbet e Michel Koch? « …. Il potere di Max, e di conseguenza del giocatore, la costringe a ripensare il rapporto che ha con gli altri, la mette a confronto con le conseguenze delle sue azioni, moltiplica i suoi dubbi.». Nei momenti decisivi del gioco, le scelte vengono quindi accompagnate dai monologhi interiori di Max, sempre attenti a sottolineare come una scelta “giusta” possa recare con sé conseguenze impreviste e spiacevoli. Raffaello Frattini, con la sua recensione presente nel sito La Caduta, chiarisce ancora di più questo aspetto.

Kate Marsh, un’alunna della scuola timida ed introversa, viene sottoposta ad uno scherzo da confraternita americana di pessimo gusto e viene ripresa mentre, drogata a sua insaputa, si dimena in mezzo ad un mucchio di ragazzi baciandoli. Ovviamente questo filmato finisce online diffondendosi con la rapidità tipica della modernità sui social media e la povera Kate riceve ogni sorta di appellativo e nomignolo, oltretutto perdendo la stima da parte della sua famiglia, fin troppo WASP(White Anglo-Saxon Protestant) e credente. Lo stress e il rimorso dell’accaduto fanno sì che, durante l’episodio, Kate chieda spesso aiuto a Max, unica persona del campus che potrebbe confortarla. Sta a noi decidere se usare il nostro potere per aiutare Kate, oppure continuare a bighellonare con la ritrovata Chloe. A partire dalle nostre azioni, e da quello che abbiamo scoperto della sua vita e della sua psicologia, alla fine dell’episodio ci sarà data la possibilità di salvare Kate dal suicidio. Di fronte alla facciata allegra e colorata del mondo di Life Is Strange ci ritroviamo a salire sul tetto della scuola per fermare una ragazza pronta a porre fine alla sua vita a causa dell’onore perduto. Kate è una persona fragile, insicura e legata alle credenze ossessive dei genitori, e neanche il potere di riportare indietro il tempo ci permette di affrontare facilmente le sue debolezze. Avendo usato tutta la nostra “batteria” di capacità soprannaturale per raggiungerla sul tetto, il gioco ci sfida a comprendere il modo di ragionare di Kate per impedire che si uccida. Se siamo stati abbastanza accorti da notare cosa le è più caro, se abbiamo seguito con attenzione i suoi bisogni e notato che la nostra compagna di scuola ha in effetti ancora un’ancora per rimanere al mondo, allora abbiamo nelle nostri mani quello che serve per tenerla in vita senza dover tornare indietro nel tempo, scegliendo le giuste parole e non farla buttare. Solo seguendo i giusti dialoghi possiamo finalmente vederla scendere dal cornicione, piangente ma illesa, mentre tutta la scuola ci guarda sbalordita — altrimenti non potremo far altro che assistere impotenti al suo salto nel vuoto. ”

Life is strange

Fig 2: Particolare tratto dal terzo episodio di Life is Strange

Continua ancora Frattini: “In entrambi i casi, sia di salvataggio che di fallimento, l’impatto emotivo è sorprendente. Vi posso assicurare che erano anni che non provavo una sensazione del genere di fronte allo schermo di un videogioco. Usare le parole per smuovere la coscienza di Kate è stato molto più soddisfacente che affettare malvagissimi demoni, e dopo averle ricordato che altri (oltre a me) tengono a lei e non la giudicano per quello che ha fatto, vederla scendere e crollare in un pianto liberatorio mi ha causato un vero e proprio moto di commozione.

Life is strange e la contrapposizione all’analfabetismo emotivo

Life Is Strange diventa così un rilevante media comunicativo che cerca di contrapporsi all’analfabetismo emotivo. Le nuove generazioni di nativi digitali (IGenaration, generazione Z, ecc…) abituati come sono a postare contenuti sui social network immediatamente e senza riflettere sulle conseguenze, rischiano a lungo andare di diventare incapaci di riconoscere e controllare le proprie emozioni. Con l’espressione analfabetismo emotivo Goleman intende:
1) la mancanza di consapevolezza e di controllo delle emozioni e dei comportamenti a queste associate;
2) la mancanza di consapevolezza dei motivi per cui si prova una determinata emozione;
3) l’incapacità di relazionarsi con le emozioni dell’altro, in quanto non riconosciute e non comprese così come l’incomprensione dei comportamenti che le provocano.

Dal momento che la fisicità del corpo è sostituita con quella del medium, il soggetto si trova privato di un importante punto di riferimento nel processo di comprensione delle emozioni altrui. Questo aumenta l’analfabetismo emotivo che come sostiene Goleman, è la causa di alcuni dei problemi che caratterizzano i giovani, tra cui il bullismo, la tossicodipendenza e l’alcolismo. Il fatto che ad oggi la maggior parte delle relazioni risultino mediate più che dirette comporta una crescente difficoltà nel riconoscere le emozioni dell’altro e di conseguenza risulta più difficile comprendere anche le proprie.

Life is strange e la psicologia del tempo

C’è ancora un’ultima considerazione da fare a proposito di Life is Strange. Come già espresso nei paragrafi iniziali dell’articolo, in Life Is Strange “…Piccole cose, come la rimozione di una scritta da una lavagna o un semplice atto di gentilezza o negligenza plasmano il continuum spazio temporale, dando luogo a risultati spesso imprevedibili, o addirittura sospesi e indecifrabili nell’immediato”. E molti gamer, come già sottolineato dai creatori del gioco, hanno difatti portato a termine la loro partita assumendosi l’incombenza delle proprie scelte senza tornare per questo indietro. L’importanza di compiere scelte orientate al futuro, introduce un argomento (che forse molti di voi non conoscono) ideato dallo psicologo Phil Zimbardo noto come la psicologia del tempo.

Nel libro Il paradosso del tempo (scritto da Philip Zimbardo e John Boyd) lo psicologo di fama mondiale ci mostra quanto molte delle nostre cosiddette scelte, pensieri e nostri comportamenti, siano connessi-dipendenti dai nostri (in gran parte inconsapevoli) orientamenti temporali. Esistono almeno sei modi di avere un orientamento verso il tempo:
Orientamento al Passato Positivo: si tratta di persone focalizzate sugli aspetti positivi del passato (il focus è sui “bei vecchi tempi di una volta… the good old times”);
Orientamento al Passato Negativo: si tratta di persone focalizzate sugli aspetti negativi del passato (traumi, eventi spiacevoli di infanzia e adolescenza);
Orientamento al Presente Edonista: si tratta di persone focalizzate su aspetti di gratificazione immediata nel presente (ricerca del piacere immediato);
Orientamento al Presente Fatalista: si tratta di persone focalizzate sul fatalismo e sugli aspetti negativi del presente, sono persone che credono che il destino e forze esterne possano influenzare la nostra vita;
Orientamento al Futuro orientata agli obiettivi di vita: si tratta di persone che pensano molto al raggiungimento e alla pianificazione dei propri obiettivi;
Orientamento al Futuro Trascendentale: si tratta di persone che sono focalizzate sulla vita dopo la morte del corpo fisico.

Lo psicologo ha elaborato, in funzione di questi sei orientamenti temporali, uno strumento per misurare il rapporto che abbiamo con il tempo (ZTPI Zimbardo Time Perspective Inventory), un questionario validato internazionalmente attraverso oltre 15000 persone, che predice con ottima precisione il nostro orientamento temporale. Ogni profilo temporale può tuttavia cambiare nel tempo in base alla specifica tipologia e quantità di esperienze che facciamo. Esistono infatti persone focalizzate in una o più di queste dimensioni temporali e meno in altre (pensa a titolo d’esempio quanto coloro che hanno uno stile depressivo siano focalizzati sugli eventi del loro Passato-Negativo).

Avviandomi verso la conclusione dell’articolo, mi rendo conto di quante “sfaccettature” psicologiche questo videogioco presenti. In quanto psicologo e nativo digitale sono convinto che quanto descritto finora non sia tutto. Potrei ancora spiegarvi come Life Is Strange rientri a mio avviso nella categoria delle tecnologie positive, ma preferisco lasciare a voi questa ulteriore riflessione. Approfittando però di queste ultime battute ho deciso di rifarvi una domanda, che è poi lo stesso quesito posto a inizio contributo. Siete ancora convinti che i videogiochi facciano male?

Like a split screen: come funziona la mente delle persone con ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore?

Al di qua della narrativa sono esistite – e tuttora esistono – persone con ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore che hanno sfiorato il prodigioso potere mnemonico di Ireneo Funes. Uomini e donne capaci di memorizzare ogni singolo dettaglio della loro vita.

Elena Del Rio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Noi in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli, gli acini di una pergola.[…] Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. […] Mi disse: – ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo. […]  Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire perfettamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati di un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti di un morto durante una veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo

 

Al di qua della narrativa sono esistite – e tuttora esistono – persone che hanno sfiorato il prodigioso potere mnemonico di Ireneo Funes. Uomini e donne capaci di ricordare a memoria l’intera Divina Commedia, giocare contemporaneamente sette partite di scacchi o memorizzare la mappa stradale delle propria città all’età di soli cinque anni (Luria, 1987; Hunt e Love, 1983; Maguire, 2003).

Ora cosa succederebbe se queste abilità straordinarie fossero applicate alla memorizzazione sistematica delle esperienze della propria vita, come se la creatura fantastica di Borges avesse un corrispettivo nel mondo reale?

Oltre la narrativa: la ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore

Un’evenienza rarissima, ma documentata, avvicina il mondo reale al fantastico, è una condizione che prende il nome di ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore (HSAM). Chi ne è affetto è in grado ricordare le informazioni della propria esperienza, anche lontane e banali, con un eccezionale livello di precisione.

Ad oggi sono state documentate solo poche decine di casi (LePort et al., 2012) con specifiche conseguenze cognitive. L’ ipertimesia di questi individui permette loro di raccontare con accuratezza cosa gli è accaduto in qualsiasi giorno della loro esistenza anche dieci o vent’anni prima rispetto al tempo presente – potreste chiedergli il resoconto di una data precisa e ricevere una risposta dettagliata. D’altro canto l’ ipertimesico dedica moltissimo tempo alla rievocazione del proprio passato ed è soggetto a continui flashback.

Ad una persona affetta da Memoria Autobiografica Superiore è stato chiesto che cos’era accaduto il 19 Ottobre 1987 la risposta immediata è stata: “era un lunedì. Quello fu il giorno del crollo della borsa e il violoncellista Jacqueline du Pré è morto quel giorno“.

Un altro effetto specifico della condizione dell’ ipertimesia è la mancanza di controllo della capacità di ricordare, ad ogni indice della memoria, quale può diventare la citazione di una data, s’innesca nella mente del soggetto la sequenza di eventi attinta dal ricordo e parallela alle immagini della realtà circostante. “E’ come se guardassi uno schermo diviso in due: parlo con qualcuno e intanto vede qualcos’altro” ha testimoniato un paziente.

L’ ipertimesia da un punto di vista neuropsicologico

A livello neuropsicologico l’ ipertimesia è stata definita per la prima volta in un articolo della rivista Neurocase nel 2006 (Parker et al., 2006). Nell’articolo viene descritta AJ, una donna il cui ricordo domina la sua vita. La sua memoria è “incontrollabile, automatica e totalmente estenuante“, dedica la maggior parte del proprio tempo alla rievocazione del passato di cui rivive gli eventi recuperandone dettagli e sfumature.

 My memory has ruled my life…It is like my sixth sense…There is no effort to it…I want to know why I remember everything. I think about the past all the time…It’s like a running movie that never stops. It’s like a split screen. I’ll be talking to someone and seeing something else…

AJ riesce a ricordare tutto senza utilizzare tecniche mnemoniche, come ripetono i ricercatori, la sua memoria non è strategica ma automatica (Parker, Cahill  McGaugh, 2006). La sua capacità è iniziata all’età di 8 anni, quando assieme alla famiglia si è trasferita in una nuova città. Dai 10 fino ai 34 anni, AJ ha tenuto un diario giornaliero appuntandosi ogni singolo evento. E’ diventata consapevole di questo suo potenziale a partire dai 12 anni. In seguito, ha dichiarato: “A partire dal 5 febbraio 1980, mi ricordo tutto. Ed era un martedì” (Shafy, 2008).

Uno degli aspetti più interessanti è che il ricordo di un evento conserva la stessa vividezza e carica emotiva dell’originale. AJ è stata sottoposta a diverse indagini neuropsicologiche, dimostrando prestazioni eccezionali nello svolgimento di compiti riguardanti la memoria autobiografica e il riconoscimento visivo, nonostante un QI nella media, e scarse prestazioni alle prove di memoria standard (memoria a lungo termine e breve termine). Allo stesso tempo sono stati rilevati deficit nei compiti che coinvolgono le funzioni esecutive quali capacità di astrazione, organizzazione e controllo mentale.

Dopo la pubblicazione sulla rivista Neurocase, vi è stato un crescente interesse, soprattutto mediatico, nella ricerca di persone dotate di super-memoria.

Il secondo caso di ipertimesia è stato descritto nell’articolo di Ally e colleghi nel 2012. Nel racconto di HK, un ragazzo di 20 anni, si manifestano molte similitudini con la storia di AJ. HK può ripercorrere con grande precisione eventi della sua vita a partire dai tre anni di età, e diventa consapevole della propria Memoria Autobiografica Superiore a 14 anni.

A partire dai correlati neuroanatomici di HK, l’intento dello studio è stato quello di chiarire le origini anatomiche e funzionali della memoria autobiografica (AM).

I primi studi hanno suggerito che l’amigdala gioca un ruolo fondamentale nell’elaborazione emozionale dei ricordi, contribuendo probabilmente a codificare stimoli carichi emotivamente. In letteratura sono presenti diverse ricerche che mostrano l’importanza dell’amigdala durante la fase di codifica di Memoria Autobiografica (Greenberg et al., 2005; Spreng & Mar, 2010), e che questa predica l’intensità soggettiva della memoria episodica (Kensington et al., 2011; Phelps & Sharcot, 2008). L’ipotesi teorica alla base di molti di questi studi sottolinea come l’aspetto soggettivo del ricordo sia legato al rivivere l’esperienza emotiva dello stesso evento (Rubin & Berntsen, 2003; Welzer & Markowitsch, 2005).

I dati di neuroimaging su HK rivelano che la porzione destra dell’amigdala è di dimensioni leggermente più grandi rispetto ai soggetti di controllo dello studio, e che vi è un aumento significativo della connettività tra la porzione destra dell’amigdala e l’ippocampo, come pure tra regioni corticali e subcorticali. Si presuppone che l’amigdala, in particolare l’amigdala destra, svolga un ruolo cruciale in fase di recupero e codifica di Memorie Autobiografiche (Markowitsch & Staniloiu, 2011).

In una super-memoria, come quella di chi mostra ipertimesia, questo sistema è iperattivato permettendo che le diverse informazioni autobiografiche e il loro connotato emotivo, si trasformino e si consolidano meglio.

Studi successivi come quello di LePort et al. (2012), hanno mostrato che i partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore (11 casi reclutati) non hanno solo una ricca memoria autobiografica, ma questa straordinaria memoria si estende anche a fatti ed eventi pubblici.

Si è constato però come la memoria di un evento pubblico venga ricordata solo se ha una valenza personale, le informazioni vengono conservate se sono correlate a specifiche esperienze della propria vita. I risultati relativi a studi di neuroimmagine, hanno mostrato 9 regioni cerebrali coinvolte che differivano tra i due gruppi.

L’ ipertimesia pare associata a differenze nella struttura cerebrale rispetto al gruppo di controllo. I pazienti affetti da questa condizione hanno un volume maggiore di sostanza grigia nelle aree cerebrali correlate alla memoria autobiografica, e una maggiore connettività tra queste aree e la corteccia frontale. Le analisi hanno inoltre rilevato differenze strutturali nei soggetti con Memoria Autobiografica Superiore in alcune regioni del giro temporale inferiore e medio, lobo temporale, insula anteriore, e giro paraippocampale. Queste regioni sono state identificate, attraverso una metanalisi completa (Svoboda, McKinnon, & Levine, 2006) e da numerosi studi di neuroimaging (Fink et al., 1996; Steinvorth, Corkin, & Halgren, 2006; Andreasen et al. 1995; Gilboa, 2004; Levine et al., 2004; Maguire, 2001; Markowitsch, 1995) come il network di memoria autobiografica.

Ipertimesia: relazione con altri disturbi

Il lobo temporale e il nucleo caudato sembrano avere dimensioni maggiori nei soggetti con ipertimesia rispetto ai soggetti di controllo. Inoltre sappiamo che l’ippocampo, situato appunto nel lobo temporale, è coinvolto nella memoria episodica, mentre la corteccia temporale è coinvolta nell’immagazzinamento dei ricordi. Il nucleo caudato è invece associato con la memoria procedurale e intrinsecamente collegato al disturbo ossessivo-compulsivo. È stato ipotizzato che un deficit del circuito frontostriatale possa essere causa delle alterazioni delle funzioni esecutive osservate negli ipertimesici. I deficit nel funzionamento esecutivo e le anomalie strutturali si trovano entrambi in disturbi premorbosi dello sviluppo neurologico, che comprendono l’autismo, il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD), deficit di attenzione e iperattività, sindrome di Tourette e schizofrenia (Bradshaw e Sheppard, 2000).

Chi mostra ipertimesia non sono però “calendar calculators”, come alcune persone affette da autismo. Nessuno dei partecipanti, nei diversi studi, possiede la capacità di identificare prontamente, se gli viene detta una determinata data, il giorno esatto della settimana. Quest’ultime sono capacità da abili calcolatori tipiche nei soggetti autistici che risultano estremamente interessati nell’uso e nella memorizzazione di calendari (Howe & Smith, 1988).

Come nel primo caso documentato in letteratura, ma anche in altri partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore, questi soggetti tendono a mostrare comportamenti ripetiti e ossessivi (LePort e colleghi, 2012). Tuttavia rimane ancora poco chiaro come e se, questa tendenza contribuisca alla loro memoria autobiografica.

I partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore in genere non ritengono i loro ricordi come eccessivamente persistenti e/o indesiderati, ritengono questa loro abilità una qualità positiva.

Esistono, tuttavia, alcune indicazioni che la loro capacità di memoria autobiografica e tendenze ossessive possano essere in una certa misura collegate. Nove degli undici partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore hanno riferito di organizzare i loro ricordi in una sorta di calendario mentale, in ordine cronologico oppure categorizzando gli eventi (ad esempio, quante volte sono entrato in quel ristorante e in quali occasioni; oppure elencando per ogni anno, ogni mese, ogni giorno cosa è successo).

Essi hanno inoltre una tendenza apparentemente compulsiva, nel ricordare ogni evento. Un partecipante ha riferito che ogni sera prima di addormentarsi rievoca ciò che era successo quello stesso giorno, ma molti anni prima. Un altro si sveglia ogni mattina e “scansiona” la sua mente pensando a quali ricorrenze o compleanni capitano in quel giorno. Tre partecipanti hanno riferito che documentano attraverso la scrittura, quanti più ricordi riescono a rievocare. Uno ha affermato di essere “ossessionato nello scrivere le cose” come un mezzo per far riaffiorare ricordi/pensieri nella sua mente, un altro afferma che la scrittura permette di “elaborare meglio i ricordi”. Molti degli ipertimesici collezionano oggetti minuziosamente catalogati come riviste, video, scarpe, francobolli o cartoline.

L’ ipertimesia è quindi un dono o una maledizione?

Non c’è privilegio così grande senza una controparte altrettanto pericolosa. Ricordare tutto significa anche rimanere intrappolati nel proprio passato tramite un “effetto a cascata” dove giorni, date, immagini, dialoghi del presente richiamano un evento del passato che a sua volta innesca un altro ricordo in un gioco di rifrazioni alienante. Le persone con ipertimesia non sono in grado di controllare né interrompere il flusso di memorie che si sovrappone alla loro esperienza quotidiana.

Per soggetti con Memoria Autobiografica Superiore, la rivisitazione del passato può essere molto dolorosa: evitano di ripensare alle esperienze peggiori della propria vita, ma per il loro straordinario “dono” le immagini e le sensazioni rievocate sono talmente vivide come se fossero rivissute per la seconda volta.

Happy memories hold my head together … I treasure these memories, good and bad…I can’t let go of things because of my memory, it’s part of me … When I think of these things it is kind of soothing … I knew a long time ago I had an exceptional memory … but it’s a burden

La diabulimia: quando la disregolazione del comportamento alimentare si associa al diabete

La diabulimia (etichettata anche con l’acronimo ED-DM1) è un disturbo del comportamento alimentare in cui adolescenti e giovani adulti, per lo più di sesso femminile, con diabete mellito di tipo 1, omettono deliberatamente la dose di insulina con lo scopo di perdere peso o per prevenire l’aumento di peso. A questo comportamento di “purging”, si associano episodi di binge eating e alimentazione sregolata (Jaffa et al., 2006).

 

Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, giunto alla 5 edizione (DSM-5, APA 2013) delinea i criteri diagnostici per i disturbi del comportamento alimentare (DCA) noti come anoressia nervosa, bulimia nervosa, binge eating e disturbi della nutrizione e alimentazione senza specificazione. Sebbene questi disturbi siano differenti tra loro nella sintomatologia, essi condividono caratteristiche simili che includono tratti psicopatologici, ossessione per le forme corporee e il peso, distorsioni cognitive, tra cui l’alterazione dell’immagine corporea. I soggetti diagnosticati con un disturbo alimentare possono presentare concomitanti disturbi depressivi o disturbi d’ansia, e solitamente manifestano difficoltà di regolazione emotiva e difficoltà relazionali (Murphy et al, 2010).

Che cos’è la diabulimia?

La diabulimia (etichettata anche con l’acronimo ED-DM1) è un disturbo del comportamento alimentare in cui adolescenti e giovani adulti, per lo più di sesso femminile, con diabete mellito di tipo 1, omettono deliberatamente la dose di insulina con lo scopo di perdere peso o per prevenire l’aumento di peso. A questo comportamento di “purging”, si associano episodi di binge eating e alimentazione sregolata (Jaffa et al., 2006). Tale condizione non è stata ancora riconosciuta come entità diagnostica, e al momento sembra poter ricadere tra i disturbi della nutrizione e alimentazione senza specificazione.

Attraverso la manipolazione di insulina (che comprende sia la riduzione, che l’assunzione ritardata, che la completa omissione del dosaggio) i soggetti possono indurre iperglicemia e perdere rapidamente calorie, attraverso le urine, in forma di glucosio. Dal momento che la perdita di liquidi si associa a perdita di peso, e che essa viene erroneamente interpretata come perdita di grasso e dimagrimento, questo comportamento di “purging” viene agito con lo scopo di tenere sotto controllo il peso corporeo (Colton et al., 2009).
Alcuni ulteriori segni per riconoscere la diabulimia sembrano essere: rapida perdita di peso, alimentazione sregolata, ossessione per la forma corporea e il peso, odore chetonico del respiro e delle urine, letargia, inspiegabile iperglicemia e minzione frequente. Il ruolo della manipolazione dell’insulina nella gestione del peso è di particolare importanza per via delle conseguenze a breve e lungo termine (Callum et al., 2004)

Fattori di rischio della diabulimia

Studi prospettici longitudinali sulla popolazione generale hanno identificato un consistente numero di fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari. Essi includono: essere di sesso femminile, restrizione alimentare e diete, aumento di peso e sovrappeso, fascia di età puberale, scarsa autostima, difficoltà nel funzionamento familiare, atteggiamenti alimentari disturbati nei familiari, influenza dei pari e della cultura, e una gamma di tratti di personalità (Leon et al., 1993). Sono state inoltre accumulate varie prove a sostegno del fatto che vivere con il diabete di tipo 1 sia un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti alimentari disfunzionali (Nielsen S., 2002).

I disturbi alimentari sembrano più comuni nei gruppi di giovani donne diabetiche piuttosto che nei maschi diabetici. Gli adolescenti maschi con diabete hanno valori di BMI sostanzialmente più alti ed un elevato desiderio di magrezza, comparati con pari non diabetici, tuttavia i disturbi alimentari in questo gruppo sono molto rari. Le ricerche suggeriscono che il diabete di tipo 1 aumenti il rischio di disregolazioni alimentari in maschi e femmine, ma che ulteriori fattori di rischio sono presenti nelle femmine con diabete, le quali finiscono per superare la soglia dei DCA. Questi probabilmente includono fattori individuali, familiari e socio culturali.

Il predittore longitudinale più consistente dell’emergenza di disturbi alimentari è la restrizione alimentare e il ricorso a diete; entrambi tendono a persistere e peggiorare nel corso del tempo. Queste scoperte suggeriscono che lo stare a dieta potrebbe essere visto o come un fattore di rischio per l’avvio di DCA o il primo stadio della sua manifestazione clinica. Sebbene la maggior parte di soggetti che seguono una dieta non sviluppino disturbi alimentari, lo stare a dieta è un primo passo universale per coloro che sviluppano in seguito un conclamato disturbo alimentare.

La gestione del diabete presenta pertanto un implicito fattore di rischio, legato alla focalizzazione sulle assunzioni di cibo e alle limitazioni alimentari. Questo potrebbe innescare una disregolazione alimentare con episodi di iperalimentazione e binge eating. I soggetti vulnerabili possono quindi intensificare gli sforzi di controllare l’assunzione di cibo e il peso, e finire intrappolati nel circolo di diete, abbuffate e comportamenti compensatori di controllo del peso (Colton et al., 2009).

Sebbene recenti innovazioni nella gestione del diabete consentano a molti soggetti di adottare un piano alimentare più flessibile, il conteggio dei carboidrati resta ancora una pratica sottostante la pianificazione del pasto del diabetico e nella titolazione della dose di insulina. I soggetti diabetici, particolarmente quelli con diabete di tipo2, ricevono spesso le raccomandazioni mediche di ridurre il loro peso e limitare l’assunzione di colesterolo e carboidrati. La pianificazione dei pasti dei diabetici è più flessibile di quella di molte diete dimagranti, ma aumenta il focus sul cibo e le calorie, suggerendo la limitazione di alcune tipologie di alimenti, e questo può essere vissuto come una restrizione. (Colton et al. 2009).

Trattamento della diabulimia

La strategia di elezione nei disturbi alimentari è la terapia cognitivo comportamentale (CBT) attraverso l’automonitoraggio (Anderson et al., 2001). Questa linea di trattamento, sviluppata da Fairburn e colleghi (Clark & Fairburn, 1996), ha un tasso di successo del 40-50% nel produrre cambiamenti a lungo termine in pazienti con comportamento alimentare problematico. I farmaci antidepressivi, la psicoterapia interpersonale o altri programmi CBT vengono usati come interventi secondari quando la sola CBT fallisce.

La gestione medica della diabulimia prevede un approccio multidisciplinare che include un professionista della nutrizione (dietista/nutrizionista), un team medico (endocrinologo/diabetologo, gastroenterologo, psichiatra), e uno psicoterapeuta.

Durante le sessioni individuali di CBT, il paziente apprende nuovi modi di pensare al proprio corpo, all’immagine corporea e al peso, così come nuovi modi di affrontare lo stress psicologico e sociale che porta al comportamento diabulimico.
Oltre alla psicoterapia cognitivo comportamentale, alcune tecniche di psicoeducazione e supporto sembrano produrre benefici nel trattamento di questi pazienti: come il colloquio motivazionale e la mindful eating (Kristeller et al., 2006)

Implicazioni per la pratica

E’ importante potenziare e migliorare l’identificazione precoce e l’intervento su questi comportamenti nella pratica clinica, considerando specialmente il periodo della pre-adolescenza. Una relazione di fiducia, non giudicante e efficace tra soggetto e medico è fondamentale. Il medico dovrebbe ridurre il rischio di disturbi alimentari attraverso l’educazione sulla malattia diabetica, le conseguenze dei disturbi alimentari e l’importanza dell’adesione al trattamento, e saper promuovere comportamenti di auto-aiuto, come attività fisica e sana alimentazione (Callum et al., 2014).

Manchester by the sea (2016) – Cinema & Psicoterapia

Manchester by the sea, un film di Kenneth Lonergan. Con Casey Affleck, Michelle Williams, Kyle Chandler, Lucas Hedges, C.J. Wilson – Drammatico, Stati Uniti –  2016

 

Manchester by the sea – Trama:

Lee Chandler è un uomo solitario e introverso che vive a Boston. Un giorno riceve la notizia che suo fratello maggiore Joe è ricoverato in ospedale a causa di un attacco cardiaco. Lee si trova pertanto a dover ritornare nella sua città natale: Manchester by the sea. Una volta giunto all’ospedale, scopre che il fratello è morto: a quel punto decide di trattenersi nella cittadina per informare dell’accaduto suo nipote Patrick – figlio del defunto – e per organizzare il funerale.

Durante il periodo di permanenza, Lee cerca di stare accanto al nipote del quale peraltro scopre di essere stato nominato tutore, conformemente alle disposizioni testamentarie di Joe: l’uomo appare molto riluttante ad accettare questo ruolo, ma nello stesso tempo vorrebbe impedire una riconciliazione di Patrick con la madre, un’ex alcolista che già da tempo si è allontanata dal marito defunto e dal figlio. Mentre cerca di capire che cosa fare con il nipote, Lee rientra in contatto con l’ex moglie Randi e con la vecchia comunità da cui era fuggito: e un tragico passato riaffiorerà alla sua mente.

Motivi di interesse:

Il film Manchester by the sea si muove elegantemente e in modo equilibrato tra presente e passato. E’ più quel che non si dice, di quel che si esplicita in questa pellicola. E’ più quello che arriva direttamente allo spettatore, che non quello che viene descritto.

La musica, la fotografia e l’ambientazione accompagnano e scandiscono i ritmi dell’emotività del protagonista: un’emotività lenta, felpata, cupa, coartata, che a tratti esplode in aggressività improvvisa.

I silenzi e lo sguardo assente di Lee tradiscono fin dal primo momento l’ombra di un passato travagliato e doloroso che a mano a mano viene svelato e sussurrato all’orecchio dello spettatore e che risulta totalmente inaspettato, tanto è intensa la portata del dramma.

Nell’arco di mezz’ora, la vita di Lee è stata completamente sconvolta. Una serata goliardica con gli amici si è tramutata in una tragedia tale da rendere evidente la ragione per cui fin dalla prima scena il protagonista appaia come un “morto che cammina”: non esiste nessuna luce nel suo sguardo; egli ha preso distanza da se stesso – completamente annientato da un’indifferenza autodistruttiva – perché non può tollerare una sofferenza così grande.

Il film Manchester by the sea però ci conferma che il dolore si può nascondere, non cancellare; il dolore non si piega: rimane sotto e lavora alacremente.

E il protagonista questo lo dimostra attraverso le manifestazioni di rabbia improvvisa, apparentemente immotivate e indirizzate a bersagli sbagliati, che lo dirigono a una distanza da se stesso sempre più invalicabile e insormontabile.

La maestria del regista è da ricondurre a uno sguardo essenziale e realistico, privo di retorica e sentimentalismo, che rende questo film drammatico, ma non melodrammatico. Non compaiono momenti corali a effetto né lacrime strazianti in Manchester by the sea, non si realizzano lunghi discorsi né vengono letti toccanti elogi funebri.

La scena in cui Lee saluta per l’ultima volta all’obitorio suo fratello è carica di tenerezza: una tenerezza non ostentata, talmente sobria da poter ingannevolmente apparire asciutta.

E’ un dolore dignitoso e silenzioso quello che attraversa l’intero film: da cui è impensabile non rimanere colpiti, a cui è impossibile non partecipare.

Forse lo spettatore potrà rischiare di rimanere con l’amaro in bocca, desideroso di  parole e avvenimenti, voglioso di assistere a una catarsi emotiva o a una svolta esperienziale.

In effetti la sterzata arriverà solo quando il protagonista riuscirà “semplicemente” a guardarsi allo specchio e ad ammettere la sua estrema fatica. Dopo un drammatico incontro con l’ex moglie Randi, confrontandosi con il nipote – che gli sta ponendo incalzanti quesiti sulla sua sorte futura – rivela : “non ce la faccio a rimanere qui”. Poi va ad abbracciare il giovane, come se entrasse realmente per la prima volta in relazione con lui.

La grandezza di Manchester by the sea risiede nella sua totale onestà, rappresentata in gran parte dall’umanità e dalla drammatica credibilità del protagonista. Lee magari non ce la farà a rielaborare il suo passato, non riuscirà a tornare totalmente a sorridere, però arriverà ad accogliere la sua disperazione e la sua fragilità e a superare l’empasse di un passato totalmente schiacciante, per provare a stare finalmente nel presente. La vita tornerà nei suoi occhi attraverso la consapevolezza di una grande, immane tristezza, che gli restituirà una vera autenticità.

Indicazioni di utilizzo:

Manchester by the sea ci descrive in modo realistico quanto non affrontare un dolore possa portare a conseguenze drammatiche tali da causare un allontanamento profondo da se stessi e una disconnessione dal presente e contemporaneamente ci dimostra che accogliere la propria sofferenza e le proprie emozioni sia l’unico modo per  prenderne consapevolezza e poterle fronteggiare.

La relazione terapeutica e il ruolo del terapeuta in psicoterapia psicodinamica e in psicoterapia cognitivo comportamentale

Molte ricerche scientifiche in campo psicoterapico, che si sono interrogate su quali siano gli elementi decisivi per un buon outcome in terapia, hanno sottolineato il peso determinante della relazione terapeutica nonché dell’alleanza terapeutica, che si viene a creare tra terapeuta e paziente.

Mara Di Paolo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Da quando Freud, fine ‘800 primi del ‘900, descrisse l’analista, nel setting analitico, come schermo opaco, neutrale e “anonimo” è trascorso molto tempo, e la stessa teorizzazione della psicoanalisi ha visto un’evoluzione tale da quasi rovesciare il paradigma : l’approccio della cosiddetta “psicoanalisi relazionale”, soprattutto americana (Mitchell, Hoffman, Ogden, Yalom), postula non solo come ovvio e naturale il coinvolgimento emozionale del terapeuta, ma sopratutto lo considera elemento da utilizzare nel processo di cura.

Attualmente in ambito psicoterapico esistono molti orientamenti : psicodinamico, cognitivo-comportamentale, rogersiano, gestaltista, etc, ma tutti chi più, chi meno, si sono interrogati e si interrogano sul ruolo del terapeuta nella relazione terapeutica. La stessa scoperta dei neuroni specchio in campo delle neuroscienze ha fornito un ulteriore spunto di riflessione sull’argomento.

La relazione terapeutica nella psicoterapia psicodinamica

La psicoanalisi relazionale fin dai suoi albori ha assunto l’opinione secondo la quale il lavoro clinico migliora quando si abbandona la velleità della neutralità dell’analista (Loiacono, 2002).

Nel corso degli ultimi anni nel linguaggio psicoanalitico accanto al concetto di self revelation si è affacciato anche il termine di self disclousure. La self revelation da sempre presente nel contesto analitico è quell’atto passivo e inevitabile che riguarda tutte le informazioni che il terapeuta con la sua presenza dà di se stesso al paziente e che riguardano il suo stile, il suo arredamento, le sue inflessioni linguistiche, i suoi interessi etc. La self revelation è quindi un tipo di disvelamento del terapeuta non consapevole e che permette al paziente di conoscere aspetti reali della persona analista. Mentre la self disclousure è un’azione vera e propria e riguarda tutto ciò che l’analista decide deliberatamente di mostrare di sè al paziente (Levensen). Molti autori usano spesso i termini di self disclosure e disclousure in modo intercambiabile, mentre altri preferiscono distinguere la disclousure della soggettività dell’analista (S.Cooper), dalla disclousure controtransferale (C.Bollas, D.Ehrenberg, I. Greenberg, etc).

Il concetto di self disclousure deve essere inscritto nel contesto dello sviluppo della psicoanalisi nord americana, con lo sviluppo della Psicologia del Sè di Khout e degli analisti appartenenti alle correnti di pensiero, conosciute come intersoggettivisti e interpersonalisti. Nel contesto europeo invece il pensiero Freudiano si è ampliato ai paradigmi della scuola britannica e a sua volta ha influenzato alcuni analisti americani.

Secondo gli analisti intersoggettivisti americani è impossibile per il terapeuta mantenere “l’anonimato” , ma anzi proprio perché l’analista è coinvolto in un rapporto terapeutico, non può non rapportarsi con e attraverso la sua soggettività, considerando che anche nella condizione più neutrale egli porta sempre qualcosa di sé attraverso la self rivelation. Tuttavia non tutti gli analisti sono a favore della self disclousure schierandosi nettamente contro e difendendo il setting tradizionale (Hanley, 1998); questi analisti temono che attraverso la self disclousure si possa inficiare la terapia psicoanalitica, in quanto potrebbe compromettere le dinamiche proiettive transferali del paziente. Nonostante i sostenitori a favore della forza della self disclousure, in terapia psicodinamica e in psicoanalisi, permane comunque l’assunto che la relazione terapeutica, che si viene a creare tra terapeuta e paziente è asimmetrica, con un terapeuta che gestisce un potere più ampio del proprio paziente, che per la sua stessa condizione di sofferenza è in una posizione di subordine.

La relazione terapeutica nella psicoterapia cognitivo comportamentale

Nell’ambito cognitivo-comportamentale il discorso è sempre stato diverso fin dall’inizio. Albert Ellis, psicologo clinico formatosi come psicoanalista presso il Karen Horney Institute di New York alla fine degli anni 40 del ‘900, fondatore della terapia cognitiva, si scontrò con i limiti reali di alcune prescrizioni pratiche della psicoanalisi dell’epoca, modificando il fulcro dell’azione terapeutica. Se Freud metteva al centro dell’azione terapeutica i contenuti inconsci, Ellis considerava l’importanza di concentrarsi sui contenuti coscienti.

Per Ellis la persona soffre per come pensa coscientemente i suoi attuali problemi, dunque sono questi pensieri coscienti, che vanno accertati, criticati, disputati e ripensati. Per Ellis il terapeuta non può essere neutrale, attendista e distaccato, bensì deve essere attivo e persuasivo e la seduta non è più teatro della riproposizione della tragedia edipica, ma del dialogo socratico (Ruggiero, Sassaroli, 2013;2015).

La relazione terapeutica, per i fondatori della terapia cognitiva Ellis e Beck (anch’egli formatosi inizialmente come psicoanalista) e per tutti i loro seguaci passati e presenti, è sempre stata di collaborazione paritaria e pragmatica tra terapeuta e paziente. Beck e i suoi colleghi (Beck,Rush, et.al 1979; Beck ed Emery, 1985; Beck e Young 1985) con il termine di “empirismo collaborativo” intendevano la necessità per i terapeuti di sviluppare relazioni di collaborazione con i pazienti al fine di aiutarli a scoprire le percezioni, che non trovano un riscontro concreto nella realtà. Secondo Beck e J. E. Young (1985) per riuscire a sviluppare una buona collaborazione terapeutica, il terapeuta dovrebbe essere ricco di calore umano, empatico, aperto e sollecito e non impersonare il ruolo dell’esperto assoluto. Liotti ad esempio crede nel fatto che il terapeuta non debba essere quello schermo privo di caratteristiche su cui il paziente possa proiettare i propri schemi transferali, ma al contrario il terapeuta possa far uso consapevole della propria diversità avendo un modello epistemologico e dell’uomo, che permetta di farlo.

La relazione terapeutica può essere plasmata, in accordo con le disposizioni, le tendenze e le caratteristiche che un terapeuta riconosce in sé, terapeuta che, così edotto ed educato durante la sua formazione, può fare uso delle proprie risorse personali del tutto legittimate all’interno di un’ epistemologia che lo permette” (Liotti) . La teoria dei sistemi motivazionali (Gilbert 1989; Liotti 1994/2005; Liotti, Monticelli, 2009) , enfatizza in terapia il ruolo determinate e necessario del sistema di cooperazione paritetica, cioè quel sistema di regolazione del comportamento sociale a base innata, che si attiva tra i membri dello stesso gruppo nel momento in cui un obiettivo possa essere raggiunto più facilmente considerandosi reciprocamente pari e tramite uno sforzo congiunto.

Spesso i terapeuti cognitivo comportamentali sono stati tacciati ingiustamente dai colleghi di orientamenti diversi, di essere più che dei terapeuti in carne ed ossa, dei meri tecnici, che di tecniche ne han fatto virtù. In realtà cognitivisti del calibro di Bara e Liotti si sono spesso confrontati sul valore e ruolo delle tecniche di terapia cognitivo-comportamentale nella relazione terapeutica; entrambi condividendo, seppur con delle visioni diverse per certi aspetti, l’assunto che non esistono le tecniche fuori dalla relazione terapeutica. Bara crede fermamente nel fatto che se il terapeuta non riesce per prima cosa ad instaurare un binario relazionale con il proprio paziente, nulla passerà ed alcuna tecnica funzionerà. La relazione per Bara consiste in una condivisione come stato mentale ed è legata al costruire insieme dei significati; nell’interazione psicoterapica terapeuta e paziente si devono accordare sul senso da attribuire all’interazione terapeutica stessa. Il terapeuta costruisce insieme al paziente ciò che percepisce e ciò che sta accadendo nell’hic et nunc della seduta. Per Bara solo nel momento in cui terapeuta e paziente hanno costruito qualcosa insieme e si sono accordati sul senso di quell’intervento particolare, allora solo a quel punto tutte le tecniche diventano utilizzabili.

 

 

Dormire poco fa male al cervello e si rischia l’Alzheimer

I ricercatori hanno trovato che un sonno persistentemente povero induce il cervello a pulire una serie significativa di neuroni e di connessioni sinaptiche e recuperare il sonno potrebbe non essere sufficiente a riparare il danno.

 

Cosa avviene nel cervello quando si dorme poco

La ragione per cui noi dormiamo va oltre la semplice reintegrazione dei livelli di energia ogni 12 ore – il nostro cervello cambia il proprio stato quando dormiamo per ripulire le sostanze tossiche sottoprodotte dall’attività neurale rilasciate durante il giorno. Alquanto stranamente, lo stesso processo avviene nei cervelli privati cronicamente del sonno – eccetto quando esso va in iperattività. I ricercatori hanno trovato che un sonno persistentemente povero induce il cervello a pulire una serie significativa di neuroni e di connessioni sinaptiche e recuperare il sonno potrebbe non essere sufficiente a riparare il danno.

Un team di ricerca italiano, guidato dal neuroscienziato Michele Bellesi, dell’Università Politecnica delle Marche, hanno esaminato la risposta del cervello di mammiferi abituati a dormire poco e hanno riscontrato una bizzarra similitudine tra quelli ben riposati e i topi privati del sonno.

Come le cellule nel nostro corpo, i neuroni nel cervello sono continuamente ripuliti da due differenti tipi di cellule gliali – cellule di supporto che sono spesso chiamate la colla del sistema nervoso. Le cellule microgliali sono responsabili della pulizia delle cellule morte attraverso un processo chiamato fagocitosi – dal greco “divorare”. Gli astrociti hanno il compito di rimodulare le connessioni sinaptiche inutili nel cervello e di ripulire e riformare le loro connessioni. Questo processo si verifica quando noi dormiamo per rigenerare l’usura e la “rottura” neurologica del giorno, ma adesso è evidente che la stessa cosa avviene quando perdiamo sonno.

Ma piuttosto che essere una cosa positiva, il cervello va in iperattività con la pulizia e inizia ad auto-danneggiarsi.

Pensiamo a ciò come alla spazzatura che viene ripulita mentre tu dormi, e al contrario qualcuno entra in casa tua dopo notti senza dormire e indiscriminatamente butta via il televisore, il tuo frigo e il tuo cane.

Mostriamo per la prima volta che le porzioni di sinapsi sono letteralmente divorate dagli astrociti perché dormiamo poco” – Bellesi ha detto a Andy Coghlan al New Scientist.

Per dimostrare ciò i ricercatori hanno studiato il cervello di topi assegnati a 4 gruppi:
– Un gruppo veniva lasciato dormire dalle 6 alle 8 ore (ben riposati);
– Un altro periodicamente si svegliava dal sonno (risveglio sporadico);
– Un terzo gruppo era tenuto sveglio per altre 8 ore (deprivati del sonno);
– Il gruppo finale era tenuto sveglio per 5 giorni consecutivi (deprivati cronicamente del sonno).

Quando i ricercatori hanno comparato l’attività degli astrociti tra i 4 gruppi, l’hanno identificata in 5.7% delle sinapsi nelle menti dei tipi ben riposati, e in 7.3 nelle menti dei topi svegliati spontaneamente.

Nei topi deprivati e cronicamente deprivati del sonno, hanno notato qualcosa di differente: gli astrociti avevano incrementato la loro attività mangiando parti delle sinapsi come le cellule microgliali mangiano i rifiuti – un processo conosciuto come fagocitosi astrocitica.

Nei cervelli dei topi deprivati dal sonno, gli astrociti sono stati trovati attivi intorno all’ 8.4% delle sinapsi, e in quelli privati cronicamente del sonno, un enorme 13.5 % delle loro sinapsi mostrava attività astrocita.

La deprivazione di sonno genera la fagocitosi astrocitica

Come Bellesi disse al New Scientist, molte delle sinapsi divorate nei 2 gruppi di topi deprivati del sonno erano per la maggior parte quelle più vecchie e più usurate (connessioni logore) – “come vecchi pezzi di una fornitura” – cosa che è probabilmente positiva.

Ma quando il team ha controllato l’attività delle cellule gliali, hanno notato che era intensificato nei cervelli dei topi deprivati cronicamente del sonno.
E cio è negativo, perché l’incontrollata attività delle cellule gliali era già stata associata a disturbi neurali come l’Alzheimer e altre forme di patologie neurodegenerative.

Troviamo che la fagocitosi astrocitica, principalmente di elementi presinaptici in larghe sinapsi, si verifica dopo un’acuta e cronica perdita di sonno, ma non dopo un risveglio spontaneo, suggerendo che ciò favorirebbe la pulizia interna e il riciclo di componenti usurate di sinapsi fortemente logore”, riportano i ricercatori.

Di contro, solo la perdita di sonno cronico attiva le cellule gliali e favorisce la loro attività fagocitica…suggerendo che un’interruzione estesa di sonno potrebbe preparare le cellule microgliali e predisporre probabilmente il cervello ad altri disturbi”.

Molte domande rimangono, come per esempio se questo processo si ripete nel cervello umano, e se recuperando sonno si può rimediare al danno.
Ma il fatto che le morti di Alzheimer siano cresciute del 50% dal 1999, insieme alla difficoltà che molti di noi hanno di avere un buon sonno notturno, significa che è qualcosa che vale la pena continuare ad indagare, e presto.

La ricerca è pubblicata nel Journal of Neuroscience.

La mente nei mondi virtuali. Report dal convegno sulle trasformazioni cerebrali indotte dalle tecnologie

Si è svolto lo scorso 26 maggio a Palermo, presso la prestigiosa sede della Libreria Mondadori Store, un seminario che ha visto riuniti psichiatri e psicoterapeuti nel compito di delineare i problemi di salute pubblica indotti dall’uso delle tecnologie informatiche, nonché i vantaggi apportati a livello cognitivo ed emotivo e le possibilità di cura offerte dalla psicoterapia.

 

I meccanismi cerebrali coinvolti nell’utilizzo delle tecnologie

Molteplici sono le possibilità offerte dalle tecnologie – spiega il professor Vincenzo Caretti, psicologo clinico e professore di Psicopatologia dello Sviluppo all’Università degli Studi di Palermo – Al di là delle possibilità di nuocere, la tecnologia può essere di ausilio nel rallentare il declino cognitivo e nel migliorare i riflessi, come avviene nella neuroriabilitazione. Certamente non si possono trascurare gli svantaggi conseguenti a un abuso delle tecnologie, come l’atrofia della materia grigia, area cerebrale importante per la programmazione, frequentemente presente negli adolescenti dipendenti dai videogames. Dal punto di vista psicologico, un sintomo preoccupante è la trance dissociativa da videoterminale, rilevata originariamente su un ragazzo che presentava un delirio dopo l’abuso del videogioco Street Fighter. Si tratta di soggetti con una particolare vulnerabilità, nel caso specifico il soggetto era cresciuto in casa famiglia”.

Quali sono i meccanismi cerebrali alla base del successo di tali strumenti tecnologici?

Alla base della dipendenza dalle nuove tecnologie vi è l’attivazione di una struttura cerebrale, il nucleo accumbens, stimolato per esempio dai like di Facebook. Quest’area cerebrale si sviluppa tra i 13 e i 17 anni in misura maggiore rispetto alla corteccia frontale, deputata alla regolazione del comportamento – continua Caretti – Ecco spiegata l’impulsività tipica degli adolescenti su cui l’impatto delle nuove tecnologie ha quindi particolare significato e deve stimolare precoci processi di intervento; ovviamente tale iper-attivazione comporta delle problematiche rispetto al trattamento. Oggi la psicoterapia non può più ignorare l’importanza dell’utilizzo, più o meno funzionale, del virtuale: basti considerare come l’interazione uomo-robot porterà alla costruzione di robot con pelle al silicone che interverranno nei diversi ambiti di vita, e altresì penso ai robot affettivi, già adoperati nell’assistenza agli anziani“.

La mente dei mondi virtuali gli effetti delle tecnologie sul cervello - Palermo, 2017

Sui correlati neurofisiologici delle nuove tecnologie si è soffermato il professore Massimo Olivieri, medico specialista in neurologia e professore di neurofisiologia all’Università di Palermo.

Bisogna innanzitutto considerare che l’attività del cervello conseguente all’amicizia off-line e on-line è sostanzialmente identica. In altre parole le aree del cervello che si attivano attraverso i social media sono molto simili a quelle che si attivano con le amicizie reali, ovvero le aree del lobo temporale, importanti per la definizione dell’identità. Se ciò non ci deve portare immediatamente a demonizzare la realtà virtuale, è innegabile il rischio insito in un abuso della realtà virtuale. Nell’attivazione cerebrale indotta dalle tecnologie manca il reclutamento della corteccia frontale, implicata nella rappresentazione del futuro, nel controllo dell’impulsività e nella creatività”.

Dal punto di vista cognitivo i danni possibili dall’abuso del virtuale sono notevoli: per esempio l’abuso dei videogames determina deficit nell’attenzione sostenuta e nell’autocontrollo (spesso a seguito della identificazione con l’avatar). Infine è stata verificata una connessione tra il tempo passato su Google e l’indebolimento della forza delle connessioni tra le aree cerebrali”.

Ancora sui cambiamenti psicologici indotti dalle nuove tecnologie e sul ruolo della psicoterapia argomenta il professore Daniele La Barbera, professore ordinario di Psichiatria presso l’Università di Palermo.

La rapidità dei cambiamenti indotti dal virtuale richiede responsabilità e non può essere trascurata. Il danno psicologico più grave riscontrabile oggi è l’erosione del principio di realtà, che sembra franare nei giovanissimi. In particolare sono in aumento i fenomeni dissociativi a causa del precoce impatto continuativo con il virtuale, con un effetto grave sui bambini, più esposti perché non ancora in possesso di un sistema di pensiero sviluppato. Una diretta conseguenza dell’uso delle nuove tecnologie è inoltre il collasso dell’empatia. Si può addirittura pervenire a un’equazione del narcisismo calcolando il numero dei selfie per ora. L’uso molto intenso dei social media può portare allo sviluppo di tratti autistici, come l’evitamento del contatto oculare. Si assiste in definitiva oggi a un disagio specifico tecno-dipendente che obbliga a dire addio al modello tradizionale di psicoterapia e una presa di consapevolezza di nuove strategie di cura, in cui peraltro le tecnologie stesse sono implicate, come nelle moderne terapie via Skype”.

In che modo lo psicoterapeuta si pone di fronte a tali fenomeni?

Gli psicoterapeuti possono reagire in modi diversi, come la negazione, oppure l’arroccamento su posizioni da rivedere alla luce di tali drastici cambiamenti, come il riferimento alla teoria freudiana. In ultimo esiste l’apertura critica al nuovo disagio, la via più utile, considerata la necessità, ormai irrinunciabile, della comprensione dei fenomeni di mutamento culturale, che non può più considerarsi una questione di nicchia o per pochi illuminati“.

E se i danni delle tecnologie sono innegabili, certamente un ruolo non indifferente lo gioca la personalità, al punto da condizionare lo sviluppo o meno della patologia, come sottolinea il professore Adriano Schimmenti, associato di Psicologia dinamica presso l’Università Kore di Enna..

Vi sono fattori propri di personalità come la schizotipia, ovvero la tendenza al pensiero disorganizzato, che predispongono allo sviluppo di una psicopatologia, in seguito al contatto con il mondo virtuale. Il fattore personalità è talmente centrale che con l’aumentare di tale tratto di personalità il fattore immersione nelle tecnologie appare addirittura trascurabile”.

E sugli effetti benefici della psicoterapia che rendono tale scelta di cura intrinsecamente collegata alle modifiche strutturali dei neuroni, alla plasticità neurale e quindi al miglioramento della qualità di vita si conclude l’evento formativo, con una speranza concreta per chi è affetto da tale forma di disagio psichico, affettivo e comportamentale.

La psicoterapia ha effetti importanti sul benessere mentale e sulla struttura stessa del cervello– continua Schimmenti- Imparare l’autoregolazione emotiva, aumentare il benessere soggettivo e relazionale sono processi che corrispondono a una modifica strutturale del cervello, ovvero all’allungamento delle estremità dei cromosomi, i telomeri”.

L’alcol, dall’uso non patologico alla dipendenza: considerazioni e trattamenti

L’ alcol è una sostanza psicoattiva che, al pari del tabacco e del caffè, è frequentemente utilizzata. E’ fondamentale però distinguere tra: uso non patologico, abuso e dipendenza.

 

L’ alcol è una sostanza psicoattiva che, al pari del tabacco e del caffè, è frequentemente utilizzata. Spesso, per i bambini, il primo contatto con l’ alcol può avvenire all’interno delle mura domestiche; infatti, non è inusuale che l’alcol si trovi sulle nostre tavole. In adolescenza, invece, dove il gruppo dei pari assume un ruolo fondamentale, è frequente che durante le uscite o alle feste si venga esposti all’ alcol. In particolare, relativamente al consumo di sostanze, è fondamentale distinguere tra:

  • Uso non patologico: uso ricreativo e sociale senza conseguenze a livello sia fisico che cognitivo.
  • Abuso: modalità di uso patologico delle sostanze psicoattive. L’individuo continua ad assumere alcol nonostante sia consapevole di avere un problema (sociale, lavorativo) causato dall’uso della sostanza .
  • Dipendenza: è caratterizzata da una scarsa capacità di controllo su consumo della sostanza psicoattiva che viene assunta nonostante il manifestarsi di conseguenze avverse.

Alcol e sostanze: i criteri del DSM per la diagnosi di un disturbo

I criteri riportati nel DSM per il Disturbo da uso di sostanze fanno riferimento a una modalità patologica d’uso della sostanza che conduce a disagio o compromissione clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle condizioni seguenti, che si verificano entro un periodo di 12 mesi:

  • La sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto;
  • Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza;
  • Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per es., recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla, o a riprendersi dai suoi effetti;
  • Craving o forte desiderio o spinta all’uso della sostanza;
  • Uso ricorrente della sostanza che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa;
  • Uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
  • Importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o ridotte a causa dell’uso della sostanza.
  • Uso ricorrente di alcol in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso (ad esempio alla guida).
  • Uso continuato di alcol nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico (es: perdita di memoria), che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza.
  • Tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti:
    • Il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato;
    • Un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza.
  • Astinenza, come manifestata da ciascuno dei seguenti:
    • La caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza (riferirsi ai Criteri A e B dei set di criteri per Astinenza dalle sostanze specifiche);
    • La stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza.

Nella diagnosi bisogna specificare se:

  • La persona beve in Ambiente Controllato
  • Codificare il decorso della Dipendenza: Remissione Precoce (3<x<12 mesi); Remissione Protratta (>12 mesi)
  • Ed infine, stabilire la gravità attuale: Lieve: 2‐3 sintomi; Moderata: 4‐5 sintomi; Grave: 6 o più sintomi

Circa il 13% della popolazione negli Stati Uniti, durante il corso della sua vita soddisfa i criteri per l’abuso di alcol e circa il 5% per dipendenza da sostanza da alcol.

CAGE: il questionario per scoprire se si soffre di un disturbo da uso di alcol

Un breve questionario, che permette di comprendere se una persona abbia un disturbo legato all’ alcol, è il CAGE. In particolare, questo test prevede quattro domande:

  1. Ha mai pensato che dovrebbe smettere di bere?
  2. Si è mai irritato perché alcune persone la criticano a causa del bere?
  3. Si è mai sentito in colpa perché beve troppo?
  4. Si è mai svegliato al mattino pensando di bere come prima cosa?

Due o più risposte positive indicano un uso problematico di alcol.

I trattamenti per i disturbi correlati all’uso di alcol

Sono stati avviati diverse tipologie di trattamenti per i disturbi correlati all’ alcol. Nel trattamento farmacologico vengono spesso utilizzate due categorie di farmaci:

  • Farmaci che agiscono su desiderio di bere: Disulfiram (Antabuse) e Naltrexone.
  • Farmaci che riducono di effetti dell’astinenza: Valium.

Riguardo ai trattamenti psicologici troviamo:

  • Terapia di gruppo: vi è spesso un professionista che dirige il gruppo. Il confronto tra le persone che abusano di alcol è molto importante, in quanto le persone sono spinte a non mentire e a non negare di fronte a persone che conoscono bene questi meccanismi.
  • Interventi ambientali: all’interno delle residenze protette, la persona è impossibilitata a procurarsi le sostanze, in quanto la persona è osservata 24h su 24h. L’intervento viene spesso abbinato alla somministrazione di farmaci e mostra buoni risultati.
  • Terapia cognitivo-comportamentale: si basa su alcune tecniche come il condizionamento avversivo, che condiziona l’assunzione della sostanza in modi negativi, e il training di abilità. Per un paziente alcolista è fondamentale imparare determinate abilità di base al fine di riconoscere i segnali di rischio per una ricaduta, ad esempio andare a una festa, fare un brindisi.

Il 99% degli approcci mirano all’astinenza completa dall’ alcol; altri invece parlano di uso controllato, cioè un uso non problematico.

L’arte di essere fragili: come Leopardi può salvarti la vita di Alessandro D’Avenia (2016) – Recensione

In “L’arte di essere fragili” l’autore Alessandro D’Avenia intesse un ipotetico scambio epistolare con il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) rivalutandone la sua figura “spesso liquidata e ricordata come pessimista e sfortunata”, sebbene a suo avviso dimostri attraverso le varie lettere e citazioni quanto invece Leopardi fosse “affamato di vita e di infinito”. Il testo è suddiviso nelle seguenti sezioni: adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere).

 

L’arte di essere fragili: uno scambio epistolare con Giacomo Leopardi

Alessandro D’Avenia, giovane scrittore e insegnante di Lettere, fin dal suo esordio letterario si è rivolto principalmente ad un pubblico giovane, bloccato in quella età di mezzo caotica che è l’adolescenza. Con i suoi libri ha cercato di intessere un dialogo con loro partendo dall’ascolto dei loro principali bisogni inespressi e inappagati, aiutandoli a ritrovare un senso ed una direzione nella loro vita. Questa volta, tuttavia, il libro può essere apprezzato anche da un lettore più maturo, sebbene l’interlocutore principale continui ad essere l’adolescente in quanto futuro adulto.

In “L’arte di essere fragili” l’autore intesse un ipotetico scambio epistolare con il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) rivalutandone la sua figura “spesso liquidata e ricordata come pessimista e sfortunata”, sebbene a suo avviso dimostri attraverso le varie lettere e citazioni quanto invece Leopardi fosse “affamato di vita e di infinito”. Il testo è suddiviso nelle seguenti sezioni: adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere).

L’autore, in un primo momento, mette in risalto il desiderio del giovane Leopardi di esplorare il mondo esterno, di andare oltre i limiti della “siepe” e di una famiglia controllante, “rapito” da una sorta di “innamoramento” della natura attraverso cui comprende la propria vocazione e il proprio scopo ultimo, ossia realizzarsi attraverso la letteratura, componendo scritti colmi di questo “rapimento”. La vita, però, molto spesso non asseconda le nostre aspirazioni ma, anzi, pone degli ostacoli (nel caso di Leopardi l’ impossibilità in un primo momento di allontanarsi dalla famiglia di origine, l’amore negato più volte, la malattia che lo priva del suo unico scopo di leggere e scrivere). Davanti a ciò, l’adulto mette da parte i propri sogni ma quello che dovrebbe fare è, invece, accettare i limiti per realizzare nuovi “rapimenti” che vadano oltre ai limiti stessi o che ne riattribuiscano un senso. Per questo motivo, secondo Alessandro D’Avenia, Leopardi non è pessimista: a suo avviso è invece un uomo che, scontrandosi con gli ostacoli, ha fatto diventare i suoi scopi irraggiungibili e i limiti della vita ulteriori nuovi scopi di lirica e poesia, di ampliamento della conoscenza. Il canto della solitudine e della natura malvagia nascono proprio dalla riattribuzione di senso rispetto agli eventi negativi che hanno costellato la sua vita.

L’arte di essere fragili, la lettura cognitivista del libro

Emerge una possibilità di lettura del testo in termini cognitivisti, con elementi propri della scopistica e dei movimenti cosiddetti di “terza ondata” del cognitivismo.

Gli scopi costituiscono il sistema motivazionale dell’individuo, orientandone il comportamento e le scelte in base al proprio sistema di valori. Occorre avere degli scopi, senza non siamo definiti come persona. E’ altrettanto importante riuscire a marcare emotivamente i propri desideri. Gli scopi sono infatti strettamente interconnessi alle emozioni, che hanno la funzione di segnalare a noi stessi e agli altri dove ci collochiamo rispetto all’obiettivo finale che ci siamo posti. Emozioni positive segnalano che ci stiamo avvicinando all’obiettivo, viceversa emozioni di tristezza o invidia segnalano che ne siamo lontani. Una marcatura “positiva” di un desiderio è ciò che è alla base del “rapimento” descritto nel testo dall’autore, che sprona i giovani a riconoscerlo e a identificarlo in modo da comprendere quale possa essere il loro scopo terminale o passione nel corso della vita adulta.

Ma la sofferenza psicologica nasce spesso proprio dal continuare a cercare di raggiungere scopi irraggiungibili. Una soluzione a questa impasse giunge dal movimento di “terza ondata” del cognitivismo che sottolinea l’importanza della accettazione, che è un concetto ben diverso dal condividere e subire passivamente quanto stiamo vivendo. Accettare significa capire che non c’è possibilità di azione, sentire l’emozione di dolore e di impotenza che ne scaturisce per poi, in un secondo momento, riuscire però a guardare oltre, trovando nuovi significati di vita [“Malinconia è vedere l’enorme fragilità del mondo e non scappare ma chinarsi a riparare senza stancarsi; scorgere che sempre, sempre, qualcosa manca, e in quel vuoto sentirsi spinti non verso il nulla, ma verso la creazione”].

Questa è l’arte di essere fragili propria della età della maturità, l’arte di accettare ciò che non si può cambiare senza esserne sottomessi. L’arte di continuare a fare poesia della e nella sofferenza [“C’è ancora qualcosa da scoprire, una luce in mezzo alle tenebre, non fosse altro che la luce dei tuoi versi…non hai trasformato il nulla in nulla ma in bellezza”].

Riconoscere le emozioni: il primo passo per regolarle

Si può dire che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno, ma in che modo? In questo ci vengono in aiuto le emozioni.

Valentina Di Dodo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Ogni giorno della propria vita il mondo interno, soggettivo, di ciascun essere umano entra in contatto con il mondo esterno dotandolo di significato.

Il mondo interno è formato da quello che più caratterizza la persona e ne fanno parte: il carattere e le strutture di personalità, le credenze e il sistema di valori propri di ciascuno. Il mondo interno è quella cosa per cui a fine giornata una persona può dire “oggi è stata una bella giornata” o il contrario. Per ogni persona una giornata può essere bella o brutta semplicemente per il significato che essa stessa dà a quella giornata: una giornata molto faticosa può essere ritenuta molto soddisfacente da alcuni e terribile da altri.

Dare significato al mondo: il ruolo delle emozioni

Si può dire quindi che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno. Ma in che modo diamo un significato? In questo ci vengono in aiuto le emozioni. Seconda alcune teorie, infatti, le emozioni sono degli stati mentali in grado di direzionare una persona nel proprio mondo, per fare questo le emozioni aiutano gli esseri umani cosa si frappone tre sé e il proprio scopo: se lo scopo è avere una giornata rilassante, avere un lavoro molto faticoso non ci permette di raggiungere lo scopo, per questo possiamo sentire o un fallimento oppure un’ingiustizia. Se lo scopo è quello di ottenere una promozione lavorativa, ma non siamo certi di riuscire a consegnare tutto il nostro lavoro a fine giornata, lo scopo non è ancora fallito, ma è minacciato.

Ma cosa succede esattamente quando definiamo una giornata “brutta”? Cos’è che ci fa dare questa definizione di una giornata? Come abbiamo appena visto i nostri pensieri, basati sul sistema di valori centrali, ci danno un’indicazione di come stanno andando le cose per noi, ma sono le emozioni che ci danno un indice percepibile di come abbiamo vissuto la nostra giornata, o di come la stiamo vivendo. Quando alla sera parlando con un amico sosteniamo di aver avuto una brutta giornata, l’indicazione di quanto è stata brutta difficilmente ci viene data in modo del tutto razionale. Spesso è quello che sentiamo a darci delle indicazioni più chiare: se sentiamo di stare un po’ male, probabilmente la giornata è stata un po’ brutta, se sentiamo di essere sconvolti dalle nostre emozioni negative probabilmente la giornata si è allontanata moltissimo dai nostri scopi, facendola diventare una giornata pessima.

Riconoscere le emozioni e i pensieri che le generano

A molti verrebbe da chiedersi il motivo per cui la giornata è andata così male: se è facilmente individuabile il motivo, è altrettanto semplice trovare una soluzione o una modalità alternativa a quella già provata. Il problema sorge quando ci si sente giù di morale, o in generale male senza avere un’idea precisa del perché. È proprio in queste situazioni che riconoscere le emozioni che stiamo provando e riconoscere i nostri pensieri diventa molto importante. Se è vero infatti che è possibile riconoscere le emozioni provate partendo dall’informazione che arriva dai pensieri, che tuttavia talvolta sono veloci e confusi nella testa delle persone, è altrettanto possibile arrivare a dare un significato al malessere che pervade la persona anche prendendo come informazione iniziale l’emozione che si sta provando. Le emozioni sono sicuramente più immediate rispetto al contenuto cognitivo, che in situazioni particolarmente attivanti e stressanti, tende a fluire velocemente saltando da un contenuto all’altro senza seguire un vero e proprio processo logico.

Ma cosa succede quando ci si dice che si sta semplicemente male? In questo caso a volte diventa molto difficile ricondurre il malessere soggettivo, il nostro mondo interno, con gli eventi che succedono nel mondo. Capire cosa si sta provando in una determinata situazione è molto importante per comprendere a che punto siamo rispetto ai nostri scopi: sono minacciati? Siamo in una situazione di ingiustizia? O piuttosto ci troviamo di fronte ad una perdita o ad un fallimento? Capire se si è in ansia, arrabbiati oppure tristi ci aiuta a capire cosa possiamo fare per regolare lo stato mentale spiacevole che stiamo provando.

Emozioni e correlati fisiologici

Un valido aiuto per comprendere quale emozione si sta provando in un dato momento arriva dal correlato fisiologico che ciascuna emozione porta con sé. Quando ci attiviamo in seguito ad una emozione sentiamo, di solito, qualcosa nel corpo.

Alcuni ricercatori finlandesi ci vengono in aiuto per riconosce quale emozione si sta provando, partendo dal tipo di attivazione corporea percepita. È stata infatti tracciata una mappa corporea di alcune emozioni.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of The National Academy of Sciences nel 2013 da un team di ricercatori dell’università di Aalto.

Alla ricerca hanno partecipato 700 persone provenienti da Svezia, Finlandia e Taiwan; in questo modo è possibile dimostrare che il codice delle sensazioni corporee legate alle emozioni è universale e non legato a fattori culturali. I ricercatori hanno indotto diversi stati emotivi attraverso la visione di film o la lettura di storie, successivamente hanno fornito ai partecipanti alcune foto del corpo umano ed è stato loro chiesto di colorare, con colori diversi colori, le parti del corpo che sentivano attivarsi o disattivarsi in risposta all’emozione suscitata.

È emerso ad esempio che quando le persone provavano l’emozione rabbia le parti del corpo ad attivarsi maggiormente sono i pugni e la parte alta del tronco insieme alla testa; in caso di paura si percepisce maggiormente una sensazione fisica attivante in mezzo al petto, mentre nel caso in cui si provi ansia oltre all’attivazione nel petto i partecipanti percepivano anche una sensazione di torpore negli arti; in caso di tristezza o depressione il torpore sembra essere percepito in modo molto maggiore rispetto a quando sono provate altri tipi di emozioni; la vergogna sembra attivare il corpo principalmente all’altezza delle guance; mentre l’emozione che sembra attivare il nostro corpo in modo più omogeneo è la felicità, che insieme allo stato d’animo definito dai ricercatori come amore produce un’attivazione intensa ed omogenea.

 

Emozioni riconoscerle per imparare a gestirle partendo dal corpo - Psicologia

 

I ricercatori hanno spiegato che nel condurre lo studio non hanno fatto riferimento a nessuna sensazione specifica, come potrebbero essere per esempio la sudorazione o la sensazione di calore, ma anzi hanno incoraggiato i soggetti a riportare sensazioni nette, come ad esempio la percezione di un’aumentata attivazione o disattivazione di differenti sistemi fisiologici.

Questo studio può essere di grande aiuto nella clinica, soprattutto a tutti quei pazienti che trovano difficoltà nel riconosce quale emozione sentono. La possibilità di avere strumenti come una mappa corporea delle emozioni potrebbe riuscire a facilitare queste persone, partendo dal proprio corpo, partendo da cosa sentono e dove. Avere dei risultati generalizzabili potrebbe essere utile per capire quindi cosa significa per ciascuno “ho avuto una pessima giornata”, semplicemente focalizzandoci su quale parte del corpo sento attivata, o in quale parte sento torpore.

Bullismo: le conseguenze sulla salute e gli interventi di prevenzione

Il bullismo, come forma di stress cronico, può avere importanti implicazioni negative sulla salute fisica e mentale. In questi casi, un intervento tempestivo è di fondamentale importanza. Un’efficace alternativa, relativa agli interventi anti-bullismo, è rappresentata dagli approcci che agiscono in prevenzione.

 

Il fenomeno del bullismo e le conseguenze sulla salute

Il bullismo è una forma di comportamento aggressivo che caratterizza alcune relazioni tra pari. All’interno della definizione di bullismo rientrano sia comportamenti aggressivi diretti (ad esempio, aggressione fisica) sia comportamenti aggressivi indiretti (ad esempio, diffondere calunnie, escludere dal gruppo). Due elementi risultano essere indispensabili per definire meglio tale fenomeno:
– Intenzionalità: vi deve essere intenzionalità da parte del bullo di arrecare un danno fisico o psicologico alla vittima.
– Persistenza nel tempo: gli episodi di bullismo avvengono in maniera sistematica per lunghi periodi di tempo.

Le ricerche ritengono che, il reiterarsi degli episodi di bullismo nel tempo, abbia un notevole effetto negativo sulla salute, per tutta la vita. In particolare, il Dr. Tye sostiene che quando un individuo è esposto a periodi brevi di stress, il corpo è in grado di reagire efficacemente recuperando il funzionamento normale. Al contrario, quando l’esposizione allo stress è cronica, come nel caso del bullismo, tale processo di recupero risulta essere molto più difficoltoso, in quanto lo stress eccessivo influenza negativamente i processi fisiologici. In particolare, a essere alterati sono la risposta infiammatoria, ormonale e metabolica dell’organismo. Tali modificazioni contribuiscono allo sviluppo di malattie, tra cui diabete, malattie al cuore, depressione e altre patologie psichiatriche.

Interventi di prevenzione del bullismo

Dunque, il bullismo, come forma di stress cronico, può avere importanti implicazioni negative sulla salute fisica e mentale. In questi casi, un intervento tempestivo è di fondamentale importanza. Un’efficace alternativa, relativa agli interventi anti-bullismo, è rappresentata dagli approcci che agiscono in prevenzione.

Tenendo conto che episodi di bullismo possono avvenire in svariati contesti verranno esposti alcuni interventi di prevenzione che potrebbero essere applicati all’interno del contesto scolastico. Nell’ambito della scuola, gli interventi possono avvenire su diversi livelli:
– Politica scolastica: l’adozione di una politica anti-bullismo, intendendo con ciò, l’inaccettabilità di qualsiasi forma di prepotenza, accompagnata dall’impostazione di obiettivi e linee guida antiviolenza e basate sulla cooperazione.
– Attività informativa e di sensibilizzazione – livello scuola: un’importante attività è l’informazione e la sensibilizzazione sul bullismo, ad esempio attraverso conferenze. In queste attività, risulta fondamentale la partecipazione dei genitori, degli insegnanti e di tutto il personale scolastico.
– Intervento di cortile: tenendo conto che la maggior parte degli episodi di bullismo avvengono in luoghi privi della supervisione diretta degli adulti, risulta fondamentale, in primo luogo, individuare le zone più pericolose e, successivamente riorganizzare gli spazi e le regole.
– Livello classe: in questa tipologia di interventi si agisce all’interno della classe e viene richiesta la partecipazione attiva degli studenti. Nell’intervento anti-bullismo è fondamentale coinvolgere l’intero gruppo classe, al fine di modificare il clima, le regole e le dinamiche relazionali.
– Livello individuale: spesso, gli individui che assumono in ruolo di bullo o di vittima, necessitano di un’attenzione particolare e di un aiuto psicologico mirato, come l’apprendimento di importanti abilità sociali.

Il bullismo è un fenomeno multi-sfaccettato, per questo motivo necessita di interventi globali. Un fattore molto importante è rappresentato dall’interazione scuola-famiglia. Lavorare in sinergia rappresenta un elemento fondamentale affinché un intervento anti-bullismo risulti efficace.

 

Le donne dei Baustelle: riflessioni psicologiche sui testi delle canzoni

Le donne descritte da Bianconi dei Baustelle appaiono, infatti, tutte molto simili tra loro: caratterizzate dalla stessa età anagrafica (in genere adolescenti o giovani donne) e provenienti generalmente dalla provincia, recitano spesso il ruolo di personaggi dai tratti borderline e socialmente ai margini della società. Rientrano in questa categoria Martina e Betty delle omonime canzoni, e le ragazze senza nome descritte in “La guerra è finita” e “Perché una ragazza di oggi può uccidersi”.

 

Le donne delle canzoni dei Baustelle

I Baustelle sono un gruppo indie-pop-rock toscano il cui leader, nonché autore dei testi, è Francesco Bianconi. Ascoltando le loro canzoni, dal primo album del 2000 (“Sussidiario illustrato della giovinezza”) all’ultimo di quest’anno dal titolo “L’Amore e la Violenza”, spesso si rimane colpiti dalla bravura del cantautore nel tratteggiare con maestria da scrittore, personaggi dal profilo psicologico di grande spessore. Tra di essi, risultano particolarmente interessanti le figure femminili.

Le donne descritte dai Baustelle appaiono, infatti, tutte molto simili tra loro: caratterizzate dalla stessa età anagrafica (in genere adolescenti o giovani donne) e provenienti generalmente dalla provincia, recitano spesso il ruolo di personaggi dai tratti borderline e socialmente ai margini della società. Rientrano in questa categoria Martina e Betty delle omonime canzoni, e le ragazze senza nome descritte in “La guerra è finita” e “Perché una ragazza di oggi può uccidersi”.

Martina: la prima figura femminile delle canzoni dei Baustelle

In ordine cronologico, la prima figura ad “entrare in scena” sul metaforico “palcoscenico” musicale messo in piedi da Bianconi è Martina.

https://www.youtube.com/watch?v=RmE7Wc3gka4

Più che con una donna reale, tuttavia, in questo testo si ha l’impressione di avere a che fare con una sorta di archetipo letterario che vede la figura femminile come un soggetto disintegrato e ambivalente: da un lato fonte inesauribile di dolcezza (“miele infinito per anima”); dall’altro, inaspettato calvario (“Per calvario un angelo”). Tale ambivalenza, in qualche modo, sembra richiamare metaforicamente figure mitologiche come Medusa, raffigurata come una donna bellissima e al tempo stesso letale. La stridente commistione tra stati mentali tanto intensi quanto inconciliabili, che la donna evoca, è resa molto bene dal registro musicale che alterna delicati arpeggi a violente rasoiate di accordi.

Le figure femminili protagoniste di suicidi nelle canzoni dei Baustelle

Nel 2005 i Baustelle partoriscono “La Malavita”, terzo album del gruppo. Qui spiccano due figure femminili entrambe tragicamente protagoniste di suicidi. In “La guerra è finita”, la protagonista è una ragazza giovane ritratta nostalgicamente come un’amica perduta dell’adolescenza (Era mia amica/Era una stronza/aveva sedici anni appena).

Questa canzone riesce a sintetizzare in maniera esemplare le caratteristiche peculiari dell’adolescenza, periodo che coincide spesso con un percorso, più o meno lungo, di strutturazione identitaria, attraverso il quale la persona entra in contatto, volontariamente o meno, con un ampio spettro di possibili Sé e altrettanto possibili percorsi esistenziali. E’ la fase – tipica delle società occidentali economicamente più sviluppate – della cosiddetta “moratoria psico-sociale” (Erikson, 1968), corrispondente, appunto, ad un periodo di sperimentazione di sé, delle proprie capacità e delle proprie attitudini. I versi riportati di seguito, infatti, descrivono l’immagine di una persona dinamica, in continuo movimento e alla ricerca di un’identità che al momento appare una lontana chimera, persa tra dipendenze, condotte trasgressive e autodistruttive:

Vagamente psichedelica/La sua t-shirt all’epoca/Prima di perdersi nel punk/Prima di perdersi nel crack/Si mise insieme ad un nazista/Conosciuto in una rissa.

A ciò fa da sfondo, immancabilmente, un profondo vissuto di insoddisfazione esistenziale che si risolve in un suicidio: tale gesto, che esternalizza in maniera tragica un conflitto interiore, va inteso come l’atto definitivo di rivolta della ragazza contro la società. In tal senso, le parole scritte sul biglietto, da lei lasciato, testimoniano la presa di coscienza dell’impossibilità di pervenire ad una soluzione, ad un adattamento con una realtà esterna vista come incompatibile rispetto ai propri ideali:
La penna sputò parole nere di vita/La guerra è finita/Per sempre è finita/Almeno per me.

La tematica del suicidio si ripropone in “Perché una ragazza d’oggi può uccidersi”. Il titolo è un chiaro riferimento a “Io la conoscevo bene”, film di Antonio Pietrangeli del 1965. Il testo si snoda attraverso una serie di riflessioni di due “conoscenti” sulle possibili motivazioni che hanno spinto la protagonista a togliersi la vita. Più avanti si capirà che, in realtà, i due sono rispettivamente il fidanzato e la più cara amica della sfortunata protagonista, entrambi rei confessi di un “tradimento” nei suoi confronti. Tale evento, sapientemente, viene indicato dai due come la vera “causa scatenante”:
Ma la causa scatenante/il motivo vero siamo io e te/io che l’ho tradita/ tu che le sei stata amica

Dico “sapientemente” perché Bianconi dei Baustelle, qui, invece di fermarsi a quello che sembra il fattore causale immediatamente evidente, si addentra pian piano nella psicologia della donna, allo scopo di comprendere le reali ragioni – in Psicologia li chiameremmo i “fattori predisponenti” – che l’hanno spinta a compiere il tragico atto. Le due voci-narranti della storia (l’altra è quella di Rachele Bastreghi) cominciano, quindi, a elencare una serie di ipotesi per spiegare l’evento e che permettono di fare alcune interessanti inferenze sulla psicologia della “vittima”.

Innanzitutto la protagonista appare come una ragazza solitaria e poco interessata ai rapporti sociali (Forse perché non le piace la gente); particolarmente interessante, tuttavia, è il verso successivo (o quella festa che ha dentro di sè/quando vorrebbe la tranquillità/il niente), il quale, utilizzando le chiavi di lettura delle teorie cognitiviste, è in grado di fornire qualche spunto sui possibili stati mentali ricorrenti nella donna: la “festa” , per esempio, potrebbe alludere alla presenza di stati mentali caotici, poco integrati, o più semplicemente alla presenza di processi di pensiero ripetitivi (ruminazione e/o rimuginazione).

Quest’ultima ipotesi riporta alla mente le parole di Adrian Wells, fondatore della Terapia Metacognitiva: “Le persone restano intrappolate nel disturbo emotivo poiché le loro metacognizioni causano un particolare pattern di risposta a esperienze interne che mantengono l’emozione negativa e rafforzano le credenze/idee negative” (Wells, 2009, p.1). In tale ottica, la comparsa di pensieri negativi come “non sono all’altezza” attiva specifiche metacredenze sulla ruminazione e/o la rimuginazione (es. “se rumino/rimugino uscirò da questa situazione”) che tuttavia si rivelano disfunzionali in quanto, anziché risolverle, rafforzano e mantengono le credenze e le emozioni negative da esse evocate.

Volendo continuare questo “gioco” di interpretazione, si potrebbe avanzare l’ipotesi che la ragazza al momento del gesto versasse in uno stato depressivo acuto; tale aspetto troverebbe conferma nei versi successivi:
Certo perché/non le importa più niente/del freddo forte che fa/nella città/per farla breve che tempo farà/per sempre

Queste parole potrebbero, infatti, essere lette alla luce della famosa triade cognitiva di Beck (1979), usata per descrivere la depressione: secondo il fondatore della Terapia Cognitiva, infatti, la sindrome depressiva è riconducibile alla presenza di una triade di credenze negative su di sé, il mondo e il futuro. La ragazza della canzone, difatti, sembrerebbe nutrire profonda sfiducia e pessimismo verso il mondo esterno e il futuro.
Ma, a mio avviso, i versi più interessanti e in grado di delineare in modo più dettagliato il quadro personologico della ragazza sono quelli riportati qui di seguito:
Forse perché quello che lei voleva/era una vita da star/Milano style/ come credete che si sentirà adesso?

Prendendo spunto anche dalle riflessioni di Riva (2016), si può immaginare che la ragazza provasse un profondo senso di inadeguatezza, un vissuto che spesso ricorre in gran parte degli adolescenti di oggi e che appare sempre più legato alle dinamiche sociali tipiche della nostra epoca, plasmate profondamente dai social-media e permeate da crescenti bisogni narcisistici di affermazione mediatica del Sé. In tale quadro il suicidio rappresenterebbe un gesto sensazionale, in grado di farla uscire dall’anonimato e di proiettarla nella dimensione di notorietà tanto agognata.

Tematiche simili vengono riproposte in “Betty” (da “L’Amore e la Violenza”, 2017). La canzone, infatti, ci offre il ritratto della tipica adolescente contemporanea, la cui soggettività appare sempre più inscindibile dalle immagini e dai significati veicolati sui social network (Manda messaggi al mondo/Quando le va di uscire/Che bel profilo/E quante belle fotografie)

Sembra prendere corpo quella dimensione di “interrealtà” a cui fa riferimento sempre Riva (2010), in cui non c’è più separazione tra il mondo reale e quello virtuale dei social: secondo tale ipotesi, a differenza di quanto avveniva in passato, adolescenti e giovani adulti di oggi permarrebbero per un tempo indefinito (forse addirittura per l’intera durata della propria esistenza) in uno stato dinamico di costruzione e ri-costruzione della propria identità.

Il chiaro riferimento alla tematica dell’identità fluida descritta da Bauman (2003) si intreccia, poi, con quella dell’ “analfabetismo emotivo”: nella dimensione dell’interrealtà, infatti, le relazioni mediate dalla fisicità dei corpi sono sostituite da quelle del medium virtuale, con il risultato che vengono perse le coordinate emotive. Accade così che stati emotivi contrapposti e inconciliabili vengono espressi e comunicati nello stesso momento (Ride quando la tocchi/Finge quando sorride), perdendo ogni significato (Vive bene, vive male/Non esiste differenza/Tra la morte di una rosa/E l’adolescenza). Ciò significa che i rapporti umani reali finiscono sempre più con l’assumere le caratteristiche delle relazioni virtuali, in cui tutto è possibile ma nulla è reale. La metafora del gioco sembra pertanto riuscire a descrivere efficacemente il modo in cui ci si relaziona con l’Altro oggi (Betty è bravissima a giocare/Con l’amore e la violenza).

Per l’ennesima volta, il suicidio, come un mantra, viene evocato da Bianconi come gesto risolutivo che assume i toni di un desiderio liberatorio della ragazza rispetto ad una realtà (anzi un’interrealtà) opprimente e di cui tutti siamo divenuti ormai dipendenti (Betty ha sognato di morire/Sulla circonvallazione/prima ancora di soffrire/Era già in putrefazione/Un bellissimo mattino/Senza alcun dolore/Senza più dolore).

Gioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo: esistenza di una possibile relazione

Varie ricerche presenti in letteratura si sono occupate di indagare l’esistenza di una possibile relazione tra i comportamenti di gamblinggioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo. Ciò potrebbe generare importanti implicazioni teoriche e cliniche utili allo sviluppo e al miglioramento delle strategie di prevenzione e di trattamento delle patologie in questione. 

Elena Rizzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Nell’ambito della ricerca psicologica clinica, è sempre di notevole interesse l’indagine dell’esistenza di relazioni tra diverse manifestazioni psicopatologiche. La ragione di tale interesse risiede nella possibilità di generare importanti implicazioni teoriche e cliniche utili allo sviluppo e al miglioramento delle strategie di prevenzione e di trattamento delle patologie in questione. Varie ricerche presenti in letteratura si sono occupate di indagare l’esistenza di una possibile relazione tra i comportamenti di gambling o gioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo.

 

Gambling, shopping compulsivo e accumulo compulsivo

Il gambling, o gioco d’azzardo patologico, viene definito come un comportamento problematico persistente o ricorrente legato al gioco d’azzardo che porta a disagio o compromissione clinicamente significativi (DSM-5; APA, 2013).

Lo shopping compulsivo consiste in una “cronica, anormale forma di shopping e di spesa caratterizzata principalmente da un irresistibile, incontrollabile e ripetitivo impulso/desiderio di acquistare” (Edwards, 1992, pp. 54), il quale viene reiterato fino a determinare effetti dannosi per l’individuo e le persone che gli stanno vicine (Pani & Biolcati, 2006).

L’accumulo compulsivo è caratterizzato dalla persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni a prescindere dal loro reale valore, che comporta l’ingombro degli spazi vitali compromettendone l’uso previsto e causa disagio o compromissione del funzionamento della persona (DSM-5; APA, 2013).

Le prime due manifestazioni cliniche vengono convenzionalmente incluse nella macrocategoria delle dipendenze comportamentali, mentre la terza viene definito un disturbo correlato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

 

Cosa sono le dipendenze comportamentali?

Il concetto di dipendenza comportamentale (behavioural addiction) nasce con l’intento di classificare quei comportamenti che rispecchiano i sintomi e le conseguenze delle dipendenze correlate all’uso di sostanze, pur non prevedendo l’assunzione delle stesse.

Negli ultimi anni, la crescente attenzione di ricercatori e clinici per l’argomento è stata mossa anche dalla proposta dell’inserimento all’interno della sezione dei Disturbi correlati a sostanze del DSM-5 (APA, 2013) di una sottocategoria appositamente dedicata a questo tipo di dipendenze. Se da una parte molti autori hanno sostenuto tale la proposta, dall’altra, molto più controversa e dibattuta è stata la scelta delle patologie da inserirvi (Black, 2013). Sono stati presi in considerazione diversi comportamenti patologici tra cui: il gambling o gioco d’azzardo patologico, l’uso compulsivo del computer (compulsive computer use), il comportamento sessuale compulsivo (compulsive sexual behavior) e lo shopping compulsivo (compulsive buying) (Grant, Brewer & Potenza, 2006).

Tuttavia, con la pubblicazione del DSM-5, si osserva che la categoria delle dipendenze comportamentali (Disturbi non correlati a sostanze), per ora, include soltanto una delle patologie considerate dagli studiosi: il Gioco d’Azzardo Patologico (gambling). Il mancato raggiungimento di un punto di vista condiviso e la conseguente impossibilità di formulare criteri diagnostici univoci anche per altri comportamenti patologici (come lo shopping compulsivo), sono probabilmente dovuti alla minore presenza di studi riguardanti tali comportamenti disfunzionali (Chiri, Gorrini & Sica, 2010). Ad ogni modo, nella pratica clinica, lo shopping compulsivo viene a tutti gli effetti riconosciuto come una dipendenza comportamentale e conseguentemente trattato.

 

Cosa sono i disturbi correlati al Disturbo Ossessivo-Compulsivo?

I disturbi correlati al Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) sono quelle patologie che la ricerca ha identificato come aventi i tratti che caratterizzano i disturbi dello spettro ossessivo compulsivo, ovvero la presenza di pensieri ossessivi e comportamenti ripetuti (Mannelli, 2013). Tra di essi vi è il Disturbo d’Accumulo (Hoarding) che per la prima volta viene identificato come un’entità diagnostica a se stante e distinta dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo, al quale, in precedenza, veniva ricondotto (DSM-5; APA, 2013). Numerose ricerche, hanno infatti rilevato che un’elevata percentuale dei pazienti con una diagnosi principale di accumulo compulsivo non soddisfaceva i criteri per un’ulteriore diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e che l’Hoarding è clinicamente, neurobiologicamente e geneticamente distinto dal DOC (An et al., 2009; Frost, Steketee, Tolin & Glossner, 2010; Mataix-Cols et al., 2010; Saxena et al., 2004).

 

Comportamenti normali vs comportamenti patologici

Tutti e tre i comportamenti in esame (gambling, shopping e accumulo) sono, in realtà, presenti normalmente nella gamma di azioni compiute dagli uomini; sono abitudini diffuse, quotidiane e socialmente accettate, ben lontane dall’apparire come un sintomo clinico. In questi casi, infatti, la psicopatologia si situa all’estremità di un continuum in cui al limite opposto vi è un comportamento normale ed equilibrato, il quale, potenzialmente, può addirittura aumentare il benessere psicologico dell’individuo (Pani & Biolcati, 2006).

Le motivazioni per le quali un soggetto può decidere di intraprendere e continuare tali attività sono molteplici. Il gioco d’azzardo, ad esempio, potrebbe costituire uno spazio magico in cui fantasticare sulla ricchezza e sui conseguenti cambiamenti della propria vita; oppure un’attività con la quale riempire o cancellare momentaneamente momenti di noia, mancanza di senso, di insoddisfazione o, peggio, di depressione e solitudine; o, ancora, un’attività per provare eccitazione e piacere (Croce, 2001; Pani & Biolcati, 2006).

Nel caso dello shopping, invece, di pari passo con l’affermazione della “cultura del consumo”, l’acquisizione di beni materiali ha assunto sempre di più una posizione centrale per l’individuo in quanto influenza il suo status sociale, contribuisce alla regolazione del suo umore ed all’espressione della propria identità e del proprio sé (Dittmar, 2001).

Infine, nel caso del comportamento di accumulo, sembra che esso esista persino per una ragione evolutiva (è riscontrabile anche in alcune specie animali), con la funzione di prevenire la scarsità di cibo e beni tipica di certi periodi dell’anno o di certe annate (Frost, 2010). Traslato nella società odierna, le ragioni che spingono gli individui a “conservare” sono, ad esempio, la paura di perdere qualcosa di importante oppure l’idea che gli oggetti possano servire in futuro (Frost, Kim, Morris, Bloss, Murray-Close & Steketee, 1998).

Questi tre comportamenti, tuttavia, possono in certe condizioni essere messi in atto in  maniera problematica e disfunzionale con gravi conseguenze per la salute dell’individuo (sia mentale che fisica) e con derive dannose riscontrabili in diverse aree: sociale, familiare, occupazionale, economica e legale.

Nel comportamento di gioco d’azzardo è presente un’intrinseca pericolosità potenziale dovuta sia a fattori individuali che ambientali, tra i quali l’aumento e la diversificazione dell’offerta delle possibilità di gioco degli ultimi decenni che consente un accesso al gioco più immediato, prevede giochi caratterizzati da un maggior rischio di additività e induce sempre di più alla messa in atto del comportamento in maniera solitaria ed asociale (Croce, 2001). Per quanto riguarda lo shopping, esso può diventare un comportamento patologico quando assume il ruolo di azione compensatoria di una mancanza, non materiale ma emotiva, per esempio per alleviare o sopprimere uno stato emotivo negativo, spesso depressivo (Fiore, 2015). Il comportamento di accumulo, invece, può in certi casi sfociare in un comportamento compulsivo che rappresenta unicamente un costo in termini di accumulo piuttosto che un effettivo beneficio: la funzionalità viene surclassata dall’eccesso (Frost, 2010).

 

Esistenza di una possibile relazione tra i tre comportamenti patologici

Le indagini svolte fino ad oggi indagano principalmente l’eventuale sussistenza di una co-occorenza tra le manifestazioni cliniche. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le ricerche sono state svolte indagando alternativamente una coppia dei tre comportamenti e raramente si sono occupate dello studio dei tre comportamenti patologici in un unico campione.

 

Gambling e shopping compulsivo

I risultati disponibili in letteratura sono concordi nel rilevare la presenza di una comorbidità tra le due manifestazioni cliniche, gambling (ovvero gioco d’azzardo patologico) e shopping compulsivo (Black, Monahan, Schlosser & Repertinger, 2001; Frost, Meagher & Riskind, 2001; Kausch, 2003; Lesieur & Rosenthal, 1991; Netemeyer et al., 1998; Specker, Carlson, Christenson & Marcotte, 1995). In aggiunta alla condivisone delle peculiarità delle dipendenze comportamentali, il motivo della stretta relazione tra i due comportamenti patologici potrebbe essere la condivisione di caratteristiche di attenzione focalizzata, gratificazione monetaria e scambio di denaro (Black & Shaw, 2008; Specker et al., 1995). Esistono, inoltre, delle preliminari evidenze a sostegno di un substrato neurobiologico condiviso. È stata, infatti, proposta l’ipotesi di un’origine serotoninergica comune, supportata da una piccola indagine pilota che mostra che i due disturbi rispondono al trattamento con gli SSRI (inibitori del “reuptake” della serotonina) con miglioramenti realmente promettenti (Alexander, 1996).

 

Shopping compulsivo e accumulo compulsivo

L’accostamento dei due comportamenti patologici, shopping compulsivo e accumulo compulsivo, è meglio comprensibile e giustificabile se si considera lo shopping compulsivo come una componente dell’acquisizione compulsiva, la quale costituisce un elemento cardine del più ampio fenomeno dell’ accumulo compulsivo (DSM-5; APA, 2013; Frost & Hartl, 1996).

Dalla comparazione dei deficit e delle manifestazioni cliniche emergono, in entrambe le patologie, difetti nel processo di presa delle decisioni e un ridotto controllo sull’attività mentale (Kyrios, Steketee, Frost & Oh, 2002). Queste difficoltà possono, in entrambi i casi, derivare da un’inadeguata gestione degli stati emotivi negativi (come ansia e depressione) oppure possono essere il risultato di credenze disfunzionali (ad esempio formulate in maniera perfezionistica). Un’ulteriore caratteristica comune, che spinge gli hoarders ad accumulare e gli acquisitori compulsivi a comprare, è la preoccupazione per la perdita di un’opportunità, ovvero di un bene che potrebbe essere utile in futuro (Frost et al., 1998). La co-occorenza delle due patologie è ampiamente provata (Frost, Tolin, Steketee, Fitch, & Selbo-Bruns, 2009; Hayward & Coles, 2009). Alcuni autori, tuttavia, precisano che un’attenta analisi dei risultati disponibili sull’argomento suggerisce che quasi tutti gli hoarders mostrano in associazione anche il comportamento di acquisto compulsivo, ma anche che non tutti gli acquirenti compulsivi soffrono di accumulo compulsivo (Mueller et al., 2007).

 

Gambling e accumulo compulsivo

I dati presenti in letteratura sul legame tra gambling e accumulo compulsivo sono minori e discordanti (Hayward & Coles, 2009). Tuttavia, il fatto che alcuni autori abbiano rilevato una maggiore presenza di tratti ossessivi/compulsivi in giocatori patologici rispetto a giocatori nella norma (Blanco et al., 2009; Blaszczynski, 1999), ha spinto altri ricercatori ad avanzare ed indagare l’ipotesi che anche nel gambling o gioco d’azzardo patologico (come nello shopping compulsivo e nell’ accumulo compulsivo) vi possa essere un pensiero intrusivo o una paura ossessiva di perdere un’opportunità (Frost, Meagher & Riskind, 2001). Nel loro studio, infatti, essi rilevano che giocatori patologici ottengono punteggi significativamente più alti nelle scale misuranti l’hoarding (e in quelle misuranti l’acquisto compulsivo) rispetto ai giocatori non patologici. Gli autori, inoltre, contribuiscono a delineare un’importante differenza nella relazione tra shopping compulsivo e gambling rispetto a quella tra shopping compulsivo e hoarding: nel primo caso, infatti, esiste soltanto in relazione all’acquisto compulsivo di beni (necessariamente attraverso il denaro); mentre, nel secondo caso, è presente anche considerando l’acquisizione di beni gratuiti.

La letteratura sembrerebbe, quindi, evidenziare la presenza di una relazione tra i tre comportamenti patologici, decisamente più evidente e supportata nel caso di gambling e shopping compulsivo e nel caso di shopping compulsivo e accumulo compulsivo, meno significativa (ma anche meno indagata) nel caso di gambling e accumulo compulsivo.

I risultati ottenuti in un’indagine preliminare svolta con un campione di giocatori d’azzardo tratto dalla popolazione italiana sono in linea con queste evidenze (Rizzi, 2014). Sono state, infatti, rilevate una forte correlazione tra comportamento di gioco d’azzardo patologico e comportamento di shopping compulsivo e delle differenze significative tra giocatori non patologici e giocatori patologici negli indici inerenti all’acquisizione compulsiva (più alti nei giocatori patologici), ad eccezione degli indici relativi all’acquisizione di beni gratuiti. È stata poi evidenziata la presenza di un’importante correlazione tra shopping compulsivo e accumulo compulsivo, supportata anche dal fatto che tutti i partecipanti identificati come hoarders sono risultati essere anche acquisitori compulsivi. Anche in questa ricerca, tuttavia, non vale il contrario, ovvero non tutti gli acquisitori compulsivi sono risultati essere anche hoarders. Infine, come in letteratura, i risultati relativi alla relazione tra gambling e accumulo compulsivo sono meno chiari, poiché evidenziano la presenza di una correlazione tra i due comportamenti patologici (seppur non per tutti gli indici inerenti l’hoarding) e la presenza di una differenza negli indici dell’ accumulo compulsivo tra giocatori non patologici e giocatori patologici ma non statisticamente significativa. L’indagine compiuta rappresenta un’importante punto di partenza che tuttavia necessita di essere ampliato e integrato, al fine di confermare le evidenze emerse e colmare le lacune conoscitive.

Cosa sono le Anfetamine e i loro effetti – Introduzione alla Psicologia

Le anfetamine o amfetamine (amine simpaticomimetiche) sono sostanze di origine sintetica. Esse presentano una struttura chimica simile agli stimolanti naturali prodotti dall’ organismo, come l’ adrenalina, la noradrenalina, la dopamina e la serotonina. Le anfetamine agiscono stimolando il sistema nervoso centrale e il sistema simpatico mimando o imitando gli effetti della sostanza endogena naturalmente prodotta, da cui il nome simpaticomimetiche.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Storia

Le anfetamine furono scoperte a fine ‘800 e diede nome ad una classe di molecole simili per struttura e per azione farmacologica chiamate, appunto, anfetamine. L’ anfetamina fu sintetizzata per la prima volta nel 1887, presso l’ università di Berlino, da un chimico rumeno, Lazar Edeleanu, passato alla storia con il nome di Edeleano. La sostanza, però, inizialmente non fu utilizzata in ambito clinico.

Nel 1920 Gordon Alles utilizzò, per la prima volta, l’ anfetamina in ambito medico, viste le notevoli proprietà vasocostrittorie utili per trattare l’ asma, la febbre da fieno e la rinite. Le anfetamine, dunque, dovevano costituire un sostituto sintetico dell’efedrina, principio farmacologico naturale estratto dalla pianta Efedra, efficace nel trattamento sintomatico dell’asma, ma di difficile estrazione. Le anfetamine, fin dall’ inizio, ebbero un grosso successo commerciale, soprattutto per le loro proprietà stimolanti. Per questo, nel 1932 alcuni laboratori farmaceutici iniziarono la commercializzazione di un prodotto a base di anfetamine che si chiamava la benzedrina e nel 1959, visto il crescente uso di sostanze a base di anfetamine, fu reso disponibile il prodotto in farmacia.

L’ impiego delle anfetamine iniziò a diffondersi durante la seconda guerra mondiale, poiché era somministrata ai soldati per diminuire la loro paura e aumentare il loro grado di concentrazione. Alcuni anni più tardi si diffuse fra la popolazione studentesca che la usava per aumentare il livello di concentrazione e memoria.

Caratteristiche e differenze tra le anfetamine

Le anfetamine sono psicostimolanti sintetici molto facili da sintetizzare e tra essi troviamo: l’ anfetamina, la metanfetamina, il metilfenidato (Ritalin), il modafinil, l’ efedrina (anoressizante). I primi due sono droghe, mentre gli ultimi tre farmaci.

Modalità d’assunzione

Le anfetamine si presentano in varie forme e si assumono in vari modi: – polveri, si sniffano o si iniettano per via endovenosa; – compresse, si ingeriscono o frantumate si sniffano o si iniettano; -capsule, si ingeriscono.

Le metanfetamine possono essere: – cristalli, detti anche “ice” di varia grandezza, che si possono fumare, ingerire o iniettare; – polveri o compresse, iniettate o ingerite. Inoltre, le Anfetamine e le metanfetamine possono essere assunte anche per via anale. La modalità, dunque, d’ uso delle anfetamine dipende dalle abitudini culturali e ambientali in cui sono assunte e variano nel tempo e a seconda del diverso costume sociale.

Il metodo più usato, poiché ne aumenta la durata degli effetti, è assumere la sostanza per via orale. Lo sniffare produce un rapido effetto, ma potrebbe portare a lesioni al naso; invece, iniettare l’ anfetamina per via endovenosa aumenta i rischi di overdose dato che la sostanza raggiunge rapidamente il cervello e le impurità presenti sono introdotte direttamente nel flusso sanguigno con rischio possano presentarsi delle infezioni quali, per esempio, la setticemia.

Perché si usano

Le anfetamine si utilizzano per svariate ragioni. Ci sono persone che le assumono per sentirsi particolarmente vigili o per migliorare la performance nello sport o nel lavoro o aumentare la stima e fiducia in se stessi. Esse riducono la stanchezza, aumentano la resistenza e non fanno sentire lo stimolo della fame o della sete. Le metanfetamine, in particolare, mostrano effetti amplificati rispetto alle anfetamine poiché inducono un maggiore rilascio di dopamina. Per questo favoriscono una maggiore sensazione di benessere e buon umore. Oltre che sostanze d’ abuso, le anfetamine si utilizzano a fini terapeutici in varie patologie, a esempio la narcolessia, l’ obesità, il deficit dell’ attenzione e iperattività (ADHD) o patologie asmatiche.

Effetti

Le anfetamine sono stimolanti sintetici usati per aumentare le prestazioni fisiche (doping). Gli effetti delle anfetamine sono numerosi: a livello del sistema nervoso centrale si riduce la percezione di fatica e aumentano le capacità intellettive attraverso un incremento dell’ attenzione e della concentrazione. Di conseguenza, il soggetto avverte un notevole senso di benessere, è euforico e sprezzante del pericolo; a livello dei sistemi cardiocircolatorio e respiratorio si ha tachicardia, aumento della pressione arteriosa e incremento del ritmo della respirazione. Altri effetti sono l’ aumento del metabolismo basale, variazione dei meccanismi di termoregolazione, ipertermia, perdita dell’ appetito ecc.

Grazie ad alcuni effetti prodotti, come la riduzione del senso di fatica e la diminuzione del senso di fame, le anfetamine si utilizzano, illegalmente, sia in ambito sportivo sia in ambito dietologico. Gli effetti positivi, nel giro di poco tempo, però, diventano secondari a una serie di effetti negativi dovuti alla dipendenza e all’ assuefazione alla sostanza. Per questo, sono frequenti disordini cardiaci molto gravi, a volte mortali, causati dall’ assunzione di dosi eccessive.

Inoltre, l’ eliminazione del senso di fatica spinge il soggetto, in particolar modo in ambito sportivo, ad andare oltre i propri limiti fisici con il manifestarsi di notevoli disagi e problemi. E’ possibile riassumere gli effetti come segue:

  1. sistema nervoso centrale: senso di benessere ed euforia, minore percezione della fatica, sprezzo del pericolo, sensazione di potere e superiorità, comportamenti stravaganti, aumento delle capacità intellettive, diminuzione dell’appetito.

2. sistema cardiocircolatorio e respiratorio: incremento della pressione arteriosa, aumento della frequenza cardiaca (tachicardia), aumento del ritmo respiratorio (tachipnea).

3. metabolismo corporeo: aumento del metabolismo basale, termoregolazione, ipertermia, marcato effetto anoressizzante.

L’ abuso di queste sostanze, nel tempo, potrebbe portare al manifestarsi di molti disturbi, tra cui: Depressione, Ansia, allucinazioni, cefalea ricorrente, delirio, disturbi legati alla sfera del sonno, irrequietezza, loquacità e logorrea, midriasi frequente, secchezza delle fauci, tremori diffusi, nausea e vomito.

Quando termina l’ effetto dell’ anfetamina si ha un crollo fisico e psicologico: si percepisce spossatezza, irritabilità, depressione. In sostanza, quando termina l’ effetto della droga, si ottengono sintomi opposti a quelli avuti in precedenza. Questi stati, mentali e fisici, fungono da innesco per l’ assunzione della dose successiva previo il crollo.

L’ uso prolungato di anfetamina oltre a provocare una forte diminuzione di peso, può portare a psicosi, a manie di persecuzione, etc. Chiaramente, l’ abuso della sostanza in casi estremi può portare anche alla morte. Inoltre, l’ attivazione del sistema della ricompensa o del piacere, da parte delle anfetamine, comporta un continuo rilascio di dopamina che induce dipendenza e profonde modificazioni delle funzioni cerebrali.

Il più grave effetto dovuto all’ abuso di anfetamina è la dipendenza e l’ assuefazione: l’organismo umano si adegua all’effetto della sostanza, e per avere la stessa intensità degli effetti richiede l’ assunzione di una dose sempre maggiore. Di conseguenza, se si interrompesse l’assunzione insorgerebbe la sindrome da astinenza. Da un punto di vista psicologico si avrà la ricerca costante e attiva della sostanza attraverso la messa in atto di comportamenti (craving), volti alla ricerca della sostanza ogni qualvolta si verifica il desiderio della stessa (pensiero desiderante).

Utilizzo

In Italia le anfetamine sono ritenute illegali per legge e per questo ne è proibita la produzione e la vendita. Di conseguenza, chi ritenuto in possesso di sostanza, la produce o la vende sarà punito con la reclusione o attraverso l’ applicazione di sanzioni.

L’ uso farmacologico delle anfetamine è limitato all’ ambito medico per la cura del morbo di Parkinson, della narcolessia, dell’ ADHD e dell’ obesità.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Etero-curiosi, Bi-curiousi , Fluidi (ecc…): quando le etichette non servono – Le risposte di fluIDsex

Dato che si parla di sessualità fluida… se una persona che si è sempre ritenuta eterosessuale, ha un’esperienza – isolata – omosessuale con una persona “x”, deve iniziare ad avere dei dubbi sul proprio orientamento?

 

In medicina, in particolare negli studi sulla salute sessuale, si fa uso dei termini WSW (women who have sex with women) o MSM (men who have sex with men) o anche WSWM (women who have sex with women and men) e MSMW (men who have sex with men and women), per indicare persone che hanno avuto o continuano ad avere rapporti sessuali con individui dello stesso sesso ma non si identificano come gay o bisessuali.

Quando parliamo di identità sessuale e orientamento sessuale parliamo di etichette con cui potersi identificare e con le quali comunicare anche con gli altri. Ovviamente non tutti sentono il bisogno di far ciò, d’altronde, identificarsi come bisessuale, omosessuale, eterosessuale (…) non vuol dire smettere di avere dubbi riguardo alle attrazioni affettive o sessuali nei confronti di altre persone, a prescindere dal loro genere.

Dipende dal singolo individuo capire se un’esperienza isolata sia qualcosa che ci ha piacevolmente sorpresi o qualcosa che possa descrivere al meglio la propria identità.

Quando abbiamo dei dubbi, molto spesso ci troviamo davanti ad un bivio: continuare a percorrere la strada che abbiamo intrapreso, ammettendo che non sempre sappiamo a priori cosa può piacerci, o lasciarsi trasportare da desideri, curiosità e “vedere quant’è profonda la tana del bianconiglio”?

 

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

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Il disturbo da gioco d’azzardo da slot-machine: uno sguardo alle più rilevanti considerazioni scientifiche recenti

Tra le varie tipologie di gioco d’azzardo, quella inerente alla slot-machine risulta essere una delle più diffuse ed è la più redditizia per lo Stato italiano. Inoltre presenta caratteristiche che facilitano lo sviluppo di un comportamento compulsivo, come: l’elevato ritmo di gioco, le numerose giocate possibili e l’immediatezza dei risultati.

 

Il Disturbo da gioco d’azzardo: una dipendenza comportamentale

Le “dipendenze comportamentali” o “nuove dipendenze”, sono definibili come forme di addiction nelle quali avviene una dedizione eccessiva ad un’abitudine o ad un comportamento che può determinare disagio, sofferenza psichica e rendere problematiche molte relazioni sociali e familiari (Gazzillo e Lingiardi, 2014). Tra le dipendenze comportamentali il “Disturbo da gioco d’azzardo” ha trovato una collocazione nosografica. Infatti, il DSM-5 (APA, 2013) considera il gioco patologico una diagnosi formale e lo annovera tra i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction, nella sottocategoria dei “disturbi non correlati a sostanze”.

Tra le varie tipologie di gioco d’azzardo, quella inerente alla slot-machine risulta essere una delle più diffuse ed è la più redditizia per lo Stato italiano (gli italiani nel 2016 hanno speso circa 4,6 miliardi di euro giocando alle slot-machine; Agipronews, 2016). Inoltre, l’attenzione dei ricercatori si è principalmente focalizzata su questa tipologia di gioco poiché presenta caratteristiche che facilitano lo sviluppo di un comportamento compulsivo, come: l’elevato ritmo di gioco, le numerose giocate possibili e l’immediatezza dei risultati.

I correlati neurali del Disturbo da gioco d’azzardo da slot-machine

Nell’insieme, i dati in letteratura indicano il coinvolgimento del sistema dopaminergico (e/o altri percorsi aminergici) nella patofisiologia del Disturbo da gioco d’azzardo (Potenza et al., 2003). Recenti studi (Van Holst et al., 2014) hanno poi mostrato che la gravità del gioco d’azzardo da slot-machine risulta essere associata ad una minore connettività tra le aree sensibili alla ricompensa (in particolare tra lo striato-ventrale destro e la corteccia cingolata anteriore). Interessanti in questo senso sono gli studi condotti nell’ambito dell’apprendimento, dato che il circuito della ricompensa assolve un ruolo fondamentale nella motivazione all’apprendimento generalmente inteso.

Nello svolgimento di un’attività la spinta motivazionale può essere legata ad uno stato di piacere di tipo endogenico, legato allo svolgimento dell’attività stessa, e ad uno di tipo esogenico, legato al raggiungimento degli obiettivi (quindi nel caso delle slot-machine alla vincita): questi stati di piacere suscitano emozioni positive che agiscono da rinforzi comportamentali, contribuendo al consolidamento dell’apprendimento. Secondo i modelli biologici contemporanei (Schultz, 2010), con il procedere dell’apprendimento l’attività dei neuroni dopaminergici nell’area tegmentale-ventrale (VTA) tende a diminuire, mentre l’attività evocata dagli stimoli che segnalano un’imminente consegna di ricompense tende ad aumentare.

In linea con questi modelli, Shao e colleghi (2013) propongono che un singolo episodio di slot-machine possa diminuire il valore positivo della ricompensa di risultati di vincita (piacere esogenico) ed incrementare il valore degli eventi di gioco (piacere endogenico) ad essi precedenti. Il dati confermano questa ipotesi e delineano come singoli episodi di gioco alle slot-machine impegnino meccanismo di rinforzo-apprendimento ben caratterizzati (mediati dal sistema dopaminergico-mesolimbico), innescando il trasferimento dei valori lontano dai risultati del gioco, verso stati anticipatori (dunque mentre i rulli della slot stanno girando).

Il gioco d’azzardo patologico è un comportamento acquisito, che si instaura e consolida nel tempo grazie alle stesse dinamiche di ogni tipo di apprendimento e ne condivide le basi neurofisiologiche. Come ben spiegato ne “La spirale del gioco. Il gioco d’azzardo da attività ludica a patologia” (Tani e Ilari, 2016) quando il gioco d’azzardo è ancora in una fase iniziale, il comportamento del giocatore è influenzato sia dalla spinta motivazionale di tipo esogenico sia da quello tipo endogenico.

A questi si aggiungono gli stimoli sensoriali: luci, suoni, colori, sensazioni tattili e così via, ovvero tutti quegli stimoli usualmente presenti nel contesto del gioco, che il giocatore impara ad associare sia al piacere esogenico che a quello di tipo endogenico (Arias-Carrion et al., 2010). Con il tempo, anche la sola presenza di quest’ultima tipologia di stimoli, è sufficiente per innescare, attraverso meccanismi di condizionamento operante, modificazioni nei livelli di rilascio di dopamina. In una fase più avanzata del decorso, gli stimoli di tipo esogenico perdono la loro forza motivazionale, mentre quelli di tipo endogenico, che hanno ormai modificato gli equilibri omeostatici del sistema dopaminergico, divengono una spinta motivazionale sempre più forte e vengono evocati anche dai semplici stimoli neutri. Gli stimoli offerti dall’attività di gioco alterano i livelli di dopamina determinandone un innalzamento anomalo, sia per durata che per intensità. Con il ripetersi degli eventi di gioco, i livelli di dopamina continuano a mantenersi alti, seppure attraverso modalità diverse e l’anomalia del sistema dopaminergico fa sì che nei giocatori patologici, al contrario di quanto accade nei non giocatori, la perdita non produca un abbassamento della gratificazione tale da disincentivare il comportamento di gioco (Clark et al., 2009).

Nonostante il ruolo svolto dalle alterazioni a carico del sistema di gratificazione, è necessario adottare un’ottica neuroscientifica, per cui tutti i disturbi psichiatrici sono da considerarsi disturbi “complessi”, cioè nella cui patogenesi sono coinvolti fattori, genetici o ambientali, che interagiscono tra loro in maniera articolata (Gazzillo e Lingiardi, 2014). Andrebbe sempre considerato che, affinché un tratto maladattivo, un sintomo o un disturbo si esprimano nell’individuo, debbano essere presenti più geni predisponenti e più fattori ambientali negativi, così come debba verificarsi un particolare modello di interazione gene-ambiente in grado di dar luogo alla specifica condizione psicopatologica.

Il rinforzo negativo nell’utilizzo patologico delle slot machine

Sogna, perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare (Jim Morrison)

Il giocatore d’azzardo cerca di fuggire da sentimenti di ansia, rabbia, colpa e depressione attraverso la dissociazione prodotta dal gioco, come indicato dal Criterio A5 del DSM-5 (per il quale il giocatore “spesso gioca d’azzardo quando si sente a disagio”). Oltre a ciò, viene fornita l’opportunità di una vincita di denaro, fattore che può fornire un senso di speranza e contribuire a ridurre sentimenti di ansia, o proprio di mancanza di speranza.

Dunque l’elemento di svago o di distrazione, unito alla percezione di una scorciatoia verso la ricchezza, sono fattori di rischio per lo sviluppo del gambling da slot-machine patologico. Recenti risultati hanno di fatti evidenziato che i giocatori di Electronic Gaming Machine (EGMs) patologici siano più motivati a giocare per sfuggire a stati emotivi negativi rispetto ai giocatori non problematici (MacLaren et al., 2012). Inoltre bisogna considerare che le slot-machine sono progettate per fornire un’esperienza lieta, divertente ed interattiva in cui potenzialmente la perdita di denaro possa essere percepita come relativamente indolore e spesso rapida (Silver, 2015).

Quello delle slot machine, essendo comunque un gioco (anche se a pagamento), fornisce la possibilità di immergersi in un “altro mondo”, dando modo di distrarsi da problemi quotidiani. A questo contribuisce anche la conformazione dei luoghi deputati al gioco d’azzardo, che spesso sono ambienti chiusi, poco illuminati, privi di finestre e di orologi alle pareti, così da favorire la perdita del senso del tempo e spingere i soggetti a giocare più a lungo di quanto essi stessi avessero previsto. Così, completamente assorbiti dal gioco e, in alcuni casi, letteralmente dissociati dalla realtà, i giocatori finiscono per non rendersi conto di quanto tempo passano effettivamente a giocare e le condizioni ambientali sopra descritte rafforzano questa perdita di contatto con la realtà che li circonda (Tani e Ilari, 2016). Inoltre, come già sottolineato, entrare in una sala slot o recarsi al casinò, porta con sé l’idea di poter vincere soldi e di poter evadere dai problemi quotidiani, rifugiandosi in un luogo ‘altro’ rispetto alla vita reale.

Il rinforzo positivo nell’utilizzo patologico delle slot machine

Come abbiamo già visto, le specifiche caratteristiche delle slot-machine sono state indicate come potenziali fattori in grado di creare dipendenza, dato che possono influenzare o interagire con le cognizioni relative al gioco d’azzardo e contribuire all’apprendimento per rinforzo e al gioco d’azzardo persistente. Anche per questo, alcuni autori considerano le slot-machine come una delle forme di gioco d’azzardo più pericolose (Schüll, 2012).

Una delle caratteristiche delle slot-machine è il fenomeno della “quasi-perdita”, un’esperienza tipicamente rilevabile nel gioco d’azzardo con le slot. I risultati di quasi-perdita si verificano quando, dopo aver fatto girare i rulli, in una linea del display vengono riportati tutti simboli corrispondenti, tranne uno (per es., AAAB). Le “quasi-perdite” sono definibili come risultati di perdita, percepiti però come “vicini” al successo, alla vincita (Reid RL, 1986). Questi risultati lasciano nel giocatore un senso di “rinforzo anticipatorio”, con il pensiero che una vincita debba essere imminente. Le ricerche indicano che i risultati di quasi-perdita, rispetto alle perdite totali, sono associate ad un aumento di attività nei circuiti di rinforzo/ricompensa e apprendimento (Van Holst et al., 2014), e che segnali di rinforzo positivo suscitati dalle quasi-perdite possono essere osservati anche in giochi di slot-machine semplificati e con un ridotto coinvolgimento del giocatore (Shao et al., 2013). Anche se il valore monetario delle quasi-perdite è equivalente ad altre perdite, questi risultati sono associati ad un incremento fisiologico dell’arousal.

Da studi di neuroimmagine, le quasi-perdite hanno mostrato l’attivazione parti del sistema di ricompensa del cervello che coincidevano con le risposte a vincite attuali, nello striato ventrale e nell’insula anteriore (Clark et al., 2009). I risultati delle ricerche che indicano che i giocatori di slot-machine patologici siano esposti ad una maggiore attività nelle regioni legate alla ricompensa dopo il verificarsi di una quasi-perdita (Habib e Dixon, 2010), suggeriscono che i risultati delle quasi-perdite possano favorire il gioco d’azzardo continuo attraverso un rinforzo positivo (pur essendo perdite monetarie). Le quasi-perdite aumentano la motivazione a giocare, e manipolarne la frequenza influenza la persistenza nel gioco d’azzardo (Clark et al., 2009). Questi risultati supportano l’ipotesi della natura “non categorica” del processo di ricompensa nel gioco d’azzardo: le quasi perdite e le perdite totali sono risultati oggettivamente identici che vengono processati differentemente (Van Holst, 2014).

Tutti i giochi d’azzardo sono strutturati intorno ad un programma di rinforzo variabile, con una media di vincite inferiore rispetto alle perdite. Il gioco d’azzardo deve essere visto come un comportamento acquisito tramite un programma variabile di rinforzo tipico delle slot-machine, in cui sia il verificarsi di una vincita, sia l’entità di essa, sono imprevedibili (MacLaren et al., 2012).

Un ulteriore risultato caratteristico delle EGMs è rappresentato dalle cosiddette “perdite mascherate da vincite” (“Losses Disguised as Wins”, LDWs), così rinominate da Dixon e colleghi (2010). Queste “perdite mascherate” consistono in quei risultati in cui viene segnalata una combinazione vincente su una o più linee di pagamento, la quale comporta la restituzione al giocatore di una somma di denaro, inferiore però rispetto a quella scommessa: nonostante questo risultato sia effettivamente una perdita monetaria, la slot-machine lo celebra come fosse una vincita. Se i giocatori dopo lo spin perdono interamente la somma scommessa, la slot-machine resta silente, sia nella sfera uditiva che visiva. Quando i giocatori effettuano lo spin e vincono di più rispetto alla loro scommessa, i giocatori ricevono feedback visivi e uditivi, che fungono da rinforzo positivo.

Vi è un netto contrasto tra i risultati vincenti colmi di feedback celebrativi ed i risultati perdenti, caratterizzati da uno stato di silenzio. In una quota considerevole di giri, le vittorie restituiranno un pagamento inferiore rispetto alla puntata dello spin, ma la slot sottolineerà comunque la vincita con simboli animati e canzoni celebrative: queste sono le cosiddette “perdite mascherate da vincite”.

Jensen (2012) ha dimostrato che i partecipanti esposti a questi risultati li categorizzavano erroneamente come vittorie. Inoltre i partecipanti, nel valutare il numero di giri in cui avevano vinto di più rispetto alla scommessa in una sessione di gioco, tendevano ad una sovrastima notevole del numero di vincite, probabilmente interpretando le LDWs come vincite, o confondendole con esse in memoria. Il suono è un importante fattore nella categorizzazione delle vincite, delle perdite e delle LDWs. Se l’informazione uditiva fornita ai partecipanti è che le LDWs siano vincite, piuttosto che perdite, ed i partecipanti dunque le categorizzano erroneamente come vincite, Dixon e collaboratori nel loro studio “Using sound to unmask Lossed Disguised as Wins in multiline slot machines” (2015) hanno ipotizzato che questo effetto potesse essere contrastato con suoni negativi di accompagnamento sia per le LDWs, che per le perdite regolari (condizione di “suono negativo”). Secondo gli autori tali accoppiamenti avrebbero potuto aumentare la somiglianza tra le perdite e le LDWs, e diminuire la somiglianza tra le vincite e le LDWs.

Effettivamente, aggiungendo suoni negativi sia alle LDWs che alle perdite, i giocatori erano stati più in grado di categorizzare le LDWs come risultati perdenti ed erano anche abili a fornire stime altamente fedeli della vittoria quando tornavano a riflettere sulla sessione di gioco. Il suono è un mezzo molto efficace per aiutare i partecipanti a rendere meno ambiguo il fatto che le LDWs siano risultati vincenti o perdenti. Quando i suoni negativi erano appaiati sia con le LDWs che con le perdite, solo una minoranza dei partecipanti era ancora ingannata dal mascheramento, mentre la maggioranza ha realizzato che le LDWs fossero di fatto delle perdite.

La drastica riduzione nella percentuale di persone ingannate dalle immagini e dai suoni rinforzanti delle LDWs nella condizione di “suono negativo” suggerisce che i partecipanti che giocano a giochi “standard” credano realmente di aver vinto, mentre in realtà hanno perso. Chiedendo ai partecipanti di stimare di ricordare il numero di volte in cui hanno vinto di più rispetto alla scommessa, nella condizione di “suono negativo” i partecipanti erano in grado di stimare accuratamente il numero di vincite reali in cui si sono imbattuti durante la sessione alle slot (mentre nella condizione “standard” si verificava una sovrastima notevole).

Avere suoni negativi che accompagnano sia le perdite normali che le LDWs è un modo pratico per portare i partecipanti a riconoscere che le LDWs sono risultati in cui perdono denaro. Questi suoni vincenti possono condizionare non solo il giocatore impegnato ad una slot-machine, ma anche gli altri partecipanti presenti nella sala, in quanto la ripetizione dei suoni vincenti delle LDWs e delle vittorie normali può dare l’impressione che le vincite si verifichino molto più spesso di quanto accade realmente. A proposito, Rockloff e colleghi (2011) hanno dimostrato che i giocatori aumentavano la velocità delle loro puntate, continuavano più a lungo e perdevano più denaro quando sentivano i suoni vincenti di altre slot-machine, rispetto a quando giocavano da soli.

Distorsioni cognitive e credenze erronee

Le cognizioni distorte risultano essere comuni tra i giocatori d’azzardo patologici (Joukhador et al, 2003) ed alcuni modelli cognitivi le considerano un elemento centrale del disturbo (come nel caso del Pathways Model of Problem and Pathological Gambling di Blaszczynski e Nower, 2002, uno dei resoconti di matrice cognitivo-comportamentale più influenti relativamente al gambling patologico). I giocatori d’azzardo patologici possono facilmente ricordare le vittorie per via di una disponibilità euristica (Tversky e Kahneman,1974), possono non riuscire a considerare ponderatamente le probabilità di vincita rispetto al rischio di perdita (Fletcher et al., 2011) e possono erroneamente attribuire le vincite ad abilità personali per via di un’illusione di controllo (Langer, 1975).

I giocatori d’azzardo patologici spesso danno spiegazioni bizzarre del gioco a cui si dedicano e del perché essi giochino. Spesso le loro cognizioni sono situazionali e singoli giocatori possono sostenere contemporaneamente credenze non logicamente coerenti (MacLaren et al., 2011). Ad esempio, un giocatore d’azzardo potrebbe continuare a scommettere dopo una serie di risultati perdenti ed accettare la “gambler’s fallacy”, cioè la credenza per cui un risultato vincente debba essere imminente, ritenendo improbabile che le precedenti serie di perdite possano continuare, anche se i risultati sono tra loro indipendenti (Tversky e Kahneman, 1974). Quanto all’illusione di controllo, le EGMs possono risultare attraenti in quanto in grado di trasmettere al giocatore la sensazione di avere un certo controllo sui risultati e che il rischio di perdita possa essere minimizzato (Haw, 2009). Questo avviene perché i giocatori possono regolare la grandezza ed il numero delle puntate simultanee per giro e questo in maniera indiretta cambia l’ampiezza media e la frequenza delle vincite.

I giocatori pratici di EGM sanno come manipolare questi risultati e questo può promuovere un’illusione di controllo sulle loro possibilità di ottenere un profitto, aumentando la frequenza e l’entità delle possibilità di vincita (MacLaren, 2015). Comunque, esercitare questo controllo implica scommettere più soldi, e la percentuale di rimborso programmata in una EGM (cioè la percentuale media di puntate che vengono restituite al giocatore come premi) è sempre inferiore al 100% ed è matematicamente indipendente dalla frequenza e dall’entità delle vincite (Harrigan et al, 2011).

Il controllo sul tasso di rinforzo permette inoltre ai giocatori di evitare lunghe strisce perdenti, il che può incoraggiare ulteriormente delle prese di decisione tramite euristiche (Harrigan et al., 2014). Bisogna aggiungere che in alcune EGMs il giocatore può esercitare una quota minima di controllo sui risultati anche premendo un pulsante per fermare il giro delle bobine al momento desiderato, influenzando così l’ottenimento di vincite o perdite. Questa infima quantità di controllo può talvolta contribuire ad un processo cognitivo irrazionale (Silver, 2015).

La progettazione delle moderne EGMs multilinea sembra appropriatamente idonea a capitalizzare sui giocatori d’azzardo problematici suscettibili alle illusioni di controllo e alla gambler’s fallacy (Goodie e Fortune, 2013). In un ampio campione di giocatori di EGM abituali, è stato mostrato come i giocatori d’azzardo problematici fossero più motivati al gioco d’azzardo come un modo per fuggire a stati emotivi negativi rispetto ai giocatori non problematici, e che avessero più distorsioni cognitive riguardo al gioco d’azzardo (Dixon et al., 2012). Le varie distorsioni cognitive possono essere il risultato di un disperato tentativo da parte dei giocatori di attribuire dei tristi risultati perdenti ed il loro comportamento incongruente a forze che possono essere comprese e, forse, controllate (MacLaren et al., 2015).

Fino ad oggi, non sembrano esistere sufficienti prove per affermare che cognizioni erronee sul gioco d’azzardo precedano e causino il gambling patologico, quanto piuttosto che contribuiscano al mantenimento del disturbo e che siano influenzate dai tratti di personalità sottostanti. In particolare, uno studio (MacLaren et al., 2012) ha dimostrato che i giocatori d’azzardo patologici non tendono intrinsecamente ad uno stile di pensiero difettoso. Fortunatamente, la mancanza di un deficit nello stile cognitivo tra i giocatori d’azzardo patologici suggerisce che gli interventi cognitivo-comportamentali non dovrebbero essere meno efficaci per i giocatori d’azzardo patologici rispetto ad altre forme di psicopatologie (ibidem).

Perdere un’illusione rende più saggi che trovare una verità (Ludwig Börne)

Il ruolo dei tratti di personalità nei giocatori d’azzardo

Una meta-analisi ha rilevato che i giocatori problematici rispetto a quelli non problematici presentano punteggi più elevati nei tratti che riflettono l’Affettività Negativa, la Disinibizione e l’Antagonismo (MacLaren et al., 2011). Un recente studio (MacLaren et al., 2015) si è occupato di identificare i meccanismi motivazionali e cognitivi attraverso cui le dimensioni basiche della personalità possano avere degli effetti indiretti sulla probabilità di problematiche nel gioco d’azzardo tra i giocatori abituali di EGMs ed ha riportato che i giocatori di slot-machine problematici tipicamente presentano tratti connessi al nevroticismo (quindi al timore, all’ansia, alla vulnerabilità emotiva) e all’impulsività (dunque ad una scarsa autoregolazione) che incrementano le problematiche del gioco d’azzardo, alimentando la “fuga” nel mondo del gioco d’azzardo e potenziando le distorsioni cognitive.

Essendo il nevroticismo un tratto associato, tra le altre cose, alla sensibilità alle punizioni, ci si potrebbe intuitivamente aspettare che la sua presenza scoraggi la persistenza nel gioco d’azzardo. Si deve però pensare che il gioco d’azzardo problematico risulta correlare positivamente con una motivazione finanziaria: i giocatori possono immaginare la vincita in denaro come una soluzione ai loro problemi finanziari, ma sono molto sensibili ai fallimenti e soffrono un turbamento emotivo di fronte a perdite ricorrenti. Come affermato precedentemente, le distorsioni cognitive possono riflettere il tentativo di attribuire risultati negativi a forze comprensibili. Alquanto paradossalmente, questi giocatori sensibili alla punizione possono impulsivamente “rincorrere” le perdite (Breen and Zuckerman, 2007), attraverso un rinnovato sforzo per fuggire alla realtà di aver perso larghe somme di denaro, vincendo di nuovo.

Questa ipotesi spiega come l’aspetto di sensibilità alla punizione del Nevroticismo, combinata con l’esperienza di risultati imprevedibili e spesso negativi, possa portare a distorsioni cognitive che mantengono ulteriormente il gioco d’azzardo. Inoltre, bisogna considerare che i giocatori possono scommettere piccole somme in un lasso di tempo esteso e regolare il numero e l’entità delle scommesse, così da controllare il rischio e la potenziale ricompensa per soddisfare la loro tolleranza immediata, anche se ciò non ha effetti sulla percentuale di pagamento. L’esperienza soggettiva di assunzione del rischio è dunque fatta percepire come meno instabile e forse anche un po’ sicura e prevedibile una volta che i giocatori imparano ad esercitare il controllo sulla frequenza e l’entità delle vincite (MacLaren, 2015).

Altri studi che hanno indagato il ruolo dei tratti di personalità coinvolti nel gambling problematico da slot machine, oltre a confermare la presenza di punteggi significativamente maggiori per il fattore Nevroticismo nei giocatori patologici, hanno indicato che riguardo agli esiti del trattamento alti punteggi nell’Impulsività emergano come predittori significativi delle ricadute e degli abbandoni. Due diversi studi, utilizzando due diversi modelli di personalità (NEO-PI R ed Alternative Five Factor Model), sono arrivati a concludere che l’impulsività sia un tratto preminente nel predire il rischio di ricadute e drop-out nei giocatori d’azzardo patologici di slot-machine. In relazione a questo, va considerato che per molti giocatori un’elevata impulsività può rendere difficoltoso beneficiare del trattamento, dato che l’eccitamento derivato dal gioco d’azzardo è immediato, mentre la ricompensa del trattamento avviene solo a lungo termine.

Fattori “macroscopici” del gioco d’azzardo legato alle slot-machine

Nel presente articolo si è cercato di riportare le principali caratteristiche del disturbo da gioco d’azzardo legato alle slot-machine, da un punto di vista prettamente psicologico, tramite l’utilizzo di ricerche svolte prevalentemente nell’ultimo decennio. La questione del gioco d’azzardo va inserita però in un contesto più ampio e necessita lo studio di altri fattori squisitamente sociali, economici e politici.

Ad un livello sociale, andrebbe approfondito il ruolo delle reti sociali in cui l’individuo è inserito e, in particolare, dalle reti di sostegno familiari e amicali. La carenza di reti sociali di sostegno, infatti, è un fenomeno strettamente legato al nostro tipo di società, nella quale anche l’istituzione della famiglia è divenuta più fragile rispetto al passato e non rappresenta più un nucleo stabile nella rete dei legami di riferimento. Le persone più vulnerabili – per età, per situazione socio-economica o perché presentano disturbi psicopatologici – sono quelle che, maggiormente, risentono di questa nuova situazione.

Ad un livello economico, va considerato che periodi di crisi economica, i quali possono comportare la perdita di un lavoro fino a poco tempo prima considerato stabile, l’incertezza del proprio futuro e di quello dei propri figli, possono avere un ruolo nel favorire l’insorgere della dipendenza da gioco d’azzardo. Per quanto concerne la politica, in Italia la gestione del gioco d’azzardo risulta essere carente su molti fronti. Uno di questi è la gestione della pubblicità, in grado di favorire l’instaurarsi della dipendenza da gioco d’azzardo. La pubblicità può avere un ruolo particolarmente rilevante e dannoso nei confronti degli adolescenti che vedono nell’immagine vincente del giocatore offerta da questi spot un tipo di identità ‘ideale’, una sorta di salvacondotto per ottenere con facilità popolarità sociale e successo economico.

Un altro fattore di notevole importanza riguarda l’estrema facilità con la quale è oggi possibile iniziare a giocare. È inevitabile che la diffusa disponibilità degli apparecchi e degli spazi di gioco attiri anche coloro che non oserebbero mai entrare in un casinò o in una bisca. Inoltre, nella maggior parte dei casi, per accedere al gioco, non è richiesta l’esibizione di alcun documento d’identità, a differenza di quanto avveniva in passato, quando la possibilità di accesso ai luoghi deputati al gioco era fortemente regolamentata (Croce, 2005). Questa deregolamentazione nell’accesso al gioco fa sì che non si percepisca che, anche se si tratta di un’attività legale e aperta a tutti, il gioco d’azzardo mantiene comunque un rischio intrinseco di sviluppare forme di dipendenza: il fatto che sia legale, infatti, non protegge dalle conseguenze che esso comporta (Tani e Ilari, 2016).

Inoltre, fatto non meno importante, lo Stato italiano ha delegato il delicato compito di condurre campagne di prevenzione per un Gioco Legale e Responsabile agli stessi concessionari dei giochi d’azzardo. In altri termini, i soggetti che devono divulgare messaggi di tipo educativo per la promozione di un gioco controllato e non eccessivo, sono gli stessi che pubblicizzano i servizi di gioco da loro erogati, in un palese conflitto di interessi.

Guardando invece alle spese dello Stato riservate al disturbo da gioco d’azzardo, con il Decreto del Ministro della salute del 6 ottobre 2016, “al fine di garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione, rivolte alle persone affette da disturbo da gioco d’azzardo”, viene ripartita tra tutte le regioni la somma di cinquanta milioni di euro annui. Vale la pena in questo contesto segnalare che durante il 2016 gli italiani hanno speso almeno diciotto miliardi e mezzo di euro in giochi ricompresi sotto la dizione usuale di “gioco d’azzardo”, a fronte di una raccolta complessiva dell’industria del gioco pari a 95 miliardi di euro (questo dato risente del meccanismo del rigioco, per cui il giocatore reimpiega le vincite ed aumenta la raccolta lorda; Agripronews, 2016).

Come brillantemente suggerito nel libro di Franca Tani e Annalisa Ilari (2016), risulta oggi essere necessaria un’azione volta ad incidere sulla ‘cultura’ del gioco, in modo da evitare atteggiamenti demonizzanti e ricondurre questa attività alle sue dimensioni più spiccatamente ludiche, di intrattenimento e di divertimento: un gioco cioè consapevole e controllato che non comporti rischi per la salute.

Nello specifico, i principali obiettivi di questo livello di prevenzione sono:

  1. Informare la popolazione sui rischi che il gioco d’azzardo può comportare per la salute psico-fisica degli individui;
  2. Fornire indicazioni utili per individuare precocemente – in se stessi, in un familiare o in un amico – segni e sintomi che possono costituire dei campanelli di allarme per lo sviluppo di una dipendenza da gioco d’azzardo;
  3. Far conoscere i punti informativi e i servizi socio-sanitari presenti sul territorio a cui potersi rivolgere in caso di necessità
  4. In ultimo ma non per ultimo, informare la popolazione rispetto alle reali probabilità di vincita dei diversi tipi di giochi d’azzardo.

Tutto ciò comporta che vi sia da parte di tutti i soggetti coinvolti un’accurata analisi degli effetti e delle conseguenze cui si può andare incontro se si modifica l’assetto del mercato legale dei giochi, con la consapevolezza che questo tipo di obiettivo non può essere realizzato in tempi brevi, né può essere attuato con provvedimenti drastici. La diffusione del gioco d’azzardo legale è infatti un processo che va avanti da più di venti anni e che coinvolge interessi di ordine economico e finanziario, numerosi operatori di settore, oltre a quelli dell’indotto che questo crea, e moltissimi lavoratori.

Inoltre, se è vero che l’accresciuta disponibilità di giochi d’azzardo e la loro facile accessibilità costituiscono dei fattori strettamente legati alla crescita del comportamento di gioco d’azzardo problematico e patologico (Potenza e Charney, 2001; Shaffer e Hall, 2001), è pur vero che il proibizionismo non costituisce un valido strumento di prevenzione. Ne è un esempio, su tutti, il fallimento della politica proibizionista sul consumo di alcool messa in atto negli anni Venti del secolo scorso dal governo degli Stati Uniti d’America.

Infine, non va trascurato il fatto che il gioco d’azzardo è fortemente radicato nella nostra cultura e che c’è, quindi, un’elevata richiesta di questo tipo di attività, per cui, eliminare qualsiasi forma di gioco d’azzardo legale equivarrebbe a riconsegnare nelle mani della criminalità organizzata tutta la gestione di questo ricco giro d’affari. F. Tani e A. Ilari (2016) sottolineano inoltre che per far fronte in modo efficace a problematiche così poliedriche come il gioco d’azzardo patologico è necessaria una riflessione collettiva, che coinvolga tutte le istituzioni che si occupano di politiche socio-sanitarie e dell’istruzione, nonché dell’assetto economico del nostro Paese. Una riflessione che consenta di procedere ad un’azione concertata che miri non solo alla prevenzione della patologia ma alla promozione di una società ‘sana’, di un ambiente ricco di stimoli positivi, di un’educazione che si ponga come obiettivo la formazione di cittadini consapevoli e in grado di impiegare tutte le proprie risorse per tutelare la salute psico-fisica non solo personale ma anche sociale.

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